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Urbanità 8

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di Gianni Biondillo

Adoro i purovisibilisti. Con loro tutto sembra più facile. La città è un testo, dicono, occorre conoscerne la grammatica, il lessico. Saperne elencare le parole, le frasi, la poetica. Le strade, l’incasato, le mura, i landmark (che siano le torri o i campanili o altro ancora), le piazze – quella del mercato, la religiosa, la politica, etc. – hanno da sempre una funzione, una forma, una ragion d’essere che esulano persino dalle contingenti logiche economiche e storiche e che fanno, da sempre, la peculiarità della città europea.

Voci

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voce-di-donna

di Olga Plyaskina
Non sono una persona facile da convincere. Per me ci vuole il tempo e una buona ragione. Poi comincio ad analizzare e quando sono quasi convinto e riesco a concentrarmi per prendere la decisione finale, escono loro e mi disturbano.

Se non ora, quando…

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di Evelina Santangelo e sottoscritto da tutta Nazione Indiana

Abbiamo assistito all’arroganza di chi crede di possedere La Verità e la utilizza come una mannaia contro chi ha un’idea diversa, più interlocutoria più perplessa più umana, di verità…

Abbiamo assistito all’indifferenza e alla ottusa presunzione con cui figure istituzionali hanno tentato di schiacciare il diritto sulla base di «convinzioni giuridiche etiche e legislative», come ha dichiarato il governatore Formigoni, incuranti del fatto che le convinzioni non possono in alcun modo sostituirsi al diritto.

Abbiamo assistito alla spregiudicatezza con cui la Chiesa e i suoi prelati hanno violato la sacralità stessa della Parola (il verbo) mistificando la verità, ricorrendo a menzognere argomentazioni cliniche (come la presunta sofferenza della morte per disidratazione o la presunta «morte di fame e sete»), per corroborare posizioni di ordine etico-confessionale che, per quanto legittime, peccano di disonestà appunto, se si trincerano dietro alla menzogna.

A Gamba Tesa: do you remember Eternit?

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Tutto è cominciato con quest’articolo. In passato mi avevano raccontato storie terribili, di paesi distrutti dal vento messaggero di morte e di polveri. E dove bastava abitare da una parte del fiume piuttosto che dall’altra per crepare nel peggiore dei modi. Nella maggior parte dei processi è stata pronunciata la sentenza , tutti colpevoli nessun responsabile. Ho trovato poi questo video documentario su questo blog. Ringrazio il suo autore e vi invito a leggere la sua nota.
effeffe

“Tutti sapevano e nessuno ha parlato. Lo sapevano i sindacati. Lo sapeva la direzione dell’azienda. Lo sapeva l’assessorato alla sanità. Lo sapevano tutti, e non gli operai che c’erano dentro. E così ci hanno condannato a morte, a menomazioni, ma non solamente noi che lavoravamo all’interno della fabbrica. Perché le fabbriche non sono state costruite sotto una campana di vetro” – Silvestro Capelli in Arrakis

ARRAKIS
Arrakis è un documentario poetico di tributo ai luoghi e alle vittime del progresso industriale italiano.
Vedute di fabbriche abbandonate fanno da sfondo ad una voce trasformata dalla malattia.
E’ la voce di Silvestro Capelli, un ex-operaio della storica Breda Fucine di Sesto San Giovanni.
E’ la particolare voce di un laringectomizzato.
Silvestro nel 1996 ha subito un intervento di laringectomia totale per estirpare un tumore causato dall’amianto inalato durante gli anni del lavoro in fabbrica.
Come molte altre persone da anni combatte una battaglia sociale e legale.
Da una parte ci sono semplici cittadini, dall’altra ci sono le istituzioni, l’Inail, i sindacati, i dirigenti d’azienda, i partiti politici.

La religione cattolica nelle scuole di stato

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Lanciamo un appello perché da quest’anno la scelta sia oggetto di particolare attenzione e diventi strumento per un’affermazione di laicità nella scuola e nella società.
L’aumento considerevole di coloro che rifiutano tale insegnamento imporrebbe una revisione del modo in cui la scuola affronta il problema della cultura religiosa e costituirebbe, al tempo stesso, un ridimensionamento del regime di privilegio di cui gode la Chiesa cattolica in Italia, che essa interpreta come una conferma della sua avversione verso il pluralismo religioso e culturale.

La seconda generazione: il vero capitale umano italiano

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Esploriamo una realtà nuova, apparsa evidente nelle recenti manifestazioni. Il grande numero di studenti di origine africana e asiatica delle medie superiori a Torino e a Milano. Leader e rappresentanti di istituto, futura clase dirigente del nostro paese, esprimono le loro idee e i desideri per il futuro.
Pubblicato su Alias, supplemento settimanale de “il manifesto”, il 10 Gennaio 2009. Testi di Paolo Hutter, reportage fotografico di Giovanni Hänninen.

* hiberno pulvere

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di Orsola Puecher

 

Hiberno pulvere, verno luto, magna farra Camille metes.

Se d’inverno ci sarà polvere e in primavera fango, molto farro, Camillo, mieterai.

Virgilio, Georgiche, Libro I

Man Ray, Allevamento di polvere, 1920
(dettaglio de IL GRANDE VETRO di Marcel Duchamp)

di fiori di stoffa e frutta di cera e carta di libri che si sfarina – violette candite e rose secche – la bambina corre in uno specchio – dove s’annuvolano spruzzate nebulose – costellazioni a macchie – conosce il segreto della polvere – dei pollini e dei corpuscoli argentei adagiati sui riccioli del legno – sui piani lucidi dei tavoli – con un panno di lana e carezze di cerchi la togli – e ricade poi in fiocchi di nuovo s’agglomera – per misteriosa energia centripeta – in soffice ovatta di bioccoli grigi – attratti l’un l’altro come magneti – pelucchi e capelli e i fili del niente – sfuggiti alle trame – sotto i letti e negli angoli di muro – fuffa che fila il fuso delle Parche – svelata dal controluce del sole – in mattini di inaspettato fulgore – ed è la luce stessa raggi di pulviscolo – miracolo mistico – e rifrangenti punti minuscoli – tre fasci un occhio di Padreterno – da varchi di nuvole cariche di neve segnano sul mare rotte distanti – dove abita inverno – ora che non demorde – mi pare di saperlo – il freddo rende chiaro ogni istante – mamma mi ha chiesto “come ti chiami?” – nel buio smarrito in fondo ai suoi occhi rinasco e torno al punto di partenza – e come se dar nome – fosse un nuovo inizio – io le rispondo piano
 

di fiori di stoffa e frutta di cera
e carta di libri che si sfarina
violette candite e rose secche
la bambina corre in uno specchio

 

dove s’annuvolano
spruzzate nebulose
costellazioni a macchie

 

conosce il segreto della polvere
dei pollini e dei corpuscoli argentei
adagiati sui riccioli del legno
sui piani lucidi dei tavoli

 

con un panno di lana
e carezze di cerchi
la togli e ricade

 

poi in fiocchi di nuovo s’agglomera
per misteriosa energia centripeta
in soffice ovatta di bioccoli grigi
attratti l’un l’altro come magneti

 

pelucchi e capelli
e i fili del niente
sfuggiti alle trame

 

fuffa che fila il fuso delle Parche
sotto i letti e negli angoli di muro
svelata dal controluce del sole
in mattini d’inatteso fulgore

 

ed è la luce stessa
raggi di pulviscolo
miracolo mistico

 

i rifrangenti punti minuscoli
tre fasci un occhio di Padreterno
da varchi di nuvole cariche di neve
segnano sul mare rotte distanti

 

dove abita inverno
ora che non demorde
mi pare di saperlo

 

il freddo rende chiaro ogni istante
mamma mi ha chiesto “come ti chiami?”
nel buio smarrito in fondo ai suoi occhi
rinasco e torno al punto di partenza

 

e come se dar nome
fosse un nuovo inizio
io le rispondo piano

 

,\\’

 

Nella casa lasciata in fretta risuonano i giri di chiave, i passi sulle scale che s’allontanano, per ultimo lo scatto del cancello.

poi silenzio, di nuovo

Si accenderà il riscaldamento alle ore stabilite. Le finestre si faranno azzurre all’alba, buie al tramonto. Suonerà il telefono. Diverse volte. Gireranno le lancette degli orologi, chi in anticipo, chi in ritardo.

così, in quieto abbandono

 
Vapore appannerà i vetri freddi di condensa e poi si riscioglierà in gocce. Ci disegneresti con un dito, l’acqua che scivola in rivoli dai bordi:

ho fatto un giro in piazza
ho comprato due mele
una pera e una focaccia
e questa è la tua faccia

Una bambina corre negli specchi vecchi insieme a tutti quelli che vi furono riflessi. La schiera degli avi affolla gli specchi. Con lei. Anche gli specchi sono malati. Anche gli specchi si ammalano: un ossido brunito si mangia l’argento da dietro. Lo chiamano il cancro degli specchi. Il terso si macchia.

 
e s’appanna di grigio

 
pre


 
io penso alla polvere

 
 

pulvis

 

la polvere nevicherà non vista / con lentezza e non si sa da dove, dove deve e come sa, planando, cipria grigia. Coprirà così bene, con sapienza uniforme nella calma dei giorni che passano. La polvere si potrebbe riprendere la casa e tutto. Tutte le stupide cose di una casa, presenti da talmente tanti anni, da essere assenti allo sguardo. Tutti i gingilli che hai spolverato per tutta una vita con stracci, straccetti e piumini. Spazzole, aspirapolveri e scope a varie durezze di setole: tutta la santabarbara della celibe battaglia casalinga contro la polvere.

pulvis es et in pulverem reverteris

Evaporate le palline di naftalina nei cassetti e negli armadi, sentirai schioccare le mandibole delle tarme che si mangeranno tutte le lane.

 

Autismi 4 – La mia città (2a parte)

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giovanni_segantini_004 di Giacomo Sartori

L’unica soluzione sarebbe spianare le montagne, in modo da permettere finalmente allo sguardo di spaziare, all’aria di circolare, al sole di tramontare sulla linea dell’orizzonte, alle idee di maturare serenamente. Il grigio svanirebbe, al suo posto farebbe capolino la gaiezza. Anche il consumo di etanolici distillati locali diminuirebbe drasticamente, una volta reintrodotte la luce e la gaiezza. Certo costerebbe parecchi soldi, certo ci sarebbero dei grossissimi problemi tecnici per lo smaltimento dei detriti – montagne di detriti, letteralmente – ma credo che ne varrebbe senz’altro la pena. Anche la magnifica Venezia non esisterebbe, se non avessero piantato milioni di pali di quercia – ottenuti radendo intere foreste – nell’acqua della laguna. È inutile tirarsi indietro alla minima difficoltà, quando è questione di assicurare un avvenire alle generazioni future. Si potrebbe più pragmaticamente mirare a dei risultati provvisori: spianare tanto per cominciare le montagne più alte e scoscese, quelle con più neve sopra, con più infrastrutture turistiche.

Ma non è detto che anche rasando le montagne tutti i problemi sarebbero risolti.

A gamba tesa: Trash Prop

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trash-can-costume

il …ehm…video, cioè la cosa.

(…) «Napoli aveva un problema, non stiamo a riparlarne, noi sappiamo quale – dice una voce in sottofondo – il governo è intervenuto. E quando il governo, lo Stato, fa qualcosa, è come se lo facessero tutti gli italiani. Ma ora ci vuole l’impegno di tutti, chi ci vive e chi ci viene. Facciamo in modo che resti così, è più bella, no?».
Alla fine la protagonista, l’attrice Elena Russo, in abito azzurro ringrazia e, sorridendo, chiosa: «Napoli. Bella ieri, bella oggi, bella domani».
Girato prima di Natale a Milano (e poi sottoposto a una serie di ritocchi), lo spot è firmato dall’agenzia Life Longari & Loman (direzione creativa di Andrea Concato), mentre la casa di produzione è Mercurio Cinematografica (regia di Fabrizio Ferri).

dal Mattino di oggi 3 febbraio .

Girato prima di Natale a Milano, leggiamo. Bene. Ma la monnezza era quella di Napoli o no?

Pagella
Concept: tra due e tre
Recitazione: che temperatura c’era a Torino oggi? O a Milano ieri…
Scrittura: NP

E voi che voto gli dareste?

effeffe

Malcolm Holcombe, i movimenti della solitudine

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di Marco Rovelli

I movimenti della solitudine. Un canto di stanza. Il dondolio al buio. Malcolm Holcombe, sul piccolo palco del Pegaso di Arcola, si muove avanti e indietro sulla sedia con la sua chitarra, il tronco che dondola, e il tronco trascina la sedia, le punte in bilico, un equilibrio di bilico, sta per cadere e non cade, perché è il ritmo che lo porta, il racconto del suo canto, il suo tale-telling senza fine, che coincide con l’ampiezza stessa del suo corpo che traccia forme nella penombra del piccolo palco. Digrigna i denti – e quando incrocia occhi sprofondati e acquisiti alla sua corporeità ride come giubilo di guerriero.

Scuote la testa, come se la musica fosse acqua che schizza dalla pelle del suo cranio.

QUEL BRUTTOCATTIVO DI PAPÀ CACCIARI!

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di Lucio Angelini

Della sua infanzia fanese Luchino ricordava solo qualche frammento: un treno che partiva, la testa del suo babbo che sporgeva da un finestrino e rimpiccioliva sempre più in lontananza, e soprattutto una filastrocca: ‘Staccia minaccia’. Gliela cantava sempre sua nonna Celerina, scuotendolo avanti e indietro, dopo averlo preso a cavalluccio sulle ginocchia.

“Staccia minaccia

il babbo è andato a caccia”

Disfare massa – Jacopo Galimberti

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fusibile-con-polveri

Una massa che non conosce futuro diventa qualcosa.
Qualcosa che fa paura.

Nello stato presente solo tentare si puo’
una costruzione
in un punto.
Erigere, in uno spazio inesteso, un progetto
in cui proiettarsi con tutto il proprio passato, accumulato, un getto
che è già un ponte verso
in un punto. Senza orizzonti,
stordirsi sul posto, dimenticare in tondo, torturare i gatti.
Uno spazio inesteso
in cui tra qualche mese, giorno, saremo noi
a essere sottratti,
a sottrarci.

E ‘l naufragar m’è dolce in questo mare

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di Antonio Sparzani
leopardi_linfinito

La traditio lampadis, cara agli scrittori dell’antichità, suggeri- sce che la fiaccola della poesia passi da un poeta all’altro in occasione di qualche avve- nimento importante nella vita di entrambi. Una tradizione, peraltro ben lungi dall’esser sicura, vuole che la morte di Tito Lucrezio Caro, il 15 ottobre del 55 a. C., sia coincisa con l’assunzione della toga virile da parte di Virgilio. L’ispirazione dell’uno, vuole la traditio, parola qui quanto mai ricca di significato, passò all’altro. Lucrezio, illustre poeta, celebrato in tutta la latinità, scrisse un lungo poema intitolato De rerum natura, la natura delle cose, e fu così, oltre che poeta, anche scienziato – allievo in questo di Epicuro – e studioso della natura di insospettato interesse. Quella che voglio farvi leggere è la fine del libro III di questa sua opera, nella quale si medita sulla morte e sull’inutilità di prolungare a tutti i costi la vita; forse un accenno ante litteram all’indesiderabilità dell’accanimento terapeutico, nel quale però si espone una peculiare argomentazione. Sarà bene riportare gli ultimi versi del libro, nella traduzione di Luca Canali, che sta nell’ottima edizione (Rizzoli 1990) a cura di Gian Biagio Conte, Luca Canali e Ivano Dionigi. Ecco qua: (qui, per chi volesse, il testo latino dell’intera opera,

Autismi 4 – La mia città (1a parte)

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giovanni_segantini_002 di Giacomo Sartori

La mia città è una città grigia infossata in una valle grigia costeggiata da minacciose montagne grigie. Il cielo è grigio, il fiume che si trascina stancamente è grigio, e anche gli stentati alberi sono grigi, con appena qualche moribondo riflesso verde marcio. Il dilagante cemento è paradigmaticamente grigio, così come i ridondanti asfaltamenti e le fumosità imprigionate dalla nefasta conformazione orografica. Persino i laghi sono stagnanti e grigi. Nulla da stupirsi che anche gli abitanti siano grigi. Il sole poveretto è costretto a tramontare altissimo nel cielo, come un disgraziato che venga impiccato in cima ad un funambolico patibolo. Ogni sera è lo stesso affliggente spettacolo. Per fortuna molto spesso piove, e quindi l’esecuzione avviene dietro una cortina grigia di nuvole.

La mia città è il posto tipico dove è impossibile essere felici.

Paradise Lost

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waltzwithbashir41
di Helena Janeczek

Al campus di Gerusalemme andava forte il wonder- pot, una pentola a forma di ciambella in cui si potevano cuocere dei dolci senza il forno. Andavano forte le torte al cioccolato- suppongo pure all’hashish, ma non ho avuto occasione di assaggiarle- la musica che anni dopo sarebbe diventata world, il tè a litri, succhi di frutta, birra. Dormivo nella stanza della mia amica che vi era approdata dopo la maturità e, finito il corso di ebraico intensivo, aveva cominciato i suoi studi alla Hebrew University. Era la vita libera, la vita adulta dalla quale mi divideva solo l’anno che mancava pure a me per lasciare la Germania, anche se non sarei tornata dalla terra dei carnefici alla terra dei miei avi.

Cox 18 is a space of hope.

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questions questions 2008

di Alfredo Jaar
Il divario tra la cultura italiana e la situazione attuale è scioccante e aumenta di giorno in giorno.

Introduzione alla cultura e alla degustazione del tè

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L’Associazione Italiana Cultura del Tè organizza a Bologna il corso:

Il mondo del tè – Introduzione alla cultura e alla degustazione del tè

Carlo Coccioli / Presenza dello scrittore assente

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[In occasione dell’uscita di Davide si riprende il pezzo pubblicato in vibrisse]

a cura di Giulio Mozzi

Parla una composita pattuglia di lettori di Carlo Coccioli: Franco Buffoni, Antonella Cilento, Giancarlo De Cataldo, Mario Fortunato, Bruno Gambarotta, Massimiliano Governi, Giuseppe Lupo, Marino Magliani, Sergio Pent, Alcide Pierantozzi, Giacomo Sartori, Giorgio Vasta.

“Quello con Carlo Coccioli è stato un esemplare incontro mancato. Non siamo mai riusciti a stringerci la mano, eppure non potrei dire di non averlo conosciuto”. Comincia con queste parole il capitolo che dedica a Coccioli, nel suo bel libro Quelli che ami non muoiono mai, Mario Fortunato (Bompiani 2008). Mi ha colpito sentirmi ripetere più volte queste o simili parole – quasi un ritornello – quando ho provato a domandare a un po’ di scrittrici e scrittori d’Italia chi sia per loro Carlo Coccioli. E, in effetti, non l’ho mai conosciuto, ma è come se l’avessi conosciuto, lo dico anch’io.

Richard Avedon, prima di tutto lo stile

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di Mauro Baldrati
richard-avedon

Forse è stato il fotografo più patinato della storia della fotografia. Tutto in lui era stile. Non solo i servizi di moda, le sterminate pubblicità per Versace o i redazionali per Vogue o Harper’s Bazaar dei primi anni ’50, fino alle soglie del 2000, anche i ritratti, i reportages. Persino il lungo racconto della lenta morte del padre, bianchi e neri crudeli, immagini di amore e sofferenza, era velato di stile.

Si può dire che Richard Avedon, fotografo del mito ultraglamour americano, abbia sempre cercato di filtrare la vita, in tutti i suoi aspetti duri, violenti, sporchi, con lo stile. Cercava i contrasti, l’eleganza e la bellezza contrapposta alla brutalità del reale, la rugosità di un asfalto che sembra grattare la schiena di una ragazza nuda, il volto delicato della donna in una oscurità ostile.

Photoshoperò #10 – detto anche dei due e più mondi

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immagine di copertina: Philippe Schlienger