Home Blog Pagina 47

La scorza

1

di Maria Teresa Rovitto

Riuscivamo a vedere l’abbondanza che ci circondava senza prendere sul serio nessuna delle teorie sulla povertà relativa. Era bastato nascere da madri che consumavano pasti nutrienti, dormivano supine e ci leggevano le favole proposte dai libri che afferravano dalle vetrine del corso. Il mondo era diventato un posto più sfacciato da quando abitavamo nella stessa casa e, prima di quel momento, nessuno ci aveva mai chiesto conto dell’unione dei nostri corpi. Dal giorno in cui a lui si conficcò un insetto nell’orecchio ci sembrò inutile continuare a ragionare sulle nostre scelte. Che bello questo insetto!, lo teniamo?, chiesi una sola volta.

Lui diceva che mi avrebbe aiutata a comprendere questa novità: io avevo ancora entrambi i canali uditivi liberi, dopotutto, e non c’era alcuna forma di vita che premeva sulla mia membrana timpanica, (studiava la conformazione dell’orecchio). Non avevo alcun modo di sviluppare le sue stesse capacità sensoriali. Diceva anche che da quel momento avrebbe avuto bisogno di più tempo per fare la stessa quantità di cose di prima, perché erano in due, il peso dell’insetto si era aggiunto al suo, e che già qualche parola dei nostri discorsi gli sfuggiva, soprattutto quando l’animaletto si agitava, infastidito nei movimenti dall’impiastro di cerume. In verità, diceva che a volte non riusciva a sentire neanche la propria voce. In questo colsi una fragilità che mi strinse ancora di più a lui. Nonostante questi intoppi, vivevamo entrambi più sollevati: la gestione dell’esserino incavato richiedeva concentrazione, pazienza, adesione. Iniziò un periodo di rinnovato interesse verso la nostra anatomia. Le ispezioni interne si facevano sempre più frequenti, ci dimenticavamo i ruoli assegnati, ci misuravamo reciprocamente la temperatura basale per assicurarci che non ci fossero infiammazioni in corso; se io gli soffiavo nell’orecchio per provocare le leggere vibrazioni dell’insetto, lui mi faceva aprire la bocca. Avevamo di nuovo tanto di cui parlare: ci chiedevamo quale fosse la specie di bestiola incavernata (sperando che non si trattasse dell’ordine degli emitteri, dal momento che alcuni di loro erano ematofagi), illuminati fino a notte dallo schermo di più dispositivi attivati per le nostre ricerche simultanee (elitre: primo paio di ali, chitinizzato e indurito, che costituisce come un astuccio a protezione del secondo paio di ali e dell’addome). Ci lanciavamo anche in domande meno scientifiche, come quelle sull’umore dell’insetto: era contento o malcapitato? Questa inedita forma di dipendenza ci eccitava. Qualche volta lui provava un fastidio che poteva diventare dolore, e me ne accorgevo da una leggera contrazione del suo volto. Quella smorfia appariva come un lampo di ridicolo e sarei inesatta se provassi a descriverla; posso solo ammettere che mi induceva a pensare che forse stavamo sbagliando a non fare davvero i conti con quella situazione; però era bello tornare a vederlo per la prima volta, dopo tanto tempo, piangere con tutto il corpo, di cui i suoi occhi non erano che la parte più trasparente. Nonostante l’euforia, gli proposi una seria visita medica. Uscirà da solo, rispose. Così aprimmo tutte le finestre per quando avrebbe deciso di andare via e questo scenario ci permise di essere meno sospettosi durante l’accoppiamento: non si può parlare di sesso né prendersi in una stanza dove non tira vento.

Una notte l’insetto stappò l’orecchio e sparì, come lui aveva previsto. Tornammo a sentire l’abbondanza, a provarne nausea e a constatare con rammarico che nessuno aveva il coraggio di derubarci. Tornammo a giorni offuscati in cui dimenticavamo di prepararci i nostri pasti preferiti, di pagare l’affitto e di andare a ritirare in lavanderia i nostri capi più delicati. Trovavamo il lavandaio sommerso dai vestiti puliti da consegnare nel suo piccolo negozio in cui non c’era più spazio e ci chiedevamo chi potesse essere tanto distratto ed egoista. Ci chiedevamo chi fossero i nostri simili. Era un’opportunità: certe uguaglianze non sono così manifeste fino a quando qualcuno non rischia di essere seppellito. Cambiare idea era di nuovo una debolezza. La scorza si riformò velocemente. Ci prese di nuovo la smania di pianificare brevi soggiorni in città europee ridipinte da street art commissionata; ogni cosa ci sembrava raggiungibile: una frivolezza spenta solo dalla nostra abitudine serale di indagare sulle malattie che avevano colpito gli altri prima di noi. Le sofferenze altrui erano diventate una buona forma di mediazione e qualche volta dopocena riuscivamo a toccarci pur non sapendo più nulla l’uno dell’altra. Usavamo l’energia che ci avanzava per praticare un tipo di violenza slegata da ogni tattica e quindi mirata alla pura disintegrazione. L’amplesso era tornato a scottare nella sua luce cinerea e io, durante, non potevo fare a meno di immaginare l’esoscheletro di quel piccolo insetto sparito che un tempo ci aveva scelto. Ripresi a dirgli cose orribili che includevano l’elenco dei compiti che avrebbe sicuramente accettato durante una dittatura. E lui a me. Tornammo a prendere appunti sulle pratiche di ringiovanimento. Ogni volta che cercavo di aprire un libro, mi tagliuzzavo un polpastrello con il bordo di una delle pagine centrali, ma la carta non si tingeva mai di rosso. Mi deludevo e passavo avanti. Dovevo inventarmi qualcosa.

Presi a fare lunghe passeggiate in campagna per favorire l’ingresso di un insetto nel mio orecchio. Sarebbe bastato fingersi addormentata vicino a un arbusto di sambuco o di sanguinella e creare con la respirazione una pressione d’aria tale da rendere ogni mia cavità un posto sicuro e non solo un luogo di passaggio.

Lo sguardo perso nel pietrisco rinsaviva nei cardi. Ogni tanto mi fermavo presso la vasca di una fontana dal fondo limaccioso e lì i moscerini aggiravano gli schizzi d’acqua che avrebbero potuto annegarli in aria. Le trasparenze e il volo nervoso degli sciami di corpuscoli formavano come un circuito elettrico. Accarezzavo fasci di verde spinosi, punteggiati da bacche lungo vialetti scoscesi; vi erano numerose piante allogene di cui nessuno ormai sarebbe stato in grado di riconoscere l’origine lontana. Io baravo e usavo un’applicazione che insieme al nome e alla provenienza dell’esemplare fotografato, elencava tutte le specie native per le quali rappresentava un pericolo. Nonostante avessi tanti ricordi di bambina legati a un paesaggio campestre, non successe nulla. Nessun insetto tradì la sua natura.

È stato nel bosco, gli dissi, inventando tutto. E raccontai.

Non era vero che il bosco era un luogo dalla scarsa presenza umana. I miei simili erano alla ricerca dei loro animali e, prima di disperdersi, si riunivano in gruppi presso le macchie lasciate dagli incendi. Io li osservavo, ma non potevo imitare le loro tecniche perché avevo un buco piccolo da far riempire e non mi serviva percorrere lunghe distanze, al contrario dovevo restare immobile. Per un anno ogni mattina entravo dai margini al centro dell’ombra di faggi e querce, spinta dall’immagine fissa di noi tre: di noi due che vincevamo di nuovo la stanchezza. Credo che l’insetto che ora si trova dentro di me, gli spiegai mentendo, sia stato attratto dal colore caldo del mio orecchino di ambra dalla forma irregolare e primitiva o da come la mia pelle rispondeva alla scala di grigi di quella luce filtrata dalla vegetazione. Quella bugia era una forma d’amore, non avevo altro modo che fingere per ristabilire un ordine. Rubai i suoi stessi argomenti per non andare dal dottore, Uscirà da solo quando sarà tempo; del resto lui non aveva il mio coraggio e non si lanciò mai in quelle meticolose ispezioni per controllare almeno lo stato del mio organo. Avevo sempre più spesso la sensazione che provasse una sorta di ribrezzo di me abitata dall’insetto. Iniziai a credere che non era stata una buona idea fingermi nella sua condizione, di quando era accorpato con la bestiolina. La scorza tra noi si ispessiva, anziché staccarsi.

In quegli anni mi appassionai all’entomologia. Delle cavallette, ad esempio, si sa che ciascuno dei loro occhi vede solo una parte dell’oggetto osservato e insieme ricostruiscono l’immagine. Si sa anche che prediligono floridi campi cosparsi dei prodotti del lavoro dell’uomo, serre propizie. Ma a volte qualcuna si perde in terreni aridi e incolti.

Quando tutti avevano ormai appreso della mia morte, lui iniziò a raccontare che era stata causata da un insetto marcito nel mio orecchio destro.

 

Le stanze di Emily

0

di Lella de Marchi

I.

Sto guardando un cassetto.
Un raggio di sole filtra dalla persiana semichiusa e attraversa la stanza.
Ci sono cose che posso mettere o togliere da dentro al cassetto.
Se il cassetto è aperto o chiuso quello che penso non cambia.
Sto guardando un cassetto mentre penso quello che sto pensando.
Il cassetto che sto guardando non è da solo.
Io sto guardando solo quel cassetto. Lo scelgo. Lo metto a fuoco.
E tutti gli altri cassetti scompaiono. Scompare la cassettiera.
Un cassetto che resta da solo mi spaventa.
Mi costringe a pensare che sia io a doverlo svuotare o riempire.
Provo a chiudere gli occhi. A non pensare.
Provo a inserire nel mio pensiero un moto diverso dal mio pensiero.
Il cassetto che resta da solo scompare e riappare la cassettiera.
Un cassetto che non resta da solo non mi spaventa.
Perché non è un cassetto, ma una cassettiera.
Per un’inspiegabile timore del dettaglio preferisco la visione d’insieme.
Per un’ancestrale propensione alla riflessione mi pongo domande
apparentemente inutili e senza risposta.

 

II.

Un raggio di sole filtra dalla persiana semichiusa e attraversa la stanza.
Sto guardando un cassetto.
Lentamente qualcosa che prima non c’era mi appare. Riemerge alla vista.
Si allarga in visione ciò che manca in chiarezza.
Il cassetto che sto guardando è in una stanza precisa. Che riconosco.
Il cassetto che sto guardando è nella camera da letto.
Ma so che ci sono tanti altri cassetti sparsi in tutte le stanze della casa.
Aperti o chiusi. Vuoti o pieni. Che io li guardi o no.
Una casa è sempre piena di stanze e le stanze di cassetti.
Per un‘insopprimibile desiderio di fuga mi spingo oltre la messa a fuoco.
Se penso a tutti gli altri cassetti smetto di pensare solo a quel cassetto.
Smetto di pensare quello che sto pensando.
Ed ogni cassetto ritorna quello che è sempre stato.
Il contenitore che più si adatta al suo contenuto.
Il cassetto di una camera da letto per esempio può contenere:
mutande e calzini maglie magliette maglioni tute da ginnastica
cinte canottiere pantaloncini.
Vuoto o pieno. Chiuso o aperto. Che io lo guardi o no.

 

III.

Sto guardando un cassetto.
Il raggio di sole si allarga al centro della stanza. Diventa un fascio di luce.
Per un’innata necessità di cambiamento scosto un po’ la persiana semichiusa.
Spostandomi nello spazio provoco lo spostamento degli oggetti nello spazio.
M’imbatto nel cassetto che è rimasto da solo. Lo sfioro. Lo tocco.
Il cassetto adesso è aperto.
Era aperto anche prima che lo toccassi? E’ stata la luce ad aprirlo?
Ci sono cose che posso mettere o togliere da dentro il cassetto.
Non provo nessun particolare interesse a sapere quali siano.
Né a sapere se sono stato io a metterle o toglierle da dentro al cassetto.
Nè mi è dato di poterle vedere mancando i presupposti di piena luminosità.
Per tutti i cassetti sparsi per tutte le stanze vale lo stesso ragionamento.
Un cassetto esiste anche solo come oggetto pensato.
Un cassetto esiste anche solo guardato.
Un cassetto rimane un cassetto. Per quello che può o non può contenere.
Chiuso o aperto. Vuoto o pieno. Che io lo guardi o no.
Al momento preferisco pensare che non sia io a guardare il cassetto.
Ma il cassetto a guardare me.

 

IV.

Il cassetto che sto guardando mi sta guardando.
Il sole inonda oramai tutta la stanza. Mi accorgo di essere guardato.
Per un’imprescindibile verità del tempo, il tempo passa.
Un cassetto che mi guarda a lungo andare mi procura imbarazzo.
Allungo una mano dentro al cassetto e ci pesco dentro.
Il cassetto è chiuso e ci sbatto contro.
Quello che pensavo aperto può essere chiuso. E viceversa.
L’imprescindibile natura di ogni cosa è l’istinto a fare qualcosa.
L’imprescindibile natura di ogni cosa è la vita.
L’istinto finale di una cosa come me che sta guardando un cassetto
che resta da solo è quello di aprirlo.
Che sia vuoto o pieno. Chiuso o aperto. Che io lo guardi o no.
Apro il cassetto e ne estraggo mutande e calzini maglie magliette
Maglioni cinte tuta da ginnastica e pantaloncini.
Il tempo non è un cassetto. Non si accontenta di restare a guardarti.
Mi vesto ed esco nel sole. Fuori dalla stanza.
Quante storie per un cassetto che resta da solo! Penso.
Preso da un’inafferrabile moto di nostalgia.

 

*

Le stanze di Emily è un libro inedito di Lella de Marchi.

 

 

*

L’immagine in evidenza è un’opera su vetro di Judith Schaechter

 

 

 

 

Lazzaro

1

di Alberto Bartolo Varsalona

 

“εἶπαν οὖν οἱ μαθηταὶ αὐτῷ · Κύριε, εἰ κεκοίμηται σωθήσεται”
Gv 11,12

Fuoco era la statale, che amici e parenti s’erano portati botti e contro-botti da mezza Palermo: bombe, tuoni che facevano tremare le celle, sbarre e catene al Pagliarelli. Era da poco iniziato lo spettacolo d’artifici, di sbummichiate in su per il buio cielo, fuoco su fuochi, e lampi, e tagli come di tempesta, di malotempo verticale sull’immondo fiume Oreto, ove scorre non acqua, ma melma.

Gli ospiti dello stato si godevano, aggrappati alle sbarre delle finestre, la loro ospitata ad intermittenza: per lo più la sua monotonia, fatta di mangiate e dormite e grascia e corpi uno sull’altro che non c’era più spazio, non ce n’era più di spazio – e che ci liberassero, pensavano, se non sanno manco loro dove infilarci. Ma l’ospitata statale era cosa sacra e non poteva essere negata, né rifiutata: solo nelle angustie, ristrettezze fisiche e morali, gli ospitati statali si educavano, s’affinavano a lima le animuzze penitenti: sottovoce s’inquisivano sul ferro del letto a castello – mi scusasse se ho fatto questo, se ho fatto quest’altro, mi scusasse: vero dico, non per finta, vero.

In questa cupa noia da confessionale, tra i rosari che il parroco dava loro in pasto, come se le perline se le dovessero masticare a mo’ di scaccio e semenza, la sorpresa era cosa assai gradita, fosse anche dilaniante e furiosa come quel gioco di fuoco. E durante lo spettacolo protratto di schizzi tambureggianti e astrali, d’immensi ventagli, pioggie d’oro e girasoli, i parenti davanti ai cancelli sul viale regione manco se li guardavano più, manco rivolgevano loro mezzo saluto, mezzo bacio schioccante, che avevano la testa rivolta al cielo, fattosi ora non di aria, ma di fuoco, e in quel cielo scorgevano strane cose e segni: facce, colpe: forse memorie.

Avevano fatto le cose per bene: era già passata una buona mezzora di botti, ma l’attesa masculiata, il rimbombo definitivo e assoluto, tardava ad alzarsi per l’aria. E sebbene lo spettacolo proseguisse, coi suoi frastuoni laceranti, quello se ne stava immobile e rannicchiato nel suo angolo di cella, che non ne voleva sapere niente di svegliarsi. Tutte le avevano provate e niente ci poteva: il picciotto dormiva di un sonno profondo, non di creatura morta, ma di entità in stallo: come se avesse spento, d’un tratto, il lumino della vita sua, fuocherello pentecostale sul cervello. Passava il giorno così, smuovendo la sua obliosa letargia a colpi di runfuliate, ora silenti e caute, ora graffianti, capaci di provocare trasalimenti ai compagni di cella, o alle guardie del corridoio. Non era un sonno tranquillo e pacificato, di lavoratore che si arricampa dopo aver buttato il sangue, ma dormita schifiata e umiliata, scaricata in brevi spasmi vibranti sulla faccia. Siciliano o maghrebino, nessuno sapeva da quale antro recondito del mondo fosse uscito fuori, che mica si ci poteva parlare, faccia a faccia, quattr’occhi, a chiedergli come ti chiami, da dove vieni: nessuno sapeva niente, né dentro né fuori dal carcere, come se fosse sfuggito per miracolo a qualunque autorità burocratica, infallibile domanda istituzionale, e pareva quasi che lo stato se lo tenesse sotto custodia giusto per fargliela scottare la strafottenza sua. Aveva la faccia smorfiosa e la pelle olivastra dei morti di fame, solo questo sapevano, che quello dormiva, runfuliava di bella.

“Lazzaro manco con le bombe si sveglia! Vai a sapere che si fumò…”

Divertito gridava agli altri Cusimano, sempre guardando l’aria infuocata, ed era come se parlasse alla notte. Il Pagliarelli scoppiava di gente, che a poco si dormiva uno sull’altro e le sezioni del carcere, i luoghi separati per reati, s’erano mescolati in un’oscena promiscuità di diversissime detenzioni: lo spaccino di borgata chiacchierava a lungo con l’ergastolano, il cravattaro col pluriomicida, tessendo una sapiente e fittissima rete di conoscenze che sempre s’andava slargando, di maestranze antiche e tecniche incrociate per eludere il braccio smorto della legge, della giustizia bendata con la bilancetta per pasta o pane – bracci obliqui, piatti dispari.

“Crack sarà stato, che per ora ai mercati scorre manco fosse acqua.”

Rispose, fattosi serio, Gambino, che se li era visti morire tra le mani, tra spasmi e sussulti, alcuni picciotti, mentre a Lazzaro gli era finita di lusso, che dormiva beato. Non polvere bianchissima per nasi delicati di gente composta e incravattata, ma surrogato nauseabondo a sfasare ogni connessione, ogni recettore: lo scarto dello scarto svenduto, botta violenta che al primo scoppio di plastica salisse veloce, per poi stroncarsi, offuscando il mondo.

“Ma quando mai… Non ha niente il tunisino: sta meglio di tutti noialtri messi insieme, fresco e pettinato. Non lo vedete che ci sta prendendo per il culo? Se la ride, e ci scommette…”

Disse Spina seduto al tavolo da gioco dall’angolo più interno della cella, lì dove non arrivavano i lampi di colore, e Ferrante gli diede manforte, calando pesante briscola e pigliandosi ogni carta.

“L’abbiamo capita la pensata sua, che si fa ‘sta scenata, ‘sta farsa da teatro per farsi trasferire: all’Ucciardone si respira meglio che gira l’aria di mare. Viene il cuore che ce l’hanno a portata di mano, e s’arrifrescano anche solo col pensiero d’averla vicina. Per questo fa il teatrante…”

E nelle pause smenzate lasciavano intendere oscuri interessi e spietati tornaconti.

“Non gli fa giustizia ‘sta ‘ngiuria al malandrino. L’attore lo dobbiamo chiamare – altro che Lazzaro – grande e famoso attorone, che qualche volta ce lo vediamo spuntare in tivvù mentre si fa la sua parte, e runfulìa…”

“E magari la gente gli batte pure le mani!”

Era più forte di lui: ricercatissima scenata portava avanti il siciliano-maghrebino, coi suoi tratti di razza indistinta, che dormendo dormendo manco mangiava, tanto che si era disposto di far venire – quotidie – assistenti statali, convocati direttamente dal Palazzo della giustizia: sacerdoti di culti indicibili sulla vita, che d’urgenza con le loro pipette, coi loro sali minerali tentavano di alimentare quel corpicino olivastro che sul letto andava scomparendo, come se le ossa già prendessero curve forme di pieghe lenzuolate. Lazzaro aveva le vene già sfaldate sotto la pelle, infrante in sbocchi di sangue, rami bluverdi sul braccio, che gli assistenti manco potevano attaccare mezza flebo, mezza farfallina, e quindi si limitavano a bagnargli le labbra che la bocca l’aveva sigillata, e la vita sua pareva trascinarsi lungo la patina umida che rara varcava le gengive.

“Talè, talè che bravo: non ci può niente… non s’arrende…”

“Bella vita da magnaccio si fa Lazzaro, che non dà conto a nessuno e si fa le meglio dormite: servito e riverito che pare un barone. Scaltro è… scaltrissimo…”

Rinforzò Spina, ed ebbe un sussulto, un conato improvviso di vomito che gli fece salire la brodaglia della mattina, quando per incerte e stranissime correnti la cella fu travolta da una zaffata stomachevole, e ciascuno smorfiando si tappò il naso, che il tanfo era insopportabile e li svuotava d’aria.

“Che è cretino Lazzaro che vuole il trasferimento? Da dove minchia parte ‘sto fiume disgraziato non si può capire…”

 

L’Oreto, il laido corso d’inafferrabili natali, scorreva col passo di una colata lavica, densissimo e melmoso, come se a monte fosse stato animato da soli scarti, soli detriti, o come se il medesimo fosse stato un arto incancrenito della campagna – Conca Ossidata. Di giorno in giorno si faceva sempre più lento, scrutando le forme delle rive, dei clivi che su di esso s’annegavano: s’ancorava alla terra per farsi terra; o quantomeno palude. Svogliato voleva forse arrestarsi definitivamente, e scontare la sua intossicazione di viscere, rigettando ogni cosa.

“Una volta pure un cavallo ci ho visto: mi taliò col muso locco e gli incisivi lunghi lunghi. All’inizio ci ridevo, poi no, che era morto e manco se ne scendeva: il fiume pareva tenerselo a galla per farmelo guardare. Tutto sminchiato… non aveva pace: sarà in mare adesso…”

Disse sottovoce Gambino, quasi a non volere rievocare – forma e colore – la morte violenta e animale, e ricevette prontissima la risposta di Spina, che pure logorandosi sempre nell’angolo più interno della cella, conosceva ogni movimento, in entrata e in uscita, ogni spiffero, parola detta o magari pensata dentro al carcere.

“Tutte cose là vanno a buttare; mica solo i cavalli: che fa, magari deve profumare? Pure le carte nostre, tutte quelle cose stampate – lo sanno loro, lo sanno, quello che c’è scritto – manco le guardano più, e le vanno a vurricare là sotto… come tanti cavalli…”

Se n’erano accorti subito i più acuti, che il fiume negli ultimi tempi s’era incartato, attuppato da stracci e cartacce: geroglifici consunti, alfabeti cifrati dai quali spiccavano nomi, e articoli, e commi, e anni. Raccolte le inutili carte, giornalmente, piccoli cortei di guardie giunti alle sue rive, gliele davano in pasto, come a volergli dare un contraccolpo micidiale, un’indigestione fatale: rutto inespresso alla divinità fluviale.

Scorrevano, incartapecoriti, anche i loro fantasmi anagrafici: Cusimano, e Gambino, e Spina, e Ferrante, lambivano l’alveo in una poltiglia di dati improcessabili, ammuffiti lungo i fumi pestiferi che loro stessi dovevano sorbirsi, chiusi e stipati nelle loro celle – e soli brevi respiri tiravano, sui palmi della mani a serrare naso e bocca, come a voler sfuggire dalla frustata finale e cadaverosa.

“Questa giustizia me la chiamate? I giudici la ripassata delle nostre azioni se la possono fare al fiume, con qualche retino…”

Solo le generalità del dormiente, che mai s’erano indovinate, erano sfuggite del tutto a quella parola bendata, o forse il fiume le aveva da sempre occultate nel suo ventre di carcassa, intorno al suo cuore nervoso e affaticato che aveva precorso lo Stato; che aveva previsto Lazzaro stesso.

 

Tardava, tardava ancora il colpo definitivo, quasi non fosse stato nemmeno calcolato dai masculari, quasi non dovesse mai arrivare. E ogni rimbombo faceva tremare il busto da uccellino dei pelleliscia, figli e nipoti degli ospitati che i giochi d’artificio se li sentivano sul petto, sul cuore, e dovevano scaricare nella corsa quella energia trasmessa, imprevista e vigorosa, come volessero ripercorrere, in terra, quelle traiettorie colorate. Parevano ingestibili, che nessuno riusciva a farli stare composti, magari pigliandoseli mano e manuzza – saluta a papà, saluta al nonno e al bisnonno, allo zio, al trisavolo – invano ordinavano a strattoni i parenti maturi e maturati.

Pure loro lo conoscevano Lazzaro. Non l’avevano mai visto, eppure l’avevano scolpito in testa, tale e quale a com’era: così indistinto, così vago. Agli incontri con gli ospitati parentati, nei silenzi che a loro spettavano in quei momenti, quel nome avventuroso usciva sempre, sparlato e umiliato. Era un grande attore che le provava tutte per uscire, o quantomeno per farsi trasferire, e per lui facevano il tifo, chiedendo novità ai parenti, sperando di vederselo fuori e baciargli la mano: pure loro volevano scapparsene dalle zaffate dell’Oreto, dal malovento rifiutato, e sempre lo chiamavano da fuori, quasi servisse proprio lui per la loro fuga. Restavano i più sicuri, sempre saldissimi nelle loro opinioni: Lazzaro sarebbe uscito fuori, camminando fresco e profumato, senza alcuna benda.

“È mago e prestigiatore, mica se ne poteva scappare muto muto. Vuole fare una cosa sistemata per noialtri che siamo il suo pubblico.”

Disse un pelleliscia, parente diretto di un ospitato, che dei colloqui dentro al carcere ricordava solo il nome straniero del dormiente.

“Il nome suo, gridiamo il nome suo che esce!”

Suggerì un’altra pelleliscia, gracile gracile, con una voce squillante e luminosa: attendeva insieme a tutti gli altri un evento inesorabile, babbiando col mezzo sorriso sulle labbra.

Nei loro moti furiosi avevano occhi solo per il settore che s’era già fatto luogo di miti e di conti, di gesta straordinarie e prodigi: sapevano, sapevano bene che come arrivava la masculiata Lazzaro se ne usciva, magari volando, e con la pace della previsione guardavano dilatarsi, alimentarsi da sé, quel trionfo di miscele chimiche, di zinco arsenico antimonio rame in fiammate azzurre violette carminie, e anche se passavano i minuti, e le ore, e i mesi, mai volevano dormire, che il sangue gli bolliva, e pensando a Lazzaro, gli ribolliva, violento e smisurato: come se la vita, in lui inarcata, verticale s’alzasse in loro. Venivano colpiti in pieno dalle luci di nitrati, quasi che l’oro e l’argento potessero stendersi solo in quelle pelli lisce, e parevano dei lumini, sul lato degli orti infecondi, davanti i cancelli: un tappeto fitto di lumi smaniosi.

Non sapevano, non sapevano ancora delle botte e dei cappi, dei tagli sulle vene e dei ricoveri, delle cinture stese per il tetto e legate al collo, giù come serpi. Non sapevano; e giocavano, inseguendosi sul largo viale, facendo vibrare il grande e immenso recinto di grate, quasi volessero violarlo: Lazzaro svegliati, gridavano al buio loro soli, Lazzaro vieni fuori.

Foto di ErikaWittlieb da Pixabay

Un’estate con Manzoni #2 — La Storia

0
David Hockney, "A Bigger Wave", 1989

David Hockney, “A Bigger Wave”, 1989

 

[Secondo appuntamento con la rubrica Un’estate con Manzoni. Qui il primo.]

di Marco Viscardi

I Promessi Sposi, cap. XII: la Storia

Non so se è mai stato detto, ma mi pare che si potrebbe dare il nome di “classico” ai testi in base alla luce della verità di cui sono portatori. Più un testo è saturo di verità, più investe il lettore con improvvise, subitanee, rivelazioni, più allora è un classico e merita di essere tramandato e studiato. I Promessi sposi lo sono, e fra i tanti passaggi che stordiscono il lettore per la propria forza, questo è uno dei più affascinanti. Leggiamolo:

Questo [il popolo], dalla piazza, era già entrato nella strada corta e stretta di Pescheria vecchia, e di là, per quell’arco a sbieco, nella piazza de’ Mercanti. E lì eran ben pochi quelli che, nel passar davanti alla nicchia che taglia il mezzo della loggia dell’edifizio chiamato allora il collegio de’ dottori, non dessero un’occhiatina alla grande statua che vi campeggiava, a quel viso serio, burbero, accipigliato, e non dico abbastanza, di don Filippo II, che, anche dal marmo, imponeva un non so che di rispetto, e, con quel braccio teso, pareva che fosse lì per dire: ora vengo io, marmaglia.

Quella statua non c’è più, per un caso singolare. Circa cento settant’anni dopo quello che stiam raccontando, un giorno le fu cambiata la testa, le fu levato di mano lo scettro, e sostituito a questo un pugnale; e alla statua fu messo nome Marco Bruto. Così accomodata stette forse un par d’anni; ma, una mattina, certuni che non avevan simpatia con Marco Bruto, anzi dovevano avere con lui una ruggine segreta, gettarono una fune intorno alla statua, la tiraron giù, le fecero cento angherie; e, mutilata e ridotta a un torso informe, la strascicarono, con gli occhi in fuori, e con le lingue fuori, per le strade, e, quando furon stracchi bene, la ruzzolarono non so dove. Chi l’avesse detto a Andrea Biffi, quando la scolpiva!

Siamo a Milano, nel cuore della rivolta per il pane. Il popolo assalta i forni perché è convinto che i fornai speculano sul prezzo della farina e tengono nascoste le scorte per far alzare il prezzo. La folla scorre per le strade della città. Si dirige verso l’abitazione del Vicario di Provvigione, il funzionario che si occupa degli approvvigionamenti alimentari della città. Chi conosce Milano, può immaginarsi i luoghi attraversati dal tumulto: le strade tortuose, il mattonato rosso della piazza dei Mercanti e, prima ancora, il Collegio dei Dottori o Palazzo dei Giureconsulti che, al tempo di Manzoni, comprendeva la porta di Peschiera che non esiste più:

Questo, dalla piazza, era già entrato nella strada corta e stretta di Pescheria vecchia, e di là, per quell’arco a sbieco, nella piazza de’ Mercanti. E lì eran ben pochi quelli che, nel passar davanti alla nicchia che taglia il mezzo della loggia dell’edifizio chiamato allora il collegio de’ dottori, non dessero un’occhiatina alla grande statua che vi campeggiava, a quel viso serio, burbero, accipigliato, e non dico abbastanza, di don Filippo II, che, anche dal marmo, imponeva un non so che di rispetto, e, con quel braccio teso, pareva che fosse lì per dire: ora vengo io, marmaglia.

Ecco Filippo, il re di Spagna e signore di Milano. Sovrano dispotico, incarnazione suprema dell’assolutismo, del fanatismo e del mal governo, Filippo domina lo spazio dall’alto. La marmorea testa minaccia il popolo bambino, lo ammonisce a rigar dritto. Sin dalla fine del secolo precedente, Filippo ha incarnato il modello del padre e del monarca autoritario: così l’ha descritto Schiller nella sua tragedia dedicata a Don Karlos che Verdi avrebbe messo in musica facendone il suo capolavoro storico. Nell’opera verdiana, il personaggio di Filippo si mostra in tutta la complessità: alla faccia pubblica severa si contrapponeva tutta la solitudine del comando, la malinconia del corpo che invecchia, del potere che passa. Ma, se Verdi ne mostra aspetti umanissimi e nascosti, Manzoni l’attacca con gli acidi corrosivi del romanzo: ora vengo io, marmaglia!

Quella statua non c’è più, per un caso singolare. Circa cento settant’anni dopo quello che stiam raccontando, un giorno le fu cambiata la testa, le fu levato di mano lo scettro, e sostituito a questo un pugnale; e alla statua fu messo nome Marco Bruto. Così accomodata stette forse un par d’anni; ma, una mattina, certuni che non avevan simpatia con Marco Bruto, anzi dovevano avere con lui una ruggine segreta, gettarono una fune intorno alla statua, la tiraron giù, le fecero cento angherie; e, mutilata e ridotta a un torso informe, la strascicarono, con gli occhi in fuori, e con le lingue fuori, per le strade, e, quando furon stracchi bene, la ruzzolarono non so dove. Chi l’avesse detto a Andrea Biffi, quando la scolpiva!

Ma il monumento di don Filippo, una volta ridotto a torso anonimo e consumato, diventa improvvisamente simbolo della follia e dell’instabilità generale. Negli anni della rivoluzione, i giacobini avevano riconvertito il corpo del sovrano in quello di Bruto liberatore. Quel corpo, dotato di una nuova testa, era diventato il portavoce di significati imprevisti, in linea con un’età inimmaginabile ai tempi di Andrea Biffi.  Adesso, il braccio teso è la minaccia al tiranno e non più al popolo!  Una nuova era si apriva e, come tutte le nuove ere, si credeva eterna, fino a quando il ritorno dei legittimi padroni non aveva istaurato un nuovo ordine, ovviamente provvisorio. Così il ritorno degli austriaci a Milano segna la fine ridicola di questa statua. Fatta cosa fra le cose. Il marmo che aveva glorificato il re assoluto e l’assoluto tirannicida si è smembrato: polverizzato in tocchi informi. E con lui, anche quelle idee si sono perse in frammenti senza memoria. Ciascun regime che si era posto sotto la protezione di quel gigantesco nume si era creduto immortale, ma il tempo aveva portato tutto via. Smarrito tutto.

Manzoni non crede che la storia abbia una logica di progresso e le vicende turbolente di questo pezzo di marmo sono una metafora del continuo agitarsi tellurico che sta sotto alla vita degli uomini. Niente è stabile in questo vortice che chiamiamo storia. Modificare il senso di una figura, o ancora di più, abbattere un monumento è un’azione storica esattamente come erigerlo. Nessuna statua occupa uno spazio vuoto. Prima c’è stata sempre una civiltà dimenticata e vinta. E nel vuoto creato dalla sua scomparsa, nel silenzio delle sue lingue dimenticate, si sono innalzati nuovi effimeri monumenti. Così, il romanzo storico, più che celebrare la continuità fra presente e passato, ci ricorda la non razionalità delle azioni umane e lo fa senza giudizi morali, semmai mettendone in evidenza i lati ridicoli, diventando quasi – e che nessuno si arrabbi – un beffardo annuncio di cancel culture, quella cancel culture che a volte ci viene presentata nei suoi eccessi e nelle sue ridicolaggini, ma che porta istanze nuove di liberazione. E mi piace pensare che il vecchio Manzoni non avrebbe storto il naso di fronte alle ballerine che danzando sulla statua del generale Lee a Richmond, che non solo si riappropriano di uno spazio loro, ma incarnano splendidamente la superiore irrazionalità delle sorti umane e, incredibilmente, riescono a declinarla come liberazione e riappropriazione di senso e di spazi.

La Historia è una illustre guerra contro il tempo. Così inizia il manoscritto da cui Manzoni finge di trarre i Promessi sposi. La Historia sottrae al tempo gli anni già fatti cadavere e li rivitalizza. Il narratore è un negromante, ma leggendo il romanzo sembra quasi che questa sia una guerra persa, perché il tempo procede instancabile e porta con sé gli uomini e il loro modo di pensare.

Nel Fermo e Lucia la scena della statua si chiudeva con una riflessione sulle sorprendenti somiglianze che Manzoni scorgeva fra l’assolutismo barocco e la violenza rivoluzionaria.

Filippo II e Bruto: «ebbero più punti di rassomiglianza che non appaja a prima vista. Tutti e due gravi e rigidi sermonatori l’uno di filosofia, l’altro di religione, tutti e due commisero senza rimorso, con giattanza, di quelle azioni che la morale comune, e il senso universale della umanità abbomina; tutti e due credettero che nel loro caso una ragione profonda, un intento di perfezione rendesse virtù ciò che è comunemente delitto». Entrambi si sentirono investiti di una missione irrinunciabile, entrambi si attennero a principi astratti di religione o di filosofia per compiere le loro azioni. L’uno fu accecato dal diritto divino e l’altro dalle leggi della politica. Entrambi, insomma, furono in qualche modo assoluti: sciolti dai legami umani e presi dalle loro azioni. Dietro il riferimento a Marco Bruto si vede un profilo assai più inquietante, quello di Maximilien de Robespierre.

Nel suo Dialogo sull’Invenzione, Manzoni dà un giudizio sorprendentemente positivo su Robespierre, quale «uomo eternamente celebre, non già per delle qualità straordinarie, ma per la parte tristamente e terribilmente principale» che ebbe nella rivoluzione. In quello che la posterità ha bollato come «mostro di crudeltà e d’ambizione», c’era anche «del mistero». In questa espressione si sente tutta la forza dello scrittore cristiano. Quello che pensa che ogni anima conta e che in ogni anima c’è la presenza del suo creatore. Né gli uomini, né la storia sono perfettamente conoscibili, così almeno sembra suggerirci Manzoni. E Robespierre, seguace e allievo ideale di Rousseau, nemico della corruzione, impiegò la sua intera esistenza nel tentativo di realizzare un «un novo, straordinario, e rapido perfezionamento»  della «condizione» e dello «stato morale dell’umanità», ma sulla base di una «astrazione filosofica», di una «speculazione metafisica» che predicava l’utopia semplicista dell’uomo che «nasce bono, senza alcuna inclinazione viziosa; e che la sola cagione del male che fa e del male che soffre, sono le viziose istituzioni sociali».

Così Robespierre si era autoassegnato il compito di rigenerare l’umanità, di riportarla alla sua prima e mitica bontà originaria, mentre «il catechismo gli aveva insegnato il contrario». La religione cristiana, la rivelazione trascendente, insegna che l’uomo è capace di devastanti cadute e di avventurose rinascite. Come è capitato a Napoleone nella storia e all’innominato nel romanzo. Le astrazioni di Rousseau e Robespierre spogliano l’umano della sua complessità, mentre il cristianesimo comprende le oscillazioni dell’anima, mette al centro il dramma eterno di crolli e redenzioni.

Anche il Manzoni teorico della letteratura rifiuta le teorie astratte della letteratura, che tanto piacevano ai classicisti, e mette al centro della sua opera di tragediografo e romanziere l’anima con le sue contraddizioni. Se fossimo perfetti non avrebbe senso la letteratura.

Già in una lettera spedita da Parigi all’amico Gaetano Giudici nel febbraio 1820, Manzoni aveva riflettuto sui due tipi di interesse che attraggono gli spettatori di un dramma. «Il primo è quello che nasce dal vedere rappresentati gli uomini e le cose in un modo conforme a quel tipo di perfezione e di desiderio che tutti abbiamo in noi», mentre «l’altro interesse è creato dalla rappresentazione la più vicina al vero di quel misto di grande e meschino, di ragionevole e di pazzo che si vede degli avvenimenti grandi e piccoli di questo mondo».

Si può rappresentare un mondo migliore, un mondo a-problematico, dove il bene e il male sono campi ben divisi e delineati, ma questa letteratura non tocca le questioni morali. L’uomo è un guazzabuglio e già nel 1816, in un appunto dei cosiddetti Materiali Estetici, Manzoni aveva scritto che «ogni finzione che mostri l’uomo in riposo morale, è dissimile dal vero»; ora, parlando a Giudici, aggiunge che l’unica rappresentazione ammissibile è quella che mostra il mistero caotico del cuore nel quale la grandezza e la miseria convivono in una mescolanza in cui non ci sono elementi puri, ma tutto si confonde. Rappresentare il caos è un atto di coraggio e risponde a quella «parte importante ed eterna dell’animo umano» che è «desiderio di conoscere quello che è realmente e di vedere più che si può in noi e nel nostro destino su questa terra».

Merda (sillabario della terra # 8)

6

di Giacomo Sartori

Uno dei problemi principali dell’agricoltura, fin dai suoi esordi, è stato quello di riportare alla terra la sostanza organica che le ruba. Raccogliendo semi, tuberi e frutti (per esempio chicchi di frumento, patate e mele), noi portiamo via dai campi sostanza organica. E quest’ultima in qualche modo deve essere restituita, se si vuole mantenere l’agrosistema – il termine dotto è questo, viste le sostanziali analogie con l’ecosistema  – in buono e duraturo stato, e non impoverirla vie più ogni anno. Più materiale vegetale si asporta, più abbondanti sono i raccolti, più si deve reintegrarne. Le tecniche moderne hanno grosse produzioni, e quindi i rischi sono più grandi.

Nelle forme più antiche di coltivazione la soluzione adottata era la rapina veloce, seguita dalla fuga. Con il sistema chiamato taglia e brucia si disboscavano aree di foresta e le si seminava per qualche anno, più raramente uno solo. Si sfruttava insomma la sostanza organica delle terre boscate, che in genere è abbondante. Una volta esaurito il bottino trovato in loco, si lasciava che la foresta ricrescesse, reintegrando lentamente le materie organiche e la fertilità dei suoli. Solo dopo varie decine di anni si poteva ripetere una analoga rapina agricola nella stessa gioielleria vegetata. Era quindi un furto .

Finché i boschi erano abbastanza estesi in rapporto alla popolazione, la tattica mordi e fuggi ha funzionato egregiamente. L’incremento demografico ha poi spinto a un infittimento degli assalti, il quale ha portato un po’ dappertutto a una degradazione e a lungo andare a una sparizione delle foreste. Chiaramente se ci sono più ladri che banche da svaligiare le cose si mettono male. Già cinque secoli prima di Cristo gran parte dei boschi del Mediterraneo se ne era andata: gli sconvolgimenti umani sono iniziati ben prima dell’Antropocene, del cui inizio si è tanto discusso negli ultimi anni. E con lei la strategia taglia e brucia. Le civilizzazioni si trovavano quindi nell’impossibilità di ristabilire la fertilità dei campi coltivati.

Nelle forme di agricoltura apparse in seguito, c’è voluto qualche secolo di prove e assestamenti, per rendere alla terra la sostanza organica trafugata con i raccolti si sono messi al lavoro gli animali. Insomma, lavoro fino a un certo punto: li si faceva fare i loro bisogni nei campi. Una trovata geniale, visto che questi sono costituiti da sostanza organica di ottima qualità. La notte si facevano sostare le pecore e le capre che avevano pascolato nei dintorni dove si sarebbe seminato. O più spesso nei campi che venivano lasciati a riposo, in attesa di essere seminati l’anno dopo. Quelli che venivano chiamati campi a maggese. Con questo stratagemma non si potevano certo recuperare la totalità delle feci di tutti gli animali, molte si perdevano per strada, ma pur sempre abbastanza per restituire al suolo gran parte del maltolto.

A partire dall’undicesimo secolo c’è stato un grosso salto in avanti, nel filone tecnologico della merda. Per non perdere nemmeno un grammo di deiezioni si costipavano gli animali in appositi locali e recinti, le stalle, nutrendoli con il fieno. E inoltre le loro deiezioni venivano usate mescolandole con paglia o fogliami, vale a dire sotto forma di letame. Questo impasto, lasciato maturare per diversi mesi, era ottimo non solo per restituire la sostanza organica, ma anche per ristabilire la ricchezza chimica e la sofficità del suolo. Sembra un cambiamento da poco, e invece presupponeva mezzi di trasporto per il fieno e il letame (fino a allora i carri erano riservati ai guerrieri e ai ricconi), prati e arnesi efficienti per tagliare l’erba, fabbricati, un’accurata pianificazione. In atre parole capitali. Il capitalismo emetteva i primi vagiti agrari.

Per quasi mille anni l’utilizzo della merda animale sotto forma di letame ha permesso di coltivare i suoli senza rovinarli. E in molte zone producendo relativamente bene. Questo soprattutto a partire dalla seconda metà del Settecento, quando le letamazioni sono state abbinate alle rotazioni agrarie continue, gli avvicendamenti pluriennali di colture senza annate di riposo, alias senza maggese. Vale e dire a partire da quella che viene chiamata la rivoluzione agraria. La quale dall’Inghilterra è dilagata in tutta Europa, nord Italia compreso, proprio come la sua consorella, la rivoluzione industriale.

Solo nei tempi recenti, e in particolare dopo il secondo conflitto mondiale, abbiamo abbandonato il letame, diventato merce sempre più rara. Gli allevamenti industriali sfornano grandi quantitativi di liquami, acquosi e troppo ricchi di elementi, che pongono problemi di smaltimento, non più letame. Quindi questo è stato sostituito con i concimi chimici, ottenuti con un impiego massiccio di petrolio. E che rimpiazzano gli elementi minerali sottratti alla terra, ma non reintegrano la sostanza organica sottratta. E che contaminano pesantemente falde e acque superficiali, perché solo una parte minoritaria viene assorbita dalle radici delle piante.

In molti ambienti i concimi chimici permettono di avere alte produzioni, ben maggiori che nel passato. Questo nessuno può negarlo. E in genere di tenerle alte, almeno nel medio termine. I suoli si impoveriscono però sempre di più di sostanza organica, diventano sempre più chiari e magri, sempre più sterili. E le falde e i fiumi si arricchiscono di elementi indesiderati. Sono guasti generalizzati nell’agricoltura industriale degli ultimi decenni, in tutti i continenti, che hanno conseguenze gravissime.

Svuotata di sostanza organica la terra non muore subito, ma soffre e lavora a rilento. In molti casi, in particolare quando c’è di mezzo l’erosione, va a passi veloci verso il decesso. Si può fingere di non vederlo, lo si è fatto per diversi decenni, palliando con quantitativi crescenti di concimi e di prodotti chimici. Che non fanno che aggravare i danni, come un gatto che si morde la coda. Ora è però sempre più difficile mettere la testa sotto la sabbia, per usare una metafora in tema. Anche l’agricoltura più acerebrata, che spesso è molto tecnologica, una cosa non esclude l’altra, non può più ignorare che sta segando il fragile ramo sulla quale poggia, e cerca piste per correre ai ripari. O almeno finge di farlo.

Le soluzioni ci sono, e consistono negli apporti di sostanza organica sotto forma di letame o di compost, o anche per mezzo di colture finalizzate a questo scopo, e che vengono interrate una volta ben sviluppate (i sovesci). Gli stessissimi palliativi che preconizzava il grande agronomo romano Lucio Giunio Moderato Columella già duemila anni fa, a essere puntigliosi. Alle quali si aggiunge l’inserimento nelle rotazioni di colture che arricchiscono il terreno, le leguminose. Tutti questi rimedi sono efficaci e non sono costosi, anche se certo rallentano un po’ il ritmo forsennato dell’agricoltura industriale. E sono quelli utilizzati dall’agricoltura biologica fin dai suoi esordi. Nei fatti però non vengono quasi mai applicati, e la maggior parte dei suoli continuano a impoverirsi e a soffrire.

(l’immagine: letame, Foto©Pixabay)

Icnologia iconologia o tautologia. Su “Spin Off” di Giulio Marzaioli

0

di Lorenzo Mari

Leggo Spin Off di Giulio Marzaioli a dieci anni di distanza da un’installazione che non ho potuto vedere, Icnologia, di Giulio Marzaioli e Pietro d’Agostino, ma della quale si può leggere qui la preziosa nota critica di Gian Maria Nerli.

Ora, per darne una definizione piuttosto semplice, l’icnologia è quella branca della paleontologia e della biologia che si occupa dello studio delle interazioni tra organismi e substrato, andando a caccia di quelle interconnessioni attraverso le tracce (gr. ichnos) che si sono depositate, nello spazio e nel tempo. E quando, in occasione di quella mostra del 2013, Marzaioli e D’Agostino definiscono l’icnologia come «ambito di indagine e sintesi tra scrittura e fotografia», sanno bene – come appunta anche Nerli – che la mancanza di una O segna uno scarto minimo, eppure rilevante, tra icnologia e iconologia. Dov’è, allora, l’immagine? Non si tratta soltanto di localizzarla, identificarla e archiviarla in quello scarto – un ritorno all’ordine, anche piuttosto consolante – ma di provare ad agire intorno alla circolarità della O di quello scarto, una circolarità che appare liscia, ma, di fatto, può essere potenzialmente produttiva.

Ricorre molto, in effetti, l’idea di una «icnologia del futuro» nelle parole di Gian Maria Nerli, specie dove il lavoro di Marzaioli e D’Agostino «mette di fronte alla possibilità dell’inaspettato, dell’impensato, alla reale estraneità di pensare il futuro».

Inaspettato e impensato, si potrebbe dire, come uno spin off.

Certo, oggi nel suo ambito mainstream di riferimento, associato alle serie tv, lo spin off sembra alludere a un progetto architetturale (con lo sviluppo, cioè, di un elemento testuale precedentemente secondario), ma nell’icnotesto/iconotesto che pure è Spin Off questa ambizione viene subito meno; l’interazione tra testo e immagine, al contrario, segue primariamente i principi dell’accumulazione e della deviazione. In questo senso, i testi che compongono il libro non sono soltanto la ripresa, tramite combinazione e montaggio, di testi precedenti di Marzaioli, ma associandosi ad altre immagini (che, dalle note finali, si presumono almeno parzialmente prodotte ex novo da Giulio ed Eugenio Marzaioli) hanno la funzione di accumulare e al tempo stesso deviare da quelle tracce già esistenti. Ovvero, trascrivendo qui parte delle note finali, per chiarire meglio la procedura con cui si ottiene Spin Off: «Indizi de La neve fanno la loro prima comparsa all’interno de I sassi (Tic Edizioni, 2021); indizi de La cicala all’interno di Arco rovescio (Benway Series, 2000); indizi de La macchina volante all’interno de Il volo degli uccelli (Benway Series, 2014). I sassi sono stati pubblicati presso Tic Edizioni, collana ChapBooks, nel 2021» (p. 91).

I testi precedenti sono dunque entità organiche, ma senza alcuna pretesa di un organicismo assoluto e olistico: sono, a loro volta, pieni di tracce, che Spin Off si occupa di accumulare, appunto, e deviare. Così, non siamo di fronte a una cosiddetta “auto-antologia”: forse si parte dal fantasma di questa forma-libro (ormai invalsa nell’uso e che denuncia una chiara debolezza della critica, non risolvendola e anzi, se possibile, aggravandola) ma si arriva a un esito estremamente paradossale, nella sua futuribilità produttiva e, al tempo stesso, nella sua clausura ideologica.

La deviazione, voglio dire, porta lontano dalla clausura formale, ma non distrae mai, anzi, intende sempre portare all’attenzione; come si legge sempre nelle note conclusive: «La parola attenzione ricorre tre volte all’interno del libro (una per ciascun testo)» (p. 91) – dove per “testo” si intende l’intera sequenza testuale che compone una sezione (ricordando che la quarta parte, I sassi (reprise), è una sezione esclusivamente fotografica).

Un’attenzione, questa sì, assoluta: la neve, la cicala, le macchine volanti e i sassi – per riprendere i titoli delle quattro sezioni di Spin Off – sono scenari della meditazione, dove l’attenzione supera spesso la dimensione umana per farsi post-umana, o comunque non-umana. Succede da subito, con un frammento che imita le modalità della meditazione zen – «Pensare la neve d’estate» (p. 7) – per poi rivelarsi gradualmente qualcosa d’altro, ad esempio uno «stato mentale» (p. 11) o un «anacronismo» (p. 14). L’esito di questo processo non è circolare, come potrebbe forse suggerire la chiusura simil-zen dell’ultimo testo della prima sezione – «A differenza della neve, che quando cade non è mai così bianca come siamo soliti pensarla» (p. 26) – dove, in realtà, c’è una sorta di parafrasi aggiunta che sottrae un po’ di icasticità alla massima zen; lo scopo sembra piuttosto quello di garantire «[u]na permanenza ovattata sempre ridefinibile e un attraversamento del proprio status gravitazionale» come coordinate temporali di un pensiero che «si schiarisce dalle ombre e si libera dal peso dell’acqua, manifestandosi chiaro e leggero quando trova accoglienza nel luogo della neve» (p. 12).

Parallelamente, si va chiarendo come il movimento sia quello dell’astrazione – sottesa alla ripetizione ossessiva di un piano asciuttamente referenziale, ma costantemente attraversato da minuscoli sommovimenti o glitch – e della sottrazione del punto di vista dal paesaggio così delineato (peraltro delineato attraverso la neve, e cioè con la sua bianchezza pre-logoica): «[q]uando pensiamo la neve entriamo a far parte di un paesaggio che ci sottrae» (p. 26), infatti, è l’esordio dell’ultimo testo di questa parte, dove la particella pronominale, nonché l’impianto testuale che la include, non possono che ricordare un libro apparso nella stessa collana di Tic dove appare Spin Off, ovvero Noi (2021) di Alessandro Broggi.

A questo proposito… piccola deviazione: pare che ci sia un altro legame piuttosto solido, per Spin Off, all’interno della collana degli UltraChapBooks – a indicare, così, l’alto grado di omogeneità del catalogo editoriale non tanto a livello stilistico, o di poetica, ma rispetto a quella costellazione teorico-pratica che continua a fungere da riferimento per molta scrittura di ricerca italiana – ovvero il nesso che intercorre tra la sezione La macchina volante e Quando arrivarono gli alieni (2016) di Gherardo Bortolotti, ora incluso nella prima pubblicazione degli UltraChapBooks, Low (Una trilogia) (2020). Se la prima tentazione può essere quella di rinviare a un medesimo campo semantico (gli alieni, le macchine volanti, etc.) e giocare non tanto con la costellazione appena delineata, ma con una scrittura critica che sia anch’essa referenziale e glitchata, bisognerà pure deviare, poiché è in definitiva più interessante vedere come in entrambi gli autori abbiano agio quegli spazi e tempi interstiziali – propiziati dagli scarti e dal glitch – dei quali ha brevemente parlato, fra gli altri, Julian Zhara in un intervento su Satisfiction.

Di più: pare che vi sia, in Spin Off, una rincorsa tra referenzialità e glitch che sfiora, ma non entra mai appieno, nel territorio della tautologia – peraltro ampiamente frequentata e usata, se non anche abusata, in altre scritture contemporanee. In altre parole, vi sussiste il margine – così com’è sancito dallo scarto tra icnologia e iconologia –, per introdurre, ad esempio, alcune considerazioni, sospese tra la zoologia e l’auto-etnologia, sui costumi sessuali delle cicale, nella seconda sezione («La verità è che dei sette vizi capitali, l’invidia è il più segreto e dissimulato dall’essere umano. L’assidua attività sessuale testimoniata dall’incessante frinire, e la libertà corale in cui quest’attività si esplica, sollecitano sottopelle la fantasia e il conformismo di donne e uomini…», p. 43) o anche per considerare “la macchina volante” della terza sezione nella sua pura oggettualità, senza ricorrere ad altre costruzioni narrative o finzionali («In alternativa, potrebbe essere cresciuta lentamente e inesorabilmente sulla propria ombra (ipotesi fantascientifica e pertanto altamente improbabile)», p. 57).

Ancora più specificamente, però, in rapporto a icnologia, iconologia e tautologia, allusa ma non compiuta, è la qualità dello sguardo a interessare, nella sua evoluzione che attraversa vari testi e sezioni dal libro: dalla mano antropomorfica che muove la macchina fotografica nella seconda sezione («Dopo averla fotografata da diverse angolazioni, l’uomo avvicinò lentamente l’indice alla farfalla…», p. 34) si passa alla relazione tra la macchina volante e altre singolarità inanimate nella terza sezione, fino a un distacco, nel pre-finale, che elabora e approfondisce l’idea di “distacco zen” che affiorava all’inizio del libro («Non essendo in funzione, la macchina volante reagisce sospendendo la percezione del proprio deterioramento e confortando quanto resta del motore, che, non rilevando combustibile nei serbatoi, tende a chiudersi su sé stesso. È in tali frangenti che la macchina volante avverte una forma di distacco alquanto differente dal decollo», p. 72).

Sorprendentemente, o forse no, il libro si chiude poi con un ritorno alla fotografia nella sequenza di immagini I sassi (reprise): si torna così a postulare una presenza antropomorfa e “fotografante” – ma non più una… “soggettività desiderante”, per accumulazione e deviazione di quanto finora esposto – e le immagini, per di più non si limitano nemmeno alla “coseità” dei sassi, ma introducono un simil-cairn – comunque assai distanti da altri Cairn, più evidentemente lirici o “post-lirici”, di questi ultimi anni – che però, al di là dell’evocazione propria della traccia, non allude a nessuna retorica riguardante una cultura perduta (quella della poesia, in tempi di post-poesia?…forse).

Come a dire, l’icnologia lascia di nuovo spazio all’iconologia, in una circolarità di scarti che supera la tautologia e ridefinisce il campo. Che sia lo Spin Off, per la scrittura di Marzaioli, di qualcos’altro ancora?

 

 

Margini (parte 2)

0

di Alberto Comparini

La prima parte di questo racconto è uscita il 31 luglio 2023.

Appoggi una Samsonite turchese nell’ingresso. Il trilocale di TT è ampio (quasi tremila piedi quadrati due bagni la soffitta un parcheggio privato per le bici elettriche del condominio), la luce naturale taglia di lato le quattro finestre dell’appartamento che danno direttamente su Harvard Square tra Brattle e Mount Auburn Street; la cucina, tipicamente americana, è un open space moderno adatto a ogni esigenza (di lavoro di studio di sesso di gruppo) e dotato di isola centrale, grandi elettrodomestici e altri accessori essenziali per rendere l’ambiente un non-luogo facilmente replicabile come i suoi conduttori (dottorandi, postdoc, assistenti e aspiranti molestatori). Non fai in tempo a scrivere altro che dalla camera padronale emerge saltellando la sagoma squillante di TT; per le coinquiline TT è l’intestataria del contratto, per te è principalmente una ragazza cattolica di buona famiglia (di sinistra, con dei tratti reazionari vagamente repubblicani), una dottoranda in letteratura e teologia all’Università di Harvard che dopo tre anni di relazione ti abbraccia ancora a otto pollici di distanza.

Al convegno non c’era motivo di andare a parlare di lyric essays non sai quasi nulla; l’argomento è sfuggente non si tocca nemmeno con le mani preferisci soddisfare per qualche sera i desideri repressi di TT in cambio di un divano puoi offrirle un pacchetto completo, nel letto matrimoniale della coinquilina austriaca c’era spazio per entrambe (il corpo di AC88 è programmato per durare una giornata alla volta, quattro pastiglie la mattina tre al pomeriggio tre alla sera, e il corpo di AC88 può durare un altro giorno, ma quanto dura AC88 perché non finisce subito come gli altri, scrivono incuriosite le utenti anonime del portale). Dopo la seconda notte insonne inizia a esserti più chiaro perché non parlassi mai di ML82

al secondo piano di Quarry Road c’erano varî titoli premi affiliazioni accademiche in bella vista c’era anche una medaglia al valore consegnata da GWB durante una cerimonia estiva a Lubbock, in Texas c’erano anche le foto di PW78 e dell’attuale DL35 (in Italia racconti spesso di essere stato un paziente del dottor S, come PW20 e DL35 anche AC88 è un titolo che si aggiunge ad altri titoli da esibire indistintamente al 211 di Quarry Road). Certo, PW78 è morto nel 2005 il DL è in esilio dal 1959 ML82 non ti sembra proprio sul pezzo quando racconta perché è diventata ML82 verso la metà di maggio era il 1997 l’Italia aveva perso contro la Jugoslavia il 6 luglio 1996 ML aveva conosciuto IT64 in un bagno dell’International Academy a Bloomfield Township, in Michigan le parole si allineavano alla contrazione intermittente dei suoi arti inferiori.

(durante le sedute alzava spesso gli zigomi ML ci teneva a ripetere questo gesto era quasi incorporeo per lo stato degenerativo del suo corpo non si vedeva più bella allo specchio e bella lo era for real altrimenti non avresti avuto il coraggio di venire con lei in bagno senza farmaci conservi con affetto queste stringhe linguistiche resistono al moto incontrollato dei tuoi spasmi muscolari quando stringeva intensamente le palpebre dopo le lunghe pause teatrali arricciava il naso a sella sollevando il labbro superiore prima di aprire la bocca le vocali erano soffocate dall’angoscia di essere una qualunque emmelle del Nebraska)

Oggi non cerchi più ML82 è scomparsa tra le sedie dell’aula sono sopravvissuti alcuni strascichi delle sue provocazioni circolano ancora nell’aria insipida di ossigeno e azoto, tra marchi impressi a colpi ininterrotti di dita in gola (il gonfiore sarà colpa dei farmaci la tua incapacità di appartenere a questa narrazione, perché continui a fissare la porta del bagno, abiti a Trento non sei mai stato a Stanford). Non hai ricordi nitidi di questo giorno ricordi di aver chiesto al dottor S le ragioni della fine, di ML, della fine ricordi soprattutto le richieste di aiuto al secondo piano di Quarry Road era già buio lunedì 14 ottobre 2013 avresti ingoiato qualunque cosa pur di riempire questo vuoto prima di accettare il vuoto di quella sedia.

Dottor S, ML82 non ce l’ha fatta ad arrivare a martedì 15 ottobre 2013, è uscita dal gruppo.

Quando mi ascoltava il dottor S era una figura ambigua singolare di genere maschile come il φαρμακός che prescriveva sistematicamente ai suoi pazienti più stretti. In questo testo è lui l’uomo destinato a morire prima di essere la vittima dei suoi pazienti il dottor S agli occhi di colleghi amici parenti persino i suoi storici clienti lo chiamavano ancora poisoner sorcerer magician nella comunità scientifica era considerato dagli anonimi esperti un dispensatore di veleno che magicamente diventava cura a suo piacimento. Con noi, poi, il dottor S voleva sentirsi onnipotente, essere ὁ φαρμᾰκός gli permetteva di esercitare le sue finzioni pardon le sue funzioni mediche senza incorrere in guai legali: era la lingua degli dèi a legittimare la sua azione e la sua azione consisteva per lo più nella prescrizione gratuita di veleno che l’assicurazione sanitaria trasformava in farmaco attraverso il potere illusorio dello stregone. Checkmate.

Per questa suspension of disbelief – sopravvivere ai trimestri significa ottenere un rimborso verso la chiusura del bilancio capitalismo ed etimologia tendono a coincidere nella testimonianza di chi scrive il superstite soffre di superstizione –, l’arco del linguaggio aveva un potere ridotto rispetto agli effetti a lungo termine di un farmaco (ὁ φαρμᾰκός suona più come il nome di un personaggio di Gomorra che la persona destinataria di un rito greco) e parlare con chi si nutre quotidianamente di patologie immaginarie non ha molto senso secondo il dottor S il veleno è un ottimo farmaco se il paziente non muore (!) la sospensione del piacere muta di nuovo segno per un altro giorno torna a essere realtà forma veleno.

Riprendiamo, la seduta non può durare più di 55 minuti altrimenti non lo so cosa potrebbe succedere al minuto 56 non hai mai parlato con il dottor S di cosa succede al minuto 56 il tempo si è già interrotto da almeno un minuto S prosegue nelle vesti di dottor S con una variante linguistica di AC88 parla per altri 55 minuti finge di non essere mai stato S con AC88 non c’era bisogno di esseri umani in questo racconto sei un algoritmo di finzioni le variabili a tua disposizione sono queste lettere come ogni martedì il dottor S, per legge e dovere professionale (publish or perish), non può che prendere atto delle funzioni lineari che abitano questi testi, esplicitarne i pattern linguistici e i nuclei ricorrenti, porre qualche domanda, ricordarmi che l’ordine degli eventi non è rilevante riconoscersi in queste combinazioni semplici senza ripetizione, siamo tutti l’esito di un’operazione fattoriale.

Appunto, le finzioni: le cicatrici cheloidi, l’ipotrofia della gamba sinistra, il disturbo dell’umore, la cementoplastica nella testa del femore è davvero indispensabile il male oscuro che scorre nei tuoi nervi per giustificare la prescrizione l’ordine l’assunzione di un rimedio che cancelli l’ambiguità narrativa dei nostri incontri (il veleno o il farmaco, cosa desideri essere in questo testo, prima della conclusione devi deciderti a scegliere, il tuo tempo sta per scadere).

Lunedì 14 ottobre 2013 prima che ML82 ingoiasse le ultime consonanti intinte di sperma e sangue avevi guardato con sospetto la geometria sociale dei tuoi compagni di corso: terapia significa guarire talvolta curare è quasi assistere all’estenuante ripetitività di questi meeting settimanali chi vuole liberarsi dalla mente è pregato di uscire, dalla porta di ingresso si esce solamente in un sacchetto di plastica nero. Nessuno però voleva davvero guarire la sintassi era il vero problema la nostra mente non era affatto lucida in questi speed date volevamo essere malati, condividere con degli estranei i traumi del passato, produrre nuove bugie scriverne diventare le storie degli altri, mangiare pillole e pancake con un po’ di sciroppo d’acero, senza sorveglianza.

Al terzo stadio della malattia la tossicodipendenza era l’unica soluzione a portata di mano. Per svincolarti dai principî naturali della sintassi (svegliarsi, sopravvivere, andare a dormire, riprendere a svegliarti a sopravvivere a dormire, ripetersi in questa scala di valori dall’uno al dieci) dovevi richiedere ogni due settimane il modulo K73 (l’application va compilata entro la fine del mese in ogni sua parte pena la perdita dei benefit dell’assicurazione sanitaria, ripeteva ogni volta CC86 ai giovani clienti prima di testare la durata dei loro corpi), ritirare la prescrizione medica al banco dei pegni per l’acquisto dell’ultimo veleno non testato presso un CVS in centro, e la diagnosi improvvisamente diventava vera (almeno di questo ne potevi parlare con ML82, di scriverne non se ne parla mi raccomando avevi firmato un nondisclosure agreement con il dottor S al momento del ricovero ti avevano assegnato la suite numero 3-4-7 era il centro delle nostre discussioni).

In fin dei conti non era così importante imparare a distinguere il bene dal male secondo HW le storie sono racconti di finzioni (history would be an excellent thing if only it were true); per questo era sufficiente pagare un ticket, attendere il tuo turno, fingere di essere AC88 nello studio del secondo piano a Quarry Road potevi continuare a inseguire le istruzioni del dottor S

[sdraiarsi chiudere gli occhi contare alla rovescia fino allo zero toccare tre volte il palmo della mano con l’indice della mano sinistra rilassati cosa senti mi sento alle soglie di un lago svizzero l’acqua è gelida lasciati trasportare dalla corrente in mezzo al lago prova a galleggiare fai una pausa va bene intorno al lago la natura morta è ferma sembra che voglia esplodere tra gli abeti rossi di un tardo autunno californiano il vento cigola nella finestra semiautomatica dello studio fa caldo adesso l’AC system è orientato sugli anni prima della malattia esistono questi anni dottore questi corpi malati quando iniziano a sentirsi malati gli anni biologici non coincidono con gli anni della coscienza si sottraggono alle onde del lago rimbalzano sulla superficie del corpo trovano uno spazio aperto gli occhi intanto si riposano i nervi periferici i palpiti del cuore rallentano fino a raggiungere il grado zero del linguaggio dottore non riesco più a parlare del dolore c’è qualcosa che mi blocca all’altezza del ginocchio destro l’acqua è sempre più fredda cosa senti alle soglie di un lago svizzero mi sento senza carne]

cosa rimane oggi una volta che chiudi gli occhi ti svegli senza carne non sei più te stesso quando insegui le istruzioni del dottor S ti accorgi che la terapia sta funzionando (secchezza della bocca, ipersensibilità ritardata, costipazione, affaticamento, rigidità muscolare, nebbia cognitiva, goffaggine, scarsa qualità del sonno, alterazioni nella eiaculazione, sudorazione eccessiva, vertigini). Alla fine il farmaco è un veleno narrativo che alimenta ogni giorno questo desiderio allontana il tuo corpo in un uno spazio privato la mente è in grado di vivere senza carne la sospensione del dolore alimenta la tua mente sposta questo corpo dentro un lago svizzero puoi ritornarci ogni giorno quando il veleno ricomincia ad avere gli effetti di un farmaco.

Sei da solo, vai in camera. ML ha smesso di aspettarti dalle 19 di lunedì 14 ottobre 2013 amici colleghi medici infermieri non hanno più avuto sue notizie. I genitori non avevano aderito al pacchetto premium di Whatchme(n) per colpa del mutuo di una deadline mancata non potevano più permettersi di stare dietro ai capricci di ML82; chi siamo noi per giudicarli entrambi avevano deciso di vivere all’oscuro tra le 9 e le 10 vivevano certamente peggio in mezzo alle ondate di messaggi vocali che occupavano le loro giornate tra le 14 e le 15 la comunicazione diventava un’ingerente attesa di notifiche sul telefono non volevano più avere a che fare con ML (i copyrights impediscono la condivisione via email di allegati, questi e altri materiali saranno disponibili per 20 dollari in più al mese dopo la rescissione bilaterale del contratto).

Ma è davvero meglio vivere senza collegamenti esterni avevamo vissuto una vita intera prima di una certa soglia quando essere irraggiungibili era la norma morire senza dirette sui social cosa comporta la perdita di un figlio anche se per te AC88 era quasi uno sconosciuto aveva colpito tutti la morte aveva visto morire ML82 di fronte ai nostri occhi avevamo capito finalmente cosa vuol dire morire senza l’intervento dei paramedici.

Nessuno ha capito perché ML sia riuscita a scegliere di smettere. Un giorno ML era rannicchiata su una sedia in legno c’erano due consonanti legate tra loro da una data di nascita. Il suo racconto era ambientato in Michigan, nel 1997 ML aveva preferito smettere di cercare IT64 nel proprio racconto non poteva più continuare a fingere di essere madre figlia moglie dottoranda amica; nemmeno in bagno riusciva a fingere con te era finalmente riuscita a finire il suo racconto. Ma perché ML voleva smettere di esistere: le malelingue parlano male pure dei morti dicono le peggio cose i vivi desiderano essere morti non potendo essere almeno vivi come i morti trasformano il desiderio in ossessione diventano dei mostri questi corpi ancora vivi sembrano quasi morti quando scelgono di continuare a vivere o morire è un gioco di suoni questa distanza sintattica è ciò che separa i vivi dai morti. Non è colpa nostra se i farmaci sono velenosi.

Foto di David da Pixabay

Mots-clés__Silenzio

0

 

Silenzio
di Carla Burdese

Ernesto Cortázar, Beethoven’s Silence -> play

___

___

Pietro Pancamo, Filosofia, dall’antologia di autori vari Senza tema! Poesie coraggiosamente atematiche (Edizioni Simple, Macerata, 2022, p. 62)
Parole e frasi sono gli intercalari del silenzio

che smette, ogni tanto,di pronunciare il vuoto.Allora qualche indizio di materiadeforma l’aria,descrivendo le pause del nullaprima che il silenziosi richiuda.(Le mani s’infrangonocontro un gesto incompiuto)

___

[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

Canella : Policastro = Io cerco gli occhi del leone : Suite depressiva

0

Io cerco gli occhi dei leoni quando Gilda scrive

di Leonardo Canella

 

1.
Gilda Policastro è per me l’estate del 2021 e il caldo che ci avevo addosso. Con i leoni sulla spiaggia. E il caldo che ci avevo addosso che i leoni c’avevano fari negli occhi. Sulla spiaggia. Nel buio. No, non fari di auto sulla linea di costa, ma leoni coi fari negli occhi. Sulle spiagge della Tunisia. E il caldo che c’avevo addosso, nell’estate del 2021.

2.
Il 2021 è un romanzo di Gilda, La parte di Malvasia (La Nave di Teseo) con l’estate addosso e gli occhi dei leoni. Tipo mille scosse nel testo. Piccole. Pupille lucenti nel buio. Io nel 2021 ho cercato gli occhi dei leoni in La parte di Malvasia (un romanzo!). Che c’avevo il caldo addosso. D’estate. E c’erano pochi leoni nel buio.

3.
Io sento il ruggito del leone quando un libro mi piace. E anche il rumore del vento. In La Distinzione c’è il ruggito del leone. E il vento. Il ruggito del leone ti sta addosso e ti tocca i sensi. a) Udito, udite; b) gusto-fame; c) olfatto (sentire le cose); d) Vista (con camera); e) Con-tatto, ecco cinque sezioni del libro su cui ti consiglio di puntare. La mia generazione ha il ruggito del leone addosso, Giovenale, Inglese, Zaffarano, Morresi, Canella. Gilda è più giovane ma sente addosso il ruggito del leone anche lei.

4.
Prima de La Distinzione c’è stato per me un video (su Instagram). Pochi secondi. Io spalmato sul divano, Gilda brucia nella fiamma dei pixel in un video su Instagram, rossa gialla viola (e un po’ di verde). È lei. Gilda si toglie cose di dosso. Gilda si alleggerisce e cuoce il suo corpo alla fiamma dei pixel rossa gialla viola (e un po’ di verde). Secondo me in quel momento anche le pupille dei leoni stanno guardando, IO LO SO! Pochi secondi. Tutto è denso (ed io sento di nuovo il caldo addosso e il ruggito del leone). Forse un video ruggisce più della letteratura.

5.
La Distinzione arriva nel 2023, ha densità (e non è un romanzo). Sono pezzi fluttuanti nel bianco della pagina. Il bianco è uno dei protagonisti. Non c’è Gilda che si spoglia alla fiamma dei pixel rossa gialla viola (e un po’ di verde). Però Gilda si spoglia lo stesso. Gilda è densa e breve. Ed è nuda, e questo mi piace (le pupille dei leoni sono dilatate poco lontano, nel buio). Gilda è BREVE e i leoni sono molti. Gilda ruggisce.

6.
A p.71 trovi Suite depressiva. Per me è la parte più appetitosa. Hai un’idea di Gilda, ho pensato. E a Gilda dico: dai un’occhiata a Canella, quello delle Nughette. E sorridi. Leggi e sorridi. Ma nel libro c’è anche altro: la bellezza della fragilità.

7.
In La Distinzione Gilda è aggiornatissima. Gilda profe di letteratura contemporanea. Senti che tutto è al suo posto, tutto è perfetto. Gilda è sul pezzo, trasuda l’aria del momento e succhia dalle radici giuste. E quando navighi in rete vedi che Gilda è promoter di se stessa.  Ci sa fare, e questo mi piace. Tutte le avanguardie sono comunicazione. Anche. E quando questo tipo di letteratura comunica dà il suo meglio perché c’ha la performance scritta nel suo DNA.

Fine.

 

***

 

Da “Suite depressiva”

di Gilda Policastro

(un estratto da La distinzione, Perrone 2023)

 

 

nel senso comune la persona depressa è ritenuta affetta da una sorta di disturbo di percezione, una tendenza ad accentuare gli aspetti negativi di qualunque circostanza a scapito di una sua più equilibrata interpretazione

i sintomi della depressione sono principlamente due. Uno è l’umore depresso per la maggior parte della giornata, per un periodo di tempo congruo, almeno due settimane. L’altro è la perdinta degli interessi, cioè le cose che gino a oggi ho amato, mi hanno rappresentato diventano per me piatte, grigie, senza spessore

in Italia la depressione colpisce circa undici milioni di persone, il 20 per cento della popolazione, con una incidenza di quattro volte la media europea

la persona depressa ha dubbi su sé stessa, gli altri, il mondo esterno e sul futuro

crisi di pianto al mattino

ansia la sera

 

 

Lui è depresso
è depresso perché il film è andato male
ma non so se lo sanno, cos’è la depressione
non so se lo so io
può essere che sia quella cosa lì
ma non credo si possa dire depresso
uno che ha un problema specifico
non prende i farmaci, ad esempio
forse il padre avrebbe dovuto visitarlo
forse il depresso è uno che non ha un padre medico
all’occorrenza, insomma io non ce la vedo tanto
la depressione in un soggetto così
capito, che ha, tipo,
un problema specifico, il film è andato male
e lui ha telefonato, pensa
20 volte al produttore, che io, depressa o meno
alla terza avrei mollato
una sera l’ho chiamato
volevo ammazzarmi
lui ha detto
vedi, ci saremo sempre,
ci saremo l’uno per l’altra,
anche tu,
se avessi detto io
che volevo ammazzarmi
etc.
credo che invece gli avrei dato un’accettata
sono molto tribale io,
lui sarà pure depresso
ma se lo vedo lo ammazzo
così, senza pensarci

 

 

La depressione era un diritto
che ti conquistavi con la sfiga materiale
solo se eri pezzente terminale
avevi diritto. Non eri depresso
se ti alzavi dal letto
questo lo sostenevano anche i medici
che potevi svolgere comunque le attività diurne
se quell’umore un po’ grigino non era,
ribadivano i medici,
invalidante. Avevi diritto ad altre malattie
poteva in effetti la depressione accompagnarsi
o derivare da quelle: la ragazza era morta
di anoressia, ma non era depressa. O dopo
dopo l’anoressia, soprattutto se ne muori,
può pure darsi che prima,
prima tu fossi un po’ depressa. Ma più frequentemente
era un effetto, la depressione:
prima non mangiavi e poi
gli zuccheri non andavano al cervello
non facevi più niente
e la serotonina scompariva
come le forme dei maglioni e dei jeans
eri anoressica e dopo
dopo depressa, per forza. Poi c’era GM
che andava in analisi e leggeva Hillman
e gli avevano spiegato che la depressione
era come la morte. Quando muori
vai sotterra e quando sei depresso
ti senti giù
Come ti senti?
A terra.

 

 

I depressi non escono di casa, come fanno col Simply
chi ci va. Esiste il servizio a domicilio
ma già si spendono un fottìo di soldi in medicine
non lo so se gli conviene,
la spesa domiciliare. E poi comunque
se n-o-n a-l-z-a-r-s-i da letto è proprio
non alzarsi, letterale, come fanno
ad andare alla porta, chi gli apre
a quelli del Simply
agli omini
che vanno dai depressi coi sacchetti
le casse d’acque. Poi ci sono quelli
che non sono depressi ma euforici
e all’improvviso vanno ad ammazzarsi
però non riesce sempre, anzi, non riesce
mai a quelli che ci provano
e la volta successiva di nuovo tengono banco
ti raccontano di quando vivevano a Londra
che facevano i magazzinieri e poi i dj
Non si scherza sui depressi?
Mica sono io che scherzo
è chi li fa così, da un giorno all’altro
che ha proprio giocato sleale,
alla faccia dello scherzo. Senza motivo,
è quella la verità. Se uno il motivo ce l’ha
non è depresso: è a lutto
è sfigato
è povero
è solo. Ma se il motivo non c’è,
ci hanno scritto dei libri
Gonzalo ammazza sua madre
o non si capisce bene ma Gadda lo chiama
il male oscuro, forse copiava Berto
o era Berto che lo aveva preso da lì
(controllare)
Insomma, i depressi
I depressi sono quelli che non si alzano da letto
abbiamo detto, e che non c’è una causa
apparente perché stiano male. Oppure potrebbe esserci
ma comunque quella del letto è indispensabile
perché uno che sta bene, che vive all’aria aperta
stringe mani, beve Campari
mi dici come fai a trattarlo da depresso?
Già

 

[…]

 

Ogni tanto mi telefona un depresso
e mi chiede se per caso posso trovargli un lavoro
anche se non è tanto sicuro di voler lavorare
che poi perde la pensione. Comunque io
che lavoro ti posso trovare,
mi dispiace, non me ne vengono in mente:
fammici pensare,
richiamami
Domani?
Eh domani non lo so, non so se
stanotte mi vengono in mente dei lavori
fammici pensare qualche giorno. Sabato,
ti chiamo sabato. Io poi quel sabato non rispondo
perché ci voglio pensare ancora o forse
perché non ci voglio pensare più
a che lavoro posso trovargli io,
che un lavoro non ce l’ho mai avuto in vita mia
e nemmeno l’ho voluto cercare
a uno che pure lui non è tanto sicuro
di voler lavorare. Finisce che mi richiama
quell’altro sabato ancora, si sarà detto
avrò capito male, era questo sabato qua,
che dovevo chiamare
questa non me lo trova più sto lavoro, dioc***
Una sera che non gli rispondevo si è buttato nel fiume
o almeno così ha detto, perché poi sti depressi sono tutti così
che ti devono colpevolizzare. Ma come nel fiume, ma che c***
E niente, non sapevo cosa fare
Ma hai chiamato qualcuno?
Sì, ho chiamato il 118
Ah ma allora non volevi proprio…
Sì che volevo, ma visto che non c’ero riuscito
cosa stavo a fare lì, nel fiume, mezzo morto
E ti hanno soccorso, ti sei salv… ok.

Una lettera di Biagio Cepollaro su Sonetti e specchi a Orfeo di Luciano Mazziotta

0

di Biagio Cepollaro

Caro Luciano,

finalmente è arrivato il momento di incontrare il tuo libro. Bisognava attendere il momento giusto. Un libro da leggere si va a collocare nelle pieghe dei giorni di una vita (sempre imprevedibili) e occorre trovare la piega giusta, l’intervallo tra una piega e un’altra. Qualche considerazione sul tuo Sonetti e specchi a Orfeo da R. M. Rilke (Valigie Rosse 2023, euro 13).

 

Da subito colpito per l’operazione che una volta si sarebbe detta “sperimentale” ad indicare una modalità non usuale di intendere il testo poetico. E questa sperimentazione iperletteraria operata nel corpo – è il caso di dire – di un poeta ormai classico e “poetico” per eccellenza, ai limiti dell’edulcorato, come Rilke. Il poeta dello schermo. Operazione di ecfrasi da scrittura a scrittura, ma anche di amplificazione in senso retorico, di gemmazione e partenogenesi in senso biologico e soprattutto documento apocalittico. Sperimentazione: la scrittura non origina dalla narrazione dell’io né dalla sua decostruzione ma da un’altra scrittura che opera per distruzione dei contorni e dei contesti, simbolisticamente. La pratica simbolista è scontornare lasciando la polisemia dell’elemento scontornato.

Apocalissi di che? Apocalisse come Disgregazione e Ritorno all’utero (della scrittura, perduto il volto della madre e perduto anche il Padre)

Iperletteratura per annidamento, ricerca di protezione per poter proliferare ma senza uscire, annidandosi, incistandosi. Si intuisce il crollo e la via di salvezza, il rifugiarsi dentro la grotta del passato, prima della nascita. Strategia di evitamento della frontalità della scrittura e dissipazione del referente per annebbiamento, sviamento, quasi gaslighting (presente già nel modello) nei confronti del lettore e del primo lettore, di sé stesso.

Della possibilità per la scrittura di uscire fuori verso il mondo, di riprendersi la sua salute che è la nominazione, il lavoro allegorico che intrecci il dettaglio con la storia condivisa. Decostruzione invece e detournement: deriva di frammenti di senso galleggianti dopo il venir meno di ogni struttura abitabile. Simulazione della logica: cause e conseguenze, paragoni e sentenze inutilizzabili, non orientanti, bussola perduta. Continuo rimescolio delle carte. Attualizzazione e arcaismo: evitamento e salto della coordinata temporale, vita intrauterina dopo il “collasso della storia”. Scrittura della crisi che diventa crisi della scrittura (e della funzione autoriale) senza mettere piede nel mondo, intollerabile, letteralmente impossibile. Si spera fase transitoria, transito evolutivo, passaggio della metamorfosi. E per sua natura la precarietà dell’esperimento lascia presagire altri successivi e indipendenti consolidamenti.

 

Un abbraccio, Biagio

 

Un’estate con Manzoni #1 — Il Male

0
David Hockney, "A Bigger Wave", 1989

David Hockney, “A Bigger Wave”, 1989

 

[Comincia oggi Un’estate con Manzoni, una serie di cinque puntate a cura di Marco Viscardi, ogni giovedì di agosto, concepite come delle immersioni in brani scelti delle opere di A.M. e già idealmente anticipate dalla riflessione di Giulia Delogu apparsa qualche giorno fa. Leggere, raccontare, commentare: il piacere puro della letteratura. Buone letture, ot].

di Marco Viscardi

Fermo e Lucia, III, 3: Il male

Lucia è ancora nel castello dell’innominato, ma il pericolo è scampato. Quello che è stato un terribile assassino, un eroe del male, ha iniziato il suo percorso di riconciliazione col bene. L’interiorità dell’uomo senza nome è in tumulto, ma anche l’anima di Lucia è ancora inquieta. Leggiamo il brano:

Ma quantunque per gli orrendi disagj del giorno e della notte antecedente il suo corpo avesse bisogno di quiete, pure Lucia non dormì, né cercò di dormire, e il riposo non consistette in altro che nella facoltà di trattenersi coi suoi pensieri senza quel battito continuo, senza sussulti, senza terrore, non però con giocondità.

V’ha dei mali e dei pericoli ai quali succede la gioja in chi gli ha sofferti o veduti da presso: tali sono, le burrasche di mare, gli stenti e i rischi della guerra, la rabbia di Scilla, e i sassi dei Ciclopi, quelle cose di cui Enea disse benissimo: forsan et haec olim meminisse iuvabit, e che il Caro tradusse un po’ lunghettamente: “E verrà tempo / Un dì, che tante e così rie venture / Non che altro, vi saran dolce ricordo. Il cuore si rallegra doppiamente nel paragone d’una quiete presente con una angoscia passata, le immagini della quale sono grandi, semplici, forti, e miste del ricordo di una certa fortezza.

Ma v’ha un’altra specie di mali e di pericoli, i quali dopo avere orribilmente tormentato con la presenza, restano nojosi anche nella memoria: quei mali e quei pericoli nei quali vi si è rivelato un grado ignorato di perversità umana, aumento di scienza molto tristo: nei quali si è conosciuta in sè una suscettibilità di profondo ed amaro patire, che diventa esperienza, che porta ad osservare, a distinguere in tutti gli oggetti, in tutti i casi ciò che potrebbero avere di penoso, e si associa così a tutte le idee: quei mali e quei pericoli, nei quali non v’è stato nessuno splendido esercizio di attività morale, che destano una pietà senza maraviglia, che non si possono sentire a rammemorare senza ribrezzo, e senza vergogna, persino da chi vi si è trovato e n’è uscito innocente; e i mali di Lucia erano di questa seconda specie.

Ora rileggiamolo spezzandolo:

Ma quantunque per gli orrendi disagj del giorno e della notte antecedente il suo corpo avesse bisogno di quiete, pure Lucia non dormì, né cercò di dormire, e il riposo non consistette in altro che nella facoltà di trattenersi coi suoi pensieri senza quel battito continuo, senza sussulti, senza terrore, non però con giocondità.

Qui finisce la parte, per così dire, narrativa del brano, che si trova nel terzo capitolo della parte terza del Fermo e Lucia. La protagonista, Lucia Mondella (che ha cambiato nome in corso d’opera, nelle prime pagine era una ben più rustica Lucia Zarella) è scampata alla prigionia nel castello dell’innominato, che l’aveva rapita su commissione di don Rodrigo.

L’innominato, in questa prima versione, si chiama ancora conte del Sagrato. Il soprannome gli deriva dal ricordo del primo atto di sangue commesso nello spazio sacro antistante ad una chiesa. Nel Fermo, il segno dell’infamia resta impresso sul personaggio anche dopo l’incontro con Dio e la conversione. In ogni suo gesto resta come un’ombra, il ricordo della radice di ogni male. Ma come per il cristiano, il peccato originale può essere perdonato e purificato, così nei Promessi sposi, il Conte diventa l’innominato, l’uomo senza nome: il suo anonimato è possibilità di redenzione e libertà.

Ora il conte ha già incontrato il vescovo santo, ovvero il cardinale Federigo Borromeo che si è preoccupato di sapere e ha chiesto esplicitamente se a fanciulla è rimasta intatta, ovvero se è ancora vergine o se il suo corpo è stato oltraggiato. Una domanda troppo intima per l’edizione definitiva del romanzo, e quindi cancellata.

Torniamo al testo:

V’ha dei mali e dei pericoli ai quali succede la gioja in chi gli ha sofferti o veduti da presso: tali sono, le burrasche di mare, gli stenti e i rischi della guerra, la rabbia di Scilla, e i sassi dei Ciclopi, quelle cose di cui Enea disse benissimo: forsan et haec olim meminisse iuvabit, e che il Caro tradusse un po’ lunghettamente: “E verrà tempo / Un dì, che tante e così rie venture / Non che altro, vi saran dolce ricordo. Il cuore si rallegra doppiamente nel paragone d’una quiete presente con una angoscia passata, le immagini della quale sono grandi, semplici, forti, e miste del ricordo di una certa fortezza.

All’improvviso le cose si mettono a tremare, c’è del jazz nell’aria. Manzoni sembra impazzito: fino a un momento fa eravamo nella stanza buia che, appena una notte prima, era di fatto una cella; e ora parliamo di cose mitologiche, di ciclopi e il narratore si concede pure una citazione latina che, se non conosci le lingue morte, sei spacciato.

Qui Manzoni si comporta come Sterne: l’autore di uno dei capolavori della letteratura settecentesca, il Life and Opinions of Tristram Shandy, Gentlement, che sin dal titolo aveva destabilizzato i lettori anglofoni e poi, attraverso la traduzione francese letta e amata anche da Manzoni, quelli di tutta Europa. Non più vita e avventure, ma vita e opinioni: non percorsi per le strade del grande mondo, ma viaggi interiori, dentro il labirinto serpentino dell’anima che sfugge di continuo alle tassonomie, che si ribella alla misurazione razionale del tempo e dello spazio  vivendo dentro una propria temporalità, una propria spazialità.

Il ritmo narrativo di Sterne è aperto, nel Tristram l’autore fa continue digressioni che sfociano su altre digressioni che a loro volta digrediscono… e qui, appunto, Manzoni compie una digressione che ha quasi l’incipit di una massima rassicurante. V’ha dei mali…: ci sono dei dolori, dei fastidi che una volta superati ci fanno stare meglio.

Il paragone fra le piccole sciagure quotidiane e il ricordo dei ciclopi è straniante. L’antico non è più convocato sulla pagina per esaltare le imprese dei moderni, ma per relativizzarle. Le parole di Enea si possono tradurre come: “un giorno il ricordo di queste sciagure ci gioverà”, e chissà se Manzoni ricordava che quello stesso verso era stato citato da Eleonora Pimentel Fonseca nel momento di salire al patibolo, dopo la gloriosa esperienza della rivoluzione del ’99, come testimonia il Saggio storico sulla Rivoluzione Napoletana di quel Vincenzo Cuoco, intellettuale centrale nei decenni dell’Italia napoleonica, che Manzoni incontrò a Milano quando era esule lì per sfuggire alla prima Restaurazione borbonica.

Il ricordo di un eroe amatissimo come Enea è grottesco e la parola autentica di Virgilio è depotenziata dalla traduzione vezzosa di Annibal Caro. L’antico non è più un ideale a cui mirare al di sopra del caos dei moderni, non ci sono più i giganti sulle cui spalle faticosamente salire: l’antico è disintegrato, scoronato, gettato nella vita quotidiana. Il verso di Virgilio/Caro serve a dire una banalità: ci sono guai che non ti toccano nel profondo e, quando sono passati, non ti lasciano che una piccola soddisfazione, un dolce ricordo destinato in fondo ad essere dimenticato. Poca roba, ma qui è l’integrità di Lucia ad essere stata insidiata.

Ma v’ha un’altra specie di mali e di pericoli, i quali dopo avere orribilmente tormentato con la presenza, restano nojosi anche nella memoria: quei mali e quei pericoli nei quali vi si è rivelato un grado ignorato di perversità umana, aumento di scienza molto tristo: nei quali si è conosciuta in sè una suscettibilità di profondo ed amaro patire, che diventa esperienza, che porta ad osservare, a distinguere in tutti gli oggetti, in tutti i casi ciò che potrebbero avere di penoso, e si associa così a tutte le idee: quei mali e quei pericoli, nei quali non v’è stato nessuno splendido esercizio di attività morale, che destano una pietà senza maraviglia, che non si possono sentire a rammemorare senza ribrezzo, e senza vergogna, persino da chi vi si è trovato e n’è uscito innocente; e i mali di Lucia erano di questa seconda specie.

Dopo averci portato in giro come un romanziere del Settecento, Manzoni torna a guardare il cuore nero delle cose. La simmetria sintattica è perfetta: V’ha dei mali…. Ma v’ha un’altra specie di mali e di pericoli. Qui le cose si complicano, qui i fastidi sono diventati pericoli. Il pericolo è un dolore concreto, fisico, che non ha l’astrattezza del semplice fastidio e non accetta di farsi costringere dall’allegoria mitologica. Il pericolo riguarda sempre noi, la nostra fragilità. Sono una creatura: così Lucia si era presentata all’innominato: una cosa creata, una persona che porta dentro di sé l’immagine del suo Creatore, ma, allo stesso tempo, anche tutta la fragilità dell’umano.

Davanti a questa creatura è svelata la realtà nella sua essenza più squallida. Il disordine morale è illimitato, corruttore, impone una collusione anche se non si vorrebbe. C’è un male di cui si partecipa anche semplicemente subendolo, un male che rapisce l’innocenza di chi guarda. Ai Ciclopi, l’eroe epico può sfuggire grazie alla sua capacità di distinguere. L’uomo e il mostro restano indipendenti e divisi. Alle deformazioni dell’anima, ciò è impossibile, soprattutto quando rivelano una crisi irrisolvibile perché connaturata all’essenza dell’uomo. Senza inizio e senza fine. E offusca persino gli occhi di Lucia, che letteralmente porta luce nelle vicende del romanzo. Lucia è l’unica a guardare negli occhi il male profondo, quello connaturato nell’uomo. A Renzo tocca il male storico: carestia, rivolta, pestilenza. Dolori atroci, ma dolori di tutti, come la strage degli innocenti, dei bambini portati via dal morbo. Il tremendo episodio della madre di Cecilia che, scrostato della retorica che gli ha buttato addosso un secolo e mezzo di conformismo, è una pagina sublime e inquieta del cristiano ai limiti della rivolta contro Dio e il suo ordine nascosto.

Per capire la grandezza di Manzoni, proviamo a confrontarlo con uno scrittore suo contemporaneo: prendiamo una pagina di Domenico Guerrazzi, scrittore di idee repubblicane, e democratiche che avrebbe avuto un ruolo importante nei fatti del 1848 in Toscana. L’assedio di Firenze, pubblicato a Parigi nel 1836, racconta della fine dell’esperienza repubblicana fiorentina del 1530 ed il ritorno dei Medici al potere, con l’appoggio del Pontefice e delle truppe imperiali. Guerrazzi racconta del traditore Giovanbattista da Recanati, al soldo degli stranieri, che insidia Lucrezia fino alla tentata violenza. La donna preferisce la morte al disonore e si suicida gettandosi in Arno. La scena è descritta così:

Ah! Signori, il pianto mi toglie facoltà di raccontarvi partitamente com’ella, spiccato un salto, si precipitasse nel fiume; come vedessimo ora apparire su le acque, ora scomparire sotto, la santissima donna, e tanta era in lei la voglia di presporre l’onestà alla vita, che quante volte l’impeto dei vortici la respinse a galla, tante ella mettendosi le mani sul capo si attuffava nel fondo. 

La Lucrezia di Guerrazzi è trasfigurata: non è solo una donna, ma una santissima donna. È andata oltre l’umano. Ma è difficile leggere questa pagina con ammirazione: tutto pare forzato, melodrammatico, falso fino al ridicolo. Indimenticabile la torsione che il corpo di Lucrezia fa per rigettarsi da sola in acqua quando l’impeto dei vortici la porta a galla. Non solo si è gettata a fiume, ma una volta in acqua si spinge la testa con le mani per immergerla meglio nei flussi.

Una stupidaggine! Impossibile dal punto di vista fisico e neurologico, se è vero che non possiamo proibirci di respirare! Una stupidaggine che ha senso nel registro e nella retorica del melodramma, dove la contrapposizione fra il bene e il male è assoluta, dove i gesti devono essere eclatanti, plateali. Ma Lucrezia non è una donna: è un insieme di parole, mentre il terrore di Lucia è vero, sentito, intimo. Attraverso i suoi occhi, il lettore guarda il male, le mostruosità nate da una sopraffazione della morale.

Lei ha visto il male negli occhi e il male, una volta guardato, non ci lascia liberi. Offusca lo sguardo, rende opaca la bellezza delle cose. Il male subìto si può perdonare, ma non dimenticare.

Acqua (sillabario della terra # 7)

0

di Giacomo Sartori

Durante le piogge il suolo si imbeve d’acqua, e poi la trattiene nei suoi pori più fini, comportandosi come un serbatoio. Le radici delle piante la succhiano mano a mano dai tubicini per le loro necessità, compresa quella di trasportare fino alle foglie gli elementi nutritivi. Perché l’acqua della terra contiene il cibo minerale di cui si nutrono i vegetali, e si prende carico della consegna a domicilio. Quindi il suo primo servizio è quello, incamerare una riserva di acqua arricchita di elementi nei suoi capillari e renderla disponibile quando serve. Alle piante, ma anche a tutti gli altri organismi viventi.

Quando i campi sono tenuti male, come di norma succede nei tempi attuali, nei quali si mira solo agli introiti immediati, invece di infiltrarsi nella terra l’acqua scorre in superficie, asportando gli strati superiori più fertili, e andando a ingrossare in modo improvviso i corsi d’acqua. Basta una pendenza da niente, nemmeno visibile, non bisogna immaginarsi erte impegnative. Pure lì i rivoli scivolano a perdifiato verso i torrenti e i fiumi, ingrossando piene improvvise che possono risultare catastrofiche, soprattutto con le piogge concentrate e molto forti che diventano ora più frequenti. Quindi la terra serve anche a fare sì che l’acqua arrivi ai corsi d’acqua con disciplinata lentezza e diluita nel tempo, per evitare le alluvioni.

L’acqua è poi restituita all’atmosfera dai suoli, per evaporazione, e dalle foglie delle piante, per traspirazione. Viene insomma rimandata al mittente. Quindi la terra assorbe l’acqua, la trattiene, la conserva, la cede all’aria, la cede alle piante, che a loro volta la liberano nell’aria, dove prima o poi andrà a formare delle nuvole. A seconda del suo stato lo fa più o meno bene. La terra in buone condizioni e con un buon contenuto di sostanza organica assorbe più acqua, ne trattiene di più, la cede più a lungo. Le terre sono insomma al centro del ciclo dell’acqua, e lo influenzano, a seconda della loro forma fisica, che più spesso dipende in primo luogo da cosa le facciamo noi.

È attraverso l’acqua in eccesso, che non può essere trattenuta, che le sostanze nocive dell’agricoltura arrivano alle falde e ai fiumi. La terra può incamerare nelle sue dispense, che non sono mai molto grandi, solo una parte dei concimi chimici. In particolare parlando dell’azoto, l’elemento più importante. Tutto il resto finisce nelle acque di profondità. Ma anche i pesticidi e gli inquinanti che non sono trattenuti dalle sostanze organiche e minerali del suolo se ne vanno via, insozzano altrove. Gli ecotossitologi si felicitano quando la terra può trattenere le sostanze nocive e fare da filtro, così le analisi delle acque dei pozzi e dei fiumi risultano meno minacciose. Non pensano che la contropartita è che resta avvelenata lei.

Troppa acqua fa male alle piante coltivate, se si eccettua il riso. In Italia moltissime pianure, comprese grandi aree della Padana, non erano utilizzabili, perché intrise d’acqua. In tante piane umide le baulature dei campi e le canalette di scolo attorno non erano sufficienti per allontanare l’acqua in eccesso. Nel corso di un paio di secoli, quando ancora non c’erano mezzi meccanici, sono stati fatti allora imponenti lavori per bonificarle con reti di canali. Tante spianate colonizzate dall’attuale agricoltura industriale erano acquitrini e zone impaludate. Ora sono lanciate a duecento all’ora grazie ai canali e alle idrovore che allontanano l’acqua di troppo.

Ma anche coltivare le colline appenniniche e prealpine presupponeva di venire a patti con l’acqua: bisognava impedirle di scorrere in superficie e fare disastri. Gli italiani diventarono quindi veri artisti in materia di raffinate tecniche di sistemazioni dei versanti, che ritroviamo raffigurate in tanti quadri rinascimentali e che erano imitate in tutta Europa. A differenza di molte altre regioni europee con morfologie più dolci e climi meno contrastati, i loro campi andavano difesi e accuditi. L’agricoltura meccanizzata ha spazzato via tutte queste armoniose opere di illuminata cura (regimazione, è il termine tecnico), lasciando che i ruscellamenti isterilissero o devastassero i terreni. È successo in pochissimi anni. Si pensava alle rese, al tutto e subito, a qualsiasi costo, non a salvaguardare la terra, non al futuro.

Il ciclo dell’acqua, come lo chiamiamo noi, si chiude insomma nella terra, che è un sottile straterello da niente. Non è però una pura questione di idraulica, come lascerebbero supporre le frecce arcuate degli schemi degli idrologi. La terra non è un semplice serbatoio con degli imbuti in entrata e dei rubinetti in uscita: tutto dipende in realtà dalle attività dei suoi abitanti, e dalle sue sostanze organiche, che sono legate a questi, e li fanno vivere. I lombrichi in particolare sono fondamentali per costruire gli aggregati del suolo che aumentano la sua capacità di accogliere le piogge e per mettere a punto la rete di canali subverticali che le drenano in profondità. Anche qui c’entra la vita e le complesse interrelazioni che la costituiscono.

Pure le radici delle piante coltivate, come quelle degli alberi, si prolungano del resto in una fittissima rete di ife fungine, le micorrize, delle quali fino a pochi anni or sono non si sapeva nulla. O meglio, non si sospettava nemmeno che esistessero. Queste capillari reti chilometriche sono ben più efficaci nell’estrarre l’acqua e gli elementi, e sono a loro volta abitate da batteri, i quali ospitano virus, e via dicendo. Quindi acqua e vita sono inestricabilmente legate. Per capirci qualcosa nelle nostre teste abbiamo bisogno di separare e compartimentare, affidandoci a distinti specialisti, nella fattispecie gli idrologi e i micologi, ma la terra è groviglio e connessioni e bilanciamenti, continuo divenire. E sintesi.

(fonte dell’immagine: RER, Bologna)

Se le grida non prevedono assonanza

3

di Mariasole Ariot

E l’albero morto non dà riparo, né il grido sollievo
E l’arida pietra non dà suono di acqua

T.S. Eliot

Frédéric Chopin – Nocturne in E minor Op.72 NO.1 (Hart, M.) “

(A duemilacinquecento metri di quota)

Arrivano improvvisi come i morti. La memoria del mentre camminato fino all’alba – e noi ci confondiamo una distanza, la stima di arrivare a un crocifisso: le tue ore che si muovono ansimando, le mie ombre chiaroscuri di un oscuro ribaltato. Ciò che segna e che fa segno: un lampo che fa nuca alla memoria, quando un graffio assottigliato gli somiglia, quando ancora non c’è notte che separi il prima e il dopo, quando il dopo è rimandato per riattendere che spenga, ciò che segna e che fa segno se ad accendere è un incendio imbevuto di ragioni – e si pone la domanda delle ossa inseminate: si risponde con un ghigno, la gioviale stagnazione delle cose.

***

Per nozione di un sapere preparato, le tavole imbandite di ghirlande imbiondite dai capelli che speravi e non avevo, trafficare le posate come uncini per incidere la carne dei festanti: mi affastella una ragione, sragionare fino al punto di un arrivo mai deciso. Si prolungano alle cene rimandate nel cervello, ci si stende orizzontali per portata: la più triste delle cose è festeggiare.

***

Altrove le parole mi diventano cornacchie. Partiti per difetto a scalare un’invasione, quando il mondo si fa mondo per gli astanti, scalatori che non hanno una tormenta e risalgono la cima come mandrie di cavalli a stato brado, e le coppie di animali che si sfregano i due musi, e gli steli l’erba calda che trasuda un temporale, e le pozze ad alta quota si riflettono di nubi: è così che mi separo, e così che mi denudo.

***

Tra le millecinquento alture di persone non c’è che conclusione: borbottano i discorsi del mattino e della sera e della notte e delle vite preparate alla discesa. Loro sentono, loro testano, loro parlano, loro affannano, loro ridono, loro dicono, loro giocano, loro notano, loro tuonano, loro nascono, loro muovono, loro nel loro di una vita quando vita pure a melma non fa male.
Ma distante mi distanzio ad un angolo un po’ retto, mi sorreggo alle sassate: è l’arrivo, l’improvviso affastellarsi di presenze.

***

È così che si conficca nella testa. È così che mi cominciano a brucare. Cede e sgrana e si frantuma e non mantiene il terreno come scena principale: il taglio cesareo del suono a sottosuolo. Dove l’occhio smembrato e semichiuso si riguarda dal guardare ma non può che non vedere: quel continuo mormorare dei bambini delle madri delle epoche vissute, e nessuno che si accorga che la testa si è riempita dalle rupie e dagli assalti. Bucate le pupille confuse con pistilli.
I terrestri in fila indiana continuano a montare, si corteggiano silenzio ad un silenzio: i polmoni medicati hanno case a cui tornare come arvicole che sanno il predatore. Voi avete cento porte chiuse a chiave: a me cade dalla tasca una finestra.

Margini (parte 1)

0

di Alberto Comparini

 

Sono un tossicodipendente: un novenario venuto male, soggetto e oggetto di veleni che provengono da ambienti interni ed esterni, un dipendente statale; sono nudo proprio come tutti gli altri di fronte a una porta scorrevole di ultima generazione (una Dura-Glide™ full-energy automated sliding door, the number one selling automatic sliding door in North America). È ora di entrare.

All’ingresso incroci una signora di mezza età, ha un’espressione vigile, accorata, i denti gialli che scopriva ridendo risaltano lo sguardo umile e cortese di una pelle leggermente olivastra. Porta con orgoglio una doppia fede e una croce al petto, l’abito nero di seconda mano deve essere un segno di lutto la tormentosa stanchezza che accompagna i suoi piccoli passi; sarà sì e no cinque piedi e un pollice distribuiti su novanta pound scarsi di rughe e di ossa, è minuscola più di AM cerca di redimersi per la perdita del figlio.

Vi scambiate alcune espressioni idiomatiche, la signora vuole parlare, ne ha bisogno; tu vorresti praticare la lingua inglese, lei insiste per lo spagnolo, ma più che lo spanglish sfruttate il linguaggio del corpo per raggiungere l’area di accettazione improvvisi senza troppa vergogna un donde esta el camino. Abbozza un sorriso sincero questa donna si segnalava per la voce berciante e per la generosità di cui dava prova presentandosi ogni giorno al lavoro dopo la prematura morte di JP salutava i nuovi pazienti con una stretta di mano hola me llamo MR encantada rimanendo in una zona di confine a tre piedi di distanza.

Goffamente, e con una lieve nota di imbarazzo, accogli l’apertura della signora con una smorfia nascosta tra i solchi della fronte infiammati dall’insufficiente riposo; con calma attendi un cenno d’intesa, un’interferenza lessicale fonetica semantica, magari interverrà qualcuno, un falso amico, non so per ora non si vede nessuno. Pazienti ancora per qualche secondo restate fermi in questa posizione di passaggio non riuscite mica a capirvi con l’aiuto di mani e braccia provate a raccogliere insieme gli ultimi grammi di silenzio. Dopo varie indecisioni linguistiche, una mappa e una brochure della clinica, arriva in tuo soccorso un insperato gesto di resa dall’indice della mano sinistra MR ti mostra una linea continua blu che si distende fino al centro della sala la ringrazi con la coda dell’occhio, buena suerte.

Ti guardi attorno forse sei daltonico dove stai andando in ospedale non sei pronto a descrivere i tuoi sintomi in inglese di solito si utilizza una scala di valori che va dall’uno al dieci; è piuttosto intuitiva non ti preoccupare è solamente una scala di valori che male potrà mai farti, secondo Urban Dictionary it is a scale by which to describe something that in no way involves numbers in any way.

Per i veterani della clinica però non ci sono più scale disponibili to measure to take to eventually become this scale. Alcuni avevano ottenuto un certificato di idoneità sportiva alla fine dei cicli sperimentali, anche se la maggior parte di loro era già morta al momento del check-in; ma poi ci sono gli altri, loro, quegli insopportabili walking dead che inspiegabilmente galleggiano ancora tra i valori oscillanti delle scale mobili provano a ripetere a memoria alcune nevrosi familiari (masturbarsi, bere un cocktail di farmaci, pisciare sangue in bagno, sopravvivere, provare altre terapie, giocare alla play, arrabbiarsi). Sono piuttosto malmostosi scorbutici spesso impotenti questi veterani appoggiati al distributore di medicinali si credono indovini testimoni veggenti a tempo perso si sentono pure superstiti (decidetevi) quando ricordano ai rookie di essere stati parte di una scala di valori back in the days.

La hall è stata concepita come uno spazio espositivo permanente (gli oggetti in esposizione siamo noi, i pazienti); al centro della sala c’è un pianoforte a coda in legno massello, presenta delle grezze con fregi finemente intarsiate a mano in varie essenze di abete e di faggio di rovere e di noce.

Un ragazzo asiatico ne è compulsivamente attratto ne prende subito possesso con le dita della mano prova a limitare la natura contraddittoria dei suoi arti; ci riesce, senza esagerare compie un mezzo miracolo. Sulla targhetta di riconoscimento c’era scritto in stampatello maiuscolo XP89 sembra un paziente della clinica respira male è pallido quasi bianco indossa come gli altri un camice a righe slacciato all’altezza delle vertebre lombari si poteva intravvedere il progressivo incedere della malattia fino alle ossa del cranio.

Sposti il baricentro accanto a una linea gialla. Non hai un timbro distintivo, la camicia a righe è stata stirata da una ragazza coreana tra Birch Street e Oxford Avenue; i capelli sono in ordine (rigorosamente corti prima di FS), petto spalle addominali più che accettabili (non interessavano granché a LV), non si direbbe (nessuno ci crede, trust me) che sei malato rispetto agli altri candidati mantieni una postura corretta dietro questa linea gialla ti senti in equilibrio per una volta provi a tenere sotto controllo il movimento involontario delle mani è intermittente flebile consumato dall’attrito come la voce meccanica degli speaker (number 26, number 27, number 28, number 29, and counting).

Mancano pochi numeri alla diaspora. L’assistente del dottor S controlla sull’iPad la lista degli invitati; ha l’aria perplessa (overbooking, siete troppi) senza gli occhiali da vista vorrebbe essere altrove, fare pilates, lavorare con il suo personal trainer su glutei addominali e gambe, è colpa della social influence se porto le lenti a contatto. Dicevamo,

il rituale viene eseguito secondo le norme codificate dell’ospedale: nome cognome data di nascita criminal record family health history if any assicurazione sanitaria; è un Q&A (il boot camp aveva funzionato, era ora) come ai convegni le chiacchiere i gossip i finti perbenismi dei colleghi scivolano tra le superfici orizzontali della hall i nostri nomi diventano un unico piano inclinato che si deforma lentamente lungo le traiettorie dei singoli reparti (l’azione è centripeta, sei ancora identico a te stesso, non riesci più a uscire da questo cerchio).

Welcome aboard, my name is CC, the Pain Management Center at Stanford offers the most advanced treatment options currently available, in a supportive, compassionate environment. How can I help you today CC è l’ultima assistente del dottor S, i rumor sono i soliti (scopano vuole fare carriera lui lascerà la moglie per lei farebbe di tutto le ha addirittura procurato un lavoro), ma CC non sa che in prima liceo avevi il debito d’inglese con RC, che RC era anche la prof di GC al King, che il King non è il D’Oria, che i D’Oria avevano finanziato l’imperialismo in America, e che in America è prassi chiedere ai pazienti on a scale from one to ten, ten being the most painful, what is your pain level today sei al front desk di una clinica privata a Palo Alto provi a interagire con CC in inglese.

CC avrà circa la tua età, diciamo CC86 for the sake of the argument. Anche lei è una paziente della clinica da anni condividete più di un front desk durante i cicli di terapia hai imparato a conoscere la sua scala di valori dall’uno al dieci; per lei eri un solid eight with an ok personality (nella sua scala privata ciò che conta è la durata dei rapporti but size does matter don’t get me wrong) e per questo ti aveva messo in cima alla lista degli invitati (again, social influence). Era stata più che gentile CC86 dietro la scrivania della clinica si sentiva a suo agio con i pazienti più giovani manifestava un imprecisato desiderio di maternità una laurea in scienze della comunicazione un viso rotondo privo di imperfezioni, and yet non sapresti dire nulla di CC86 anche dopo quattro anni di intimità (le iniezioni nelle braccia, i flaconi arancioni sparsi sul pavimento, l’infertilità maschile appassita nei suoi occhi color pistacchio) CC86 è ancora questo imprecisato desiderio di maternità una laurea in scienze della comunicazione un viso rotondo privo di imperfezioni.

So far so good (not really, in California il mugugno non si sposa particolarmente bene con l’etica dell’impresa), la procedura è standard per acquistare una sigla alfanumerica privata servono innanzitutto alcune firme (la privacy, i papers per la divulgazione dei dati, ecco il tesserino dell’assicurazione, grazie), un contatto di emergenza (EC dove sei finito a Chicago non abbiamo mai giocato a cento), il nominativo del tuo datore di lavoro (ci sono troppe lettere nell’alfabeto qualcuno si potrebbe offendere). Un’ultima domanda prima di chiederti di uscire (your place or mine) perché hai scelto la nostra clinica ci puoi aiutare ad attirare altri clienti se vuoi ricevere le nostre cure devi aderire ad AC88 prendere o lasciare, ti piace questa sigla può essere pericoloso conviverci per quattro anni hai scelto di essere questa malattia si chiama AC88, è lei (è lui) che ti permettono di scrivere un testo di finzione.

(nella sala d’attesa incontri dei doppioni sono come le figurine panini come quando alle elementari si diceva ce l’ho mi manca diventiamo amici come alle elementari i pazienti si salutano senza conoscersi si scambiano le figurine dei medici nei corridoi quasi assomigliano a dei corpi questi occhi vuoti sono umani)

Buongiorno mi chiamo AC88.

Lo ripetevi spesso appena sveglio sdraiato con un deflussore arrotolato intorno al braccio scorgevi gli inservienti messicani sbarazzarsi controvoglia delle ultime carcasse abbandonate nei letti del reparto. A quest’ora volevi confondere i tuoi interlocutori raccontando eventi sconnessi del passato di altre persone (dal letto intercetti delle macchie nere colorate a volte sono scintillanti, non sapevi più distinguere i lineamenti delle ombre, sei solo, privo di ogni strumento ti arrendi al giudizio analitico delle ombre). Nulla di più semplice dottore sono un tossicodipendente piacere, in greco antico τοξικóν significa relativo all’arco (τό τóξον, l’arco), dal 19 settembre 2005 dipendo dalla mia mente.

C’è silenzio al momento delle presentazioni è lunedì 14 ottobre 2013, il parco dei malati immaginari si è arricchito di nuovi dipendenti della mente (tagli sulle braccia sparsi tra le sedie appena occupate rilevi i soliti disturbi alimentari dall’anno scorso sono drasticamente aumentati i livelli inconsistenti di depressione sono visibili tra le lunghe occhiaie e i corpi carichi di notti prive di sonno). Qualche bipolare lo scovi sempre in sala c’è molta più preoccupazione per le matricole che hanno appena firmato il loro primo contratto: sei una lottery pick del PMC@S (a first ballot hall of famer secondo i tuoi advisor), avrai diritto a una qualifying offer dopo il quarto anno potrai diventare restricted free agent; se lo vuoi, un giorno sarai libero. Insomma, τοξικóν non vuol dire niente l’espressione τοξικóν φάρμακον ha più senso tradurla con il veleno dell’arco.

Scusa ma di che cazzo parli. È poco educata ML82, anche lei studia letteratura contemporanea; i suoi interessi di ricerca sono ben evidenziati nella sua biopic sulla pagina del dipartimento di inglese

(number one in the country, for suicide rate, questo però i social media manager non lo scrivono su facebook gli amministrativi twittano solo gli accomplishment tra le minority c’è persino un responsabile della salute mentale; a toxic work environment così si legge nei report trimestrali docenti e studenti vivono indistintamente relazioni promiscue, non importa eventually anche a economia i docenti scopano con gli studenti dopo l’ultima rejection letter si ammazzano; sopravvivere non basta per abbassare il successo dei superstiti, it measures the rate at which people who come to the community either as members or visitors succeed in achieving their purpose for coming),

c’è una bella foto profilo scattata da IT nel marzo del 2009 al Met di New York (IT era del 64 nei racconti di ML82 assomigliava soprattutto a uno scrittore fallito del Michigan con una malcelata passione per le studentesse anoressiche).

ML82 parla tanto i miei pronomi sono she/her anche se a me piace identificarmi come they/them eh ma sei seria si dice I beg your pardon non conosco la costruzione sociale dei generi sessuali a me sono sempre piaciute le ragazze. A questo punto potresti rispondere con disforia di genere you ain’t a quick learner negli Stati Uniti bisogna prestare particolare attenzione alla lingua al linguaggio ai seminari di dottorato non ci salutavamo nemmeno per sbaglio, ora siamo compagni di corso in questa aula protetta dalle barriere antipanico non potevamo evitare di riconoscerci come AC88 e ML82 (la tensione è colpa degli inibitori sessuali ML, non mi chiamare più così, sono nata nel 1982), ciao I don’t like you, guarda che è reciproco, fine.

Finiti i finti convenevoli (do you wanna wear a condom or what) ci spogliamo in mezzo alle lettere e alle date di nascita di una piccola comunità sociale senza genere sesso e nazionalità: siamo un gruppo di tossicodipendenti che cerca di arrivare a martedì 15 ottobre 2013.

ML82 non segue le fila del mio discorso, come dici i tossici hanno gli archi avvelenati di parole al tritolo (sei molto alto anche tu vuoi delle cicatrici nuove mi servono per scrivere, smettila di fare il coglione, ti vedo bene oggi grazie sei gentile, quali farmaci preferisci di solito preferisco stare da solo nella mia stanza non ce la faccio più a stare da solo, se vuoi possiamo tornare a essere due estranei, ti va di fare sesso in bagno). Dicevo, il termine φαρμακός è stato sottinteso nell’uso comune è rimasto τοξικóν, in italiano abbiamo i tossici e i farmaci non sono poi così diversi ML82 e AC88, avete mai letto la farmacia di Platone è un bel testo in greco antico φαρμακός è una parola ambigua può designare veleno e farmaco.

I confini tra verità e finzione sono più sottili degli aghi in questa sala attraversata dalle luci artificiali di University Avenue ci sono guardie giurate armate di tranquillanti. Niente di grave, è quasi ora di pranzo (anche loro dovranno pur mangiare); le pastiglie sono suddivise sul tavolo dei testimoni per forma e colore insieme a una ricca pila di pancake e a dello sciroppo d’acero; in ogni angolo della stanza ci sono due telecamere a circuito chiuso che monitorano nelle ore diurne le scelte alimentari di medici pazienti e infermieri (anche di notte, ma questo non faceva parte dell’accordo televisivo). Si mangia.

Aveva insistito per installarle il Dean uscente (ebreo con passaporto svizzero, insegna letteratura francese, DE era avido di potere) voleva a tutti i costi piacere al grande pubblico (nel caso specifico a CE, una ragazzina del Kansas al secondo anno di dottorato) per mostrare ai parenti delle vittime la morte in streaming dei loro figli. Grazie a una rivolta popolare di studenti e sindacati, e al supporto politico di qualche professore emerito (a chi non piace scoparsi le giovani studentesse impegnate nella lotta di classe), l’offerta formativa era affordable dal 1° agosto 2012 the tuition is generally free for families that earn less than $150,000 in total, with assets in accordance with their earnings:

si può sottoscrivere un abbonamento trimestrale, semestrale o annuale; i costi variano a seconda della qualità delle immagini video (4K, Ultra HD, Full HD, HD) e dei contenuti extra (con o senza audio, i blooper sono a pagamento come i tagli del montaggio, i battibecchi tra paziente e dottore fanno sempre scena per gli spettatori occasionali, una sala trucco più ampia e luminosa sarebbe stata utile per mascherare l’ecchimosi sul collo). Il prezzo finale dipende dallo stato psico-fisico dei corpi; alcuni durano poco, altri più del previsto, ma per i clienti abituali le cellule tumorali sono come gli abbonamenti su YouTube: bastano pochi click al giorno per chiedere ai pazienti di resistere fino all’ultimo del mese, e i genitori possono seguire senza eccessive ansie pubblicità e buffering l’interruzione delle loro vite (per le differite c’è un programma a parte da scegliere al momento della registrazione).

Sul portale della Startup Whatchme(n), inaugurata nel 2010 con un programma pilota che ha lasciato non poche perplessità nella Silicon Valley (ma le dirette streaming avevano milioni di visualizzazioni ogni settimana, iscrivetevi al canale, il primo mese è gratis), si possono leggere le recensioni di questo servizio a pagamento; in inglese sono per lo più positive (gli hater che hanno perso amici fidanzate e parenti non contano), in spagnolo e in italiano invece vengono fuori i soliti stereotipi delle mamme continentali (mio figlio è più bello perché non gli date più attenzioni mancano pochi giorni alla fine lasciatelo vivere ancora un giorno per piacere cosa vi costa mettere un mi piace). E anche qui, neanche a dirlo, la scala di valori va dall’uno al dieci (he is a ten, nice ass I would totally bang that body reminds me of my Stanford instructor, scrive QW95 nella sezione commenti); questa scala misura accuratamente il piacere e il dolore, la vita e la morte, dei figli dei genitori rimangono solo i commenti più idonei (gli altri sono stati oscurati, l’algoritmo ci tiene alle subscription degli utenti più sensibili alla decomposizione dei corpi). I più facoltosi possono comprarsi uno spazio personale privo di ads e pop-up per aiutare gli utenti della piattaforma a vedere i propri figli morire comodamente sdraiati sul divano di casa in uno stato di overdose. What a deal.

Eppure, nonostante le false promesse (you will make it through this), la mission (Die Luft der Freiheit weht) e overall un customer service attivo 24/7 (l’esperienza del cliente è fondamentale per costruire la fedeltà al marchio; i tuoi genitori hanno di recente rifatto l’abbonamento, non riescono più a smettere di scaricare i video della clinica sono sempre disponibili in rete hanno conosciuto i genitori dei tuoi amici), nessuno poteva sgarrare dietro queste mura, nemmeno i medici potevano rischiare il loro lavoro era tutta la loro vita era ancora nostra prima di firmare quel contratto televisivo ci avevano detto potete andare via quando volete, non era vero: qualcuno dovrà sacrificarsi, diventare una capra un capretto un capro di montagna, insomma qualcuno deve essere espulso per allontanare il senso di colpa ci serve un colpevole, subito.

Nel frattempo la stanza si è riempita di stimoli irritativi, I appreciate your honesty please take your time there is no rush a ingoiare l’ennesima pastiglia della giornata è un suono sordo quasi immobile che scorre a fatica in gola. I don’t swallow replica un po’ piccata ML82 voleva correre in bagno a sputare ogni traccia di veleno le dava il voltastomaco lo sperma secco di IT64 nuotava ancora nel suo ventre materno, era il 1997, l’aborto era andato a buon fine in Michigan poi di nuovo in Nebraska erano cominciati i primi problemi in casa ML non poteva più tornarci senza una laurea un marito della sua età una figlia non parliamo del dottorato di ricerca, quello bisognava finirlo. Agli occhi di sua madre adesso era lei, il veleno, dopo aver ingoiato l’ultimo farmaco.

La discussione si risolve precocemente in un cortocircuito linguistico; in italiano le risposte seguono un modello di pensiero verticale, l’inglese invece è una lingua diretta e ipotattica, si serve di molti legami coesivi, come il veleno che corrode la linearità del pensiero. A Stanford cura si diceva drug può essere addictive un brand pure un designer secondo gli utenti di WordReference la lingua dei malati immaginari segue un modello di pensiero a spirale: è indiretta e paratattica, fa affidamento sulla coerenza piuttosto che sulla coesione, finisce per essere indiretta la coerenza dei pensieri è a tratti implicita, ha una scarsa forza illocutoria la coerenza si esaurisce velocemente in una logica approssimativa.

Procediamo, ripete educatamente il dottor S (finalmente) ha una laurea in filosofia della storia e una specializzazione in psichiatria e neuroscienze presso l’Università di Harvard. Come il dottor S anche tu ti trovi in Massachussetts, a Cambridge sei ospite di TT (più che il convegno ti interessavano i Boston Celtics, il TD Garden dal vivo è uno spettacolo unico veder giocare KD sul campo da basket si muove come un cigno nero, la copertina su facebook risale al 18 marzo 2016, pochi like come sempre la foto è sfocata nel 2015 eri poco likable al convegno c’era anche MB ti piaceva le piacevi così dicevano i colleghi di Siena, MB si era messa dei pantaloni in pelle una camicia di seta bianco panna copriva il suo corpo pericolosamente magro non si capiva cosa volesse da te all’ACLA avevate riso ad alta voce durante la keynote lecture sull’umanizzazione degli orsi), è tutto scritto nel CV, dottore.

La seconda parte di questo racconto uscirà il 7 agosto 2023.

Foto di Monika da Pixabay

Oggi Manzoni ha ancora qualcosa da insegnare?

3

[Per una singolare, fortunata coincidenza (o forse per un disegno della Provvidenza) ho ricevuto nello stesso giorno due proposte relative al medesimo autore: il pezzo che segue, di Giulia Delogu, riflette sull’insegnamento che ci ha lasciato Manzoni e si presta splendidamente ad aprire, qui su NI, un’estate un po’ manzoniana, che proseguirà a partire dal 3 agosto con una rubrica a cura di Marco Viscardi. Buone letture. ot]

di Giulia Delogu

Da appassionati manzoniani saremmo portati a rispondere, quasi senza pensarci, con un sicuro “certamente”. L’opera di Manzoni è studiata nelle scuole italiane di ogni ordine e grado da oltre un secolo. Diluita nei tredici anni di cui è fatto il nostro sistema scolastico. Riflettendo, tuttavia, ci si accorge che è tanto diluita da aver forse perso – agli occhi dei più – fascino e potenza. L’opera di Manzoni vuol essenzialmente dire i Promessi sposi, forse un po’ Il Cinque maggio e i cori delle tragedie. Altro difficilmente viene letto di prima mano e in modo diretto, anche nelle aule universitarie, dove Manzoni è guardato con interesse quasi solo da chi si occupa di studi letterari. Per decenni il compito principale di Manzoni si è ridotto a insegnare come si scrive in bell’italiano. Oggi, però, quell’italiano non offre più un modello da replicare: chi definirebbe una persona abile nella gestione delle finanze domestiche un “bravo massaio”? Dobbiamo quindi concludere, come i tanti detrattori del Manzoni, che è meglio dedicarsi ad altre letture?

I Promessi sposi sono indubbiamente un laboratorio linguistico e questo li ha resi per lungo tempo anche una palestra per imparare a scrivere. L’attenzione di Manzoni per la lingua ha però radici ben più profonde e obiettivi diversi dal semplice intento di insegnare l’italiano alle giovani, e meno giovani, generazioni. Per capire radici e obiettivi bisogna andare oltre i Promessi sposi, solo così si può rispondere alla domanda inziale: Manzoni ha ancora qualcosa da insegnare oggi?

La molla che muove Manzoni non è l’amore per l’ortografia e la grammatica, ma per la verità. In breve potremmo dire Manzoni non ha speso decenni a lavorare sulla lingua e a riscrivere le sue opere semplicemente per forgiare una lingua nazionale uniforme, né per comporre opere che poi servisse come testi scolastici: questi sono stati, per così dire, felici effetti collaterali. Ciò che gli premeva era soprattutto dare vita ad una lingua che potesse comunicare il vero, di qui la sua attenzione per i significati delle parole, che devono essere chiare e univoche, e per la forma, che deve essere precisa e comprensibile.

Lo stesso amore per la verità non ha, come si può essere indotti a credere da interpretazioni schematiche e affrettate, un significato religioso. Manzoni scrive di santo vero come principio guida per il poeta già nelle sue opere giovanili pre-conversione: “Il santo Vero mai non tradir: né proferir mai verbo, che plauda al vizio, o la virtù derida” afferma nel carme In morte di Carlo Imbonati del 1806. L’intellettuale deve consacrare la sua opera ad una missione civile, una missione di verità che conduca ad un perfezionamento individuale e sociale.

Questa esigenza di verità rimane per Manzoni una costante. È ciò che lo porta a sperimentare nei diversi generi tra poesia e prosa, a riflettere costantemente sul rapporto tra verità e finzione, a interrogarsi sulla potenza (anche distruttrice) delle narrazioni vere e false. Di particolare impatto negli anni giovanili era stato l’eco degli eventi rivoluzionari che appartenevano ad un recente passato e ai quali, adolescente, aveva dedicato il poemetto Del trionfo della libertà, mai pubblicato in vita. Ad un entusiasmo inziale per le cose di Francia, infatti, erano presto subentrate una certa dose di disillusione e anche di angoscia: com’era possibile che il trionfo della libertà rappresentato dalle prime fasi della rivoluzione fosse poi degenerato nel Terrore e nel dispotismo napoleonico? Queste domande Manzoni se le sarebbe poste tutta la vita, fino all’incompiuta comparazione tra la Rivoluzione francese e il Risorgimento italiano, cui si dedicò nei suoi ultimi anni.

Come ha ben sottolineato Adriano Prosperi in un articolo apparso sulla rivista Studi storici nel 2018, è proprio indagando il complesso legame instaurato da Manzoni con le rivoluzioni e con l’eredità del pensiero illuminista settecentesco che possiamo oggi meglio comprendere i lati più originali e innovativi della sua opera. A questo mi sembra utile aggiungere che si tratta di un’opera attraversata da una tensione conoscitiva e da un profondo rapporto con la storia, intesa come strumento e non come campo a sé stante. Indagare il passato, fare ricorso ad una prospettiva storica, ricostruire minutamente eventi passati, anche consultando documenti d’archivio, rappresentava un laboratorio per cercare risposte sull’attualità, per immaginare una verità che spiegasse l’agire umano.

 Fare storia per Manzoni significava riflettere sul contenuto e in particolare sugli “attori oscuri” del passato che molto avevano da dire nel presente, al contempo significava un continuo lavorio sulla forma che, in ossequio al vero, doveva unire precisione linguistica ed efficacia narrativo-comunicativa. Manzoni voleva essere letto e capito, suscitare emozioni e pensieri. Voleva altresì far comprendere il potere delle parole e mettere in guardia dai pericoli di quelle che oggi chiamiamo fake news. Di qui il suo attraversare tanti generi, scrivere tragedie, carmi, odi, romanzi e reportage, mettendo nella tessitura dell’invenzione sempre anche i fili della storia.

Il modo di fare storia di Manzoni (elogiato a inizio Novecento da Attilio Momigliano, demolito poco dopo dai crociani, rivalutato più di recente da Carlo Ginzburg) è ricco di riflessioni ancora molto attuali. Fin dalla bozza del Fermo e Lucia, lo scrittore milanese rifletteva sui limiti della storia come scienza, scrivendo che ciò che si può ricostruire è “la storia delle idee che hanno regnato nelle diverse età”. Il rifiuto delle pretese di assoluta scientificità asettica della storia e del documento d’archivio come feticcio immutabile e incontrovertibilmente vero non si traduce però in un relativismo epistemologico alla Hayden White; secondo Manzoni, la storia ha sempre una via d’uscita nella possibilità e nella congettura: “è una parte della miseria dell’uomo il non poter conoscere se non qualcosa di ciò che è stato, anche nel suo piccolo mondo; ed è una parte della sua nobiltà e della sua forza il poter congetturate al di là di quello che può sapere”. Queste erano le conclusioni di metodo cui giungeva interrogandosi su vero, verosimile e finzione in Del romanzo storico (1845).

Congettura non vuole mai dire distorsione. Manzoni, ad esempio, richiamava anche l’attenzione su un problema tutt’oggi molto dibattuto, quello dell’anacronismo. Se da un lato è legittimo utilizzare la storia come palestra per la comprensione del presente e come laboratorio per esercitarsi nel decostruire l’intrico di narrative confliggenti che circondano un evento (e qui Manzoni sempre pensava alle rivoluzioni), dall’altro è illegittimo leggere e giudicare le parole del passato secondo i nostri odierni significati.

Molto ci sarebbe da dire sui singoli testi e su quanto possano offrire a chi li legge oggi. Sul Discorso sur alcuni punti della storia longobardica in Italia (1822) come modello di metodo e come felice esempio di storiografia ideologica, politica e militante ha scritto Dario Mantovani in un’illuminante premessa al volume V dell’Edizione Nazionale.

Anche sulla Storia della colonna infame (1842) vale la pena di soffermarsi, interrogandosi sull’attualità dell’opera manzoniana. Manzoni voleva fosse sempre stampata insieme ai Promessi sposi, di cui la considerava l’altra faccia. Tradizionalmente è stata interpretata come una risposta ai processi austriaci seguiti ai moti del 1821, recentemente però Prosperi ha mostrato come la sua genesi sia stata più antica. Si lega infatti al decennale tentativo di Manzoni di comprendere l’età rivoluzionaria, unendo dunque il Seicento al 1789 e oltre.

La Colonna Infame è il punto di arrivo e al contempo di svolta della riflessione manzoniana su verità e invenzione. Manzoni sceglie una forma di verità (la narrazione storiografica) per riflettere sugli effetti, nefasti, dell’invenzione e della manipolazione del vero nella sfera pubblica. Gli interrogativi da cui muove sono: come e se si possono combattere gli effetti di narrazioni fasulle e complottistiche, che possono sfociare nel Terrore… o appunto nella caccia agli untori della Milano afflitta dalla peste negli anni Trenta del Seicento. L’indagine storica, insomma, viene in questo caso preferita al romanzo o alla poesia perché rappresenta una sorta di antidoto.

Già Pietro Verri nelle Osservazioni sulla tortura (1777) si era dedicato alla vicenda della Colonna Infame con un obiettivo politico, ideologico e riformatore specifico e per sensibilizzare l’opinione pubblica sul rinnovamento del sistema giudiziario e penale. Manzoni riprende la triste vicenda per farne – lo dice lui stesso – una “ricostruzione storica” che dia l’occasione per riflettere sulla potenza e i percoli della comunicazione e dell’annullamento dei confini tra vero e inventato.

Come abbiamo visto, il problema comunicativo era stato da sempre al centro degli interessi di Manzoni, saldandosi alla sua esigenza di verità. La sperimentazione di diversi generi e la riflessione sulla lingua ne sono gli esiti forse più evidenti e sono stati quelli più studiati e che più impatto hanno avuto sulla cultura e sul sistema educativo italiano. A fianco della riflessione su come meglio comunicare il vero, in Manzoni però si fa strada anche il problema molto attuale di come sfatare il falso, di quali argini mettere a complotti e deliri collettivi basati sulle false notizie. La storia e la scrittura, dunque, divengono strumenti per muoversi nei labirinti comunicativi.

Vale dunque ancora la pena di occuparsi di Manzoni? Sì, ripartendo forse dal meno indagato Manzoni storico che ci può trasmettere l’importanza della dimensione narrativa e comunicativa della storiografia. Scrivere storia vuol dire sia mettere in campo un’attenta analisi testuale e linguistica sia prestare attenzione alla costruzione narrativa dei propri saggi che devono sapere comunicare. Ci porta poi a riflettere sulla centralità della verità, unita alla consapevolezza dei limiti conoscitivi dell’indagine storica, che non sfocia tuttavia in una sfiducia relativista ma in soluzioni creative e nell’uso di categorie come quella di possibilità. Ci porta ancora a riscoprire l’utilità della storia come strumento che salda il passato e il presente e che può dare vita e voce anche ai vinti e ai subalterni, al particolare, all’oscuro e all’eccezionale ed inserirli nel “quadro morale dell’umanità”.

Ci insegna che forma e contenuto si saldano in un binomio inscindibile e che pertanto chiunque voglia creare o comprendere le produzioni culturali di ogni tempo deve saperli maneggiare entrambi. Storia, linguistica, analisi letteraria e teoria della comunicazione non possono essere universi separati. Ci mostra infine come l’indagine storica sia una preziosa risorsa per navigare il complesso oceano comunicativo in cui siamo immersi: sfatare il falso nel passato e capire come una narrazione ha potuto prendere il sopravvento sulle altre fino a generare impatti anche tragici permette di affinare le nostre capacità conoscitive e interpretative sull’oggi. Leggere Manzoni nel terzo millennio è, insomma, più necessario che mai.

 

Kundera par Fernando Arrabal

0

K U N D E R A 
de
Fernando Arrabal
 
Negra y profunda  como ciegos cerrojos
nada puede matar la pena mía
de perder a quién  mejor medía
la sombra de la sombra la algarabía
y  el cisco y tumulto de tus episodios  rojos
¿cómo vivir  sin ti?  ¿buscando sin reposo?
cuando atraviesas  el cosmos y vas  llegando  al Sol
rubricando  el cielo  ¿con curvas de caracol?
¡cómo duelen las horas!  con el  inútil sollozo
no expiras ni la espichas  ni pereces
Milan amado al filo de tu encausa
 ni sucumbes ni te ocultas ni falleces
con tus  guirnaldas paradas  por tu causa
ayer   Cervantes y aun    Teresa
¿de qué ardid  se valieron? ¿de qué viveza?
como tú Milan  al irte  a la  francesa
hiciste tu vereda   de espuma y fortaleza
tanto me diste galopando  con altruismo
sin oír los trompetazos del proselitismo
que hube de escribir aquí yo mismo
lo que no quería ni podía leer el sovietismo
en el taller me cogiste mi manita
y allí encerrada  en tus manos de gigante
me preguntaste azogado
a lo que solo podía responder
como colibrí a su ribera reclinado
siempre fuiste y eres poeta
amado mío
consustancial
sublime
y quijotescamente
____________________
 
Traduzione  di Francesco Forlani

A nulla potrà soccombere

nera e profonda come muti scrocchi
la mia pena di perdere colui che ha misurato

meglio di chiunque altro
l’ombra dell’ombra, il frastuono del tumulto
e il bailamme e furia delle faccende rosse

come posso vivere senza di te ? in cerca di te senza tregua
quando attraversi a poco a poco il cosmo e raggiungi il Sole
segnando lungo l’opera tua spirali tutte intorno ?
quanto dolore in queste ore! e inutili singhiozzi

Tu non perisci, non decedi, non soccombi
Mio amato Kundera alla messa in causa
Tu non ti spegni, non crolli, non ti nascondi
tra gli allori negati dalla denuncia

Ieri Cervantes e perfino Teresa
che stratagemma hanno usato? Quanta vivacità?
come te Milan quando passasti francese
facendoti strada nella morsa, con umile possanza

Tanto mi hai dato galoppando con altruismo
tanto sordo alle trombe del proselitismo
che ho dovuto scrivere qui io stesso
cosa non voleva e non poteva leggere un Soviet

Nell’atelier mi hai preso una mano
stringendola tra le tue mani giganti
poi mi hai fatto una domanda
a cui potevo rispondere soltanto
come un colibrì chino su una sponda

sei sempre stato e sempre lo sarai, un poeta
mio amato
consustanziale
sublime
e donchisciottesco

 

“Lo spostamento verso il rosso” di Aleksandr Skidan #3

1

Mark Rothko, “Light red over dark red”

 

 

[Questa è la terza e ultima parte del componimento Lo spostamento verso il rosso di Aleksandr Skidan, tradotto da Elisa Baglioni. Qui la prima e la seconda parte. ot]

di Aleksandr Skidan
a cura di Elisa Baglioni

Ol’ga Egorova detta l’Airone, Museo Blok, fiume Prjažka.[1]

E ancor prima interminabili conversazioni telefoniche.

Dopo l’anfetamina V. crolla dal sonno.
Olga si prepara, sembra proprio che stia uscendo di casa, ma all’ultimo ci ripensa.

Al terzo tentativo Kirill è ancora lì a convincerla.

“Determinazione del numero di Blok”.[2]

Conduce la visita una signora in là con gli anni che indossa pantaloni chiari e una camicetta turchese. Parla con un filo di voce, come in chiesa. Nella camera da letto, a occhi bassi, dopo una pausa ci informa che “sono state scritte molte stupidaggini” sul rapporto tra Blok e sua moglie Ljubov’ Mendeleeva.

I mondi violetti della carta da parati.

La rosa e la croce.

Alla finestra il cantiere navale.

Kirill non ce la fa più e scende di sotto.

(anche nel 1981 (il museo era stato inaugurato da poco) la guida portava qualcosa di turchese, mi pare un vestito attillato. Ma era molto più giovane e alta: una creatura celestiale, con una pelle che lasciava trasparire il sangue delle vene.)

Fuori il sole abbacina ancora.

Al museo è come se facessero un voto di castità. A un grado più alto di dedizione alcune smettono di avere il flusso mestruale e solo allora possono accedere al vero culto. Imparano a poco a poco a levitare. A occhi chiusi entrano nei templi bui della sua anima. I gradi sono in tutto dodici. Al decimo riescono a bloccare il respiro e prendono il nome di Sofia. All’undicesimo lui arriva e beve il loro sangue.

O meglio, sono loro che gli fanno una trasfusione di sangue.

La sbornia svanisce.

Andrej Belyj racconta di come Blok tornando dalle Isole vomitasse lungo tutto il corridoio, fatto che certamente ostacolava lui, Belyj, dal fermo proposito di dichiararsi a Ljubov’ Mendeleeva. Mi viene quasi da compatirlo. Sul serio, sei sul punto di dichiararti, quando arriva Blok dalle Isole in quello stato, che disastro.

E al dodicesimo?

Al dodicesimo cosa?

Grado. Dopo la trasfusione.

Si dirige a piedi verso Šuvalovo.[3]

Perché a Šuvalovo?

Perché lì più che in ogni altro luogo avverte l’arcana volgarità del mondo, che tanto amava.

Amava?

Quasi con la stessa intensità del tacco alla francese.
Immancabilmente pungente.

Nei musei aleggia sempre qualcosa di sepolcrale.

Di cosa è morto?

Di un esaurimento nervoso.

Povero.

Più tardi in un piccolo caffè sulla via Galernaja ci imbattiamo in Andrej Kljukanov che sta leggendo Il té nel deserto.

____________________

Sogno alla vigilia dell’arrivo di G.

Incontro A. in aeroporto e insieme andiamo in città.

Siamo spensierati, rasentiamo la follia.

Poi ci sediamo su una panchina vicino a uno stagno o a un fossato nel parco che allo stesso tempo sembra un giardinetto minuscolo all’angolo tra via Dostoevskaja e via Raz’ežja. A. è alla mia sinistra, alla mia destra c’è Vasja Kondrat’ev col chiodo, i pantaloni, le scarpe, tutto di nero. C’è qualcuno dietro di lui. Vasja cade di continuo in avanti, dondola la testa mentre si piega in due come il bambino di gommelastica [4] e a noi tocca riportare il suo corpo verso la spalliera della panchina, come fosse ubriaco o assopito.

Non si capisce come siamo arrivati qui.

Con la nuca avverto la prossimità della strada da cui ci separa un boschetto (evidentemente illusorio): non può continuare a lungo, bisogna fare qualcosa (intendo col corpo).

A un certo punto noto davanti a me un muro. Compare a poco a poco, quasi che la realtà stessa diventasse più vicina. È il muro della centrale telefonica. D’un tratto inizio a sentire il luogo familiare (fino ad allora eravamo in un luogo non-luogo).

Come se qualcuno avesse messo a fuoco l’obiettivo che uso per guardare.

Non sono spaventato, bisogna solamente raddrizzare V. di tanto in tanto.

Ora A.

Come sempre la sua apparizione è una felicità intollerabile. Credevo (tutti credevamo) che fossi morta, invece eri solo andata via. Per tanto tempo. Perché? Era necessario così. C’intendiamo senza parlare, solo con gli sguardi.

Adorazione.

Come se nell’atto stesso di toccarsi si nasconda la barriera.

Di nuovo, sembra che il sogno sfrutti quello che so a proprio vantaggio, dopotutto il mio sapere consiste in questo, che toccarsi è impossibile.

Ho in mano due cadaveri.

Desidero la resurrezione di A.?

A giudicare dall’insistenza con la quale torna da me, non ci sono dubbi.

Dunque desidero un miracolo?

Follia.

Eppure per questa follia, per questo miracolo esiste un “prototipo”.

Telefonata notturna di A. dall’America.

“Resta che l’organismo non vuole morire che a suo piacimento.

Non un po’ a suo piacimento, e un po’ a quello di un altro: soltanto al suo.”[5]

Un pensiero che non sono stato in grado di pronunciare ad alta voce.

(per un istante mi è sembrato di averla toccata).

2002-2003

______

N.d.T:

1 Ol’ga Egorova, detta Caplja (Airone), è un’artista, regista teatrale e performer di San Pietroburgo, membro nel gruppo Čto delat’, di cui fa parte anche Aleksandr Skidan, che riunisce intellettuali e artisti di sinistra.
2 «Determinazione del numero di Blok»: “Determinazione del numero di Blok nel contesto del numero generale della Letteratura russa come parte del numero generale mondiale” è il titolo della mostra dell’artista e poeta concettualista D.A. Prigov tenutasi al Museo Blok nel 2001.
3 «Šuvalovo»: territorio alla periferia di Pietroburgo frequentato da Blok durante i vagabondaggi notturni e fonte di ispirazione, con la sua atmosfera di negletti e indigenti, di alcune liriche, tra qui la Sconosciuta.
4«il bambino di gommelastica»: protagonista dell’opera eponima di Dimitrij V. Grigorovič, tradotto da Renato Fucini con il bambino di gommelastica e, nella più recente traduzione di M. Favilli, con il bambino di gomma. È un testo per l’infanzia nel quale si narrano le sventure della vita di Petja, bambino di gomma che si ritrova a lavorare come acrobata in un circo (D. V. Grigorovič, Il bambino di gomma, Quodlibet, Macerata, 2020).
5«Resta che l’organismo non vuole…»: la frase tra virgolette appartiene a Freud, che a sua volta viene citato da Derrida nel capitolo Corrieri della morte, in J. Derrida, La cartolina. Da Socrate a Freud e al di là, Milano, Mimesis, 2017, p. 322.

Skei razza Piave

0

di Fabio Rodda

La catena fa sglang, sglang, sglang. Comincia con una sirena, un rumore aspro che risuona troppo a lungo nel capannone ancora silenzioso. Poi, si accendono gli ingranaggi ed è sglang, sglang, sglang che non smette più. Sglang, il colpo della pressa sulle lamiere: passano, sfilano sui rulli e arrivano alla postazione di Martino. Lui è quello che riempie di poliuretano espanso le due lamine di alluminio lisce e affamate di polimeri uretanici. Un fssshshhhhhh di getto che scivola tra i profili di estratto di bauxite ed ecco la schiena del frigo che arriva chez nous. Io e Manuel ci saltiamo sopra, i trapani ad aria compressa già caldi ben stretti in mano. Comincia la gara: due viti, un getto di colla calda ed ecco che si incastrano le pareti laterali. Giù dalla schiena e si gira attorno al bestione, a destra lui, a sinistra io in senso antiorario e ziuuff, ziuuff, ziuuuuffff: l’aria pressata spinge il rotore delle nostre pistole e la punta a croce stupra la testa dell’inserto di fissaggio fino a cacciarlo nella lamiera riempita di reticolato termoindurente. Venti minuti per finire lo scheletro. Al massimo. Natalino è lì che prende i tempi, segnerà in tabella la media: noi siamo la prima postazione dalla catena di produzione, noi siamo importanti, noi diamo il ritmo. E ziuuff, ziuufff, ziuuuuuuuffff: «quella non voleva entrare, la troia».

Ziuff, ziuff, ziuufffff e, ormai quasi dimenticato, soverchiato dagli sbuffi d’aria compressa, dallo stridore della ferraglia, dalle bestemmie della linea, lo sglang, sglang, sglang della pressa. La postazione punitiva. Ci mandano quelli a cui vogliono far passare la voglia: otto ore a tirar su e giù lamiere e abbassare il maglio da una tonnellata per farti capire qual è il tuo posto nel mondo: spazzatura eri, sei e rimarrai.

Ultimo balletto attorno al frigo industriale di cui già si intuisce la forma. Dobbiamo controllare che non ci siano buchi, fissaggi imperfetti, così poi il bestione potrà andare in qualche supermercato di merda a buttar freddo nelle sale enormi per vendere carne e pesce e verdura, potrà dare il suo contributo allo spreco energetico, aiutare ancora un po’ questo mondo marcito ad andarsene a puttane.

Sglang, sglang, sglang torna in primo piano, adesso che i trapani tacciono addormentati nella fondina legata al fianco. La tuta blu, il marchio bianco sul petto, vicino al cuore. Le scarpe antinfortunistiche con bande fluorescenti, che se finisci sotto qualche quintale di ferraglia in magazzino senza che nessuno se ne accorga, prima o poi le scarpe si vedranno e raccatteranno la poltiglia che eri tu. Finirai sul giornale: incidente fatale sul lavoro. Non operaio morto. Incidente. Il fatale, poi, è conseguenza ultima ma dell’incidente, mica colpa di qualcuno, magari della fabbrica. Magari di un padrone. Sglang sglang sglang, già tre mastodonti agganciati con le catene, sollevati a un metro da terra e spinti avanti in linea. Cibien, dalla postazione subito dopo la nostra, mi guarda torvo.

Una sirena troppo forte squarcia il ritmo della fabbrica: dieci minuti di pausa obbligata. Tutti fuori per far arieggiare il capannone. Nel cortile fa freddo, me ne sto appoggiato al muro e fumo la solita stizza nevrotica coi postumi della birra che salgono fino alla gola. Passa Martino, gli occhi rossi: si è separato dalla compagna un anno fa. La stronza non gli fa vedere la figlia più di una volta al mese. Perché non è un buon padre. Perché beve troppo. Domani è il compleanno della ragazzina: «la me ha domandà la tuta dell’Adidas per regalo. Ma la costa novanta euro. Mi ne ciape mili e doe al mese e ne passo ottocento per il mantenimento. Fae come? No li ho sti schei».

Martino, ingobbito nella sua vergogna, mi guarda di sotto in su, mentre il cielo denso e pesante sembra volerci avvolgere nel grigio di una metà mattina metallica: «te li presto io».

«No, vecio, grazie ma no pode. Non posso», scuote la testa l’orgoglio sprecato di Martino. Una vita come tante da ‘ste parti, fregata dalle ombre – sempre troppe e mai gustate, buttate giù in fretta per calmare qualcosa che preme appena dietro ai polmoni, sempre lì e ogni mattina, da sempre –, da sua moglie, che chissà perché aveva immaginato una vita da Instagram e non la faticaccia banale di una valle chiusa e triste; dalla fabbrica.

«Non è un problema, Martino. Non pago affitto. Non ho alimenti da smenarmi. Non mi cambia. Me li darai quando puoi».

Gli occhi tetri di un disonore antico – figlio del senso del peccato, della colpa di esser vivi e di non essere un ingranaggio perfetto e oliato come gli altri, la colpa di esser poveri di cui occorre vergognarsi, ce lo dice lo smartphone – annuiscono e spariscono.

Cibien fuma camminando in cerchio fra le tre panchine del cortiletto. Fa così tutte le mattine, per tutti i dieci minuti di pausa. Sono ventitré anni che è qui dentro. Non è più nemmeno un fantasma. Nessuno sa qual è il suo nome. Il cognome è Cibien. Lui è solo Cibien, per tutti.

Da qui si intravedono gli uffici, i colletti bianchi con le ridicole camicie a maniche corte seduti davanti ai computer che decidono quante ore lavoreremo, quanto ci pagheranno, quanta produzione dovremo fare. Dietro, montagne segate da cumuli di nubi quasi nere. Cibien mi passa davanti rientrando. Lo guardo. Lui si ferma, gli occhi sempre bassi: «oggi non più de dodese».

«Dodici? Lo sai che Natalino mi farà il culo, vero? Ne vuole diciotto a fine giornata». Cibien alza due fosse vuote a fissarmi disperato: «dodese. No ghe la fae pi».

«Va bene. Ok, Cibien, come dici tu».

Rientro e torno in postazione. Manuel mi guarda con aria interrogativa. La risposta ai suoi dubbi gli fa crollare le braccia come corpo senza vita: «Setu mat?»

«Cibien ha detto dodici».

«Cazzo me ciavelo di cosa ha detto Cibien?»

«Coglione, son sei mesi che lavori qua. Cibien ventitrè anni. Si fa quanto dice lui».

«Ma, Natalino al ne coperà; ci farà il culo».

«Natalino si faccia ammazzare».

Ziuffziuffziuff: i trapani girano più lenti. Sglang, sglang, sglang: il mucchio di lamiere farcite alle nostre spalle già cresce. A fine giornata sarà una pila da un metro e mezzo e non serviranno i conti dei colletti bianchi o il cronometro di Natalino per capire che siamo andati lenti. Troppo lenti. Due terzi della produzione dovuta. Domani mattina Natalino mi spaccherà.

«Dio Cristo, lo sai che doman ci mandano in pressa, vero? Almeno na settimana non ce la leva nessuno».

«Lo so, Manuel. Lo so».

Sglang, sglang, sglang senza tregua, senza fiato, senza pietà.

Ziuffziuffziuff. Con calma, con respiro.

Salto dentro il frigo, ci scrivo un porco da far tremare i campanili e sotto disegno il mio nome gigante. Cibien coprirà il tutto coi tubi di raffreddamento e la lamiera della seconda coibentazione. Li firmo sempre tutti i miei pezzi: mi piace pensare che un giorno un manutentore Coop o Esselunga aprirà un bestione che non funziona più e ci leggerà la mia signature alta mezzo metro. E, se era una giornata storta, anche un bel bestemmione a caratteri cubitali, che si sappia che ‘sto frigo è stato prodotto qua, sotto i monti. Frigo razza Piave.

Ziuffziuffziuff, ancora un po’ più piano. Manuel scuote la testa. Io guardo la pressa e già so dove starò settimana prossima. Cibien si volta e accenna una smorfia che può somigliare a un sorriso.

 

Vocazione (sillabario della terra # 6)

0

di Giacomo Sartori

Non so perché sono finito a occuparmi della terra. Potrei dirmi che è successo per caso, visto che l’incontro sembra essere avvenuto indipendentemente dalla mia volontà: non ho fatto nulla per andare verso di essa. Nella griglia ideologica dei miei famigliari, dalla quale a dispetto delle apparenze non mi ero ancora liberato completamente, era certo il soggetto più trito e meno dotato di appeal, meno valorizzante. E quello che mi attraeva era la scrittura, per la quale ritenevo di non avere sufficienti doti cerebrali. Se ci penso adesso mi sembra però l’approdo più consono che potesse capitarmi, l’unica cosa alla quale potessi dedicarmi. Il caso ci porta forse molto più spesso di quanto lo immaginiamo dove è necessario che andiamo. Insomma, quello che chiamiamo il caso.

La facoltà di Agraria era squarciata da una esplosione di matricole, l’anno in cui ho cominciato l’università. Nel rapido rifluire della marea delle contestazioni e delle velleità, il terrorismo si avviava verso il parossismo, con la truce cortina di mancanza di prospettive che si trascinava dietro. E certo l’agricoltura agli occhi di molti di noi veicolava sentori di libertà e non omologazione, e di comunione con la natura, agli antipodi del mondo bieco che riprendeva piede. Si parlava parecchio delle lotte campesine di molti paesi sudamericani, e il fascino di Cuba non si era ancora deteriorato. Molti gruppetti di giovani con aspirazioni agresti e libertarie erano andati a installarsi in campagna, in genere in vetusti casolari di mezzadri migrati nelle città.

Certo questi bagliori romanticheggianti hanno contato pure per me, in un periodo nel quale le offerte di studi restavano ancora limitate, e paludate. Non vedo altre ragioni che spieghino il richiamo istintivo alla radice della mia scelta di quella via. L’universo rurale che avevo incrociato di striscio nella mia infanzia era l’unico che potesse sedurmi, compensando almeno in parte la frustrazione di non potermi dedicare alla letteratura. Nei fatti proprio in quegli anni nelle campagne italiane dilagava il modello industriale agli antipodi delle rappresentazioni bucoliche: gli ultimi resti di un millenario mondo contadino venivano spazzati via, scomparendo per sempre.

In ogni caso quel primo anno gli iscritti erano dieci volte quelli che le polverose aule delle Cascine avrebbero potuto ospitare: era un degradante caos. Nella massa che derivava senza indicazioni vedevo scafati fricchettoni come contadinotti tirati a lucido, molti venivano del sud, e il vero punto in comune sembravano essere le preoccupazioni per l’alloggio e il cibo. Gli studi a quanto pare venivano dopo. Io invece avevo bisogno di mostrare a me stesso che valevo qualcosa, dopo le umiliazioni del liceo classico della mia mortifera cittadina: ci davo dentro fino a spossarmi, spaziando ben oltre i programmi, inaugurando la forsennata perseveranza che sarebbe stata la mia. Già all’inizio del secondo anno quattro matricole su cinque erano state sterminate, e erano venuti alla superficie gli alteri fiorentini, con sguardi di signorotti – alcuni erano davvero nobili – costretti all’esilio che riprendono i loro possessi. Ma insomma gli studenti restavano ancora troppi.

Tra le altre cose era quindi molto difficile trovare un docente con il quale fare la tesi. Diversi membri del collettivo redazionale del giornaletto del quale facevo parte erano approdati a uno dei due professori scopertamente di sinistra, critici dell’agrochimica e aperti ai vagheggiamenti di giustizia. E così, tramite un altro studente entrato nelle sue grazie raccontandogli i dettagli delle sue notti sessuali con due ragazze, sono finito pure io con lui. Che appunto studiava e insegnava i suoli.

Io non sapevo bene cosa fosse la terra, non avendo frequentato nessun corso che la riguardasse, e non provavo alcuna attrazione. Mi intrigava però quel professore con una barbetta avventuriera e sempre in viaggio nei paesi tropicali. In una cittadina africana s’era preso addirittura una coltellata in pancia, a quel che si diceva mentre era con una non meglio specificata donna. Ma forse sbaglio, anche l’idea della terra, senza che me ne rendessi conto mi attraeva a sé. In fondo a modo mio un po’ la conoscevo: l’avevo scoperta quando i miei genitori si erano trasferiti fuori città, come ci si imbatte in qualcosa che proprio non ci si aspettava. Dentro di me rappresentava pur sempre l’essenza delle campagne ancora mezzadrili che avevo battuto in lungo e in largo da ragazzino, oltre che l’esatto contrario di quello che incarnava la mia famiglia.

La mia tesi sperimentale non prevedeva purtroppo uscite sul terreno. Il professore sul quale avevo contato per imparare qualcosa non lo vedevo mai, visto che era sempre ai tropici, impegnato nelle sue avventure scientifiche e a prendere coltellate: mi aveva abbandonato a me stesso. Per prelevare la terra che serviva per le mie prove un altro insegnante più sedentario mi ha allora accompagnato in un territorio di ondulazioni vaste e chiarissime con un odore di paglia scaldata dal sole e di argilla secca. Era da tempo, da quando non andavo in alta montagna con mio padre, che non mi imbattevo in qualcosa di così forte, che esalava la presenza umana ma anche la potenza della natura.

Il docente sedentario e silenzioso al ritorno si è fermato per dissodare e portare via una pianta, mi sembra di ricordare che fosse un corbezzolo: ecco svelato quello che lo interessava del nostro viaggio. Ma insomma avevo messo il naso in quella scenografia di crete a perdita d’occhio che raccontava di una lotta non risolta tra gli uomini e quello che essi stessi consideravano il nemico da soggiogare. E come pegno d’amore a prima vista mi ero riportato in città un sacco di quella terra tanto simile a cemento, sulle quali avrei fatto i miei esperimenti inutili e noiosi.

Ci sono poi tornato subito dopo la laurea per un lavoretto che mi aveva affibbiato l’università, in quelle crete abbacinate e severe, e ho avuto modo di conoscerle nell’intimo. Le percorrevo a piedi, per giornate intere, infilandomi con la mia attrezzatura e la trivella manuale nelle esili macchie di vegetazione che separavano gli sterminati campi di frumento, che s’erano mangiati come voraci squali tutte le superfici non troppo abrupte, tutto lo spazio disponibile, perfino le rughe secche dei calanchi. Spesso per ingrandirsi al massimo avevano scavato a monte nell’argilla intonsa: ne ricavavano stranianti colorazioni azzurrognole. In ogni caso lì facevano affidamento solo sui concimi chimici, la terra non era che superficie sfruttabile, materia morta e stupida.

I piccoli casolari dei mezzadri erano tutti costruiti sugli apici delle creste e delle collinette, l’unica soluzione praticabile su quelle crete che strappavano le fondamenta e i muri. Erano tutti abbandonati da tempo: sembravano isolette selvagge, con i loro corteggi di scarruffata vegetazione. Spesso il tetto era crollato, e nelle stanze s’erano accampati grossi alberi, che qualche volta si affacciavano alle finestre, quasi ci tenessero a far notare che avevano preso possesso delle abitazioni. In molte stanze c’era ancora il cotto, nelle cucine i camini erano neri di fumo che aveva conservato il sentore acre dei ciocchi di quercia.

Restavano oggetti senza valore: miseri attrezzi rugginosi, bottiglie dal vetro intorbidito, qualche posata o ciotola. Reperti che richiamavano quelli che avevo conosciuto nelle campagne del nord che conoscevo io, e che mi avevano sempre colpito per il loro carico di desolazione, per il cruento abbandono che testimoniavano, avvolto da una indifferenza più violenta ancora. Del resto qualcosa mi diceva che qui la lotta per sopravvivere – prima della fuga – era stata ben più aspra.

Più che la terra in sé, che sostanzialmente non capivo, mi soggiogavano i paesaggi assolati, quell’odore di fango secco e paglia e cisti, la dittatura del cielo e del vento. La terra argillosa era però onnipresente, costituiva la pelle disidratata di quelle ondulazioni infinite condannate alla cerealicoltura senza requie o alternanze di sorta. In estate le enormi zolle angolose tagliate dai possenti aratri erano temprate dal solleone: un mare di grezzi blocchi di cemento alla deriva.

Ci sono ripassato molti anni dopo, dopo aver lavorato in luoghi di altri colori: i campi erano simili a prima, con lo loro plaghe bluastre a monte e grigio chiare a valle, e le rudi zollosità vomitate dai possenti aratri. I ruderi dei cascinali si erano però metamorfosati in lussuose ville con prati all’inglese e piscine, piccoli alberghi di lusso. Quasi una fata avesse operato un incantamento. Le tracce della civiltà contadina che avevo conosciuto io erano state definitivamente spazzate via.

Erano arrivati i ricchi stranieri, sulle macerie della civiltà contadina avevano trapiantato il lusso del capitalismo internazionale. Ora contavano solo i loro divertimenti e i piaceri, le necessità dei loro occhi avidi di controllati esotismi. I bei campi cretosi massacrati dall’agricoltura industriale, ma ancora vivi, e sempre bellissimi, quasi coscienti ora di esserlo, stavano a guardare, come aspettando il seguito.

L’estate seguente ho battuto paesaggi simili nell’estremo sud del Paese, sempre con la mia trivella metallica e la sacca di tela grezza degli strumenti. Dal punto di vista geologico erano le stesse crete, ma i dossi erano ancora più desolati, ancora più spossati, sfiniti di aridità. Si capiva che lì la lotta degli uomini era stata ancora più cruda, più implacabile. Perfino le enormi macchine agricole sembravano avere difficoltà a mettere sotto quel paesaggio tanto potente e austero. Per il momento avevano vinto anche qui, ma a un prezzo ancora più alto.

Io adesso ero però a mio agio, ero in sintonia con la terra. Ora la sentivo respirare, percepivo che stava solo attendendo, sotto la sua apparenza tramortita. Sapeva che alla lunga l’avrebbe vinta lei, la tracotanza degli uomini li avrebbe portati alla sconfitta. Non lo sapevo, ma ormai la terra mi aveva preso, non mi avrebbe più lasciato.

(l’immagine: fotografia di Gunther Tschuch, 2008)

“Lo spostamento verso il rosso” di Aleksandr Skidan #2

1

Mark Rothko, Untitled (Maroon Over Red)

 

[Questa è la seconda parte del componimento Lo spostamento verso il rosso di Aleksandr Skidan, tradotto da Elisa Baglioni. Qui la prima parte, con introduzione. ot]

di Aleksandr Skidan
a cura di Elisa Baglioni

Quando G. passa alla lingua inglese sembra distaccarsi, come una decalcomania, dall’immagine evanescente di se stessa, con la quale era, così pareva, imparentata.

Il linguaggio muta, diventa più inafferrabile e secco; si risvegliano note imperiose di incontenibilità, forze che attraggono e respingono, rimuovono verso una sorta di vuoto.

Sembra scostarsi e da quella distanza dominarsi.

La bocca è congiunta in un pleonasmo a sé stante.

È serrata in un idioma inaccessibile.

È sigillata dall’alfabeto latino.
Questo serrarsi che si trasforma in un’estraneità assoluta è esaltante, come per alcuni un minuscolo neo o una cicatrice sulla scapola.

O una leggera asimmetria dei lineamenti.

Feticizzo la sua voce.

Il suo stelo getta radici nell’abisso della gola, nel gorgo dell’esofago, nello stallaggio dello stomaco, nelle greppie babilonesi della fornicazione dove è tanto dolce annegare.

E ogni volta la mia voce si fa più simile alla sua.

Un’ammaliante intimità.

Just say it.

Mi procura piacere tramite la lingua che mi consente a stento di starle dietro, poiché percepisco come mi stia trasformando in uno straniero di me stesso.

Traduci.

Sempre più spesso questo piacere comincia a provocare dolore.

____________________

(what a horrifying dream…and yes, very kafkian. it seems to me to have so much to do with the power of language – you pronounce yourself guilty, you are pronounced to be arrested – your confinement is in a word only – you can leave but you choose to stay. the source of your guilt (hashish) is simultaneously symbolic of home (the keys). you want to write a novel but remember that you are in russia – you can escape to new york, but you lack the “keys” to get in. and so you live below ground, in a small civilization, a sub(way) culture – where life with its movements and celebrations goes on.
strange, but not so strange…)

____________________

Telefono pubblico. Chiamata a G.

Premo il nove al posto del sei una serie di volte, alla fine lo azzecco.

Sono a casa, richiamami.

Tra un’ora e mezza in piazza Vosstanija.[1]

Cammino lungo il Nevksij in cantiere.

Alla cattedrale di Kazan’ salgo sul tram.

Scendo a Puškinskaja.

Mentre siedo sui gradini e leggo un vecchio numero della Rivista d’Arte (di quelli che per gentile concessione Denis mi aveva finalmente restituito) con l’articolo di Breton su Trockij, vengo avvicinato due volte con la proposta di comprare dell’erba e una volta dalle mire di due prostitute.

Hai bisogno?

Farfugliano senza fermarsi e subito proseguono verso il cliente successivo.

Una rotondetta, bruttina, con il viso gonfio, gli zigomi larghi, indosso uno scamiciato che scopre le spalle e orribili zatteroni bianchi; l’altra snella, con i jeans aderenti e una canotta con le fettucce incrociate che striano la sua schiena nuda.

Enormi labbra bordò della prima; begli occhi malvagi della seconda.

L’ultimo “in fila” manifesta un interesse reticente.

Interrompono il loro giro per passare alla trattativa; si appartano dietro l’edicola, discutono di qualcosa inquiete, poi tornano da lui. In quel momento con la coda degli occhi vedo avvicinarsi G.

A “Sladkoežka” davanti a un espresso con il gelato le chiedo quanto è seria la sua storia con K.

(due foto che lo ritraggono conservate in un album in mezzo ai paesaggi urbani e ai miei ritratti dell’ultimo suo viaggio in Russia, a causa dei quali avevo detto un sacco di idiozie in albergo).

Di cosa si occupa?

È un musicista, scrive romanzi rosa su commissione sotto pseudonimo.

Dopo una pausa: ci siamo conosciuti alla presentazione di Bowles.
(Tiro fuori le sigarette, ho sotto gli occhi due di queste fotografie; voglio dimenticarle, voglio vederle ma, per dimenticarle bisogna scriverci, per vederle, invece, bisogna stare con G.)
Anche lei prende una sigaretta e comincia a fumare.

K. è una brava persona.

Sì, concordo io.

(Dopotutto è impossibile distruggere una fotografia, è impossibile stracciarla; è un’idra a molte teste dal nome di B. nato sotto il segno di Saturno, il miope ebreo con problemi respiratori che eiacula nella grotta di Capri sul palmo di Asja Lacis) 2

He is homosexual, isn’t he?

(Scrolla la cenere).

Mi ha aiutata e io ho aiutato lui.

(Butta fuori il fumo).

I think you understand

____________________

Svidrigajlov parte per l’America.

Ho parlato della sua “partenza” nel 1994 in un intervento all’Università dell’Iowa.

Dopo l’intervento uno scrittore cileno col pizzetto, una moda che iniziava a diffondersi, mi ha chiesto di scrivergli il cognome Svidrigajlov in caratteri latini.

Aveva letto Delitto e castigo ma non ricordava quel personaggio.

Ehi, Lei, Svidrigajlov

Cosa pensa del piacere?

È quello che ciascuno si immagina che sia.

E del dolore?

Il dolore è qualcosa di diverso dal piacere, ma non così tanto da essere il suo contrario. In alcuni casi il piacere scaturisce da un certo ritmico alternarsi di sensazioni dolorose.[3]

Prenderà il volo sul pallone con Berg?[4]

È possibile.

Ha paura della morte?

Quando mi fotografo da solo nelle stazioni o negli aeroporti cestino la fotografia o la strappo in tanti piccoli pezzi che lascio volare dal finestrino se viaggio in treno, oppure la abbandono nel posacenere o tra le pagine di una rivista se viaggio in aereo.

(Pausa.)

La paura di fronte alla morte è priva di un contenuto proprio, è l’analogo della paura della castrazione.

____________________

G. era presente al mio intervento? Non ricordo. A ogni modo si era occupata della revisione del testo e lo aveva anche trascritto in bella copia. Ero stato abbastanza spudorato da averlo fatto con le sue mani (la sua mano).

____________________

N.d.T:

1 «piazza Vosstanija»: la piazza dell’Insurrezione (ploscad’ Vosstania) è antistante alla stazione Moskovskaja e divide il Nevskij prospekt, la via centrale di San Pietroburgo, in due sezioni. Più avanti si leggono alcuni toponimi che descrivono il percorso dell’io lirico. Il Nevskij sta per Prospettiva Nevskij.
2 «B. nato sotto il segno di Saturno»: “Sotto il segno di Saturno” è il titolo del saggio che Susan Sontag dedicò alla figura del filosofo tedesco Walter Benjamin. Qui Skidan fa inoltre riferimento alla biografia del filosofo, al fortunato incontro e infatuazione, avvenuto a Capri nel 1924, per la drammaturga e intellettuale lettone Asja Lacis, insieme alla quale scrisse Napoli porosa e tramite la quale ricevette l’invito a recarsi in Unione sovietica di lì a qualche anno.
3 «Il dolore è qualcosa di diverso dal piacere… »: Qui e in alcuni passaggi successivi l’autore parla per mezzo di Derrida, citando passi da La cartolina. Da Socrate a Freud e al di là in una sorta di pastiche filosofico-psicoanalitico, poiché ad essere citati sono anche frammenti di Nietszche e Freud inclusi da Derrida nelle sue missive. In questo modo si rifrangono discorsi di discorsi e la parola dell’autore ne emerge elusiva e artificiosa.
4 Berg: maestro di ballo famoso all’epoca di Dostoevskij, nominato in Delitto e castigo da Svidrigajlov durante una conversazione con Raskol’nikov.

Liguriana

0

di Marino Magliani

Quando Italo Calvino morì avevo venticinque anni e immagino di non averlo saputo, nel senso che non ricevevo notizie del genere, guardavo poco la televisione e non compravo giornali italiani. Avevo letto in maniera molto disordinata da ragazzo e da giovanotto, in giro per il mondo, le mie abitudini non erano cambiate, forse sapevo giusto che Calvino era ligure, di Sanremo, che era stato partigiano. Tutto lì. Ma scoprire che un grande scrittore italiano, forse il più grande del secolo, se ne fosse andato era quanto di più improbabile mi potesse capitare allora.
Era il settembre del 1985, quando Calvino morì, e io mi trovavo in Spagna ormai da alcuni anni, vivevo rigorosamente di notte e d’estate, spostandomi dal caldo della Costa Brava a quello dell’inverno canario o verso estati australi. Fin quando, non subito, con la fine delle isole non si concluse per forza anche quel genere di vita. Stanco di sole e di luna, desideravo più che altro fermarmi lungo qualche costa grigia del Nord Europa. A leggere, finalmente, e in seguito a decidere di scrivere.
Nel 1985 Francesco Biamonti aveva pubblicato solo L’Angelo di Avrigue e qualche racconto sparso negli anni Sessanta. Biamonti è morto nel 2001, autore di quattro romanzi, e io a quel punto ero già diventato padre, scrittore di poche cose nascoste e traduttore. Se è quindi molto naturale che non abbia fatto in tempo a conoscere personalmente Calvino (in realtà non sarebbe stato neanche così facile, non viveva più a Sanremo, ma si divideva tra soggiorni torinesi, romani e la sua casa toscana, tra le pinete, che è stata la sua ultima residenza), è invece abbastanza strano che io non abbia mai incontrato Biamonti. L’ho detto, traducevo e scrivevo da tempo, pubblicando libretti rigorosamente distribuiti tra Porto Maurizio e Oneglia, e tornavo in Liguria almeno un paio di volte all’anno. Lui negli anni Novanta viveva, come sempre, dove era nato e dove poi morì, a San Biagio della Cima, ai confini con la Francia. La rupe che guardava la sua campagna e la sua casa di paese distava un pugno di vallate dalla mia. Ci eravamo però sentiti al telefono, mia madre alla fine del millennio era molto fragile, e neanche per Francesco le cose andavano bene. Poco tempo prima che morisse ero riuscito a farlo invitare all’Istituto italiano di Amsterdam, poi non c’era stato più tempo.
Sulla diserzione, l’ossessione che popola i miei libri, Biamonti aveva letto un mio testo preistorico e forse, per dirmi che era ancora tutto molto acerbo o che non gli era piaciuto, mi fece notare semplicemente che alle diserzioni lui non era interessato, e mi chiese se io invece sì me ne intendessi. Ero un disertore, ammisi, come potevo non intendermene? E così, sollecitato dalle sue domande (ho il ricordo piuttosto vago di un uomo dalla voce calma e intelligente, un uomo curioso, desideroso di conoscere storie di vita, non uno di quelli che spiegava o si faceva spiegare il mondo, ma uno che amava ascoltare dinamiche), e una volta compreso che tra tutti lo affascinavano i racconti delle frontiere, devo avergli parlato a lungo dei miei confini privati, della tipologia delle mie diserzioni. In casa tenevano il telefono su un mobile, davanti alla finestra, la rugiada della campagna invernale brillava nel sole ligure. Sia chiaro, avevo sempre desiderato disertare, gli confessai, ed era la verità, tuttavia, quando davvero occorreva farlo, mi ero sempre tirato indietro. Da bambino avevo collezionato anni di collegio, una parte delle elementari a Nava, le medie a Mondovì, le estati a Entracque, la prima superiore nei Fratelli Maristi a Velletri. Insomma, le suore da bambino e da ragazzino i frati. Specialmente a Nava, mi facevo convincere dai professionisti de lla fuga, una vera attrazione: scappare di notte, attraversare i boschi, lungo paesi liguri e piemontesi (Nava, posta su una sella, circondata da montagne e fortini e pinete), addentrarci nel folto con le riserve nello zainetto. Le cose andavano preparate minuziosamente: la raccolta del cibo ad esempio ci vedeva col carrellino a sparecchiare i tavolini, sapevamo bene che le bambine lasciavano sul tavolo parecchio cibo, pezzi di pane, mezze mele. Rubavamo qualche bottiglia di quelle del latte e preparavamo una riserva d’acqua. Poi si aspettava una notte di luna. Ora che ci penso, il passeur di Biamonti in Vento largo non suggeriva altro: «Mandali su da me alla prima notte di luna».
Poi a una cert’ora sgusciava uno tra i lettini e veniva a svegliarmi (si scappava sempre in due o tre al massimo), mentre l’altro aspettava già fuori del collegio, oltre il piazzale di ghiaia, tra i pini. Ma io non dormivo. È ora, sentivo come una pugnalata. Non vengo. Come non vieni. Non vengo. In che senso, mi chiedeva irritato e sottovoce (le signorine che ci facevano la guardia dormivano dietro una tenda), in ginocchio. Io non lo vedevo, sentivo solo il suo alito e le domande tra i denti. Dai, c’è la luna, è tutto pronto. No, non vengo nel senso che non vengo. Il collega di non fughe strisciava via, non prima, almeno in un paio di occasioni, di avermi rifilato un cartone tra le costole.
Aspettavo qualche minuto per dargli il tempo di attraversare il piazzale di ghiaia, dovevano percorrerlo restando ai margini, i lampioni facevano chiaro come di giorno, poi mi alzavo e in punta di piedi andavo alla finestra a vedere il lavoro della luna sul costone, le pinete nere. Uscivano a un certo punto allo scoperto, in basso, lungo il tortuoso asfalto, a schiena bassa, la bisaccia gonfia, e dopo un po’ li perdevo, ora era o erano oltre il cancello, giù per la Nazionale. E io stavo lì, la testa inclinata da una parte, a sentirla – doveva capitare lo stesso a Degas, di pensare a Papillon in mezzo al mare, che stavolta ce l’aveva fatta – come un’occasione perduta. Il fatto è che Papillon non l’avevano ancora girato, e quanto a loro, i miei amici di fughe perdute, non ce la facevano mica, mai riusciti, e ancora oggi non so se assieme a me saremmo potuti giungere un po’ più lontano o persino in fondo a qualcosa, nella luna.
Nava, ci torno ancora ogni tanto, a cercare il bambino e salutare il luogo finale di Mario Novaro, secondo me, assieme a Giovanni Boine, il padre della poesia ligure.
Un giorno o due giorni più tardi, il mattino, la suora superiora riceveva la telefonata, e allora entrava nelle aule e faceva andare le classi alle vetrate. La camionetta dei carabinieri risaliva le curve e si fermava sulla ghiaia. Scendevano i miei colleghi mancati, uno o due, mani in tasca, bavero alto. Si pulivano il naso con la manica, tiravano su la faccia. Era tremendo e nello stesso tempo confortante sapere che non ce l’avevano fatta.
È passato tanto tempo, alcuni sono morti, ma troppo presto, ventenni, trentenni. Io per un po’ sono andato a vivere in fondo alle isole, di notte, sempre d’estate, sotto la luna, e poi sono giunto qui, sulla costa olandese. Qui la luna è la letteratura. Sono scappato a diciassette anni, dalle scuole pubbliche, ma non era mica scappare, non si scappa più se non sei scappato da bambino. Giravo la Norvegia, la Danimarca e un giorno sono tornato in Italia perché a breve mi sarebbe arrivata la cartolina e non volevo ancora essere cosa ero già definitivamente da tempo e sono, un disertore. La partenza per il servizio militare coincise con la malattia di mio padre. Gli avevano dato meno di un anno di vita, parecchio meno. La mia destinazione era Albenga, fanteria. Qualcuno mi disse di andare dai carabinieri e costoro mi mandarono al distretto. Al distretto mi fecero tornare con le notizie cliniche sulle condizioni di mio padre, le portai e compilammo la domanda di esonero. Dissero che tanti restavano a casa per esubero di leva, io almeno avevo un motivo serio. Dissero che non partivo e che a breve avrei ricevuto l’esonero. Ma l’esonero non giunse, mio padre peggiorava, e un giorno partii per Albenga. Il destino del disertore. Il capitano di Albenga disse che non dovevo partire, perché ero partito? Dissi va bene, allora mi dia lei l’esonero. Non poteva, disse, ora ero partito, ora mi dovevano dare il pre-congedo. Così compilai i formulari del pre-congedo, anche quello di un avvicinamento nella caserma di Diano Castello, in caso il pre-congedo avesse tardato qualche giorno in più.
Finito l’addestramento non tornai a casa, non mi avvicinarono neppure a Diano Castello, ma mi mandarono a Legnano. In pratica mi allontanarono di trecento chilometri, ero fante e ora dissero che ero bersagliere.
Era novembre e a maggio ero ancora soldato. Verso la fine del mese di maggio mi chiusero un paio di giorni in una cella nel carcere militare di Peschiera del Garda, poi mi ricoverarono nell’Ospedale militare di Baggio, reparto neuro. Quando giunsi a casa con una convalescenza di dieci giorni per gravi stati d’ansia e crisi depressive mio padre respirava con l’ossigeno, non gli parlai mai più. Morì dopo alcuni giorni. Io ero ancora soldato, ma ora non c’era fretta. Ricevetti altri giorni di convalescenza, me li davano nel reparto neuro dell’Ospedale militare di Sturla.
Tornato in caserma, il giorno prima di ritirare il congedo, o il giorno prima ancora, una di quelle sere lì, comunque, uscii dal cancello e non rientrai mai più in quella caserma.
Me ne andai anche dall’Italia, temendo che mi avrebbero cercato, lasciai l’Italia e mi fermai in Costa Brava e quando cominciò il freddo raggiunsi le isole calde, di fronte alla costa africana.
E così, ancora oggi, ogni volta che torno in Italia mi sembra di farlo da clandestino e quando me ne vado ho l’impressione di disertare di nuovo come la prima volta.
Questo scritto sta prendendo un po’ troppo una piega affollata di io e di Calvino e Biamonti non dico più nulla. È che se mi si chiede di commentare il mio paesaggio estremo, queste foto, un paesaggio senza io non va oltre la cartolina.
Siamo davvero cosa vediamo? Eppure un libro su Calvino e Biamonti e su di me non può che essere un libro sbilenco. Il paesaggio ligure di Biamonti – non ne conosco altri di suoi se non quello adriatico dell’Attesa sul mare, o il paesaggio della Provenza, che però assomiglia alla Liguria – è un invito a estrapolare il mare dal mare e incollarne il senso alle rocce, alle foglie, per dire che le cose in Liguria hanno quel tormento lì. Il paesaggio ligure di Calvino, specie quello di un libro dell’ultima parte della sua vita come La strada di San Giovanni, lo sento ben più vicino; del resto, che sciocchezza, la campagna di San Giovanni sta esattamente a metà strada tra la rupe di Biamonti e il mio carruggio di Prelà.
Cosa abbiamo in comune tutti e tre? A parte il fatto che abbiamo ereditato della terra e siamo stati figli di padri che «andavano in campagna» e ci chiedevano di seguirli per dar loro una mano, c’è in comune ben poco. Abbiamo dunque in comune il senso di colpa per non aver quasi mai dato una mano ai nostri padri in campagna? C’è questo e poco altro in comune? Di nuovo posso parlare solo per me, e ammettere che è un dolce senso di  colpa quello che ti lascia addosso la diserzione. Quest’anno sono stato in America, prima in Florida e poi in California. Se mi avessero detto scegli tra una di quelle due coste e New York avrei scelto la costa, una qualsiasi, ma forse di più quella della Florida. Calvino invece si sentiva un new-yorchese a fondo. Mentre Biamonti amava la Provenza. Ecco, io, ad esempio, non ho niente contro la Provenza, ma mi ricorda troppo la terra interna delle spiagge che frequentavo da bambino perché mio padre faceva l’aiuto cuoco nei ristoranti di Saint Maxime e Saint Raphael. E mentre lui faticava io me ne stavo in spiaggia tutto il giorno a chiedere al mare perché non sapevo nuotare. Fuori posto non per la questione del mare, ma perché per la prima volta ero assente da quella zona interna che avevo imparato a chiamare Liguria. Era un fuori strano, di certo non era né la Liguria e né un fuori dentro un collegio. L’impressione della Costa Azzurra e della Provenza è quella di un pre-esilio. Di qualcosa di somigliante a un marsupio, ma esterno, se tutto questo fosse possibile. O forse solo l’oltre estremo ponente. Un Far West da varcare e di cui nutrirmi, come un litofago, individuando la roccia cosmica e amica, fino ad assorbirla, passarle attraverso… Ma in California e in Florida l’estremità è quella di un continente e la vivi molto più intensamente, dev’essere un po’ come la sentono i portoghesi. Si potrebbe parlare della differenza animale che c’è tra un ramarro ligure di grosse dimensioni e un’iguana.
Di sauri in Liguria se ne trova una specie tra le più grosse d’Europa. Si tratta della lucertola ocellata, si dice abiti volentieri a Pompeiana e sui Pirenei, nelle isole Baleari e in pochi altri luoghi, tra le pietre, nelle rughe delle montagne.
Ai piedi dei Pirenei è dove ha deciso di morire Walter Benjamin, dopo aver vissuto, qualche tempo prima, alle Baleari, e per ben tre volte aver trascorso lunghi soggiorni a Sanremo (non così distante da Pompeiana). Così, un giorno, ho deciso che lei, la lucertola ocellata e Benjamin avrebbero potuto conoscersi e popolare le pagine di un mio romanzo.
Il protagonista è un bambino che gioca al pallone in un carruggio in discesa di Sanremo, nei pressi della ferrovia. Il pallone rotola e finisce oltre i binari, il bambino vuole recuperarlo, ma non deve disubbidire all’ordine della madre: non si attraversano i binari.
Allora non gli resta altro da fare che incamminarsi accanto alle rotaie, per trovarne la fine.
Avrei voluto tentare di scrivere questo romanzo come se fosse stato di Calvino. Del resto l’idea è stata proprio sua, di Calvino: era ragazzo e ne aveva parlato agli amici, forse ai tempi in cui con gli amici si confessano i progetti letterari. Lui, ragazzo prima della guerra, senza sapere che la Sanremo della sua gioventù finita la guerra sarebbe sparita, disse che avrebbe voluto raccontare la storia di un bambino che diventa vecchio lungo i binari cercandone la fine, ma senza trovarla, fin quando, certo che i binari sono infiniti – forse anche quelli tronchi –, gli sarà chiaro che il pallone è irrecuperabile e allora tornerà a Sanremo. Ma Calvino questa storia non la scrisse e io ho pensato che qualcuno l’avrebbe potuta scrivere, come gli autori di questo libro e di queste fotografie hanno provato a leggere tra le pietre rotte di tre scrittori così diversi tra loro e nello stesso tempo provenienti dalla stessa terra.

IJmuiden, 5 marzo 2023

 

NdR Questo testo di Marino Magliani chiude il volume, edito di recente da Exorma, “Calvino, Biamonti, Magliani, il racconto del paesaggio, lo sguardo, la luce” con testi di Luigi Marfè, Claudio Panella, Luigi Preziosi e Fabrizio Scrivano