Non bisognerebbe mai fare una vacanza all’estero con i propri figli. È quello che sto pensando ora, di ritorno dalla Germania. Mai. È frustrante. Come faccio ora a spiegare alle mie due bambine perché ho deciso di farle crescere in una città come Milano?
…. il cane gioca
a eludere per volere
il cappio che ha
MARCO GIOVENALE
1.
stagioni al pane
critica e memoria
dove la casa in estro di giostrina
secca le stanze che si stanno atee.
in meno di un marsupio
il nodo della corsa
per rivedere il sasso
che mi portò sott’acqua
dalla canoa più sciatta
alla novellina tanica di fuoco.
2.
un mansueto sconfitto intorno al coro
del subìto abito da sposa
bifronte anemone di amore
corto nel corto fuso del mondo tutto.
tu m’incedi in gola un incensiere
io ne dico il lascito di briciole
il crollo del cipresso nel palese
elemosinante stormo di conserve
più dolci del vestale che non voglio.
1) Adul Salam Guibre e i suoi amici John e Samir entrano all’alba al bar “Shining” di Via Zuretti, zona Stazione Centrale di Milano, e rubano una scatola di biscotti. I gestori, padre e figlio, se ne accorgono e li rincorrono urlando cose tipo “ladri, negri di merda”. Pensano a inseguirli col loro furgone bar, ma poi uno dice all’altro, ”lasciamo perdere, chiudiamo la baracca che è meglio, andiamo a dormire”.
2) Adul Salam Guibre e i suoi amici John e Samir entrano all’alba al bar “Shining” di Via Zuretti, che sta per chiudere, e rubano una scatola di biscotti. I gestori del bar li rincorrono al grido di “ladri, ladri”, prendono il furgone bar, li raggiungono e tirano fuori una spranga e un bastone. Anche i ragazzi di colore hanno un bastone, scoppia una rissa. Samir e John, quando capiscono che quelli del bar menano di brutto, si danno alla fuga, mentre “Abba” non ce la fa e rimane a terra, colpito più volte alla testa. Muore all’ospedale “Fatebenefratelli” qualche ora dopo.
Perché è vero, tutto comincia con un insulto, sentito da bambino e non indirizzato a te, poi lo senti indirizzato a te e sogni di potertene liberare, ma dentro di te già sai che non sarà possibile. L’insulto è il primo e più dirompente mezzo di conoscenza che il mondo presenta all’omosessuale. Ancora peggio dell’insulto, è la barzelletta ascoltata da bambini in famiglia, la battuta del fratello maggiore, del cugino o persino del padre. Sono queste parole che per prime creano la nostra identità. Pettegolezzi, allusioni, insinuazioni che anche persone care, parenti stretti, lasciano cadere. Contro altri, magari, ma che tu – omosessuale – percepisci immediatamente come rivolte contro se stesso.
Mentre impari a parlare, mentre cresci, ti entra in circolo anche la consapevolezza che esistono persone che devono essere insultate per certe loro caratteristiche fisiche, psicologiche o comportamentali. Se riconosci queste caratteristiche in te, devi negarle anche a te stesso, oppure occultarle. Crescere mentendo è una grande palestra di vita.
Reading di David Foster Wallace
celebrazione del 150° Anniversario di HARPER’S MAGAZINE
New School Writing Program, May 25th, 2000
The New School Auditorium, New York City
Ticket To The Fair
I’m once again at the capacious McDonald’s tent, at the edge, the titanic inflatable clown presiding. There’s a fair-sized crowd in the basketball bleachers at one side and rows of folding chairs on another. It’s the Illinois State Jr. Baton-Twirling Finals. A metal loudspeaker begins to emit disco, and little girls pour into the tent from all directions, gamboling and twirling in vivid costumes. In the stands, video cameras come out by the score, and I can tell it’s pretty much just me and a thousand parents.
Oggi ho visitato il Dongyuemiao, uno dei più grandi templi taoisti della Cina.
Il tempio è costituito da una vasta successione di padiglioni e cortili, circondati da bassi edifici rossi a due piani, una sorta di chiostri. Salendo al secondo piano, tra grate di legno laccato e lanterne la vista spazia su un oceano pietrificato di tetti a pagoda, onde schiumanti dell’alterno corso del destino. Ai quattro lati dei cortili coperti di finissima ghiaia crescono alberi antichissimi. Alcuni di questi sono oggetto di culto, come anziani sapienti: centinaia di tavolette di preghiera esondano intorno a loro, dei pali verdi e azzurri verticali e orizzontali, si incrociano per sostenerne il tronco obliquo e innervato di rughe, si incurvano dolcemente sotto il legno che lentamente li divora, inglobandoli come radici aeree: splendida immagine dell’armonia compassionevole tra l’uomo e l’ambiente naturale.
I cortili sono ricolmi di tavole taoiste: enormi steli di pietra su cui famosi calligrafi e imperatori dell’antichità hanno inciso le loro preghiere. Dietro le steli la roccia mi sembrava stranamente scabra, mi sono avvicinata e ho visto che era cesellata da un arazzo fittissimo di migliaia di ideogrammi. Tartarughe dal volto di leone le sostengono, sopra di esse si attorcigliano draghi dai barbigli fiammeggianti e volute di nubi: tutto qui è in perenne mutamento, fluente e vaporoso, anche la pietra perde la sua rigidità e si fa aereo gioco di superficie. Le bandiere colorate con il simbolo dello yin-yang ricordano che la trasformazione e l’alternarsi degli opposti è la legge della vita e dell’universo. Un ponticello conduce al tempio del dio della montagna a cui il tempio è dedicato. Ai due lati una stratificazione di migliaia di tavolette di preghiera copre le balaustre come un’edera esuberante. Si tratta di piccoli rettangoli di legno laccato di rosso, con inciso in oro il disegno di una fenice e una breve preghiera: uno spazio è lasciato libero per scrivere il nome del fedele che chiede aiuto. Dalle tavolette pendono frange di fili scarlatti annodate secondo l’antica arte cinese: sfiorando le tavolette si leva un delicato tintinnio di xilofono e fili oro e scarlatti fluttuano nella brezza leggera.
Di fronte al cancello della scuola media Da Vinci, al di là del viale, vi è una fermata dell’autobus; di fianco alla pensilina una strada secondaria costituisce un esempio perfetto di “sofferenza urbanistica”: i ragazzi all’uscita da scuola sciamano verso la fermata, si fermano, fanno la lotta, ostacolano il traffico.
Alle 13.10 arriva un Suv Cayenne nero che deve svoltare, si ferma perché un drappello di ragazzi si spintona in mezzo alla strada. Un colpetto di clacson, i ragazzi non si spostano. Si abbassa il finestrino, un uomo sporge la testa, una testa grossa, da uomo grande, con una massa di capelli neri. L’uomo dice “allora, vi spostate? VI SPOSTATE?”
Ma allora accadde qualcosa che rese ogni lingua muta e ogni occhio attonito. Il funambolo aveva cominciato la sua opera: era uscito da una piccola porta e stava avanzando sul filo, che era teso fra due torri; sospeso lassù in alto, stava sopra il mercato e la folla. Quando giunse a metà del suo cammino, la piccola porta si aprì ancora, e un suo compagno verzicolore, simile ad un buffone, ne saltò fuori e a passi rapidi lo seguì: “Avanti, piedi dolci,” gridò la sua voce terribile “avanti, poltrone, contrabbandiere, viso pallido! Vorrei farti assaggiare il mio calcagno! Che cosa stai facendo qui fra le torri? Dentro la torre devi stare, ti dovrebbero mettere in gattabuia, tu che impedisci il passaggio a chi è migliore di te!”
[18 immagini + lettere invernali per l’estate; 1, 2, 3,4,5,6…]
di Andrea Inglese
Cara Reinserzione Culturale del Disoccupato,
lo stare male, per me, non è mai stato un problema.
Quando c’è da stare male, sono in grado di farlo,
di stare male a lungo, ininterrottamente, senza
riserve. A Buenos Aires, una città fredda,
sono stato male per più di un anno, con qualche
breve interruzione al tramonto, e dopo cena, via,
si riprendeva. (E al porto, o al ristorante
seduto solo al tavolo, imparando a memoria
la breve frase della mia ordinazione: «sogliola
in salsa di cipolle rosse con riso bianco».)
Prefazione. Sono accerchiato e sono fottuto.
Piove, piovono soprattutto calci allo stomaco, cazzotti al petto, ad occhi chiusi per evitare i danni collaterali, un bulbo fuori dall’ orbita, che ne so… so che piovono mazzate come non erano mai piovute prima, e la quantità e la frequenza… mi colpiscono così velocemente al petto che non ho il tempo di prendere fiato, ogni colpo mi mozza in gola il tentativo di inspirazione, non riesco a respirare. Non so quanti sono, non lo voglio sapere e non me lo chiedo; la verità è che voglio incassare. Passivo passivo passivo, non muoverò un dito, me ne starò lì a terra, senza reagire, innamorato.
Innamorato. È solo questo, sono innamorato.
Un uomo urla, mentre sta morendo. Qualche strumento (un cellulare, una videocamera) Io registra: io – webmaster, regista, giornalista – in possesso dell’audio, ho il diritto di renderlo pubblico, di utilizzare il suo ultimo grido? Mimmo Calopresti, nel suo film-documentario sulla tragedia della Thyssen, in un primo momento ha detto sì. Ha ha inserito le grida di uno degli operai morti nella fabbrica torinese. Poi, di fronte alle proteste della madre della vittima, ha deciso di toglierle. Ha fatto bene.
Calopresti avrà agito con le migliori intenzioni: per denunciare le morti sul lavoro, per fini artistici, di cronaca. Ma quella voce corre il rischio di essere troppo simile ad altre che hanno dato vita a un’insopportabile giostra mediatica, a una partita di giro di emozioni digerite e sputate da radio, tv e giornali.
Il Tirocinio
Il tirocinio è una attività che si compie per allenarsi a diventare professore della scuola italiana. Si fa nelle scuole affiancando professori che ti insegnano a diventare come loro abili nell’insegnamento e quindi si impara a contribuire a formare la società italiana.
La prof.ssa Vengo
La prof.ssa Vengo oggi ha cominciato a insegnarmi a diventare professore.
Lei è un tipo spigliato e aperto che contesta la destra che sta al governo facendo riferimenti ironici a Berlusconi e al nord che è produttivo ma non ha la cultura. La prof.ssa Vengo ha un rapporto paritario con gli alunni che danno molto fastidio facendo battute in continuazione o scrivendo sul muro.
Lei mi ha spiegato che il registro è un’arma antidemocratica nei confronti degli allievi, poi non ho capito come, mi ha detto che i suoi alunni cambieranno in meglio la società.
Mi ha detto che anche il professore impara dagli alunni e che i voti si contrattano con la classe.
Insegna in uno dei licei classici più antichi della città e ritengo che le sue idee sono ancora troppo difficili per l’Italia.
Io la stimo già però se avessi un figlio lo metterei in un’altra sezione.
Quasi un decennio della vita di Antonio Pizzuto è rifratto nei nuovi carteggi – dopo quelli con Nencioni, Margaret e Gianfranco Contini, Betocchi – che Polistampa rende adesso disponibili, seguitando l’opera di reimpressione integrale di un vertice del nostro Novecento: Antonio Pizzuto e Alberto Mondadori, (L’ultima è sempre la migliore. Carteggio (1967 – 1975), a cura di Antonio Pane, introduzione di Claudio Vela, pp. 288, euro 18,00 Polistampa). Il volume raccoglie 263 missive: 92 a Alberto Mondadori e le repliche pervenute; 171 a Madeleine Santschi – di cui un piccolo numero a Pierre Graff, marito di lei –, spericolata traduttrice e scoliaste del Pizzuto definitivo di Pagelle I, Pagelle II, Ultime.
Pubblico un estratto della lezione su transgenderismo e intersessualità che Lorenzo Bernini ha tenuto il 9 settembre 2008 presso il corso di dottorato di ricerca in Studi Culturali dell’Università degli Studi di Palermo, corredato da fotografie scattate da Giovanni Hänninen agli ultimi gaylesbiantransgender pride di Milano (7 giugno 2008) e Bologna (28 giugno 2008). Il 27 giugno, in occasione del pride bolognese, Bernini era intervenuto sugli stessi temi all’iniziativa “intersex pride” organizzata dal collettivo “antagonismogay” JR.
di Lorenzo Bernini
1. Perché questi punti, perché questi zoccoli: Il titolo che ho scelto per questa lezione è una citazione del versetto 1, 27 della Genesi – “Maschio e femmina Dio li creò” – a cui ho aggiunto un punto esclamativo e uno interrogativo. E per iniziare vorrei spiegarvi il senso di questa aggiunta poco elegante e piuttosto “pop”. Ho aggiunto il punto esclamativo per esprimere un tono imperativo: infatti, dal momento che tutto quello che Dio fa è cosa buona e giusta, le descrizioni degli atti divini contenute nella Bibbia devono essere lette come prescrizioni. In particolare, il versetto 1, 27 della Genesi deve essere letto come una frase che ci ordina: “Tu devi essere maschio oppure femmina – punto esclamativo! – perché così vuole Dio”. Il punto interrogativo simboleggia, invece, la collocazione che ho scelto di assumere di fronte a questa ingiunzione divina. Per illustrarvi questa collocazione, mi è però necessaria una breve digressione.
Stamattina, prima di prendere il treno mi sono chiesto come si fosse risolto il contenzioso tra il direttore di Flash art , Giancarlo Politi e il fotografo Oliviero Toscani. La cosa mi interessa perché all’epoca dei fatti, eravamo nel 2002, una rivista francese, Le vrai papier Journal mi mandò in Italia come corrispondente per scoprire la verità, la vera verità di una delle più grandi beffe mediatiche giocate ai danni dell’Arte contemporanea in Italia. Per essere più precisi l’attacco fu portato a uno dei suoi più importanti riferimenti critici, Flash Art. E così, navigando in rete ho scoperto che circa un mese fa il direttore della storica testata replicando a una lettrice sosteneva la cosa seguente:
John Ashbery è uno dei maggiori poeti statunitensi viventi. È attivo dalla metà degli anni Cinquanta (del 1956 è la sua prima raccolta Some Trees). Personalità estremamente autonoma, difficilmente inquadrabile in correnti e scuole, Ashbery è il poeta metamorfico e sperimentale per eccellenza. La sua scrittura si muove costantemente tra la l’assunzione delle forme ereditate e la pressione verso l’informe. La sua esplorazione dell’identità avviene per itinerari ellittici, enigmatici, ambigui, ponendosi agli antipodi del filone “confessionale” della poesia statunitense e del suo capostipite Robert Lowell.
In Italia apparve nel 1983, per Garzanti, Autoritratto in uno specchio convesso con un’introduzione di Giovanni Giudici e traduzione di Aldo Busi. Oggi è finalmente disponibile in Italia un’antologia curata da Damiano Abeni con Moira Egan, alla cui selezione ha collaborato lo stesso autore. Si tratta di Un mondo che non può essere migliore. Poesie scelte 1956-2007, Luca Sossella, 2008.
di John Ashbery
da Your Name Here [Qui il vostro nome], 2000
This Room
The room I entered was a dream of this room.
Surely all those feet on the sofa were mine.
The oval portrait
of a dog was me at an early age.
Something shimmers, something is hushed up.
We had macaroni for lunch every day
except Sunday, when a small quail was induced
to be served to us. Why do I tell you these things?
You are not even here.
[Da qualche tempo a questa parte, da più parti, mi vengono richieste opinioni su temi urbani e territoriali. Mi accorgo, di volta in volta, di annotarmele come su un ipotetico taccuino, quasi fossero gli appunti di un discorso del quale, in realtà, non ho ancora chiara la forma. Li deposito qui su NI più come stimoli di una discussione che come testi definitivi. G.B.]
Lo slogan in effetti suona bene: “prima le case agli italiani”, pare persino razionale. Ovviamente non lo è. Anche perché se davvero escludessimo per decreto le domande degli extracomunitari dalle liste per le case popolari, non risolveremmo un bel niente. Lo slogan successivo diverrebbe: “ prima le case ai residenti in Lombardia”, per poi diventare “le case ai residenti a Milano”, “nel mio quartiere”, “a quelli con tutti e quattro i nonni nati fra la Bovisa e la Comasina”.
di Javier Marías, a cura di Antonio Sparzani Madrid, città di intensi odori
Tempo fa ho cominciato a leggere Domani nella battaglia pensa a me, di Javier Marías, ormai affermato, prolifico e pluritradotto scrittore madrileno. Dopo una trentina di pagina l’ho mollato. Non era il momento. Ma dopo un anno circa ho letti i primi due volumi già usciti in Italia della sua trilogia Il tuo volto domani, mi hanno affascinato, e, in attesa della prossima traduzione del terzo – già uscito in Spagna – ho ripreso in mano, in queste settimane di forzata inerzia, il volume che avevo in un primo tempo abbandonato. L’ho letto d’un fiato e l’ho molto apprezzato. Mi ero forse avvezzato allo stile dell’uomo, al suo undivago girovagare per pensieri e discorsi, al suo personalissimo modo di scavare nel flusso di coscienza.
Non intendo proporne una recensione, perché recensire un volume così scritto è superiore alle mie capacità e difficilmente darebbe dunque la misura dello spessore di Marías. Intendo invece copiarvi qui un capitoletto finale, che lui chiama Epilogo, che non ha nulla a che vedere con la vicenda narrata nel romanzo, ma che è un discorso sul romanzo in generale e sullo scrivere della realtà, quale realtà. Mi pare che chi scrive – e anche chi legge – possa leggerlo con vero piacere e interesse. Eccolo dunque:
[l’originale Mañana en la batalla piensa en mí è uscito in Spagna nel 1994; il titolo riproduce la frase più volte ripetuta (Tomorrow in the battle think on me) a re Riccardo, la notte precedente la sua sconfitta e morte sul campo di Bosworth (atto V, scena III, del Riccardo III di Shakespeare) dai fantasmi di tutti coloro che egli fece uccidere.]
«Forse non è la cosa più sensata, da parte di uno scrittore che scrive soprattutto romanzi, confessare che gli sembra sempre molto strano non soltanto scriverne ma anche leggerne. Ci siamo abituati a questo genere ibrido e flessibile da almeno trecentonovant’anni, da quando nel 1605 usci la prima parte del Chisciotte nella mia città natale, Madrid, e ci siamo cosi tanto abituati che consideriamo del tutto normale il gesto di aprire un libro e di cominciare a leggere ciò che non ci si nasconde che è finzione, vale a dire, qualcosa di non accaduto, che non ha avuto luogo nella realtà.