Home Blog Pagina 44

FRAGiLiCiTY festa per il ventennale di Nazione Indiana

0

Nazione Indiana ha compiuto vent’anni nel 2023! Siccome non tutti i compleanni sono uguali, Nazione Indiana ha deciso di festeggiare il suo ventennale con due iniziative: nel marzo scorso a Parigi e adesso a Milano, città in cui è nata. Infatti sabato 21 e domenica 22 ottobre si terrà al parco Trotter [al Teatrino e all’ex chiesetta, MM1 Rovereto] FRAGiLiCiTY festa per il ventennale di Nazione Indiana, nella quale  redattori e amici di Nazione Indiana discuteranno di alcuni temi significativi nel panorama politico culturale odierno.

Si comincia sabato 21 ottobre alle ore 15 presso il Teatrino con Fragilità degli ambienti urbani: l’evoluzione della città vista da scrittori e architetti [partecipano Gianni Biondillo, Davide Borsa, Stefano Casciani e Andrea Inglese]: proprio ai confini di quella curiosa creatura urbana che è NOLO si rifletterà su significato e conseguenze sociali e culturali della gentrificazione, di altre trasformazioni urbanistiche.

Alle ore 17 di sabato sempre presso il  Teatrino si prosegue con Dall’ispirazione alla sostituzione: la scrittura letteraria di fronte all’IA [partecipano Emanuele Bottazzi, Lisa Ginzburg, Nicola Ludwig, Giorgio Mascitelli, Silvia Pareschi, Giacomo Sartori]: l’introduzione di ChatGpt e altre innovazioni dell’Intelligenza Artificiale sembra investire direttamente la pratica della letteratura e si discuterà sia sulle novità effettive sia su quelle solo annunciate.

Alle ore 21 sempre di sabato ci si trasferisce alla vicinissima Ex chiesetta (entrata da via Angelo Mosso 7) per Letture ed escandescenze indiane: i redattori di Nazione Indiana presenti [Mariasole Ariot, Gianni Biondillo, Lisa Ginzburg, Andrea Inglese con il musicista Gianluca Codeghini, Helena Janeczek, Giorgio Mascitelli] leggeranno loro testi poetici e narrativi apparsi su Nazione Indiana o inediti.

Domenica 22 alle ore 11 si torna al Teatrino del parco Trotter per un incontro sui 20 anni di Nazione Indiana: ritorna sul luogo del delitto Antonio Moresco e con lui dialogano Helena Janeczek, Francesco Forlani, Davide Orecchio e Jan Reister.

La redazione di Nazione Indiana ci tiene a ringraziare la scuola Casa del Sole e in particolare il dirigente scolastico prof. Francesco Muraro per l’ospitalità e la cortese disponibilità.

Les nouveaux réalistes: Mirco Salvadori

6
Scatti di Stefano Gentile

                                           

Scatti di Stefano Gentile

 

  f r a m m e n t i

di

Mirco Salvadori

Saper dosare la banalità e il paradosso: è tutta qui l’arte del frammento: proprio una gran frase ad effetto. L’aveva trovata in rete e ne ignorava l’autore, filosofo nato in Transilvania e vissuto a Parigi.

Aveva trascorso ore incollato davanti al portatile alla ricerca di una frase convincente, qualcosa che mascherasse la sua inettitudine traducendola in svogliato gesto di colta concessione: frammenti, azioni nate dall’incompiutezza che da sempre lo perseguitava e che ben sapeva usare, al pari dei mille pezzi di un Ravensburger, quel gioco di composizione da sempre odiato, un rutilante insieme di cartoncini a cui solo un asceta poteva sperare di dare un senso quantomeno visivo, che per il resto era materiale da pura discarica.

Spesso si chiedeva chi fosse, lo faceva in special modo quando l’immagine allo specchio gli rimandava il lavoro che il tempo aveva prodotto sui suoi lineamenti di anziano in costante anticipo sul divenire degli avvenimenti che lo riguardavano, un anticipo dovuto al disastroso ritardo che pesava sulle sue spalle di immobile viaggiatore temporale verso una interiore crescita reale giunta assai dopo il dovuto o forse mai avvenuta. Il suo metro di valutazione era da sempre la Musica, trasformatasi dopo molti anni di ascolto in Suono. Pur non amando particolarmente questo gesto, abitava comunque e costantemente il ricordo e questo gli permetteva di visionare i vecchi filmati che tale frequentazione consentiva: il suo primo vinile da ragazzino, l’infinito percorso attraverso i vasti territori dei vari generi musicali ai tempi non così diffusi, l’impatto sonoro provocato dalla fine degli anni settanta sul vinile stampato dai cantautori italiani e il grande e frenetico salto nella filosofia musicale degli ottanta compiuto quando la giovinezza ormai se ne stava andando. Da quel momento in poi il meccanismo temporale segna un costante anticipo causato dal ritardo, il rock indipendente si trasforma nella vibrazione elettronica negli anni novanta, il nuovo millennio lo trova alle prese con echi sempre più densi e distanti dall’ascolto massificato, fino a giungere ad oggi, seconda decade di una realtà sempre più vicina allo spavento come reazione ordinaria e normale, tradotta in ascolti capaci di tradurre tale sensazione in maniera lucida e immersiva. Sapere di avere come compagni di cuffia esclusivamente giovani ragazzi o ben che vada adulti con anni in meno sulle spalle, gli donava quel senso angosciante di ritardo anticipato contro il quale nulla poteva, così come nulla poteva contro il procedere del tempo.

L’esperienza di tempiternità è vivere il presente come esperienza intensa dell’istante senza riferimento al passato che fu o al futuro che sarà. E’ il presente sempiterno nel quale si realizza un’azione veramente tale, ovvero autentica e quindi, unica. La tempiternità sta a significare che l’essere e il tempo sono interrelazionati in modo tale che non v’è nulla che rimanga non toccato dal tempo, neppure l’eternità. Al contempo l’aspetto temporale della realtà totale è “soltanto un aspetto parziale della natura tempiterna delle cose”. Non vi era cosa più lontana dal suo intimo e profondo essere, del pensiero di un sacerdote filosofo e guru spagnolo. Eppure quelle righe gli donavano come una sorta di pace e calma interiore, aiutandolo ad affrontare il grande mostro che ogni cosa trasforma e trascina con sé: il tempo.

Per quanto tendesse a nascondere tale ossessione, il tempo era il metro con il quale misurava le cose, un po’ come la musica prima e il suono poi. La visione del mondo e del suo mondo interiore, era tutta racchiusa in bilico sul margine di un consumato righello che non segnava i centimetri ma gli anni. Sapeva di non essere il solo a subire questa maledizione ma mai avrebbe pensato di condividerla con chi il percorso della vita lo aveva iniziato molti anni dopo il suo.

Per la prima volta aveva adottato un comportamento per lui stupefacente: era onesto con se stesso. Aveva  abbandonato l’incoscienza e i giochini nel passato, viveva quell’incontro avvenuto per caso nella chat di un gruppo Facebook chiamato The Soulsavers, come il duo anglo-americano, con ovvia curiosità e molto interesse ma al contempo con la consapevolezza dei ruoli che sempre lui, il tempo, ora imponeva alle due figure ora in bilico sopra quel logorato righello.

Complicato per me pensare di conoscerti immergendomi nel tuo digitare, non posso sapere quanto del tuo intimo silenzio trasformi in profonda condivisione travasandolo sui tasti che ci connettono. Non intendo certo forzare la pressione delle tue dita o la loro velocità sulla tastiera. Faccio ciò che mi risulta più naturale per collegarmi con chi a sua volta non mi conosce: ti invio suono. Mi basta per raccontarti chi sono e chi mai probabilmente sarò, lui le scriveva. Credimi io ti assorbirei, come una perilinfa nel canale uditivo/sbalorditivo. Non voglio leggere di te da internet. Non l’ho fatto finora e non lo farò. Voglio sapere di te quello che ti va di dirmi di te. E tutto questo suono che sei, che sgorghi, io lo assorbirei. Till last drop, lei gli rispondeva.

 Se mai ci incontreremo dammi 15minuti del tuo tempo, dovró abbracciarti per donarti quel poco rimasto del mio non ancora andato disperso, lui le scriveva. Quel tempo che sembra fermarsi che ferma tutte le cose è il tempo che conosco, in cui sto bene.

 

15mila minuti, lei gli rispondeva.

 

Sapeva che mai l’avrebbe incontrata; non era certo l’oceano che li divideva geograficamente il motivo, ma la rarissima purezza di uno scambio che lo stupiva per la sua troppo intima essenza giunta dal nulla, senza preavviso alcuno e il terrore che la magia scaturita dal vorticoso mescolarsi dei loro pensieri, potesse realmente finire proprio con un lungo e sincero abbraccio seguito dal suono delle loro voci non più tradotto dalla tastiera del pc. Questo, ma anche la consapevolezza del suo essere costantemente fuori tempo e luogo, in ritardo dentro una chat il cui nome apparteneva ad una formazione che, a dirla tutta, non aveva mai amato granché.

 

Riesumò da una cartella il testo scritto per un reading sonorizzato da un grande poeta del minimalismo elettroacustico italiano, Sono Nato Storto recitava il titolo: Da sempre abituato a navigare in mari distanti e difficili da narrare a chi poco è abituato a navigarli io insisto. Non ho notorietá e forse neanche mi interessa averla, ho scelto un percorso diverso piú complicato e da decenni affronto le tempeste e le supero. Sono nato storto vado alla ricerca dei gorghi e dei fondali dai quali spuntano scogli che possono in un attimo spezzare la spina dorsale ma vado avanti. Attorno a me solo la furia del mare e la violenza del silenzio interrotto di tanto in tanto da voci amiche, limpide come i fondali di quella laguna che prima o poi troveró. Ricordò questa intima e ai tempi per lui furiosa confessione perduta nelle pieghe del passato, proprio per il finale nel quale brillavano come squame di mille sirene danzanti nella tempesta, quelle voci amiche con le quali ancora aveva la fortuna e il piacere di intrattenersi, sempre storto e sul limite della vecchiaia in un consesso di lontane anime non ancora toccate dal pensiero della fine.

 

Cliccò e il copia incolla si trasformò in veloce messaggio capace di varcare l’oceano in meno di 15 secondi.

 

Che altro nascondeva quella frase letta all’inizio dei suoi intricati pensieri, quelle parole legate alla banalità. Forse che nel suo intimo sentiva bruciare la fiamma del finto e ridicolo nichilismo? O più semplicemente, era un metodo di fuga ben studiato per evitare le frane, gli smottamenti di un lungo percorso, affrontato preferendo sempre la pianura e mai il ripido sentiero che si inerpica nel fitto bosco delle difficoltà, quei faticosi passaggi capaci di tradursi in insperate e discontinue possibilità: Saper dosare la banalità e il paradosso: è tutta qui l’arte del frammento.

scatti di Stefano Gentile

 

 – f r a m m e n t i –

                                               

Siamo ferocemente esondati uno nell’altra. Abbiamo travolto gli argini non appena il tempo ha smesso di sorvegliarci a vista, eruttato come lava ardente quando nulla avrebbe potuto frenare il nostro scivoloso e incandescente tragitto che ogni cosa fondeva. Siamo costantemente vissuti in un frastuono di promesse, progetti, desideri, sogni, racconti, confessioni, indossando le nostre anime strappate al costante silenzio di chi diffida. Ce la siamo scordata, quella linea temporale superata oltre venticinque anni or sono. Lei ora ci ha raggiunto soffiando sui nostri sguardi tutta la cenere che ci siamo lasciati alle spalle. E’ un molesto fardello che pesa e rende lento il procedere spoglio di  promesse, progetti, desideri, sogni, racconti, confessioni. Si fosse in grado di vivere in bilico sul margine di un consumato righello che non segna i centimetri ma gli anni, potremmo iniziare a mantenerci in equilibrio, convinti di riuscirci senza precipitare. Ma il tempo pesa e sbilancia e schianta, prima di sussurrarti che sei alla fine.

 

Dalla sua amata compagna di una vita ricevette solo un breve messaggio di risposta; conteneva la descrizione di un sogno fatto quella stessa notte:

 

nell’esperienza onirica ero una sospiratrice, non un Maestro vetraio che semplicemente soffia, bada bene. Io cesellavo con il sospiro il Frammento. Eravamo in pochi, rimasti nei nostri vetusti frammentatoi. Si continuava isolati e imperterriti da anni in quell’arte per altro mai riconosciuta. Un bisogno inspiegabile ci spingeva ogni giorno a sospirare creando. Conoscevamo il Frammento in ogni sua declinazione e lo plasmavamo a nostro piacere. Al pari di free climber, ci arrampicavamo aggrappandoci alle fessure invisibili che solo il nostro sospiro poteva percepire e indagavamo ciò che la parete delle altrui banalità nascondeva ai più. Chi non possedeva il dono del sospiro ci descriveva al pari di stupidi vetusti nichilisti; in verità eravamo semplici e meravigliosi Sognatori destinati a svegliarci, le dita ferite ancora ritratte nella posizione dell’artiglio che nulla però riesce più a trattenere.

 

Addio.

 

 

                                             f r a m m e n t i –

 

Due promontori gli stringono le tempie mentre assetato cerca di raggiungere l’insenatura, quell’apertura la cui calda onda attende di sgorgare e verso la quale una forza primitiva, ancestrale, lo sta spingendo.

 

Le due lingue di vellutata epidermide che serrano il suo capo si vanno via via restringendo, la loro morsa è una scossa che si perde nell’ansimare di una bufera pronta ad esplodere, pronta a far esondare quel mare nel quale immergersi per rinascere.

 

Come un nuotatore esperto allunga ogni organo del corpo per superare la potenza tellurica scatenata dai muscoli tesi contro cui nuota, immerso nella densitá di un cielo rosa sussulto.

 

GUARDAMI!

 

Lo sente quel richiamo, conosce alla perfezione il verde insostenibile da cui giunge. Con un gesto improvviso si libera dalla stretta e salta verso quell’ansimare, dritto come un fuso nella tempesta.

 

GUARDAMI, ADESSO GUARDAMI!

 

Quante declinazioni puó avere il colore verde, quanto il delirio della sua profondità quando, soddisfacendo la richiesta e fissandola negli occhi, lei aziona la sua aggressiva voglia di frantumarlo, finirlo, sgretolarlo, polverizzarlo, annientarlo, amarlo.

 

Inerpicarsi giù giù dove quel mare schiuma e urla e poi risalire su su nell’attesa dell’onda che nuovamente trascina nel profondo, a un centimetro dall’estremo dono, a un milionesimo di millimetro da quel verde insostenibile.

 

Lontano miglia dall’amore, follemente perduto nella ferocia della fine, nell’estrema tensione di muscoli e nervi che improvvisamente formano un arco dentro il quale spinge e viene spinto, getta la sua anima sfinita nel fuoco dell’illusione di un atteso gemito che urla che si trasforma in respiro affannoso che si trasforma in un lungo sospiro che si trasforma in un sorriso che si trasforma in un abbraccio che si trasforma in un in-finito sogno colorato dalle mille sfumature di un iride al quale si è inchinato, sulle spalle il scivoloso peso del piacere.

 

Guardami ancora, ora.

    

 

 

                                             f r a m m e n t i –

 

 

Il passaggio è stato lento, troppo lento. Il passaggio è stato doloroso, maledettamente doloroso ma ora, nulla di quanto ho vissuto e sofferto più mi appartiene.

 

Non so dove mi trovo, lo sguardo di un tempo più non serve, non basta per comprendere in quale realtà sono immerso.

 

Una sola percezione: sento di essere poca cosa, un indefinito non descrivibile che possiede dimensioni infinitamente piccole e al contempo sconfinate.

 

Ascendo.

 

Qualcosa di inimmaginabile, vasto, immenso, senza limite mi sorregge ma la mia vista è ancora legata a ciò che ero e vedevo. Non riesco a descriverlo ma sento, lo sento!

 

Lo sento e il suo lieve abbraccio è un contorcimento che mi devasta di bellezza!

 

Ma non ricordo

 

in un solo attimo ho dimenticato il pianto, più non ricordo come accenderlo con la fiamma della beatitudine.

 

Io non ricordo perché più non sono.

 

Ora mi innalzo nel tutto e il tutto mi solleva tenue in uno stato di grazia che non appartiene a nulla di quanto visto o studiato o immaginato.

 

è… è…

 

È suono! Posso solo definirlo con questa parola, una delle ultime che ancora non si sono lentamente sbriciolate assieme al ricordo.

 

Ascendo!

 

Immobile al termine dell’ascesa, levito sospeso nel tutto che contribuisco a creare ed espandere.

 

Sento che giunge

 

la chiamata giunge possente, puro delirio cosmico moltiplicato per miliardi e miliardi di impossibili lacrime di stupore, gioia, paura, terrore, incredulità o forse altro ancora raffigurato come vecchie emozioni ormai perdute nell’eternità di questo attimo.

 

Ci sono.

 

Sono lì dove il per sempre è un baleno.

 

Sono giunto e vedo

 

distinguo il nulla e il tutto di cui faccio parte, distinguo l’immensa vastità del mio non essere e al tempo stesso sentirmi.

 

Sono immenso cullato dall’inesauribile.

 

Sono giunto e ora vedo!

 

Sono essenza.

 

 

**  mail del 17.06.2023  ore 03.18 

invio recensione best year song per il Mensile Musicale Approaching Silence. “Anchor”  by All Hands Make Light – Constellation Records 2023accludo link Bandcamp per ascolto:  https://allhandsmakelight.bandcamp.com/album/darling-the-dawn

 

                                          

scatti di Stefano Gentile

                                          

 

                                          f r a m m e n t i –

 

Nella calma del mezzogiorno estivo, all’improvviso partiva il rombo del bicilindrico.

Mia madre si girava di colpo correndo verso quel rumore che ben conosceva  sapendo benissimo cosa significasse: una decisione che a lei proprio non andava giù:

 

Marco dove ti va?! Tra poco xe pronto in toa!!

(Dove stai andando Marco! Tra poco è pronto in tavola!)

 

Mio padre la guardava con il casco giá allacciato e il cancello spalancato.

 

Irma! Manca el pan, vado a torlo!

(Manca il pane, corro ad acquistarlo).

 

Ma se eo gavemo tolto stamattina??!!

(Ma se lo abbiamo preso stamattina??!!)

 

Ah vero, manca ea ua e e banane!

(Vero, mancano comunque l’uva e le banane!)

 

Gavemo tolto anca quee!!

(abbiamo preso anche la frutta!!! Spegni quella moto che stai facendo un rumore infernale!!)

 

Vovi? Crekers? CocaCola? Me par che manca.

(Uova? Crackers? CocaCola? Mi sembra manchino)

 

STUA QUELL’OSTIA DE MOTO E VIEN SU!! CHE XE PRONTO DA MAGNAR!!

(Spegni quella moto maledetta e torna su che è pronto in tavola!!)

 

Questa era una scena ricorrente nelle estati trascorse al Lido: mio padre (ז״ל)** non perdeva occasione per inforcare la sua bicilindrica e scorrazzare lungo le strade dell’isola; le occasioni le inventava, nel caso non fossero credibili. L’altra attrice principale della splendida commedia era mia madre (ז״ל )** che puntualmente cercava di bloccarlo urlandogli dal balcone che affaccia sul giardino.

Confesso che era uno spasso, una vera commedia nella quale i due attori eccellevano nell’interpretazione.

 

Oggi per la prima volta in vita mia, ho inforcato quel rombo che il tempo non è riuscito a zittire e come mio padre, sono andato a fare spese nel piccolo supermercato vicino casa.

 

Prima di uscire dal cancello ho alzato lo sguardo: li ho visti affacciati a quel balcone, sorridevano.

 

                                           f r a m m e n t i –

 

Siamo frammenti di ciò che vorremmo esser stati

di ciò che mai saremo

di ciò che solo la fortuna vorrà noi si divenga

 

Siamo frammenti scagliati con forza nel sottopasso che la vita ha scavato per ridurre le distanze tra le nostre delusioni e l’abitudine a riprendere la corsa

 

Frammenti immortali nel fluido istante della carne, unico attimo nel quale apriamo gli occhi nel capogiro dell’esplosione che ci scaglia mille miglia fuori rotta

lontano da ciò che vorremmo esser stati, saremo o ciò che solo la fortuna vorrà noi si divenga.

 

** Onorificenza per i defunti nella religione ebraica: ז״ל – zl” – zikhrono livrakha (maschile) o zikhronah livrakha (femminile)- “il suo ricordo sia una benedizione”.

 

 

frammenti  

– mirco salvadori – parola

– stefano gentile – immagine

 

Venezia, 18.09.2023

 

 

 

 

Da “Stati di quarantena”

0

di Luigi Severi

.

Così tanti uccelli, che resto stordito. Mi svegliano all’alba, tengono l’intero quartiere in ostaggio con una febbre elettrica, per uno, due giorni. I rami si flettono fino a sfiorare terra, volano foglie e piume a ogni passaggio. Fibrilla l’aria, le macchine si coprono di sterco. Al terzo giorno si apre la sua porta, e appare lei stupefatta, persino mi si avvicina. Che cosa pazza, dice, e forse per sbaglio mi sfiora la mano. Neanche mi ricordavo più della sua voce. In questi mesi forse ha cambiato taglio di capelli. Ma la mattina dopo mi risveglia un silenzio. Il mondo è tornato spigoloso, grigio. Una macchina che si accende in lontananza, qualcuno bestemmia per tutto quella lava di escrementi. Dall’altra stanza, il silenzio è persino più duro. Deve essere di già chiusa al lavoro.

Colleziono arti. Di fronte alla resistenza delle cose, mi intestardisco, tento il tutto per tutto. Colleziono parti, interiora in barattoli, unghie. Le filmo dissolversi, illiquidirsi, evaporare negli anni fino a una macchia inodore. Seppellisco i film così ottenuti, magnifici, nel bosco, sotto terricci, pietre; li incastro in buchi d’albero. Riemergeranno, e quando? Metto alla prova, è chiaro. Rilancio la sfida come posso.

Ammettiamolo, sembrava proprio che il ragazzo la prima volta fosse entrato nel giardino per rubarmi le arance. Ecco perché mi ero avvicinato a passi svelti, già pronto ad usare certi metodi. Maledetti stranieri, era la formula; vi insegnerò il rispetto. Ma quando fui più vicino, e scorsi il profilo del ragazzo, così sognante ma al tempo stesso intento a contemplare, la rabbia si raffreddò in un attimo. Quell’espressione concentrata, quegli occhi che scrutavano, millimetro per millimetro, la corteccia liscia e marrone della pianta. Si trattava, non c’era dubbio, di un demente, ma di quelli innocui. Ne ebbi conferma di fronte al suo silenzio testardo; ai gesti e ai toni mortificati di suo nonno, che si scusava con tutto l’inchinarsi del suo corpo, visto che la loro lingua non era comprensibile a nessuno. Gli feci cenno di portarselo via, con accigliata ma clemente fermezza. Non avevamo bisogno, dopo quello che era successo e stava succedendo, di gente migratoria; osservandoli, così chini e dimessi, capivo infatti che venivano da zone calcinate, cretti cementizi, polveri esplose, solo ora più frequenti anche da noi. L’epoca del Disfacimento aveva gradi diversi; loro erano scappati dal peggiore. Richiusi quindi il cancelletto, fino al clac e alle due ombre che si allontanavano amare, giù dalla parte dei garage. Me ne rimase un’impressione, che quasi mi fece compagnia i giorni seguenti. Non fui allora stupito quando, al principio di una grigia alba, scorsi di nuovo il demente, stavolta di fronte al gelso nero, quasi in dialogo stretto coi suoi rami, in attenta valutazione della sua corteccia troppo desquamata, delle sue foglie tormentose, alterne. Fui invece più attento, incuriosito, quando lo vidi avvicinarsi, emozionato, allo scotano. Sembrava quasi grato, di fronte a quell’arbusto prostrato, alle sue ramificazioni, al tappeto della sua infiorescenza dai peduncoli piumosi. Sembrava studiarne, con una leggera pressione delle dita appena intruse nella terra, la forza propagata delle radici; per poi scuotere la testa, insoddisfatto. Credetti che, aspirando come il più valido giardiniere l’aroma di trementina e tannino delle foglie, apprezzasse il grado di salute della pianta, restando poi in contemplazione della sua propagata, sebbene già fragile, bellezza.

Questo, per i pochi mesi della nostra silenziosa conoscenza, divenne un rito. Poiché non avevo più nulla da fare, aspettavo il demente fin dal momento dell’aurora, che rivelava i bordi rugginosi dei balconi, la noia delle parabole divelte, le piramidi di lamiera in lontananza. Col passare dei giorni, mi accorsi che molto meglio di me comprendeva, a prima vista, la sofferenza smagrita dell’ontano, o la rassegnazione del roveto ardente, cresciuto un tempo in forma libera e ora così lacero, da produrre deboli foglie opache, nate morte. Il demente seguiva, ogni mattina, con una tenerezza serena e composta, lo svigorirsi insensato delle mie piante, cercando di confortarle per vie segrete, tattili; o forse viceversa; non lo so. Quel che so, è che quando anche il prugnolo si ammalò, e le sue foglie minime decaddero, e i rami scheletriti misero a nudo nidi deserti da anni: allora il demente si sollevò in piedi, uscì dal cancello, e così com’era venuto si dissolse.

Cammina in modo da non dover mai incontrare la sua ombra. È una delle strategie che ha dovuto mettere a punto. Per fortuna la vita in un monolocale, il lavoro a distanza, la posizione seduta gli ha permesso di ridurre al minimo gli incontri con se stesso. Più che con la luce diurna, il problema è quando i lavori si protraggono. È stato sufficiente un gioco di illuminazione (del resto, lavora nel settore), un’accorta distribuzione e inclinazione di faretti e luci dall’alto, schiaccianti, per sterminare al massimo le ombre a cui dava vita, tutte scorie di sé, quella prole fantasmatica e fluttuante che letteralmente iniziava ad aggredirlo. In attesa del buio, che lo salva. (Non fosse per il respiro monotono, per i rumori interni, acquei e meccanici, che lo assordano da dentro nottetempo).

Marco, ci sei? Puoi dirci la tua opinione, su questo contratto?

Potrebbe, in effetti.

Ma: 1. Il nome Marco comincia a detestarlo. 2. La sua voce, sempre uguale, produce nuove categorie di fastidi uditivi, attinenti assieme alla fisica e alla sua privata biologia. 3. È alle prese con un pensiero che da tutta la giornata lo affligge.

Il pensiero in questione riguarda sempre più strettamente alcune intempestive pressioni nel suo corpo. Si è accorto infatti che la sua vita diurna consiste in continue assunzioni di cibo, le quali peraltro comportano sempre il disfacimento di corpi altrui, vegetali o animali che siano. Ma non è di tempra filosofica o morale, il suo problema, quanto grettamente pragmatica. Non soltanto infatti deve avere a che fare col movimento frequente e rumoroso delle mandibole, lo sgretolamento delle carni d’altri, la liquefazione schiumosa in bocca delle fibre, ma anche con la sempre più pericolosa e concreta percezione dei propri liquidi, flussi, acidi, secrezioni, succhi vorticanti, nonché delle molteplici colonie batteriche che popolano i suoi anfratti più bui, e che non ha mai avuto modo di vedere, con cui non ha mai apertamente pattuito, fosse stato possibile, la gestione di spazi o di risorse. Peggio ancora, per una legge erronea, questo magma di cibo digesto, variamente lavorato in zone intestine del proprio corpo che neanche può visualizzare o percorrere (si domanda perché gli occhi siano solo puntati verso l’esterno, quando è il mondo d’interiora che più conta), quel fluido scorrente verso il basso dopo tanto oscuro percorso diventa giocoforza liquame, così sudicio e infetto, così umiliante e rivelatore, che ormai lo lascia giacere sul fondo nauseoso di un catino, perché nessuna corrente idraulica artificiale possa dissolverne, a evacuazione finita, la coscienza.

Marco puoi sentirmi, puoi rispondermi.

Ma la risposta, decide all’improvviso, è negativa, perché la sua lotta contro tanto ripugnante espressione di sé, anzi contro tutte le sue più vili e disturbanti manifestazioni è ormai una guerra – ha deciso da tempo – senza quartiere, e nessun alimento da giorni si muove più, orrendamente, nei suoi tubi oleosi, e quella pressione sfinterica, quella tensione liquida e urinaria che lo provoca e sfinisce non lo vincerà più, pensa di nuovo con un filo quantomeno di soddisfazione, mentre contempla dentro il catino, a sfida, quel movimento caotico di insetti e sozzura sobbollente, cui non contribuirà più, finalmente orgoglioso di sé, avviato a qualcosa di pulito; che sia esempio.

Il bambino di cinque anni aveva una sua consistenza morbida, acquea. Aspettava sulla soglia di casa la madre che rientrava, mentre il maggiore di là giocava a qualcuno dei suoi giochi pieni di rumori, sagome sul computer. La madre era sempre molto stanca, dopo tutte quelle ore di lavoro, ma lo abbracciava lo stesso fino in fondo, ne palpava la consistenza acquea ed assorta, in fioritura lenta, come se stesse aspettando qualche cosa.

Sta aspettando, abbiate fiducia, aveva detto la dottoressa delle parole. Lui la ricordava bene, la dottoressa delle parole. Era donna, aveva quel profumo e molti capelli intorno al viso, una raggera di capelli neri e mossi, come avessero sempre il vento dentro. Gli parlava, gli faceva muovere cubi con colori, disegni, lettere. Il suo preferito era quello con sopra una rana. Prendi la rana, lei gli diceva. E lui la prendeva. Ora prendi la formica. E lui la prendeva, docile. Poi gli diceva di prendere molti altri cubi, e sempre si meritava il consenso della dottoressa delle parole, che poi di là diceva: non capisco, sa tutto, ma sceglie di non parlare. Sta (secondo me) come aspettando.

Lui, infatti, aspettava. Aspettava per esempio la madre, che quando lo vedeva dopo molte ore poi lo abbracciava, sebbene molto stanca, fino in fondo, a fondere acqua e ossa. Oppure l’uomo, che tornava e gli piaceva di meno, così slegato e assente com’era, coi lineamenti duri, l’odore di fumo e cose acide nei vestiti, negli occhi incisi di rosso. Aspettava anche i due bambini magri e duri, che lo battevano il giorno dopo, col dorso della mano o con le nocche, quando la maestra non vedeva, perché lui era lo scemo della classe, e tutti ne ridevano, mentre il sole tagliava in obliquo l’aria della classe.

Ma aspettava soprattutto il rospo, quell’essere molle e fragile, che ogni sera vedeva spuntare da dietro il cespuglio. Non era il primo, e sapeva sempre come sarebbe finito, perché il bambino di cinque anni conosceva soprattutto attraverso i ricordi. Il cespuglio era là dietro, e nessuno sapeva neanche che esistesse, perché da quella strada uscivano soltanto macchine, o ci rientravano, e in fondo c’erano eco di metalli sbattuti, odori di oli stagnanti, di accumuli.

Invece, senza alcuna ragione al mondo, e senza che nessun altro lo sapesse, da dietro quel cespuglio si ostinavano a nascere rospi dai corpi enfi, esseri muti e morbidi, acquei. Lui conosceva l’ora giusta; usciva, aspettava; poi i due si guatavano, a lungo. Per certe creature il tempo ha una durata diversa, comincia e se ne va in unico involucro rotondo; e solo chi ci sta dentro può incontrarsi.

Poi succedeva sempre: che una di quelle ruote passasse troppo presto, o troppo tardi. Il rospo allora svaniva in acqua, e il bambino rientrava nell’odore, nel corpo duro e acido della casa, pensando a qualcosa come a un numero, qualcosa che non finiva mai, che si aggiungeva sempre, un po’ alla volta; come le gocce dal rubinetto nella notte.

Giorno 1. Mi sveglio e non riesco ad alzarmi. Tanto il dolore. Provo a infilare la mano, e dentro c’è qualcosa. Resto incredulo, ma i fatti sono i fatti. Quando lo estraggo, lo osservo e scopro che è un tamburo, di quelli per bambini, di squallida plastica. Mi domando che scherzo sia questo, e chi mai di notte abbia deciso di impiegare del tempo per mettermi un oggetto, inutile in partenza, nella pancia. Confuso e dolorante, provo a andare a lavoro, persino a dimenticarmi della cosa.

Giorno 2. Però la mattina dopo ci risiamo. Mi sveglio di nuovo rattrappito. Grande il dolore, al centro del ventre. Invece è solo un oggetto di elettronica, qualcosa come una sveglia, oltretutto di scarse dimensioni. Sdrammatizzo: magari funzionasse, una sveglia poteva anche servirmi. L’ironia, penso tra me mentre mi alzo, potrebbe essere una chiave di distacco.

Giorno 10. La cosa ha preso invece questa piega. Non so spiegarmelo, nessuno sa spiegarmelo, ma sta di fatto che accade. Capita solo a me? Sono vittima di un’azione dimostrativa? Di un esperimento sugli oggetti, cui non ho mai aderito, e il gioco sta proprio in questa inconsapevolezza? Le domande sono molte, le risposte nessuna, tranne quella più ovvia. I dieci oggetti sullo scaffale. A questo punto so che la cosa non può smettere, se non trovo quanto prima un bandolo.

Giorno 13. Così non posso andare avanti, lo capisce? Alla fine, sbottando, gli ho detto di aprire gli occhi. Chissà che in quella grossa pancia anche lui non abbia mille oggetti, e non se ne accorga per via della sua semplicità, o noncuranza. Questo ho detto, al dottore che mi guardava, e non capiva per cosa dovesse farmi un certificato di malattia. Mi ha guardato in silenzio. Mi ha prescritto una settimana di riposo. Ma quel suo sguardo non mi ha tranquillizzato. È ovvio che non mi abbia creduto. O forse anche lui è parte del gioco.

Giorno 16. Dolore. Troppo lo strappo, all’estrazione. Anche se gli oggetti sono piccoli, possono sempre essere puntuti. Niente mi ha dato più dolore delle pinzette per ciglia e sopracciglia, stamattina. Passerò l’intera giornata a riprendermi. (Né so per quanto riuscirò a resistere).

Giorno 22. Altri oggetti di elettronica. Confusi, senza capo né coda. In coppia. Forse prototipi, o rottami inservibili. Sta di fatto che striscio, se voglio arrivare a bermi un sorso d’acqua; tanto il male.

Giorno 24. Che ingenuo sono stato, a fidarmi. Mi vedo questo signore, stamattina. Gli indico la caterva di oggetti, sullo scaffale. Che apra gli occhi. Discorso, il mio, chiarissimo. Eppure fa mostra di non capirlo, di non capire affatto. Prende appunti, sembra tecnico e in ascolto, ma quando poi mi guarda vedo bene che non mi crede, o finge di non credermi. Che sia anche lui parte del gioco? Mi dà gocce da prendere nell’acqua, compresse, per vedere come va il dolore, dice lui. Per vedere se passa questo fenomeno, dice lui. La parola fenomeno va bene? Mi posso fidare?

Giorno 31. Non riesco più nemmeno a cucinarmi. Ieri quel pupazzo in gomma era gentile, ma oggi qualcosa come un flessibile o altro mi ha disfatto. Mi sento squarciato, ormai allo stremo.

Giorno 33. Comincio a intuire una logica. Stanno dimostrando qualcosa attraverso di me. Gli oggetti, di ogni specie, mi sogguardano, da quello scaffale. Allineati, molteplici; là sopra. Sono stati parte di me, arrivo persino a rispettarli. C’è un codice, che ancora non riesco a intendere. Sono stato il libro scritto in un codice nuovo, indecifrabile. Fatto di cose, simboli corporei.

Giorno 34. Ma lascio ad altri, io sono così stanco, che non arriverò in fondo. Finisce qui la mia testimonianza.

Chiara ha denti sottili, si muove con piedi abili e svelti. Quando qualcuno si accorge che c’è, dentro la stanza, lei si difende sorridendo, e dalla linea delle labbra lascia uscire quei denti piccolissimi, da latte. L’altro si disarma, e di fronte a quella stranezza silenziosa lascia andare, si applica ad altro. Per qualche secondo gliene resta una scia di particelle, poi più niente. Chiara preferisce certi frullati bianchi, d’altra parte; e se è costretta a mangiare, lo fa aspirando frammenti dagli angoli; molliche.

*

[immagine: Andrea Inglese]

Sotto la campana di vetro dell’America puritana

0

di Mauro Baldrati

Questo è l’unico romanzo scritto da Sylvia Plath. Almeno così risulta, perché il beneficio del dubbio serpeggia. I suoi testi sono stati curati dal marito, il poeta inglese Ted Hughes, il quale ha distrutto molte pagine dei diari perché “non volevo che i figli li leggessero”. Ma forse si parlava anche di lui in termini non proprio edificanti. Probabilmente, nel romanzo, alcuni suoi tratti rivivono nel personaggio di Buddy Willard, che doveva essere il promesso sposo della narratrice, Buddy l’ipocrita. Verso di lui va e viene, come una sorta di Yin Yang (an)affettivo che corre sulle pagine, un sentimento doppio di attrazione e repulsione, che potremmo definire la “cifra” dell’intero testo. Infatti Esther, la brava ragazza bostoniana, efficiente, la prima della classe, quando si trasferisce a New York vive proprio questo dualismo positivista/negativista, che ci accompagna per tutto il romanzo.

Ma è un romanzo? L’aspetto biografico è palese, infatti Sylvia lo pubblicò nel 1963 con uno pseudonimo, temendo che diversi personaggi potessero riconoscersi nei loro profili letterari niente affatto smart. Già, perché la Plath non concede sconti, li fa muovere in un teatro dello straniamento, del grottesco addirittura. Un po’ come nella Recherche, dove alcuni modelli dei favolosi, aristocratici cicisbei si offesero a morte e tolsero il saluto all’autore.

Potremmo definire La campana di vetro un’autofiction tardo-antichista, perché il filtro letterario depura e/o drammatizza ogni interfaccia dell’autobiografismo, in particolare il già citato dualismo partecipazione-distacco, azione e osservazione, con la crepa del paradossale, del triste, dell’inutile. Esther vive da prigioniera sotto la campana di vetro dell’America puritana reazionaria degli anni ’50 (in particolare del 1953, quando il racconto parte con una considerazione sull’imminente esecuzione dei Rosemberg) dove l’aria è irrespirabile, cercando, forse sognando di omologarsi, di aderire alle alle regole senza pietà del conformismo. Una fra tutte il matrimonio, l’ossessione delle ragazze di quel periodo, imprigionate dalla fitta grata dell’arcigno pensiero patriarcale:

“Stavo pensando che se avessi avuto il buon senso di rimanere nella cittadina dove ero nata, magari avrei potuto conoscere quella guardia carceraria a scuola e sposarla, e a quest’ora avrei avuto una caterva di bambini. Sarebbe stato bello abitare in riva al mare con mucchi di bambini, maiali e polli, vestita con uno di quei grembiuli da lavandaia, come li chiamava la nonna, e passare le mie giornate in una bella cucina dal linoleum allegro a bere, le braccia belle grasse appoggiate sul tavolo, tazze su tazze di caffè.” (Pag. 125)

Ma 55 pagine più indietro ha scritto, molto proustianamente:

“Era sempre la stessa storia: adocchiavo un ragazzo e da lontano sembrava perfetto, ma non appena si faceva più vicino scoprivo che non mi piaceva più.

Era uno dei motivi per cui non intendevo sposarmi. L’ultima cosa che desideravo era la “sicurezza assoluta” ed essere il punto da cui scocca la freccia dell’uomo. Io volevo novità ed esperienze esaltanti, volevo essere io una freccia che vola in tutte le direzioni, come le scintille multicolori dei razzi il 4 luglio (…). Provai a immaginare come sarebbe stata la mia vita con Constantin come marito. In piedi alle sette a preparargli uova e pancetta, pane tostato e caffè, poi, quando lui fosse uscito per andare al lavoro, girare per casa in vestaglia e bigodini a lavare piatti sporchi e a rifare il letto; e lui, al ritorno alla sera, dopo una giornata intensa e affascinante, avrebbe preteso una cena come si deve e io avrei trascorso la serata a lavare altri piatti sporchi, finché sarei crollata a letto, sfinita”.

Desiderio di uniformarsi, forse per trovare una via d’uscita dalla campana di vetro, ma una impossibilità, in parte personale per una ragazza che sogna di essere una freccia che vola in tutte le direzioni, in parte per l’ostilità politica e culturale dell’esterno che non ammette deroghe né felicità, lo neutralizza. Esther fa tutto a New York. Cerca di godersi i piaceri della metropoli, va agli appuntamenti mondani come inviata della rivista di moda per la quale lavora come tirocinante grazie alla borsa di studio (Mademoiselle nella realtà), convive con le altre borsiste, conosce uomini, riceve inviti e corteggiamenti. Ma resta straniata, un’osservatrice implacabile che registra tutti segnali del grottesco: quei ragazzi tonti, volgari, li liquida con battute crudeli, come quando un’amica la trascina a un ballo con due tipi raccattati in un locale, ma a lei tocca un “tappo”, che non sopporta perché è di statura alta; e anche più avanti, quando un’altra amica vuole trovarle un accompagnatore teme di imbattersi in un ennesimo “tappetto” del piffero.

Il romanzo autobiografico procede svelto, supportato da una splendida, estrosa scrittura materialista, che qua e là evoca un’altra formidabile stilista: Goliarda Sapienza.

Corre verso la svolta, quando il desiderio – il sogno? – di integrarsi nella società si scontra con l’opposizione granitica di un mondo che non ammette libertà individuali, ma anche col proprio dolore interno, fino alla frattura del disordine mentale. Esther torna a Boston e inizia a stare male, molto male. Si sente “fuori”, si sente matta, fa cose assurde. E proprio come la sua autrice viene ricoverata in un ospedale psichiatrico, dove regna una gentilezza spettrale, diretto dal mellifluo, inquietante “dottor Gordon”. La sottopongono a elettroshock, più volte, in un turbine di medici imperturbabili, infermiere, altri pazienti, tutte figure aliene, distanti, che lei osserva con un binocolo rovesciato, che ascolta da un altoparlante isterico e afono. Non ci sono sfoghi né vittimismi, ma un’operazione letteraria raffinata che allarga il sentimento di dolore e di solitudine privata in collettivo, scardinando l’intero sistema che cauterizza il disagio e la diversità, suscitando un istinto di rivolta nel lettore. Il tutto con un distacco non privo di ironia che rende lo scenario una sorta di paesaggio lunare, che richiama un enunciato che tutti noi, chi più chi meno, conosciamo: “Ma io che diavolo ci faccio qui?”

 

Colfiorito

1

di Nadia Agustoni

Colfiorito
(qualcosa di bianco)

Sera a Colfiorito
nel garrire di rondini
in un’amnesia di cielo
e penombra
sull’ascia dei temporali
portammo radici di voci
e alveari.

A dicembre con Silvia
gli orti di Assisi a terrazza
uno spiovere di salite e azzurri
pensando ai container
ai vecchi che gelano
all’anno che finisce freddissimo senza case.

Mi sovviene — scandalosamente leggero —
il settembre bellissimo
gli olivi i solchi le colline vuote
un sole arreso il sonno una bugia fragile
un’amica che dice tu dormi con occhi che tremano
ma chiudo le imposte, con lei faccio l’amore fino al mattino
mentre i paesi crollano
in una luce senza terra
che finisce sul mare come un cosmo.

Dai margini del fiume, in un angolo,
la cagna allatta i cuccioli
senza badare al resto della vita
o a cosa il tempo faccia dei volti
o se l’attesa è una crepa, un oscurarsi,
o qualcosa da compiere
qualcosa di bianco.
 
 
[Questo testo è apparso nel libro “Poesia di corpi e parole” edizioni Gazebo 2002. Qui una versione in parte modificata.]

“Non sono una donna, io”: alle origini del femminismo nero di bell hooks

0

 

 

di Daniele Ruini

«Per me il femminismo non è semplicemente una lotta per porre fine al potere maschile o un movimento per assicurare che le donne abbiano gli stessi diritti degli uomini; è un impegno a estirpare l’ideologia di dominio che permea la cultura occidentale a vari livelli – sesso, razza, classe, solo per citarne alcuni – e un impegno a riorganizzare la società statunitense in modo che la crescita
della comunità abbia la precedenza sull’imperialismo, sull’espansione economica e sui desideri materiali.»
(bell hooks)

 

Dopo i testi pubblicati negli ultimi anni, prosegue la meritoria riproposizione da parte della Tamu edizioni dei lavori della femminista e studiosa afroamericana Gloria Jean Watkins (1952-2021), nota come bell hooks; e come già accaduto con Il femminismo è di tutti e Da che parte stiamo, anche Non sono una donna, io: donne nere e femminismo (Ain’t I a Woman: Black Women and Feminism) è qui offerto per la prima volta al pubblico italiano (grazie alla traduzione di Federica Fugazzotto). Tuttavia, l’occasione di questa uscita è forse ancora più interessante, trattandosi dell’opera prima di bell hooks, edita negli Stati Uniti nel 1981 (lo stesso anno di un altro importante libro sugli stessi temi come Women, Race and Class dell’attivista di colore Angela Davis).

Dedicato alla madre Rosa Bell Watkins (dal cui nome bell hooks ha tratto la prima parte del suo pseudonimo), Non sono una donna, io affronta di petto una delle questioni centrali del femminismo intersezionale, ovvero il rapporto problematico tra la lotta per la liberazione delle donne nere e il movimento femminista. Quest’ultimo avrebbe infatti colpevolmente del tutto trascurato la situazione di inferiorità sociale delle donne di colore, finendo per perpetuare un’ideologia razzista che assimilava l’esperienza della donna bianca a quella della donna americana tout court, e negando per principio qualunque possibilità di condurre una lotta che intrecciasse la questione razziale e quella sessista. Non ci si potrà stupire, allora, se le donne nere –che pure nel XIX secolo si erano esposte in prima persona contro il sessismo– finirono per allontanarsi dalle organizzazioni femministe.

La ricerca pionieristica di bell hooks nasce quindi dalla necessità di rifondare un femminismo nuovo, capace di riconoscere i vari livelli di oppressione di cui gruppi di donne diverse sono state e sono ancora vittime. Iniziato quando l’autrice era studentessa universitaria, Non sono una donna, io impiega programmaticamente un linguaggio semplice per poter arrivare a tutti, compresi lettori con un basso livello di istruzione: un’impostazione influenzata dalla delusione dell’autrice per gli ambienti accademici, dove i Women’s Studies erano dominati da studiose bianche e incentrati quasi esclusivamente sulla condizione delle donne bianche. Ma bell hooks non si fa scrupoli nemmeno ad evidenziare i limiti delle opere delle più importanti attiviste di colore, come per esempio Black Macho and the Myth of the Superwoman (1979) di Michele Wallace, incapace a suo dire di dimostrare l’impatto che il sessismo ha avuto sulle donne nere.

Animata dal desiderio di uscire dalle aule universitarie e di sedersi nelle cucine delle donne di colore per ascoltare la loro voce, bell hooks si rende conto, ai tempi dei suoi vent’anni, che le donne nere del dopoguerra avevano di fatto rinunciato a valorizzare la loro femminilità, adattandosi al maschilismo della società; in questo modo finivano per negare una parte di loro stesse usando la questione razziale come unico elemento di identificazione. D’altra parte questa loro remissività era raccomandata dagli stessi leader del movimento dei diritti dei neri, dato che Malcolm X, Martin Luther King e tanti altri erano «fermi sostenitori del patriarcato» (p. 152) e non tolleravano le poche donne nere che osavano esporsi pubblicamente a favore dell’emancipazione femminile. La conseguenza fu che le donne nere si trovarono «obbligate a scegliere tra un movimento nero che faceva principalmente gli interessi dei patriarchi neri e un movimento delle donne che faceva principalmente gli interessi di donne bianche razziste.» (p. 29)

Eppure un secolo prima c’erano state numerose attiviste di colore impegnate nella lotta contro il sessismo e a favore dei diritti di tutte le donne. Tra di esse un ruolo di primo piano spetta a Sojourner Truth, che nel 1851, durante un raduno contro la schiavitù, si scoprì il seno domandando più volte al pubblico se per loro non era una vera donna: «Ain’t I a Woman?» (una domanda che bell hooks ha significativamente scelto come titolo del suo libro). Queste donne hanno cercato innanzitutto di ribaltare lo stereotipo secolare, fatto proprio anche da alcuni maschi neri, per cui le donne di colore sarebbero state immorali e dissolute, ovvero il simbolo di una sessualità selvaggia; e si sono impegnate attivamente per far uscire le donne nere da quel recinto di prostituzione e povertà in cui erano spesso confinate. Tuttavia la mancanza di solidarietà da parte delle donne bianche, preoccupate di conservare una superiorità gerarchica nei confronti dei neri (come dimostrò la loro frustrazione quando negli Stati Uniti venne introdotto il diritto di voto per i maschi neri) condusse, nel XX secolo, al progressivo disimpegno delle donne di colore nella lotta femminista.

Uno dei punti fermi dell’argomentazione di bell hooks è che l’atteggiamento delle donne bianche risalirebbe all’epoca della schiavitù degli afroamericani. Infatti di fronte alle molestie sessuali e agli stupri che le schiave dovevano subire da parte dei loro padroni (i quali sommavano al razzismo una feroce misoginia tramandata da secoli di ideologia patriarcale), le donne bianche tendevano ad incolpare non i mariti ma le schiave nere, additate come tentatrici sessuali la cui lussuria avrebbe indotto gli uomini al peccato. E talvolta le mogli stesse degli schiavisti partecipavano in prima persona alla brutalizzazione delle schiave.

L’aggressione sessuale alle donne afroamericane è continuata molto a lungo anche dopo la fine della schiavitù, e senza che ciò attirasse grandi attenzioni (contrariamente a quanto accadeva quando le vittime di stupri erano bianche): la società americana aveva infatti completamente interiorizzato l’immagine –veicolata anche dal cinema e dalla televisione– delle donne di colore come sgualdrine sessualmente sempre disponibili e prive di ogni moralità. E siccome il sessismo razzista della cultura patriarcale bianca era stato assorbito anche dai maschi di colore, accadeva non solo che anche questi ultimi si macchiassero di violenza verso le donne nere ma che tale violenza fosse passivamente accettata nelle comunità di colore. Come sottolinea bell hooks, «questo è solo un altro esempio del modo in cui la pervasiva preoccupazione che le persone nere nutrono nei confronti del razzismo permette loro di ignorare, opportunisticamente, la realtà dell’oppressione sessista.» (p. 115).

Ciò su cui l’autrice insiste a più riprese è insomma come il razzismo e il sessismo siano aspetti costitutivi della società capitalistica americana e come questa (in)cultura dominante abbia finito per contagiare anche gruppi minoritari in lotta per i propri diritti. Ecco allora, per esempio, che la diffidenza dei maschi neri verso le donne di colore che entravano nel mondo del lavoro non era altro che una replica dell’analogo sentimento provato dai maschi bianchi, i quali vedevano nella donna lavoratrice una minaccia alla propria posizione sociale e alla propria virilità. E come si è già detto, a promuovere un tale sguardo erano gli stessi uomini alla guida del movimento per i diritti degli afroamericani: una colpa molto grave agli occhi di bell hooks, dato che questo ha contribuito a spegnere lo spirito di rivalsa di molte donne di colore, spingendole ad abbandonare la prospettiva di una lotta collettiva contro la duplice oppressione, sessista e razzista, di cui erano vittime.

Invitando a superare quegli steccati gerarchici che hanno a lungo tenuto le donne di colore fuori da organizzazioni femministe rivelatesi razziste e classiste, bell hooks riconosceva la necessità di un profondo lavoro culturale e politico: è solo così che si possono creare le condizioni per una vera sorellanza femminile in grado di immaginare una rivoluzione femminista che conduca all’eliminazione –per ogni donna– dell’oppressione sessista. Fino a quando non si ribalterà alle radici lo stesso sogno americano –«un sogno essenzialmente maschile di dominio e successo a scapito degli altri» (p. 178) e che sprona i maschi a credere che l’oppressione delle donne sia un passaggio necessario per la propria affermazione personale– ogni lotta rischierà infatti di rimanere isolata e di riprodurre quelle stesse dinamiche di potere contro cui si batte.

Sono passati quarant’anni da queste riflessioni; e se in Occidente molti passi sono stati fatti verso una maggiore consapevolezza delle discriminazioni razziali e di genere, ciò che continua a succedere nelle nostre società rende la lucidità combattiva della giovane bell hooks ancora più attuale che mai.

 

I poeti appartati: Nicola Vacca

0

Poesie

di

Nicola Vacca

Oscurare dio

Il riverbero di un dio oscuro
toglie la luce
alle ultime permanenze.
Ci aspetta
una lunga stagione di idoli
venerati per nascondere la paura
di noi che finiremo per spegnerci.

Oscurare dio
per tornare alla luce
un gioco blasfemo che deride
la vigliaccheria dei devoti.

 

Eresia del Cristo velato

Cristo si copre gli occhi
perché non vuole vedere
gli orrori che ha creato suo padre.

Lui che è anche finito sulla croce
senza una parola di conforto di nessun dio
ha buone ragioni per farla finita
con le ferite aperte nel suo costato.

 

Libro delle bestemmie

 

Non trovo risposte
a tutte queste rincorse.
Qui è un macello
e di fughe neanche a parlarne.

Aspetterò che dio
mi chieda perdono
per i suoi misfatti di finta misericordia.

Mi pongo domande mentre vaneggio
di bestemmia in bestemmia.

 

Senza un dio

C’ è chi crede

nel dio denaro

 

chi si masturba

con il dio della fede

 

c’è chi osanna

il dio dell’ego

 

c’è chi si inventa un dio

perché ha sempre bisogno di una metafora

 

essere senza dio

è una salvezza

 

averne più di uno

è la condanna

 

La preghiera del cecchino

 

Sono la negazione del quinto comandamento

nel vuoto dell’infelicità uccidere

è la fede che ho nel tempo degli assassini.

 

Anche un cecchino ha la sua chiesa

e una preghiera che puzza di piombo.

Sia sempre fatta la volontà del dio del massacro.

 

Il male nel mirino

 

Non ama l’odore del sangue

ma la sua vista a distanza.

Nei suoi occhi c’è tutto l’odio

che prova per le vite sconosciute che abbatte.

Dal nascondiglio del suo appostamento

sopporta il mondo che non gli appartiene.

 

Siamo fatti tutti della stessa materia del male

e sappiamo che la deflagrazione non tarderà a venire.

Il mirino è già puntato

il fucile ad alta precisione

difficilmente sbaglierà bersaglio.

 

Per il cecchino che ci portiamo dentro

anche oggi  è giorno di mattanza.

 

Bestemmio ergo sum

 

Questa epoca non vuole nessun dio

non sa che farsene dei devoti

che lo pregano genuflessi.

Questo è il tempo delle bestemmie

e non dei chierici allineati e coperti.

 

Facciamola finita

una volta per tutte

con il giudizio di dio.

 

Lo disse anche Antonin Artaud

il poeta nero con la follia veggente.

 

Tutti i perché mancati e la poesia che ci scrive

 

 

Sul tavolo due libri di Ghiannis Ritsos e Mark Strand.

Il poeta greco e quello americano

in questa mattina di nuvole malinconiche

mi fanno compagnia mentre guardo fuori

un cielo che precipita sulla terra.

“Il presente è sempre buio.

Le sue mappe sono nere”.

Scrive Mark che è sempre vissuto

in un quadro di Hopper.

“Dopo il crollo degli dèi, nessuno sapeva

più da che parte voltarsi”.

Ghiannis  lancia come pietre le sue parole crude

centra sempre il bersaglio:

noi, colpiti e affondati.

 

Leggendo Majakovskij in una giornata grigia

 

Il marcio divora l’aria

un grido è inghiottito dalla disperazione

nel frenetico rumore del tempo

i nervi si schiantano sulla disfatta.

 

Il cuore è di ferro

non credo che ci sarà salvezza

in questa realtà che puzza di ipocrisia.

 

La repubblica

non uscirà dal fango

dalla finestra si vede l’inferno

e Don Chisciotte muore per sempre

Questi nostri giorni del Qohélet

 

La sento addosso

la notte di dio

in questa oscurità

freddata da un colpo secco.

 

Le mani non bastano

per scavare nei turbamenti

qui dove tutto è vanità

 

la vita offre

un numero limitato di giri di giostra

 

verrà la morte e avrà i nostri occhi

questa è la verità

che dovremmo tenere a mente

mentre collezioniamo bugie per sopravvivere.

 

da Libro delle bestemmie (in uscita  da Marco Saya Edizioni)

 

 

 

 

L’amore da vecchia. Intervista a Vivian Lamarque

0

 

a cura di Andrea Carloni 

Vivian Lamarque scrive poesie fin da bambina e ne pubblica da cinquant’anni. Nel 2002 uscì con Mondadori la raccolta di tutte le sue poesie dal 1972, ma lei ha continuato e continua a scriverne. Ha collezionato numerosi premi (il Montale, il Carducci, il Morante, il Saba…) e con l’ultima sua silloge L’amore da vecchia del 2022 per Lo Specchio – Mondadori è stata finalista allo Strega e ha vinto l’ultima edizione del premio Saba e Viareggio, ques’ultimo lo stesso premio che si era aggiudicata all’inizio della sua carriera nel 1981.

L’amore da vecchia ci offre tanti aspetti dell’amore quante le sezioni (nove) in cui sono articolate le poesie: “I nomi degli amanti, Poesie con foglie, Gli animali addormentati, Poesie familiari, Poesie ferroviare, Io sono autobiografica, Come nel film, Io non sono morta io sono nata, Poesie sulla poesia”.

Di questi suoi nuovi versi sono qui a parlare con l’autrice, che voglio sinceramente ringraziare per aver accettato di rispondere ad alcune mie domande.

Vorrei cominciare dall’inizio, quindi dal titolo di questa sua ultima raccolta di poesie: L’amore da vecchia. Cosa può raccontarci della scelta del sostantivo “amore” assieme all’aggettivo “vecchia”?

Se ben ricordo, tutti i titoli dei miei libri di poesia sono apparsi prima delle poesie stesse, hanno dato il la. Unica eccezione Madre d’inverno che giunse a libro terminato. Il titolo L’amore da vecchia nacque nel 2016 contemporaneamente all’uscita di Madre d’inverno, il giorno del mio settantesimo compleanno. Proprio in quei giorni mi capitò come una sassata un colpo di fulmine (in assenza di metà fulmine però!), una specie di stordito innamoramento. Poesie come se piovesse, precedute dal fulmineo nuovo titolo: L’amore da vecchia. Amore naturalmente non rivelato all’interessato (anzi al disinteressato). Intanto le recensioni al libro precedente, pur ottime, mi parevano ruotare troppo intorno alla mia biografia, mea culpa pensai, nel prossimo libro guai a me se toccherò ancora il tema infanzia, solo versi d’amore. Ma avevo fatto i conti senza l’oste, cioè senza le poesie stesse. Dopo un anno (mi ero festeggiata zitta zitta anche l’anniversario del fulmine), camuffate di rami e foglie come nella foresta di Birnam, sono avanzate di nuovo, striscianti, le poesie sui soliti temi prediletti. Allora nove sezioni anziché l’unica prevista. E della prima, “I nomi degli amanti”, salvate solo metà delle poesie.

e perdono chiedo ai fidanzati.

Tutti dimenticati?

No, i loro nomi ho ancora dentro bene

incisi, ma come per nebbia

confondo un poco rami e mani, colore

delle foglie e dei capelli.

Oh presto saremo boschi tutti quanti insieme?

Sua aperta dichiarazione in questo libro è difatti quella autobiografica, forse mai così netta come in queste pagine. Quale rapporto intercorre oggi fra le sue vicissitudini e le sue poesie?

Siamo in guerra! Più giuro di non parlare mai più d’infanzia, più loro insistono. Devo informarle che ho quasi ottant’anni, che sono ridicole, che la smettano. Niente, imperterrite si camuffano, veda nella risposta precedente la foresta di Birnam. Tempo fa avevo studiato una strategia: iniziai a scrivere la mia autobiografia, in prosa naturalmente, pensando così di tacitare quel tema in versi. Fallimento totale: e per di più invasero anche la prosa.

I am an orphan! I am an orphan!

Ma, sorpresa, orfano lui non era affatto.

Come io non lo sono

come voi non lo siete

come tutti –

lo siamo.

In copertina appare il disegno essenziale della curva di una linea; fa pensare all’avvolgimento di un filo. Come nasce questa immagine e quanto è casuale?

Le copertine sono le mie croci. Le vorrei solo con titolo e nome dell’autore, fine, come nei vecchi Specchi color seppia. Le vorrei fisse nel tempo, come avviene con la bianca Einaudi o con gli Adelphi. Le prime copertine che mi proposero per L’amore da vecchia mi spaventarono. “Aiuto, sul mio corpo avete messo una testa non mia”, scrivevo disperata a Elisabetta Risari e a Luigi Belmonte. Nel 2002 avevo ottenuto di disegnarmela da me la copertina dell’Oscar, idem anni dopo quella di Poesie per un gatto e poi quella di La gentilèssa. Per L’amore da vecchia chiedevo meno segni, più vuoto, infine dopo una quindicina di prove, ecco giungermi l’attuale. Nel centro del filo c’era una specie di occhio inquietante, ottenni di eliminare pure lui e sì, ha ragione, il risultato è un filo e, me ne sono accorta dopo, in quarta di copertina la poesia parla di un filo da ricamo, felice casualità.

Finito, già finito

l’incantato tempo

dei rami in fiore?

Come quando

sul più bello del ricamo

finisce il filo da ricamo? 

L’ironia e soprattutto l’autoironia sembrano essere compagne fedeli dei suoi componimenti, anche in una delle sezioni più intense: “Io non sono morta io sono nata”. Scrivere poesia può quindi far incontrare il sorriso anche delle circostanze più definitive?

È la mia arma, la mia salvezza. Imparai a farne uso fin da bambina. In un tema di seconda o terza elementare, dovendo parlare del babbo Dante morto quando avevo 4 anni, dopo tante belle dovute parole, si infilò nel pennino l’invidia per gli altri bambini che il papà lo avevano ancora: “ci sono anche altri colleghi del mio babbo morti, ma pochissimi!”. Dire e non dire, oppure dire modificando l’alfabeto: in una letterina di Natale dettata dalla maestra e che cominciava con “Cari genitori”, per un lapsus calami, firmai anziché Vivian, Viviam. Imperativo esortativo del verbo vivere, fa niente se uno dei due genitori era morto!

Nessuno si meraviglia

se uno alla sua età

muore.

Nessuno.

Ma lei sì!

Lei che sarei io, sì.

Sì, lei si meraviglierà,

io mi meraviglierò.

Tanto

Fra i suoi versi compaiono i nomi di tanti poeti del passato, Pascoli, Caproni, Gozzano, Saba… Rivolgo a lei la stessa domanda della sezione “Poesie sulla poesia”: non ce ne inviano più di poesie i morti, nemmeno una?

Ha ragione. La sua domanda mi fa pensare che in fondo anche da là ce ne inviano ancora, a tonnellate. Perché, se rileggo oggi a 80 anni poesie che avevo letto a 30, mi dicono molte cose in più, nuove, nuovissime, grazie poeti! Per esempio grazie Lello Baldini, che sto rileggendoti in questi giorni.

Dipenderà dalla poesia e dalla rosa

una tra i fogli l’altra tra le foglie –

se di qualche millimetro col tempo

cresceranno, o se resteranno lì inerti

sul foglio e nel vaso, senza una nuova

parola, senza una foglia nuova.

 

VIVIAN LAMARQUE (nome suo, cognome coniugale), nata nel 1946 a Tesero-Cavalese (TN) da madre valdese ma, per volere del nonno Moderatore e Teologo, data a 9 mesi in adozione in quanto illegittima. A 4 anni perse il padre adottivo, giovane grande Vigile del Fuoco. Ha insegnato italiano agli stranieri e letteratura in istituti privati. Opere: Teresino, Il signore d’oro, Poesie dando del lei, Il signore degli spaventati, Una quieta polvere, Poesie 1972-2002, Poesie per un gatto, La Gentilèssa, Madre d’inverno e L’amore da vecchia. È anche autrice di una quarantina di fiabe, a partire da La bambina che mangiava i lupi. E di fiabe musicali tratte da opere di Mozart, Schumann, Ciajcovskij, Prokofiev, Stravinskij. Per l’infanzia ha pubblicato anche Poesie di ghiaccio, Poesie della notte e Animaletti vi amo. Ha tradotto tra gli altri Baudelaire, Valéry e favole di La Fontaine, Céline, Grimm e Wilde. Dal 1996 collabora al Corriere della Sera. Ha una figlia e due nipoti.

 

Su “L’osso, l’anima” di Bartolo Cattafi

0

[Questo articolo, dedicato al libro di Bartolo Cattafi, L’osso, l’anima (a cura di Diego Bertelli, Le Lettere, Firenze, 2022), è apparso sul numero n° 7/8 (luglio-agosto, 2023) de “L’Indice”.]

.

di Andrea Inglese

Con la riedizione del suo libro più intenso, L’osso, l’anima, uscito per la prima volta nel 1964, e ristampato per Le Lettere nel 2022 a cura di Diego Bertelli, possiamo dire che Bartolo Cattafi ha cessato di essere un poeta dimenticato o sottostimato criticamente. A partire da Spalle al muro del 2003, una monografia critica di Paolo Maccari – anch’egli poeta – si è assistito a un crescente interesse per l’opera di Cattafi (1922-1979) soprattutto da parte delle più giovani generazioni di critici e autori, che ha avuto come importante coronamento la pubblicazione di Tutte le poesie nel 2019, sempre per Le Lettere e a cura di Bertelli, con introduzione di Raoul Bruni. Secondo quest’ultimo, il poeta siciliano va annoverato tra gli “irregolari” del Novecento, con Delfini, Landolfi, Morselli – ma la lista, lo sappiamo, sarebbe più lunga –, che non sono stati, per varie ragioni, considerati degni di adeguata attenzione critica. Innanzitutto, Cattafi ha mostrato una certa noncuranza nei confronti della corporazione poetica del suo tempo, e non si è prestato a una facile catalogazione nelle categorie critiche disponibili – a lui spettò, con una certa approssimazione, l’inclusione nella “linea lombarda”. A rileggere oggi L’osso, l’anima altre parentele sorgono, anche se inaspettate: con il Kafka dei racconti in forma di parabola, con l’anti-lirico Henri Michaux (L’espace du dedans, titolo di un’antologia ripubblicata nel 1966), con i romanzi surreali (ma non surrealisti) di Witold Gombrowicz. Il curatore, nel suo saggio introduttivo, esplora con attenzione le ragioni di questa mancata assimilazione della poesia cattafiana nel canone del secondo novecento, citando però anche coloro che, come Raboni o Luigi Baldacci, seppero cogliere la forza e l’originalità della sua opera, riconducibile “alla tradizione europea anziché al contesto nostrano”.

La diade lessicale del titolo c’introduce non tanto alla contraddittoria coesistenza tra mente e corpo, tra anima e carne, che tanto ha marcato la civiltà occidentale da un punto di vista filosofico e religioso, ma all’enigma della loro vicinanza, che potrebbe rivelare una forma di reversibilità: non l’osso e l’anima, ma l’osso è l’anima – “(…) è casomai in sequenza analogica e appositiva, scrive Bertelli, che dobbiamo interpretare i due termini”. Possiamo intenderlo in questo modo, allora, il titolo di Cattafi: lo spazio del di dentro è altrettanto opaco che lo spazio del di fuori; non solo la coscienza non fornisce all’essere umano nessun privilegio morale nei confronti della turpitudine cosmica, ma neppure le sue facoltà conoscitive le permettono un vero controllo sul destino. Accenti leopardiani attraversano la poesia di Cattafi, ma con una disinvoltura e un’ironia tutta novecentesca. D’altra parte, L’osso, l’anima, sembra eleggere come proprio osservatorio privilegiato la soglia tra soggetto e mondo, lo schermo della coscienza nel bilico che separa l’io dall’azione, il principio dalla sua messa in opera, l’enunciato dalla cosa a cui si riferisce.

Un’altra caratteristica della voce di Cattafi è la perentorietà degli attacchi e la versificazione martellante che li sviluppa. Evochiamone qualcuno: “Quanto secchi e squadrati / i nostri metri di mondo. / (…)”; “Lascia stare le fredde geometrie, / i faticosi conti della serva. / (…)”; “Giunse quindi il momento di buttarci / a capofitto, / ariete sprizzaschegge / che squassa scardina divelle. / (…)”; “Ti spiattello in faccia / come vanno le cose: / vanno male. / (…)”; “La tua grande bravura / infilare nel quadro colori / tesi, drammatici, scattanti. / (…)”. La brevità e la causticità dell’epigramma sono messe qui al servizio di un’intenzione allegorica, che inscena brevi parabole, micro-narrazioni, dialoghi interiori, che quasi mai fungono da espressione lirica diretta di un’esperienza. Un riferimento italiano pertinente, per questo e altri libri di Cattafi, è allora il Caproni allegorico del Franco cacciatore, ma già punti di contatto possono stabilirsi con il quasi coevo Il muro della terra, che è uscito nel 1975, ma include componimenti degli anni Sessanta. La differenza con Caproni è riscontrabile soprattutto nella più ampia mobilità figurativa di Cattafi, che pur funzionando anch’egli per “variazioni su tema”, rifiuta di confinare i suoi componimento entro una cornice allegorica unitaria e ben definita (la caccia, in Caproni).

Come già ricordato, la scena ricorrente in Cattafi è quella di un programma razionale, di conoscenza o azione, che s’infrange puntualmente contro il mondo (o il proprio sé inconsapevole e animale); in questo la sua tragicità e l’”antiumanesimo integrale” di cui ha scritto Baldacci. La parola poetica è una constatazione d’impotenza nei confronti degli eventi che circondano l’uomo, nonostante la sua presunzione di conoscere e controllare la realtà. E non vi sono zone di conciliazione (religiosa) o di riparazione (etico-politica) possibili. Nemmeno margini di montaliana saggezza. Ma vi è l’esistenziale energia, l’eros insopprimibile, che Albert Camus aveva visto nello sforzo vano di Sisifo, e che Cattafi celebra in questi fronteggiamenti con il mondo nella sua ambigua carnalità: ora calda e afferrabile, ora sfuggente e illusoria.

Cronache del mondo sommerso

0

di Giovanni Di Benedetto[1]

Lo sentimmo arrivare da lontano, il mare, annunciato dalla presenza insolita di uno stormo di gabbiani che volava basso nel cielo, all’altezza dell’incrocio della rue de Crimée con la rue d’Aubervilliers, alle porte della città. Nel giro di pochi minuti l’intera parte nord-occidentale fu ricoperta dalle acque. Fu così che ebbe inizio la nostra vita nel mondo sommerso.

Dalla Rue d’Athènes la torre dell’orologio della Gare Saint-Lazare si ergeva tra i campanili come uno dei bastioni eretti lungo la frontiera che separa le città al di là dello Stige. Le sirene segnalavano l’inizio del coprifuoco come se stessero annunciando la resurrezione dei morti.

Eppure, nei primi mesi, nonostante le maree, la nostra vita continuava come sempre. Quando nel cielo i pesci si sostituirono agli uccelli quasi non ce ne accorgemmo. La meraviglia era parte integrante del nostro amore e cosa del tutto naturale per noi due.

Le cose iniziarono a cambiare al ritorno di Orlando da Napoli. Come testimoniavano le foto che aveva realizzato nel corso della sua spedizione, la città era ormai ricoperta dal sale e dalla fitta vegetazione marina:

Durante il soggiorno a Napoli, Orlando era riuscito ad acquistare al mercato nero i diari di L.B. Amalfitano, un Enciclopedista noto per aver compilato le cosiddette Cronache del mondo sommerso. In questo libello, seguendo la regola millenaria dell’ordine degli Enciclopedisti, Amalfitano aveva riportato, con minuzia di particolari, gli eventi che fecero di Napoli la prima delle città del mondo sommerso. I diari non contenevano solo il materiale preparatorio a quest’opera ma anche gli appunti delle ricerche condotte da Amalfitano per conto della Società della Grande Enciclopedia Universale. Un diario in particolare aveva catturato l’attenzione di Orlando, quello che copriva il periodo di oltre vent’anni durante il quale Amalfitano aveva viaggiato nei territori costieri del Mediterraneo occidentale. Le indagini di Amalfitano lo avevano portato a ipotizzare che i Fenici, oltre alla coltivazione dell’uva rossa, avessero introdotto la coltivazione delle statue in un vasto territorio che andava da Tiro fino a Hyères. Nel corso delle sue spedizioni nei differenti porti del Mediterraneo, Amalfitano aveva raccolto il materiale necessario alla compilazione di una scheda enciclopedica che descrivesse i riti e le pratiche connesse a questa usanza di cui la storia aveva cancellato quasi ogni traccia[2]. Tuttavia, la ragione per la quale Orlando volle mostrarci il diario era un’altra. In quelle pagine era raccontata anche la storia tra L.B. Amalfitano e Luz Florival, il personaggio a cui sono dedicate le Cronache del mondo sommerso[3]. Il racconto del loro primo incontro è descritto fin nei più piccoli dettagli. Orlando ci raccontò l’episodio per metterci in guardia dalle conseguenze dell’amore al tempo della grande marea.

Quel giorno Luz era seduta alla terrazza di un bar nei pressi del porto di Hyères[4]. Amalfitano leggeva un commento settecentesco del celebre umanista francese R.F.P. Brunck ad alcuni epigrammi di Meleagro di Gadara contenuti nell’Antologia palatina. Luz beveva una Coca-Cola a un tavolino di fronte al suo. Quando il campanile sulla piazza indicò le tre del pomeriggio, il sole scomparve e il bar fu inondato dall’ombra. Luz si tolse gli occhiali e Amalfitano vide per la prima volta i suoi occhi verdi corrosi dal sole. Amalfitano mise il libro in una tasca e si avvicinò a Luz chiedendole il permesso di sedersi con lei. Continuarono a parlare fino al sopraggiungere della sera, quando decisero di fare due passi e andare a guardare il mare. Camminarono insieme lungo il Boulevard de la Marine e fumarono una sigaretta sulla spiaggia antistante. Parlarono fino a tardi e all’alba si incamminarono verso la fermata dell’autobus che li avrebbe riportati nella città vecchia. Si salutarono davanti al portone di casa di Luz e promisero di rivedersi il giorno dopo. L’indomani s’inoltrarono nel dedalo di stradine del centro. Le voci e i passi si intrecciavano l’uno con l’altro mentre si raccontavano le rispettive vite. Durante quella deriva urbana i due sembravano attraversare e sezionare, senza soluzione di continuità, il cuore e la città vecchia di Hyères. Luz gli parlò del suo villaggio natale, del mare dei Caraibi e della barriera corallina, del cielo stellato che vedeva dal giardino di casa sull’isola della Désirade, dei suoi antenati, del nonno e di come questi le avesse insegnato ad accendere il sole. Amalfitano le raccontò la storia della sua città, le gesta remote della sua fondazione da parte dei coloni greci, e poi quella delle sue innumerevoli distruzioni, delle sue dominazioni e delle epidemie di peste che ne decimarono a più riprese la popolazione. Le raccontò poi delle strade e dei palazzi sventrati dal sole e della pietra vulcanica con la quale l’intera città era costruita, il tufo, e di come questa configurasse sulla sua superficie spugnosa interi ed inesplorati microcosmi lunari.

Quando arrivarono nei pressi di una piccola spiaggia di ciottoli nei dintorni del porto, Luz decise di raccontare ad Amalfitano una storia ben anteriore a quella che gli aveva appena raccontato, la storia delle diverse trasmigrazioni della sua anima e di come la sua prima sembianza umana avesse preso forma soltanto nel 1510, l’epoca in cui conobbe per la prima volta l’amore. Al termine di quell’esistenza umana, l’anima di Luz Florival iniziò a trasmigrare e prese le forme più diverse. Durante i secoli che seguirono, fu prima un ramo di baobab del Madagascar, nei pressi di Majhanga, non lontano dal mare, poi un’ape regina, poi Jusepe de Ribeira, il pittore spagnolo di cui si persero le spoglie in seguito ai continui rimaneggiamenti architettonici che aveva subito la Chiesa di Santa Maria del Parto nella quale era stato sepolto nel 1652. Luz raccontò poi la sua successiva trasmigrazione in un arancio del giardino dell’Alhambra di Granada e quella in un sarago del Mar Nero, quella brevissima in una zanzara dell’Amazzonia e continuò poi ad enumerare il resto delle numerose forme e sembianze della flora e la fauna delle due parti del mondo che precedettero la sua sembianza umana attuale. Dopo una breve esitazione Luz disse che tale sembianza precedeva la sembianza della pietra, lo stato finale verso cui tendono le anime prima di spegnersi per sempre, una pietra come quelle che facevano della spiaggia un immenso cimitero eroso dal sale. Alla pietra sarebbero poi seguite la polvere e la sabbia e dopo ancora, l’eternità silenziosa delle stelle morte. Amalfitano sarebbe stato per lei l’ultimo tentativo che avrebbe avuto l’amore di inscriversi nella storia prima di confondersi con l’antimateria dell’oblio per il quale ciò che è stato non sarà più.

Fu in seguito a questa conversazione sulla spiaggia di Hyères che Amalfitano propose a Luz di partire con lui alla volta di Napoli. Nel corso delle sue ricerche Amalfitano era arrivato alla conclusione che Napoli fosse la terra nella quale si rifugiarono i Babilonesi in esilio[5]. Amalfitano sosteneva che fossero stati i Babilonesi a scoprire le qualità taumaturgiche del tufo. La forma spugnosa che aveva la pietra era una prova tangibile del fatto che essa fosse la sola sedimentazione minerale capace di custodire la memoria assorbendo i ricordi e resistere così all’antimateria dell’oblio. Amalfitano mostrò a Luz la trascrizione che aveva fatto della superficie di una pietra di tufo che aveva prelevato a Napoli:

Amalfitano e Luz partirono per Napoli nell’Anno Domini 2023. Si amarono, vissero felici, ebbero modo di vedere la loro sembianza umana invecchiare e deperire. E poi arrivò la catastrofe e Napoli divenne una delle città del mondo sommerso. A nulla servì l’iniziazione all’alchimia a cui era stato introdotto Amalfitano durante i suoi ultimi anni di vita. Il mare arrivò e sommerse la città e il sale erose le sue pietre millenarie ed erose poi la storia e tutto fu come se nulla fosse mai esistito. Tutto divenne un fondale marino e l’amore una nuova faglia del globo terrestre.

Quanto a noi due, dopo quei primi mesi in cui tutto sembrava continuare a scorrere come d’abitudine, tutto ebbe fine come al risveglio da un sogno o come l’addentrarsi nel sonno, in apnea, sentendo l’abisso fendere lo sguardo e poi la caduta, il nulla, le stelle morte, il vertiginare del cuore, il tuo viso che scompare.

Il giorno dopo la grande mareggiata preparai la mia valigia e mi inoltrai anch’io lungo la strada che conduceva sulla Luna, l’unico luogo in cui, secondo la leggenda, forse avrei potuto ritrovarti.

FINE

[1] La presente edizione è stata curata dal professor Isidoro Da Capua a partire dal codice anepigrafo Nap. 213. Il manoscritto, custodito oggi presso la Biblioteca dei Girolamini di Napoli, appartiene a un fondo sopravvissuto al terribile incendio che distrusse parte della Bibliothèque Nationale de France nel corso della quarta decade del secolo Ventunesimo [N.d.E.].

[2] Amalfitano suggerisce che la coltivazione delle statue sia stata una pratica di origine indoeuropea precedente e in concorrenza con la sepoltura dei morti. La Zikhrone (trascrizione fonetica di זכרון, “zkhrwn”, parola che indica anche il lessema “memoria”) è una statua composta da elementi vegetali di varia natura dedicata a un antenato. Sul corpo principale della statua sono innestate delle specie precise di arbusti o di piante, la Dracaena reflexa e la Commiphora pervilleana in particolare. La Commiphora era chiamata dai Fenici Mt-y (מת-חי, letteralmente: “morto-vivente”). Questo arbusto era utilizzato nell’attività agropastorale come supporto dei recinti per le pecore. Il Mt-y è un arbusto che durante la stagione secca perde le sue foglie. In questo periodo la fotosintesi è assicurata dal suo tronco dalla corteccia fine e screpolata: pur sembrando morto, il verde delle parti visibili del tronco mostra una vita ancora attiva. Inoltre, esso si riproduce per talea poiché dà origine a nuovi esemplari a partire dei suoi frammenti.
Considerando i materiali fragili con le quali le statue sono coltivate, appare evidente la necessità che richiede la loro coltura al fine di preservare la memoria dell’antenato per il quale la statua é stata edificata: la minaccia della decomposizione dei materiali vegetali che la compongono richiede un’attenzione periodica da parte della famiglia che implica la volontà dei discendenti di tramandare i ricordi dei loro antenati. [N.d.E.]

[3] L’episodio dell’incontro con Luz Florival e del viaggio a Napoli costituisce uno degli esempi più compiuti del metodo di lavoro di L.B. Amalfitano. Una notizia biografica riportata nella S.O.U.D.A. di Ibn Khwârizmî (Alessandria, 2024 – Taranto, 2052) riferisce come Amalfitano fosse cresciuto, fin dalla sua prima infanzia, con una paura maniacale di perdere la memoria. Per questa ragione nei suoi diari erano annotati, senza un ordine apparente, i dettagli più effimeri della vita quotidiana: liste della spesa, citazioni erudite, i riferimenti bibliografici di opere consultate in biblioteca, il numero d’inventario di un oggetto osservato in un museo. Le note sono spesso accompagnate da commenti circostanziati e da alcune relazioni riguardanti la sua vita privata. Per separarli dal labirinto di dati e informazioni raccolte durante le sue inchieste enciclopediche, Amalfitano incornicia questi testi all’interno di alcuni riquadri disegnati da lui stesso. Gli episodi e gli aneddoti narrativi trascritti si possono classificare in un ordine cronologico in grado di restituirci l’itinerario di una vita: il materiale autobiografico fa da cornice al materiale enciclopedico raccolto da Amalfitano nel corso delle sue innumerevoli spedizioni. Cfr. Ibn Khwârizmî, S.O.U.D.A.Sunagogé Onomastikès Ulès Diaphorôn Andrôn, Cambridge University Press, Cambridge, 2046, trad.it. a cura di G. Di Benedetto, Raccolta del materiale onomastico di differenti uomini. [N.d.E.]

[4] Secondo una versione apocrifa dell’Odissea rinvenuta nel 2018 su una tavoletta d’argilla databile del III secolo d.C., la città era una colonia fenicia di Sidone. Cfr. Ansa.it, 11/08/2018 [N.d.E.]

[5] Cfr. Diodoro Siculo, Bibliotheca historica, II, 47. [N.d.E.]

Mots-clés__Luna

0

 

Luna
di Paola Ivaldi

Lucio Dalla, L’ultima luna -> play

___

___

Giovanna Rosadini, Saremo sempre profili in controluce
(da Fioriture capovolte, Giulio Einaudi Editore, 2018, pag. 21)
I.
Saremo sempre profili in controluce
incisi sulla linea d’orizzonte, sospesi
sopra il blu fondo e salino che regna d’estate
nel tempo senza tempo di ogni infanzia
II.
Saremo sempre in quel tondo di luna
magrittiana appeso sopra i tetti di Milano,
a respirare l’aria leggera della sera mentre
fa scuro, e l’ultimo cielo si colora di presagi
III.
Saremo sempre l’intuizione
dentro lo sguardo scambiato
al primo incontro, aver visto
nell’altro il fermo immagine
che il tempo non intacca,
la forma di un’infanzia
che dura e non si stacca
IV.
Saremo sempre quell’eco di passi
nella nebbia che stinge le calli,
Venezia culla d’acqua
in cui nuotiamo in attesa
del mondo che verrà,
pesci pilota che, smossi,
si cercano e si sono trovati

Margherita

0
ph. Guido Guidi - Cologno Monzese, Milano, 1991

ph. Guido Guidi – Cologno Monzese, Milano, 1991

 

di Dora Annarumma

C’era quella scena, in un film che aveva il nome di un crostaceo. Era la scena finale, il protagonista voleva accecarsi per amore, Sandra non ricordava bene per quale motivo vi fosse costretto, ma lui prendeva un ago gigantesco, uno spillone, lo appoggiava alla parete e per diversi minuti restava lì con l’occhio vicinissimo alla punta, cercando il coraggio di.
Dopo aver visto quel film non era più riuscita a usare un coltello affilato o un paio di forbici senza attraversare col pensiero una serie di immagini orrifiche accumulate in qualche retrobottega mentale, dal quale usciva faticosamente, strizzando forte le palpebre.
Si guardò nello specchio rotondo del soggiorno. Considerò i suoi capelli, ricci, abbastanza belli. Avevano una biografia tutta loro. Da ragazzina erano stati un tormento, così piatti e inutilmente folti, troppo pesanti per il suo viso anemico e ombreggiato dagli occhiali da vista. A diciassette anni avevano assunto una forma meno indefinita, ma soltanto verso i ventitré si erano arricciati di colpo; e lì avevano iniziato a cadere.
Sua madre aveva teorie disparate. Un giorno pensava che l’arricciamento e la caduta fossero una conseguenza del lungo periodo in cui la figlia aveva usato la piastra per lisciarsi; a volte diceva che il problema era l’alimentazione, altre ancora che i capelli della figlia non stavano davvero cadendo, e che il tutto era solo frutto della sua immaginazione distorta. Le varie ipotesi erano incompatibili, il che innervosiva molto Sandra, soprattutto quando la madre aggiungeva qualche occasionale formula di conforto: «Ma non è vero che ne hai pochi!». O, più brutalmente: «E poi le parrucche di oggi sono splendide». La contraddizione era dunque triplice. In quel momento, però, Sandra era distratta da altro. Tenendo gli occhi fissi sulla cute nello specchio, voltò la testa prima a sinistra, poi un po’ a destra, per verificare a che punto fosse la ricrescita; era un gesto da uomo, pensava, mentre si avvicinava al suo riflesso e sollevava una ciocca dopo l’altra.
Quante volte aveva sognato di essere calva. Da quando aveva iniziato a perdere i capelli quell’incubo si era sostituito con prepotenza al brutto sogno abituale, in cui a caderle erano i denti. «Segno di insicurezza», le dicevano quando lo raccontava, oppure il solito «carenza d’affetto». E invece non c’era niente da interpretare, la sua paura era specificamente quella della calvizie, non andava ricercata in nessuna metafora. In quei sogni poi non era mai proprio calva, o comunque non subito. Di solito a un certo punto, per sbaglio o intenzionalmente, si passava una mano sul cranio e scopriva di avere un unico gigantesco ciuffo di riporto, oppure un colpo di vento le alzava un istante i pochi capelli e lei sotto vedeva la pelle nuda, lucidissima. Così l’orrore arrivava con comodo, da gran signore.
In ogni caso, adesso non stavano male, pensò guardandosi: il riccio era morbido come piaceva a lei, e il sole preso alle terme un paio di settimane prima li aveva schiariti. Pensò che era bella, il collo lungo, un po’ abbronzata, ma subito avvertì come una fitta l’inutilità profonda di quella bellezza, che non le serviva a niente, neanche a farla stare meno peggio. Ammirò con un retrogusto amaro la sua faccia nello specchio, incorniciata dal cerchio di plastica nero, quasi isolata dal contesto, come il volto della madonna di un quadro o un ritratto d’altri tempi. Immediatamente oltre l’attaccatura dei capelli, subito dopo le ultime punte dei ricci, e in basso, oltre il mento, e poi ai lati, al di là delle orecchie, cominciava un mondo che non le apparteneva, qualcosa di completamente estraneo. La stanza arredata con mobili economici e brutti; l’enorme formicaio di palazzo in cui abitava, in quella città che non aveva scelto, che non amava né detestava. E fuori la vita, l’estate che portava tutti al mare, lei compresa, per riposarsi, per staccare dalla quotidianità, noiosa tanto quanto la vacanza. Anche lei avrebbe voluto staccarsi come uno sticker da quel cartellone umano enorme e colorato come le ricerche che si facevano alle medie, i titoli storti, le facce sbilenche, la carta troppo liscia dove scivolavi, avrebbe voluto staccare la spina mentre il phon era acceso, le giostre rumorose, i lampioni illuminati, la tv in funzione, sullo schermo l’ennesima replica di un film di Fantozzi – staccare. E poi quel rumore metallico che muore, un ronzio sfiatato, tutto si spegne.
Si affacciò alla finestra di fronte; la chiamava così perché pensava che fosse la formula perfetta per definire la sua condizione passiva nei confronti del mondo, lei ridotta a una mera comparsa. Gettò un’occhiata all’alveare che la circondava; era impossibile abbracciare tutti gli interni con un solo colpo d’occhio, per cui di solito faceva una carrellata tra il secondo e il terzo piano, come fosse una rapida scala tra il bianco e il nero di un pianoforte. Sul lato destro vide due ragazzine che ridevano, una di loro era seduta sul davanzale con una gamba penzolante nel vuoto. In un riquadro a sinistra riconobbe il giovane padre in canottiera con il cellulare in mano e le dita nel naso, quello che lavorava alla Vodafone. Più in basso un vecchio mai visto si sventagliava col giornale ripiegato.
Non faceva poi così caldo; il sole era tramontato ma c’era ancora luce e quasi nessuno aveva acceso l’illuminazione interna. L’ora blu, pensò Sandra, quella in cui sembra che possa succedere di tutto, subito prima che cali il buio. Si grattò leggermente sul collo per scacciare una zanzara e si rese conto che sbagliava, faceva caldo eccome, la sua pelle era madida. Raccolse i capelli fra le mani e li trattenne sulla nuca intrecciando le dita a mo’ di fermaglio; restò un po’ così a guardare la striscia di azzurro scuro sopra i palazzi di fronte, poi sbadigliò un paio di volte e decise di stendersi qualche minuto sul letto.
Quando riaprì gli occhi aveva il naso quasi sul comodino, doveva essersi agitata nel sonno per via delle punture che le prudevano. Quanto aveva dormito? Forse un quarto d’ora, la luce era la stessa di prima, ma intorno sentiva un silenzio anormale e l’aria s’era fatta più fresca. Un brivido sulla schiena la spinse ad alzarsi e a infilarsi una felpa leggera, tornò in soggiorno e notò che il cielo fuori della finestra si era schiarito. Mosse il cursore sullo schermo del computer rimasto acceso sul tavolo: le sei meno un quarto, era l’alba; aveva dormito quasi dieci ore.
Si strinse nella felpa, andò al davanzale e si accasciò con il busto nel vuoto. Rimase in quella posizione, piegata a novanta gradi, facendo peso con le cosce contro il muro e guardando il suolo dritto davanti a sé. Per terra, tre piani più giù, c’erano le tracce sbiadite dei riquadri di gesso della Settimana, quel gioco in cui si salta su un piede solo e che in diverse parti d’Italia si chiama Campana. Era incredibile che i bambini ci giocassero ancora. Sollevò un po’ la testa: la maggior parte delle persiane era chiusa.
Sentì un breve suono che dapprima le parve di origine elettronica, una specie di bip più suadente, molto vicino; dette un’occhiata intorno, posò lo sguardo sui balconi, cercando di capire. Poi una specie di urletto la fece sussultare e voltare di colpo, e la vide. Sul mobile di fronte a lei, quello a due ante in cui teneva dei piatti, un po’ di libri e alcune scarpe, c’era una civetta. La fissava con gli occhi rotondi e giallissimi. Ferma, austera, irreale. Evidentemente era entrata mentre lei dormiva. Sandra si rese conto di essere terrorizzata mentre ricambiava lo sguardo ipnotico con le mani aggrappate al davanzale e il cuore che le batteva veloce, rimbombandole nel costato in mezzo al silenzio del sonno condominiale.
Il primo riflesso fu di scappare, correre alla porta e precipitarsi giù per le scale. Subito però si sentì ridicola, e poi quella strategia, per quanto vigliacca, prevedeva comunque che lei solcasse gran parte della distanza che la separava dall’animale. Pur nello spavento, Sandra l’osservava. La civetta portatrice di morte. Eppure negli ultimi tempi la si vedeva ovunque, nei ciondoli, sugli orecchini, fra i souvenir di ceramica o tatuata su qualche spalla; come molti simboli porta-sfortuna era stata sottoposta a un processo di riscatto.
L’altra possibilità era quella di provare a scacciarla: si immaginò mentre si fiondava nello stanzino per recuperare la scopa, la impugnava con decisione e, tornata in soggiorno, prendeva ad agitarla verso la bestia, magari la colpiva, e quella per sfuggirle si metteva a svolazzare dappertutto, sul divano, sulla tv, emettendo quel verso graffiante, mentre lei intanto reggeva la scopa proteggendosi la testa con le braccia. Immaginò anche che dopo avrebbe raccontato la scena alla madre, per telefono, lei le avrebbe chiesto tre volte come avesse fatto la civetta a entrare, “Non lo sai che devi chiudere le tapparelle”, Sandra si sarebbe irritata, non era quello il punto, sarebbe nato l’ennesimo inutile litigio, ma le sue congetture sulla conversazione con la madre si arrestarono di colpo quando si rese conto che non conosceva ancora l’epilogo della vicenda, non sapeva chi avrebbe ferito chi; forse il finale sarebbe stato così tragico da impedire qualsiasi resoconto telefonico.
Dopo qualche minuto di immobilità forzata iniziò a distendere i nervi. Facendo appello a tutto la propria razionalità, si disse che la civetta era un uccello notturno e presto sarebbe stato giorno; visto che non sembrava aggressiva, poteva aspettare che se ne andasse da sola. Si staccò finalmente dal muro come una funambola alle prime armi e andò in cucina a preparare il caffè; beveva quello solubile sciolto nell’acqua scaldata col bollitore. Lo versò nella tazza blu che usava tutti i giorni e che a volte neanche sciacquava dopo aver finito. Lo guardò fumante e pensò di aspettare qualche minuto. Aveva bisogno di lavarsi, così nell’attesa decise di farsi una doccia. Per andare in bagno non doveva ripassare dal soggiorno, bastava imboccare il piccolo corridoio che lo costeggiava.
Entrò nel box, si fece lo shampoo. Dopo essersi strizzata i capelli sotto il getto d’acqua, li tastò a lungo, strofinandoli fra le dita: così, bagnati, le facevano quasi un po’ schifo. Si disse che avrebbe voluto tagliarli, e che forse, per una volta, avrebbe potuto farlo da sola, come faceva una sua compagna di scuola delle medie. Lei invece era sempre andata dal parrucchiere, sin da quando era piccola.
In bagno lo specchio sul lavabo era striminzito e appannato dal calore. Si infilò la maglia pulita e un paio di mutande e tornò in soggiorno con le forbici in mano. Nell’angolo a sinistra dello specchio adesso vedeva il riflesso della civetta dietro di lei, quasi una specie di sentinella finita lì apposta per sorvegliare l’operazione.
Sandra guardò la punta delle forbici e per esorcizzare il terrore passò delicatamente il polpastrello sul margine della lama. Premette appena un po’ nella carne, senza far uscire il sangue. Si guardò i capelli ancora una volta, appiccicati in tanti mucchietti scuri, come delle piccole funi. Faceva bene a tagliarli; pensò che tagliarsi i capelli all’alba era un atto da condannato a morte.
Non aveva mai capito perché i parrucchieri, anche quando dovevano accorciare di molto, procedevano sempre al massimo due centimetri per volta. Lei tese la prima ciocca e tagliò all’altezza del mento, circa sei centimetri. Procedette così finché la chioma non le si trasformò in una specie di caschetto, ma non esitò neanche un istante e continuò a tagliare, ciuffo dopo ciuffo, senza pensare, sempre più corti. Probabilmente sarebbero venuti fuori tutti storti, ma non importava. Lasciando cadere i capelli a terra provava un senso di liberazione e quasi di potere: finalmente obbedivano a una sua scelta, cadevano perché lei l’aveva deciso.
Quando ebbe finito posò le forbici sul tavolo e andò a cercare un asciugamano pulito per strofinarsi la testa e ripulirla dai resti del taglio. Mentre aspettava che i capelli si asciugassero all’aria recuperò il caffè ormai tiepido; lo bevve seduta sul divano con le gambe incrociate, fissando la civetta che non si era schiodata di un millimetro. Per qualche istante Sandra pensò che sarebbe rimasta lì per sempre, sarebbe diventata il suo animale domestico, un animale strano per una persona ritrosa, come quel tipo di cui aveva sentito una volta, che si teneva in casa un boa. Le avrebbe dato un nome. Margherita. E i colleghi di lavoro l’avrebbero messa in croce perché lei li invitasse a conoscere Margherita.
Finì il caffè, posò la tazza per terra. Si passò una mano fra i capelli e li sentì asciutti, soffici. Era giunto il momento di vedere il risultato finale: ora che avevano riacquistato la loro consistenza abituale poteva scoprire che forma avessero.
Fece qualche passo davanti a sé, camminando dritta al centro della stanza, per poi voltarsi di scatto, quasi come un soldato, e ritrovarsi di fronte alla propria immagine nello specchio. Le sembrò di vedersi bambina: quand’era molto piccola, verso i sette anni, la madre l’aveva costretta a tagliarsi i capelli cortissimi. Lei aveva pianto per una settimana. Se ne ricordava solo adesso, ma aveva già avuto i capelli così corti. Si avvicinò allo specchio e si compiacque delle sue orecchie piccole, carine e ora ben visibili. Non stava male; somigliava vagamente a qualche Giovanna D’Arco cinematografica. Ora, con quel taglio, poteva rendersi conto con maggiore precisione che la ricrescita procedeva. La nuova lozione Deltacrin stava funzionando.
Indietreggiò appena, si accarezzò di nuovo tra il collo e la nuca, era molto piacevole. Le sembrava di guardare un’altra persona, una persona diversa da prima e al contempo già nota: qualcuno della famiglia vissuto a lungo all’estero, di cui si era tanto sentito parlare.
Controllò che sul collo non si notasse il segno della recente abbronzatura, per via dei capelli che l’avevano coperto, ma no, era sempre stata attenta a legarseli quando nuotava o si stendeva sulla pancia.
Si affacciò alla finestra e vide che fuori si era fatto giorno, il formicaio ricominciava a vivere. Le venne voglia di fare una passeggiata prima che il sole diventasse troppo caldo. Andò in camera a infilarsi un paio di pantaloncini, poi tornata in soggiorno guardò per un attimo la civetta; prese le chiavi, lasciando la finestra aperta, e uscì.
Qualche minuto dopo Margherita volò via da dov’era venuta.

 

Espatriare la poesia: Inglese & Raos dialogano al CIPM

0

Dialogo-incontro

30 settembre 2023 alle 11

Centro Internazionale di Poesia di Marsiglia

ESPATRIARE LA POESIA

Andre Inglese & Andrea Raos

Andrea Inglese et Andrea Raos  evocano, in una prospettiva critica, alcuni dei momenti più significativi delle loro esperienze d’autori e di traduttori di poesia, tra la Francia e l’Italia.

Dal sito del CIPM:

Comment sortir d’un milieu poétique plutôt conservateur, comme le milieu poétique italien et qui, au début des années 2000, était surtout préoccupé d’établir les canons du siècle passé, avec très peu d’intérêt pour les expériences de rupture (« neoavanguardia », poésie sonore, poésie concrète, etc.) ?

Pour quelques jeunes poètes italiens, l’expatriation en France a constitué une occasion précieuse.

Notre personnelle mise en question du paradigme hérité a pu s’appuyer sur la découverte — et une connaissance à travers la traduction — de ce qui s’était passé autour des années 90 en France. Traduire Tarkos, Quintane, Gleize, mais aussi Viton, Portugal, Giraudon, faisait partie d’une stratégie d’évitement d’une certaine conception de la poésie dominante en Italie. Mais ce mouvement nous a aussi permis d’agir en tant que passeurs de poésie italienne en France, dans des revues telles qu’Action poétiqueIf et Nioques.

En 2009, nous avons eu aussi l’impertinence de publier à six (Bortolotti, Broggi, Giovenale, Inglese, Raos, Zaffarano) un volume collectif intitulé Prosa in prosa (« Prose en prose »), alors que les réflexions de Gleize étaient très peu connues en Italie et que nous utilisions cette formule, de toute manière, plutôt librement.

De façon générale, ce côtoiement d’une certaine poésie française à travers la lecture, la traduction et même le discours critique, comportait non seulement une connaissance approfondie, mais aussi — comme il arrive toujours dans ces cas — une appropriation très libre de notions, procédés et postures.

“Cinque giorni fra trent’anni”: intervista a Francesco Fiorentino

0

 

 

 

a cura di Ornella Tajani

Da dove nasce l’idea di questo libro?

Forse dal ricordo struggente, nel momento in cui andavo in pensione, dell’Università della mia giovinezza, così diversa da quella che stavo lasciando. Non parlo delle condizioni di noi professori facili alla lagna. Penso a come la vivono oggi gli studenti. Con l’ansia di un domani lavorativo assai incerto, per loro l’università è spesso solo un passaggio che deve essere il più veloce e meno impegnativo possibile. Per noi era diverso: l’abitavamo, vi intessevamo rapporti, là dentro assumevamo impegni disciplinari, ideologici, oltre che politici, senza l’assillo del domani che ci aspettava. I personaggi del mio romanzo creano la loro identità nei seminari e nei collettivi. Là intessono anche una rete di amicizie e amori.  La loro formazione e il loro futuro prescindono dalle famiglie.  Elvira, l’unica che vi resta invischiata, è forse la più infelice.

Cinque giorni fra trent’anni è un romanzo composito: sei storie che funzionano anche in maniera autonoma si intrecciano in un quadro unitario. Come mai questa struttura?

Come i riquadri di una predella, il romanzo è diviso in sei capitoli. Nel primo e nel secondo compaiono tutti i personaggi come studenti o freschi laureati della Federico II. Negli altri quattro, dopo trent’anni circa, ognuno di loro sta vivendo un momento decisivo della propria vita, sta per ricevere una piccola rivelazione.  L’unità del romanzo non è solo garantita dal ritorno dei personaggi nei vari capitoli e neppure soltanto dai giudizi sui medesimi avvenimenti e caratteri che si susseguono, è trasmessa soprattutto dall’impronta generazionale che li marca tutti.
Questa struttura per riquadri mi consente una grande velocità narrativa. Non ci sono descrizioni, digressioni e la loro assenza si è portata via gli imperfetti verbali. I riempitivi sono lasciati alla facile intuizione di chi legge.  Il tempo del lettore è prezioso, cerco d’offrirgli solo l’essenziale.

Dopo Futilità, questo è il suo secondo romanzo scritto non a quattro mani: c’è un fil rouge tra questi due lavori, un progetto di scrittura che in qualche modo li unisce?

Il fil rouge credo che sia l’interrogazione sulle sorti della mia generazione che ormai è quasi arrivata alla vecchiaia. In Futilità mostravo un personaggio maschile alle prese con una crisi esistenziale a cinquant’anni, la sua incapacità a diventare adulto, la perdita di una consapevolezza di sé. Qui rappresento invece una molteplicità di personaggi, per lo più femminili, sempre costretti a dover fare i conti con “l’aspra indifferenza dell’età adulta”.  Senza nessuna nostalgia per una presunta purezza degli ideali giovanili, vorrei mostrare come noi, nati negli anni Cinquanta, siamo stati capaci di adeguarci a un presente così diverso da quello che avevamo pensato; diventati spesso la nuova borghesia soprattutto professionale, abbiamo rivisto le nostre convinzioni ma non abbiamo  smesso di cercare la felicità né di avere un’etica.

La presentazione dell’editore cita la Comédie humaine di Balzac: da studioso di letteratura francese, e di Balzac in particolare, direbbe che i suoi personaggi sono tipi balzachiani? Quanta importanza riveste nella sua scrittura l’analisi psicologica dei personaggi?

I personaggi balzachiani sono sospinti, oltre che dall’energia del loro creatore, dallo scacco della Rivoluzione fallita. Anche i mei personaggi sono il frutto di un molto più modesto fallimento storico (quello del ‘68). Inoltre, il ritorno dei personaggi è una invenzione balzachiana. Mentre  però il narratore di Futilità interveniva a commentare, e a generalizzare in massime, comportamenti e psicologia dei personaggi, qui il narratore sta zitto.  Se proprio vogliamo scomodare la storia letteraria, è piuttosto un narratore flaubertiano. Tocca al lettore trarre le conseguenze. Arturo sarebbe stato felice se solo avesse rischiato di più; cosa spinge Elvira a scelte così disgraziate; cosa capisce alla fine Emilia; quale delle quattro versioni del caso Gennari scegliere; perché la scelta di Saverio è quella giusta anche se non porta alla felicità; Lea deve o non deve andare all’appuntamento; è legittimo contraddire l’ultimo desiderio di Carla? Le risposte a questi interrogativi, in certi casi dilemmi, posti dalla narrazione sono demandate al lettore.

In questo libro i dialoghi rivestono una parte importante: quanto e come ha lavorato sulla loro verosimiglianza, sulla lingua adottata dai suoi personaggi?

Il modo di narrare che ho scelto si basa su scene e sommari. I dialoghi sono decisivi, sia per il ritmo (rapidità e pertinenza delle risposte), sia per la lingua. Non volendo ricorrere al dialetto, ho scelto spesso un italiano napoletanizzato con espressioni come “non è cosa”, o “che facevo veramente?”, soprattutto per quel poco che parla Roberta giovane, che non è studentessa.  Roberta cinquantenne invece parla molto e bene. Questo personaggio, l’unico di origine proletaria, mi pare un po’ speciale. Spero che i lettori se ne innamoreranno come ne sono innamorato io. A suo modo, Roberta è una versione di femme fatale.
Ma oltre la lingua, la sfida per me è stata quella di rendere psicologie e caratteri femminili. Ad esempio, la gelosia di Lea mi pare diversa da quella che avrebbe avuto un uomo: è più inerme, si sente meno legittimata, più autodistruttiva. È commovente. Oppure le scelte di Elvira sarebbero impensabili da parte di un figlio maschio…In una delle presentazioni di Futilità, una signora, che pure aveva apprezzato il romanzo, commentò a proposito del personaggio di Ugo che gli uomini sono incapaci di affrontare a lungo la sofferenza. Non so se è vero, ma ho provato a capire come le donne l’affrontano.

È d’accordo con il professor Onofri, personaggio del suo romanzo, secondo cui «nella vita sono spesso gli altri a fissare il nostro destino»?

Certo… noi siamo molto gli incontri che ci sono capitati. Anche se il caso è comunque mitigato da qualche predisposizione personale che ci porta a privilegiarne alcuni. Bisognerebbe avere una vocazione per prescindere dagli incontri. Guido, il personaggio che ha più successo, distingue tra chi ha una vocazione – in quanto è subito chiamato da qualcosa – e chi invece inizia a fare qualcosa per scappare da una situazione o perché sedotto da un incontro. Questi ultimi possono essere anche bravissimi professionisti, solo i primi però sono dei fuoriclasse. Il professor Onofri è un fuoriclasse, né Arturo né Guido lo sono.

 

Cinque poeti di “Nazione Indiana” al CIPM

0

Sabato 30 settembre alle ore 16h; CIPM di Marsiglia

Cinque poeti di “Nazione Indiana” al Centro Internazionale di Poesia di Marsiglia: Mariasole Ariot, Francesco Forlani, Andrea Inglese, Renata Morresi e Andrea Raos. Letture e discussioni su vent’anni di attività letteraria indipendente.

 

 

Belfast città divisa

0

di Jamila Mascat

 

Li chiamano muri della pace (peace walls o peace lines), perché quando vennero eretti dall’esercito britannico dopo gli scontri dell’agosto 1969 che inaugurarono i troubles tra unionisti protestanti filo-britannici e repubblicani cattolici filo-irilandesi, Belfast era un teatro di guerra, e quelle barriere avrebbero dovuto garantire la protezione delle comunità.

Ad oggi, di muri frammentati e sparsi, se ne contano un centinaio, prevalentemente nei quartieri a nord e ovest della città, di cui oltre una dozzina costruiti negli anni successivi agli accordi di pace del Venerdì Santo (10 aprile 1998) che segnarono la fine ufficiale del conflitto e la deposizione delle armi da parte dei gruppi paramilitari lealisti – Uvf (Ulster Volunteer Force) e Uda (Ulster Defense Association) – e nazionalisti – Ira (Irish Republican Army).

PER CHI È NATO a Belfast nel corso degli ultimi cinquant’anni le peace lines non hanno nulla di eccentrico, sono parte integrante della città, articolazioni del tessuto urbano con tanto di cancelli che aprono di giorno e chiudono di notte, cerniere e cicatrici, ma anche pagine di una storia illustrata per immagini e dipinta a tinte forti.

Simbolo iconico della città, e oramai anche attrazione turistica, i murales che ricoprono dai due lati i muri di Belfast raccontano storie opposte: da un lato l’epopea epica e belligerante dei combattenti unionisti costellata di Union Jack, simboli e ritratti monarchici; dall’altra la lotta per la liberazione dell’Irlanda unita dal giogo del colonialismo britannico e i suoi martiri, tra cui Bobby Sand e gli altri militanti dell’Ira, morti come lui dopo un lungo sciopero della fame nel carcere di Long Kesh, affiancati puntualmente dai volti di Mandela, Che Guevara, Leyla Khaled e altri eroi delle resistenza internazionale.

A dispetto degli affreschi, i muri della città non hanno una funzione prettamente decorativa né puramente propagandistica, ed è per questo che nonostante il piano di smantellamento a dieci anni proposto nel 2013 dall’esecutivo di Belfast, il processo di demolizione è in stallo, e i residenti dai due lati delle barricate poco favorevoli ad accelerarlo.

I RIOTS DELL’APRILE 2021, scoppiati a Lanark Way, nella zona protestante unionista di Shankill Road, a pochi mesi dall’entrata in vigore del Protocollo sull’Irlanda del Nord, hanno risvegliato per una settimana lo spettro dei troubles. La Brexit e le sue conseguenze – tra cui proprio il Protocollo che ha ripristinato un confine doganale tra l’Ulster e il resto del Regno Unito sul Mare d’Irlanda, lasciando invece libero il transito via terra tra l’Irlanda del Nord e la Repubblica d’Irlanda – hanno contribuito ad accrescere il senso di accerchiamento delle comunità protestanti. A questo si aggiungono i numeri sfavorevoli agli unionisti: il censimento del 2021 che per la prima volta ha visto la popolazione cattolica superare il numero dei protestanti (45,7% contro 43.5%), le elezioni parlamentari del 2022 in Irlanda del Nord in cui lo Sinn Féin, lo storico partito repubblicano, è diventato partito di maggioranza relegando per la prima volta il Democratic Unionist Party (Dup) al secondo posto, e più recentemente le elezioni municipali della capitale nel maggio 2023, vinte di nuovo dallo Sinn Féin.

Tuttavia, una lettura puramente settaria delle divisioni comunitarie non saprebbe spiegare perché nei quartieri benestanti e verdeggianti a sud della città, come Stranmillis, o nella zona residenziale intorno alla Queen’s University, o ancora nel Titanic Quarter, a nord-est, che ospita gli immensi e antichi cantieri navali di Harland & Wolff, simbolo dell’attività portuale di Belfast dal 1861, i muri non abbiano ragione di esistere. E lo stesso vale per il centro storico, un cantiere in fermento in cui si restaurano gli edifici industriali vittoriani dell’ex quartiere tessile, il Linen Quarter, fiore all’occhiello della rivoluzione industriale britannica.

A NORD E A OVEST della città di fermento invece ce n’è poco. Non mancano i pub, gremiti e festosi nei weekend e sempre rigorosamente faziosi, come il Rex Bar unionista e il Rock Bar repubblicano la cui esistenza risale a prima dell’erezione dei muri, né le associazioni locali che animano la vita delle comunità, coltivano le tradizioni e, alcune, operano per favorire la riconciliazione.

COSTEGGIANDO da una parte e dall’altra Cupar Way, il tratto di muro lungo circa un chilometro e alto quasi quattordici metri che separa il quartiere protestante di Shankill dal quartiere cattolico di Falls, ad ovest di Belfast, colpisce che a dispetto dei simboli religiosi e politici diversi dai due lati, le somiglianze sono tante. Se non ci fosse quel pezzo di muro, ci sarebbe un unico grande quartiere popolare, come fu in passato, segnato oggi dalla disoccupazione e dalla depressione economica, e ferito dalla memoria ancora viva di un conflitto armato la cui pacificazione ha lasciato i due campi insoddisfatti. E invece quel muro c’è e probabilmente rimarrà in piedi ancora per un bel po’, come le tante altre trincee immobili che puntellano la città, facendo eco all’immobilismo dell’esecutivo e del parlamento di Stormont, sospesi dal 2022 in seguito al boicottaggio istituzionale del Dup in protesta contro il Protocollo sull’Irlanda del Nord. Da una parte e dall’altra non c’è desiderio né fretta di liberarsi dei muri che, in assenza di vincitori e vinti, preservano per gli ex combattenti dei due schieramenti a cui è stato chiesto di deporre le armi, e per le più giovani generazioni figlie del conflitto, la memoria delle battaglie, il ricordo dei caduti e il senso delle lotte.

* Questo articolo è apparso su il manifesto del 14 settembre.

Sostanza organica (sillabario della terra # 14)

0

di Giacomo Sartori

La terra si forma dalle rocce e dai sedimenti dei fiumi, dei ghiacciai e del vento: è quindi una materia prevalentemente minerale. La si potrebbe pertanto immaginare inattiva e statica, come i picchi delle montagne e le scogliere. Ed è effettivamente così che nell’ultimo secolo se l’è raffigurata il mondo occidentale. Accanto ai minerali ereditati o trasformati essa contiene però sempre una frazione organica. Espressa in peso è una ridotta percentuale, più spesso tra il due e il quattro per cento, ma sufficiente per affrancarla in modo netto dal regno minerale, facendone una entità completamente a parte.

La componente organica è costituita prevalentemente da resti di piante: foglie, fusti, sostanze sudate fuori dalle radici (molto abbondanti per le specie erbacee) e radichette: una grossa parte muoiono ogni anno. Residui vegetali non più viventi che all’inizio sono ancora intatti e riconoscibili, e poi vengono via via trasformati e elaborati dagli organismi visibili a occhio nudo o microscopici. Che sono anch’essi fatti di sostanza organica. Quindi la terra contiene materia organica morta, a vario stadio di decomposizione, e per una piccola parte anche viva. Ed è proprio quest’ultima che le istilla il suo soffio vitale, rendendola un organismo che pulsa e vive. Ha però ha bisogno della prima.

Il connubio molto intimo tra due componenti appartenenti a due universi opposti, organico e inorganico, costituisce la caratteristica più importante della terra. Che è minerale e viva allo stesso tempo, apparentemente inerte ma in incessante attività, resiliente ma anche vulnerabile e fragile. Essa è però ritrosa, mimetizza la sua doppia natura. Se prendiamo in mano una manciata di terra coltivata, o anche di un vaso di fiori, e leviamo le eventuali radichette non riusciamo a distinguere le due frazioni. Quella organica si tradisce attraverso la colorazione scura, ma si mostra in quanto tale, è anzi legata più o meno intimamente con le particelle minerali. E tanto meno si può vedere il pullulare microscopico.

Con le sue due facce del brulicare della decomposizione e del perdurare minerale dei fossili, la terra se ne sta quindi tra la vita e la morte. Il suo compito del resto è decomporre i resti dei viventi, compresi gli umani, e trasformarli, grazie alla sua vita strabordante, in elementi riutilizzabili dallo sbocciare vegetale. Nutrendo quindi le fioriture e il rigoglio di altra vita. Ci ricorda insomma che vita e morte sono la stessa cosa, non c’è una senza l’altra. Per questo non stupisce la sua sfortuna di immagine e la sua lacuna di autorevolezza, in un’epoca di rimozione della morte.

I metodi industriali di coltivazione, basati sui concimi chimici e su continue lavorazioni della terra, portano a una diminuzione della quantità di materia organica, che se ne va sotto forma di anidride carbonica a aumentare l’effetto serra. Quando si nominano le riserve di carbonio organico pensiamo subito al serbatoio costituito dalle foreste, e invece facendo i calcoli per tutto il Pianeta nei suoli ne è presente una provvista tre volte maggiore. Tagliando le foreste si perde il carbonio della vegetazione, che viene in genere bruciata, e ben presto se ne va via anche gran parte di quello dei loro suoli. Ma appunto se ne scappa nell’atmosfera anche con le forme di coltivazione che attraversiamo viaggiando in treno o in automobile, e che consideriamo normali.

Se diminuisce la sostanza organica gli organismi che fanno vivere la terra, già peraltro indeboliti o decimati dai pesticidi, non hanno più da mangiare, e vedono ridursi la loro diversità. Il che li impedisce di far arrivare alle piante gli elementi necessari di cui queste hanno bisogno (rendendole totalmente dipendenti, il gatto si morde la coda, dai concimi chimici). Ma impedendoli anche, solo negli ultimissimi anni la scienza se ne è accorta e riesce a dimostrarlo, di svolgere il loro ruolo di mitigazione di molti patogeni e parassiti delle piante. La terra è meno viva, e meno intraprendente, meno benefica.

Ci sono però guasti di altra natura molto diversa, legati alla riduzione della parte organica. Venendo a mancare la sua azione di aggregazione delle particelle, la terra si difende molto male dalla compressione causata dai trattori e dalle altre macchine. Così come dalle unghiate delle acque che scorrono in superficie, e dagli scippi del vento. Essa sopravvive allora come può, come testimonia il suo aspetto pallido e per così dire anemico, che chiunque può riconoscere. L’abbiamo pensata come solo minerale, e lei ha dovuto seguirci nella nostra follia, quasi cercando di adattarsi alla nostra immagine.

(l’immagine: Provincia di Tiaret, Algeria)

Les nouveaux réalistes: Mariana Branca

2
Foto di jessica Chiappini

Foto di Jessica Chiappini

ʃ

di

Mariana Branca

Se pronunci bene Einstürzende Neubauten, vedrai che la lettera che si sente di più è la

ʃ.Strano, ma dillo: ˈaɪnˌʃtʏɐʦəndə ˈnɔʏˌbaʊtən. Quella ʃ, la senti, come spacca tutto, il

suono, la fonetica è tutta là dentro. Me l’ha spiegato Julia la Souverän, la

sovrana, come la chiamano tutti, perché lei domina, si staglia imperante e nelle

sue altezze lei sorvola, volteggia, svolazza. Julia la

Souverän che è di Vienna ma è nata a Kiev e cresciuta alta bella e

sinuosa a Magdeburgo. Che mi legge i titoli delle canzoni con la sua pronuncia buona:

Steh auf Berlin (Stare In Piedi Su Berlino),

Schmerzen Hören / Hören mit

Schmerzen (Il Dolore Ascolta/Ascolta con Dolore),

Sehnsucht (Bramosia),

Schieß Euch Ins Blut (Spàrati Nel Sangue),

Sado-Masodub (Dub Sado-Maso),

Spionagedub (Dub Spionaggio): su Kollaps;

Styropor (Polisterolo Espanso): su Die Zeichnungen Des Patienten O.T.;

Seele Brennt (Anima in Fiamme),

Sand (Sabbia), su Halber Mensch;

Schwindel (Vertigini), su Haus Der Lüge;

Stella Maris (Stella del Mare), su Ende Neu;

Sabrina (Sabrina),

Silence Is Sexy (Il Silenzio è Sexy) e

Sonnenbarke (Barca Solare), su Silence Is Sexy;

Susej (Susej), su Alles Wieder Offen.

S, ʃ dappertutto, in tutto il tempo e la durata.

Foto di Jessica Chiappini

Se i pesci scemi vanno a sciami da Pescia ad Altopascio e piove a scroscio, l’uscita va a

scatafascio, dicono in Toscana. Julia la Souverän era entusiasta, della Toscana. Im

siebten Himmel, al settimo cielo. Vedrai, ti piacerà, ti sentirai bene,

Sharon, la Toscana ti farà proprio bene. Sciameremo in Toscana,

Sharon, ce ne andremo su colli e colline e

studieremo il tedesco e impareremo tutti i testi delle canzoni piene di

ʃ degli Einstürzende Neubauten a memoria. Vedrai, Sharon, ti piacerà.

Sharon Stone era nata in marzo, il dieci, e in Toscana ci arrivammo che era il

sette, quell’anno che la primavera di marzo sfavillò dello sfavillio più

sfavillante degli ultimi decenni.

Sole e cieli blu e alberi verdi e mandorli in fiore e certi colori che sembrava di

stare in una cartolina ritoccata, e gli odori imprevedibili

spinti qua e là da un vento leggero leggerissimo che ci veniva voglia di

saltare e lasciarci cadere, per farci portare.

Sharon compiva, quel marzo, venticinque anni ed era bellissima, bella e

sfavillosa come il marzo millenovecento ottantatré. Aveva la postura del salto, del

sobbalzo, da cerbiatta pronta allo scatto e alla fuga, gli occhi come un incendio

sott’acqua, sotto il pelo dell’acqua di un fiume che scorre. Un’acqua

solfata, piena di zolfo. Lo zolfo che si indica con la lettera

S, e che per questo era in tutto e per tutto la lettera sua. Ne voleva bere, di quell’acqua

stantia, dall’odore di uovo marcio, salvifica acqua graveolente, imbevibile uovo di

stagno, uovo marcito, putrescente; ne voleva bere, di quell’acqua ingiallita

stannifera, trentasette gradi centigradi con o senza il sole a riscaldarla, là a

Saturnia, voleva berne perché, diceva, finalmente mi svuoterà dagli acidi gastrici,

sgombrandomi la pancia le ossa la statura. Era stato JR, che le aveva dilatato lo

stomaco a dismisura, ammalandola di gastrectasia, riversando dentro di lei i suoi

succhi perversi, la corrosione acida della sua anima ambigua e scura. JR che le aveva

spezzato il cuore così tante volte che quando ballava, Sharon, si

sentiva pezzi di cuore suonare il rumore di scaglie di vetri rotti come in una

scatola nel petto. JR era di Dallas, faceva l’attore ed era uno

stronzo come nessuno nella vita. Uno Stronzo con la S maiuscola. Era un

subdolo calcolatore, una macchina da guerra sotterranea, un’arma di distruzione

singola e di massa. Ed era bello, bello di quella bellezza intrigante e salace che

scemunisce, che non ti fa ragionare; era bello e ambiguo, doppio, triplo, sottile,

scaltro; era bello, bello e vago e fatto come un enigma e Sharon aveva voglia,

spietatamente voglia di decifrarlo, di trovare la chiave, scoprirla e tenerla poi solo per

sé, tutta per sé, tenerla da qualche parte sotto pelle, in mezzo ai vetri

spezzati di cuore nella scatoletta. Era bello come un segreto da svelare e non farlo

sapere a nessuno, ma lei sì, Sharon sì. Lei di, con, quel segreto chiuso a chiave

sotto pelle dentro alla scatola di pezzi di cuore, ci voleva stare, morire.

Si faceva chiamare per facilità soltanto JR, lui bellezza rara di

serpente, lui John Ross Ewing Junior che vestiva i vestiti eleganti, cuciti

su misura, di ricco petroliere senza scrupoli e star della televisione e delle

soap opera. Possedeva cose possedibili e molti cuori di femmine tra cui quello di

Sharon. L’aveva posseduto la prima volta che lei aveva

sedici anni e lui quarantatré, conquistandola con la pronuncia di Sharon in ebraico

שָׁרוֹן

Šārôn, che significa pianura o palude o una specie particolare di fiori, le rose di

Sharon che crescono nello stato d’Israele, precisamente ai limiti dello

stato di Israele. S’era sempre sentita paludosa, me lo diceva continuamente, che lei era

salmastra di palude, una golena, riempita di sedimenti argillosi e

siltosi, ed io una sabbia mobile. Che lei resisteva, che non si prosciugava, che

stagnava continuando a stagnare, forse perché piangeva, lei piangeva tanto, piangeva

sempre, piangeva le quantità di pianto che avrebbero saziato l’intero Sahara,

se avesse voluto; diceva che io, invece, ero una sabbia mobile, che tenevo al

sicuro dentro di me le cose vive e morte e le persone, e da queste succhiavo,

succhiavo e ingoiavo e tenevo e facevo uno

scrigno di quelli che avevo amato, e del rimanente. Arrivammo a

Saturnia, faceva caldo, i vapori sulfurei ci solforeggiarono in gola e

sotto le ascelle e cominciammo a sudare, Sharon non sapeva

smettere di pensare a lui, JR-uomo-serpente che le aveva insegnato il suono del

suo nome e se l’era preso per deturparlo alla radice. A Saturnia incontrammo

Silvia, che aveva l’occhio sinistro dove l’azzurro chiaro faceva a metà con lo

scuro, un marrone che sembrava delle nocciole all’ombra, messe a

seccare. Erano gialle tutt’e due, tutt’e due allungate, allunate, Silvia e

Sharon, alte lunghe e gialle come lo zolfo che s’infilava nelle narici,

sottili esseri in verticale come una linea un poco curva.

Sommavano per gioco gli anni delle loro sventure, sedici se lo

scomponi è uno e sei che, come quarantatré e venticinque, sommati danno

sette. Sette come gli anni sventurati e sventurosi che attendono chi rompe uno

specchio, sette come le vite dei gatti che sono gli animali preferiti delle

streghe e forse di satana, sette come il settimo giorno della settimana nello

stato di Israele e ai limiti dello stesso, il sabato che è il giorno del

sabba e cioè il giorno o meglio la notte scelta dalle streghe e satana stesso per

santificare tutto quello che non è sacro, ma reale, vivo e vegeto, il sangue ed il

sesso. Ce ne andavamo a scampagnare sui colli, e il sole ci squagliava l’epidermide, era

soporifero, ci faceva cadere addormentate sotto le querce grosse.

Scoprimmo dai giornali internazionali che Kristin era caduta da un balcone,

strafatta di droghe, che era stato Cliff a trovarla, morta, che JR era il principale

sospettato, ma, alla fine si diede la colpa solo alle droghe. Si era preparata, Kristin, uno

straripante cocktail finemente shakerato di benzodiazepine con emivita

superiore alle 48 ore, a lunga durata d’azione: Diaze-

sam,                                                                  Nordaze-

sam,                                                                  Praze-

sam,                                                                  Fluraze-

sam,                                                                  Quaze-

sam,                                                                  Halaze-

sam,                                                                  Medaze-

sam. Kristin Shephard s’era data alla morte per esagerazione. Con la stessa

sproporzionata esagerazione, infatti, aveva amato JR, tempo prima,

sproporzionando a tal misura che gli aveva anche sparato. Sharon e Sue

Shephard, moglie di JR, sapevano tutto, sapevano che Karen si era

sentita il polso, un giorno, e trovandoci dentro un battito imbizzarrito,

scalpitante, provò a sparargli, a JR, ma quello resistette, sopravvisse, non morì.

Sapevano, ma si erano entrambe mangiate la lingua, strappate via a morsi i vasi

sanguigni che affluiscono alle gengive, ingoiate i denti, sigillate le bocche a fuoco per

sempre. JR aveva il potere di annullare, disfare, sottomettere ogni volontà, quella di

Sharon di certo, come sciacquandole il cervello in una soluzione di sodio oxibato, il

sale sodico del GHB, sintetizzato per la prima volta nel 1874, liquido fortemente

salato, dall’odore pungente, che dà alla testa in pochi minuti, e per molte ore.

Secoli, ore come secoli, secoli di menzogne, di manomissioni della volontà, di

storpiature dei pensieri nella testa di Sharon, secoli i suoi venticinque anni,

secoli di ipnosi, di sortilegio, di caduta nell’anatema, nella disgrazia della

stregoneria. Indiscutibilmente sabbatico, JR, forse figlio diretto di

satana o di un demonio ermafrodita autofecondo, lui era l’uomo del

se. Il sé come se stesso, che era la sola esclusiva occupazione di JR, e il se come

se, avverbio, se seguissi i miei consigli, se facessi come dico io,

se mi dessi retta, Sharon, non te ne pentiresti, vedrai che non te ne pentirai.

Se ne era pentita eccome, invece, ritrovandosi a brandelli,

stonata di barbiturici nel bicchiere, stupidita di macchinazioni incomprensibili e

subdole, di sotterfugi indecifrabili. Se ne era pentita fino a tentare di farsi fuori, di

suicidarsi. Solo per aver seguito, ammaliata, imbambolata, il soave suono del

suo nome pronunciato in ebraico. Il giorno del suo ventitreesimo compleanno,

sette anni dopo aver incontrato JR, si era ubriacata fino a scoppiare d’alcol,

Sharon, rimpinzata, inondata, zeppa, satura, grondante alcol fin dalla punta dei

suoi capelli mielati e d’oro. Sciolse del tiobarbiturico, un barbiturico con una

sostituzione O-S, il tiopental sodico (venduto col nome commerciale di Pentothal

Sodium, che serviva per l’ipnosi, per l’anestesia generale e, negli

Stati Uniti, assieme al pancuronio e al cloruro di potassio, per

somministrare l’iniezione letale ai condannati a morte. E anche per i

sofferenti agonizzanti, per indurli in coma artificiale e finalmente, poi,

spegnere le macchine, staccare tutti i fili) in ventitré calici di bollicine che

si scontravano vorticando nel fondo dei suoi occhi, bollicine di un rosa

scintillante in risalita, che risalendo diventavano microscopiche, come nuclei

sub-atomici pieni di qualche verità. Allineò tutti i bicchieri trasparenti e sottilissimi

sul lungo tavolo da banchetto per i suoi invitati, e ne bevve a

scaglioni di tre o quattro alla volta, uno ad uno, fino alla fine. Sabler e non

Sabrer, disse: berli tutti tutto d’un fiato. C’era la S di Sharon dipinta in argento

su ognuno di essi, così che nessun altro si sarebbe azzardato a berne, a morirne.

Sharon conosceva il Tiopental sodico molto bene, lo aveva studiato tanto, nei

seminari di chimica al college. Lei che, già a sedici anni, voleva diventare una

scienziata delle molecole. Poi le cose presero un’altra piega e non

studiò più, non ebbe il tempo di scoprire tutte le molecole, il tempo la

scoprì troppo bella e non ci capì più niente perché la bellezza fa,

sa cambiare molte cose: essa infatti le aveva cambiato, distorto la sorte, le aveva

spostato l’asse. Si studiò, Sharon, dall’alba dei suoi

sedici anni, non più come la legge di atomi in divenire, ma come uno

stato di plasma, in cui nulla più si trasforma-nasce-muore-di nuovo si trasforma;

si pensò come cosa inanimata, che resta uguale a se stessa: una palude. Niente

sostava, restava fermo e inanimato, invece, a Saturnia, dove Julia la

Souverän fece esplodere il tempo in una potente successione di feste ed avvenimenti

sontuosi e balli magnifici e lussi sibaritici. Andammo a: vernissage d’arte, mostre di

scultura, mostre di fotografia, prime di cinema e teatro, concerti di musica classica,

sfilate di moda, esibizioni di body, maso, conceptual, sudoku, tribal, vodoo-artists

samoani, sudafricani, serbi, sloveni, slovacchi, spagnoli, svedesi, svizzeri, somali,

sudafricani; suites francesi e anche sit-in no tav, cortei, gay pride; balli popolari,

santi patroni; cocktail party, after-party, pre-summer party;

serate di beneficienza, degustazioni di vin santo artigianali; pali di Siena

straordinari, feste cultural-mondane in generale, feste con spogliarelliste o

spogliarellisti, feste in piscina, feste in costume storico o in maschera, aperitivi serali

su terrazzi di cinquecento metri quadri con vista panoramica sul pre-appennino,

sulle colline già verdi di un verde che si

scioglieva tutt’intorno, nell’aria anche, che faceva il mondo al

settanta per cento fatto non di acqua dolce o salmastra ma di clorofilla,

solo clorofilla. Julia la Souverän era implacabile, scovava ogni genere di

setta, associazione, gruppo, band, circolo, combriccola, società

segreta, cosca, congregazione, clan potenzialmente finanziatore delle

sue attività artistiche, era sfacciata ma docile, gentile, garbata, adorabile,

sensuale. Ballava con un sinusoidale movimento delle spalle e della testa, dei

suoi capelli sciolti come i lacci delle sue scarpe, quando le indossava, delle

sue anche strette, delle braccia e delle mani. Beveva come una vera donna

sovietica, o di origine in qualche modo sovietica, dell’est Europa scongelato

solo un mese all’anno. Rideva, parlava, parlava tanto e sorrideva,

sorrideva in russo, in tedesco, in francese, in inglese, in

spagnolo e anche un poco in italiano, parlava coll’ampio sorriso suo

senza malizia di bambina che propone un gioco a tutti, a ciascuno il

suo gioco. Giocammo per esempio a carte coi vecchi nel bar Roma,

scendendo verso sud dalla Toscana, in un paese che non era un paese sul

serio, ma un incrocio dove passavano persone, macchine, motorini, autobus,

scuolabus in continuazione. Giocammo a calcetto con dei ragazzi che avranno avuto

sedici anni, a Sharon piacque uno scheletrico Andrea cogli occhi selvaggi. Giocammo a

Shcatulillo, in un paese che lo chiamavano “Il Presepe”, perché così

sembrava, piccolo, abbarbicato, sormontato dalla superstrada che era quella che

stavamo percorrendo noi per arrivare al sud senza autostrada. Giocammo a

Shcatulillo correndo su e giù per il Presepe, nelle strade strette

senza illuminazione pubblica; ci dissetavamo con

sorsate di vino rosso direttamente dalla bottiglia, ricominciavamo a

scappare per cercare il nascondiglio giusto e non farci trovare. Sharon

stramazzò a terra dopo quattro ore di Shcatulillo e vino rosso: era alchemico,

stupefacente, il sorriso che le venne sulla faccia.

foto di Jessica Chiappini

Si era fatta la fine di maggio. In Italia il due giugno si festeggia la Repubblica e

si fa ponte a scuola o al lavoro. Perciò i sette dello Shcatulillo, quando

seppero che andavamo verso sud ci dissero

se vi piace, ci troviamo in un posto. Julia la Souverän sorrise, non volle

saperne di più. C’era dell’alba specchiata sui circa quattro virgola nove metri della

Station Wagon Volvo 240 Deluxe giallo scuro cha avevamo comprato, per

settecento ottanta mila lire, qualche giorno prima, da un ragazzo carrozziere,

schivo con occhi verde-grigio nascosti sotto una visiera di cappellino.

Sotto circa quattro virgola nove metri di tetto del loro Volkswagen

sette posti, modello T4 multi van, di colore bianco con le tende a

strisce bianche e blu, trovammo i sette dello Shcatulillo, parcheggiati accanto alle

saracinesche mezze abbassate di un minimarket. Il paese era uno

sperduto paese come mille altri paesi sperduti tra le colline

senza alberi di quella regione seccata di sole, dove la gente pure, seccava di sole, di

sale di solitudine. A Brindisi di Montagna ci si ferma quasi solo a comprare salsicce

salami e soppressate fatte in casa, taralli salati col finocchio, fagioli di

Sarconi ecotipo Tabacchino, pasta modello strascinati, peperoni di Senise

secchi; li comprammo tutti, eravamo curiosi, che saranno, che

sapore avranno. Li mangiammo con le mani, sparpagliati tra i

Sassi che era il nome delle case di quella zona. Julia la Souverän

si mise a ballare sotto un balcone smangiucchiato che pareva

stesse per crollare, dal balcone suonavano gli Einstürzende Neubauten,

Salamandrina, quella di cui ci stava insegnando il testo in tedesco; Salamandrina

si cantava da sola, si suonava dal balcone sgretolato che stava per crollare ed è

sensazionale, se le cose inanimate si mettono a cantare. A volte, infatti,

sono più animati gli oggetti, i balconi, che certe persone, che a ogni passo continuano a

seppellirsi, a tumularsi sotto stratigrafie di detriti morti, senza acqua per risorgere. Uno

stagno stagna, una palude impaluda, Sharon stagnante e impaludata stava, il

suo corpo era in moto apparente, portata dagli eventi, dalle persone, dalle

situazioni. La portavo io per mano da anni, palude lei sabbia mobile io,

spugnosi esseri quasi animati che solo chiedevano di spugnare qualsiasi cosa

spugnabile. Julia la Souverän ballò sotto il balcone mangiato di sole di sale di

solitudine nella città dei Sassi; ballammo tutti della stessa

sinusoide di ballo di Julia, come una tenda sottile mossa da uno

stesso filo di vento. Poi ce ne andammo a stenderci sulla spiaggia sabbiosa delle

sei del mattino di Nova Siri dove tutte le piazze e le

strade hanno il nome dei film del regista italiano Federico Fellini. Addormentati,

stecchiti crollammo alla prima luce scialba in mezzo alla

Salsola-Erba-Cali che cresceva là intorno, una pianta che in autunno,

staccandosi dalle radici, il cespuglio forma una palla che se ne rotola via, disperdendo

semi e l’odore di sale. Palle d’erbe buone da mangiare che al paese di Sharon

si chiamavano tumbleweed, come quelle che si vedono nei film western, nelle

scene girate nei deserti o vicino ai saloon nei deserti o nelle sparatorie tra banditi e

sceriffi, fuori ai saloon nei deserti.

dav

Sotto un sole che era un gigantesco ventilatore d’aria calda e secca e

seghettata di aghi di pini marini, che ci prosciugava, arrivammo al sud dove i

sette ci volevano portare. Arrivammo nella terra di Nicodemo

Spatari detto Nik, nato là alla Mammola, che, nel millenovecento

sessantanove, aveva aperto il parco di Santa Barbara. S’inventò uno spazio

straordinario, fuori dagli schemi del sud povero e senz’arte, uno

spazio-museo-laboratorio a cielo aperto, una bottega-officina, una

sartoria della materia e delle cromatiche, uno studio-fucina d’arte, arte, arte in

sostanza, arte senza sostanza, la sostanza dell’arte, la forma e la sembianza, lo

scheletro la struttura la superficie, le mani e le maniere.

Sette ettari di macchia mediterranea e dentro

scrosci di colore e materia a caduta libera, diluvi di immaginazione sublime e

sublimata, resa reale. Nicodemo sognò come aveva fatto Giacobbe, il

soppiantatore, quello della bibbia, che vide in sogno una scala che dalla terra

si protendeva sino in cielo, con angeli che salivano e

scendevano; dio gli parlava, promettendogli la terra sulla quale

stava dormendo ed un’immensa discendenza. Nell’abside di

Santa Barbara, Nicodemo dipinse un soffitto in tre dimensioni,

stereoscopico, lungo quattordici metri, largo sei, alto nove,

silhouettes di fogli di legno leggero, dipinte e sospese nell’aria. Snelli,

svelti, aerei bassorilievi volanti, che a guardarli perdevi il

senso dell’orientamento. Io provavo una cosa che mi

sapeva d’infanzia, di otto anni io e mio fratello quasi sei, di quando

scavalcavamo i davanzali e ce ne stavamo sdraiati sopra le tegole del tetto da cui

spiare i giardini intorno e osservare le macchine passare velocissime sulla

superstrada che, in quel punto di fronte al nostro tetto,

si faceva un ponte altissimo, centinaia di metri alto e curvo come una

serpe, grossa e piatta, che andava da un posto dove non c’era niente, là nel centro

sigillato della valle, verso qualche altro posto dove non c’era niente, ma noi non lo

sapevamo ancora. Strade-ponti come serpenti che strisciano e vanno, e pensi che i

serpenti sono una cosa buona, perché vanno, si muovono, esplorano, e non

sai, non puoi  lontanamente sapere quanto, invece, certi serpenti possano ferire.

Sharon da una serpe del cuore del Texas scappava, scappava con me, Julia la

Souverän e la Volvo 240 Deluxe Station Wagon giallo scuro del millenovecento

settantanove, che noi la chiamavamo Mrs Yellowa, La Signora Gialla.

Sharon, lei scappava e noi lo sapevamo e le dicevamo che quella era una vacanza

sensazionale, invece. Un viaggio nel tempo per tornare al tempo che

sei bambino e hai otto anni e stai sdraiato sulle tegole dure di uno

spiovente di tetto che guarda la superstrada sospesa e curva come un

serpente grosso e piatto che striscia e non fa male e che strisciando solcando

sfregando, va da un nulla ad un altro nulla e ancora uno, e tu

sei piccolo e non ne vedi né la testa né la coda e allora pensi che crescendo,

sicuramente, vedrai tutto, invece. Dalla testa alla coda e da sopra a sotto, e da nord a

sud, anche, e viceversa. Sharon, le dicevamo, uno

stronzo col cappello da cowboy non può prosciugare una palude. Quante

S c’erano nel nome di JR, nella sua fonetica? Gei Aar: non una

sola. JR era un gargarismo sciabordante, una vescia petulante. Sharon però non

sentiva, non ascoltava più niente, si lasciava invece soffocare la giovinezza nel petto,

strozzare la libidine nel torace tenero, soffice. Per i suoi ventun anni, per festeggiare

Sharon ormai adulta e pronta ai giochini per soli adulti, JR le regalò la biancheria

sexy che s’annoda, s’ingarbuglia intorno alla gola, stringe, serra, toglie:

spezza il respiro nello sterno. Sharon aveva detto che era stato bello, che,

sì, le piaceva. Ma piangeva, col collo cerchiato dai solchi dei peccati della gola e del

sangue. Nemmeno nel nome della stilista di biancheria intima sexy per

soli adulti Brooke Chamber Jone Marone Forrester Logan, c’era una sola S,

se non quella tra il suo nome e la stanza, la Brooke’s Bedroom, dove

Sir Serpent JR aveva studiato, e scelto e sperimentato e a fondo, la biancheria

sexy e da giochini per soli adulti di Brooke Logan, con Brooke Logan. Degli

Stati uniti d’America, poi, non uno, nemmeno uno iniziava con la

S, notammo. Un’assenza totale di S nei posti e le persone doveva pur

significare qualcosa, di qualcosa l’assenza, dello stupore, dello

scheletro fibroso delle cose e del cuore forse la mancanza. Nei posti dove andavamo,

stavamo, invece, c’erano S a milioni, la S di sole di sale di salsedine di

siamo qui scritto sulla sabbia gigantesco per ridere.

Foto di jessica ChiappiniJ

Sharon voleva fare sempre dei bagni notturni, nell’acqua calda salatissima di

Saponara, un posto vicino Messina che che si chiamava così per la

Saponaria Officinalis che un tempo cresceva sulle pendici del territorio

saponarese, una pianta antica, spontanea, che faceva una schiuma a base detergente. Il

sapore dell’aria a Saponara ci faceva di bosco,

silvestri. Arrivammo via mare sull’isola col vulcano più attivo sulla

superficie terrestre, chiamato Struògnoli, o Iddu (Lui) o anche

Strummulu che in siciliano significa: trottola. Ci andammo perché era

semplice, arrivarci da Saponara, Volvo 240 Deluxe Station Wagon giallo

scuro a bordo, si avvicinavano le calende di luglio e la luna nuova, e

smaniavamo, volevamo, a tutti i costi e fin da bambine, vedere,

scoprire dove finiva il viaggio di Jules Verne: “nel cratere Yökull dello

Snæffels che l’ombra dello

Scartaris tocca alle calende di luglio,

scendi, viaggiatore, e raggiungerai il centro della terra. Ciò che feci. Arne

Saknussem”. Lo zolfo là sulle pendici era dappertutto, ed era grasso e

sciolto, liquido e ancora bollente, e giallo scuro ed era come respirare

stratosfere di pianeti sconosciuti.

Sharon sapeva, grazie a JR, che in Louisiana e nel Texas, sotto terra, sotto lo

strato di terreno superficiale formato quasi esclusivamente da

sabbie mobili, di zolfo ce n’era un sacco. E che lo si poteva cavare, scovare,

succhiare con il processo Frasch, che tramite acqua surriscaldata e iniettata nel

sottosuolo, riusciva a tirarne fuori grosse quantità. JR lo

smerciava alle aziende nel mondo per farne, col carbonio, il biossido di zolfo

SO₂, il quale, reagendo con l’acqua, diventa la pura pioggia di acido

solforico che cadendo, fa scempio di tutto quel che tocca.

Sharon lo zolfo lo usava spessissimo, dopo le ubriacature o le sostanze

stupefacenti legali e illegali, perché depura, e per lavare i suoi capelli gialli di un giallo

simile a quello dello zolfo, liquido.

Salendo, scalando Iddu, si riempì le tasche delle pietre gialle che trovava, e perciò più

saliva più era pesante come pure l’aria, la densità dell’aria e dello

spazio che era denso di una condensazione di gas diversi, anidridi

solforose in concentrazioni crescenti, vapori acquei rarefatti compressi spessi; il calore

soffocava come in una smisurata sauna senza soffitto. Polveri, polveri sottili sottili sotto gli

strati di vestiti che indossavamo, e nel naso e negli occhi, che saturavano,

scurivano, facevano tutto più buio. Un totale spaesamento,

straniamento, una decomposizione delle immagini in uno spazio stellare o di certi

sogni strani che non hanno inizio e né fine, quello accadde.

Sharon camminava, nebulizzata e quasi trasparente, a essa

stessa assente, camminava, cantilenante cantilenava

ʃɑ̃sɔ̃/ chanson :  Quel jour

sommes-nous Nous sommes tous les jours Mon amie Nous

sommes toute la vie Mon amour Nous nous aimons et nous vivons Et nous ne

savons pas ce que c’est que la vie Et nous ne

savons pas ce que c’est que le jour Et nous ne

savons pas ce que c’est que l’amour, che vuol dire : che giorno

siamo siamo tutti i giorni amica mia

siamo tutta la vita amore mio amiamo e viviamo amiamo, viviamo e

siamo amati e non sappiamo cosa sia la vita e non sappiamo cosa sia il giorno e non

sappiamo cosa sia l’amore. Cantava che sembrava una sequela alla Madonna, una specie di rosario, querimonia a

Santa Madre dell’Eruzione, della Lava, la Cenere, i Lapilli, i Gas, le

Scorie. Julia, invece, lei era già diventata lunare, svolazzava, quasi si staccava dalla

superficie della crosta terrestre vulcanica, lasciandoci a guardarla sorvolare il cratere

solforoso e opaco, tracimato; sorvolare i muli della Ginostra, i fichi di San Vincenzo, la

Sciara del Fuoco e il mare, sbordato tutto il mare intorno. Espiravo,

soffiavo più profondamente, la salita mi affaticava meno di respirare,

sputavo aria che era polvere umida, pensavo alle superstrade e a Arne

Saknussem. Cantavo, in un tedesco sicuramente tutto

sbagliato, la canzone degli Einstürzende Neubauten che avevo imparato:

sogno

d’incontrarti nella profondità,

giù nel punto più profondo della Terra,

la Fossa delle Marianne, il fondo del mare,

fra il Nanga Parbat, il K2 e l’Everest,

il tetto del mondo, lì darò una festa per te,

lì dove più nulla mi sbarrerà la vista

quando verrai, ti vedrò arrivare già dal ciglio del mondo

non c’è nulla d’interessante qui, soltanto i resti di Atlantide

ma non c’è traccia di te, credo che non verrai più,

forse ci siamo persi di vista nel

sogno.

Foto di jessica Chiappini

 

Sharon la guardavo smarrita perdersi tra quattro o cinque sassi,

seguire un filo immaginario che le attorcigliava le caviglie, Julia a bocca aperta

sbattere le braccia come ali bagnaticce. A Shcatulillo! disse.

Sharon con certi occhi di luna piena quand’è gialla

Solidago, un giallo che sembra terra senza erba, argillosa, secca secca,

senz’acqua da un tempo lunghissimo, così secca che sotto, appena sotto la

superficie, combustioni di ramoscelli, secchi anche loro, stanno

spopolando ogni più piccola forma di vita sotterranea; Sharon dagli occhi giallo

scuro, denso, cupo di luna appena sorta dietro un’ansa di montagna, prese un

sasso, giallo anch’esso, lo scagliò lontanissimo, rotolò. Stemmo a guardarlo,

sembrava che rotolando si stesse sciogliendo. Non si sarebbe fermato mai, il sasso,

scendendo le pendici, Iddu l’avrebbe bevuto, liquido, cocente, sciolto.

 

Saper immaginare la sete di un vulcano trottola, o la sete di Arne

Saknussem dentro di esso, non è cosa facile. Bisogna avere sete, saper immaginare la

sete, tutta la sete della terra, del suo centro che sobbolle, ribolle, dardeggia e

s’arroventa e non beve mai. Bisogna saper immaginare di morire per la sete che non

si placa non si spegne, saper sentire un vulcano trottola piagnucolare

sotto i piedi nel vapore scottante che ti squaglia, scioglie, il vapore della bocca, le

suole delle scarpe. Ci voltammo, la  Souverän e io, per guardarla, per vedere

Sharon roteare, là dove stava un minuto prima, lanciando un sasso giallo, muovere una

sola articolazione col peso del suo corpo, con lo spropositato

sforzo che per lei era come lanciare un aliante. Ci voltammo, c’era

solo polvere, e fumo, fumo lungo largo alto, muri, muri di fumo e lo

scoppio come di bombe oltre di essi. Non vedevamo, non vedevamo

Sharon, non vedevamo niente. Sharon, dicemmo.

Sharon. Ma non rispose, la cerbiatta pronta allo scatto e alla fuga, al salto, al

sobbalzo; lei cogli occhi come un incendio sott’acqua,

sotto il pelo dell’acqua di un fiume che scorre. Un’acqua

solfata, piena di zolfo, calda ma fresca, appena nata, che Iddu

se ne sarebbe innamorato, bevendone. E Iddu ne avrebbe bevuto, oh

sì, l’avrebbe, bevuta, e tutta e lunga e come una curva, l’avrebbe

succhiata, sì, la palude che risorge, l’avrebbe, oh, eccome,

sì, e a sorsi grossi.

Foto di Jessica Chiappini

Salamandrina Salamandrina Salamandrina

nicht nixen, nymphen, sylphen, elfen, musen oder feen

non ondine, ninfe, silfi, elfi, muse oppure fate

für dich will ich die motten versteh’n die können nicht widersteh’n

per te voglio capire le falene alle quali non si può resistere

für dich bin ich ein phoenix nur, geschichte ist bekannt

per te io sono soltanto una fenice, la mia storia è ben nota

nur immer wieder, nimmer, nimmer nichts dazu gelernt

solo sempre, continuamente, mai, mai, più nulla da imparare

Salamandrina Salamandrina Salamandrina

zunächst leg’ich die hand ins feuer und zieh mich daran rein

per prima cosa immergo le zampe nel fuoco e mi ci trascino dentro

dann verzehren flammen sich und ich werd’eine davon sein

poi le fiamme si consumano ed io divengo parte di esse

Salamandrina Salamandrina Salamandrina

In Girum Imus Nocte Et Consumimur Igni

Andiamo In Giro Di Notte Ed Ecco Siamo Consumati Dal Fuoco

wir irren des nachts im kreis umher und werden vom feuer verzehrt

ce ne andiamo in giro di notte e il fuoco ci consuma

Salamandrina Salamandrina Salamandrina

du wirst niemals vom feuer verzehrt

tu non verrai mai consumata dal fuoco

Salamandrina Salamandrina Salamandrina

du wirst niemals vom feuer verzehrt

                                                  tu non verrai mai consumata dal fuoco.

Tulipani

0

di Martino Pinna

Mi lavo i denti nel piccolo bagno della cabina della nave. Almeno qui posso farlo in pace, non devo andare in un autogrill come quando sono in viaggio. Il mio camion è parcheggiato tre ponti sotto di me.

Di lavoro trasporto fiori e bulbi dall’Olanda e dalla Germania in tutta Europa. Ora credo di avere rose e garofani nel mio mezzo, ma non sono sicuro. Mi piace questo lavoro, soprattutto quando guido. Purtroppo la maggior parte del tempo si passa ad aspettare e quello non mi piace. Devi aspettare le consegne, devi aspettare i tempi degli altri, spesso arrivi in un posto all’alba e scopri che devi aspettare là fino al tramonto. E tutto il giorno cosa fai? Io a volte dormo, dentro al mio camion, o guardo delle cose con il telefono. Di solito video di partite di calcio, vecchie canzoni di quando ero giovane o le notizie che arrivano dal mio paese. Poi si ritorna in strada, sempre così.

Sono nato in Romania, la mia famiglia è là. Di solito guido per quattro settimane, poi torno a casa per qualche giorno da loro. Faccio in media 12 o 13 ore al giorno di guida, a volte anche di più. Gli altri camionisti non ci vedono bene a noi rumeni, lo so, e non vedono bene nemmeno gli ungheresi e gli ucraini, perché prendiamo meno e lavoriamo di più e non ci lamentiamo mai. Ma che ci posso fare? A me danno 850 euro al mese, a loro 2000 o di più. Dicono che è sfruttamento e si incazzano perché facciamo concorrenza, ma non sono io che decido, sono le società di consegne. Per lo stesso lavoro a casa mia me ne darebbero 100, sempre se lo trovo, il lavoro, perché c’è molta disoccupazione. Quindi mi va bene così. Se mi ammalo posso pagarmi il medico e posso pagarlo per la mia famiglia. Se so di avere la salute, e che anche i miei cari stanno bene e possono essere curati, io sono tranquillo, non voglio sapere altro, che mi mandino pure a Dusseldorf, Lisse o Rotterdam, non me ne frega nulla. Ho speso molti soldi, anni fa, per la patente del camion e ora me li riprendo lavorando. Anche se capisco gli altri camionisti che si incazzano, perché anche io a volte mi incazzo con alcuni. Conosco kazaki che fanno sempre almeno 80 ore a settimana, distanze lunghissime e vanno ovunque per meno soldi di quelli che prendo io, e allora io parlo male di loro. Per questo dico che capisco. Per gli altri camionisti, per i tedeschi, per gli italiani, io sono come loro, come i kazaki. Ma ripeto, non è colpa mia. Se la devono prendere con le società di consegne, non con me.

Io poi sono uno che si impegna. I kazaki che conosco, ma anche i polacchi e gli ucraini, sanno solo guidare il camion. Io invece so fare tutto quello che deve saper fare un vero camionista, caricare e fissare come Dio comanda ogni tipo di merce, guidare camion frigo o container, cisterna o ribaltabile, saper usare smartphone, tablet e schede tachigrafiche come si deve, lavare e verniciare e riparare teli e sponde, cambiare gomme e maneggiare filtri e pastiglie freni, soffioni e lampadine, perché con la manutenzione devi saperti arrangiare, e anche sapere un po’ di parole in inglese, trattare con clienti e fornitori, accorgersi di documenti non corretti, e poi guidare con il raffreddore, la febbre o il mal di denti. Io tutte queste cose le so fare, e le faccio per pochi soldi, senza lamentarmi mai.

Quando ho cominciato, quindici anni fa, mi ero detto che avrei fatto il camionista solo per qualche anno, avrei recuperato i soldi spesi per la patente, ne avrei messo un po’ da parte, mi sarei sposato e poi avrei smesso. Invece ho continuato. Mi sono sposato e ho fatto due bambine, ma ho continuato a fare il camionista.

Adesso sono sdraiato sul letto della cabina e guardo le foto delle mie  figlie sul telefono, perché mi mancano e perché mi piace vedere come cambiano aspetto. Non voglio dimenticare i loro volti. Guardo anche le foto di casa mia, sto facendo dei lavori e prima di addormentarmi ragiono su queste cose. A casa mia c’è un giardino bellissimo, abbiamo l’orto, piante ornamentali, fiori e alberi da frutto. Mia moglie mi manda le foto dei fiori, delle piante e dei gatti. Io le rispondo che di fiori non ne voglio sentire parlare, sono sempre in camion a portare in giro fiori! Ma lo dico per scherzare, i fiori mi piacciono, anche se quelli che porto nel camion non li vedo nemmeno. Lei, per prendermi in giro, mi dice che vado dall’altra parte del mondo a prendere dei fiori ma a lei non gliene regalo mai. Però porto i soldi a  casa, questo lei lo sa.

Stasera ho mangiato nell’area ristorante della nave, ma il cibo me lo porto sempre da casa o lo compro nei supermercati, perché in giro costa troppo e i padroni non te lo pagano. Nelle aree di servizio un pranzo costa quanto un televisore a casa mia, soprattutto in posti come Svizzera e Germania. Anche sulle navi mangiare è troppo caro per me. Allora ho il camion pieno di scatolette e buste di zuppe liofilizzate. Sono comode, basta un po’ d’acqua calda e hai un pasto pronto e decente. Non sarà come una cena fatta da mia moglie, questo è ovvio, ma mi toglie la fame. Stasera ho mangiato una zuppa di funghi, mezzo barattolo di cetriolini sottaceto, una scatoletta di tonno, dei cracker e una banana.

Questo lavoro mi piace, è vero, ma col passare del tempo vedo sempre di più gli aspetti negativi. Le strade sono sempre più affollate e i tempi di consegna sono a volte impossibili, e poi ti controllano costantemente: le società di consegne, i clienti che si incazzano con te anche se non è colpa tua, la polizia, insomma siamo sempre controllati da tutti. E più passa il tempo, più aspettare mi pesa. È la parte peggiore del mio lavoro. Una volta mi è capitato di aspettare per tre giorni. Tre giorni interi parcheggiato, chiuso dentro al mio mezzo, per un errore della società, perché qualche stupido impiegato dal suo ufficio ha sbagliato a fare i calcoli con il computer, o forse era colpa del cliente, chissà, si scaricano sempre le colpe e non si capisce chi ha ragione. Ma chi ci passa alla fine sono io, perché a loro non conveniva farmi tornare indietro, né cambiare consegna, quindi mi hanno lasciato tre giorni parcheggiato ad aspettare che il carico fosse pronto. Quella volta ero davvero incazzato.

Parlavo al telefono con mia moglie, con mio fratello, con amici camionisti, ma la maggior parte del tempo stavo dentro al camion, nella  cabina, rannicchiato nel letto. Ogni tanto uscivo per fumare una sigaretta o per pisciare. Avrò fumato quattro pacchetti di sigarette. Era estate e il mezzo che guidavo non aveva il riscaldamento ausiliario, quindi a motore spento non potevo usare l’aria condizionata. Crepavo di caldo. Tenere il motore acceso non si può, è un costo per le società di trasporti, e poi con quel rumore comunque è impossibile dormire. La notte si poteva resistere, ma di giorno, con il sole che picchiava sulla cabina, era insostenibile, non respiravo. Quindi stavo fuori dal mezzo più tempo possibile, all’ombra, in questa aria di servizio con i tir ammucchiati, e ogni tanto c’erano problemi perché non c’era spazio, mi facevano spostare, poi arrivavano altri tir e mi facevano spostare ancora, e io aspettavo, sempre aspettavo. La prima notte sento bussare al finestrino, che di solito tengo chiuso per i ladri. Scosto la tendina e vedo le luci blu, era la polizia. Ero appena riuscito ad addormentarmi nonostante il caldo e quelli mi hanno svegliato. Soliti controlli. Io cerco di non parlare, fingo di non sapere bene la loro lingua, in qualunque paese mi trovi faccio sempre così. Mostro le carte tachigrafiche, perché ne ho più di una dato che faccio più ore di quelle che si possono fare, come tutti quelli che conosco, e quindi faccio finta che il mezzo sia stato guidato da più persone. Credo che la polizia lo sappia, ma non ci può fare niente. Arrivato al terzo giorno pensavo: non voglio più fare questo lavoro. L’attesa mi stava facendo incazzare sempre di più e pensavo solo alle cose brutte.

Pensavo a un amico camionista, un ungherese di nome Endre, che è morto qualche anno fa, hanno scritto di lui anche sul giornale. È morto perché si è addormentato con la sigaretta accesa dentro la cabina: il mozzicone è caduto a terra, ha bruciato lentamente i tappetini, tutto l’interno, è scoppiato un incendio e non c’è stato nulla da fare. È bruciato lui e tutti i fiori che trasportava. A me non ha sorpreso. Sapevo che Endre sarebbe morto dentro il suo camion. Io però pensavo a un incidente, non a un incendio. Ma sapevo che sarebbe morto sulla strada, me lo sentivo.

Una volta Endre mi ha detto che aveva guidato 24 ore di seguito andando avanti a caffè e amfetamine, pastiglie che ti tengono svegli, si era fermato solo due volte per pisciare. Lui prendeva ancora meno soldi di me, 800 euro con tredicesima, quattordicesima e TFR compresi in busta paga. Lo mandavano da una parte all’altra con tempi strettissimi, era una cosa da pazzi. L’avevo conosciuto in un parcheggio di un centro commerciale, si stava lavando i vestiti che poi stendeva sui carrelli della spesa, faceva freddo ma aveva i pantaloncini cortissimi, sembravano mutande, le infradito e la sigaretta che penzolava dalle labbra. Era piccolo, basso e smilzo. Ho capito subito che era un camionista, perché avevo visto un mezzo parcheggiato sul lato della strada. Avevamo parlato e fatto un po’ di amicizia.

Aveva 28 anni e aveva divorziato da poco, io gli avevo fatto vedere le foto di casa mia, del mio giardino e delle mie figlie. Gli avevo detto che prendeva troppi pochi soldi e faceva una vita di merda, ma a lui andava bene così, non ci pensava troppo, guidava e basta. Mi aveva fatto vedere fotografie di ragazze che conosceva con internet ma che poi non riusciva mai a incontrare perché era sempre sulla strada. In quei tre giorni passati nell’area di servizio sotto il sole ad aspettare e fumare le sigarette fuori, ben lontano dalla cabina, ho pensato spesso a lui, che non dormiva mai e per una volta che si è addormentato è morto bruciato. E ho pensato che questo lavoro mi piace ma forse non lo vorrei fare più. Ma lo so, faccio sempre così, penso di smettere, ma non smetto. Infatti dopo i tre giorni passati a incazzarmi, quando finalmente il carico era pronto e mi sono rimesso in strada, mi sono sentito di nuovo bene. Ho dimenticato l’attesa e non ero più incazzato, anzi ero così felice che cantavo.

È che guidare a lungo mi piace. Mentre sono sulla strada non sento il tempo scorrere, è come se fossi da un’altra parte. Mi piace anche prendere la nave, fumare una sigaretta sul ponte e guardare il mare, poi chiudermi in cabina e aspettare che sia mattina. A volte ci sono dei camionisti che mi propongono di prendere una cabina in due o in tre, perché così si risparmia, ma io mi invento sempre qualche scusa per stare da solo. Sto da solo tutto il tempo sul camion, può sembrare strano che anche sulla nave voglia stare da solo, lo so. Ma sono fatto così. E poi mi è capitato di dividere la cabina con gente che puzzava peggio degli animali. Non era colpa loro, non avevano trovato un posto dove lavarsi magari da una settimana, però che ci posso fare, non posso dormire con la puzza degli altri. Per non parlare del bagno: dopo settimane a usare i bagni pubblici mi piace avere il bagno in cabina, pulito e tutto per me. E poi è vero quello che dicono, più guidi il camion più diventi solitario. A me piace chiudermi nella cabina della nave, da solo, mettermi comodo e sapere che fuori c’è il mare. A volte, se c’è la luna piena, riesco a vedere le onde e la schiuma bianca dell’acqua, ed è molto bello. Ho calcolato che in tutti questi anni ho guidato per circa 3 milioni di chilometri. Naturalmente non è un calcolo preciso. Ma più o meno credo sia giusto. A volte penso dove potrei andare facendo 3 milioni di chilometri. La Luna è lontana dalla Terra circa 384mila chilometri, me l’ha detto mia figlia. Quindi è come se fossi andato e tornato dalla Luna cinque volte, più o meno. Quando un giorno avrò dei nipoti gli racconterò questa cosa.

Sistemo il cuscino, mi preparo a dormire. Questo cuscino non mi piace, è scomodo, preferisco quello che ho nella cabina del mio camion. Metto due cuscini uno sopra l’altro e prima di dormire guardo un video che mi ha mandato qualche giorno fa mio cugino. È una raccolta di gol di Gheorghe Hagi, il mio calciatore preferito quando ero giovane. Quando ne parlo con altri camionisti italiani o tedeschi non sanno nemmeno chi è, pochissimi se lo ricordano, eppure ha giocato anche in Italia e in Spagna, ed era bravo come Maradona e come lui era mancino. In Romania lo chiamavamo il Re. C’è un video su internet della storica partita contro l’Argentina, nella Coppa del mondo del 1990, in Italia. Non era una partita tra due squadre ma uno scontro tra due grandi mancini e due grandi numeri 10, due veri campioni, e finì pari. Davvero: la partita finì uno a uno. Mi ricordo che eravamo tutti incollati davanti al televisore a tifare, io e miei fratelli e i miei cugini. A me lui piaceva per come giocava ma anche per come si comportava come uomo, perché era intelligente e ribelle, non si faceva mettere i piedi in testa, e da giovane mi dicevano che ci assomigliavamo.

Adesso sto guardando questa raccolta dei suoi gol migliori. C’è quello che ha fatto quando è andato a giocare nel Real Madrid: ruba la palla a metà campo e invece di impostare un’azione tira direttamente in porta, e segna. Incredibile. Faceva sempre così, tirava da fuori area, mi ricordo un’intervista dove spiegava che gli era stato insegnato così, a non pensare, “appena puoi, tira”. Perché perdere tempo? E anche qua ha visto la porta e ha tirato, senza pensare. Come dice un proverbio: chi cerca il tempo perde tempo. Ma ecco forse il gol mio preferito, sempre da metà campo, in quella che era stata  chiamata “la partita nella nebbia”. Anno 1994 credo, quando giocava nel Barcellona. Quel giorno non si vedeva nulla, e anche nel video si vede pochissimo. Sembra come in autostrada quando ci sono i banchi di nebbia e la visibilità è di pochi metri. Era davvero così, una partita dove nessuno capiva niente. E Hagi che fa? Gli arriva la palla e, sempre senza pensare, tira in porta da 52 metri. Il portiere del Celta non vedeva nemmeno i giocatori, ha solo visto arrivare all’ultimo la palla che è entrata in porta. Guardo questo gol e mi viene in mente la nebbia, la strada, i camion, e quel poveraccio di Endre, perché il suo secondo nome era Serghei, come Hagi, ed era nato nel 1990, l’anno della Coppa del Mondo in Italia dove per noi Hagi era meglio di Maradona, e anche Endre nella nebbia non rallentava, magari stava guidando da 15 ore con la musica e le pastiglie di amfetamina, senza più nessuno ad aspettarlo a casa, trasportando fiori che non aveva mai visto dall’Olanda all’Italia, senza parlare mai con nessuno, lavandosi nei cessi degli autogrill e mangiando scatolette di piselli e pancetta da solo, con la sigaretta in bocca, fumava sempre, una dopo l’altra, povero pazzo. Sarebbe potuto diventare un calciatore invece che un camionista, avrebbe guadagnato più soldi e sono sicuro che anche lui avrebbe tirato la palla da metà campo, in mezzo alla nebbia, senza pensare. E invece è morto tra le fiamme mentre dormiva, assieme a cinquantamila tulipani, e di lui è rimasta solo una macchia nera sull’asfalto. Ma così è questa vita, inutile piangere.

Sotto il cielo del mondo

1

di Flavio Stroppini

Il giorno in cui nacqui scendeva un caldo vento da nord. Nessuno riusciva a raccapezzarsene: “Dal nord arriva il freddo” dicevano. Ma a quel vento non fregava niente di cosa pensassero gli esseri umani. Lui soffiava come gli pareva.
Il giorno in cui venni al mondo mia madre morì. Fu così, come gemmano i rami dopo l’inverno: prima la morte e poi la vita. Mia madre morì che ero a mezzo percorso. I piedi nel mondo e la testa ancora dentro di lei. Mi tirarono fuori a forza. Piansi per cercare aria. “Eccoti qua” dissero. Nessuno pensò a dire “Benvenuto!” oppure “Buona vita!”, d’altronde a chi sarebbe potuto importare di quel bimbo nato da madre morta e padre disperso? Mi tagliarono il cordone senza troppe celebrazioni. “Taglia che dobbiamo staccarlo dalla madre” dissero. Così fecero. Semplicemente mi tennero in vita, appena nato da una madre morta.
Quella stessa notte undici vacche del Giovanni si suicidarono gettandosi in un dirupo sotto l’alpe Aspra. Le trovarono il mattino seguente, accatastate l’una sull’altra a formare una collina di carne e ossa. Il Piero, che fu il primo ad arrivare sul posto, mi raccontò che con i raggi di sole di taglio che sbattevano sull’ammasso, quello sembrava formare quasi un volto. Le zampe ritte in aria i capelli, una schiena la bocca ghignante e due o tre musi fusi assieme dall’impatto, formavano un naso bitorzoluto e un paio di buchi del culo erano gli occhi. “Un cazzo di diavolo” disse il Piero.
Il giorno in cui venni partorito di mio padre nessuno ebbe notizia. All’ospedale del capoluogo c’era zia Ines, la sorella del disperso. Fu lei che mi abbracciò come una madre. Fu lei che mi diede il nome, dato che mia madre quello suo se l’era tenuto segreto. Mi chiamò Alvaro, come un cantante girovago che le aveva fatto girare la testa quando era appena diventata donna. Quell’Alvaro si era presentato al paese pochi giorni prima della Festa di San Valeriano, il 14 di aprile. In paese si stava preparando la celebrazione del patrono. Era tutto un brulicare di persone intente agli addobbi, alle luminarie per la processione notturna, all’allestire la cucina da campo nel cortile dell’oratorio. Ognuno con il suo mestiere se ne stava indaffarato ad abbellire quella manciata di strade che chiamavamo generosamente centro paese. Nei giorni di San Valeriano non litigava nessuno, era questo il grande miracolo. Già, quei giorni la natura rinsecchita dall’inverno germoglia festeggiando la primavera e anche gli uomini ogni anno ritrovano un poco di felicità. Me lo sono sempre chiesto come il festeggiare un martire possa farci stare bene. Chissà cosa avrebbe detto il nobile patrizio romano Valeriano di tutto questo? Avrebbe mai pensato di ritrovarsi onorato, quasi due millenni dopo, da un gruppo di montanari? Chissà quanti di questi montanari, per pochi giorni all’anno così religiosi, avrebbero avuto la forza di Valeriano di non toccare la moglie sin dalla prima notte di nozze poiché protetta da un angelo del Signore? Di sicuro non la ebbe quell’Alvaro girovago e cantante che nel pieno della processione si portò la zia Ines dentro al fienile e con lei si divertì per qualche ora. Poi sparì, proprio come spariscono tutti gli uomini della famiglia Giacometti. Certo, quel musicista non lo era, né famiglia né tantomeno uomo. La zia si trovò con un bimbo nel ventre e questo le rovinò la vita. Il bambino non arrivò al settimo mese che se ne volle uscire, e come è per i destini nati segnati, non resistette nemmeno il tempo di vedere sua madre. Emise solo un grido e poi se ne andò. Zia Ines non ebbe nemmeno il tempo di dirgli “Amore”. In paese non la volle più nessuno, se non per una notte. Questo le appiccicò una brutta reputazione che la fece aggrappare ai Santi e alle loro storie. Io ho sempre pensato che avesse voluto chiamarlo proprio Alvaro quel bambino e quando la zia Ines si ritrovò me in braccio fu come se le avessero dato una seconda possibilità. Come se non bastasse, a tutto quel dolore si aggiunse la morte della cognata e fu proprio quella la goccia che fece traboccare il vaso. Zia Ines il dolore lo buttò via tutto e decise di non volerci avere più niente a che fare. Si prese cura di me e si dedicò ai Santi. Tutti i Santi tranne uno, Valeriano. Quando scoprì che quello era il Santo invocato contro le tempeste le venne quasi un colpo e maledì quel fratello che da quando aveva ingravidato la moglie non si era più fatto vedere. Mio padre.
Fu come se la vita mi avesse insegnato subito come va il mondo. Respirai, mangiai e crebbi senza pensare troppo all’amore di madri e padri. Mi convinsi che al mondo ci fossero solo le cose che puoi toccare con mano. Se ti scotti, ti geli o ti feriscono, ecco che esistono e tutto il resto non conta. Per me c’era zia Ines e quel paese aggrappato alle Alpi.

NdR: questo testo è il bellissimo incipit del romanzo “Sotto il cielo del mondo“, del ticinese Flavio Stroppini, pubblicato da Gabriele Capelli Editore (2020)

“La semaine perpétuelle” di Laura Vazquez – un estratto in traduzione

0

 

La semaine perpétuelle è il primo romanzo di Laura Vazquez, uscito nel 2021 per le Editions du Sous-Sol e attualmente inedito in italiano. L’autrice è stata residente a Villa Medici da settembre 2022 ad agosto 2023. L’estratto che segue viene pubblicato in traduzione su Nazione Indiana con il sostegno dell’Institut Français Italia.

 

 

di Laura Vazquez
traduzione di Ornella Tajani

Ciao a tutte e tutti, rieccoci oggi con un nuovo video sul tema delle persone, cioè delle cellule. I genitori ti portano in grembo e tu nasci, un dottore ti fa uscire e apri gli occhi. Le cellule ti circondano il corpo, e non le vedi. Hanno le antenne. Assorbono le radiazioni della tua vita e tu non lo sai. Ci sono cose che non riesci a vedere, quasi tutte le cose. In camera tua, in casa, quando respiri le cellule nascondono. Non puoi sentirle, non sei mai solo, ma non ci pensi. Non lo sai. Sei fatto di cellule circondate da cellule. Ma la cellula ti conosce, ti guarda, ti capisce. Tu stesso non sei una persona, non sei un’unica persona, sei un ammasso di cellule. Abbassò lo sguardo, scrisse la parola: CELLULA sul telefono, lesse: La cellula è la più piccola componente di ciascun organismo vivente. La cellula permette di rinchiudere le persone e di isolarle. La cellula è l’unità di base di ogni organismo. Ma ora ti svelo io quello che non viene detto: Le cellule capiscono la tua vita. Loro sanno. Anche se tu non la capisci, non fa niente, le cellule capiscono, non preoccuparti. Le cellule ti circondano e si moltiplicano. Non luccicano, ma vibrano. Una cellula può aiutarti, ma può anche tradirti, la stessa cellula può tradirti e aiutarti. Le cellule leggono i tuoi sentimenti. Conoscono quel che hai nel petto. Agiscono su di te perché sono te. Capiscono la tua vita meglio della tua vita perché sono la tua vita. Al di fuori delle cellule, la tua vita è la parola VITA.

Resta seduto, non pensare, resta in camera tua, fai silenzio. Io l’ho fatto, non riuscivo a capire, non riuscivo a pensare, non sapevo nulla, le cellule si prendono gioco di noi per via dei pensieri, conoscono i nostri pensieri. Ci entrano nel corpo, una cellula può diventare il coperchio della nostra bara, può diventare una lacrima, un brufolo, un raffreddore o il cancro. Alcune cellule si divertono, altre odiano. E per proteggersi bisogna fare silenzio. Quando si fa silenzio le cellule si calmano. Fa’ silenzio dentro la testa. I pensieri sono cose che si contraggono nei neuroni, ma i neuroni sono cellule al livello dei nervi.

Adesso ti dirò una cosa e devi scrivertela sul braccio. Scriviti sul braccio: Se un sentimento decide della tua vita, sei come una scarpa. La scarpa ha bisogno di un piede. La scarpa non può camminare senza il piede. Ma il piede non ha bisogno di scarpe per camminare, il piede non ha bisogno di scarpe per uscire, non ha bisogno di scarpe per andare avanti. Il piede esiste ed è un piede. Se non ci fossero piedi non ci sarebbero scarpe, ma se non ci fossero scarpe i piedi esisterebbero. Se un sentimento decide della tua vita le cose ti passano nel corpo, hai bisogno che passino, come le scarpe hanno bisogno del piede. La sua stanza era grande e la testa minuta. Avvicinò le mani alla webcam, disse: Tutti aspettano, non aver paura di aspettare, tutti stanno aspettando, significa che tutti pregano, pure quelli che non credono. Guarda bene, stanno pregando. Pregano internamente. È come se avessero la terra dentro e stessero scavando. Scavano la terra, hai capito o no che sto dicendo? Guarda, per la strada, in macchina, dai kebabbari, nei parchi, nelle scuole, tutti stanno pregando, guarda la bocca, gli occhi, pregano, pregano tutti. Perché pregano tutti? Rifletti, pregano tutti per essere una persona. Ognuno pensa: Sono una persona. Questo è il mio passato, la mia storia, il mio posto, sono questa persona, sono una persona. Quando mangiano, in treno, nella metro, pensano: Sono una persona, sono una persona, sono io, ho queste idee qui. Sono me stesso. Si svegliano, pensano: Sono una persona, sono la persona che vive a casa mia, sono a casa mia, sono una persona, e chi è il contrario di Dio? È la persona. Ogni volta che sono una persona, sono il contrario di Dio. E se ci sono problemi, sono problemi di Dio. I nostri problemi non sono problemi nostri, siamo una persona. Quando uno è malato, chi fa la malattia? Non è la persona, è la natura. Se uno non è un Dio, può restare a letto, è il contrario di un Dio, non c’è problema. Se non c’è problema, di chi sono i problemi? Non sono della persona. Tutti pregano per non capire. Dalla mano destra fino alla mano sinistra tutti stanno pregando. Ci sono persone che dicono per tutta la vita: Io non prego, non credo, ma al momento di morire guardano il soffitto, le cellule delle loro mani si uniscono, si toccano. Secondo voi, se Dio esiste, prega? Le espressioni del suo viso erano in ritardo rispetto alle parole, come se ogni volta restasse sorpreso. Avvicinò la faccia alla webcam, disse: Inizia la giornata senza decidere, fai quest’esperimento. Lascia che siano le cose a decidere, a scegliere i tuoi gusti, problemi, gesti. Resta in casa un giorno intero e prolunga la giornata. Resta a casa una settimana e prolunga la settimana. Resta a casa per un anno e prolunga gli anni. Resta in camera tua. Io, quand’ero piccolo, pensavo come un bambino, parlavo come un bambino, poi, la sera, dormivo come un bambino, mi trattavano come un bambino. Avevo compassione per gli oggetti. Quando i miei genitori cambiavano auto, soffrivo per quella vecchia. Provavo pietà per le carte nei cestini della spazzatura. Sono diventato una persona, ti parlo. A volte non so cosa voglio dire. Comincia le frasi senza decidere. Comincia una frase senza scegliere la fine. Ora vi posto la mia poesia UNO ZERO TRA GLI OCCHI, non dimenticate di mettere il like e condividere, ciao, bye, alla prossima.