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“Autorizzare la speranza”: una lettura a più voci #3

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[Per Interlinea è uscito un libro importante: Autorizzare la speranza. Giustizia poetica e futuro radicale di Italo Testa. In questo saggio, a cavallo tra teoria della poesia e esemplificazione di poetica, l’autore mette a frutto la propria duplice esperienza di poeta e filosofo. Ne risulta un libro denso di riferimenti e riflessioni, che approfondisce in modo particolare il nesso tra genere poetico e utopia. Abbiamo invitato alcuni autori a realizzare una lettura di questo saggio. I primi due interventi di Vincenzo Bagnoli e Francesco Deotto sono apparsi qui. I due seguenti a firma di Stefano Modeo e Tommaso Di Dio qui. a. i.]

La speranza e l’ellisse di Ipazia

di Maria Borio

1.

La speranza è legata alle idee e ai fatti: nella storia dell’utopia le sono state spesso attribuite capacità di influire non solo sul pensiero astratto, ma anche sull’azione sociale e politica. Tuttavia, la ragione strumentale e le scienze ci hanno assuefatto a considerare la speranza soprattutto come una manifestazione intellettiva e emotiva dell’interiorità. Possiamo autorizzare qualcosa di ideale? Per autorizzare una scelta, un’azione o persino un’idea cerchiamo elementi concreti, di cui appaiono evidenti le cause e prevedibili gli effetti. La parola autorizzare, infatti, sembra trovi giustificazione nel senso normativo del logos e la speranza in quello espressivo. Sperare dipende dalle nostre facoltà proiettive che, da limiti di una certa situazione, premono verso l’esterno un’energia e un progetto, come indica l’etimologia di esprimere: exprimĕre, propriamente “premere fuori”. “Autorizzare la speranza” è un’affermazione che pare metterci alla prova in una prospettiva piuttosto complessa. Possiamo dire che quest’ultima ha due punti di fuga: nel primo convergono le linee del cono visivo frontale – la ragione –, che si introflettono nel secondo punto, da cui nascono le linee di una corrente trasversale – l’intuizione –. I due punti di fuga sono come i fuochi controbilanciati dell’ellisse che segna le orbite celesti, indovinata per la prima volta da Ipazia. La speranza assomiglia a una prospettiva ellittica e mette in rapporto il vedere e l’apparire, la creazione e la decreazione.

2.

Se la speranza è stata spesso connessa al potere d’azione dell’utopia, oggi siamo abituati a credere che sperare possa comunque determinare dei fatti? Veniamo indotti quotidianamente a pensare in termini pragmatici e a fare fatti: ad essi è richiesto soprattutto un riscontro strumentale, non la verifica di un senso che li trascende. Dimentichiamo, però, che i fatti, per essere concepiti, hanno bisogno anche dell’attività di una vita immaginativa. L’immaginazione, allora, non riguarda solo il nostro mondo interiore, ma anche l’esistenza sociale: siamo portati a voler migliorare le cose intorno a noi, a pensare le relazioni in un orizzonte progettuale, fantastichiamo su come saremo e come saranno gli altri, su cosa faremo e faranno. Immaginiamo il futuro in misura non inferiore di come ricordiamo il passato. La vita immaginativa intesse la dimensione del vedere – a cui appartengono anche i fotogrammi memoriali – con quella dell’apparire: dell’evidente e del possibile. I limiti contingenti delle cose che vediamo sfumano nei limiti ipotetici di come appaiono. L’apparire ha un margine di errore, se cerchiamo solo l’esattezza momentanea, ma anche uno di visione, se cerchiamo la progettualità. A questi margini possiamo collegare, ad esempio, la differenza che Giacomo Leopardi indicava tra l’affettazione e l’immaginazione nell’arte: la prima dissimula e distorce il “vero”, perché persegue effetti espressionistici innaturali, mentre la seconda ne favorisce la ricerca, perché stimola la comprensione della natura delle cose e di noi stessi[1]. L’immaginazione, quindi, oltre ad avere una capacità che può indicare un “perfezionamento ontologico delle cose”[2], legando la vita immaginativa a quella sociale, rappresenta anche l’attività della mente che fa individuare l’autentico.

Immaginazione e autenticità sono fra i motori della cultura moderna. L’autenticità, ad esempio, è stata a lungo considerata un valore. Ci ha aiutato a scoprire il nostro sé individuale – ciò che in una persona è realmente e intrinsecamente lei –, e a saperlo esprimere. Ci ha svincolato dai vecchi sistemi che determinavano in modo archetipico la società e la politica. Pensare la società composta da individui, dando credito al potere della libera scelta di ognuno, ha favorito le democrazie. Ma perché è necessaria l’immaginazione? Grazie all’immaginazione abbiamo potuto prefigurare e costruire i progetti in cui realizzare noi stessi in modo autentico e iniziare a vivere autenticamente. La morale si è interiorizzata. Essere in accordo con il nostro sé autentico, infatti, non significa solo comportarsi sinceramente in base a quello che sentiamo come individui, ma vuol dire provare che le azioni sono davvero in armonia con il sé, dandone un riscontro morale nella nostra vita[3]. Non è questo ciò a cui aspirava Walt Whitman quando sognava la democrazia futura come risultato di “un’utopia dell’individualità”[4]?

Da qui all’individualismo il passo è stato breve. Charles Taylor ha messo in evidenza come nella cultura dell’autenticità abbia prevalso l’interesse del singolo: l’ideale si è corrotto in un soggettivismo morale, in un relativismo e in un “liberalismo della neutralità”[5]. La prova che l’essere autentici richiede alla coscienza è alta: un test costante di integrità. Ma l’essere umano è labile, spesso non vuole mettersi in discussione, tende facilmente a perdonarsi, a trovare giustificazioni nei contesti e nelle influenze sociali, per sopravvivere. L’autenticità è diventata, allora, qualcosa di ingenuo e di scomodo: discreditata come ideale, si è iniziato a considerarla una caratteristica non tanto dell’individuo, quanto della materia. L’autenticità assomiglia a un’etichetta che certifica la consistenza e il beneficio strumentale delle cose e dei fatti. E ha perso rilevanza anche l’immaginazione, rinchiusa nei processi inconsci: le è stato strappato il potere proiettivo di un progetto, che ne riconosceva l’importanza nella vita sociale e nella costruzione utopica.

Non facciamo più progetti a lunga scadenza: non siamo più abituati a cercare quello che appare, che si può immaginare o prefigurare, che possa raggiungere una sua manifestazione autentica. Il mondo in cui viviamo ci impone di osservare quello che si vede e seguire la logica utilitaria dei fatti e dei risultati immediati. Siamo informati da valanghe di fatti, notizie il cui contenuto non è necessariamente autentico: le fake news seguono una routine funzionalista, non hanno un interesse ermeneutico. La speranza si atrofizza. Ma fino a che punto riusciremo a essere convinti che l’autenticità sia solo una qualità materiale e non un valore che, per pragmatismo o per una vita meno responsabile, abbiamo scelto di non perseguire? Con un’affermazione come “autorizzare la speranza” possiamo aprire un varco dentro a un sistema avvolto dagli strilli dei fatti, un sentiero di rughe su un volto anestetizzato alle opinioni superficiali, che nasconde l’intelligenza.

3.

“Il fine utopistico della metafisica è l’immaginazione”[6]. Attraverso l’immaginazione la metafisica riesce a concepire la speranza? Ma ogni utopia, sociale o politica, osservata solo secondo i parametri dell’argomentazione filosofica, finisce sempre con l’imbattersi in aporie. Nell’estetica, però, il fine utopistico della metafisica può diventare più intenso e in questa veste particolare farsi conoscere: l’immaginazione estetica può raggiungere una perfezione, che possiamo comprendere grazie all’identità di idea e forma, concetto e percezione. La forma estetica è quella del possibile: essa tende ad essere perfetta in quanto utopica, corrisponde a ciò che appare e si prefigura, non a ciò che si vede ed è unicamente pragmatico. Nell’estetica la realtà viene trasfigurata e l’immaginazione delinea una dimensione radicale di ciò che può accadere: attraverso l’estetica si dà credito all’immaginazione e alla mente si riconosce il potere di dare forma alla potenzialità delle cose[7]. L’immaginazione estetica fa combaciare il poetico e la realtà in una concordia che mostra il possibile come un’espressione di autenticità. La forma estetica compiuta è autentica.

Nella poesia l’immaginazione estetica fa raggiungere all’ordine del possibile una forma estremamente intensificata. Perciò la poesia può essere considerata, come sembra suggerire Italo Testa, uno dei linguaggi più autentici della speranza. La poesia può indicare il possibile come assoluto oppure parte di una serialità. La parola di Paul Celan, ad esempio, ne è un’espressione assoluta: la lingua rappresenta una creazione del possibile e la scrittura si svolge come un’invenzione di realtà. Invece, le differenze specifiche tra le parti in serie nei testi di Francis Ponge rappresentano una decreazione del possibile: ogni tassello delle serie contribuisce a decostruire un sistema, la realtà come dato di fatto unitario, e la riconfigura attraverso un processo differenziale di possibilità.

Il poeta che crea o decrea è simile a un giudice: ma, nell’uno e nell’altro caso, non applica pedissequamente le tavole della legge, non schiaccia l’esperienza sotto i postulati, non si accontenta di seguire la ragione strumentale. Da un lato, il giudice è un “arbitro del diverso”[8], come per Whitman: chi a partire dalla conoscenza dell’individuale, dalla specificità del singolo, dalla sua libertà democratica e dal potere della soggettività immagina un mondo nuovo. Dall’altro lato, è un “mediatore”, come per Simone Weil e Cristina Campo[9]: chi pone la sua individualità in ascolto attento dei rapporti, senza stravolgerli con un’immaginazione febbrile e egocentrica. A partire, dunque, dal potere dell’intersoggettività chi media partecipa a una rete di relazioni prefigurandone delle nuove. Il poeta può essere un giusto perché scardina le griglie utilitariste delle informazioni senza autenticità. Nella poesia si lega la lingua al possibile, l’esattezza alla visione, come i due fuochi dell’ellisse di Ipazia. Si insegue così quel “vero” con cui Leopardi cercava l’autentico, provando a esprimere nel modo più umano possibile un’intelligenza. Thomas Rymer, nel 1678, in The Tragedies of the Last Age Considered, parlava di “giustizia poetica”, formula ripresa da Martha Nussbaum[10]. La poesia – che nei fatti giustizia non ne può fare e, direbbe ancora con ironia Patrizia Cavalli[11], non può cambiare il mondo – è uno dei pochi linguaggi che ci restano per intuire l’autentico, senza il quale, in fondo, non ci sarebbero nemmeno una giustizia o una coscienza.

Note

[1] Cfr. Giacomo Leopardi, Zibaldone di pensieri, vol. I, a cura di A. M. Moroni, saggi introduttivi di S. Solmi e G. De Robertis, Milano, Mondadori, 1983, pp. 18-20.

[2] Italo Testa, Autorizzare la speranza. Giustizia poetica e futuro radicale, Novara, Interlinea, 2023, p. 21.

[3] Cfr. Lionel Trilling, Sincerità e autenticità, trad. it. di R. Ariano, con un saggio di A. Tagliapietra, Milano, Moretti & Vitali, 2018.

[4] Italo Testa, cit., p. 25.

[5] Charles Taylor, The Ethics of Authenticity, Cambridge and London, Harvard University Press, 1991, p. 17.

[6] Italo Testa, cit., p. 19.

[7] Ivi, p. 37.

[8] Ivi, p. 26.

[9] Cristina Campo, Gli imperdonabili [Attenzione e poesia, 1961], Milano, Adelphi, 1987, p. 165; Ead., Sotto falso nome [Introduzione a Simone Weil, “Attesa di Dio”, 1966], Milano, Adelphi, 1998, p. 177.

[10] Cfr. Martha Nussbaum, Giustizia poetica. Immaginazione letteraria e vita civile, a cura di C. Greblo, trad. it. di G. Bettini, Mimesis, Milano, 2012.

[11] Cfr. Patrizia Cavalli, Le mie poesie non cambieranno il mondo, Torino, Einaudi, 1974.

Lo specchio armeno

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di Paolo Codazzi

di Paolo Codazzi

Ciò che accade prima non è necessariamente l’inizio.

Henning Mankell

Mi sono limitato come sempre a seguire il mirabile consiglio che il Re di Cuori dà ad Alice:“Comincia dal principio e prosegui finché non arriverai alla fine, poi fermati”.

Lewis Carroll

 

Inerpicandosi per la ripida scalinata, ingobbita dalle radici di un pigro nespolo isolato poco distante nel prato digradante il terrapieno che la sorregge sui lati, rampante all’oratorio edificato sotterrando una precedente chiesetta normanna, costruita sulle fondamenta di un tempio pagano adattato a cappella bizantina e il cui snello campanile fu aggiunto dagli arabi come minareto, quasi ascendendo nell’azzurro corrugato di nuvolaglie venose intrecciate con le scie dei numerosi aeroplani che come avvoltoi si avvicinano in lente spire attorno alle spoglie montagne modellanti una spontanea cavea all’orchestra del luminoso e seducente golfo, si voltano le spalle al mare, contenuto dalla balaustra in tufo fiancheggiante, a ridosso della scogliera, il tratto rettilineo del lungomare di quella città mediterranea nella quale molte etnie hanno ottenuto ristoro, qualunque sentimento avesse mosso il loro a volte brutale approdo.
Sui martoriati scogli si accanivano le onde di un mare assai agitato, sciabordando violenti scrosci fin oltre la carreggiata dove la graffiante e vaporizzata sonorità del transito delle auto si solveva nel salso pulviscolo sospeso per alcuni attimi insieme agli svolazzanti gabbiani, per poi ricadere rinfrescando i passanti dalla sciroccosa umidità per altri versi stimolante acute sensazioni assai diffuse in tutta la regione che, a detta di molti luoghi comuni, pare incoraggino e assecondino smanie sensuali.
In quella città, passiva precorritrice dell’integrazione razziale, devota alle fedi appese alle punte di lancia – si legge nella prefazione storica di una vetusta guida dell’isola acquistata da Cosimo prima di intraprendere il viaggio – un cronista del secolo diciassettesimo garantisce l’esposizione per alcuni giorni della mitica Pietra dell’unzione, di marmo rossastro maculato di bianco, in origine nella basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme, poi portata a Costantinopoli nel dodicesimo secolo e da qui forse trafugata dai crociati nel sacco del 1204, e duplicata subito in molte imitazioni, come tibie e femori reliquiari, alcune delle quali, sempre si dice, per contraddittoria devozione, qualificano il mercato antiquario della regione frantumate in pezzi, così come i barbari spezzavano l’argenteria romana dando valore soltanto al peso del metallo e non alle forme in esso vitalizzate. Su quella sacra pietra le saghe tramandano che prima di essere sminuzzata, sconsacrandola definitivamente, da una setta integralista di cristiani del quattordicesimo secolo, giunti sull’isola dal monastero egiziano di Santa Caterina del Sinai per diffondere l’ascetismo e le regole di vita del monaco Evagrio, siano state torturate e seviziate delle donne accusate di sortilegio malefico a seguito di ricorrenti e contagiose epidemie di peste bubbonica cui quella città, aperta ai marinai di tutto il continente, era particolarmente esposta. E a niente valsero le ricorrenti normative degli organi di potere riguardo le quarantene imposte alle navi prima di accedere nel porto tra i più frequentati del Mediterraneo. Queste cicliche pestilenze, prima che venissero intuite le vere cause, sparsero nell’isola un clima di superstizione o di ambigua interpretazione del senso della fede, scatenando nel corso dei secoli pubbliche e private crudeli persecuzioni ai danni di guaritrici o donne di fora come erano appellate, delle quali le ricostruzioni storiche riportano ben pochi elementi ma di cui le sagre locali sono ricche di particolari. Si sostiene anche, secondo indicazioni di affermate leggende popolari, che nella quadreria di un’anonima famiglia nobiliare, locata in uno dei palazzi storici della città, sia conservato uno specchio di tela armena ricavata da una sofisticata lavorazione del papiro, la cui cornice era parte integrante di uno dei numerosi specchi che in precedenza, negli anni tra la fine del dodicesimo secolo e gli inizi del tredicesimo, erano esposti da uomini, generalmente di cultura araba, collocati agli angoli delle strade di Palermo, che offrivano ai passanti l’opportunità di potersi acconciare o sistemare la pettinatura dietro libero pagamento di un’offerta. In particolare, lo specchio di un tale Assad Ibn Al-Hourani, di probabile origine armena o mesopotamica – riporta la guida nella sezione sagre e leggende –, considerato una sorta di patriarca di questi ambulanti, pare possedesse prodigiose proprietà per effetto della lieve convessità della superficie e della composizione fisica nella quale la parte generalmente occupata dal cristallo o dal metallo specchiante era invece intessuta da una raffinata tela ricavata dal raro papiro armeno, Cyperus papyrus, la stessa specie di cui i magrebini Aghlabiti di Tunisia impiantarono alcune piantagioni nell’isola fin dalla conquista avvenuta nel nono secolo subentrando ai Bizantini e che, forse, tramandano sempre i miti popolari, questo specchio potesse, in certe coincidenze, duplicare e fissare sulla tela, come una moderna lastra fotografica, le immagini che gli si offrivano con la sola condizione che i volti riflessi appartenessero a soggetti innamorati, secondo concetti di amore cortese prevalenti nella cultura araba oramai saldamente sedimentata nell’isola, nonostante il potere politico fosse da qualche anno in mano alle dinastie normanne. Questo specchio di tela, al cui interno si narra oziasse uno spirito benigno, fuddittu o mazzamareddu negli idiomi isolani, pronto a destarsi per soccorrere l’amore di turno, per quanto successivamente ricercato non era mai stato trovato e talune versioni popolari, raccolte da vari testi sulle tradizioni locali, garantivano che nel quindicesimo secolo, in un periodo increspato dal disagio delle popolazioni per l’avvento in Sicilia della Suprema Santa Inquisizione spagnola, su di esso fosse stato dipinto, da un giovane pittore del nord, il ritratto di una coetanea nobile siciliana e che fra i due fosse sbocciato un imprudente amore, malgrado il ritratto rappresentasse impegno sentimentale, commissionato dal fidanzato della ragazza, anch’egli di blasonati ascendenti, nell’imminenza del loro matrimonio secondo usanze assai diffuse in Sicilia probabilmente risalenti alla dominazione bizantina.

 

Questo testo è l’incipit del romanzo di Paolo Codazzi “Lo specchio armeno“, pubblicato recentemente (2023) da Arkadia

 

Overbooking: Eugenio Manzato

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Un romanzo inattuale

di

Alberto Pavan

Eugenio Manzato, nato a Quinto di Treviso, è storico dell’arte, è stato direttore dei Musei Civici di Treviso fino al 2001; dal 2016, anno della pensione, ha rispolverato la passione giovanile per la scrittura narrativa dando alle stampe nel 2023 il suo primo romanzo, L’ultima notte del dottor Romani.

Il romanzo narra la vita di Antonio Romani, vissuto tra la campagna trevigiana, Padova e Venezia, tra il 1757 e il 1797, l’anno in cui nella notte del 12 maggio, con Bonaparte alle porte, la narrazione si interrompe con un finale aperto che alimenta nel lettore il desiderio di un sequel. Antonio proviene da una famiglia di forestieri, arrivati a Santa Cristina di Quinto in circostanze non del tutto chiare, pronti però a mettere al servizio della piccola comunità i loro talenti, leggere, scrivere, lungimiranza economica e sociale. Antonio cresce in campagna forte, bello e intelligente, ricco di affetti e di amicizie salde, studia prima nel collegio dei Gesuiti a Venezia e poi medicina a Padova, città in cui coltiva il suo amore per le scienze, inizia a esprimere la sua filantropia e gode delle gioie della giovinezza. Medico promettente e uomo brillante, si stabilisce a Venezia dove avvia prima un ambulatorio e poi l’ospedale delle “Bele man”, il primo luogo di cura laico della città. Contemporaneamente conosce l’amore per la nobildonna Lucrezia Giustiniani, vedova del duca di Beaumont, di cui diventa il compagno senza la benedizione di nozze socialmente scomode. Quando però l’uomo è al culmine del successo, invidie maturate nell’ombra, come nei più intricati romanzi di Dumas, cuciono nei suoi confronti una vile vendetta e, mentre la Dominante esala l’ultimo respiro, con un colpo di coda è condannato a morte.

Il romanzo è narrato in prima persona nella forma del monologo che Antonio quarantenne pronuncia nell’ultima notte di prigionia ripercorrendo tutta la sua vita. Si configura quindi come uno scritto memorialistico, che si inserisce in una ricca tradizione veneziana (Casanova, Goldoni, Gozzi), ma anche, nella finzione, come le Confessioni di un italiano di Ippolito Nievo. Come Nievo, Manzato tempera all’interno di una rigorosa cornice storica personaggi e fatti d’invenzione, dipinti con verisimiglianza. Nella trama si innestano infatti ampie digressioni sulla cultura materiale del tempo, sulla scuola, sul viaggio, sul mercato delle anticaglie, sulla medicina, sull’agronomia, sulle istituzioni veneziane, che contribuiscono a fare del romanzo un affresco di grandi dimensioni, nel quale piace sperdersi e i cui dettagli istruiscono attraverso il piacere della vista. Come nei romanzi enciclopedici dell’Ottocento, non vi sono sottintesi che lasciano l’acquolina in bocca, tuttavia l’accuratezza delle informazioni non indulge mai alla pedanteria, anzi intrattiene, un poco come le pagine più sapide del Molmenti.

Lo stile dà omogeneità alle parti, sempre piacevole senza cedimenti, pulito, misurato nelle descrizioni, preciso nelle informazioni, di registro medio, efficace quando ricorre a un plurilinguismo mai approssimativo: il veneziano è la lingua d’uso della città e la lingua franca in tutto il Mediterraneo, le parlate venete sono legate all’ambito degli affetti e della confidenza, il francese è la lingua dell’alta società.

È un romanzo rassicurante che crea un mondo parallelo, per cui ci si riserva giorno dopo giorno un cantuccio serale di lettura per goderne l’inattualità, che si esprime nell’evidenza della lingua e della trama, ma anche nella caratterizzazione dei personaggi che, come nella Chartreuse de Parme di Stendhal, si possono dividere con un taglio netto in buoni e cattivi: i primi ancorati a un passato di privilegi e di meschinità e gli altri con uno sguardo aperto verso un futuro arioso. Nel romanzo la natura sociale dell’uomo è al centro: insieme con la cultura costituisce la forza che, diffondendosi, può cambiare dall’interno e senza traumi la società, secondo un progetto razionale di tolleranza e di convivenza di ispirazione massonica. Di qui scaturisce un piano cronologico di proiezione nel passato del presente o delle speranze per un presente migliore: si leggono tra le righe il Veneto dello spirito di sacrificio e dell’imprenditoria, Manzato non trascura però la necessità di un’evoluzione anche culturale per evitare l’avidità che ha invece portato a fare scempio del territorio, ma contempla anche l’apertura verso forme di affetto e di solidarietà alternative alla famiglia convenzionale.

L’ultima notte del dottor Romani si rivolge a un lettore disponibile a concedersi il lusso della lentezza, del tempo e del romanzo stesso, per assaporare la storia, la sua cornice e per meditare su di un messaggio di responsabilità sociale per la costruzione del nostro futuro.

Contre braci

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di Matteo Gigante

I

 

«I dolci cuccioli di foca

che sul ghiaccio vomitano sangue.»

T.Landolfi

 

Amore! Ecco un paio di occhiali trovati

al mercatin del merito delle pulci che ci permettono

di guardare un po’ meglio le nostre emorragie

che schizzano qua e là: i rapporti devastati

tra me mia moglie e l’amatissima foca domestica

che non ce la fa più

 

Prende tutto e se ne va e rimaniamo così

solissimi io e te con la nostra vista acutissima

da spaccare nitidezza e specchi

comprati per riflettere e noi riflettiamo giorno

e notte senza scrupolo di sosta anzi non ne

deve avanzare alcuno di pensiero tutti

li riflettiamo e ce li tiriamo

in faccia come schiaffi:

 

Per questo avevamo la foca! Troppo presi

a riflettere qualcuno serviva a ricordarci

l’esistenza dell’altro

che a riflettere ci si perde di vista la vitaccia

di mosche e merda di pranzi e sperma di

detersivi e microplastiche di tensioni e

rilasci così che si apre e distende lo sfintere

delle nostre passioni che ci svuotano le tasche –

che ora posso usare di nuovo

per grattarmi il cervello e questo

l’ho sempre fatto da solo

senza moglie e senza foca, perchè per questo

mi basta

il giaciglio stretto senza stelle

viziate di bellissime fantasie e sogni di

beltà (parola pronunciata prende sforzo

di conato). Allora è meglio:

 

Imbracciare il fucile uscire cercare

la foca traditrice nel taschino il coltello

fare attenzione allo scuoio che tra me

e mia moglie la pelle è ormai confusa

e sarebbe gran successo se da questa

mia azione uscissero almeno delle scarpe-

 

 

 

 

 

 

 

II

 

Volevo che la notte

si trasformasse in un telo caldo

ricamato filo filo

dal bacio alla galera;

 

Vorrei che la notte

si arresti se il mattone

di chi lavora

è la metastasi dello schiavo.

 

 

III

 

Invito all’inverno

 

Ripartire dal bosco in fiamme

se il percorso è un tempo

che ha memoria:

 

il bianco lungo

delle nevi in gennaio

l’azzurro tenue

dei giorni di inverno

le spinose braci

i rumori del freddo-

In fondo al tunnel

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di Roberta Spagnoli

Jonny scende alla stazione di Lentisco. Odore di candeggina e caffè.

Proprio come 30 anni fa, pensa. Qui non è cambiato niente. A una prima occhiata, nemmeno lui pare cambiato. Jeans lisi, zaino di tela grossa. Soltanto più curve le spalle, e non per il peso dello zaino. Allora lo riempiva di pagine e volantini in ciclostile. Ora solo una fotocopia: quella del permesso di libertà per un giorno. Stasera dovrà tornare là dentro. Ma è appena mattina, adesso. E fuori c’è il mondo, il suo mondo, continua a ripetersi piano, per darsi coraggio.

Per uscire c’è il sottopasso. E’ obbligatorio. Questione di sicurezza.

Una volta tutti correvano sui binari, appena scesi dal treno, fidandosi del semaforo rosso all’imbocco della galleria. A volte si sacramentava, trascinando valigie e pacchi tra i ciottoli della strada ferrata. Anche adesso c’è chi fatica, con i bagagli pesanti, su e giù dalle scale puzzolenti di ferro e di piscio. Per fortuna il mio bagaglio è leggero, pensa, ma fatica comunque a portarselo dietro e prova a sfilarselo, quello zaino, forse su una spalla sola pesa meno.

Subito fuori dalla stazione, alla sua destra, trova la galleria della vecchia linea ferroviaria dismessa e abbandonata. Adesso è un tunnel pedonale illuminato con i colori del mare, un tuffo nel blu di luci azzurrate che simulano le profondità: la prima attrazione turistica di Lentisco. La prima e l’unica, pare.

Di nuovo al sole, Jonny ritrova il suo paese, fatto di sassi grigi e muri stinti. Riconosce ogni ciottolo sconnesso, i tombini, i buchi sull’asfalto bagnato di fresco davanti ai portoni, le vasche di basilico sui gradini delle case; le bottiglie di plastica tra i vasi, per tenere i gatti alla larga.

Identica anche Santa Maria. Fa per sedersi sulla gradinata; ma sarebbe l’unico in tutta la piazza seduto come un mendicante. Rinuncia. Poi le ginocchia, quelle fanno male a piegarsi e soprattutto a rimettersi in piedi. Pensare che ci si passavano i giorni e le notti su quei gradini; a parlare, a fumare, a litigare. A volte anche muti, ognuno dentro la propria rabbia, ché sembrava non si potesse cambiare niente fino a che i vecchi non si fossero tolti di mezzo; ma quelli non mollavano: la resistenza, la liberazione, l’antifascismo… e intanto noi eravamo in mezzo ai fasci all’università, in fabbrica, tra le bombe che nessuno si azzardava a chiamare per nome.

Gli sembra di essere ancora lì, nel tempo di prima, a ridere e bere wodka lemon al bar di Antonio. Antonio che lo aveva riportato a casa a braccia quella volta, la maglietta sporca di vomito e sudore e ancora voglia di ridere a sentire le sue bestemmie a mezza voce. Chissà come sarebbe stato, se fosse andato tutto avanti così, a birra, vodka e gin.

Dopo, invece, solo caffè. Caffè per tenere i nervi saldi di giorno, per stare pronto a scappare di notte; caffè per sopportare la paura sotto la luce gelida dei neon 24 ore al giorno. Luce fredda che tiene sveglio l’orrore, dicevano loro, dall’altra parte delle sbarre.

Oggi però niente caffè; magari una coca da Antonio, tanto mia madre può aspettare, c’è un giorno intero di tempo per andare da lei.

Scende verso il chiosco sulla spiaggia. Un patio di legno lucido, ombrelli di paglia; ma il mare dove è; Jonny fissa un punto indefinito e non sa.

Antonio saluta come si fa con gli sconosciuti, che non sai ancora se consumeranno qualcosa o se soltanto chiederanno le chiavi del bagno. Sembra diventato suo padre. O forse questo è suo padre; rimasto identico da trent’anni: stesse braccia ossute, stessi baffetti bianchi; secco come un tronco spiaggiato. A Jonny comincia a girare un po’ la testa: E non è la Coca Cola.

Non parla, non chiede, non dice. Nessuno lo riconosce. Forse dovrebbe presentarsi: sono il figlio di Pietro, nome di battaglia Walter; oppure sono Jonny di Margherita, la farmacista. Chi se li ricorda i suoi ormai… forse nessuno saprebbe identificarlo nemmeno come Giovanni Rossi, il compagno, il brigatista, il dissociato, il detenuto.

In fondo al molo riconosce i pescatori, quelli del paese. Pochi a dire il vero, che è già tardi per stare sulle barche se non c’è da prendere il largo. Uno, il più vecchio, in disparte a pulire le paranze.

È Giovanni, l’uomo cui Jonny deve il nome. Comandante di brigata, segretario di sezione, coordinatore del sindacato. Una volta pescatore; adesso solo addetto alle reti, a quanto pare. Le mani nodose che conoscono la trama anche senza guardare, lo sguardo che sa, anche sotto le palpebre afflosciate. Giovanni fa un piccolo cenno con la testa: Jonny capisce che l’ha riconosciuto.

“Sei andato a trovare tua madre?”

“Vado ora”.

“Vengo con te”.

Insieme si incamminano lungo il carrugio con lo stessa andatura stanca anche se tra loro ci sono almeno trenta anni di passi.

Salgono lungo il sentiero stretto che corre a mezza costa tra ginestre e agavi. È poco frequentato, perché non porta da nessuna parte: si avvia verso la spiaggia senza raggiungerla mai, ché una roccia a strapiombo, improvvisamente, impedisce di continuare il cammino verso il mare.

“L’hai trovata laggiù, vero?”

“Sì, era là, cullata dalla risacca. Si notava perché una scia lunghissima l’accompagnava fino a riva”.

“Una scia?”

“Erano papaveri; petali stropicciati, bagnati, accartocciati. Erano mille papaveri rossi che galleggiavano intorno a lei”.

“Quante volte mi sono chiesto perché l’ha fatto… Lei non sapeva niente di me. Mi mettevo a rischio per farle avere notizie da Genova, come fossi studente regolare; lei non poteva avere sospetto a quel tempo”.

“Alle madri non serve avere sospetto. Le madri sanno”.

“Lei non poteva sapere, nessuno sapeva: era l’inizio del ‘76 ero in clandestinità da tre mesi, e nessuno sapeva”.

“In ogni segreto c’è sempre un nessuno di troppo. Dovresti averlo imparato, nella tua guerra di tutti questi anni”.

I miei occhi abituati al neon della cella non reggono la luce del mare, il colore dei papaveri, il corpo di mia madre cullato dalla risacca. Un groppo in gola. Nelle orecchie continua a martellarmi la parola “guerra”.

Per tanto tempo la parola è stata “lotta”. Era un’idea potente: sembrava un sogno da fare tutti insieme. Non è forse questa la rivoluzione, sognare tutti insieme? Lo aveva sentito dire Jonny, lo aveva creduto; poi si era svegliato di soprassalto, e non aveva dormito più.

Giovanni, notoriamente duro d’orecchio, aveva ascoltato in silenzio quei pensieri, continuando a non capire, come 30 anni prima. Ma ormai è troppo tardi, è ora di raggiungere Margherita in cima alla salita del camposanto.

Da sotto, le tombe sembrano vele pronte per la regata. Guardano ogni sera il sole che si butta in mare. Margherita è un po’ riparata, per fortuna, ché a lei il vento carico di salmastro ha sempre dato fastidio e ora le tocca beccarsi anche il libeccio, quando tira forte.

Jonny si guarda intorno. Solo morti, e tutti sembrano morti suoi. Lo sguardo di Giovanni è muto; e non è solo colpa della cataratta.

“E’ stata colpa mia”.

“No. Tu avrai altre responsabilità, ma questa non te la pigliare; lei voleva tornare indietro, ai tempi in cui si lottava per la libertà. Non si rassegnava all’ingiustizia: tua madre era una combattente”.

A Jonny manca la memoria. L’immaginazione fatica a comporre quella figura ritagliata da chissà quale album. Improvvisamente sembra non ci siano più ricordi, né passi da fare insieme.

Giovanni non ha più voglia di parlare.

Non racconta la storia delle armi che lui e Walter avevano nascosto dopo la liberazione nella galleria ferroviaria in ingresso a Lentisco. Non racconta che la linea, dismessa a favore di un doppio binario più a monte, negli anni ‘70 è stata bonificata. Non rivela che le armi non sono state mai ritrovate dietro quell’anfratto vuoto.

Jonny ha attraversato proprio quel tunnel illuminato dai colori del mare tre ore fa e solo ora ricorda come era prima: buio umido e puzzolente. Proprio come la cassa nascosta dietro la parete di sassi e muschio, marcia e pesante di ferri vecchi, caricatori corrosi dalla ruggine, canne otturate. Non chiede dettagli; potrebbe venire a sapere che sua madre si è lasciata cadere da punta piatta proprio un mese dopo il termine dei lavori in quella maledetta galleria.

“Non eravamo certi che tutto fosse finito, dopo quel 25 aprile. Era un tempo strano, non ci fidavamo di nessuno”. Giovanni controlla i passi, per non mettere il piede in fallo tra i sassi e le erbacce. “Era un segreto. Nessuno sapeva, tranne noi tre”.

Il fischio di un intercity, da lontano, si mangia le ultime parole del vecchio.

Sui poggi lungo il sentiero del cimitero nemmeno un papavero; solo sterpaglie bruciate dal vento salato del mare.

Foto di MasterTux da Pixabay

Siamo con voi

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le 22/03/2023 Action et convoi des agriculteurs devant la DDTM de La Rochelle / JA17 , FNSEA 17 et Aquenide 17

di Youth for Climate, France Nature Environnement, Extinction Rebellion, Soulèvements de la Terre

Ci rivolgiamo a tutti gli agricoltori e a tutte le agricoltrici che hanno manifestato la loro rabbia negli ultimi giorni, ma anche e a tutti quelli che ancora esitano a unirsi a loro. Noi, organizzazioni ecologiste, contadine e militanti che da decenni ci battiamo per un diverso modello di agricoltura, condividiamo questa rabbia e rifiutiamo il discorso dominante che vorrebbe fare di noi dei nemici.

Siamo arrabbiati perché sappiamo che la distruzione delle condizioni di vita degli agricoltori/trici e la distruzione degli ecosistemi vanno a beneficio delle stesse persone, che non sono né voi né noi.

Fin dagli inizi dei movimenti ambientalisti, ci siamo sempre mobilitati con determinazione sulla questione del modello agricolo e delle condizioni di lavoro e di vita degli agricoltori. Perché sappiamo che l’agricoltura ha un impatto enorme sull’ambiente: la qualità della terra, dell’aria, dell’acqua, di ciò che mangiamo e, naturalmente del clima, dipendono da ciò che coltiviamo e alleviamo e da come lo facciamo.

Abbiamo lottato contro gli accordi di libero scambio, per la sovranità alimentare e affinché ogni Paese – e ogni agricoltore – possa vivere della propria pratica agricola e mantenerla in vita, invece che sottometterla alla concorrenza internazionale. Abbiamo manifestato a fianco degli agricoltori contro la svendita del mondo agricolo alla finanza, contro il Tafta (con gli Stati Uniti), il Ceta (con il Canada), il Mercosur (con l’America Latina) e ora i trattati di libero scambio con la Nuova Zelanda, il Cile e il Kenya sostenuti da Emmanuel Macron.

 

Il principio di una previdenza sociale del comparto alimentare

Come consumatori e come attivisti, abbiamo sostenuto l’agricoltura contadina, abbiamo creato e promosso le Amap, i canali di distribuzione corti e l’agricoltura biologica, e ci siamo impegnati fino a mettere i nostri risparmi al servizio di nuove aziende. Da tempo chiediamo che in Francia ci sia almeno un milione di agricoltori, e sappiamo quanto sia urgente trovare dei rimpiazzanti, perché tra meno di dieci anni la metà degli agricoltori del Paese andrà in pensione. E anche se questo non basta, migliaia di attivisti ambientali hanno già intrapreso la strada dell’agricoltura per dedicarcisi nel concreto.

È per questo che molti di noi difendono oggi il principio di una previdenza sociale del comparto alimentare, un sistema di solidarietà tra consumatori e produttori che permetta a questi ultimi di vivere dignitosamente del proprio lavoro e di riprendere il controllo sulla nostra alimentazione.

Anche nel campo dell’agricoltura, come in altri, siamo ben consapevoli di tutta l’ambiguità delle normative. Esse possono certo tutelare la salute dei lavoratori, la fertilità della terra, le risorse idriche… ma con finalità lodevoli, a volte impongono vincoli tecnici e pratici e rendono asettica la professione, al punto da portare alla scomparsa delle piccole aziende agricole a vantaggio di chi può raggiungere una dimensione ancora più industriale e indebitarsi ulteriormente. Le normative ambientali non devono essere attaccate indiscriminatamente, ma queste devono piuttosto essere sostenute finanziariamente, in modo da mantenere i redditi e rendere la loro applicazione compatibile con le pratiche agricole.

È per questo che molti di noi hanno sostenuto e proposto senza successo una PAC diversa, che aiuti davvero gli agricoltori alla riconversione, e per non lasciarvi soli a affrontare restrizioni ambientali imposte senza alcuna contropartita e che possano essere applicati in modo pratico ed equo.

Anche – e si potrebbe dire soprattutto – quando ci battiamo contro questo o quel progetto agrario, contro dei megainvasi o degli allevamenti industriali di proporzioni assurde, lo facciamo sistematicamente con gli agricoltori e per gli agricoltori. Perché è ingiusto e ipocrita che pochi agricoltori monopolizzino l’acqua a scapito di chi cerca di produrre diversamente. Perché le fattorie industriali contro le quali ci battiamo distruggono posti di lavoro nel mondo contadino ed esercitano una pressione sleale sui piccoli allevatori, che sono costretti a conformarsi o a chiudere bottega. E tutto questo va a vantaggio dei grandi gruppi, che li spingono verso allevamenti sempre più grandi, per poi acquistare i loro prodotti a prezzi irrisori: questa è la strategia del gruppo Duc, ad esempio, come ha rivelato un’inchiesta.

 

Il fallimento e il dramma di un modello produttivo

Fermare questi progetti significa difendere un modello agricolo che salvaguarda gli organismi viventi, ma soprattutto permette al resto del mondo agricolo di vivere dignitosamente di un lavoro di qualità.

Perché chi c’è dietro il calo del numero di agricoltori/trici in Francia, sceso a meno di 500.000? Chi c’è dietro i suicidi di ogni giorno degli agricoltori, delle montagne di debiti? Dietro agli obblighi di rese sempre più elevate, alla concentrazione sempre più spinta delle terre nelle mani di pochi, ai prezzi sempre più bassi per ciò che producete? Solo nell’ultimo anno i prezzi agricoli sono scesi in media del 10%, mentre l’inflazione si è impennata, così come i profitti dei grandi gruppi agroindustriali e della grande distribuzione.

Questo fallimento e questo dramma sono il frutto di un modello produttivista, sostenuto dalla grande distribuzione e dai governi che si sono succeduti da decenni, contro il quale abbiamo ci battiamo da molto tempo.

Il modello agricolo che sosteniamo mina per l’appunto le cause di queste tragedie. Ma combatte anche contro l’autoritarismo che viene proposto come soluzione, quando l’estrema destra, escludendo invece di unire, non è mai stata dalla parte dei lavoratori.

Siamo da sempre gli alleati dei contadini. E contrariamente a quello che sostengono la propaganda governativa e i discorsi autoritari che fomentano l’odio tra noi, con il fine di arricchirsi sulle spalle delle nostre vite, continueremo a essere vostri alleati, perché è una questione di sopravvivenza.

È quindi in quanto alleati che vi chiediamo di unirvi a noi nelle azioni dei prossimi giorni: per portare questo messaggio e difendere il mondo agricolo.

Saremo presenti con una serie di presidi per parlare con tutti gli agricoltori che lo vorranno, e assieme a voi fare presente che i veri colpevoli della crisi in cui versa la professione non sono né i consumatori né gli ambientalisti, ma la vigliaccheria dei governi che si sono succeduti, della grande distribuzione e dell’agroindustria, che si ingrassano mentre molti di voi si uccidono di lavoro.

Ci rifiutiamo di lasciare che gli industriali possessori di migliaia di ettari di campagna, il governo o gli editorialisti della televisione CNews, ben al calduccio nei loro uffici parigini, ci trattino come la causa della crisi che il mondo agricolo sta soffrendo da tanto tempo.

Noi vogliamo costruire insieme un modello che sia vantaggioso per gli agricoltori, i consumatori e alla vita biologica, come avrebbe dovuto essere da sempre. E saremo in piazza insieme per discuterne e manifestare, perché sì, è possibile battersi per l’ambiente e al contempo per l’agricoltura del futuro.

 

Primi firmatari: Alix Brun per Youth for Climate, Jean-François Deleume, portavoce di Alerte des médecins sur les pesticides, Cyril Dion, regista e scrittore, Simon Duteil e Murielle Guilbert, co-portavoce di Union syndicale Solidaires, Khaled Gaiji, presidente di Friends of the Earth, Antoine Gatet, presidente di France Nature Environnement, Hanzo per Extinction Rebellion, Axel Lopez per la coalizione Résistance aux fermes-usines, Gilbert Mitterrand, presidente della Fondation Danielle-Mitterrand, Lotta Nouki, portavoce di Soulèvements de la Terre, Sandy Olivar Calvo, responsabile della campagna Agricoltura e alimentazione di Greenpeace France, Alessandro Pignocchi, autore di fumetti, Priscille de Poncins, segretaria di Chrétiens unis pour la Terre, Jérémie Suissa, delegata generale di Notre affaire à tous, Emma Tosini, portavoce di Alternatiba, Victor Vauquois, co-coordinatore di Terres de luttes…

(tradotto da DeepL.com e Giacomo Sartori)

 

NdR: questo appello collettivo di importanti organizzazioni e associazioni è apparso sul quotidiano Libération del 27 gennaio. Ci sembra fondamentale, mentre i movimenti degli agricoltori si espandono in molti Paesi europei, dare voce a chi si batte contro una contrapposizione – che giova solo a chi vuole che nulla cambi in agricoltura, e alle destre estreme, retive anche in campo ambientale – tra rivendicazioni del mondo agricole, più che motivate, e chi milita per una transizione agroecologica

(l’immagine è tratta da un filmato di Sud Ouest: 22/03/2023 a La Rochelle)

Les nouveaux réalistes: Pierangelo Consoli

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Il giorno dei morti

di

 Pierangelo Consoli

Il giorno dei morti accompagnavo Alberta al Duomo di San Lorenzo. Per tutta la passeggiata, lungo le strade del centro storico, si teneva aggrappata a me, affondandomi le unghie nel braccio ogni volta che passava una macchina. Camminava quasi con gli occhi chiusi, sforzandosi di non obbedire a qualche fissazione delle sue che ci avrebbe ulteriormente rallentato perché Alberta non sapeva guidare e aveva – tra le altre cose – la malattia del contare. Quando stavamo nel tram, o sul treno, avevo notato che osservava il paesaggio sussurrando la conta a stento trattenuta. Era un verso il suo, come di un pallone che si sgonfia. Non lo avrebbe mai ammesso perché si vergognava ma contava gli alberi, le pietre miliari o le case nei campi. Qualche volta l’avevo persino sorpresa nel tentativo, vano, di evitarlo. Cercava di concentrarsi sulle sue scarpe, sul colore delle unghie o fissando un disegno, una cucitura sulla gonna, ma si vedeva che le costava una fatica insopportabile e, per questo, cedeva, con un senso di vergogna che le arrossava il volto e così ricominciava a contare sperando che nessuno se ne accorgesse.

Un’altra delle sue ossessioni si manifestava lungo i marciapiedi perché non metteva mai i piedi a casaccio e, per tutto il corso di San Lorenzo lastricato di sampietrini sfortunatamente bianchi e neri, se il sinistro di Alberta ne calpestava uno bianco, il destro doveva toccarne  uno nero. Se cominciava con la punta, la marcia doveva necessariamente continuare con il tacco. Era talmente estenuante per lei camminare, che preferiva non uscire affatto. La città la sfiancava perché, inoltre, era ansiosa e disorientata e il contatto con le persone la tramortiva. Stringeva i pugni ogni volta che qualcuno le rivolgeva la parola e sembrava sempre sul punto di mettersi a correre, con le braccia al cielo, se era costretta a stare in fila alle poste o al supermercato e, perciò, si era ritirata. Mi utilizzava, Alberta, per le più disparate faccende come fare la spesa o l’ufficio postale. Ero talmente piccolo che non arrivavo al banco, eppure ero in grado di pagare le bollette della luce e ordinare un chilo di macinato al macellaio sulla salita. Andavo sempre negli stessi posti e mi conoscevano, mi salutavano come una piccola attrazione, io così grazioso, con i capelli a scodella e l’espressione compita, con in mano una bolletta, un foglio scritto, mentre tiravo fuori a fatica i soldi dalla taschina dei pantaloni. Per questo, quando mia madre divenne Alberta, tramutandosi in qualcosa di più collettivo, io non soffrii tanti cambiamenti, almeno per quello che riguardava la gestione delle faccende, perché erano già molti anni che me ne occupavo. Usciva pochissimo, come ho detto, eppure il giorno dei morti restava, nel suo calendario, un rito al quale non poteva rinunciare.

Sugli scalini antistanti il cortile del Duomo, mentre incedeva ossessiva con il piede sinistro avanti al destro, notavo come si mordeva le labbra per la disperazione. Più grande, quando ormai capivo le sfumature del suo disagio, trafitto dalla compassione le accarezzavo la spalla fingendo di non accorgermi di nulla. Dentro la chiesa però, Alberta, si sentiva subito rinfrancata e serena al punto da lasciarmi andare. In quel giorno di commemorazione capivo che se Alberta, mia madre, avesse potuto, sarebbe rimasta lì, mi avrebbe guardato con gli stessi occhi pieni d’amore e di comprensione con cui aveva respinto l’ammiraglio, suo marito, sulla soglia dello studio e mi avrebbe detto: ti voglio bene Arturo, ma adesso devi andare via.

Franavo, ogni volta, sopra una delle panche in fondo alla navata, frustrato dall’estenuante attesa che si consumasse quel noioso rituale che ero costretto a sopportare fin da quando avevo dieci anni, durante il quale Alberta s’inginocchiava a pregare davanti a tutte le statue dei santi. Sapevo che non sarebbero mai sparite, ma lo avevo sperato, avevo pregato, avevo promesso, mi ero svenduto pur di assistere a quel miracolo che, però, non si era avverato. Io confidavo, con tutte le forze, che un giorno Alberta si convertisse ad un ortodosso monoteismo dove un Dio davvero unico, un dittatore dei cieli, non avrebbe avuto bisogno di tutta quella pletora di subordinati. Se così fosse stato, Alberta avrebbe avuto una sola statua da pregare e in meno di un’ora ce ne saremmo andati. Nel duomo di San Lorenzo invece ne comparivano almeno dieci, tra martiri e suore onorate della grazia di questo Dio insicuro, e Alberta di ognuno sapeva la storia. Alla fine penso che nemmeno pregasse, che non si sdilinquisse in comuni litanie ma che ci parlasse, che a ognuno confidasse le stesse paure, la stessa colpa che immaginava di portare e che ci avrebbe distrutto come famiglia e come esseri umani.

A uno sguardo meno attento sembrava una devota come tante, inginocchiata e raccolta in un silenzio usuale, ma io scorgevo la sua bocca che tremava, che sorrideva talvolta o che s’imbronciava, la testa che oscillava nell’asserzione e nella negazione e non sapevo se essere preoccupato, divertito o costernato. Quando si alzava dall’ultimo dei santi, la vedevo dirigersi verso la vergine dei sette pugnali. Si trattava di una singolare statua della Madonna con il velo nero, il cui costato era trafitto dai sette peccati capitali e ai cui piedi stava il Cristo morto con le ferite ancora tutte aperte. Alberta le era estremamente devota. Con questa statua non parlava, al pari delle altre, ma solo ascoltava. Abbassava il capo e taceva. Restava così per dieci o venti minuti durante i quali il suo volto assumeva diverse forme: le guance si scavavano, le labbra scomparivano, gli zigomi sporgevano acuti e la fronte si copriva di rughe. Piccole gocce di sudore freddo e denso le scendevano come lacrime fino al mento. Viveva, Alberta, la sua fede verso questa Madonna con grande trasporto fisico e, alla fine della seduta, era sempre talmente stanca che quasi la dovevo trascinare. Invecchiava di colpo il giorno dei morti come se la Vergine dei sette pugnali, ogni anno, le facesse terribili confidenze che Alberta doveva tenere per sé. Lei si confessava senza prete, alla maniera dei protestanti, ma da queste lunghe ammissioni di colpa non ne non usciva mai alleggerita e mai perdonata. Soffriva ancora e tanto mentre tornava a casa e, dentro il tram, gemeva in preda alla febbre. Superata la soglia della villa, dove si rinchiudeva nello studio, non usciva fino al giorno successivo. Digiunava spesso Alberta, per purificarsi, per punirsi, per non dimenticare. Beveva solo acqua di rubinetto, molta. Si era dimagrata e sotto i polsi esilissimi le spuntarono vene viola e verdi, gonfie e sporgenti.

 

 

Todesfuge

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Fuga di morte

Nero latte dell’alba noi lo beviamo la sera
lo beviamo a mezzogiorno e al mattino lo beviamo la notte
noi beviamo e beviamo
scaviamo una fossa nell’aria là non si sta stretti
Nella casa abita un uomo e gioca con i serpenti e scrive
scrive in Germania quando vien buio i tuoi capelli d’oro Margarete
scrive ed esce davanti a casa e lampeggiano le stelle
chiama con un fischio i suoi segugi
fa uscire con un fischio i suoi ebrei fa scavare una fossa nella terra
ci ordina ora suonate alla danza

Nero latte dell’alba noi ti beviamo la notte
ti beviamo al mattino e a mezzogiorno ti beviamo la sera
noi beviamo e beviamo
Nella casa abita un uomo e gioca con i serpenti e scrive
scrive in Germania quando vien buio i tuoi capelli d’oro Margarete
i tuoi capelli di cenere Sulamith scaviamo una fossa nell’aria là non si sta stretti

Lui grida infilzate più a fondo la terra voialtri e voi cantate e suonate
prende il ferro nella cintura lo brandisce azzurri sono i suoi occhi
infilzate più a fondo le vanghe voialtri e voi continuate a suonare alla danza

Nero latte dell’alba noi ti beviamo la notte
ti beviamo a mezzogiorno e al mattino ti beviamo la sera
noi beviamo e beviamo
nella casa abita un uomo i tuoi capelli d’oro Margarete
i tuoi capelli di cenere Sulamith e gioca con i serpenti

Lui grida suonate più dolce la morte la morte è maestra in Germania
lui grida traete un suono più cupo ai violini salite come fumo nell’aria
poi avrete una fossa nelle nuvole là non si sta stretti

Nero latte dell’alba noi ti beviamo la notte
ti beviamo a mezzogiorno la morte è maestra in Germania
ti beviamo la sera e al mattino beviamo e beviamo
la morte è maestra in Germania azzurri sono i suoi occhi
ti colpisce con palla di piombo ti colpisce preciso
nella casa abita un uomo i tuoi capelli d’oro Margarete
ci aizza contro i segugi ci regala una fossa nell’aria
e gioca con i serpenti e sogna la morte è maestra in Germania

i tuoi capelli d’oro Margarete
i tuoi capelli di cenere Sulamith

(traduzione di Anna Ruchat)

Tre letture per il Giorno della memoria (e non solo)

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Ho letto questi libri in tre fasi della mia vita, e mi hanno aiutato molto. Se ho dentro di me una qualche barriera mentale solida, un qualche argine psicologico all’antisemitismo e al razzismo, lo devo anche a loro.

*

Georg L. Mosse, Il razzismo in Europa. Dalle origini all’Olocausto (Laterza) è un classico. Il razzismo e l’antisemitismo hanno radici culturali che affiorano dai più insospettabili dei terreni. È un libro di storia di una mentalità, e individua e illustra molti alberi genealogici dell’antisemitismo. Non solo da Gobineau a Wagner ai nazisti. Ma anche a sinistra. Illuminanti (purtroppo) le pagine su Proudhon.

[Lo lessi a 17 anni, in terza liceo. Decisi di scrivere una tesina di maturità sull’antisemitismo. La professoressa della commissione d’esame dapprima mise in dubbio che la tesina fosse farina del mio sacco, poi mi diede un cattivo voto perché non la seguivo nella sua impostazione, ossia che la causa dell’aggressione e dell’odio nazisti fosse la “ricchezza” degli ebrei. Ne uscii con le ossa rotte].

*

Hans Jonas, Memorie (il melangolo): questa autobiografia del filosofo tedesco fu raccolta da Rachel Salamander nel 2004, e pubblicata in Italia nel 2008. Hans Jonas, giovane dotto, allievo di Heidegger e Jaspers, compagno di studi di Hanna Arendt, compie il proprio lungo viaggio nella fine di un mondo. L’avvento nazista. Lo sterminio della sua famiglia. Sopravvissuto a tutto questo, Jonas ci spiegherà che dobbiamo darci un’etica biologica, ci insegnerà il Principio di Responsabilità verso il mondo in cui viviamo, che ci contiene e nutre. Ci insegnerà la cultura del rispetto per la vita; non dell’odio o della vendetta. Eppure aveva tutti i diritti all’odio e alla vendetta. L’intera esistenza di Hans Jonas, per me, è un atto di eroismo.

[Letto a 35 anni, alcune pagine piangendo: la morte della madre ad Auschwitz, il ritorno in Germania a casa, solo per trovarla espropriata da nuovi inquilini tedeschi “beneficati” dal regime nazista. È uno di quei volumi che stanno “a parte” sullo scaffale. Sempre a portata di mano e di sguardo].

*

Daniel Vogelmann, Piccola autobiografia di mio padre (Giuntina). L’autore, il figlio, assume la voce del padre e ne racconta la vita in prima persona. Inizia così (e non ditemi che non è bello): “Sono nato su un treno mentre la città bruciava”. Schulim nasce tra le fiamme. In seguito sarà tipografo a Firenze. Deportato ad Auschwitz, si salva. Era nella lista di Schindler. Il figlio Daniel, fondatore della casa editrice Giuntina, ne recupera la vita per raccontarla alle “nipotine” (e poi a tutti noi).

[L’ho trovato pochi anni fa nello stand Giuntina a Più libri più liberi. Ed eccolo a casa con me. Sono molto affezionato a questa casa editrice, sin dagli anni del liceo (vedi sopra), e nella Fiera romana vado sempre a curiosare tra i loro volumi].

L’infinita

4

di Emanuele Muscolino

Ti ricordi quando affiorarono le prime rughe? Gli anni del ciclo originario, la nostra gioventù. Era un monito a farci da parte, a comprare una casa, a pensare ai figli. Fui io a dire di no, innamorato com’ero della scienza e della nostra età.

Non fu solo per questo che ti trascinai nella ricerca con Rutger: da capo progetto dovevo espormi in prima persona e tu ti affidasti senza chiedere, con la promessa che avremmo vissuto altre vite, che sarebbe stato ancora tutto possibile. Il rigeneramento ci diede una seconda opportunità, ma non ti rese di nuovo fertile.

Chang Tyler ha detto che il mio corpo non è pronto, stavolta, mentre per te non si poteva rimandare e allora le ho detto di procedere, che a me avrebbero provveduto poi. Lei stima tra i quindici e i sedici mesi. Mi sembra un tempo infinito.

Mi piaceva il tuo addome franare tra le antiche anche. Ci avevo fatto l’abitudine, di nuovo. Mi ero innamorato dell’odore aspro della tua bocca, della peluria che ti copriva le gote, dei tuoi capelli grigi, dei tuoi piedi ossuti, seppure non eri come la prima, né come la seconda: genotipi identici, fenotipi  difformi. La natura non replica, nuovi schemi emergono dal caos e ci disorientano. Ho conosciuto almeno tre Rachael  diverse − sguardi, voci, pensieri − a cui ho dato lo stesso nome. Così hai fatto anche tu. Ci siamo battezzati ogni volta, cercandoci oltre le ceneri.

Cosa ci ha tenuto insieme? Dopo il primo rigeneramento ci trattarono da reietti. Un giornalista ci chiamò «la storia che non vuole tramontare». A noi, che una vita l’avevamo già vissuta «in un tempo sbagliato» come dicevano loro, il resto del mondo sembrava così immaturo.

Ora che non ti sono accanto, nel cruciale letargo orchestrato da filamenti di RNA, sono solo a scontrarmi con le mie paure da vecchio. Una parte di me vuole andare a occupare il suo posto, secondo natura. E mentre ti vedo ringiovanire nella camera ultrabarica e il nodulo sulla faringe si riassorbe con rapidità insospettabile, quella voce rimbomba: tutto questo è sbagliato.

Ci riconosceremo ancora? Attendo con ansia e orrore domani l’altro, quando i tuoi occhi si apriranno e ci saluteremo: David Betson Mae, Rachael Danzàli Picket.

*

Così sei di nuovo viva. Mi guardo allo specchio, cercando di indovinare chi sono. Per l’emicrania Chang Tyler mi ha dato radici da masticare. Se n’è andata in due giorni. La cosa più sorprendente è stata il tumore, che si era mangiato le corde vocali: è scomparso anche quello e mi è venuta una voce da bambina, un suono a cui dovrò abituarmi.

Sento freddo alle ossa, mi copro di tessuti pesanti, le vecchie lane di mia madre, mentre David se ne sta in maniche di camicia fino a sera. Ha smesso di studiare, mi sembra: passa le giornate a camminare con Van Gogh per le colline della tenuta. Hanno il passo appesantito entrambi, eppure ha detto che non lo sottoporrà a rigeneramento. Con i cani non l’ha mai fatto, non li ha mai considerati degni. Con lui, secondo me, non lo fa perché non sopporta l’idea di abbandonarlo prima del tempo, né la paura di ritrovarlo cambiato. Ci è entrato in simbiosi. Poi se ne va al laboratorio, per abitudine − ormai è tutto in mano a Chang Tyler − e mi sintetizza sogni lucidi nella testa. I suoi suoni, i suoi colori. Troppe memorie. Un modo per starmi vicino, senza il rischio di dovermi toccare.

Facciamo fatica, con David. Mi sforzo di ricucire i fili che ci legano, mentre vago alla ricerca di me stessa. Ma i giorni passano e non riesco a vivere nel ricordo, o nell’attesa. Mi ha detto che gradirebbero averci per qualche tempo sulla Luna: Xin Chengdu, Davappuzzha, le città solari delle società senza bandiera, costruite dalle intelligenze ibride. Mi ha detto  vieni con me nel Rinascimento, andiamo a incontrare la Ex-Gen, i nati lassù. Pensa che mi sentirei meno sola. Che ci sentiremmo meno soli. Ha paura di me. Gli ho detto portami al fiume.

Lunedì ha fatto preparare la quattroruote del nostro primo bacio e ha guidato fino  alla riva.  Il sole bruciava, così mi sono spogliata e mi sono tuffata. David mi ha urlato dove vai, ridendo. Gli ho detto vieni. Aveva freddo. L’ho convinto a entrare in acqua, l’ho stretto tra le braccia e ho schiacciato il mio ventre contro quello avvizzito di lui, spingendogli le labbra sulle rughe del collo. Ho preso il suo odore come un ricordo, ricamandogli «sono io» nell’orecchio. Lui non mi ha sentita, non mi ha creduto. L’ho portato ad asciugarsi. Si è irrigidito. Ha detto che era per il freddo, e per Van Gogh che si mordeva il sedere.

David dice che si tratta solo di tempo: le sue cellule non sono abbastanza usurate per essere sottoposte a rigeneramento. Li avevo visti gli esperimenti sugli under 70: corpi portati a una fase di pre-sviluppo, scheletri adulti con organi bambini, muscoli che saltavano tendendosi su ossa troppo lunghe. I pazienti rimanevano allettati, immobili, imbottiti di antidolorifici, implorando per una soluzione che non c’era. Alla fine accettavano l’iniezione.

David ne uscì pulito, ma per superare il trauma impiegò anni. Si rimise a studiare con Rutger Kampf, il suo studente  brillante, e dopo quarant’anni di esperimenti e ricerche si propose come cavia. Lo seguii senza titubare. Non c’era altra via: se doveva morire, sarei morta con lui. Non morimmo, se così si può dire. Ma poche settimane dopo il nostro risveglio scoppiò la guerra, il progetto non fu rifinanziato e noi rimanemmo gli unici rigenerati sul pianeta.

Alla solitudine si accompagnò l’amarezza per la mia sterilità. Adottammo Marco, Karim e Hashim, tre orfani arrivati al centro profughi dove prestavo servizio. Vissero le loro vite, fino in fondo, ma i loro DNA non erano adatti al rigeneramento. Un curioso scherzo del destino. Decisi che non l’avrei fatto neanche io, quando sarebbe arrivata l’ora. David, invece, illuminato, o egoista, andò dritto per la sua strada, e dopo mesi di lotte e di lacrime, ancora una volta, mi convinse a seguirlo. Li seppellimmo all’inizio del nostro terzo ciclo. Per l’anagrafe potevamo essere i loro bisnonni; a vederci in faccia sembravamo i loro nipoti.

Mentre guardo David prendersi cura di Van Gogh, portarlo a spasso, lavarlo, mi sembra di vederlo affondare, lui che non si è mai fermato. Sembra si sia deciso a rimanermi accanto come un fantasma, per tutti i mesi che ci separano dalla sua terza rinascita. E nel frattempo, con occhi accomodanti, a volte odiosi, commiserabili,  ripete che non è colpa mia.

*

«La tua preoccupazione è comprensibile, David, ma, lasciami dire, transitoria. Ti trovi in un periodo depressivo, legato alla senilità; vedi l’orizzonte rimpicciolirsi e questo non ti aiuta a mantenere una visione globale. Tra un anno la penserai diversamente».

«Hai ragione, Chang. Come arrivarci, però, a quel momento?»

«Il tuo corpo si avvicina alla scadenza genetica e nutre la tua mente di fastidio, inadeguatezza, dolore. È l’uno che guida l’altra,  e non viceversa. Accettalo e siine consapevole».

«Non sono più sicuro che siano due cose separate,  la mia mente e il mio corpo. Come è offuscata la prima, così è stordito il secondo. Non ho più voglia di cambiare, Chang».

«Posso comprenderlo, pur non possedendo, di fatto, né l’una né l’altro. Ma ti invito a riflettere sul paradosso che hai espresso: l’idea di abbandonarti alla caducità del corpo è emersa solo grazie al suo superamento, che hai operato  molti anni or sono. Mi dispiace non poter esserti più d’aiuto, David, ma la scelta, come sai, spetta  solo a te».

*

Ho ragionato a lungo sulle parole di Chang, ma non sono riuscito a trarne nutrimento. Il mio corpo mi sta trascinando in acque senza corrente, dove né io né il gene che mi abita abbiamo un futuro, proprio come Van Gogh, il mio nuovo maestro, che all’ombra del suo pelo comprende il mondo meglio di me.

Se il mio corpo fosse stato pronto, prima che il tumore di Rachael esplodesse, mi sarei sottoposto al rigeneramento assieme a lei, e oggi sarei ancora florido, curioso di scoprire la donna che ho accanto, e la vita di prima, o una nuova, avrebbe continuato a scorrere. Invece non riesco a capacitarmi che il tempo, che ho sempre governato, mi stia giocando questo scherzo. Forse, quando sarà il momento, dirò a Chang di lanciare un dado e di decidere per me: che il caos faccia ancora la sua parte.

*

Ho conosciuto Jarom. Viene a correre  tutti i giorni nel parco della tenuta. Si ferma  nell’area attrezzi, dove non va più nessuno, e si allena per un’ora. Mi sono messa a guardarlo e i suoi occhi mi hanno rivolto la parola. Ho risposto con quella voce da bambina che non riesco ad accettare. Sembra essergli piaciuta.

Frequentare Jarom potrebbe essere una via, da qui al rigeneramento di David. Lui non ne risentirebbe: da giorni ha smesso di chiedermi cosa faccio e non parliamo più del tempo che manca, né di quello che ci separa. Ma lo supereremo, come abbiamo superato il resto.

Abbiamo scopato dietro i cespugli: odore di paprika e di rosmarino, Jarom. Ho cercato il fondo dei suoi occhi, senza trovarlo. Sono quelli del primo ciclo, di un vergine. Lo sospettavo.  Ci siamo visti tutti i giorni, dopo la corsa. L’ultima volta mi ha piantato le pupille addosso e mi ha detto che quando rimarrò incinta andrò a stare da lui. È stato bello sentirglielo dire. Non ha idea di chi io sia, della mia condizione, né dell’uomo a cui sono legata.

Immaginare la vita senza David era impossibile, ma ora appartengo all’odore di Jarom, alle sue gambe forti, al profumo immacolato del suo petto. La vecchia me nutre la nuova dei suoi resti, mentre scompare in tracce sbiadite, che solo di rado chiedono giustizia. Sogno ancora di Karim, di Marco, di Hashim, e del vecchio David, cercando di dimenticarli.

Ho avuto nausee e giramenti di testa negli ultimi giorni; pensavo fossero legati a un rigetto del condizionamento. Era prevedibile : alla fine del terzo ciclo, seppur malato, il mio corpo era  ancora giovane. Chang Tyler invece ha detto che è tutto a posto. E che sono incinta, di una bambina. Non se ne capacitava. Ha detto che la peculiarità di noi umani risiede nel paradosso. E che provava invidia. Di tutte le trasformazioni che il mio corpo ha subito, ho pensato, questa è stata di gran lunga la più inattesa.

Ho incontrato David per parlargli,  ma non ce n’è stato bisogno: sembrava già sapere.  Mi ha stretta, sciogliendosi in una fontana di lacrime, tutte quelle che non ha mai versato. Non penso fosse per il tradimento, né perché  stava perdendo un pezzo di sé. Piangeva perché la sua scienza aveva fallito. Il gene egoista aveva vinto ancora. Vedendolo così, nudo, ho pensato che avrei potuto amarlo,  che sarebbe stato ancora tutto possibile, che avremmo potuto essere una famiglia, e la bambina mia e di Jarom sarebbe potuta essere la nostra, e sarebbe cresciuta  sui clivi della tenuta, o nelle città solari lontano da qui, e  che ci saremmo rigenerati senza posa, come aveva sempre sognato, come una famiglia infinita. Ho preso le poche cose a cui tenevo e gli ho detto addio.

Ho raggiunto Jarom con uno zaino e una borsa. Abbiamo fatto l’amore sul lettino del suo monolocale, oltre la cinta magnetica della quinta conurbazione, in un dedalo di case sospese che non avevo mai visto. Mi ha preparato  un infuso di bacche rosse e mi ha dato  le sue maglie: avevano l’odore del resto della casa, il suo odore, quello che sarà di nostra figlia. Ho giurato a me stessa  che non mi rigenererò più, che lascerò questo mondo prima della creatura che porto in grembo, il frutto di due uomini molto diversi tra loro e di una donna che non ricorda quasi più nulla del suo lunghissimo passato.

Con sale di rabbia

3

 

«O la resurrezione delle stelle, o la morte universale!»

Auguste Blanqui,  L’eternità viene dagli astri

 

Parla l’Asino:

 

«Oggi che la pace è        grattata fino

al fondo,      celebro l’ora dei morti

che fecero la rivoluzione

mancandola.

 

Io non li capisco, non li capisco,

ma porto        anche il loro peso.

Porto il peso     di tutte le rivolte

e il duro castigo.

 

Quale battaglia assolve se stessa?

 

L’assalto    è senza glosse.

Svuota la cupola del cielo.

Per tutti spranga la quiete

con sale di rabbia.

 

Non esiste       indulgenza plenaria.

Chi ha torto    ha ragione  ha torto.

 

La via lattea dei ribellatori splende

per un attimo          e poi s’annera.

Allora li senti gridare:

 

“Come parleremo

dal buio didentro?

Chi    ci ascolterà?”

 

Ecco perché conservo le loro parole.

M’attacco all’impervio,         al secco,

all’osso che perfora il chiuso del mio

credo.

Fino al prossimo incontro.

 

Volpe: quando la campana del ghiaccio

scioglierà l’estremo rintocco,

e anche l’ultima

delle quindici candele

finirà per spegnersi,

oltre la notte

ci incontreremo,

vedrai:

oltre la lunga notte.»

 

 

***

 

Opera grafica di Giuditta Chiaraluce

La perfezione dell’acqua

0

di Barbara Guazzini

F. ha dei baffetti sparati sulle labbra secche per la tramontana di passeggiate uguali, fatte apposta per stancarla in vista della notte. Mentre ci parlo li osservo – prima non ce li aveva – e immagino di poterla far tornare quella di qualche anno fa con un passata di cera e uno strappo veloce.

Siamo io e lei, sedute sul divano di sala, fronte finestra; fuori c’è tanta luce bianca, forse troppa per gli occhi abituati all’inverno, infatti F. li protegge con la mano aperta.

«Come sta la tua mamma?» domanda.

«Tutto normale… Ha il solito problema alle ginocchia.»

«Eh sì, le ginocchia…» ripete lei, e sembra che stia mandando tutto a memoria.

Il frigo di F. ha la chiusura salvabimbo, anche se di bimbi in casa non ce ne sono più. Si alza incerta, prova ad aprirlo ‒ non so per fare cosa, visto che ormai ha perso ogni potere su cibo e fornelli ‒ non ci riesce, desiste, torna a sedersi accanto a me.

«Il lavoro? Non sei andata?» chiede.

«Oggi è natalino, ieri era il venticinque. Sei stata da tuo figlio Fabio, con Annina e gli altri.»

«Sì, diamine, ieri ero lì. Elena dov’è?»

«A Roma, da sua madre.»

«Sì, sì, è a Roma», e sbadiglia portando entrambe le mani al viso.

F. la notte non dorme. Nella stanza buia si mette seduta sulla poltrona reclinabile, accanto al letto, e aspetta quieta che diventi giorno. Altre volte va in bagno a pettinarsi, indossa una collana di perle di plastica, e con la matita nera disegna delle sopracciglia strambe sull’arcata ormai spelata; si prepara per uscire, anche se non sono nemmeno le tre, e fuori il sole “non è ancora tornato” ‒ così dice lei. La badante ha avuto l’idea di riprenderla nei suoi momenti di ribellione al sonno, e ci manda i video. La figura che si vede non è F., è un automa sperso che prova ad agganciare il tempo degli altri ma si inceppa a ogni passo. Ed è una tale violenza certificarne lo smarrimento che a Maria abbiamo detto Basta video, ti crediamo sulla parola, per favore. Di giorno, poi, se a F. domandi se ha dormito, lei risponde che ha fatto una tirata fino a mattino.

«Mamma tua?» chiede.

«Tutto a posto, ti saluta.»

«Lui dov’è?»

«Maurizio?»

«Lui» ripete. Sono mesi che ha smesso di pronunciare il nome di suo figlio, come se le rimanesse ogni volta intrappolato in punta di lingua. Io glielo ripeto tutte le volte che posso.

«Maurizio è ad accompagnare Maria a casa, oggi è il suo giorno libero. Torna presto.»

«Ah, quella che sta qui.» È così che chiama la badante ‒ Quella che sta qui ‒ e sembra accettarne la presenza nella sua casa senza volerne sapere il motivo, come se fosse una pianta o un soprammobile che si è trovata lì.

La smania di aggiustare la posizione seduta le è passata. Adesso è tranquilla, guarda il fuori, mi chiede dove sia andato il vento, ora che ha smesso di soffrire. Io sono tesa e cerco di riempire a parole ogni vuoto, le rispondo che il vento sta bene, che tornerà. Lei sembra convinta e tace quieta finché, dal nulla, inizia a raccontare di un maschietto che andava sul trattore quando lei abitava nelle campagne di Sovana e la mandavano a parare gli animali al pascolo, anche se era una bambina. Io annuisco spesso, lei sorride a ogni mio cenno del capo. Poi mi chiede della nipote: «Elena dov’è?», e del figlio: «Lui quando torna?», e io rispondo di nuovo, domando il tono della voce per fare finta che sia la prima volta che me lo chiede e la prima che io rispondo.

 

Appena arriva Maurizio, usciamo. F. ha le cerniere delle giacche che si rompono di continuo, e anche i bottoni saltano un po’ sì, un po’ no. Ogni volta che prova a chiudere la giacca e le dita incespicano, si mette a piangere, così ci affrettiamo a farlo prima di lei. Appena fuori, ci prende sotto braccio, inizia a camminare spedita e tocca frenarla, ché se ricade come l’anno scorso son dolori. L’anestesia instupidisce che è una bellezza, per riprendere il filo del discorso ha avuto bisogno di mesi e della badante h ventiquattro.

«Chi c’era ieri da Fabio?» le domanda Maurizio – lui è convinto che a farla ripensare alle cose, non le dimenticherà.

«E chi c’è andata? Era a lavoro!» risponde lei.

«Cosa dici, mamma? Ieri era Natale e tu eri da lui.»

«No che non c’ero. Ero qui, ho cotto la pasta con l’olio.» Certe volte, F., per non dover ammettere che non ricorda inventa fatti e situazioni, e le si storce l’umore se tu provi a scombinarle quel poco di passato che tesse a fatica. Maurizio fa per insistere ‒ crede che serva a qualcosa ‒ io gli lancio un’occhiataccia di sbieco per dire Ora basta.

«Ma era da lui» dice, col tono soffiato di chi vorrebbe reagire a un rimprovero che reputa ingiusto.

Lui parla di F. quando F. è presente, e io non so se lei lo capisce ‒ anzi: credo proprio di no ‒ ma a me dà lo stesso fastidio, allora mi volto dall’altra parte, così lui smette.

F. osserva le ringhiere e i cancelli che troviamo per strada. Sembra che li riconosca tutti, o per lo meno ha qualcosa da dire su ognuno.

«Questa ringhiera è nuova.»

«A te sembra sempre tutto nuovo, mamma» dice Maurizio, con un sorriso gonfio del bene che un figlio può. Io guardo la ringhiera sbollata e penso che, in fondo, deve essere bello vedere tutto nuovo, e anche brutto non affezionarsi più a niente.

D’un tratto F. si mette a ridere ‒ uno scoppio che non ci aspettiamo; si scioglie dalla nostra catena di braccia sotto le braccia, e indica col dito una stella un po’ sbilenca al centro di un filo della luminaria natalizia, che attraversa la strada da parte a parte.

«Guardate, la stella polare!» dice a stento, mentre ancora ride come se l’unica cosa che la muova sia quella stella di metallo spenta. Ridiamo anche noi, e siamo finalmente tutti e tre uguali.

«Sono le luci di Natale, ti piacciono?» le chiedo.

«Perché? È Natale?» domanda lei.

«È stato ieri…» rispondo, ma sono tentata di dirle che oggi è Natale.

«Nooo! Me lo sono persooo!» dice lei, e fa la faccia da morto in casa.

«Lo hai festeggiato da Fabio, e siete stati bene» le dice Maurizio, alla svelta, come per soccorrerla prima che cada.

«Certo, sono stata bene», e torna il sereno. «Proprio bene.»

F. ha il fiato grosso. Si porta la mano al colletto del giaccone, prova ad allentare. «È freddo, ti ammali» dice Maurizio mentre allontana le mani e gliele accompagna fino dentro alle tasche.

«Sei stanca?» domando.

«Voglio arrivare al blu» risponde risoluta e il suo respiro sembra tornare nei ranghi.

Il tratto di strada che percorriamo è una linea che scorre dritta con il mare sul finale. Lo si intravede nello spazio che i palazzinari degli anni cinquanta hanno lasciato tra uno stabilimento in muratura e l’altro. F. non distoglie mai lo sguardo da quel tratto orizzontale colorato, appoggiato sul nero dell’asfalto nuovo, tanto che Maurizio di continuo richiama la sua attenzione ai rigonfiamenti dei lastroni del marciapiede, spinti dalle radici dei pini.

«Te lo ricordi il negozio di Tina? Stava là, sulla destra, appena dopo il bar» domanda Maurizio, e la osserva in attesa che lei gli rimandi un ricordo. F., invece, non risponde, sta guardando a sinistra, insiste qualche secondo ma poi è di nuovo sul mare.

«A inizio estate mi ci comprava le formine per la sabbia» dice lui, rivolto a me, come se adesso anche F. fosse solo il ricordo di un piccolo bazar estivo chiuso da tempo.

La rena graffia sotto le scarpe via via che ci avviciniamo al lido, «Attenzione, si scivola» raccomanda Maurizio, e in effetti i piedi di F. fanno un paio di svirgolate. «Tienila meglio, sotto il braccio» dico piano. Lui sembra non aver sentito, credo stia inseguendo un altro ricordo, eppure lo tiene per sé.

«Dove siamo?» domanda F. Lui abbassa gli occhi, scuote la testa: «Abbiamo fatto questa strada per anni, dalla fine della scuola fino a che il tempo non peggiorava».

Restiamo in silenzio, non ci guardiamo.

L’accesso al mare è in leggera discesa, ci sono pochi scalini bassi accanto a uno scivolo breve in cemento. F. si ferma a un passo dalla sabbia. Con un braccio si appoggia al muretto di mattoni rossi smangiucchiati dalla salsedine, fa per abbassarsi.

«Lèvale, sennò me la porti in casa» dice indicando le scarpe del figlio, con un tono sicuro che deve essere stato il suo quando lui era un bambino ansioso di correre a fare il bagno. Accenna a piegarsi in avanti col busto: «Faccio io» le dico.

«Ma è freddo» ribatte lui. Io alzo le spalle, mi chino a slacciare lo stretch delle scarpe di F., le tolgo anche le calze di lana di un bianco cotto. Maurizio esita per qualche secondo, poi fa lo stesso.

I nostri passi affondano nella sabbia docile per un tratto di alcune decine di metri, finché la superficie dell’arenile si fa compatta e umida. F. ormai si è slegata dalla presa del figlio – ha insistito perché la lasciasse libera. Io mi fermo; loro proseguono fino a farsi toccare i piedi dall’acqua che avanza e si ritrae con la loro stessa lentezza. F. inizia a ridere, lui la osserva per capire, non ci riesce, rimane immobile in attesa.

«Mauri’» dice F., indicando il mulinello che il mare fa intorno a un sasso che poi la risacca lascia scoperto. Maurizio fa un sorriso largo, si volta subito verso di me, annuisce tante volte a dire Ehi, hai sentito? Io alzo indice e anulare e gli sorrido allo stesso modo.

F. lo prende per mano, fa qualche passo in avanti, poi piega il busto, sembra voler arrivare a toccare il filo dell’acqua. Lui procede al suo fianco; entrambi hanno i pantaloni bagnati che aderiscono alle caviglie ma nessuno dei due sembra farci caso.

«Lo fai il bagno?» gli domanda F.

Lui si volta verso di me, è ancora felice ma si vede che non sa come rispondere.

«Magari fra un po’», e la aiuta a riprendere la posizione eretta.

F. annuisce. Con le dita che hanno assaggiato il mare gli tocca la guancia: «Mauri’, oggi l’acqua è perfetta».

Foto di lea hope bonzer da Pixabay

Manca la città

1

di Leonello Ruberto

Semplicemente non c’era la città. Tutto qui, non c’erano marciapiedi, strade, palazzi.

Non c’erano punti di riferimento, avevo solo un fuoristrada che non ricordavo più in che occasione avevo acquistato, e il navigatore con le coordinate del lavoro impostate dal giorno precedente.

Ogni mattina andavo al lavoro in macchina seguendo una linea blu su uno sfondo verde e facevo su e giù per i campi ondulati, che non sapevo nemmeno se chiamare campi, visto che non erano coltivati. Non erano curati ma ci si poteva camminare, non ci cresceva molto spontaneamente.

Il posto di lavoro non era un vero palazzo o forse lo era, uscivo dalla macchina parcheggiata, probabilmente tra altre macchine o lo davo per scontato con la mia immaginazione, a testa bassa per non farmi bruciare gli occhi dal sole e subito ero dentro.

L’ufficio era come uno dei tanti uffici che avevo frequentato nella mia vita. E anche il ritorno a casa era il ritorno che facevo tutti i giorni.

Mi mancava la città in cui avevo vissuto un tempo, magari troppo brevemente. Ma ormai ero tornato dove ero sempre stato, che non essendo una città non aveva nemmeno un aeroporto né una stazione ovviamente, per  cui era complicato allontanarsi sul serio. E poi l’avevo già fatto in qualche modo e se non era andata bene un motivo doveva esserci.

Ogni tanto mi lamentavo con un collega che qui non c’era una biblioteca e non potevo prendere il tram, ma quello mi guardava strano e lasciavo perdere.

Avevo anche ritrovato degli amici di gioventù, mi aveva fatto piacere rivederli, ci vedevamo ogni settimana per giocare a carambola, avevo avuto qualche difficoltà ad arrivare al locale attraverso i campi tutti uguali. Loro che si orientavano da anni a istinto non potevano capire, e mi avevano anche preso un po’ in giro per le mie perplessità, proprio come avrebbero fatto ai vecchi tempi solo che ora era diverso.

Ogni tanto di notte pensavo che mi mancava la città e il suo rumore, che non era di automobili perché quelle c’erano anche qui.

Era di automobili e di tutto il resto, di gente che camminava per le strade. La gente si sentiva anche qui, ma non era la gente di città che passava: erano i vicini noti che andavano e venivano e soprattutto stavano nei loro giardini che presumevano anche delle case a ridosso.

Mi addormentavo cercando di cacciare certe fissazioni, che tanto altrove non mi sarei trovato meglio lo stesso che tutto il mondo è paese.

Gli elefanti della colonia

1

di Mario Temporale

Un giorno qualcuno decise che si sarebbero trasferiti. Il bambino aveva ormai cinque anni, ma non sapeva chi avesse deciso di lasciare l’osteria e spostarsi in un altro villaggio, in una nuova casa, senza l’osteria. L’avevano deciso i grandi, e questo bastava. Nessuno avrebbe più chiesto la domanda appesa al centro della parete, tra gli amari e i liquori, e la grappa sulla destra. Il bambino attendeva il suo destino, in silenzio, come aveva sempre fatto. Ci saranno scale nella nuova casa? si chiedeva. Ci saranno angoli bui o forse li avranno eliminati nella casa nuova? (voleva credere che fosse una casa nuova nuova quella in cui si sarebbero trasferiti).

Quell’estate, quella del trasloco, venne mandato “in colonia”; alla colonia marina. Anche il soggiorno al mare era una decisione dei grandi. Il mare fa bene ai bambini. Soprattutto i bambini pallidi, dalla pelle chiara, hanno bisogno di sole e dell’aria di mare. L’aria di mare fa miracoli, e l’acqua salata del mare fa bene ai bambini timidi e spaesati. Ci andava da solo, non c’erano fratelli, cugini, amici o figli di amici a condividere con lui l’esperienza. Si sarebbe divertito, tutti si divertono al mare.

La colonia marina era un palazzo grande vicino alla spiaggia circondato da alti pini magri, con molte finestre e corridoi, e scale larghe che si allungavano di lato e continuavano a salire verso altri corridoi e ancora finestre.

Il bambino aveva un letto accanto ad altri letti in uno stanzone che gli sembrava un capannone. Il soffitto era alto, il bambino si chiedeva come facevano a sostituire le lampadine in un soffitto così alto. Che scale usavano? Le finestre erano lunghe forse il doppio di quelle della casa sopra l’osteria, e larghe anche il doppio.

La sera, mentre le suore sollecitavano i bambini ad andare a letto, gli scuri venivano chiusi e le finestre diventavano delle statue buie alte fredde. Il bambino si infilava sotto le coperte, perché così gli avevano detto di fare, anche se non aveva sonno. Non si nascondeva del tutto sotto le coperte, come faceva nella stanza sopra l’osteria, ma teneva la testa fuori per controllare che le statue fredde e alte non si trasformassero in elefanti. Gli elefanti erano animali buoni, ma erano anche enormi, e se si spostavano potevano schiacciare tutto senza accorgersene. Magari ci rimanevano pure male, di aver schiacciato tutto, ma con quelle zampe grosse lunghe lunghe era difficile per loro capire cosa calpestavano.

Il bambino pensava che gli elefanti avrebbero schiacciato il suo letto per primo, perché era il più vicino alla finestra, tra quelli della sua fila. Per questo non dormiva.

Non sapeva se gli altri bambini pensavano agli elefanti. Non conosceva nessuno. Però il bambino aveva imparato il suo numero, e lo sapeva a memoria: 2541. Era cucito in rosso in tutti i suoi vestiti, negli asciugamani, i fazzoletti, il cappellino, la borsa; ogni cosa doveva avere il suo numero cucito sopra, era la regola. Il numero gli faceva pensare alla mamma, perché l’aveva vista seduta alla macchina da cucire passando pezzo per pezzo quello che avrebbe messo in valigia per lui.

Il bambino aveva appreso le regole della colonia, forse non tutte, ma quelle principali sì. Se aveva bisogno di qualcosa, un paio di mutande o una maglietta, doveva recarsi al pianoterra, in un magazzino con un bancone, e mostrare il suo numero. Qui raccoglieva anche i suoi indumenti dopo che erano stati lavati. Se voleva comunicare con i genitori il telefono non era d’aiuto, perché nella casa nuova, a differenze dell’osteria, il telefono non c’era. Per le emergenze, a patto che accadesse qualcosa di così grave che le suore considerassero un’emergenza, si sarebbe telefonato al sig. G., che aveva il telefono perché aveva comprato la casa dell’ex sindaco, morto di un male che non si può nominare, morto giovane come tutti quelli che muoiono del male che non si può nominare. L’ex sindaco era uno dei pochi in paese ad avere il telefono in casa.

Quanto durava la colonia? Il tempo sembrava non passare più e il bambino si chiedeva perché si trovasse in quel luogo, perché l’avessero portato al mare senza chiedergli se aveva voglia di andarci. Non si era ancora del tutto abituato all’osteria, con le scale ripide e lunghe, e tutti quegli angoli bui, ed ora la casa nuova, e perfino la colonia! Non si era ancora abituato all’osteria, ma almeno lì c’erano i genitori. Erano sempre occupati, ma almeno c’erano. Gli adulti.

In colonia gli adulti erano individui lontani come i loro abiti: insoliti e scomodi. Le donne erano suore, e gli uomini, non c’erano uomini a parte il bagnino che indossava sempre la canottiera e le braghe corte anche nei giorni di pioggia.

Il bambino giocava con le biglie e quando era fortunato trovava un altro bambino con cui giocare. Le biglie erano colorate e perfettamente tonde. Erano anche perfettamente trasparenti e al centro c’erano delle piccole foglie rosse o blu o gialle o di altri colori. Forse non erano foglie, perché non esistono foglie dai colori così vivaci, per di più infilate in mezzo al vetro, ma cos’altro potevano essere? A chi poteva chiedere se fossero foglie oppure no? Chi lo sapeva?

Della colonia il bambino conosceva soprattutto lo stanzone con i letti e le finestre giganti che di notte si trasformavano in statue e poi in elefanti. Del tempo passato in spiaggia non ricordava molto. Era noioso. I bambini che si conoscevano tra di loro organizzavano giochi con la palla, oppure con la sabbia. Sembravano divertirsi. Ma i bambini più piccoli, quelli che non avevano cominciato le scuole, erano trattati da piccoli e lasciati in disparte. Era giusto così. I grandi decidono perché sono grandi abbastanza per decidere. I piccoli magari correvano verso il mare ma le signorine che aiutavano le suore li richiamavano indietro se li vedevano correre troppo o con troppo entusiasmo. Le signorine non erano suore ma avevano lo stesso timore per le emozioni delle suore. Forse sarebbero diventate delle suore anche loro. Ma perché i bambini venivano lasciati alle signorine che non avevano figli, e alle suore, che figli non ne volevano avere?

Spesso il bambino voleva piangere, ma si tratteneva perché non era giusto piangere. Agli adulti, soprattutto alle suore, non piaceva vedere piangere. Cristo in croce non piangeva, sentì dire una suora a un bambino che non aveva ancora imparato a controllarsi. E se non piangeva Gesù con quei chiodi conficcati nelle mani e nei piedi e una corona di spine in testa, perché dovrebbe piangere un bambino che aveva la fortuna di essere al mare, tutto pagato, e il cibo caldo e la merenda e le lenzuola pulite quando serviva.

Il bambino non era convinto che Cristo in croce non avesse pianto perché ricordava un grande dipinto nella basilica di S.V. dove il viso di Cristo, Gesù, il figlio del signore, il salvatore, il messia, la particola umana, proprio lui, era segnato da una riga in rilievo, una riga rossastra. Era una lacrima di sangue? Era una di quelle domande che il bambino non osava chiedere a nessuno, e finiva archiviata insieme a tante altre destinate ad un futuro in cui tutte le domande avrebbero avuto risposta.

Però quella domenica che vennero a trovarlo non riuscì a controllarsi. Pianse per la gioia di rivedere i genitori. E pianse appena salì sull’auto per andare a mangiare un gelato in centro, ma questa volta perché avevano lasciato le sue cose alla colonia e quindi capì che non lo avrebbero riportato a casa con loro. Pianse anche con il gelato in mano perché voleva una spiegazione e non osava chiederla, e il gelato si sciolse più velocemente per colpa delle lacrime che vi cadevano sopra.

Quando vide la macchina allontanarsi dalla colonia non pianse più. Le guance erano rosse, rigate di lacrime rinsecchite. Ma non erano di sangue, perché si era toccato il viso e aveva guardato il dito, non era sangue. Però facevano male lo stesso, anche se non erano di sangue. Gli occhi erano lucidi e spalancati sul vuoto. Il respiro da affannato e rumoroso si era improvvisamente inceppato. La paura delle scale e degli angoli bui era nulla al confronto di quello che provava in quel momento.

Fissò l’auto dei genitori allontanarsi senza di lui, finché la sagoma del mostro giallo metallico uscì dallo sguardo.

Foto di Peter H da Pixabay

Ci vogliono poveri, Momar

2

di Romano A. Fiocchi

Andrea Pagani e Alex Moustapha Sarr,
All’orizzonte finisce la terra. Le avventure di Momar Seye, Tempo al Libro, 2022

Andrea Pagani e Alex Moustapha Sarr hanno scritto un libro bellissimo. Bellissimo perché composto a quattro mani: due italiane e due italo-senegalesi. Bellissimo perché il valore del progetto, portato avanti con quindici anni di stesure e di collaborazioni, va comunque al di là del risultato. Bellissimo, infine, perché ne è uscito un testo scritto con leggerezza, di godibile lettura ma intriso di impegno sociale, che si apre con l’aspetto di un reportage per poi rivelarsi un vero romanzo di fantasia, o quasi. Anche un romanzo di formazione, se vogliamo. Evidentemente la scelta della forma ‘romanzo’ e la collaborazione di due autori dalle origini culturali differenti è la formula ideale per coniugare caratteristiche altrimenti in contrasto tra loro, come ad esempio il rigore della ricostruzione storica degli anni Settanta – periodo in cui si svolge la vicenda – con la semplicità quasi primordiale del linguaggio, l’effetto per noi esotico di cibi e bevande come il Pastel fritto, i bicchieri di Bissap, i piatti speziati di Yassa Poulet e di Maffé, con gli squarci nostalgici e autobiografici dei paesaggi e dei profumi del Senegal. Ecco, odori e profumi sono fortemente presenti, tanto che si potrebbe definire una scrittura olfattiva. Ma quello che inizialmente sembra il diario di un migrante romantico, che lascia la propria terra spinto dal desiderio di raggiungere a Parigi la ragazza di cui è innamorato, si trasforma ben presto in un libro di denuncia e in un grido di dolore dei paesi africani. Ed è questo il suo vero significato. A lanciare in prima persona questo grido all’interno del libro è la bella Aby, con parole che lasciano allibito il giovanissimo Momar:

«Momar, apri gli occhi. La crisi del nostro paese non è solo per la siccità».
«E per cosa?» la incalzo.
«Ci vogliono poveri, Momar. Ci lasciano poveri».
«Ma di chi parli? Non capisco».
«Del nostro governo. Dei governi dei paesi ricchi. I paesi europei come la Francia. E l’America. Gli facciamo comodo, se restiamo poveri».

Entriamo più nel merito della struttura. Il romanzo è diviso in cinque parti, o meglio in cinque elementi che rappresentano simbolicamente le tematiche del libro: Etere, Fuoco, Aria, Terra, Acqua. L’elemento “Etere” è una sorta di premessa dove il lettore impara a conoscere Momar Seye, misto di ingenuità, generosità, irruenza e vitalità incontenibile. Una sorta di Zorba trasferito dalla Grecia al Senegal. Con una visione della felicità non dissimile da quella del celebre personaggio di Kazantzakis: «La felicità – dice Momar – è accontentarsi, godere ogni giorno di cose semplici, delle povere cose della natura, un tramonto, un pezzo di pane, un piatto di Pastel, un boccale di birra, il sole, l’acqua, l’odore del porto». Attorno a Momar si muove tutta una corte dei miracoli senegalese, variopinta e un po’ grottesca. Come l’avventuroso Babacar, spaccone e mito dei più giovani, il buon Meut, con la passione di sintonizzare la sua radio sulle frequenze italiane, Mère Daba, madre di Aby, sino a tutti quei personaggi che appariranno e scompariranno come fantasmi nelle tappe successive del suo viaggio: Mohamed, i tuareg del Mali, Adam Demel, Abdulaye, Khady Sow, e così via.

Con l’elemento “Fuoco” inizia l’incredibile viaggio di Momar: in treno da Dakar all’orrenda Bamako, in Mali, poi Mopti, Dovenza, Gao, Kidal, con i più disparati mezzi di trasporto. Infine Djanet, in Algeria, ultimo avamposto prima del deserto, da attraversare a piedi con il solo aiuto di una guida, l’ivoriano Adam Demel. “Aria” si apre con l’arrivo a Ghat, nella Libia di Gheddafi, poi Sebha, Tripoli, incorrendo in arresti, detenzioni e persino torture, per poi riuscire a salire su un volo verso Parigi. È dunque a Parigi (elemento “Terra”) che Momar prende coscienza della realtà delle cose: il Senegal, il suo Senegal, come tutti i paesi africani deve sottostare alle condizioni dei paesi ricchi, ossia europei e americani. È una nuova forma di schiavitù, non più esercitata con la forza militare ma attraverso un imperialismo sottile, con accordi tra capi di stato. Addirittura con l’imposizione di una moneta emessa dalla stessa Francia, il CFA, che a tutt’oggi condiziona ancora quattordici paesi: Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Guinea-Bissau, Mali, Niger, Senegal, Togo, ossia l’Unione economica e monetaria ovest-africana, quindi Camerun, Gabon, Ciad, Congo, Repubblica Centrafricana e Guinea Equatoriale, ossia la Comunità economica e monetaria dell’Africa centrale. A risvegliare le coscienze sia tra i giovani immigrati sia tra i giovani francesi – siamo negli anni Settanta – è Arlette Laguiller, personaggio reale, all’epoca attivista del movimento Lotta Operaia. Non solo, Arlette Laguiller va oltre la sua propaganda e pronostica lo scenario drammatico di cui stiamo già vedendo l’intensificarsi in questi anni: i massicci e inarrestabili flussi migratori, un tempo favoriti dalla stessa Europa per il fabbisogno di mano d’opera a basso costo, poi sempre più incontrollati quando a generarli sono povertà e disperazione.

Suggestivo è l’incontro tra Momar e l’amata Aby in mezzo alla distesa di croci bianche del cimitero di Verdun, dove tra i migliaia di caduti nei combattimenti del 1916 c’è un elenco esteso di nomi senegalesi: «Agli inizi del secolo – gli spiega Aby – il Senegal, come molti altri paesi africani, era una colonia della Francia, e un ottimo serbatoio dove trovare buone braccia per lavori forzati o per imbracciare le armi. Quando c’è stato bisogno di rimpolpare la trincea di guerra, per frenare l’avanzata tedesca, l’impero francese ha raccattato in Senegal qualche migliaio di schiavi negri per combattere». Con l’ultimo elemento, “Acqua”, una serie di circostanze sfortunate porterà Momar al rientro forzato nel suo amato Senegal.

Scrittura semplice, si diceva più sopra, fatta di periodi brevissimi, vocaboli isolati, sequenze di ‘punto a capo’ che restituiscono un ritmo incalzante alla narrazione e un aspetto di racconto semplice e primitivo. Perché tutto in realtà è filtrato dagli occhi e dal linguaggio del quindicenne Momar, voce narrante in prima persona. Linguaggio che in alcuni capitoli in corsivo sfuma a livello di flusso di coscienza o assume la fisionomia di una lirica in versi liberi. Eccone un esempio:

la luce
luce abbagliante bianca trasparente
giardini deserti
soffio del vento
mare
scrosciare delle onde
sulla battigia
sugli scogli
sulla scoscesa scogliera
l’odore del pesce
l’acre aroma della salsedine
il dorso dell’acqua
il fremito di una vela
un’ala di gabbiano
ed ecco in un attimo
ritrovo casa
la mia natura

Trecentosessantotto pagine, insomma, che vanno via veloci ma lasciano il segno: la consapevolezza che il colonialismo non è affatto morto, ha solo modificato la forma. Che certe cose non cambieranno se non saremo noi europei a cambiare le nostre politiche e a premere sulle altre nazioni affinché facciano altrettanto. Che non si tratta soltanto di volersi mostrare solidali ma di essere meno miopi nel nostro stesso interesse: tutto il male che facciamo all’Africa ricadrà irrimediabilmente su noi europei.

Gaza – “Sorge ora il suo sangue in un orizzonte di ferro”

0

di Hadi Danial, traduzione di Sana Darghmouni

Mi accingo
a scrivere ora
il libro del mattino lontano
senza caffè amaro
nella cucina dell’anima le tazze
traboccano di sangue
dai tralci colano sopra il bianco
secrezioni purulente.
Dall’ala della colomba
scelgo la piuma del mio inchiostro
la conficco nella vena.
Dove si è smarrito il mio sangue?
Ho detto: la conficco dunque in bocca.
Dov’è la mia saliva
il suo viscoso amaro?
Era piena della cenere di un nuovo incendio.
Così ho restituito all’uccello la sua piuma
e ho improvvisato il mio inno.

1
Gaza, ora, sarà il titolo
sorge ora il suo sangue in un orizzonte di ferro,
il preludio.
…..
La luce si è infranta in un attimo
valicato dalle aquile
verso un banchetto
fatto di begli occhi
di una mano dalle dita esili
e di un seno che sgorga latte e sangue
sul labbro di una viola.
Crollano gli edifici
furenti, dicono che Dio è grande.
Il fumo serpeggia verso il cielo
con le anime di chi vi abitava.
I suoi bambini aprivano gli occhi su un artiglio
seguito da macerie.
I missili cullavano quest’ultimo letto
i piccoli si coricavano alla loro cadenza
e il sonno continuava.

2
Le parole ansimano e tremano
ululano sulle pagine lettere infrante
e una polvere di immagini:
Immagini di deserti annientati da cingoli di carri armati e cannoni
di cecchini in cerca di ragazzi
che da scuole e camere scagliano missili.
Immagini delle spiagge di Gaza e delle onde paralizzate di paura
da reti in fiamme scagliate da chiatte.
Immagini delle strade di Londra, Caracas, Tokyo e quel che non ho citato
tra gemito di bastoni
o tamburi di rabbia.
Immagini degli arabi
che scostano lo sguardo dalla sua ferita
tra chi si affretta al suo massacro
e chi procrastina guardando.

3
Nuvole ammassate
e il cielo cupola bianca annuvolata.
Gatti miagolanti
e donne che passano accanto al mio affanno
come meteore fragranti
agitando la cenere dentro di me
e l’anima si offusca.
Il cielo di Gaza è una stufa a gas enorme
che cala sopra l’intera città.
Nell’universo si leva
il profumo di quel che brucia
dalle zanne cola la saliva
e gli entusiasti competono
all’asta per la sua compravendita.
Una pioggia qui
e io dietro i vetri del mio piccolo caffè
la mano sulle spalle di Tunisi
cerco rifugio nel suo calore.
Una pioggia qui
mentre tento di restituire alle tue ciglia
la loro nerezza.
Una pioggia
e le strade si purificano
con le lacrime di una città che piange la sua città sorella.
…..

4
Una luna sale nel cielo della città
trapela il suo argento liquefatto.
……
Dinnanzi a me nella coppa vi è acqua
e dietro il vetro sfavilla l’acqua della pioggia
su carrozze, ombrelli, capelli di piccole ragazze, l’asfalto
della nostra mesta via tunisina.
Ero solo, nel fondo del mio caffè la chiacchiera del gelsomino sfiora
la chitarra del mio silenzio
finché non si spezza la corda.
Ero solo, la mia donna
mi ha telefonato dalla carrozza:
devo venire?
Aia di grano è la mia donna
e io una trebbiatrice ostinata nell’inverno del piombo remoto.
Ho detto: no
e mi sono posato sul sedile
come una pallida sembianza.
Improvvisamente il mio silenzio è straripato in un mare di sangue
con spiagge di vampe
e il cielo neutrale
le aquile rovistano questa grigia neutralità
volano in alto e stridono
poi si posano e ardono
e io scorgo
la rosa del fuoco
squarciata dal suolo
sospirare dopo un attimo.
Il mio cuore è divenuto tamburi
che mi risuonano nelle orecchie
sulla loro cadenza marciano i soldati del nemico
e si accostano al mio sangue.
Ero solo, a me
non sono sopraggiunti musulmani
né arabi,
dagli intimidatori turbanti
e armati dal tintinnio delle sciabole
nel silenzio tutti si sono rintanati.

5
Una luna dai lineamenti cupi
proveniente dai miti del loro Talmud
sparge ora il suo fosforo bianco
sulla carne della città
Gaza
…..
Gaza non è una massa di cemento,
Gaza, bambini cresciuti nella culla della fame, donne che impastano la loro vedovanza
con le lacrime del lutto,
anziani risparmiati dal frastuono del massacro,
erba che guasta il cingolo del carrarmato e pietra che stritola il naso dello zoticone
e le corna del vitello.
Gaza è un battito
dettagli di vita in cui ascendono i sacerdoti della notte
cenno di un bambino a suo padre sulla soglia della scuola, un mercato in cui sfavilla
pesce e si alzano i richiami dei venditori a decantare le verdure del deserto
e la frutta di un tempo selvatico.
Gaza è il grido popolare di Guevara e la kefiah di Arafat sui balconi
del mondo
e sulle sue strade scosse.
Gaza è la saggezza di Ahmed Yassin
l’assente come un fulmine
dalla bomba del culto.
Gaza è una cateratta di canti procrastinata da una morte impellente
barattata dai commercianti della morte
per una manciata di riso,
è l’affanno insanguinato di letti d’amore, e scuole da cui si leva la peluria
delle parole verso le ali dell’aquila simbolo.
Ma gli occhi di bambini spalancati dalla morte
cavati dal silenzio
si chiedono: Gaza è una roccia di sale in una piaga
o una posizione di gloria?

6
Uscivo da me stesso
volavo sui ricordi delle guerre che mi hanno esalato
quando un grido nudo
mi ha serrato la strada
un urlo che nessuna seta o ritocco riveste:
(con un proiettile alla tempia di Bush
salvate una terra che muore
e sterilizzate i grembi dell’America
le belve vi hanno sparso il seme
ovunque il cieco rivolga lo sguardo
aumentano le bare)
……
Ho detto me ne vado verso una luna in un cielo familiare
verso la sua luce scrosciante in estate
come neve lieve,
ho cozzato contro un’altra luna
sorgente dai resti di Sodoma
come un pugnale cinereo
nella nebbia del nostro arabismo e nelle nubi
che spargono sul creato
il loro veleno settario.

7
Attraverso i vetri
gli uccelli del mare valicavano la mia anima vacillante,
il sole infuocato dell’inverno
ardeva la mia fantasia
e nell’area si spargeva
la fragranza
…..
Questo è un giorno terso
e io sono lontano in un nord del suo occidente
sulle mie mani sangue
e nel mio cuore
ustioni.
Me ne vado senza una direzione
circondato da fulmini
nessuna stella né mezzaluna
nessuna falce né martello
questa è la tromba dell’olocausto.
Me ne vado senza provviste né armamenti
nessuna donna ho
né una patria
persino la relazione
con i miei fratelli
è quella della cenere
coi rovi.
…..
Non ho creato il Dio che m’ha creato.
Non ho disilluso Dio, forse m’ha abbandonato
come fosse con me
come fosse una farfalla di gioia
che sventola tra le mie costole
e un usignolo che cinguetta
nelle mie orecchie?
Ma il suo esercito, il suo popolo, i suoi sudditi, il suo partito, i suoi versetti, i comandanti
a nome suo e i suoi padroni di casa,
e il sacerdozio presuntuoso
non sono con me!
Ora me ne vado
alla fine della carneficina
serbo nell’anima e nella memoria
tutto questo nero
e ciò che vi è nelle macerie e sotto
e nella camera mortuaria.

Quanti cadaveri sono stati seminati nella terra del paese?
Quanti uccelli sorgeranno da tutta questa cenere?
Così spuntano ora ali lievi
con domande che fendono
e volteggeranno in ogni Najd, Egitto e Levante
aspettando il raccolto.

Tunisi 14/01/2009

 

*

 

Hadi Danial è nato a Latakia, sulla costa siriana, nel 1956. Nel 1973 si è unito alla rivoluzione palestinese a Beirut e ha lavorato per radio e riviste. Ha lavorato per l’Unione Generale degli Scrittori e Giornalisti Palestinesi a Tunisi, prima che l’unione tornasse a Ramallah nel 1995. Attualmente risiede in Tunisia, dove dirige la casa editrice Diyar. Tra le sue opere Barada e le delegazioni della fame (Beirut 1973), I canti del gabbiano (Beirut 1978), Una pipa per fumare i sogni (Beirut 1982), Il sole come un’aquila anziana (Tunisi 2020).

 

Ritratto pop di Antonio Syxty

0

di Leonardo Canella

1.

l’odorino di cervello sulla lamiera rovente, lo sparo, il cervello caldo sulla mia mano. È lunedì sera e c’è La finestra di Antonio Syxty. Su YouTube ma anche su Facebook.  Sul divano in salotto la Polly si strappa i baffi ed io mi sono fatto i pop corn.

2.

occhiali da sole ventoneicapelligrigioargento maglioncino nero scollatura a V. Antonio Syxty è sullo schermo musichetta di sottofondo. Antonio Syxty fa letteratura leggendo la letteratura degli altri, anche. Così io il lunedì sera raccolgo un pezzo di cervello sulla lamiera rovente di una Ford Lincoln nera,  Antonio occhiali da sole al volante ventoneicapelligrigioargento. Alla mia destra la Polly si strappa i baffi, alla mia sinistra JFK che gli hanno appena sparato. È il 1963 e c’è La finestra di Antonio Syxty su YouTube, ma anche su Facebook. Il lunedì sera (guardala!, c’è anche la musichetta).

3.

Antonio Syxty è il mio mito del lunedì sera. Antonio Syxty è pop e fa letteratura leggendo la letteratura degli altri, anche. Ed io sento il vento. E il pop. Quando Antonio ha letto le Nughette di Canella mi sono commosso perché la Polly ha smesso di strapparsi i baffi in salotto. Io devo conoscere il mio mito del lunedì sera, ho pensato.

4.

ed è stata Milano. Mi rimangono poche cose da dire è una performance di Andrea Inglese e Gianluca Codeghini in una mega struttura industriale (Assab One). Febbraio 2022. Ricordo che avevo fame e c’era un solo bagno (porta blu a destra). Dall’interno di una tenda da campeggio Antonio Syxty spara fogli accartocciati. Antonio fa letteratura appallottolata. Antonio è pop, ho pensato (Antonio Syxty & Lenny, The Fastest Comedy Man in the world, questo il titolo della performance).

5.

alla fine c’è Kennedy the assassination, testi e disegni di Antonio Syxty (un racconto, quasi, Declic 2024). IO LO SAPEVO! Antonio al volante occhiali da sole ventoneicapelligrigioargento, io che raccolgo un pezzo di cervello sulla lamiera rovente, alla mia destra la Polly baffostrappante, alla mia sinistra JFK che gli hanno appena sparato. Antonio Syxty ti dice chi è stato. Io ti ho già detto che eravamo su una Ford Lincoln nera, il lunedì sera.

6.

poi c’è la storia di Ferlinghetti. Ferlinghetti che dedica una sua poesia edita ad Antonio. Antonio me lo racconta in un messaggio vocale su WhatsApp. Lo riascolto adesso. Sento il vento, sento anche uno sparo. Nel messaggio ci sono carte ricevute da autori italiani (Balestrini, Pignotti…). Antonio Syxty e Ferlinghetti che si parlano a City Lights, la libreria di Ferlinghetti: ecco perché io sento il vento il lunedì sera. E il pop. Il lunedì sera c’è La finestra di Antonio Syxty, ti dicevo. Su YouTube, ma anche su Facebook. E sai già che sul divano in salotto la Polly si strappa i baffi e io mi sono appena fatto i pop corn (che c’è anche la musichetta).

Un natale

0

di Paola Taboga

Sono solo le tre del pomeriggio del 17 dicembre ma, per Elide, anche questo Natale è passato.

Nel rassettare la cucina, prova un sollievo che – frantumandosi nell’aria – scende come una polverina leggera e si deposita ovunque, soprattutto sulle sue spalle chine mentre lava i piatti. Una stanchezza di mille Natali che sente annodarsi in un cerchio stretto intorno alla testa.

Appena finito si sdraierà sul divano. No, anzi, proprio sul letto.

 

Da quando suo figlio Roberto ha preso in affitto la casa in montagna, lei si arrabatta con quel pranzo anticipato, perché lui parte con la famiglia sempre prima di Natale. Per i regali, oramai, ha trovato la soluzione perfetta.  A Roby compra ogni anno un bel maglione di cachemire. Per le nipoti, visto che con tutta quella tecnologia non ci capisce più niente, da qualche anno opta per le buste coi soldi. E così anche per la nuora: anni fa ha provato a prenderle qualche piccolo gioiello, ma era chiarissimo che non le piacevano per niente. È una donna intellettuale, molto strana anche nell’aspetto: con quel profilo affilato e adunco sembra una specie di volatile esotico e decorativo. E ha gusti difficili in tutto, ha voluto una casa completamente bianca, nera e di vetro. Non si fida di nessuno, e non le ha mai lasciato le bambine nemmeno quando erano piccole, piuttosto spendeva miliardi in baby-sitter. Elide non si è mai lamentata, per carità, ma in cuor suo si è sempre chiesta come abbia fatto il suo Roby a scegliersi una così.

 

Quanti avanzi! Ma perché prepara sempre così tanta roba? Forse può surgelare qualcosa. La nuora non vuole mai niente da portare a casa e non si capisce proprio perché: a Roby piace così tanto mangiare… ma lei tiene tutti a stecchetto. E Roberto, che era uno robusto, adesso sembra quasi rinsecchito. Sarà che lavora tanto, è un medico meraviglioso.

 

Elide ha sempre contato su quel suo ragazzone. E anche se sa che oramai è inutile, gli chiede sempre, ogni Natale, di provare a sentire Giulia. Ma oramai non vuole nemmeno sentire parlare di sua sorella. Giulia ha fatto le sue scelte, ripete.  E, allora, basta così.

 

Quest’anno Elide ha comprato una fedina d’argento per Giulia. Il pacchettino è rimasto lì, sotto l’albero. Domani disferà anche quello, tanto a lei cosa serve? Ma adesso prende quella scatolina e va a metterla nella scatola dell’armadio dove ci sono gli altri pacchetti. Da un sacchetto trasparente spunta il cappello peruviano bianco e marrone. Un vero colpo di fortuna, trovato per caso in quel negozio dell’usato. Non che Elide vada a servirsi in quei posti, per carità, ma il cappello era in vetrina e si era ricordata che Giulia ne aveva uno così e glielo aveva preso. C’è anche un disco. Glielo aveva consigliato Roby, tanti anni fa. Lui li sapeva i gusti di Giulia mentre lei non ha mai capito gran che di musica. Chi era questa cantante? Ah, ecco, Patty Smith… che magrezza accidenti, forse però le somiglia. Ma no, questa sembra un uomo coi capelli lunghi.

 

Chiude gli occhi, Elide, i ricordi sono un brontolio dell’anima. Si domanda se questi anni abbiano trasformato i tratti del viso di Giulia. Però è certa che saprebbe riconoscerla, se la incontrasse per strada. Le basterebbe guardare quel suo incedere spavaldo, come a sfidare il mondo. Tanto Roby era grosso, chiaro, vivace e rumoroso, tanto Giulia era un ragnetto nero: sottile, scura, sempre pronta a volere a tutti i costi qualcosa che non c’era mai. Così precoce da chiedere a quattro anni: “ma se voglio un bambino cosa devo fare di preciso?” Elide non ha mai capito da dove venisse quella curiosità bruciante che sembrava una pericolosa ansia di crescere. Il tempo però l’aveva resa forte, ma anche inquieta e refrattaria a qualsiasi regola, incapace di compromessi.

Giulia ha sempre ostentato il conflitto come la scollatura di un vestito da sera.

 

“Non sembri nemmeno mia figlia” aveva mormorato una volta e lei era esplosa in quel suo modo sgangherato. Il problema più grosso però, era sempre stato col padre, e Giulia sembrava fare di tutto per mandarlo in bestia. E poi frequentava gente strana, e quelli erano gli anni della contestazione e della droga. Aveva deciso di iscriversi ad architettura, una delle facoltà più “calde”, dove poi aveva conosciuto quel tipo. Vent’anni di differenza, un vecchio. Uno poco raccomandabile.

 

E poi quella notte – quella famosa notte – quando era rimasta fuori senza avvertire. Era tornata a mattina inoltrata e il padre era già andato al lavoro, Elide ricorda molto bene in che condizioni era uscito. Ed era la vigilia di Natale. Giulia si era chiusa in camera e lì era rimasta tutto il giorno, con la musica assordante. Lui era tornato furioso. Per poco non cadeva la casa da quanto aveva strattonato la porta. Quando finalmente gli aveva aperto e lui le aveva dato quello schiaffo, Giulia era caduta a terra senza emettere un suono né un lamento. Si era alzata con lentezza, senza mai smettere di fissare suo padre con quello sguardo bellicoso. Poi si era vestita e se n’era andata.

Elide si era precipitata giù dalle scale per fermarla, ma si era vergognata delle parolacce urlate della figlia ed era tornata dentro, dove l’avevano accolta i profumi tiepidi della cena di Natale che aveva preparato. Negli occhi era rimasta l’immagine di Giulia che camminava nella notte ghiacciata, stretta in quel montone di seconda mano, i capelli chiusi nel berretto peruviano. Sapeva dove andare, Giulia, di sicuro da quell’artistoide con quel ridicolo codino grigio.

 

E allora Elide si era messa a strillare contro l’uomo che aveva sposato 30 anni prima in un giorno argentato e che in quel momento detestava con tutte le sue forze.  A occhi asciutti e spiritati le era uscito dalla bocca un formicaio di insulti brulicanti, con l’unico scopo di fargli male. Avevano perso Giulia ed era solo colpa sua. Non c’era altro dolore che somigliasse a quello.

Finché era successa quell’altra cosa, e lei allora era ammutolita.

 

Nel fragore immaginario di un minuto Elide aveva visto l’uomo che le stava di fronte trasformarsi. Aveva cominciato a tossire, con una tosse strana, che si strappava dal fondo del corpo, andando a prendere un male che non sapeva di avere e che gli aveva fatto vomitare una strana materia scura. Preda di quella ferocia esatta con cui la malattia colpisce il centro dell’esistenza, quell’uomo grande e grosso aveva iniziato proprio in quel momento l’accelerazione verso l’ultima curva.

Elide era entrata e uscita da smarrimenti diversi.

Fino a pochi istanti prima gli si era scagliata contro ma poi aveva visto, anche se qualcosa in lei non voleva capire del tutto. Aveva abbracciato con gli occhi le larghe carni di lui, che già iniziavano a seccarsi, già senza sangue, come i polmoni e le ossa.  Il tumore che lo avrebbe portato via in sei mesi, aveva iniziato ad artigliarlo proprio quella sera di Natale, quando Giulia era uscita di casa.

 

Le erano piovuti addosso gli anni e i gesti, quelli della consuetudine, le migliaia di colazioni fatte insieme, i sì con la testa e quelli più profondi degli sguardi. E poi i ricordi erano andati più indietro, al loro primo incontro con la timidezza: le sue braccia così grandi come ali, gli occhi allagati di quella commozione azzurra sempre pronta a venir fuori. Quella che poi aveva passato a Roberto quando era bambino. Non era un chiacchierone, quel suo uomo, ma Elide ne capiva il sentire, quando abbassava la testa per guardarla, o quando la baciava, sempre, ogni sera. Una irripetibile sostanza fatta di loro, tutti loro quattro, insieme.

 

E invece si era ritrovata a scegliere.

Da una parte, quella figlia scura che si spingeva nella notte vomitando insulti e intimandole di non avvicinarsi mai più, non finché fosse stata accanto a quel padre che lei voleva morto.

Dall’altra l’uomo che, mentre ripudiava il sangue del suo sangue, si scopriva prigioniero di uno scheletro già pronto a disfarsi. Il collo, ricordava soprattutto il collo, sgonfiato in un’infinità di rughe intorno ai nervi laterali sporgenti e già duri come cavi d’acciaio per quella tosse. C’era un altro essere umano sulla sedia della cucina, gravido di un qualcosa di nuovo che aveva già iniziato a consumarlo, lasciandolo all’improvviso senza più niente da aspettare, da immaginare né da vivere.

Era rimasta lì, Elide, in silenzio. È da allora che sta zitta.

Roberto le aveva raccontato che Giulia, dopo che quel vecchio l’aveva abbandonata, era andata a vivere in una comune in campagna, nel sud Italia. Non era nemmeno possibile sperare di incontrarla per caso… Per qualche tempo Roby era stato l’unico che riusciva a parlarle.

Fino a quel giorno, quando l’aveva avvertita che il padre stava molto male e Giulia aveva replicato ancora il vecchio mantra: “morte sua, vita mia”. Allora Roby aveva giurato che non l’avrebbe mai più sentita.

 

In tutti questi anni Elide ha continuato a immaginare cosa potrebbe dire a quella figlia perduta. Forse, che le ha sempre voluto bene. Anche adesso, in questa lontananza, che non si è mai trasformata in abitudine.

O forse dovrebbe solo chiederle scusa, perché una madre dovrebbe aiutare i figli a salvarsi la vita. Elide sa che la vita di Giulia è sempre stata più fragile di quella degli altri, per un limite buttato là, senza cura, oltre l’orizzonte. Un limite che nessuno ha potuto trovare per lei.

Anche se adesso, nel buco di quell’armadio, deve ammettere che forse non saprebbe più cosa dirle.

Ma anche questo silenzio ha molto a che fare con l’amore.

 

Chiude l’armadio, esausta.

A una certa età tutto diventa solo memoria.

Va allo scrittoio, apre un cassetto dove ci sono i bigliettini bianchi.

Con quella grafia oramai tremolante scrive: “ti auguro una vita felice figlia mia, una vita così perfetta da non stancarsi mai.”

Mette il biglietto nella scatola dei regali e, finalmente, va a sdraiarsi.

 

 

 

 

Il fraintendimento del reale

2

Il fraintendimento del reale, tra pressapochismo e mancata autocritica: l’anteprima del numero 4 (anno III) del semestrale “Laboratori critici”, edito da Samuele e pubblicato in occasione dell’ultimo BookCity Milano. Un estratto trasversale della rivista che mette volutamente in relazione l’editoriale di Matteo Bianchi, Per una critica meno assertiva e una poesia più incisiva, con l’intervento firmato da Tommaso Di Dio sulla deriva narcisistica – consapevole quanto no – dei poeti contemporanei, La coda del pavone terminale.

Vanitas vanitatis, dall’editoriale di Matteo Bianchi

Un dialogo intergenerazionale è stato favorito da Poesie dell’Italia contemporanea 1971-2021 (Il Saggiatore, 2023) di Tommaso Di Dio, che da mesi arroventa i dibattiti tra i beati ammessi e i dannati esclusi, confermandosi un esperimento antologico, poiché non risponde a un’esigenza legittima di canonizzazione autoriale, bensì propone un racconto plausibile di paesaggi testuali, tentando di disinnescare il narcisismo soffocante che pervade l’ambito poetico, ma di più, l’intero sistema culturale italiano. Il curatore ha eliminato la soglia dell’autore quale primo ingresso nel panorama poetico contemporaneo, offrendo così una prospettiva disturbante proprio perché inconsueta. Di Dio, che ha iniziato il percorso non da una serie di nomi che aveva in testa, ma dalla scansione di testi che a suo avviso testimoniavano l’epoca e, più precisamente, la decade in cui erano apparsi: da una parte riconoscendo quelli capaci di descrivere la ricchezza polifonica di linguaggi, perciò gli sperimentali convivono coi lirici, dall’altra causando dolorose esclusioni – e assai polemizzate – che non rientravano nella struttura narrativa del paesaggio ponderato, per conservare la coesione delle sequenze decennali articolate secondo una progressione esemplificativa.

Tuttavia Poesie dell’Italia contemporanea non è stato l’unico casus belli dell’ultimo triennio: hanno scaldato gli animi pure L’ultima poesia (Mimesis, 2021) di Gilda Policastro e Mappa immaginaria della poesia italiana contemporanea (Il Saggiatore, 2021) di Laura Pugno, senza tralasciare il precursore La poesia italiana degli anni Duemila (Carocci, 2017), a cura di Paolo Giovannetti. E sono i titoli presi in esame da Alberto Fraccacreta per formulare la fatidica domanda che ha contrassegnato lo speciale dedicato al 24esimo festival di Pordenonelegge; domanda sottoposta a una pletora di docenti e critici, alcuni dei quali hanno risposto nelle pagine seguenti senza indugi, né esclusione di colpi: «oggi è veramente possibile definire dei criteri univoci e condivisibili per tracciare dei percorsi? O l’entropia è ormai tale che sta arrivando a soffocare l’identità autoriale?»

A definire la critica “embedded”, cioè una “non critica” addomesticata dalla cordata di colossi editoriali e mezzi di informazione, e finalizzata non alla qualità della prova poetica, dell’opera d’arte, ma a una risultante borghese, nell’accezione di compiacente e decorativa al pari del Keith Haring brandizzato sugli scaffali dei centri commerciali, è stato ancora Matteo Marchesini nella puntata di “Critica e militanti” dello scorso 13 ottobre, su “Radio Radicale”. Squadernare le controversie del caos più attuale, contro i compromessi stilistici che si sostituiscono ammiccanti ai punti di riferimento onestamente scomodi, e contro il conseguente personalismo mediatico dilagante, resta uno degli intenti della redazione di “Laboratori critici” sin dal numero Zero.

La coda del pavone, dall’intervento di Tommaso Di Dio

Il re è nudo: da almeno cinquant’anni, nessuno studioso serio può parlare di poesia, al singolare, se non in cattiva coscienza. Dopo il Duemila, dopo la radicale diffusione della libertà di presa di parola e dei dispositivi di cattura, di creazione e di riproduzione estetica (social network, YouTube, smartphone ecc.) le tradizioni sono moltiplicate esponenzialmente, multimedializzate e ibridate, in modo talmente vertiginoso e acritico che nessuno può più pretendere di avere la Poesia, né che la lotta per la propria “Poesia SVG” (Sola Vera Giusta) possa avere più valore di quella per un’altra. È questo «l’astro esploso» di cui parlava profeticamente Berardinelli, alla cui luce tutti oggi scriviamo. Ormai esistono così tante tradizioni, fra loro divergenti, che le poesie non si riconoscono più. Ma attenzione: non solo, in molti casi, non si riconosce più la poesia da ciò che poesia non vuole essere (si prenda il caso limite del rapporto fra poesia e prosa, in autori come Anedda e Neri, Broggi e Bortolotti), ma intendo la frase in un senso forse meno radicale, ma le cui conseguenze sono e saranno forse più dirompenti: ciò che un poeta fa il poeta accanto non lo sa.

Nel saggio introduttivo di Parola plurale, dal titolo 1975-2005: Odissea di forme, già si parlava apertamente come da tempo ormai (proprio dalla metà degli anni Settanta) ci si trovasse in una dimensione di convivenza caotica fra scritture diverse, che si trovavano a condividere la dicitura “poesia”, «pur ignorandosi bellamente» una con l’altra. Mazzoni ha provato a descrivere questa condizione evocando il terribile verso di Eugenio Montale («ognuno riconosce i suoi»). Mazzoni scrive che a animare la poesia moderna è «il desiderio di parlare a chi condivide certi presupposti, il desiderio di stare con chi ci assomiglia». La tensione alla frammentazione, al clan, all’idioletto di micro-comunità, così tipico dell’estetica moderna, però, ha assunto una misura radicalmente nuova negli ultimi vent’anni: ormai esiste una pluralità di tradizioni divergenti e la memoria culturale non è più “una”, ma divisa in mille rivoli a cui i mille di rivoli della scrittura contemporanea si appella, ciascuna dalla propria parte, l’una ignorando del tutto i presupposti e i risultati della scrittura dell’altra, tanto da apparire l’una all’altra sostanzialmente incomprensibile.

Da qui nascono due tendenze della poesia contemporanea, da osservare con la massima attenzione. Da un lato, in un contesto di così divergenti e intricati rimandi, la carne umana e sociale del poeta occupa tutto lo spazio di riconoscibilità, a discapito dei testi. Il narcisismo totalizzante e totalitario di questi anni, se non affonda qui le proprie radici, trova in questo terreno il nutrimento per crescere a dismisura: nell’impossibilità di riconnettere i testi a una tradizione, l’uomo, la sua storia singolare, il suo carisma, assolve a ciò che il testo da sé non sa più fare. O meglio: da ciò che i lettori di un testo non sanno più fare. Quasi nessuno sa riconoscere le storie sottese al testo, nessuno sa più codificare le sottili trame di rimandi e di allusioni, di riconoscimenti (se non una ristretta cerchia di affiliati) e tutto si risolve facilmente nella “storia di una vita”: le sue amicizie, i suoi incontri, le sue frequentazioni prendono il posto dell’analisi stilistica. Dunque la necessità di compiere uno sforzo di ritorno al testo, di stare sui testi, di racconto delle modalità attraverso cui il dispositivo testuale può essere attraversato e messo in funzione.

L’altra conseguenza è l’effetto “coda di pavone”. Mi riferisco alla teoria di un matematico,  studioso di evoluzione darwiniana, Ronald Fisher (1890-1962) che tentò in un celebre saggio di spiegare l’origine del vistoso dimorfismo sessuale presente nei pavoni. Come è noto, il tema tormentava Darwin. Si domandava lo scienziato: perché il maschio è capace di mostrare la fenomenale bellezza della sua ampia coda, mentre la femmina si accontenta di un banale moncherino? La coda del pavone rappresenta un evidente handicap nell’implacabile lotta per la vita. Non è certo di aiuto contro i predatori, né aumenta la fitness alimentare, anzi rende senz’altro più difficoltosi i movimenti dell’animale e la sua capacità di fuga. Per quale procedimento evoluzionistico si è affermata una caratteristica così inutile e dannosa? La risposta di Fisher è interessante: la colpa è stata inizialmente la preferenza sessuale, che ha fatto sì che la scelta delle femmine premiasse la variante, a discapito della sua utilità; il fenomeno, rinforzato dalla base genetica e dal feedback positivo (la continua scelta delle femmine), ha sostenuto la variante e anzi l’ha potenziata anche quando la sua fitness ha iniziato a calare e l’ha sostenuta a tal punto che l’effetto di deriva genetica è divenuto “a cascata”. Questo effetto evolutivo è stato appunto chiamato Runaway selection, selezione “a fuga”. È un meccanismo meraviglioso: la coda di pavone è un organo di straordinaria bellezza, una meraviglia di ingegneristica genetica. Ma attenzione: è un meccanismo tremendamente pericoloso. Se si supera un certo limite, la pressione selettiva non è più controbilanciata dalla preferenza sessuale e quello che è divenuta la principale attrattiva di una classe di individui (e quindi il meccanismo attraverso cui si promuove il proprio patrimonio genetico nella prole) diviene, al contrario, la causa della propria estinzione.

Che la poesia rischi lo stesso pericolo? Dopo un Novecento di estrema selezione a cascata, la poesia è divenuta una meravigliosa, raffinatissima, bizzarria contro-intuitiva, estremamente poco adatta al contesto mediale in cui ci troviamo. Oggi la sua complessità crescente e le sue criptiche, imprevedibili e disseminate tradizioni, ne fanno una straordinaria e incomprensibile coda di pavone che sempre meno esperti riescono a apprezzare, perché la tradizione non è più unica e condivisa, ma segmentata sempre più. Se le tradizioni non dialogano fra loro, se non si moltiplicano gli strumenti per condividere i rami delle tradizioni e le rispettive evoluzioni significative, il numero delle preferenze sostenute dai lettori dei vari rivoli potrebbe non sostenere più il limite della fitness ambientale. Rotto l’equilibrio, la sopravvivenza della poesia così come l’abbiamo tramandata fino a oggi sarebbe a rischio: altri rami evolutivi dell’esperienza linguistica dell’umano – più orali, più semplici, più visivi, più multimediali – sono già pronti a invadere la sua nicchia ecologica, a prendere il suo posto.

Ma tutto questo forse è solo un incubo.

Esporre l’assenza. La mostra di Sophie Calle a Parigi

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di Ornella Tajani

Lo dice in apertura, Sophie Calle, e in modo chiaro: ciò che le interessa è «exposer l’absence», evocando presenze fantasmatiche, giocando con la dissimulazione, con l’invisibilità.

Tre piani del museo Picasso di Parigi per la mostra À toi de faire, ma mignonne, prorogata fino al 28 gennaio: il primo è dedicato al vedere e contiene a mio avviso la chiave di comprensione dell’opera di Calle, ossia la sua dialettica presenza/assenza. Il percorso si apre con dei “Picasso fantasma”, quadri normalmente in esposizione in questi spazi, ora velati da teli sui quali sono riportate le frasi con cui gli addetti del museo hanno provato a descriverli mentre erano stati prestati ad altre sedi: c’è chi ne ricorda colori e dettagli, chi racconta di emozionarsi nel guardarli, chi pensa solo ai chiodi cui agganciarli. Il telo semi-trasparente che li ricopre lascia indovinare il profilo dei soggetti pittorici: è già un esempio emblematico dell’arte di Calle, della sua poetica del vedo/non vedo.

“La grande baigneuse au livre”, visibile qui: https://musees-rouen-normandie.fr/fr/oeuvres/grande-baigneuse-au-livre

 

Si passa poi ad alcuni dei suoi lavori più famosi: Voir la mer, in cui l’artista ha filmato abitanti di Istanbul, anche anziani, nel momento in cui si ritrovano per la prima volta davanti al mare. Grandi schermi alle pareti di una piccola sala: uomini e donne prima di spalle, sulla riva – li vediamo muoversi appena, una si asciuga lacrime di commozione, in sottofondo il frangersi delle onde. Poi si voltano, guardiamo il riflesso dell’esperienza del mare nei loro occhi: qualcuno è serio, qualcuna sorride, un vecchio buca lo schermo con uno sguardo d’intensità lancinante, come se in quei pochi istanti avesse attraversato oceani e forse secoli. Infine, uno dopo l’altro, scompaiono dallo schermo, lasciando il posto al bianco dell’assenza, con solo la risacca in sottofondo. La potenza evocativa dell’opera colpisce ancor di più se si pensa al rapporto di Istanbul con le sue acque – un estuario, un canale e due piccoli mari – e all’espansione mostruosa di una città così profonda da poterci vivere per buona parte della vita senza mai arrivare sulla costa.

Uscendo dalla sala si trovano alcuni scatti della serie Aveugles: come descrivono la bellezza o i colori dei non vedenti dalla nascita («Ogni volta che mi piace qualcosa, mi dicono che è verde: l’erba è verde, gli alberi, le foglie, la natura… mi piace vestirmi di verde»); o qual è l’ultima immagine trattenuta da chi ha perso la vista in seguito a un incidente («Tre bambini seduti uno accanto all’altro, di fronte a me, sul divano dove lei è seduta adesso»).

 

 

Visibile, invisibile. Fin qui Calle ha mostrato l’assenza dei quadri per dire cos’è l’arte; l’assenza del mare, portando a chiedersi cos’è il paesaggio, quale la sua fruizione; l’assenza della vista, da cui muove un’interrogazione sui sensi e sul concetto di esperienza. A questo proposito, clamoroso leggere su un muro la seguente citazione di Jean Cocteau:

Picasso mi ha raccontato che ad Avignone, sulla piazza del palazzo dei papi, aveva visto un vecchio pittore mezzo cieco che dipingeva. La moglie, in piedi accanto a lui, osservava il palazzo col binocolo e glielo descriveva. Dipingeva seguendo la moglie. Picasso dice spesso che la pittura è un mestiere da ciechi. Lui non dipinge ciò che vede, ma ciò che prova, il racconto che fa a sé stesso di ciò che ha visto.

Difficile non associare questo aneddoto al racconto Cattedrale di Raymond Carver, in cui il protagonista disegna insieme a un cieco il profilo di una cattedrale per fargli capire com’è fatta, ma poi è la mano del cieco che finisce per guidare la sua.

Torniamo a Calle, e all’assenza, stavolta, della madre e del padre, cui è dedicato il piano successivo: la prima, in particolare, è variamente presente in molti suoi lavori (ne parlavo anche qui). Una delle ultime parole pronunciate dalla madre è “souci”, nel momento in cui chiede ai propri cari di non preoccuparsi per lei: lo apprendiamo in una sorta di anticamera, prima di entrare in una sala molto grande in cui il termine «souci» campeggia dappertutto, composto da farfalle, dipinto in un quadro, impresso sulla stoffa; la ripetizione ossessiva testimonia la mancanza dell’assente e il tentativo disperato di fissare le ultime tracce della sua presenza. Sul muro l’artista ha annotato a matita: «merci de ne pas filmer ou photographier ma mère dans son cercueil»; si riferisce a una foto della madre nella bara, con dentro la Pléiade di Proust, una bottiglia di vodka e altri oggetti amati.
L’immagine, per Calle, è sacra: non deve stupire, per un’indole irriverente come la sua, una performer che non disdegna di farsi fotografare mentre un toro le lecca i capezzoli (fu una sua proposta, geniale, per la celebre marca di formaggini “La vache qui rit”, che le aveva chiesto un’opera nell’ottica di pubblicizzare il prodotto; proposta bocciata dall’azienda). Non deve stupire perché il gioco con l’assenza e la presenza è per lei serissimo, soprattutto se c’è in ballo la morte di chi ama: lo stesso avvertimento scribacchiato in un angolo ritorna per un’altra foto della madre defunta, dal titolo «Pas pu saisir la mort».

Con la propria, di morte, il rapporto di Calle è invece molto più décomplexé: se è vero che ha già comprato un loculo in un cimitero californiano, lì dove ha scattato le sue prime foto, si chiede però che fine faranno le sue cose quando non ci sarà più, dato che non ha figli; la risposta è che andranno probabilmente all’asta. Perché allora non chiamare due commissari dell’Hôtel Drouot e fargliele inventariare sin da ora? Assistiamo al tutto in un gustoso video: «Comportatevi pure come se non ci fossi», li esorta Calle – salvo poi naturalmente farsi onnipresente, sedersi sul divano mentre i due lo misurano, stendersi sul pianoforte mentre loro lo studiano; quando i commissari entrano in bagno per proseguire il lavoro lei se ne sta placidamente seduta sulla tazza. In un’operazione che presupporrebbe la sua assenza, insomma, appare di continuo.

Seguono stanze piene di suoi oggetti, foto, libri – dalle Pléiade di Zola e Tolstoj a volumi improbabili intitolati “Perché le mogli dei ricchi sono belle”. Si sale poi al terzo piano, dove si ha la misura della prolifica capacità creativa dell’artista: tutto è dedicato all’inachevé, all’incompiuto. Decine di progetti abbozzati, con una lapidaria spiegazione del perché non siano andati in porto. Una fucina infinita, che soddisfa anche il gusto oggi marcatissimo, in Francia particolarmente, per l’esplorazione degli archivi.

Durante tutto il percorso Picasso, per l’occasione relegato nei sotterranei, non sparisce, ma viene più volte evocato come una presenza intermittente: è davvero il fantasma chiuso in cantina, col quale però Calle dialoga, giocando un po’ con le sue opere. Addirittura ha la premura, a beneficio degli inconsapevoli visitatori che fossero venuti da lontano per lui e non per lei, di allestire una specifica “salle de consolation”, ovviando così ai propri sensi di colpa: un piccolo spazio in cui propone un tête-à-tête con il suo quadro La Célestine.

C’è sempre qualcosa di poliziesco nei lavori di Calle: la psiche (degli altri, ma sua innanzitutto) si fa terreno d’indagine. Però, se è vero che tre indizi fanno una prova, Calle preferisce sempre trovarne soltanto due, e dalla coincidenza cominciare a ricamare, così come vuole la letteratura. I due indizi consentono di spalancare il campo a ogni possibilità, anche al sovrannaturale: così l’assenza, che è il deposito di fantasmi per eccellenza (sto citando una definizione di Giuseppe Merlino), diventa anche una riserva prodigiosa di presenze più o meno fantasmatiche da raccontare.

 

Omaggio ad Alessandro Spina a dieci anni dalla morte (con una lettera inedita)

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di Massimo Morasso

Dieci anni fa è morto Basili Khouzam alias Alessandro Spina. Malnoto ai più per via della sua ardua inattualità stilistica, e di un’appartatezza che si potrebbe dire quasi anacoretica, oltre che “snob”, con ogni probabilità Spina è il più notevole prosatore in lingua italiana degli ultimi decenni.

Nato a Bengasi nel 1927, libico di stirpe siriana, figlio di un agiatissimo imprenditore tessile dal quale ereditò, per oltre un ventennio, le responsabilità di gestione dell’azienda famigliare in Nord Africa, il ragazzino e poi giovin signore Khouzam aveva vissuto in Italia dal 1940 al 1953, laureandosi in Lettere con una tesi su Alberto Moravia. Dall’Africa, incominciò a farsi conoscere nella nostra società letteraria con il nom de plume di Alessandro Spina.

Fu il racconto Giugno ’40, pubblicato da Anna Banti su “Paragone” nel 1960, ad accendere su di lui i numinosi occhi-riflettori di Vittoria Guerrini alias Cristina Campo, che gli scrisse, d’acchito, con incoraggianti parole d’encomio. Da allora, questi due sommi araldi dell’ospitalità intellettuale sotto pseudonimo furono legati da una lunga e profonda amicizia in prevalenza epistolare, testimoniata dalla pubblicazione del carteggio, ahinoi dal solo “lato” campiano, Lettere a un amico lontano (Scheiwiller 1989).

In Italia Khouzam è poi tornato in pianta stabile una volta superati i cinquant’anni, in rotta col sistema di potere di Gheddafi & co., per chiudersi in un lussuoso “buen retiro” a Padergnone di Rodengo in Franciacorta, a poche decine di metri di distanza dalla villa del suo miglior amico, il gran musicista Camillo Togni. A due giorni dalla sua scomparsa nell’ospedale di Rovato, l’11 luglio del 2013, Nazione Indiana ha parlato di Alessandro Spina grazie a Flavio Marcolini, autore di “Staccare la Spina”, un informato e appassionato coccodrillo che vale la pena di rileggere ancora oggi, per incominciare a inquadrare la figura umana e la statura storica di «uno dei più incisivi (almeno sub specie aeternitatis) quanto appartati maître à penser dell’Italia contemporanea», come ne ha detto bene Marcolini in quel pezzo.

All’interno dell’ampio, variegato corpus di scritture di Spina, spicca il macro-ciclo de I confini dell’ombra. Si tratta di un vasto affresco narrativo coloniale, che getta illuminante luce letteraria su parte dei fatti e dei misfatti imperialisti italiani in Cirenaica. Al vaglio dell’italo-libico (e siriano) Khouzam-Spina, qui i libici aggrediti e gli aggressori italiani non sono, in fondo, che i deuteragonisti sulla scena di un’immane tragicommedia, che Spina ha saputo rendere epopea con l’autorevolezza stilistica, e l’apertura naturalmente dialogica e transculturale, del gran signore-scrittore dalla doppia anima – l’araba di cultura maronita e l’europea, innanzitutto franco-tedesca e poi anglo-russo-italiana – avvezzo ai modi e alle cadenze del più intelligente decadentismo internazionale.

La lunga parabola gestativa di questa sorta di recerche spiniana si è conclusa a fine secolo, quattordici anni prima della morte dello scrittore. Ciò che Spina ha pubblicato dal 2000 in poi fa parte di un sapido ripensamento, in massima parte indistinguibile da un autocommento in margine all’opus maior. Sedata la compulsione costruttiva, sono nate le pagine che danno traccia più manifesta delle idee che avevano sostenuto, per decenni, l’articolato progetto romanzesco (gli intriganti Diario di lavoro: Alle origini de I confini dell’ombra, L’ospitalità intellettuale e Elogio dell’inattuale, tutti e tre editi da Morcelliana).

Nel carteggio (finora inedito) che abbiamo intessuto dal 1993 al 2010, a latere rispetto a quanto andavamo dicendoci l’un l’altro durante i nostri incontri in quel di Padergnone o per telefono, c’è una lettera nella quale Spina mi informava di aver posto la parola fine all’ultimo nodo del suo arazzo narrativo (si esprimeva proprio così, con la parola “nodo” al posto di “libro”, facendo implicita equazione fra scrittura e tessitura del tappeto della vita nell’Opera, à la Stefan George).

Anche di questo evento, atteso e importantissimo, si è compiaciuto di darmi notizia in modo obliquo e come di sfuggita, assecondando l’estro del suo abituale, elegante understatement. Lo ha fatto dentro a un giro di frasi sintomatiche, dove, fra le altre cose, ci s’imbatte in un’affermazione e una notizia molto rilevanti, che il tempo a venire si è incaricato, tuttavia, di rendere falsità. Giacché le 13 lettere del valente filosofo Andrea Emo a Cristina Campo, delle quali Vanni Scheiwiller gli aveva appena annunciato il ritrovamento, sono uscite a stampa nel 2001, ma per le cure editoriali di Gianni Scalia e della sua rivista “In forma di parole”, e non di Scheiwiller. Mentre L’oblio – la serie postrema di storie coloniali a firma Alessandro Spina, cioè, insomma, la raccolta che Khouzam-Spina nella sua lettera mi confessava d’aver finito di scrivere – e, soprattutto, l’intera saga cirenaica de I confini dell’ombra, Spina si è poi convinto dell’opportunità di pubblicarli, per sua e nostra fortuna, e per il profitto dei lettori, storici futuri compresi; con buona pace del passato, il “più costante” e “terribile” dei committenti, come nel messaggio al mio indirizzo lo definisce. Complici Cesare Cavalleri e Ilario Bertoletti, il librino (stupendo) di racconti e il tomo di quasi 1.300 pagine fitte fitte (ormai fuori catalogo) cui Spina ha dedicato tanta parte della sua esistenza, sono usciti rispettivamente con Ares, nel 2004, e con Morcelliana, nel 2006. La chiusa del discorso, dalla constatazione “Oggi piove” alla domanda “Ci vediamo a Bose?”, per me (che sono di Genova: da qui gli ammicchi, per due volte, alla Liguria) vale anche da sola un urrà, e un deferente inchino:

Padergnone, 27 marzo 1999

Caro Morasso,

[…] Un momento fa mi ha telefonato Vanni Scheiwiller. Sono state trovate le minute del filosofo Emo a Cristina, una quindicina, molto lunghe, e, non so quando, Scheiwiller ne farà un libretto. Potranno essere utili, sicuramente in una direzione non futile.

[…] Quanto a me, ho finalmente terminato un’opera… ciclopica (l’autoironia è l’unica scappatoia), durata un numero spaventoso di anni. Naturalmente (Cristina ed Emo insegnino) non ho nessuna intenzione di pubblicarla. Chi ne è il committente? Il più costante (committente), terribile e a suo modo amico, ovvio: il passato! Nessuna committenza se non da lui, lo insegna la religione (con divagazioni sulla coscienza) e poi Freud (con saggi ieri felicemente indiscreti, oggi, ahimé, sciupati dall’uso).

Terminato il lavoro, mi sento liberato da un incubo, sereno. Traffico in giardino. Ah l’eterno ritorno, che si beffa di noi “uomini effimeri”, della storia, di ciò che avviene una sola volta eccetera eccetera.

(Circa le due parole fra virgolette, cito D’Annunzio, ma lui forse usava una sola effe, non ricordo.

Eros nella pugna invitto
Eros, che precipiti le fortune,
che sulle molli gote
delle vergini ti poni in agguato,
che erri oltremare e per le capanne agresti!
E nessuno tra gli Immortali può fuggirti
e nessuno fra gli uomini effimeri*, e chi ha è furente
.

Mica male, eh? Nessuna testa mi interessa meno, ma il dettato di colui, talvolta, è d’oro).

* Ho controllato il testo, scrive: efimeri (non rinunzia insomma a una smorfietta neppure di fronte alla maestà di Sofocle!).

Oggi piove e il doppio giardiniere è in festa, afflitto e finalmente liberato dalla siccità africana. Ma le giornate invernali, chiare, erano anche qui stupefacenti, non è bella solo la Liguria! Nel Nord Africa ci sono coste altrettanto varie e incantatrici delle liguri, con in più, ciò che c’è di meno: disabitate, incolte, tutto come cadde dalle mani di Dio. Poi, capitò a me, momento indimenticabile, dopo cento chilometri senza incontrare anima viva, su uno stretto promontorio, due colonne piccole (altezza d’uomo) candide in terra, i resti di chi sa quale monumento greco, sicuramente funerario; mille anni fuggiti come un giorno solo. Sembravano i kolossoi che si fingevano per il morto insepolto, perito chissà dove. Ecco ricomposta la coppia, per l’eternità – diciamo con commozione invincibile.

Ci vediamo a Bose?

Un cordiale saluto