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carta st[r]ampa[la]ta n. 23

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di Fabrizio Tonello

Ogni giorno i giornali danno ampio spazio alle analisi economiche di professori universitari, banchieri, ministri del Tesoro e celebri uomini d’affari, previsioni che sono diligentemente riportate, spesso in prima pagina, dal più blasonato quotidiano italiano. Per esempio, il 4 agosto 2007, Francesco Giavazzi scriveva: “La crisi del mercato ipotecario americano è seria, da qualche settimana ha colpito anche le Borse, ma difficilmente si trasformerà in una crisi finanziaria generalizzata. Nel mondo l’ economia continua a crescere rapidamente: in Oriente, in Europa e nonostante tutto anche negli Usa (+3,4 per cento nel secondo semestre dell’ anno). La crescita consente agli investitori di assorbire le perdite ed evita che il contagio si diffonda.”

Radio Kapital: Peter Sloterdijk

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Per una teoria dell’intossicazione
intervista in rete a Peter Sloterdijk
traduzione dal francese di Francesco Forlani

La sua diagnosi del nostro tempo inizia con una strana professione di fede. Lei dichiara che, per capire il mondo di oggi, bisogna essere “leggermente intossicati”. Cosa ci vuole dire con questo?

Peter Sloterdijk: I medici omeopati del diciannovesimo secolo credevano che il professionista dovesse  sperimentare prima su se stesso  le medicine che avrebbe in seguito prescritto alla clientela. Diciamo allora che  un buon filosofo è una specie di intossicato illuminato e che il suo sapere  consiste in una sorta di polifonia dell’ avvelenamento. Questo per me vuol dire che il sapere filosofico non è solamente il risultato di una riflessione approfondita, nè tanto meno soltanto l’espressione di sé quale  soggetto, ma il risultato di un tipo di successo immunologico. La verità deve essere interpretata, a mio parere, come un fenomeno immunitario che il discorso  del filosofo contemporaneo porta al termine di una serie di vaccinazioni o addirittura di auto-avvelenamenti. Nelle reazioni del pensatore moderno emerge un nucleo di verità che non è altri che la lotta del sistema in grado di sopravvivere grazie a una serie di produzioni di anticorpi, sia logici che semantici, che fanno da diga all’invasione di virus ostili.

TIMIDAMENTE, LA CIVILTA’…

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di Franco Buffoni

Dal 12 luglio 2010, a Torino – come diligentemente riferisce La Stampa – le coppie di fatto possono ottenere l’attestato di convivenza basata su vincoli affettivi. Il documento, predisposto dagli uffici dell’assessore all’anagrafe Giovanni Ferraris, non avrà valore giuridico, ma amministrativo. Potrà infatti valere per il riconoscimento dei diritti e dei benefici previsti dal Comune in materia di casa, sanità e servizi sociali, sport e tempo libero, scuola e servizi educativi. Potranno chiederne il rilascio tutti i cittadini che già costituiscono una «famiglia anagrafica». Occorre, dunque, prima ottenere il certificato di «famiglia anagrafica» e poi richiedere l’attestato.
Torino – grazie alla giunta Chiamparino – tenta così, per quanto può, di assomigliare a una civile città europea, lasciando cuocere nel loro immondo brodo clericofascioleghista Roma e Milano. In attesa che i nuovi geni della politica grillinata facciano cadere anche questa giunta.

La responsabilità dell’autore: Sebastiano Vassalli

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[ricevo da Vassalli, a cui a nome di NI avevo chiesto se voleva rispondere al nostro questionario sulla responsabilità dell’autore, la lettera (cartacea) che segue; ne riporto il testo con il suo consenso]

Caro Sartori,

ho ricevuto le domande. Mi piacciono. Cioè: mi piace che qualcuno, nel 2010, torni a porle. Non credo di dover essere io a rispondere: sarebbe una faccenda troppo lunga. La mia generazione, in mezzo a domande simili a queste (a parte il web e dintorni), ci è cresciuta, e non tutte le cose che si dicevano allora (anni Sessanta) erano da buttare: bisognerebbe ripartire da lì. Un’impresa. Erano anni, quelli, di bassa marea. Poi è arrivata l’alta marea. È arrivato il brodo primordiale dei generi: il nero, il rosa, il giallo… C’è stato, negli anni Duemila, chi ha scoperto il genere epico. Di fronte a tanta modernità un quasi settantenne come me è muto. Perciò non rispondo, e non perché manchi la simpatia nei confronti vostri e di chi fa riviste. Noi le facevamo di carta; oggi si fanno come le fate voi. Se potrò esservi utile lo sarò volentieri; ma con queste domande no.

Un caro saluto

Sebastiano Vassalli

Cos’è L’Aquila oggi

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di Enrico Macioci

Sono nato all’Aquila 35 anni fa, ho sempre vissuto all’Aquila, ero all’Aquila alle 3,32 del 6 aprile 2009, ero insieme all’oceano d’aquilani durante la manifestazione tenutasi all’Aquila il 16 giugno scorso (di cui quasi non s’è avuta notizia), ero insieme alle migliaia d’aquilani durante la manifestazione tenutasi a Roma il 7 luglio scorso (di cui per motivi non edificanti s’è avuta notizia), e sto scrivendo queste righe dall’Aquila, dove tuttora risiedo. Ciò credo mi legittimi a testimoniare in coscienza ciò che L’Aquila è divenuta nell’ultimo anno e mezzo.

New Wave

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copertina originale New Wave di Pierfrancesco Pacodadi Mauro Baldrati

In redazione a Frigidaire, a Roma, arrivavano molte visite. Una quantità di collaboratori veniva nella palazzina di Monteverde Vecchio, una villetta col cortile interno, un giardino abbastanza trascurato e un piccolo pergolato, per consegnare articoli, disegni, proposte. Talvolta per litigare, durante misteriose riunioni nell’ufficio del direttore. Con Tanino Liberatore, per esempio, che arrivava da Parigi, non mancavano mai urla, o rumori non meglio identificati. Quando era il turno dei bolognesi si accendeva una luce nella redazione, dove dominava il look cupo autonomia/via dei Volsci, la luce dell’eleganza: Marcello Jori, giovane pittore che utilizzava una interessante commistione tra immagini fotografiche in polaroid e tecnica pittorica, entrava con la sua bellezza aristocratica, i vestiti alla moda (il nero era sempre in voga), i modi affabili, da giovane vincente; Andrea Pazienza, seguito spesso da tipi equivoci, ambigui, spuntati da chissà dove, con giubbotti di pelle extralusso che riempivano di meraviglia il direttore; Massimo Iosa Ghini, che curava servizi/performance d’avanguardia, architetto anche nello stile che usava per aprire e chiudere le porte; Daniele Brolli, il letterato avant-garde anni ’80 multimediale, disegnatore, illustratore, sceneggiatore; Giorgio Carpinteri, che disegnava personaggi duri, cuneiformi, il primo, credo, a utilizzare guanti da lavoro come accessorio d’abbigliamento.

Note per un libretto delle assenze

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di Francesco Forlani

all’amica Georgia

Erano verdi, rosse, e c’erano già alla tua venuta. Esistevano da molto tempo prima, nel mondo. Le cercavi con la coda dell’occhio non badando alla luce ma alzandoti  facendo leva sui gomiti, oppure lasciandoti quasi cadere dal letto a castelletto, da sopra, perché da sotto ce l’avevi dritta davanti a te. Una luce tenue eppure immensa, piccola e diffusa per tutta la cameretta. Era un gesto di madre – non erano certo i padri a chinarsi sulla presa per il lume- e insieme al respiro di chi dormiva nel letto accanto, in quello di sopra, sotto, c’era una luce appena appena colorata, a farti compagnia. Così se ti veniva d’aprire gli occhi all’improvviso ne scorgevi la mano sicura, i suoi fasci di luce come dita. Spariva durante il giorno come una lucciola. E all’improvviso, al crepuscolo la vedevi apparire. Un respiro lungo senza intermittenza, tra te e tua madre, era.

la conta delle lentiggini

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di Flavia Ganzenua

Io sono il mio labirinto e mi cibo di chi ci si perde.

Disobbedisci, ruba il sale e scappa, di corsa, sotto il letto. Accucciati e resta lì. Tua madre sbraita, si china a terra, e ti cerca a tentoni. Tu scalci, le mordi la mano se non sa come ti deve toccare, se ancora non ha imparato. Scalci, ma poi ti lasci prendere perché sai che in quel momento e in quello solo, tra urla e ceffoni, finalmente sei al sicuro.

Mo Yan: letteratura contadina

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(riproponiamo un articolo del 2010 su Mo Yan, oggi Nobel per la letteratura)
di Andrea Pira

“Chi le ma?” “Hai mangiato?”. È una strana frase da dire a qualcuno quando lo si incontra per strada. L’equivalente cinese del nostro “come stai?”. Un saluto comune tra le vecchie generazioni per le quali rispondere con un sì vuol dire “sto bene”. “Quando ero piccolo, negli anni Sessanta, noi bambini andavamo a cercare le bacche per mettere qualcosa nello stomaco”, ha detto Mo Yan, in Sardegna per partecipare al festival letterario ‘L’isola delle Storie” di Gavoi. Per il più importante autore cinese contemporaneo il cibo fu la musa ispiratrice. “Decisi di prendere carta e penna in mano quando un mio amico mi disse di conoscere uno scrittore che mangiava tre volte al giorno”, ha raccontato. “Ci pensate? Tre pasti, mentre noi vedevamo la gente morire di fame”.

intorno alle locande

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di Massimo Bonifazio

furono altre guardie di frontiera a farmi il verso,
a deporre i legni bianchi sopra ai fossi:
orpelli, o ponti necessari, sfuggiti al gracidare
del cemento. solo dopo arrivarono alle travi
rune a sciami, scolpite da mani meno esperte
di quelle che lisciavano i lenzuoli.

* * *

si andava componendo il gelo del mattino;
giù per la rancida domanda finita a costellare
le torbe, gli sterpeti; né mi riuscì mai l’inseguimento
lungo quei greti afflitti, quelle forre
ripiegate sulle case.

Battute per un cinema muto: Carlo D’Amicis

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Nota di lettura
di
Francesco Forlani
su La battuta perfetta di Carlo D’Amicis

C’è uno strano film, del 1966, Due marines e un generale, diretto dal regista Luigi Scattini e che vede, come protagonisti Franco Franchi e Ciccio Ingrassia. Strano perché ad un certo punto, con una parte tutt’altro che secondaria, scopriamo Buster Keaton. Il quale, nei panni di un generale della Wehrmacht, da gigante del cinema muto, non dirà una parola. Solo una battuta, insieme sorprendente per i nostri comici, e terribile, nel finale della scena proposta qui in ouverture: Thank you. Dice.
Due anni prima, nel 1964, Buster Keaton aveva interpretato, O, il personaggio protagonista di Film, unica prova cinematografica di Samuel Beckett che ne aveva firmata la sceneggiatura. Film, privo di sonoro, e con un’unica battuta: «Shhh!» che nella parte iniziale l’autore fa dire a una signora appena travolta da Keaton, per zittire il compagno che vorrebbe reagire. La fortunata formula di Berkeley, “Esse est percipi” era stata la parola chiave dell’esperimento, certo poco capito all’epoca, del grande drammaturgo irlandese: “essere è essere percepito, sentito, visto. E allora perché rinunciare al silenzio se il silenzio può farci sentire quello che sta accadendo? Se può darci l’illusione di essere percepiti?
La battuta perfetta, di Carlo D’Amicis (1964) si apre sulla troupe di Pasolini che sta girando a Matera, terra d’origine del protagonista, Canio Spinato, in quello stesso anno, il 1964, il Vangelo secondo Matteo.
Il padre di Canio, Filippo, che sarà assunto alla RAI pochi anni dopo,” faccia da stronzo, da democristiano”, quando da Roma riesce a tornare in famiglia, se ne sta rinchiuso nel suo studio. Al figlio che vive quel mutismo come un lutto, si limita a spiegare:
il silenzio è ascolto. Dicevi. ma io non sentivo niente. Il silenzio è verità. ma a me sembrava chiaramente una bugia.

Spaesamento

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di Alessandra Sarchi

Giorgio Vasta, Spaesamento , Editori Laterza, Bari 2010

“L’Italia senza la Sicilia non lascia alcuna immagine nell’anima: qui è la chiave di tutto”. La tappa finale del viaggio in Italia di Goethe (1786-7) fu ricca di rivelazioni; a Palermo, in seguito a una visita all’Orto Botanico Goethe cominciò a formulare la teoria di quell’Urpflanze , la pianta matrice di tutte le altre, la pianta archetipale, che avrebbe sviluppato nella pubblicazione “Metamorfosi delle piante” (1790) ed esteso al mondo delle attività umane, come idea che esiste un inizio, potenzialmente in grado di tenere in sé ogni possibile conseguenza e derivazione.

da “Economia”

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di Domenico Lombardini

inguaribile strabismo dell’osservazione – puntare
un dito frangendo uno schermo acqueo che riverbera
in onde concentriche i tocchi; così osservare
modifica l’oggetto, senza una possibile oggettività

°

non è questo il migliore dei mondi, diceva
– è forse il peggiore; l’altro ascoltava
e fissava la granulazione salivare sul labbro, non capiva

°

Imprescindibile

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One Man Show dello scrittore Franz Krauspenhaar. Tra poesia, racconti, improvvisazioni e altro ancora.

Venerdì 9 Luglio a Milano

presso la Fondazione Durini, Sala delle danze –
all’interno della mostra “Il Mito del vero/il ritratto/il volto” in via Santa Maria Valle 2 (vicino a via Torino, MM Duomo.)
Dalle ore 21 fino ad orario imprecisato.

FK sarà presente in sala anche fra le 18 e le 20 per due chiacchiere preventive.

L’Aquila vola su Roma

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ma la cura dei terremotati non era il fiore all’occhiello del nostro governo?

Gesti senza domani

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di Carlo Tirinanzi De Medici

(a F., con autonomia)

Diversi romanzi usciti in Italia negli ultimi anni hanno per protagonisti bambini e adolescenti. Al di là delle evidenti differenze di qualità, stile e scopo, in opere come Io non ho paura di Niccolò Ammanniti (2001), Il tempo materiale di Giorgio Vasta (2008), Stabat mater di Tiziano Scarpa (2008), Riportando tutto a casa di Nicola Lagioia (2009) o Acciaio di Silvia Avallone (2010) si racconta di ragazze e ragazzi non ancora maggiorenni che devono destreggiarsi in un mondo distante, misterioso, a tratti incomprensibile: quello degli adulti. In questi romanzi si racconta l’epoca dell’immaturità e il percorso che disegnano è quello di una conquista progressiva della consapevolezza da parte dei giovani.

Leggendo Robert Walser

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di Franco Fortini

Quanti mai mi attribuiscono sordità a scritture che hanno a proprio oggetto la condizione “limbale”, l’al di là dei nostri giorni intravveduto dall’Idiota dostoevskiano. E invece la proposta di chi riesce in qualche modo ad annunciare quella condizione, come paradossale contatto di presente/avvenire e di possibile/desiderabile, l’ho sempre udita. Vorrei non sentirmi scorato per non essere riuscito, almeno in prosa, a far capire o a capire io per primo che tutto un ordine, una schiera di verità, quali lo stato del secolo ha affidato in gestione a corpi intellettuali più o meno remoti da me, o anche remotissimi, sono sempre stati e continuano ad essere il fondo ma anche il sostegno e in definitiva la ragione di tutto quel che mi pare debba essere perseguito. O fede, se così si vuol chiamarla.

Flebo

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di Alice Keller

Flebile tubicino che mi entra nel braccio, che buca la mia sottilissima vena per cercare di ristorare con un po’ d’acqua questa terra secca e arida, per cercare di dare quel nutrimento, quel liquido vitale, che ormai chi doveva farlo non le dà più. Mamma che dà l’acqua a un bambino che non è in grado di gestirsi da solo. Bimba irresponsabile, non sei capace di occuparti di te, non vuoi bere, capricciosa, ora ti imbocco io, te la do io, l’acqua, bimba in coma anche se cammina ancora.

Brotherhood

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di Aldo Busi

Bisogna assolutamente promuovere il film più bello in circolazione, “Brotherhood” (2009) di Nicolo Donato, origini italiane e cultura danese, gli impressionanti interpreti principali si chiamano Thure Lindhardt e David Dencik, distribuito in Italia dal coraggiosissimo Occhipinti (un nome con una garanzia di segno opposto: molto impegno e pochissimo mascara). Dobbiamo fare in modo che almeno i nostri occasionali lettori vadano a vederlo prima che la grande distribuzione se lo inghiotta togliendolo dal cartellone. E’ un’opera magnificamente brutale e brutalmente magnifica sul machismo del branco (con relative sguince tam-burine) e la subcultura ispirata da Dio Patria Famiglia nelle giovani menti, non sempre già tossicodipendenti, gestite da fanatici vecchi nostalgici del mito della Natura Naturale.

A casa Brescia non risponde nessuno

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di Sarah Zuhra Lukanic

In quel pomeriggio piovoso e bigio, mi ero riparato sotto il portico che conduceva a casa di Alessandro Brescia. I miei abiti, neri e logori, preannunciavano la brutta notizia che stavo portando. In quel periodo mi faceva da scorta Luek, un ragazzo singalese. Nel nostro cantiere era una specie di gatto randagio, benvoluto da tutti. Il suo nome era composto di 52 lettere, ma lui si faceva semplicemente chiamare Luek, che in singalese vuol dire amico. Con noi lavoravano parecchi lavoratori stranieri. Alcuni venivano con Albert, il rumeno che possedeva una ditta edile e se la passava piuttosto bene. C’era un macedone, c’erano due ragazzi moldavi e poi Danilo l’ucraino. Albert spifferava in giro la storiella che Danilo avesse fatto la guerra. Io so che la guerra in Ucraina non c’era stata, ma era inutile contrariare Albert.