
Chopin, Fitzgerald, O’Connor: le tre terribili Southeners
di
Michela Polito
Sebbene abbiano espresso sé stesse in maniere peculiari e diverse tra loro, Kate Chopin, Flannery O’Connor e Zelda Fitzgerald hanno molto in comune. In primo luogo, sono “vicine di casa”, affondano infatti le loro radici culturali e identitarie negli stati del Sud. Kate era originaria del Missouri e fu residente per lungo tempo in Louisiana; Flannery, nata a Savannah, fu residente per tutta la vita in Georgia – eccettuata la parentesi universitaria in Iowa; Zelda nacque a Montgomery, Alabama, anche se visse i suoi anni ruggenti fra New York e la Francia degli “espatriati”. Il fatto di essere tre outsider e di provenire tutt’e tre dal Sud forse non è il mero frutto di una felice coincidenza. Gli stati del Sud sono infatti ancora oggi tristemente noti per il loro carattere conservatore, per il fondamentalismo religioso e per un razzismo neanche dissimulato. Non è inusuale imbattersi in bandiere degli stati confederati, benché la guerra sia finita da circa due secoli.
Se questa è la situazione del Sud ai nostri giorni, figuriamoci ai loro tempi. E figuriamoci come vennero accolte le opere di tre donne, che già per il fatto di essere donne ad avere un’opinione, una visione, e addirittura la “sfrontatezza” di esprimere il loro pensiero attraverso la scrittura, in un simile contesto si ponevano in una posizione estremamente scomoda. Bersagli, seppur non del tutto consapevoli, del moralismo ottuso e paternalista della critica e dell’opinione pubblica dei tempi. Si consideri Kate Chopin. Nata a ridosso della guerra di secessione, scriveva alla fine del XIX secolo; Zelda negli anni ’30, anche se la sua figura è associata al decennio precedente, l’età del jazz, di cui è considerata l’icona; Flannery negli anni ‘50, decennio in cui al Sud era ancora in vigore il segregazionismo, non dimentichiamo che era il 1955 quando Rosa Parks sedeva su quell’ autobus.
Cos’altro ci si sarebbe potuto aspettare da tre libere pensatrici, intrappolate, a parte Zelda, in un simile contesto sociale e culturale, se non che mostrassero segni di insofferenza, che fossero tacciate di scrivere opere immorali e di comportarsi in maniere inaccettabili, e che venissero ripudiate da un’università cattolica perché i propri scritti non riflettevano i valori gesuiti di Loyola, come nel caso di Flannery, scrittrice notoriamente credente, seppur non bigotta?
Kate fu letteralmente boicottata. La critica e l’opinione pubblica di allora non accolsero di buon grado il fatto che aveva parlato esplicitamente, seppur candidamente, di argomenti quali l’adulterio femminile, come in The Storm ma non solo, o la nascita di figli interraziali (non sia mai!), come in Desirèe Baby. Né, tanto meno, accettarono che avesse sbattuto in faccia al pubblico tout court il fatto che, guarda un po’, anche le donne hanno impulsi sessuali, malgrado l’idea corrente di donna all’epoca fosse quella del frigido angelo del focolare, a cui poco dopo, oltreoceano, Virginia Woolf diede, grazie a dio, il colpo di grazia. Le sue opere non vennero più ristampate per decenni, quando furono riprese e rivalutate dal movimento femminista negli anni ‘70.
Prendiamo il caso di The Storm, il più riuscito dei suoi racconti. Composto nel 1898, non fu mai pubblicato se non come parte della raccolta The Complete Works of Kate Chopin nel 1969. Scritto poco dopo The Awakening, romanzo controverso pubblicato nel 1899, The Storm è la storia dell’incontro sessuale di due persone, Calixta e Alces, entrambe sposate con altri. La circostanza di questo incontro, una tempesta per l’appunto, funge sia da metafora che da espediente affinché questo incontro abbia luogo —il marito e il figlio di Calixta sono fuori casa e sono impossibiltati a tornare finche` la tempesta non cessi—.
La generosa abbondanza della passione di lei, priva di sensi di colpa o inganno, era come una fiamma bianca che penetrava e trovava risposta nelle profondità della natura sensuale di lui, che non era mai stata raggiunta prima di allora. Quando sfiorò il suo seno, gli si concesse in un’estasi tremante, invitando le sue labbra.
La sua bocca era una fonte di delizia. E quando la possedette, fu come svenire ai confini estremi del mistero della vita. Lui rimase accovacciato su di lei, senza respiro, stordito, privo di forze, il cuore battente come un martello sul suo petto. (The Storm)
L’accoglienza violenta di pubblico e critica all’uscita di The Awakening, caratterizzato dalla stessa linea di sessualità esplicita del racconto, scoraggiò Kate a tentare la pubblicazione di quest’ultimo, motivo per cui rimase nel cassetto per quasi un secolo.
Dai diari di Zelda Scott fece man bassa, e molti passaggi finirono nei suoi romanzi, come notò lei stessa con una certa tagliente ironia in una risposta che diede a un giornalista del New York Tribune in occasione dell’uscita di The Beautiful and The Damned:
Mi sembra che in una pagina ho riconosciuto una parte di un mio vecchio diario misteriosamente scomparso poco dopo il mio matrimonio, e anche frammenti di lettere che, sebbene notevolmente modificati, mi suonano vagamente familiari. In effetti, il signor Fitzgerald – credo che sia così che scrive il suo nome – sembra credere che il plagio inizi a casa.
(The New York Tribune).

Eppure Zelda non passò alla storia per le sue doti letterarie e artistiche e, anzi, il celebre marito storse il naso di fronte alle richieste incalzanti di editori e giornali che espressero il desiderio di annoverarla fra i loro autori. Ma Zelda era lei stessa un’opera d’arte in carne e ossa. Icona delle flapper, ovvero le ragazze degli anni ‘20 coi capelli a caschetto e la frangia, il rossetto scuro, il kajal marcato intorno agli occhi, e tutto l’armamentario dell’era del jazz, piume di struzzo e sigarette col bocchino incluse, non era certo il prototipo della donnina sottomessa che ci si aspettava dalle sue parti. Ballerina, ribelle, battuta pronta e dialogo arguto, flirtava sfacciatamente con i disgraziati che le capitavano a tiro in quel di Montgomery, e anche dopo sposata fu ben lontana dal mostrarsi un personaggio di facile gestione. Nonostante il suo genio, proprio a causa dei suoi mancati riconoscimenti artistici, per non parlare del suo matrimonio delirante, non visse un’esistenza serena, finendo per venire incarcerata a intermittenza entro varie case di cura, dove concluse la sua vita turbolenta.
E Flannery, forse non bistrattata come le prime due, non era sicuramente meglio integrata nel suo ambiente sociale, che lei stessa ritrasse in un modo per cui, non per niente, le sue opere sono considerate New Southern Gothic, visto il carattere grottesco dei suoi personaggi e, generalmente, delle circostanze in cui sono calati. Mi viene in mente, a proposito di personaggi grotteschi, la famiglia medio borghese decerebrata di A Good Man Is Hard To Find. I bambini sono dei mostri.
La risposta che la ragazzina, June Star, dà alla moglie di Red Sam a proposito del suo locale è emblematica, ma non sarebbe l’unica battuta a far venire voglia di rifilarle un manrovescio:
“Non e` adorabile?” disse la moglie di Red Sam, sporgendosi dal bancone. “Ti piacerebbe venire a vivere qua ed essere la mia bambina?”
“Certo che no”, rispose June Star. “Non vorrei venire a vivere in questo posto che cade a pezzi neanche per un milione di dollari!” e corse di nuovo al tavolo.
I genitori totalmente passivi e vuoti in maniera preoccupante (la madre sfoggia un foulard con le orecchie da coniglio e la faccia di un vegetale: non proprio il ritratto dell’intelligenza): tale era la sua percezione della middle class americana bianca. Tutti sono abusivi nei confronti della nonna, che comunque non spicca di sicuro quanto a intelligenza neppure lei: una mitragliatrice di luoghi comuni. Senza contare il modo in cui parla del bambino di colore che vedono dalla macchina durante il loro viaggio verso la Florida: come se fosse uno spettacolo del circo perché sprovvisto di pantaloni a causa della povertà.
“Oh, guardate quel grazioso negretto!” disse puntando il dito verso un bambino di colore davanti a una baracca. “Non vorreste fare una foto adesso?” chiese, e loro [i nipoti] si girarono e lo guardarono dai finestrini posteriori. Lui li salutò.
“Non aveva su i pantaloni”, disse June Star.
“Probabilmente non ne ha”, spiegò la nonna. “I negretti nelle campagne non hanno le cose che abbiamo noi. Se potessi dipingere, dipingerei quel soggetto”, disse.
Considerazione che già di per sé rende perfettamente l’idea dell’idiozia del personaggio, fosse stata la sua unica battuta in tutto il racconto. Paradossalmente, l’unico che mostra un briciolo di coscienza in più, e quindi di umanità, è proprio The Misfit, il bandito evaso. The Misfit si eleva dallo stato di ameba in cui vertono gli altri, ponendosi, ad esempio, domande sul peccato e sull’entità della punizione, tanto che il lettore finisce quasi per simpatizzare con lui, piuttosto.
“Gesù ha mandato tutto a gambe all’aria. È stato lo stesso, per Lui e per me, solo che Lui non aveva commesso nessun delitto e invece hanno potuto provare che io ne avevo commesso uno, perché avevano le carte. Naturalmente”, proseguì “a me le carte non le hanno mai fatte vedere. Ecco perché firmo, adesso. Molto tempo fa mi sono detto, inventati una firma e firma tutto quello che fai e tienitene una copia. Almeno saprai cosa, cos’hai fatto e potrai confrontare il crimine con la pena e vedere se combaciano. Alla fine avrai qualcosa in mano per provare che non ti hanno trattato con giustizia. Mi faccio chiamare The Misfit perche` non mi quadrano i conti tra il male che ho fatto e quello che ho dovuto subire per scontarlo. (Un brav’uomo è difficile da trovare)
E quando la banda di delinquenti stermina tutta la famiglia, è quasi un sollievo che ci abbiano manlevato da tale prodigio di stupidità, in una scena degna del migliore Tarantino.
Eppure, nonostante tutte le difficoltà, i tormenti e le mancanze di riconoscimenti che queste tre donne affrontarono, restano ancora oggi tre punti focali della letteratura mondiale e dell’emancipazione femminile, tanto che furono considerate, nel caso di Kate Chopin o della southern belle Zelda, protofemministe, e nel caso di Flannery, una fuoriclasse semplicemente meravigliosa, dotata di una visione tagliente e dissacrante della società, lasciandoci lì, alla fine dei suoi racconti, con uno di quei sorrisi tirati del tipo che non si sa se ridere o se piangere.






Fortunatamente, gli architetti già nel primo dopoguerra sapevano ben distinguere il grano dal loglio. C’è una lettera di Franco Albini che lo testimonia con chiarezza (voglio qui ringraziare la Fondazione Albini che me l’ha fatta conoscere). Albini scrive alla sorella Maria, transfuga a Parigi da un decennio e attiva nella resistenza francese. Siamo nel settembre del 1945. Albini racconta come, finita la guerra, ci sia stato un riposizionamento da parte di quegli “inetti” (così li definisce) “che non hanno mai avuto idee per la testa” e che ora riappaiono “a dire che sono perseguitati dal fascismo e a parlare di libertà: tutti parlano di libertà, che è la libertà di fare i propri schifosi interessi.” C’è descritto molto del carattere dell’italiano medio, in questa lettera privata. Il tipico saltare sul carro del vincitore, più realisti del Re. Albini non ci sta e critica “quei tali inetti, che dicono “arte fascista” a quell’arte che è fiorita qui malgrado il fascismo, e che proprio per il suo carattere internazionale dimostra di essere universale, e per niente legata alla politica”. Albini è un architetto “di sinistra” ma non ha problemi a criticare quegli “artisti, che si dicono comunisti, e che dichiarano di fare l’ “arte comunista” che scivolano verso il contenutismo (un quadro che rappresenta Lenin è più bello di uno che rappresenta Mussolini)”. Concludendo con un esempio preciso, che cita proprio il nostro Terragni: “Bisogna battersi ancora molto nel campo critico, e chiarire che l’arte è arte per sue ragioni particolari e non perché abbia o no una destinazione politica: la casa del fascio di Terragni è arte anche se è la casa del fascio, e il grande monumento a Stalin non lo è.”
Eppure l’asilo Sant’Elia, l’ultimo capolavoro di un architetto morto troppo giovane, è da ormai un lustro vuoto. I “turisti colti” di passaggio a Como (quelli a cui dovrebbe mirare un comune lungimirante) vengono per visitarlo e si ritrovano davanti a una staccionata raffazzonata e a un edificio abbandonato. Avendo io a Milano l’esempio del Marchiondi Spagliardi, capolavoro del brutalismo di Vittoriano Viganò vincolato dalla Sovrintendenza e abbandonato a se stesso da decenni, so già, purtroppo, come andrà a finire: infiltrazioni, topi, spoliazioni, scrostature, crolli.












Questo è l’unico romanzo scritto da Sylvia Plath. Almeno così risulta, perché il beneficio del dubbio serpeggia. I suoi testi sono stati curati dal marito, il poeta inglese Ted Hughes, il quale ha distrutto molte pagine dei diari perché “non volevo che i figli li leggessero”. Ma forse si parlava anche di lui in termini non proprio edificanti. Probabilmente, nel romanzo, alcuni suoi tratti rivivono nel personaggio di Buddy Willard, che doveva essere il promesso sposo della narratrice, Buddy l’ipocrita. Verso di lui va e viene, come una sorta di Yin Yang (an)affettivo che corre sulle pagine, un sentimento doppio di attrazione e repulsione, che potremmo definire la “cifra” dell’intero testo. Infatti Esther, la brava ragazza bostoniana, efficiente, la prima della classe, quando si trasferisce a New York vive proprio questo dualismo positivista/negativista, che ci accompagna per tutto il romanzo.
























Li chiamano muri della pace (peace walls o peace lines), perché quando vennero eretti dall’esercito britannico dopo gli scontri dell’agosto 1969 che inaugurarono i troubles tra unionisti protestanti filo-britannici e repubblicani cattolici filo-irilandesi, Belfast era un teatro di guerra, e quelle barriere avrebbero dovuto garantire la protezione delle comunità.
Ad oggi, di muri frammentati e sparsi, se ne contano un centinaio, prevalentemente nei quartieri a nord e ovest della città, di cui oltre una dozzina costruiti negli anni successivi agli accordi di pace del Venerdì Santo (10 aprile 1998) che segnarono la fine ufficiale del conflitto e la deposizione delle armi da parte dei gruppi paramilitari lealisti – Uvf (Ulster Volunteer Force) e Uda (Ulster Defense Association) – e nazionalisti – Ira (Irish Republican Army).
PER CHI È NATO a Belfast nel corso degli ultimi cinquant’anni le peace lines non hanno nulla di eccentrico, sono parte integrante della città, articolazioni del tessuto urbano con tanto di cancelli che aprono di giorno e chiudono di notte, cerniere e cicatrici, ma anche pagine di una storia illustrata per immagini e dipinta a tinte forti.

I RIOTS DELL’APRILE 2021, scoppiati a Lanark Way, nella zona protestante unionista di Shankill Road, a pochi mesi dall’entrata in vigore del Protocollo sull’Irlanda del Nord, hanno risvegliato per una settimana lo spettro dei troubles. La Brexit e le sue conseguenze – tra cui proprio il Protocollo che ha ripristinato un confine doganale tra l’Ulster e il resto del Regno Unito sul Mare d’Irlanda, lasciando invece libero il transito via terra tra l’Irlanda del Nord e la Repubblica d’Irlanda – hanno contribuito ad accrescere il senso di accerchiamento delle comunità protestanti. A questo si aggiungono i numeri sfavorevoli agli unionisti: il censimento del 2021 che per la prima volta ha visto la popolazione cattolica superare il numero dei protestanti (45,7% contro 43.5%), le elezioni parlamentari del 2022 in Irlanda del Nord in cui lo Sinn Féin, lo storico partito repubblicano, è diventato partito di maggioranza relegando per la prima volta il Democratic Unionist Party (Dup) al secondo posto, e più recentemente le elezioni municipali della capitale nel maggio 2023, vinte di nuovo dallo Sinn Féin.
COSTEGGIANDO da una parte e dall’altra Cupar Way, il tratto di muro lungo circa un chilometro e alto quasi quattordici metri che separa il quartiere protestante di Shankill dal quartiere cattolico di Falls, ad ovest di Belfast, colpisce che a dispetto dei simboli religiosi e politici diversi dai due lati, le somiglianze sono tante. Se non ci fosse quel pezzo di muro, ci sarebbe un unico grande quartiere popolare, come fu in passato, segnato oggi dalla disoccupazione e dalla depressione economica, e ferito dalla memoria ancora viva di un conflitto armato la cui pacificazione ha lasciato i due campi insoddisfatti. E invece quel muro c’è e probabilmente rimarrà in piedi ancora per un bel po’, come le tante altre trincee immobili che puntellano la città, facendo eco all’immobilismo dell’esecutivo e del parlamento di Stormont, sospesi dal 2022 in seguito al boicottaggio istituzionale del Dup in protesta contro il Protocollo sull’Irlanda del Nord. Da una parte e dall’altra non c’è desiderio né fretta di liberarsi dei muri che, in assenza di vincitori e vinti, preservano per gli ex combattenti dei due schieramenti a cui è stato chiesto di deporre le armi, e per le più giovani generazioni figlie del conflitto, la memoria delle battaglie, il ricordo dei caduti e il senso delle lotte.