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“Lo spostamento verso il rosso” di Aleksandr Skidan #1

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[A partire da oggi presento in tre parti il componimento Lo spostamento verso il rosso di Aleksandr Skidan, tradotto da Elisa Baglioni, che ha curato il volume La poesia è secondaria. Poesie scelte (Quodlibet, 2022), da cui è tratta anche la nota introduttiva. ot]

A cura di Elisa Baglioni

Aleksandr Skidan è un intellettuale di spicco della Russia contemporanea. Nato a Leningrado nel 1965 si è affacciato al mondo letterario negli anni spasmodici del crollo dell’URSS e dell’avvio alla fase neoliberista. Critico raffinato, le sue riflessioni sulla poesia russa di fine millennio si possono leggere nell’intervista-conversazione contenuta originariamente nel volume La poesia è secondaria, da cui è tratto anche il testo qui presentato.

Le posizioni estetiche di Skidan sono strettamente legate ai cambiamenti sociali e storici in corso.  L’immaginario lirico, per il poeta pietroburghese, è minacciato dalla logica conformante del tardo-capitalismo e da un sistema ideologico repressivo giunto in Russia sotto le mentite spoglie di una terra promessa, eppure, in questa apparente terra inospitale e desolata si salva uno spiraglio che apre a nuovi spazi lirici, tessuti variegati di connessioni fonosimboliche, ritmiche occasionali di versi a misura fissa, echi distorti delle voci del passato letterario. Nelle poesie che compongono la raccolta Lo spostamento verso il rosso (2005) la realtà esterna si impone con violenza nel vissuto, quella violenza che Skidan rappresenta attingendo a linguaggi alieni alla lirica, come se il lessico burocratico, il linguaggio analitico della filosofia e quello critico letterario soffocassero ogni possibilità di rappresentazione. Nella poesia Lo spostamento verso il rosso, che dà il titolo alla raccolta con cui ha vinto il prestigioso premio Belyj nel 2006, la scomparsa dell’amica A., morta suicida, è raccontata da un io che non può fare a meno di parlare con la voce delle opere di Dostoevskij, Blok, Benjamin, Nietzsche e Derrida, negandosi la possibilità del racconto autentico del lutto. In controluce compaiono gli elementi della tradizione poetica pietroburghese: nella descrizione di una Pietroburgo post-apocalittica, relitto e reliquia, nel paesaggio desolato di alcuni luoghi simbolo della città, come la prospettiva Nevskij, frequentata da una risma di personaggi privi del fascino che un tempo incantava i passeggiatori gogoliani e nella vocazione cosmopolita dei riferimenti letterari.

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Lo spostamento verso il rosso

Questi ingressi di case paiono sepolcri saccheggiati.

Tombe invase e profanate dalla porta di servizio della storia – in un’epoca che di per sé è già morta e sepolta.

Altri producono l’impressione di labirinti, le cui fughe portano ai ricordi affaldati del periodo glaciale.

La doppia esposizione consente di scoprirne la natura trasparente, allucinatoria.

Si distaccano dalla retina alla stregua di intonaco logoro e crepato, sul quale appaiono strati geologici recenti.

In successione, sulla patina fluttuante dei contorni che colano e non fanno in tempo, non sono in grado di comporre un’immagine, lo sguardo si sofferma su stigmate di una trasparenza irradiante, quasi della vuotezza.

Così il tempo compie un giro della morte.

E insieme alla lenta infiltrazione nella pupilla della sua sostanza vischiosa, densa, la storia inizia a coincidere con la propria origine: la violenza.

Il punto di cristallizzazione.

La solidificazione messianica del corso degli eventi.

Disincarnarsi qui equivale a recuperare la vista.

La cicatrice splendente di magnesio che cuce i suoi brandelli deformati.

L’eco, che si separa dall’umida natura della voce e si disperde nell’acqua stagnante dell’amnesia. I relitti di un’espropriazione generale.

Fra poco questi ingressi acquisiranno tutt’altro aspetto.

Il cordoglio passerà di moda (è già passato).

Siamo di fronte agli ultimi bagliori della verità storica – alle sue rovine.

Il continuum della storia deve saltare in aria.

[…]

Sott’acqua

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Pubblico qui un estratto del libro Sott’acqua di Francesco Borrasso (Giulio Perrone Editore, 2023)

Finalmente riconosce la pianta da cui sua madre coglie le pere. È già a buon punto. Subito dopo si ritrova sul sentiero lungo il quale sono costretti a camminare in fila indiana per colpa dei rami. Tenta di ricordare i passi tra i pungitopi, gli abeti, i cespugli, quando nel terreno cedevole lascia le sue impronte in quelle di lei meravigliandosi di quanto piccolo sia il suo piede. Adesso ci sono solo le sue, di impronte. A volte il bosco sembra gonfiarsi e sgonfiarsi, somiglia a un respiro. Un po’ come oggi.
Di colpo le braccia gli cadono lungo i fianchi, le gambe cedono, è con le ginocchia nel terreno fangoso. Sente l’umidità che gli si infila dentro le ossa.

Forse è questo che sentono i pesci, pensa. L’acqua dentro i muscoli e le ossa e in ogni parte del corpo. Se aprono la bocca, entra per forza.

Si tira su scrollando i pantaloni sporchi di terra. Il cappello è zuppo, lo toglie e si passa una mano sui capelli bagnati. Un brivido gli sale dalla schiena. Mentre chiude la zip del piumino si accorge che la poca luce che entra nella macchia è diventata più calda e pensa che forse è uscito il sole, anche se da dove sta non può vedere il cielo. Non sa da quanto sta camminando, lo stomaco fa dei suoni inarticolati e la bocca è secca, allora si siede ai piedi di un albero, poggia la schiena contro il tronco e apre lo zaino per prendere l’acqua. Beve facendo dei sorsi piccolissimi, la gola è diventata stretta come un tubicino di gomma, ogni parte del suo corpo è in evoluzione. Raccoglie anche una merendina e inizia a mangiarla a morsi piccoli, poi un’altra, e mentre mangia si rende conto che intorno tutto è oscuro, tutto è ombra. Si calma pensando che i pesci non chiudono gli occhi perché non possono, e quindi anche se lui chiude gli occhi e vede tutto nero non cambia niente. Fa forza per respirare piano e la pinna si muove appena a ogni spostamento. Ha paura di allungare una mano per toccarla. Il terreno umido gli ha bagnato il sedere. Qualcosa sta arrivando da dentro, lo sente, qualcosa a cui non può dare un nome. Subito si allaga la vista, singhiozzi profondi gli nascono in gola.

Forse basta uscire dal bosco, pensa.

A pochi metri il chiacchiericcio di una civetta gli finisce dentro le orecchie. Si stringe le gambe al petto, ha freddo, il gelo gli si arrampica sulla faccia. Quando si porta la mano sulla guancia non sente niente, non sente la mano, non sente la pelle. Forse la sua trasformazione si è completata e il suo corpo, adesso, è ricoperto di squame. Batte le mani e ci alita dentro, le ossa sembrano essere diventate fragili.

Autoritratto dell’artista con pollo

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di Giovanni Blandino

“Il momento in cui parlo già è lontano da me”

Cara,

penso che qualcosa sia cambiato oggi. Aspettami, ti dico, perché a breve torno da te.

C’era il bel sole, questa mattina, come se la primavera fosse già arrivata. Io sono lì, nell’aia, a fare colazione (mi sono preparato uova e salmone) che cerco di godermi il calduccio di quei raggi dopo una notte piena di brutti pensieri.

All’improvviso mi raggiunge un venticello adorabile: viene dal mare e mi pare addirittura che ne porti qui il profumo. La cosa è appena percettibile, eppure mi mette straordinariamente di buon umore (mi sono immaginato infatti una barchetta con su qualcheduno diretto verso isole lontane). Sono convinto che sia stata proprio questa fragranza marina – non saprei se giudicarla esotica o, come dire, carica di certi ricordi – a suggerirmi l’idea di andare a dipingere in terrazza. Mi sentivo incredibilmente ispirato.

Tutto è successo qualche giorno fa, in realtà. Io non ho finito neanche la colazione e subito ho iniziato a organizzare il materiale. Avevo deciso di andare a dipingere in terrazza e ci sono voluti diversi viaggi per portare tutto lassù. Ti ho sempre raccontato di come è difficile: ci sono tutti quei gradini grigi, con quel marmo che non mi piace affatto, e poi bisogna percorrere la vecchia soffitta, piegati, così da non sbattere la testa. Ho iniziato con il trasferire i pennelli, i miei colori, le vernici, ma ho fatto tutto con allegria.

Una prima leggera preoccupazione, mi ricordo ora, si è insinuata in me quando pensai a come trasferire lo specchio. Forse non ti ho detto che da un po’ di tempo per dipingere uso un vecchio specchio trovato nella camera del bisnonno. È incassato in una cornice di legno e ha anche un supporto, sempre di legno. Insomma, lo specchio non pesava poco. Per portarlo su in terrazza sperimentai un metodo che definii stile alpino. Presi una corda dalla capanna (una delle capanne che circondano la casa e che sono piene di vecchi oggetti) e con quella mi legai lo specchio dietro la schiena (avevo visto qualcosa del genere in un documentario che raccontava le prime eroiche spedizioni himalayane). Iniziai così ad arrampicarmi su per quei brutti gradini, anche se già dopo qualche passo la mia fiducia nello stile alpino iniziò a vacillare. L’ultima rampa la feci tutto piegato in avanti (la schiena scricchiolava!) fino a poggiare le mani a terra. A carponi arrivai in terrazza e posizionai lo specchio. In quel momento vidi che la casa del vicino era in pieno fermento: tutta la famiglia lavorava per ammassare in un unico grande cumulo, in mezzo al campo, i rami secchi delle potature.

Come ultima cosa portai su la tela. Ovviamente si trattava di quel quadro con il pollo del vicino. Come si era fatto pesante! Fu in quel momento che mi chiesi per la prima volta se non stessi dedicando troppo tempo a quel lavoro. Notai infatti che le numerose pennellate, tutte più o meno sovrapposte, avevano inspessito la tela.

Per cominciare a dipingere (per farlo bene intendo), quella mattina, sarebbe mancato solo il pollo. Ma il pollo non mi arrischiai ad acchiapparlo. Ero infatti convinto, all’epoca, che il vicino nutrisse forti sospetti sul mio conto (cosa che fu di lì a poco confermata). Ormai da tempo – da quando avevo preso la decisione di inserire l’animale nella mia composizione – mi recavo di soppiatto nel suo pollaio. Non mi pareva di fare proprio niente di male. Era proprio un bel pollo, non troppo pasciuto, ma vispo. Io lo prendevo semplicemente in prestito per qualche ora, per dipingere dal vero, e poi lo riportavo al suo posto. Un giorno però trovai una sorta di serratura, seppur rudimentale, ad assicurare la porta del pollaio. Non ci volle molto ad aprirla, ma mi accorsi subito che non sarebbe stato possibile richiuderla e che dunque la mia incursione sarebbe stata scoperta. I giorni seguenti li avevo trascorsi nell’ansia e non avevo più avuto il coraggio di recarmi nel pollaio, addirittura smisi di dipingere per qualche tempo. Fu in quello stato che mi trovò il venticello adorabile, quella mattina, arrivando dal mare e offrendomi di nuovo un poco di speranza.

Avevo però ancora troppa paura a recarmi nel pollaio del vicino. Decisi quindi che il pollo era già praticamente concluso (dopo diversi ripensamenti, ero comunque riuscito a dar la forma che volevo al bel pennuto; come quello disegnato da un bambino) e mi apprestai a dipingere. Afferrai il pennello.

Mi pare di ricordare che inizialmente guardai a lungo la tela e decisi di cancellare di nuovo quella stupida frase che avevo piazzato lì in mezzo Persino un pollo cieco etc…. Ci passai più volte sopra, coprendola con un bel rosa antico proprio come quello di cui è dipinta questa casa. Ora dentro al quadro c’erano solo la tela, lo specchio, il pollo e l’artista. Mi sembrava esattamente tutto quello che doveva esserci, quella mattina. Poi iniziai a lavorare alla mia figura.

Passarono penso poche ore e io non avevo fatto grandi passi avanti. Dopo aver aggiustato qualche dettaglio del vestito avevo deciso di dare un ritocco allo sguardo (volevo che risultasse almeno speranzoso) ma poco ci riuscivo. Alzai lo sguardo dalla tela. L’aria era trasparente e dalla terrazza si vedevano chiaramente tutti quei colli che, diritti, circondano la casa. Sulla loro punta arrotondata si poteva distinguere ogni edificio e di ogni edificio mi pareva quasi di vederne attorno gli abitanti. Mi ricordo che vidi una macchinina percorrere tutto il crinale della collina e andare verso il mare. Puntai il pennello verso la vettura in miniatura mentre ne seguivo il movimento e pensai che in una giornata così bella qualcuno doveva pur prendere la macchina per andare verso il mare (mi pare fosse gennaio o già febbraio forse, insomma proprio quel momento dell’anno in cui un tempo, nelle giornate di sole, avrei fatto la mia prima visita alla spiaggia).

Appena la vetturina scomparve dietro la collina, subito mi pervase un senso di inutilità, quello che mi prende nelle giornate storte. Mi sentii terribilmente solo. Dov’era finita la bella speranza del mattino portata da quel vento provvidenziale? Annoiato – peggio, nauseato – cominciai a passare e ripassare il mio dito sopra alla tela. Sul viso del pittore era comparsa ora un’aria quasi romantica che così poco si addiceva al resto del quadro. Mi chiesi da dove saltasse fuori quella stonatura.

Non mi ricordo più se la mattina fosse già passata, forse si era già fatto pomeriggio o era quasi sera. Decisi che l’ultima speranza per non buttare via la giornata era quella di ritornare a dipingere il pollo. Scesi di sotto e guardai in direzione del vicinato. Attraversai l’orto, o quel che ne rimaneva (era stato divorato da erbe così alte che a malapena si vedevano le canne che avrebbero dovuto sostenere gli ortaggi). Spuntai di poco lontano dal grande cumulo che il vicino e la sua famiglia avevano continuato a preparare mentre io perdevo tempo a dipingere in terrazza. Proprio in quel momento lui tirò un grido e appicciò il grande fuoco. Fuoco! urlava il vocione. Fuoco! fuoco! ripetevano i bambini attorno al grande falò ora acceso. Come ardeva bene. Dovevano avere cosparso di benzina tutto il cumulo. Fuoco! fuoco! Fuoco!

L’idea mi venne davvero con naturalezza. Mentre correvo su a prendere il quadro ti ho pensato. Eravamo in bicicletta e scendevamo in picchiata dalla collina al mare. Vivere, vivere il presente, canticchiavo io mentre stavo saltando giù dalle scale con il quadro in mano. Ero arrivato davanti al fuoco. Ce lo tirai dentro.

Il quadro era lì, in mezzo alle fiamme, e io me ne ero rimasto a guardare i colori che si scioglievano come la bava di un’enorme lumaca. Mi sembra ancora di vedermi: io ritto sulle mie gambuzze di fronte a quel bel falò, vivo e felice, pronto a tornare da te. Il momentaneo idillio fu interrotto da un colpo forte alla gamba. Era il vicino che ora stava agitando l’impugnatura del suo forcone e di certo non mi avrebbe risparmiato un’altra legnata se non mi fossi dato alla fuga. Pollo!, urlava lui, mentre io saltavo via zoppicando.

Adesso non mi ricordo più se questo fatto successe davvero o se me lo immaginai soltanto. Forse, per essere onesto, dovrei cancellare alcune righe di questa lettera. Ma ho bruciato il quadro, questo è successo e questo ti avrei voluto raccontare. Avrei voluto raccontartelo subito, la mail però ancora non l’ho inviata e forse è andata bene così. Mi avresti fatto troppe domande, ti saresti dispiaciuta e sicuramente non avresti trovato nulla di buono in quello che c’è scritto qui, o almeno non tutto quello che ci avevo visto io. L’autoritratto è distrutto, il rapporto con il vicinato si è fatto burrascoso. Io però ho smesso di dipingere e da quel giorno ormai lontano non ho più niente da fare qui se non tornare da te. Cosa mi rimane da fare d’altra parte? Cosa mi rimane da fare? Per sicurezza ho pensato anche di allestire qualcosa lì dove ero solito dipingere: un piccolo bidone di latta, della legna, benzina e un accendino. Non si sa mai.

Foto di Katharina N. da Pixabay

Fuori terra (sillabario della terra # 5)

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di Giacomo Sartori

Già da tempo si coltivano pomodori e cetrioli e peperoni e fragole e lamponi e altre specie in minuti contenitori, spesso vasetti di plastica, riempiti di torba, in genere in serre di plastica che permettono di affrancarsi in parte o completamento dall’inghippo delle stagioni. Torba che viene usata una sola volta, e poi gettata. Torba che un po’ alla volta si esaurisce, perché per formarsi le ci sono voluti migliaia di anni. Proviene dalle torbiere, ambienti di rara diversità di vita che vengono scavati e amputati, spesso lasciando pozze di acqua delle quali non si sa cosa fare. Si chiamano colture fuori terra. Sono di gran moda. Si dice che sono molto moderne, sono il futuro dell’agricoltura.

Dal punto di vista biecamente utilitaristico è più vantaggioso, usare la torba o altri materiali inerti che non hanno le esigenze e il caratterino della terra, i suoi malumori e le sue vendette. E che possono essere gettati una volta usati, con la noncuranza con la quale si volta una pagina. Ricominciando ogni volta da capo, senza preoccuparsi delle erbacce e della eccessiva compattezza e degli impoverimenti e degli equilibri dei microrganismi e degli altri esseri, senza darsi pensiero per il futuro. Trasformando finalmente l’agricoltura in un vero e proprio processo industriale, affrancato una volta per tutte dalle complicazione inutili di quella gran rompicoglioni che è la terra, da quella imprevedibile e bizzosa presuntuosa che è la natura.

In agricoltura gli olandesi sono sempre all’avanguardia, e con il loro fazzolettino da nulla, peraltro già fitto di allevamenti di maiali e di tulipani e altro, riescono a essere il secondo esportatore mondiale di verdura. C’è da non crederci. Nelle loro serre supertecnologiche i pomodori e le altre piante sono spinte a arrampicarsi in altitudine, su e sempre più su, in modo da risparmiare spazio, con il principio dei letti a castello. Per nutrire le pianticelle danno esattamente le quantità che servono di concimi chimici, diluiti nell’acqua, e qui il modello sono le flebo. E anche l’acqua, viene dosata con il contagocce, riciclando i troppo pieni: non buttano via nulla.

Invece della luce solare, non abbondante nei loro bigi inverni, e che comunque può fare le bizze anche d’estate, usano le lampade al led. Alle piante vanno bene anche quelle, come noi possiamo nutrirci di liofilizzati, se vogliamo. Consumano molto poco, si dice, e l’energia può venire da fonti pulite. Citando le economie di acqua e di concimi e la possibilità di usare energie pulite si strombazza allora che è il metodo più razionale e ecologico che esista, l’unico che evita gli sprechi e fa risparmiare. Si dovrebbe coltivare tutto così, si dice. È il sogno degli ingegneri, che amano che tutto sia controllo, e certo ancora più dei transumanisti, allergici ai limiti naturali.

Peccato solo che i concimi chimici siano prodotti con grandi quantità di petrolio. E peccato anche rinunciare al sole, che è gratuito, e fabbricare i pomodori e i peperoni usando substrati che richiedono energia per essere prodotti o estratti e impiegando delle lampade, e insomma dell’energia. Nei paesi freddini d’inverno le serre devono essere poi scaldate, e anche lì ci vuole molta energia. Ma gli olandesi non sono i soli, intendiamoci, e molte delle verdure dei supermercati vengono da lì.

Se quindi si facessero i calcoli, quasi nessuno li fa, si vedrebbe che per avere le chilocalorie contenute in un chilo di pomodori si impiegano le chilocalorie (sotto forma di energie fossili) contenute in un chilo e mezzo o due chili di pomodori: la resa energetica è negativa. Detto altrimenti si trasforma il petrolio, sempre lui, in oro rosso, in pomodori. Come è noto un procedimento può però essere economicamente molto vantaggioso anche se energeticamente disastroso, sono appunto le alchimie dell’economia. L’anno scorso si è però constatato che qualcosa non andava, quando con gli aumenti dei prezzi del gas le serre olandesi, prima molto redditizie, nuotavano in una crisi nera. Ma ora i prezzi si sono calmati, e via come prima per le autostrade ben asfaltate dell’economia miope alleata all’ecologia di facciata.

Certo, c’è l’energia cosiddetta pulita, ammesso che lo sia davvero, tenendo conto anche della fabbricazione degli apparecchi che la producono e del loro smaltimento. Si insiste molto su questo, quasi fosse la quadratura del cerchio. Ma forse è meglio utilizzarla per qualcosa d’altro, dove è davvero necessaria, e non si può farne a meno, quest’energia cosiddetta pulita, e fare i pomodori con il sole. Con il sole che è gratuito e con la terra, nonostante sia sporca, alla vecchia. Senza petrolio per i concimi chimici, per le lampade al led, per riscaldare le serre l’inverno, per i pesticidi per contrastare i funghi che adorano gli umidumi delle serre, per costruire e distruggere gli apparecchi che danno le energie cosiddette pulite.

Forse è meglio mettere le radici dei pomodori nella terra, la quale si dà da fare pure lei gratuitamente. E anzi se curata bene da una mano, già che c’è, anche a concimare la pianta e a tenere sotto controllo parassiti e predoni vari. L’agricoltura è l’unica attività produttiva umana che sforna più energia di quanta ne richieda: grazie al miracolo della fotosintesi i raggi del sole si convertono, utilizzando i mattoncini dalla CO2 presa dall’aria, in materia vegetale. Foglie e fusti e frutti. Senza bisogno di pannelli solari o pale eoliche o altro. Solo con la terra.

E anzi le rese energetiche possono essere favolose, se pure la terra stessa dà il meglio di sé, e sgobba al risparmio, anche appunto fornendo materie prime e limitando gli attacchi esterni. Le agricolture che noi consideriamo molto arretrate sotto questo aspetto possono fare meraviglie. Ma anche quelle nostrane che fanno davvero attenzione a consumare poco, senza fingere o barare. In pieno bieco capitalismo globalizzato c’è ancora chi fa regali senza chiedere un compenso, e che non ha bisogno del mercato globalizzato. È un peccato che tanti metodi che si presentano come i più efficienti, in genere con il blasone delle alte tecnologie, sulle quali si fa adesso molto affidamento, abbiano spesso perso l’abitudine a fare caso e a accettare e a mettere in contabilità questi regali del sole e della terra.

Non-traduzioni novecentesche

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di Romano A. Fiocchi

 

Luca Milite, Traduzioni di autori vari. Romanzo,
Cooperativa Italiana Librai.

Il ventottenne che ha scritto questo romanzo, pubblicato nel 1990, ora ha sessantun anni e insegna lettere in un liceo. A dire il vero, nel 2007 ha fatto uscire anche un altro piccolo ed elegantissimo libro: Fiabe di città, edito da Sedizioni. Poi nulla più. Un vero peccato, perché già questo primo volumetto dal bizzarro titolo Traduzioni di autori vari, che traduzioni non sono poiché si tratta di un romanzo, è qualcosa di brillante e di geniale, spassoso e profondo, letterario e scorrevole. E – che di questi tempi non è poco – davvero ben scritto. Perché al centro di tutto non sono i personaggi, tanto meno la storia in sé: autentica protagonista è la lingua, la sua bellezza, i suoi equivoci, le sue ambiguità, i suoi giochi semantici, in una parola: la sua plasticità. Se da un lato l’ironia e il sarcasmo affiorano prepotenti, talvolta in veste goliardica (come si conviene ad un autore all’epoca poco più che studente), dall’altro c’è questo rispetto religioso dell’italiano letterario, elegante e preciso, anche quando – e succede spessissimo – la storia volge in parodia della grande letteratura. Ecco, per fornire un esempio, un breve brano, compiuto nella sua dimensione:

DE CONVERSIONE ABBATIS FARINAE

In una caverna sulla cima di un colle riarso dal sole che si innalzava al centro di una vasta distesa di sterpi secchi e ritorti su di un altopiano desertico e lunare circondato da una foresta pietrificata in cui l’occhio e la mente si perdevano, in questi luoghi, dove ora un fiume irriga una fertile pianura al centro della quale sorge la città di Paperopoli, viveva l’abate Farina, un santo eremita.

Egli s’alzava all’alba e cantava le lodi del Signore fino a sera. Si cibava di locuste e beveva il latte di una capra. L’eremita, la capra e le locuste erano i soli abitatori di un paesaggio senza fine.

Un giorno il demonio andò a tentare il sant’uomo.

Disse il demonio: “Se lasci questo luogo e mi segui avrai potere, onori e ricchezze, e godrai di tutti i piaceri dello spirito e della carne.”

L’eremita rispose: “Va bene, vengo subito.”

E così l’eremita e il demonio camminarono insieme verso l’orizzonte, sparendo in lontananza contro la luce del tramonto.

L’abate Farina – che fa ovviamente il verso all’abate Faria, personaggio inventato da Dumas padre – è il personaggio principale del libro. Le sue vicende si intrecciano con quelle del personaggio dello stesso autore, Luca Milite, ma soprattutto con le disavventure del brigadiere Capperò, del capitano Galante, comandante la legione dei carabinieri immaginari, e di Kwa Too Fong, il più famoso idraulicorùmeno. Tutti i personaggi entrano ed escono da manoscritti ritrovati, da note al testo, da storie che si replicano l’una dentro l’altra, in una struttura che assembla vari generi e forme letterarie: dal giallo alla novella, dalla prosa al sonetto (Rime dell’abate Farina). È sufficiente un esame del Sommario per comprendere la ramificazione strutturale di questo singolare testo. Per prima cosa la tradizionale suddivisione in “libri”: Libro primo, Paperopolis e Libro secondo, la palazzina signorile. Il Libro primo, scritto a quattro mani dall’abate Farina e dal brigadiere Capperò, comprende: La realtà romanzesca (di Luca Milite, con Note dell’abate Farina), I racconti di Paperopoli, il romanzo-saggio La vita quotidiana a Paperopoli ai tempi dell’abate Farina, Pepito e Rodrigo (traduzione in spagnolo dell’immortale capolavoro della letteratura russa Delitto e Castigo di Feodor Dostoevskij del prefetto de Manteca, volta in lingua italiana dall’abate Farina), Rime dell’abate Farina (con Nota al testo di Luca Milite). Il Libro secondo, scritto dall’idraulicorùmeno Kwa Too Fong (a cura di Luca Milite), è suddiviso in undici capitoli: il primo è privo di titolo, gli altri riportano la numerazione dei piani della palazzina signorile (Primo piano, Secondo piano, ecc.), salvo i tre capitoli Le insidie della traduzione, Portineria e L’ascensore di destra.

I dialoghi e l’intero testo sono disseminati di citazioni parodistiche più o meno velate, talvolta anche solo a livello di evocazione stilistica: dai richiami foscoliani («la noia, ultima dea, non rifugge dai morti»), agli spagnolismi gaddiani («il palazzo de Manteca»), ai poemi cavallereschi («Molto arrabbiato è il brigadiere, brandisce la spada, che ha nome Giacomini Silvana, glie la diede Lucio, imperator romano, quando emigrò nel Montana»), alle (false) traduzioni in spagnolo di Delitto e castigo, al fiume «Stigino», all’atmosfera kafkiana del cacciatore Gracco («D’estate le acque del lago evaporavano lentamente portando nelle case i pensieri degli annegati; si condensavano sui soffitti di pietra e la notte scendevano sul viso degli abitanti addormentati, applicandovisi come una maschera, ne rubavano il respiro ed entravano nei loro sogni»), al tema pirandelliano dell’esclusione dalla vita civile e sociale quale parodia de Il fu Mattia Pascal («Sono morto da più giorni ormai, ma preferisco, piuttosto che scendere nella tomba oscura, andare in giro, fare cose, vedere gente, vivere la mia vita»), sino alle variazioni sul tema dei venticinque lettori manzoniani: «Pensino ora i miei venticinque Lettoni quale fu lo stupore dei due e di quali casi straordinari sia piena la letteratura d’oggi», che più avanti diventano: «i miei venticinque Lapponi», «venticinque lebbrosi», «venticinque labbroni», e così via.

L’apparente assurdità delle vicende narrate ha la solidità logica di certe situazioni del teatro beckettiano (e penso soprattutto a Finale di partita) che scaturiscono dal linguaggio stesso. Eccone un esempio: alla domanda ‘Vi sono piaciuta?’ di Mitzi Papalla, attrice di teatro, l’abate Farina risponde così: «Piaciuta? Ma siete stata superba! Ma che dico, solo superba? Ah, Mitzi, siete stata superba, invidiosa, avara, accidiosa, ladra e bugiarda!» Del resto l’assurdità è logica proprio perché, come sostiene il capitano Galante, la realtà non lo è: «La struttura della realtà è passionale, non logica; l’investigatore non deve essere deduttivo, ma affettuoso e sensibile; le persone superficiali pensano che la realtà funzioni secondo leggi razionali e logiche, le persone un po’ più intelligenti e riflessive sono convinte che tutto sia governato dal caos più tenebroso e intricato».

L’abate Farina, nel suo ruolo di catalizzatore della narrazione, fa parte di questo secondo gruppo di persone o, come dice l’appuntato a Capperò, «riunisce in sé le qualifiche di macellaio e di prete cattolico». Solo con lui il brigadiere Capperò può quindi parlare «del crollo del gran teatro del mondo». Solo con lui la Filosofia può presentarsi in forma di una donna bellissima vestita di bianco, tastargli il polso al suo capezzale, e consigliarli qualche buon libro da leggere (ennesima citazione parodistica, questa, del De consolatione philosophiae). Cosa intenda poi l’appuntato con la sua classificazione – macellaio e prete cattolico – viene presto spiegato dal capitano Galante durante una conversazione con il brigadiere: «Amico Capperò, al mondo vi sono tre specie di uomini: i preti, i macellai e i carabinieri. I primi hanno una risposta per ogni domanda, i secondi non si pongono domande, noi infine ricerchiamo la verità giorno per giorno scovandone i frammenti che l’eterna tragedia dell’uomo sparge per ogni parte e ricomponendoli pazientemente e, bada bene, con amore».

Milite riesce a sviluppare una scrittura ad “effetto Escher” (espressione che mi sembra più puntale, in questo caso, di un semplice “effetto Droste” o di un “mise en abyme”), sia a livello ottico sia a livello narrativo vero e proprio. Straordinaria è la descrizione del famoso palazzo de Manteca, a cominciare dalla strada che si inerpica sulla montagna, la cui distanza dopo una settimana di cammino è il doppio di quella già percorsa. Quando si arriva allo spiazzo dove si erge il palazzo, ci si accorge che l’acciottolato è composto da massi erratici. Per cui si deve camminare giorni e giorni tra i massi, senza avvicinarsi mai, per capire che non ci si trova in una piazza ma in un’immensa pietraia, e che il palazzo è un edificio lungo chilometri e alto centinaia di metri, corroso dal passare dei secoli. In uno dei crepacci che si aprono sulla superficie della facciata, come in una evocazione collodiana, vive una famiglia di formiconi. Ma, al contrario di Collodi, qui torna l’assurdità generata dal linguaggio: «Il babbo lavorava in banca, la mamma insegnava lettere in un liceo, il bambino era ancora piccolo. Le giornate passavano liete per la famigliola, quando il babbo s’innamorò di una cantante di tabarin; una sera torno a casa e disse alla moglie: “Cara, non ti voglio più bene”. Ella lo guardò come un occhio di moglie comprensiva e disse: “Non si dice più bene; dovresti dire piuttosto: non ti voglio meglio”».

L’effetto Escher deforma anche il ritmo temporale della narrazione. Dopo la morte del signor de La Palice, «estremo garante della consequenzialità del mondo e ultimo amante della logica», freddato da un colpo di archibugio sotto le mura di Paperopoli, comincia a diffondersi per tutta la città la presa di possesso della realtà da parte dell’assurdo. Le eccezioni non confermano più le regole, le chiavi non aprono più le serrature, nelle sartorie qualche abito fa il monaco e qua e là si notano delle lacerazioni nel tessuto spazio temporale. Nella cantina dell’abate, poi, viene a formarsi una porta che conduce non in una stanza ma in un tempo diverso: «Chiunque avesse attraversato quella porta si sarebbe trovato nello stesso luogo, ma un anno dopo. Ripetendo l’operazione sarebbe ritornato al tempo regolare. Unico inconveniente: la possibilità di incrociare un altro se stesso che arriva nel tempo attuale partendo dall’anno prima, oppure di arrivare all’anno dopo incrociando un se stesso un po’ invecchiato che si appresta a passare all’anno dopo ancora, senza contare gli imbarazzanti incontri per la strada, che non si sa mai se salutarsi o no».

La Nota al testo del personaggio Luca Milite, che chiude il Libro primo, porta all’estremo il paradosso temporale alla Escher:

«L’abate Farina, nel periodo più travagliato della sua vita, durante quella crisi d’ispirazione che lo colse subito dopo la morte, pensò di appropriarsi di un successo altrui, utilizzando quel passaggio nel futuro situato nella sua abitazione.

Giunse quindi nell’anno dopo, quando vide in una vetrina di una libreria del centro il best seller del brigadiere Capperò: Paperopolis. Acquistato il libro, tornò al presente, quando lo ricopiò, apponendovi il proprio nome. Poi si recò dall’editore, ma sull’autobus che lo portava in centro un ladro gli sottrasse il manoscritto; il ladro quel giorno stesso fu arrestato dal brigadiere Capperò, che recuperò anche la refurtiva, ma, dopo una breve lettura, preso dal demone dell’ambizione, pensò di non restituire il manoscritto e di presentarlo all’editore col proprio nome. Così fece, il libro piacque, e l’anno dopo era un best seller.

Ma chi fu l’autore del libro? Non fu l’abate Farina, perché lo comprò in libreria e lo ricopiò; non fu il brigadiere Capperò, perché ne venne in possesso casualmente e se ne appropriò.

Mirabile cosa, un libro scritto da nessuno e plagiato da due, uscito e quasi incarnatosi nel sublime mondo della letteratura senza l’ausilio di umano intelletto creatore! Vedano bene i miei venticinque labbroni di quali casi sia piena la letteratura di oggi».

Insomma, il Libro primo, Paperopolis che il lettore ha letto sino a questo punto non è stato scritto da nessuno.

In tutto il romanzo i paradossi temporali si ripetono, sempre carichi di quell’ironia sorniona che caratterizza la scrittura di Milite. Un altro esempio: il ritrovamento della lettera scritta dal prete giovane a se stesso anziano, redatta come le catene di Sant’Antonio, porta il parroco novantaquattrenne ad impiccarsi con la corda della campana.

Effetto Escher anche a livello di struttura: il terzo capitolo del Libro primo, ossia Pepito e Rodrigo, che è in realtà la traduzione spagnola di Delitto e castigo del prefetto de Manteca tradotta in italiano dall’abate Farina, contiene anche la traduzione spagnola di Kwa Too Fong, il più famoso idraulicorùmeno, dal titolo Fulano, zutano e metil propano, volta in italiano dal capitano Galante e rinvenuta nel cassetto di Rodrigo (Rodrigo è un tavolo da soggiorno in legno di quercia). Pepito stesso legge la prima parte, Fulano, mentre la seconda, Zutano, è rinvenuta dalla sorella di Pepito su un foglietto sgualcito all’interno della sua borsetta e quindi da lei letta. La terza parte, Metil propano, viene riferita come storia veramente accaduta dal brigadiere Capperò.

Assurdo e paradosso generano tutta una serie di storie, una dentro l’altra. Dalla disastrosa rivolta della classe operaia della raffineria di Manzanilloföldvàr, seconda città dello stato, centro industriale e commerciale dove è particolarmente fiorente l’industria della lavorazione della guttaperka, ai fatti inquietanti del Libro secondo, la palazzina signorile (probabile citazione de La vita istruzioni per l’uso di Perec), con i capelli che crescono da soli una volta staccati dalla testa, il cane nero che si dissolve giorno dopo giorno come un ricordo, il bambino che piange sino ad allagare il terzo piano e richiedere l’intervento dell’abate Farina e dell’idraulicorùmeno, la nostalgica storia dell’ascensore di destra, il formidabile e grottesco gran ballo dei ciechi, il quinto piano con lo studio dell’ “avvocato suo” e l’ennesimo manoscritto ritrovato: «La Mano Morta / Rime dell’Indiziato, accademico della Libertà Provvisoria, per la prima volta stampate, onde potranno i giudiziosi lettori conoscere il valore e l’ingegno dell’avvocato suo. Con dotte, ed acutissime annotazioni dell’istesso avvocato suo. Con privilegi, in Pavia / MCMLXXXIX». Naturalmente le annotazioni smentiscono di volta in volta il più ovvio doppio senso.

Un romanzo, questo di Luca Milite, che a distanza di trentatré anni dalla sua uscita in sordina meriterebbe una riedizione. Se non altro per le inverosimili sei righe dell’incipit: «Il sole era un ballerino sovietico fuggito all’ovest per amor di belle donne e libertà; benché percorresse ormai il viale del tramonto i raggi della sua fiammante bicicletta riuscivano a rendere incandescenti i grossi volumi d’acciaio della Fratelli Fabbri Editori filtrando attraverso i finestroni della civica biblioteca di Paperopoli».

Autorizzare la speranza

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[Presentiamo di Italo Testa il saggio introduttivo al suo volume di recente pubblicazione: Autorizzare la speranza. Giustizia poetica e futuro radicale, Interlinea editore.]                            

di Italo Testa

Un rapporto obliquo al vero. È come se oggi la questione della verità tendesse a entrare di prepotenza nel discorso dei poeti. Il compito veritativo della poesia ne occupa la scena, assume un ruolo focale. È una mossa non scontata, se teniamo conto che proprio con un conflitto tra poesia e filosofia sul nesso tra apparenza e verità si inaugura la tradizione occidentale di ordinamento dei discorsi. Occorrerebbe chiedersi di che cosa sia sintomo questa esigenza veritativa, se sia semplicemente un’altra reazione all’impero delle fake news, oppure se non riguardi uno spostamento in atto dell’ordine discorsivo.  A cosa fa segno la fortuna di cui la figura foucaultiana del parresiasta[i] –  chi esercita la virtù del dire coraggiosamente la verità di fronte al potere – sembra godere ai nostri giorni tra poeti di orientamenti tra loro molto differenti? Nel passato recente, anche poeti civilmente impegnati come Pasolini, che hanno fatto del loro corpo l’esibizione di una verità scandalosa, erano sicuramente più cauti in proposito, ritenendo che la poesia avrebbe semmai un rapporto obliquo al vero una relazione non diretta, mediata dall’apparenza – Tell all the Truth but tell it slant, secondo l’adagio di Emily Dickinson [ii].

Dolore e sogno. Ma di cosa parliamo, quando parliamo di verità in poesia? Non tanto di rispecchiamento di una verità di fatto, di un’evidenza cogente da salvaguardare, ma piuttosto di una verità a venire, non data. Si parla di ‘verità’, ma il discorso confina con il terreno su cui campeggia la parola ‘speranza’. Come se la poesia rinviasse a un’idea di mutamento, ma di un mutamento che non può essa stessa produrre. Il sogno di un mondo in cui le cose stiano altrimenti, di un mondo altro da quello che è, che nel Discorso su Lirica e società di Adorno costituirebbe l’aspetto critico del contenuto sociale della poesia, ripreso nella formula quasi incantatoria del “suono in cui dolore e sogno si congiungono”[iii].  Ciò non riguarda necessariamente un contenuto utopico determinato, ma investe l’aspetto controfattuale della forma poetica, quella possibilità di mettere a distanza il mondo che non dipende dal modello di soggettività che di volta in volta una certa concezione dell’io poetico sottoscrive.  Al di là del legame, storicamente condizionato, che diversi modelli di poesia hanno intrattenuto con l’io trascendentale della greater romantic lyric, dell’individuo borghese e della sua soggettività monologica, o dell’io narcisista di massa che secondo le analisi ispirate a Christopher Lasch caratterizzerebbe l’espressivismo contemporaneo[iv], permane il rinvio a un mutamento possibile che la poesia non può produrre – secondo l’adagio fortiniano per cui la ‘poesia  non muta nulla’ di per sé[v] – ma che necessariamente richiama.

Per questo nell’appello alla verità si rifrange l’immagine di una comunità futura rispetto alla quale la poesia si assume il compito di autorizzare la speranza. Un’autorizzazione che ha come condizione di possibilità di non poter essere soddisfatta dalla poesia stessa. Ed è proprio dell’orizzonte contemporaneo in cui siamo immersi che questo riferimento permanga senza che tuttavia si disponga di un paradigma accettato secondo cui potremmo pensarlo.

Crisi d’intelligibilità. Oggi assistiamo a una sorta di crisi di intelligibilità, che in diverse diagnosi sembra avere a che fare con la fine di un mondo e delle sue pratiche, di una forma di vita leggibile: fine della modernità, fine della società letteraria, fine della politica nella sua concezione novecentesca… Una situazione per certi versi analoga a quella di quei capi indiani che si trovarono di fronte al fatto che, una volta entrati nelle riserve, non risultasse più comprensibile cosa fosse un atto coraggioso, quale attività potesse esemplificarlo, visto che le pratiche che sino ad allora avevano dato senso a tali attività erano venute meno – i bisonti scomparsi, le guerre con altre tribù proibite[vi]. Molte diagnosi contemporanee denunciano una crisi di senso analoga, in cui sembrano venuti meno i riferimenti che rendevano intelligibili certi atti: che cosa può contare oggi come atto di parola, poesia civile, poesia politica, se ci mancano i riferimenti a quella prospettiva collettiva d’emancipazione che ci consentiva di afferrarne il senso?

Che cosa sarebbe della poesia, e anche del suo rapporto critico con la società, se questo nostro tempo, come spesso diagnosticato, costituisse davvero l’epoca della sua fine, della fine del modo in cui ne abbiamo inteso il senso sino a ora? Si tratterebbe della fine di una forma di vita, delle concezioni di cui era intessuta circa ciò che valeva la pena fare, soffrire, pensare. Una situazione di estrema vulnerabilità, in cui sembra entrare in crisi l’ancoramento a un insieme di pratiche umane concrete, a un sostrato di atteggiamenti che si è sedimentato in riti e abitudini, istituzioni e storie, in cui la poesia per come la conosciamo si è incarnata.

Eppure, il fatto stesso che di poesie se ne continuino a scrivere, anche all’interno di simili quadri diagnostici, sembra indicare che vi è anche una controspinta, una resistenza al discorso della fine. Il fatto di non disporre più di un paradigma condiviso di cosa sia un’azione buona, non significa che noi non possiamo agire in vista di un bene che non conosciamo. Anche in assenza di un modello autorevole che renda intelligibile che cosa possa contare come un certo tipo di atto, noi possiamo comunque agire in vista di qualcosa che possiamo solo immaginare. Possiamo muoverci in vista di qualcosa che non è più possibile, secondo il senso dato di possibilità, e il cui senso dovrebbe essere definito dalla nostra stessa azione. Che possiamo anticipare solo nell’immaginazione. È un’anticipazione necessaria, fin tanto che saremo esseri viventi, di parola. E che deve permetterci di abitare anche i discorsi della fine come possibilità di un nuovo inizio, di un’azione nuova, come ogni atto di parola, per poter essere tale, deve pretendere di essere.

Un mondo a venire. La poesia contemporanea potrebbe trovarsi in una situazione radicale di questo tipo – in cui una forma di vita, e le sue pratiche, sembrano essere crollate, e ci si trova in una transizione verso qualcosa di ignoto, che i nostri precedenti strumenti di lettura non ci permettono ancora di decifrare. Se leggiamo questa condizione con le categorie della vecchia intelligibilità, del mondo che non c’è più – in cui la società letteraria aveva uno statuto riconosciuto, la poesia sembrava godere di una posizione centrale nel campo letterario e essere dotata di un mandato sociale identificabile – allora il nostro agire, in questo caso il continuare a scrivere poesia, potrebbe sembrare completamente privo di senso, un residuo, un’attività attardata se non retrograda. Ma la crisi di una forma di vita, se cambiamo prospettiva, è anche la fase in cui un mondo nuovo è in cammino. Una novità che non può essere colta attraverso le forme di comprensione di cui disponevamo – le quali non possono far altro che certificare la fine del mondo precedente – ma che, proprio per la sua indeterminatezza, richiede un’attività esplorativa, un atteggiamento euristico di protensione verso ciò che sta oltre i limiti del senso tramandato. Ciò che dall’interno del vecchio mondo si lascia descrivere come crisi, è per altri versi il processo di elaborazione del nuovo. Anche in presenza di una crisi d’intelligibilità, è di fatto possibile, e necessario, continuare a riferirsi al futuro come a un orizzonte di possibilità a venire, non già previste da ciò che è codificato funzionalmente nel presente: agire in vista di qualche cosa che non conosciamo interamente. Le potenzialità della poesia, oggi, andrebbero misurate in questa prospettiva, nella sua capacità di futurazione, distare insieme dentro e fuori il mondo conosciuto, di sporgere per così dire dall’interno verso il mondo a venire, di intercettare la corrente sotterranea del mutamento che attraversa il presente, cogliendo “il possibile che si manifesta nella realtà quando la realtà si dissolve[vii], secondo le parole di Friedrich Hölderlin che trovano un’eco contemporanea nell’affermazione di Audre Lorde per cui il potere della poesia, “in prima linea nella nostra marcia verso il cambiamento”, starebbe nell’esplorare i luoghi oscuri e indeterminati della possibilità e “suggerire il possibile che si fa realtà”[viii].

Funzione e contenuto sociale. La crisi d’intelligibilità cui assistiamo riguarda la funzione sociale che prima attribuivamo a certe attività: è una situazione in cui vengono meno i paradigmi che ci permettevano di attribuire tali funzioni a determinate pratiche. Un processo che oggi investe centralmente la politica, che letteralmente non riusciamo più a leggere secondo i modelli che conoscevamo. Cosa vorrà dire agire in comune nel momento in cui non disponiamo più di modelli normativi di cosa sia una vita buona collettiva, di un’immagine condivisa di un ‘noi’? Che cosa significa sperare quando il significato del termine deve essere reinventato?

In un senso analogo si parla di indebolimento del mandato sociale della poesia, della sua funzione. Ma ciò non esaurisce la questione del contenuto sociale della poesia, che trascende la sua funzionalità. Una situazione di transizione tra due mondi, in effetti, può essere anzi l’occasione per riarticolare tale contenuto, per scoprirne aspetti che una precedente comprensione rendeva invisibili.  Oggi si manifestano aspetti del contenuto sociale che prima non eravamo in grado di afferrare, che magari risultavano repressi dalla grammatica politica dei discorsi emancipativi – per esempio la questione dei diritti civili, le questioni di genere, ecologiche – e che la poesia, proprio in quanto pratica liminare, può contribuire a esplorare. Non è un caso se Citizen di Claudia Rankine sia uno dei testi  che negli ultimi anni, secondo molti, sembra aver maggiormente rimesso in gioco una posta civile proprio muovendosi al di fuori di una comprensione tradizionale del politico, ma stando all’intersezione tra questione femminile,  di classe e razziale, e tematizzando in tale chiave il ripensamento del legame tra io lirico e genere poesia – già il sottotitolo, ‘An American Lyric’, rilancia il motivo adorniano del contenuto sociale della lirica alla luce della metamorfosi dei processi di soggettivazione[ix].

D’altra parte la poesia, lirica o meno, nelle sue pretese sembra aver a che fare con la sospensione della funzionalità sociale piuttosto che con la sua conferma. Non abbiamo un’idea chiara, definita dalle funzioni che le griglie del vecchio mondo ci permettevano di attribuire, di quale sarebbe il contenuto sociale della poesia (e della politica) oggi. Ma proprio per questo il presente è tutt’altro che una gabbia d’acciaio, un orizzonte perfettamente determinato nella sua inoltrepassabilità. C’è, in una condizione di transizione, un alto grado di indeterminatezza, e di apertura, che richiede attività esplorative, come la poesia, in grado di abitare luoghi eventuali, di elaborare mappe di paesaggi ignoti, inventando soluzioni d’esistenza che non sappiamo ancora decifrare.

Futuro radicale. Per questo la poesia avrebbe a che fare con l’autorizzazione della speranza, situandosi nella prospettiva di un orizzonte temporale che chiamerei ‘futuro radicale’. Fare poesia equivarrebbe a istanziare una forma di vita in un solo portatore: una forma di vita non attuale, ma che il testo poetico nella sua individualità, e dall’interno del presente, anticipa. Noi non possiamo sapere se oggi ci troviamo effettivamente in questa condizione, né se essa si sia già presentata o addirittura non sia sempre stata costitutiva di ogni vero atto di poesia. Ma in ogni caso, tutto ciò non avrebbe a che fare con la disperazione, il puro sconforto per il collasso del mondo che abbiamo conosciuto. Piuttosto, la poesia confinerebbe con la speranza, la capacità di rapportarsi al futuro, nonostante tutto, come a un orizzonte di possibilità a venire; e con il coraggio di agire in vista di ciò che individualmente, e insieme, possiamo sostenere solo con la nostra immaginazione.

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[i] MICHEL FOUCAULT, Discorso e verità, Roma, Donzelli, 2005.

[ii] EMILY DICKINSON, Tutte le poesie, Milano, Mondadori, 1997, pp. 1164-5: “Dì tutta la verità ma dilla obliqua”.

[iii] THEODOR W. ADORNO, Discorso su lirica e società, in Note per la letteratura. 1943-1961, Torino, Einaudi,1979, p. 55.

[iv] Cfr. GUIDO MAZZONI, Sulla storia sociale della poesia contemporanea in Italia, in «Ticontre. Teoria testo     traduzione». Teoria Testo Traduzione, 8, 2017,  pp. 1-26. Per una diversa analisi dell’espressivismo cfr. ANDREA INGLESE, L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo, Università di Cassino, Cassino, 2003.

[v] FRANCO FORTINI, Traducendo Brecht, in  Tutte le poesie, Milano, Mondadori, 2014, p. 238.

[vi] Cfr. JONATHAN LEAR, Radical Hope: Ethics in the Face of Cultural Devastation, Cambridge Mass., Harvard             University Press, 2008.

[vii] FRIEDRICH HÖLDERLIN, Il divenire nel trapassare, in Scritti di estetica, Milano, Mondadori, 1996, p. 93.

[viii] AUDRE LORDE, La poesia non è un lusso, in Sorella outsider. Gli scritti politici di Audre Lorde, Il Dito e La Luna, Milano, 2014, pp. 74-5.

[ix] CLAUDIA RANKINE, Citizen. Una lirica americana, Roma, 66thand2nd, 2017.

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Immagine: Cy Twombly, Natural history 1 (mushrooms), 1974

 

Piovono aghi & 2 inediti

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di Laura Di Corcia

 

1.

C’è qualcosa di intollerabile nella natura, nel ventre alchemico.
Per questo ci rifugiamo nelle tane di sasso, nel grigio del mondo.

Un cucciolo ti guarda e vuole dirti: vieni, non ti faccio del male.
Un cucciolo ti guarda e vuole dirti: vieni, non farmi del male.

Affidiamo a periferie e macerie ogni percezione di vita.
Ci chiudiamo in carceri di pietra.

Preferiamo mettere il naso in questo poco che saperci davvero vivi.

 

 

2.

Fra la sabbia che si crea e quella che si deposita si apre una
voragine che chiamiamo tempo.
Ci siamo dentro e lo osserviamo, lo dipingiamo su una foglia.

Apriamo gli occhi sul mondo per dire: esiste.
Apriamo gli occhi sul mondo per dire: esistiamo.

Poi nello stesso tempo ci ricordiamo che è un sogno.
Che questa pietra che ora vedi esiste e non esiste.
La chiamiamo zona fra essere e non essere.

Appoggiamo i piedi per terra per ricordarci che c’è qualcosa chiamata gravità.
Ma in altri spazi, in buchi temporali e spaziali…
Ma fuori, fuori da queste cooordinate…

Ci aggiriamo quindi per la città. Le case sono case, i cani cani.
Quando si incontrano, tanto più si somigliano,
tanto più si abbaiano contro.

Il vento raccoglie i loro guaiti e li disperde in una porzione più grande.
Le cose esistono solo se compresse.

Queste immagini in movimento
sono tutte dentro di noi, fuori.
Questo tempo non è ancora il tempo.

 

*

Tre poesie inedite di Annachiara Atzei

1
 I piatti la sera, il letto raddrizzato
al mattino: ho fatto tutto il necessario 
per scordare - i morti
non abitano più qui, ma
c'è una fessura,
una scheggiatura dell'osso
dove rimangono impigliati. 
Allora dico non vedete?
Non sentite le voci che risalgono
dal mercato - dicono che anche noi
ce ne siamo andati.

___

Tale è il nodo, il volto chiuso 
che non c'è più il corpo
ma solo lo spazio tra le cose -
l'incastro del vuoto
al vuoto. 
Un vento da tempia a tempia -
l'emergere del vero.
Qualcuno ti parli,
qualcuno dica togli le mani dagli occhi -
quello che ancora conosci.

___

Tutto ciò che si fa qui
lo si fa pensandoti.
Non sono mai stata più di questo -
un organo cessato, un lembo
da ricomporre.
Il mondo resta
lontano - intorno qualcosa ha ceduto.
Credo che l'estate sia l'unica
stagione - quella in cui la sera
cantano le rane.

 

 

 

Foto di Christopher Campbell su Unsplash

I briganti di Vincenzo Pardini

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di Mauro Baldrati

La Garfagnana era una terra selvaggia, aspra, dove regnava una miseria che agguantava la popolazione come una pestilenza. Terra difficile, storicamente infestata da briganti fuori controllo, tanto che il padrone di quelle lande, Alfonso d’Este, nel 1522 vi inviò Ludovico Ariosto come governatore, col compito di contrastare il banditismo. Tre secoli dopo non era cambiato granché. La miseria continuava a regnare sovrana, i briganti non erano certo stati sgominati e il padrone era di nuovo un duca, Carlo Ludovico di Borbone: “Non era granché affidabile. Fiacco di carattere, non teneva fede alle promesse; conservatore all’eccesso, riteneva che la paura propagata dai briganti gli avesse giovato a consolidare il potere, distogliendo l’attenzione dei sudditi su quanto avrebbe potuto fare e non aveva fatto, a vantaggio dei suoi personali interessi e svaghi” (pag. 228).

In questa situazione Vincenzo Pardini, scrittore di culto e cittadino di quelle terre, entra a gamba tesa con questo straordinario romanzo, Il valico dei briganti (Vallecchi, 2023; 18 €). Per costruire la sua storia, e dipanarla in un’avvincente narrazione con una lingua – la sua lingua, perché, come ha detto in una intervista a a Rai cultura[1], ogni storia ha la sua – che sembra evocare la durezza “dei quartieri poveri afflitti da una miseria indescrivibile, fino a morire di fame” (pag. 230), non esita a operare innesti tra reale, verosimile e inventato, passando dal romanzo di formazione al noir a una sorta di western così demitizzato da diventarlo di nuovo, al romanzo storico.

Il protagonista assoluto (che avrà una sorta di alter ego/nemico mortale, vedremo in seguito), Vlademaro Taddei, inizia da bambino la sua formazione di futuro criminale. Non c’è pietà né comprensione per l’infanzia. Si inizia a lavorare subito, per magiare. Viene consegnato a un gruppo di pastori, gente arcigna, taciturna e infida, come garzone. E’ un ragazzino sveglio, che vuole imparare, studiare, e uscire dalla sua situazione grama che, fatte salve le dovute differenze, ricorda da vicino La malora di Beppe Fenoglio. La sua silenziosa rivolta verso quella cattiveria e quella perversa povertà (verrà anche molestato da un prete) fa emergere in lui una personalità complessa e tenace. Subito sviluppa un’attrazione irresistibile per l’arte del delitto. Se vede “la cipolla d’oro”, ovvero quei massicci orologi con la catenella che gli uomini portavano legati in cintura, immediatamente brucia dal desiderio possederla, sottraendola al proprietario. Potrebbe essere una personalità indotta dallo sfruttamento, una reazione alla miseria e al privilegio di padroni e preti, ma una delle finezze di Pardini a volte sta nell’ambiguità, un nutrimento dell’immaginario, per cui potrebbe trattarsi anche del talento ancestrale di un artista del crimine. E’ una attrazione – un desiderio irresistibile, che lo accompagnerà per sempre, anche quando, messo da parte un vero e proprio tesoro, potrebbe ritirarsi a vita privata. Così, durante una commissione in una delle cittadine al seguito di un pastore, sente parlare di una ricca signora che vive in un villaggio vicino. E quando è costretto a fuggire dai suoi padroni, accusato di stupro (non consumato) per avere inseguito tre figlie di un pastore sopraggiunte mentre finalmente si lavava in un torrente, decide di passare all’azione. Dopo avere vagato nella selva, di notte si introduce nella villa, ruba denaro e preziosi, ma viene sorpreso dal figlio della donna, che prima aveva tramortito. Ed ecco la vera svolta criminale: gli affonda il coltellaccio che porta con sé nello stomaco, in una rapida, cruenta scena di violenza pura. Crede di averli uccisi entrambi, invece sono sopravvissuti. Ma l’evento crea molto stupore e turbamento, così Vladremaro prende senza esitare l’unica decisione possibile: imbarcarsi, emigrare in America, in California. Il selvaggio West.

E qui parte un innesto importante: il periodo californiano Pardini l’ha preso dai suoi zii, emigrati come Vlademaro e l’amico acquisito Jodo Cartamigli – un personaggio già oggetto di un suo romanzo pubblicato del 1998 da Rizzoli – i quali, proprio come i nostri due giovanissimi eroi, appena sbarcati vengono arruolati nei ranger, come scorte alle diligenze. Ma che far west inedito quello di Pardini. Nessun mito, nessuna epica, ma vita dura e pericolosa, proprio come in Garfagnana. Con alcune ovvie differenze: territori sconfinati e magnifici, infestati di fuorilegge come la terra natia, che attaccano le diligenze. Cavalli meravigliosi, come lo erano gli spettacolari cani Maremmani Abruzzesi, ma nessun eroe senza macchia, tutti sono compromessi, molti ranger sono in combutta coi fuorilegge. Niente coraggiosi e/o ironici pistoleri come negli spaghetti western. In un certo qual modo l’opera di Pardini evoca alcuni albi a fumetti che uscivano negli anni Sessanta, nei quali i vari supereroi Wyatt Earp o Buffalo Bill venivano deprivati dell’epica inventata di sana pianta da Hollywood. Buoni a nulla, ubriaconi, ladri e giocatori d’azzardo, Buffalo Bill un gigionesco sterminatore di bisonti, uccisi a migliaia e abbandonati a marcire, solo per affamare gli indiani. E proprio gli indiani, dai quali riceverà accoglienza dopo essere fuggito, in seguito al passaggio a una banda di fuorilegge, piantando in asso Jodo (che lo odierà a vita, per averlo tradito): niente misticismo alla Un uomo chiamato cavallo, ma durezza, sempre, fame e bastonate, prima di essere accettato. E dai quali trarrà insegnamenti che lo accompagneranno per tutta la vita.

Dopo un periodo come fuorilegge “in prova” nella banda, di nuovo Vlademaro si dà alla macchia, mentre i compari sono impegnati in una sparatoria dagli esiti incerti. Lo fa per salvarsi, ma anche per un aspetto della sua personalità: fondamentalmente è un bandito solitario, il suo modello sono le rapine individuali. L’esperienza acquisita lo ha convinto che non ci si può fidare dei complici. Sbagliano, non stanno alle regole, possono tradire. E infatti questo accadrà, nella terza parte del romanzo, quando, dopo un lungo periodo di furti, assalti e rapine, deciderà di tornare “a casa”.

Tornato a Bagni di Lucca, raggiunge i fratelli e le cognate. Sono tutti imbarazzati, forse allarmati, anche perché Jodo Cartamigli, che gli ha giurato vendetta eterna e sembra sia diventato uno spietato bounty killer, dall’America diffonde notizie sull’attività criminale di Vlademaro. Sì, perché è senza dubbio un criminale, ma un criminale onesto. Ruba, se necessario uccide senza esitare, ma non si abbandona mai a crimini come lo stupro, che invece praticheranno alcuni componenti della banda che ha fondato. Sa che è giusto rubare ai ladri, i ricchi, e i preti, che dispongono sempre di denaro, ma conserva un’etica di fondo, incorruttibile.

Ecco quindi un altro innesto: I briganti diventa romanzo storico, che segue le vicende di una banda effettivamente esistita, che operò per cinque anni, dal 1837 al 1842, capeggiata da Barbanera, o Il vecchio della montagna (nome reale Fabiano Bartolomei). Rapinavano soprattutto le parrocchie, perché, in caso di mancanza di contante, potevano sempre contare sugli arredi sacri. Pandini cambia i nomi, ma ne riporta le gesta, sovente con dovizia di particolari. Si riunivano segretamente solo in occasione della rapina, poi ognuno tornava alle proprie occupazioni. Così aveva ordinato Barbanera/Vlademaro, che a un certo punto assume questo nom de plume, e così inizia a chiamarlo il narratore.

Intanto si sposa con una ragazza timorata, con la quale il dialogo è ridotto all’essenziale. Mai un cenno sul passato americano, né sulle dicerie sulle rapine. Vlademaro Barbanera è un tipo che incute soggezione, addirittura spavento, così truce, di corporatura imponente con la folta barbaccia nera. Anche i due figli, che manderà a studiare nel più prestigioso collegio di Lucca, coi soldi delle rapine, lo evitano. Nessuno lo ama, anche perché tutti temono di essere coinvolti in un eventuale arresto, come fiancheggiatori.

Alterna il lavoro dei campi, con impegno, convivendo col lato oscuro del criminale, che spunta sempre fuori, prepotente, anche quando sembra disposto a ritirarsi, visto che i soldi non mancano. E’ la sua natura, che niente e nessuno può cambiare. E’ braccato dai Carabinieri, e poi anche dalla guardia regia, perché tutti sono sicuri che sia lui il super bandito, ma non si riesce a trovare una sola prova.

Passa una ventina d’anni, i briganti invecchiano, e finalmente un componente vende i complici, che saranno arrestati e ghigliottinati in un capitolo in cui Pardini, con mano da maestro, rappresenta fino in fondo la violenza e la crudeltà del sistema penale vigente, ma senza una sola nanoparticella di compiacimento. Barbanera riesce a sfangarla, e passa un’altra ventina d’anni alla macchia, vivendo nei boschi, dormendo nelle caverne come un selvaggio survivor. Finché un bel giorno arriva in paese un tipo misterioso, a cavallo di un grande mulo, col cappellaccio a tesa larga tipico della California, armato fino ai denti. E’ lui, il nemico giurato, Jodo Cartamigli, il killer. Deciso a trovarlo e ad ammazzarlo. Seguirà uno scontro a distanza, sfavorevole a Jodo, che è imbattibile nel duello. Ma Vlademaro lo sa, e non si avvicina mai, perché la sua qualità è di essere un cecchino. Alla fine Jodo se ne va, sconfitto, e torna in America.

Il finale è classicissimo, epico una volta tanto, ma Pardini non si siede, mai. Riesce a stupirci, a introdurre con nonchalance un affascinante colpo di scena. Diciamo pure un altro colpo da maestro.

Il valico dei briganti è un romanzo senza confini, orgoglioso e coraggioso, sorretto da una splendida scrittura materialista, indifferente a qualunque furba concessione al mainstream, che lavora come un potente motore diesel, o una grossa moto custom, e lascia un vuoto un po’ doloroso, perché sappiamo che sarà dura, durissima, trovarne un altro in grado di riempirlo.

 

[1] https://www.raicultura.it/letteratura/articoli/2023/07/Vincenzo-Pardini-Il-valico-dei-briganti-b81bfeb8-66e8-4775-b415-a169a88f844d.html

 

Leopold In Furs: Masoch & Joyce

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di Andrea Carloni

Una mattinata afosa, l’aria è immobile, greve di aromi inebrianti. Torno a sedermi sotto il mio pergolato di caprifoglio e leggo nell’Odissea di quella seducente strega che trasformava in animali i suoi adoratori. Preziosa immagine dell’amore antico.

Tutto ciò che avrei da dire inizia e finisce in queste poche righe tratte da Venere in pelliccia, il romanzo del 1870 di Leopold von Sacher-Masoch. C’è infatti l’Odissea e la maga Circe, dunque c’è il romanzo Ulisse del 1922 di James Joyce, il cui 15° episodio l’autore intitolò proprio a Circe, nel quale è inserita una rilevante scena ispirata al libro di Masoch, che con il protagonista di Ulisse ha in comune anzitutto il nome di battesimo: Leopold Bloom.

Il progetto video Leopold in furs (https://youtu.be/1qCj7ajH-Ys) altro non è che il tentativo di dar voce, musica, immagine e movimento a questa scena, grazie alla preziosa interpretazione della modella e fotografa Germana Stella e alle suggestioni ritmiche di Venus in furs, nota canzone dei Velvet Underground del 1967, la cui ispirazione ci riconduce ancora a Masoch.

In questo 15° episodio Circe, il più allucinato, etilico, perverso, visionario e onirico di Ulisse – ambientato intorno alla mezzanotte del 16 giugno 1904 in un bordello del quartiere a luci rosse di Dublino – il protagonista Leopold Bloom ci appare dapprima in abiti da sovrano,

con un mantello di velluto cremisi ornato di ermellino,

come del resto Lou Reed cantava nella canzone dei Velvet Underground:

Ermine furs adorn the imperious Severin

[Una pelliccia di ermellino adorna l’imperioso Severin].

Si tratta proprio di Severin Kusiemski, il galiziano aristocratico che del romanzo di Masoch è protagonista assieme alla bella principessa Wanda von Dunajew e le sue pregiate pellicce d’ermellino.

Sono tuttavia rare le occasioni in queste pagine in cui Bloom appare dominante e ben accolto; saranno al contrario più frequenti e decisive quelle in cui verrà accusato, processato, condannato, giustiziato e umiliato per presunti crimini riconducibili alla sua morale sessuale. Una certa Mrs Bellingham dice ad esempio di lui:

Mi ha indirizzato con svariate calligrafie disgustosi complimenti come Venere in pelliccia (…) Ha lodato in modo alquanto stravagante le mie estremità inferiori.

Un’accusa, questa, ricollegabile anche al passato dello stesso Masoch, al tempo in cui da giovinetto le cose iniziarono per lui inesorabilmente complicarsi. Leggiamo infatti dalle sue Cose vissute del 1888:

Ero andato a far visita ai figli della mia zia bella  (…) All’improvviso apparve (…) avvolta in una grande pelliccia di zibellino (…) La seguii nella sua camera da letto, le tolsi la pesante pelliccia (…) Poi mi misi in ginocchio davanti a lei, per porgerle le sue pantofole orlate d’oro. Sentendo i suoi piccoli piedi agitarsi tra le mie mani, posai su di loro, come folle, un bacio ardente. Mia zia mi guardò con stupore, poi scoppiò a ridere, colpendomi lievemente con un piede.

È una pelliccia di zibellino a confermare l’imbocco della cattiva strada feticista non soltanto di Masoch, ma pure dello stesso Joyce, che in una lettera alla compagna Nora del 25 ottobre 1909 scrive:

Sto cercando di comprarti uno splendido completo di pelliccia di zibellino, berretto, stola e manicotto. Ti piacerebbe?

Il masochista non possiede tratto più distintivo del proprio feticismo, ossia la riproposizione reiterata di un’immagine erotica sospesa e incancellabile (che sia una pelliccia, una scarpa o un piede…) che sia espressione di quel discorso in noi latente su ciò che, di contro, tutto cancella e niente sospende: la morte. Le energie pulsionali freudiane di Eros e Thanatos sono della medesima sostanza, ma si distinguono nel linguaggio: se Amore si manifesta dando voce a tale energia, pericolosamente tacendo lo fa la Morte.

Muori e sii dannato (…) Ti seppelliremo (…) Ti concimeremo.

Prima di queste minacce di morte, Bella Cohen, tenutaria del bordello dove si svolge la scena, aveva rivolto  a Bloom altre minacce di sottomissione, tipicamente feticiste:

BELLO

(…) Inchinati, schiava, davanti al trono dei tacchi gloriosi del tuo desposta (…)

 BLOOM

(Incantata, bela.) Prometto di non disobbedire mai.

Bloom, che si impegna a non disobbedire, è apostrofato come femmina e Bella come maschio. Il cambio di genere e il rispetto della promessa rivelano due passaggi imprescindibili del rapporto masochista: il travestimento e il contratto.

Liquidiamo subito ogni banale equivoco riferendoci alle acute analisi contenute nel saggio del 1967 Il freddo e il crudele di Gilles Deleuze. Così come il sadico non cerca un masochista già disposto al sopruso bensì una vittima a cui imporlo suo malgrado, anche il masochista non cerca un sadico già avvezzo al dispotismo, bensì un fedele che possa lui stesso forgiare come despota. Nell’atto masochistico dunque è irrinunciabile un ammiccamento fra le parti in causa che venga sancito e messo nero su bianco attraverso un contratto: la parte debole non solo si dichiara e si offre deliberatamente sottomessa, ma designa la controparte despota, educandola e plasmandola come tale. Il travestimento rappresenta l’immedesimazione nella scena masochista dove il despota

si impegna a indossare pellicce il più frequentemente possibile, e soprattutto quando sarà crudele,

come apprendiamo in uno degli articoli che compongono il contratto stilato l’8 dicembre 1869 fra lo scrittore Leopold von Sacher-Masoch e un’altra scrittrice, Fanny Pistor, che lui frequentò realmente e le cui reali e reciproche vicende ispirarono quelle narrate nel romanzo, dove al suo schiavo Severin la padrona Wanda imporrà persino di cambiare nome in Gregor. Anche nella scena in Ulisse, Bloom sarà chiamato Ruby o Flower (fiore), il che ci ricorda che il suo nome è in effetti posticcio: Bloom (bocciolo) è un adattamento dall’ungherese Virag (fiore), il vero cognome paterno prima che la sua famiglia emigrasse in Irlanda. Ci si mise anche l’anagrafe a registrare erroneamente il suo secondo nome al femminile “Leopold Paula Bloom”, proprio come accadde nella realtà a “James Augusta Joyce”. Era dunque necessario non solo che Bloom in questo episodio si facesse donna e madre, tanto da ritrovarsi poco dopo gestante e partoriente di otto gemelli, ma che nell’intero romanzo Ulisse la figura estromessa fosse proprio quella del padre, al contempo il grande escluso anche dal contratto masochista. È il padre ad essere destituito dalla stessa madre (la padrona Bella “acquisendo il fallo” si trasforma in Bello) ed è in negazione del padre che si partorirà il nuovo figlio. Ciò avviene anzitutto cedendo al baratro della colpa, che nel figlio masochista è intesa come colpa di somiglianza e discendenza sessuale dal padre. In questa direzione difatti riprendono le accuse rivolte a Bloom:

Dimmi! Qual è stato il più ributtante atto osceno in tutta la tua carriera di criminale? Va’ fino in fondo. Sputa il rospo. Sii sincero per una volta. (…) Rispondi, Essere ripugnante! Insisto a voler sapere. (…) Quante donne hai avuto, dimmi? Seguendole per strade buie, da piedipiatti, eccitandole coi tuoi grugniti strozzati. Ma come, tu maschio prostituto?

A questo punto non stupisce che lo scioglimento di tensione accumulata nell’animo tormentato della vittima fra un’accusa un’altra, coincida niente di meno che con la punizione per fallimento: la castrazione. È il padre a fallire; il padre di Leopold (Rudolph) morì suicida, il figlio di Leopold (Rudy) morì prematuramente pochi giorni dopo il parto. Ogni virilità è svilita e ogni paternità abortita, come è evidente nelle irrisioni rivolte a Bloom a seguito delle precedenti accuse:

Da questo momento tu sei evirato e veramente mio, una persona soggiogata. (…) Ti spoglierai dei tuoi abiti maschili. (…) A cosa altro serve un essere impotente come te? (…) Gatto senza coda! Cosa abbiamo qui? Dov’è finito il tuo arnese riccioluto, qualcuno te l’ha mozzato, bel canarino? Canta, uccellino, canta. È floscio come quello di un bambino di sei anni che fa pipì dietro a una carrozzina.

Psicanaliticamente decade la legge paterna secondo cui la minaccia di castrazione del figlio scongiurerebbe l’incesto con la madre; ora invece la castrazione diviene anzi il rito iniziatico e risolutivo grazie al quale può finalmente avere luogo l’incesto con la madre (che dispoticamente si attribuisce fallo e legge) e da cui si avrà – una volta deruolizzato il padre – la rinascita e rigenerazione del figlio. Il desiderio dell’uomo rigenerato e divincolato non potrà che essere esso stesso rigenerato e divincolato: eclettico e polimorfo, come direbbe Herbert Marcuse in Eros e civiltà, ma come anche di recente ci ha ricordato Gabriele Frasca nel suo saggio del 2022 L’uomo con la macchina da prosa:

Per Bloom esiste solo desiderio, mai godimento. Ed è quest’attitudine che costantemente lo solletica ma gli interdice di consumare, che fa di lui una macchina desiderante.

La giornata di Bloom nell’Ulisse difatti altro non è che una passeggiata erotica, dove tutto ciò che non sarà goduto e per il fatto stesso di non esserlo viene soltanto desiderato anzitutto attraverso l’esaltazione della percezione sensoriale, proprio come Severin in Venere in pelliccia, che definisce se stesso un “sovrasensuale”. I piaceri con cui il masochista sospende le miserie dell’esistenza derivano dalle suggestioni ricorrenti proprie delle icone dell’arte, quali le sculture e i dipinti di soggetti femminili. Il libro di Masoch si apre in adorazione dapprima di una statua e successivamente di un quadro ispirati a Venere:

Si trattava di una buona copia della ben nota Venere allo specchio di Tiziano, alla Dresdner Galerie (…) Severin si alzò e indicò la pelliccia con cui il Tiziano rivestì la sua Dea dell’Amore. “Anche qui Venere in pelliccia”.

Anche Bloom ha le sue icone da ammirare, fra tutte l’immagine della ‘ninfa al bagno’ appesa nella camera di casa sua, che gli appare ora qui anche lei ad accusarlo:

LA NINFA

Mi hai portata via, incorniciata con quercia e orpello, fissata sopra il letto matrimoniale. Non visto, una sera d’estate, mi hai baciata in quattro punti. E con amorevole matita hai ombreggiato i miei occhi, il petto e le vergogne.

BLOOM

(Le bacia umilmente i lunghi capelli) Le tue curve classiche, bella immortale. Ero contento di guardarti, di lodarti, simbolo di bellezza, quasi di pregarti.

(…)

LA NINFA

Cosa non ha visto in quella camera? Cos’altro devono vedere i miei occhi?

È la domanda delle domande: di cosa è testimone la ninfa incorniciata e appesa nella camera da letto di Bloom? Qualcosa di cui Bloom non può e non vuole essere testimone? Perché se l’arte ha il potere di fissare l’idea di bellezza rendendola eternamente sospesa, proprio come le attese di piacere che il masochista ricerca ossessivamente, essa non riuscirà mai a porre il soggetto sottomesso del tutto al riparo dalla temuta intrusione fra lui e la sua dominatrice. Anzi il processo estetico masochista prevede l’arrischiarsi a questa intrusione del “terzo”: è quanto accade difatti in Venere in pelliccia con il personaggio del “Greco”, un uomo che spicca per bellezza, agilità, fascino e virilità, tanto che lo stesso Severin ne è irrimediabilmente attratto quanto Wanda; ma mentre quest’ultima se ne innamorerà, Severin finirà per farsi crudelmente dominare e maltrattare da entrambi.

In Ulisse il “terzo” è rappresentato da Boylan, che poche ore prima della nostra scena si era incontrato in casa della sua amante Molly, la moglie di Leopold Bloom. Questa relazione extraconiugale pare non sia un mistero per nessuno a Dublino, Leopold incluso, il quale, invece di contrastare l’incontro, fa di tutto per restare lontano da casa, dalla sua camera dove si consumerà l’atto, proprio nel suo letto, sotto gli occhi dell’innocente ninfa. Questo non senza dolore, intendiamoci: il masochista non può fare a meno di vivere l’ingiustizia e non riesce a far nulla per impedirla. Bloom all’ora di pranzo aveva addirittura rischiato in città di imbattersi in Boylan – che avrebbe incontrato la moglie più tardi, nel pomeriggio – e per sfuggirgli si era rifugiato nel National Museum, anche lui riparando al rifugio dell’arte:

Fredde statue: là è tranquillo. In salvo tra un attimo. (…) I suoi occhi sbattendo le palpebre guardavano fissi le curve di pietra al colore cremoso.

L’arte può disperdere le miserie dell’esistenza, ma non il tradimento del terzo, inconsapevolmente voluto dal masochista Bloom. Il tradimento avverrà, lui lo sa, e forse potrà anche immaginare di assistere a ciò cui la ninfa immaginata ha assistito.

BOYLAN

(A Bloom, da sopra la spalla) Può mettere l’occhio sul buco della serratura e gingillarsi da sé, mentre io me la faccio un po’ di volte.

BLOOM

Grazie, signore. Lo farò, signore. Posso portare due amici a testimoniare l’impresa e scattare un’istantanea?

Il tradimento – e con esso la gelosia – è uno dei temi cruciali e ricorrenti non solo nella scrittura ma anche nella vita stessa di James Joyce.

La sua compagna Nora gli raccontò che anni prima un giovane spasimante di nome Michael, nonostante fosse malato di tubercolosi, affrontò il brutto tempo per andare sotto casa sua a salutarla, sapendo che lei avrebbe presto abbandonato la città natale irlandese di Galway per trasferirsi a Dublino. Micheal poco dopo morì. L’amara vicenda toccò tanto profondamente Joyce che ne trasse ispirazione per il racconto I morti, dove Gabriel rimane sconcertato apprendendo dalla moglie Gretta che in gioventù un ragazzo sfidò per lei la salute e il freddo fino a morirne: anche lui di nome Michael.

Un altro episodio esemplare avvenne intorno al 1912, durante la residenza a Trieste, quando Nora ricevette le attenzioni di Roberto Prezioso, giornalista veneziano amico di Joyce. Quest’ultimo non solo era a conoscenza dell’interesse dell’amico per Nora, ma facendosi puntualmente raccontare da quest’ultima i dettagli delle loro frequentazioni, le agevolava lui stesso. Anche questa vicenda, come si desumerà da alcuni appunti di Joyce di poco tempo successivi, ispirerà l’unico suo testo drammaturgico, Esuli, incentrato sul triangolo fra Bertha, l’amante Robert e il compagno Richard il quale sembra essere morbosamente complice dei loro coinvolgimenti sentimentali grazie soprattutto alle puntuali confidenze fornitegli dalla stessa compagna Bertha.

Cosa può indicarci questa ricorrente incursione del “terzo” in un rapporto masochistico, se non l’esorcizzazione del fantasma del padre, la figura tanto a fatica destituita e abolita? In Ulisse tale figura è tanto esclusa quanto minacciosa, fin dalle celebri sentenze amletiche apertamente citate nel romanzo, che tormentano il figlio Stephen Dedalus, l’artista Joyce da giovane:

Amleto, son io lo spirito di tuo padre

Per un certo tempo a vagar sulla terra condannato.

Ecco perché Stephen Dedalus in Ulisse non sta inseguendo il padre abolito, bensì la sua allucinazione. Lo fa nominando un “terzo”, che per Stephen può essere Leopold Bloom (il suo padre naturale fallito Simon Dedalus è tenuto fuori scena) e per Bloom è Boylan (il suo padre suicida Rudolph si è tolto di scena da solo). Soltanto includendo ed esercitando deliberatamente la minaccia reale del “terzo” si potrà essere eludere il ritorno del padre, relegandolo così eternamente al solo ruolo di fantasma.

In Venere In Pelliccia Severin non vi riuscirà: il “terzo” sgretolerà la sua impresa masochistica, il contratto sarà sciolto e Wanda sparirà. In Ulisse è ancora troppo presto per il giovane Stephen Dedalus, che non ha ancora incontrato la sua donna e le sue pene non sono ancora pene d’amore: dopo essersi fatto accogliere da Bloom, lo abbandonerà poco dopo nella notte. Ma Leopold Bloom invece accetta tacitamente ciò che sua moglie Molly esplicitamente dichiara col celebre “sì” finale. Il sì a lui, a Boylan, a Dublino, ai fantasmi, alla notte fonda e al mattino alle porte, in attesa che tutto sia rimandato all’indomani e possa ripetersi ancora e ancora e ancora, proprio come accade con i fantasmi.

Proprio come scriveva Deleuze, la sospensione e il fantasma sono l’arte del masochista.

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(Le traduzioni di Ulisse di James Joyce utilizzate in questo testo e nel video Leopold in furs sono di Marco Marzagalli)

Erosione (sillabario della terra # 4)

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di Giacomo Sartori

I suoli coltivati sono molto fragili, un po’ di acqua che ruscella alla loro superficie è in grado di strappare via gli straterelli superiori, che sono quelli più ricchi e fertili. Depositandoli alla base dei versanti, dove l’acqua rallenta, o sversandoli nei fiumi e torrenti, che li portano nei mari. In entrambi i casi, che spesso coesistono, è una perdita definitiva. Se poi l’acqua scorre violenta arraffa tutta la parte buona, incide rigagnoli e profonde forre, mangiandosi quantità impressionanti di terra, annientando il lavorio di millenni con il quale questa si è formata a partire dalle rocce. Non occorrono forti pendenze, l’acqua prende forza anche con dislivelli minimi, nemmeno percettibili all’occhio umano.

Fin dall’inizio per coltivare le nostre piante abbiamo tolto di mezzo la vegetazione naturale, che proteggeva efficacemente la terra, non c’erano molte alternative. Nei campi seminati il suolo resta allora nudo per lunghi periodi, e spesso proprio quando le piogge sono più intense. L’inverno, nelle zone temperate. Ma anche le piante già spuntate spesso proteggono male il suolo, in particolare quando sono ancora piccole. Fin dall’inizio l’agricoltura si è scontrata con questa sua indole a ingigantire un processo naturale che alla base aveva i suoi effetti positivi, quella di portare materiali e annessi nutrienti nelle porzioni costiere dei mari. Rendendo un buon servizio a pesci e altri organismi.

Da una manciata di decenni l’erosione è un flagello assolutamente generalizzato, perché l’agricoltura industriale ha ampliato i campi, accorpandoli e eliminando le siepi e le barriere vegetali che li separavano. Senza preoccuparsi delle conseguenze, nonostante le conoscenze scientifiche ci fossero già tutte: semplicemente si guardava solo a rendere il lavoro delle macchine agricole più pratico e redditizio. Si guardava e si guarda alle rese a ettaro del momento, senza preoccuparsi del futuro, ignorando i danni e i segni che mostravano l’urgenza delle attenzioni. E’ molto semplice, più un campo è lungo, più l’acqua acquista velocità e energia distruttrice.

Ho in mente i giganteschi canyon scavati dall’acqua nelle colline coltivate nel nord dell’Algeria. Resta un paesaggio pietroso, senza vegetazione, che fa pensare alle immagini delle superfici di Marte, risultato di successioni di cataclismi sconosciuti. Restano il reticolo delle incisioni, le carie scavate dalla furia dell’acqua. Il tutto è accaduto in pochi decenni. I coloni sono arrivati con le loro tecniche e la loro scienza, i loro trattori, la loro arroganza. Hanno spianato le gobbe dei poggi, per ricavarci lenzuoli ben regolari e di bell’aspetto, li hanno seminati a frumento. Le rese a ettaro erano ottime, il futuro sembrava radioso. In men che non si dica l’acqua si è portata via tutto. Scacciando l’agricoltura e gli uomini, scacciando la terra. Dalle devastazioni provocate dall’uomo esala qualcosa di enigmatico, sfuggono la logica e il senso. Gli uomini fanno i danni, e quando questi sono troppo gravi per essere riparati se ne vanno.

Più spesso si tratta di una asportazione dilazionata negli anni, incessante ma non visibilmente catastrofica. Per certi versi è ancora peggio, manca il monito alla saggezza. Noi passando in automobile vediamo campi verdi, con la droga dei concimi chimici si riesce a mantenerli rigogliosi, e pensiamo che tutto vada bene. Lo pensano molto spesso anche gli agricoltori. Ma non è così: la terra un po’ alla volta si accumula nelle zone più basse, e soprattutto se ne va via con le acque che viaggiano verso il mare.

Nella maggior parte dei casi la gravità del processo non è visibile a occhio nudo, soprattutto per i profani. Niente di spettacolare, niente che possa finire sulla rete, niente che faccia fremire, e che anzi ha l’apparenza della floridezza tecnologica. Se per caso si forma una ferita più grave viene subito colmata con le macchine, viene nascosta. Quello che sa fare molto bene l’agricoltura industriale è curare le apparenze. Anche per questo la si lascia fare, e i campi vengono ogni anno piallati un po’ di più in superficie.

L’aspettativa di vita dei suoli coltivati in pendenza anche minima si è ridotta quindi più frequentemente all’ordine di grandezza di quella di un essere umano. Nei casi migliori il doppio, spesso e volentieri meno: grazie al nostro intervento i tempi geologici e dei cicli climatici, quelli della terra, si conformano a quelli umani. Difficile dire quanto fosse all’inizio, c’è appunto di mezzo anche il clima, ma quando l’erosione resta molto scarsa è compensata dall’approfondimento verso il basso, quello legato alla lenta degradazione dei materiali minerali di partenza.

E’ forse il danno principale che l’agricoltura che molti considerano assai efficiente ha causato e sta causando in tutti i continenti. Si sono ridotte e si stanno riducendo le superfici coltivabili, già molto ridimensionate dalle inarrestabili metastasi delle città e delle infrastrutture. E peggiorano drasticamente le capacità di quelle che restano. A differenza di altri guasti questi sono perenni: per rimediare si può ben poco. Vuol dire che in futuro le terre utilizzabili saranno meno, e di minore qualità.

Ora in alcune parti del mondo si sta più attenti, e si cerca di applicare misure preventive, evitando in particolare di lasciare i suoli nudi tra una coltura e l’altra, seminando per esempio piante al solo scopo di proteggere. La scienza ha adesso le idee ancora più precise, e si conoscono bene molti espedienti adatti. L’agricoltura delle grosse macchine e dei grossi investimenti non è però abituata a riflettere sui guasti che essa stessa provoca, è un colosso cieco e sordo, istruito a andare sempre dritto. Non ha connessione con la terra, non sa ascoltare la sua lingua, non dà retta a nessuno. Va dove la portano le rese a ettaro, pompate dai concimi chimici, e la convenienza monetaria immediata.

Ma intendiamoci, ci vorrebbe relativamente poco. Spesso è sufficiente ridurre la dimensione delle parcelle, in particolare nella direzione della massima pendenza, o intercettare in qualche modo le acque che scorrono perché si diano una calmata. Ci sono molteplici soluzioni. Tanto più che negli Stati occidentali gli agricoltori ricevono molti quattrini pubblici, quindi si potrebbero mettere delle condizioni. Nessuno vuole però o si può permettere di aumentare anche solo di un minimo i costi di produzione: detta legge l’economia schizofrenica, quella che non tiene conto dei costi ambientali, che finge di non vederli, e che strozza l’anello più importante, i produttori.

Nelle regioni secche è invece il vento a strappare via la parte migliore della terra, quasi l’acqua mancasse anche per fare i danni. I risultati sono però sostanzialmente analoghi: il vento sa essere ladro come le acque arrabbiate. La differenza è che la terra asportata diventa polvere che viene trasportata chissà dove, anche a centinaia o migliaia di chilometri. Nei casi peggiori i venti lasciano indietro solo i pietrami, gli strati sterili.

Sono quelle polverine che noi conosciamo perché sporcano le automobili, per intenderci. In quel caso vengono dal Sahara, e rappresentano per così dire la versione naturale del fenomeno, e benefica. Quelle particelle volanti sono infatti fondamentali per concimare i mari, compreso il Mediterraneo, apportando in particolare il ferro di cui essi sono molto poveri. Si può considerare una consegna a domicilio di un bene di prima necessità. E perfino la foresta amazzonica viene foraggiata in quel modo per lei essenziale, e qui nel vasto cesto di elementi il vero regalo è il fosforo.

Il problema è che con l’agricoltura ampliamo le zone di asporto: anche molti campi delle aree aride o con una relativa aridità diventano deserti che i venti scarificano. Soprattutto quando i suoli hanno perso materia organica, che lega assieme le particelle, difendendole, e non sono protetti dalla colture. Negli anni Trenta nell’Oklahoma e negli stati adiacenti è stata una catastrofe, il Dust Bowl, che ha portato disperazione e morte. Ora succede a scala più ridotta, ma molto più estesa, in tante regioni del mondo. Anche in Europa, e non solo nel suo sud. Come sempre le azioni dell’uomo amplificano o moltiplicano meccanismi esistenti della natura, rendendoli più aggressivi e nocivi, o appunto ubiquitari. Non inventiamo niente, nemmeno nella nostre distruzioni.

Bestie delinquenti

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È il 1892 quando l’avvocato napoletano Carlo D’Addosio decide di pubblicare Bestie delinquenti, un trattato dedicato a un interrogativo ancora sorprendente: perché, durante la storia “umana”, si processarono anche le bestie?

L’opera viene oggi ripubblicata da Edizioni Le Lucerne; ospitiamo qui un estratto dalla prefazione firmata da Brenno Bianchi, e un passaggio dedicato a una delle figure più singolari del libro: Bartolomeo Chassanée, il difensore dei sorci.

 

PREFAZIONE

 

[…] Siamo nel 1892 e Ruggiero Bonghi si trova nel suo ufficio da deputato a Palazzo Montecitorio mentre legge la sua copia, non sappiamo se manoscritta, dattiloscritta o stampata, di Bestie delinquenti: Bonghi ne fu deliziato ed ebbe parole che ben spiegano anche la nostra ristampa. Prese la penna e scrisse all’autore Carlo D’Addosio che gli aveva domandato una prefazione: «Il suo libro, parrà a Lei stesso, un primo tentativo. Lo prosegua. Ha avuto la fortuna di averlo scritto gradevole e senza peso. Oggi, è la prima qualità di un libro. Vogliono, soprattutto, che non sia noioso». Ma anche: «Voi avete scelto soggetto felice: una grande, lunga aberrazione umana, parrebbe».

[…] Ma facciamo un passo indietro: chi era Ruggiero Bonghi? Letterato più che politico, moderato ma illuminato, durante la sua permanenza allo scranno di ministro dell’istruzione emanò quello che passò alla storia come “Regolamento Bonghi” (o Regolamento generale universitario del 3 ottobre 1875) con cui venne concesso per la prima volta alle donne di iscriversi alle università: insomma, il Bonghi che qui troviamo a scrivere la prefazione a Carlo D’Addosio è lo stesso Bonghi che permise a Lidia Poët, la protagonista del primo volume di questa stessa collana, di incamminarsi nella sua carriera di giurista. Per certi versi, l’Italia fin de siècle sembra molto piccola.

Le parole del Bonghi al tempo echeggiarono in tutta Italia, una delle ragioni (una delle diverse) grazie alle quali Bestie delinquenti divenne caso letterario: il libro aveva ricevuto il beneplacito di un patriota risorgimentale napoletano, uno dei pochi ancora vivi, grande accademico e filologo, estremo erudito.

In effetti, Bestie delinquenti è anche un grande esercizio di aneddotica storica: non è da poco raccogliere informazioni su 144 processi a carico di animali avvenuti in un millennio, fra l’anno 824 e il 1815, per poi dividerli in casi civili e penali e rinvenire il filo rosso antropologico che li connette.

Tuttavia, Bestie delinquenti non è solo questo (che comunque non sarebbe poco). Già dal nome si intuisce, ma all’epoca era palese, la polemica che si voleva instaurare contro l’opera L’uomo delinquente di Cesare Lombroso (allora alla quarta edizione; poco dopo ne sarebbe uscita la quinta) e le teorie che erano sostenute dai componenti della Scuola Penale Positiva.

Bestie delinquenti cadde, come un macigno in uno stagno, sugli studi sociali italiani del tempo, provocando onde che si rifransero in recensioni polemiche su tutte le riviste scientifiche dell’epoca.

Eppure, nemmeno qui si ferma la straordinarietà del lavoro di D’Addosio. L’ultimo capitolo del volume è dedicato alla necessità del riconoscimento dei diritti degli animali, in nome del sentimento di pietà e di umanità che si deve a ogni essere vivente: probabilmente D’Addosio avrebbe molto apprezzato il fatto che l’8 febbraio 2022 l’Italia ha posto nella sua Costituzione il principio della tutela degli animali.

Forse, però, ho già messo troppa carne al fuoco. Proviamo a procedere in modo più analitico.

Per D’Addosio, nel 1892, le bestie sono tornate di attualità. Il merito va a Darwin e ai suoi seguaci, i quali sostengono che l’animale abbia in comune con l’uomo la ragione, la volontà, la coscienza, il linguaggio, i sentimenti, la sociabilità e che tutto ciò è questione di sviluppo, di quantità e non di qualità. Si tratta di un ricorso storico. Vichiano. Darwin con la sua teoria dell’evoluzionismo ha distrutto l’immagine degli animali che era stata elaborata da Cartesio e dai suoi successori illuministi, per i quali l’animale era paragonabile a una macchina, un automata. Ma non era sempre stato così. Senza scomodare il mondo antico, guardiamo al medioevo e all’età moderna: l’animale è umanizzato. È capace di distinguere il bene dal male perché compartecipa alla Natura e dunque ha modo di conoscere il diritto naturale. Il riferimento che D’Addosio usa per spiegare questa concezione è il teologo Johannes Crell. Nelle sue Etiche cristiane, Crell riferisce come l’uomo del suo tempo punisca l’animale non già perché crede che ragioni proprio come lui, ma perché ritiene che ragioni in modo sufficiente da poter capire quando commette il male, e che sia sufficientemente libero da poter decidere di non farlo, e abbia tanto di responsabilità da poterne essere punito. Dunque, sarà punito l’animale che esce dalla sua via naturale, quando cioè viola il diritto naturale, secondo cui vive, e di cui, come afferma Giustiniano, è esperto.

A un orso non si farà un processo, perché l’orso, uccidendo, segue la sua indole naturale; ma se un bue ucciderà con una cornata, se un cane morderà un uomo o un porco divorerà un bambino, questo sarà punibile, perché avrà esorbitato dalla via naturale: si sarà comportato secondo una natura malvagia.

Ed ecco giustificata la capacità di stare in giudizio degli animali, la loro capacità di essere imputabili come pure la loro capacità di valere come testimoni. D’Addosio ci fornisce mille anni di esempi, io mi limiterò a un caso penale e a un caso civile, come li divide lui.

Un caso penale: «Nel 1314 un toro, avendo incontrato un uomo, lo uccise con una cornata. Carlo, conte di Valois, sulle terre del quale l’avvenimento s’era verificato, ordinò che il toro fosse arrestato e messo in prigione. Dopo di che, i giudici della Contea si portarono sul luogo, presero le informazioni necessarie, udirono i testimoni, e, dopo aver constatato la verità del fatto e la natura del delitto, condannarono il toro ad essere impiccato. Questa sentenza fu confermata da una sentenza del Parlamento di Parigi del 7 febbraio dello stesso anno. L’esecuzione si fece alle forche patibolari di Moisy-le-Temple, luogo del delitto».

Ed ecco un caso civile esemplare: «Gli annali del distretto di Coira offrono all’autore un nuovo esempio, non meno singolare del precedente. Una specie di scarabeo, o cantaride, alla quale si dà, in dialetto alemanno, il nome di Juger, commetteva in questo distretto dei danni così considerevoli, che la gente del paese, atterrita, pensò di non aver niente di meglio a fare che ricorrere alle vie giuridiche. Le bestiuole furono citate, con editto pubblico, a comparire davanti il magistrato provinciale. E poiché nel giorno stabilito non si presentarono, il giudice, prendendo in considerazione la loro giovane età e la piccolezza dei loro corpi, e pensando che esse dovevano fruire dei benefici che la Legge accorda ai minori, le provvide di un curatore o sindaco, incaricato di difenderle. Questo curatore adempì religiosamente le sue funzioni. Egli ingaggiò una contestazione secondo le forme; produsse, giusta l’uso, repliche, dupliche e tripliche, e pervenne a dimostrare che i suoi clienti, essendo creature di Dio, e trovandosi da tempo immemorabile in possesso delle terre designate nel processo, non si poteva obbligarli a sloggiare altrimenti che fornendo loro un’altra località conveniente. Così fu ordinato».

Come detto: queste sono le conseguenze logiche del ritenere gli animali agenti dotati di una sorta di istinto naturale comune a quello dell’uomo. Magari sarete stupiti, ma D’Addosio non lo è: «Che di strano? Tutto sta a dimenticare per un momento di vivere nel secolo dell’elettricità e del vapore, ad astrarsi completamente dalle idee che oggi prevalgono, e a trasportarsi coll’immaginazione in un mondo tutto diverso dal nostro, regolato da idee e da criteri così profondamente differenti e in opposizione alle idee e ai criteri nostri. Il più grande errore è quello di voler giudicare gli usi e le cose del passato con le idee e i criteri del presente!».

I processi agli animali erano un fatto lontanissimo dalla civiltà «dell’elettricità e del vapore», così tanto da sembrare oscure aberrazioni di secoli bui e ignoranti. Parrebbe dunque impossibile che possano tornare. Eppure, D’Addosio, con fare polemico, ritiene che il loro ritorno sia la conseguenza logica delle implicazioni della Scuola Penale Positiva allora in voga.

Fondata da Cesare Lombroso e avente fra i suoi seguaci Raffaele Garofalo, la Scuola Positiva negava il libero arbitrio e la responsabilità morale. Il delitto non era una manifestazione libera e responsabile del soggetto, ma un fenomeno determinato da cause empiricamente rilevabili. Nell’applicazione delle pene, o meglio ancora delle “misure di sicurezza”, il diritto penale non deve considerare la responsabilità morale del delinquente, ma la sua pericolosità sociale, intesa come probabilità di commettere i reati.

Lombroso dedicò le oltre millecinquecento pagine del suo Uomo delinquente a dimostrare che il criminale è tale e riconoscibile per via di alcune precise caratteristiche morfologiche: un elemento contrassegnante è la presenza sul suo cranio di una piccola anomalia ossea, la fossetta cerebellare mediana o fossetta vermiana, poi ribattezzata, ovviamente, “fossetta di Lombroso”.

Garofalo, invece, era parte della stessa Scuola ma di avviso nettamente opposto: riteneva l’anatomia criminale inutile, dovendo concentrarsi l’attenzione solo sulla psicologia criminale. Ne diede un esempio nella sua pubblicazione Contro la corrente (del 1888, quattro anni prima di Bestie delinquenti), dove voleva provare secondo l’antropologia e la psicologia criminale le ragioni del mantenimento della pena di morte: considerava l’istinto di pietà congenito nell’uomo e attinente solo in minima parte all’educazione, per cui vi era una anormalità psichica in coloro che non mostravano turbamento per il dolore inflitto ad altri. Classificò tali soggetti come una tipologia di uomini su cui non era possibile intervenire attraverso l’educazione e che, dunque, non poteva essere corretta né col carcere né col manicomio. La pena di morte veniva perciò considerata da Garofalo l’unico strumento repressivo veramente idoneo a preservare la società civile, con l’ulteriore effetto positivo di svolgere una funzione eugenetica di eliminazione degli individui psichicamente anormali.

D’Addosio inorridisce di fronte a queste teorie e vuole difendere le dottrine classiche derivate da Cesare Beccaria: «Voi della nuova scuola, pur negando alla pena ogni efficacia emendativa, non ammettete forse che purtuttavia “gli animali nella vita quotidiana possono esser puniti con pene vere e proprie e con ottimi risultati, a fine di regolarne e modificarne la condotta futura, benché dichiarati da tutti come privi di libertà morale”?

Se un cavallo vizioso dà un terribile calcio allo stalliere e lo uccide, resterà senza pena questo cavallo?

Dovrà la giustizia intervenire perché questo cavallo sia eliminato, e si impedisca ad esso di nuocere novellamente alla vita degli uomini?

E prima di eliminarlo, prima di punirlo (nel senso positivo della parola pena), non si dovranno chiamare dei periti, i quali assodino se esso è o pur no per natura malvagio, se esso è o pur no delinquente nato, se ha cioè o no una cattiva conformazione cranica, la microcefalia frontale dei cavalli, di cui discorre Lombroso nel suo Uomo delinquente?».

Nel 1881 ne I nuovi orizzonti del diritto e della procedura penale Enrico Ferri aveva proprio indicato come obiettivo del processo per la nuova scuola positiva, in qualità di uno dei suoi fondatori, quello di «limitarsi ad assodare se quel dato fatto fu commesso da quel dato individuo, senza impigliarsi nella problematica ricerca di una più problematica responsabilità morale del delinquente». Se fosse così, però, per D’Addosio il processo penale finirebbe per scomparire in quanto non si dovrebbe più indagare l’elemento soggettivo che ha portato a un evento criminoso, non ci sarebbe più colpa o dolo, tutto sarebbe solo una ricostruzione della causalità materiale: e dunque «ridotto a questi termini così elementari e rudimentali il processo penale, si potrà e si dovrà processare (nel senso avvenirista della parola) anche l’animale? Non costituiranno forse un processo quella serie esigua di atti, necessari per mettere a morte l’animale danneggiante? […] Il bove condannato a morte sarà ucciso, come un uomo condannato alla stessa pena; esecuzione così dell’uomo come del bove, non proponendosi più nessuno scopo di emenda o di esempio, ma riducendosi a un atto puro e semplice di eliminazione».

E qui il napoletano D’Addosio chiama in causa il conterraneo e amico Giulio Fioretti come difensore di un altro napoletano, Raffaele Garofalo: «Né mi dica il valoroso amico Fioretti che la definizione che il Garofalo dà del delitto nella sua Criminologia, contrasta con queste mie affermazioni e annulla le mie illazioni. Niente affatto: me lo perdoni. Se il delitto è per il Garofalo quell’azione che, indipendentemente da ogni idea di morale responsabilità nell’agente, viola i sentimenti morali più profondi (pietà e probità), non potrà delinquere anche l’animale? Che cosa è infatti il delinquente che uccide efferatamente il proprio padre, che ruba alla vedova infelice, se non un uomo sfornito del sentimento della pietà e della probità, la cui azione offende però il sentimento della pietà e della probità che c’è negli altri uomini?

Ebbene, il bue che uccide a cornate un uomo, una scimmia che ruba degli oggetti e li nasconde sono due esseri sforniti del sentimento di pietà e probità, la cui azione viola per l’appunto questi due sentimenti che sono in altrui; la strage viola la pietà, il furto la probità. Dunque, il bue e la scimmia delinquono: dunque l’azione dell’animale può essere un delitto».

Queste righe destarono una polemica di dimensione nazionale. Bestie delinquenti fu recensito su tutte le principali riviste scientifiche del tempo. Per fare qualche esempio, comparvero recensioni sulla Rassegna di Scienze Sociali e Politiche di Firenze il 1° settembre 1892 e lo stesso mese su Il Filangieri di Milano. A fine anno sulla Rivista Universale sempre di Firenze. Su La Rivista Abruzzese di Scienze, Lettere e Arti nel gennaio 1893. Ma Giulio Fioretti rispose già sulla rivista La Scuola Positiva il 15 maggio 1892.

Per Fioretti la violazione dei sentimenti di pietà e probità a cui si riferiscono Garofalo e i positivisti vale solo se avviene in rapporto a uomini posti all’interno di una società. Quindi gli animali non vi sono inclusi. In realtà, leggendo tra le righe, anche molti esseri umani non vi sono inclusi in quanto Fioretti usa il termine società per indicare solo la società occidentale “civile”. Le società del resto del mondo sono barbare quanto gli animali e anche a loro non si possono dunque applicare i principi criminologici di Garofalo. Poi, certo, non nega che le bestie possano «delinquere» ma non si processano: si abbattono direttamente.

In effetti, Fioretti manifesta una particolare acrimonia verso l’ultimo capitolo di Bestie delinquenti, dedicato alla difesa dei diritti degli animali. Per il positivista napoletano ciò è «una delle più ridicole aberrazioni del nostro secolo». Ad esempio, trova aberrante proibire al padrone di un cane di ucciderlo senza un motivo.

Che ne volesse Fioretti, però, con l’entrata in vigore del Codice Zanardelli nel 1890 l’Italia si era messa in pari con le legislazioni di Inghilterra e Francia, punendo in base all’articolo 491 del nuovo Codice «chiunque incrudelisce verso animali, o, senza necessità, li maltratta, ovvero li costringe a fatiche manifestamente eccessive». Per D’Addosio questo era un passo avanti in un Paese dove alle fiere per divertimento si uccidevano ancora migliaia di animali. O dove si faceva largo uso di bastonate o sevizie sulle bestie. O, ancora, dove si utilizzavano ronzini macilenti per trainare carri enormi e pesantissimi. Ma per lui la linea del progresso e della scienza era già all’orizzonte: «Sì. è ormai tempo di finirla con i processi, le persecuzioni, le sevizie a questi poveri esseri, viventi e senzienti, tanto prossimi a noi, tanto simili a noi. È tempo di migliorare le condizioni loro, migliorando e ingentilendo nel tempo stesso gli animi nostri. […] L’animale è, non dimentichiamolo, unico essere della creazione che vive e sente come noi, che a noi assomiglia fisicamente e psichicamente. Esso è degno del nostro affetto, delle nostre cure, della nostra protezione.

Miglioriamoci: l’avvenire è là».

 

Bartolomeo Chassenée, il difensore dei sorci

 

E veniamo ora al famoso processo contro i sorci, svoltosi nel vescovato di Autun dal 1522 al 1530 e di cui Bartolomeo Chassenée fu pars magna ed illustre.

In una specie d’introduzione alla Histoire des Massacres des Vaudois de Merindot et de Cabrière, che parla di avvenimenti svoltisi nell’anno 1550, il Presidente de Thou, giudicato da B. S. Prix storico grave, severo, minuzioso, racconta che quei cittadini avevano goduto di una certa sicurezza durante il tempo che Bartolomeo Chassenée fu primo presidente al parlamento di Provenza. Egli attribuisce la causa di tale protezione tacita che loro accordò Chassenée al fatto di essere stata ricordata a quest’ultimo la condotta da lui tenuta, quando era ancora avvocato, e in tale quanta aveva difeso i sorci del vescovato di Autun.

Chi fu Chassenée?

Bartolomeo Chassenée fu uno dei più chiari e rinomati giureconsulti del Cinquecento. Nato in Francia a Issy-l’-Eveque nel 1480, fece i suoi studi di dritto a Dôle, a Poitiers, a Torino, e infine a Parigi, dove fu proclamato dottore in giurisprudenza. Il suo ingegno straordinario gli valsero gli elogi più lusinghieri. Dopo quattro o cinque anni di soggiorno in Italia, passò i monti e andò a Autun, dove abitava parte della sua famiglia. Qui esercitò prima la professione di avvocato. In questa qualità egli ebbe occasione di difendere i sorci che, in numero sterminato, avevano invaso la città, spargendosi dovunque, persino nelle chiese, e divorando quanto capitava sotto i loro aguzzi e piccoli denti. Chassenée diede nel difenderli tali prove di valenza, che, salito nella pubblica stima, pensò a percorrere la carriera degli impieghi. Prima avvocato del Re al Baliaggio di Autun, poi consigliere al Parlamento di Parigi, giunse infine all’altissima dignità di Presidente del Parlamento di Provenza.

Quando credette di esser salito abbastanza in alto, prese a pubblicare volumi eruditissimi e importantissimi. Scrisse un Commentario sui costumi della Borgogna, un Catalogus gloriae mundi, molto elogiato, e nel 1531 un libro di Consigli, ristampato poi nel 1558. Questo libro s’intitola: Consilia D. Bartholomei a Chassaneo.

Ma, ecco, senz’altro, una breve storia del processo in cui egli si distinse, e della difesa fatta da lui in pro dei sorci.

Questi animali, come ho detto, s’erano talmente moltiplicati, che avevano devastate le campagne e facevano temere una carestia.

Si pensò subito di metterli sotto processo. Il Promotore, infatti, sporse formale querela contro di essi; l’Ufficiale li citò a comparire per un dato giorno dinanzi a lui.

Spirato il termine, senza che i topi si fossero presentati, il Promotore ottenne contro questi un primo giudizio in contumacia e chiese che si procedesse al giudizio definitivo. L’Ufficiale, pensando che gli avevano assolutamente bisogno di un difensore, nominò d’ufficio Chassenée.

Costui, visto il discredito dei suoi poveri clienti, si diede alle eccezioni dilatorie, per dar così tempo agli animi giustamente sdegnati contro i suoi e di calmarsi e di ritornare sereni.

Chassenée sostenne prima che i sorci si trovavano dispersi in un gran numero di villaggi, e che quindi una sola citazione non era stata punto sufficiente per avvertirli tutti. Domandò, quindi, ed ottenne che una seconda citazione fosse loro notificata, a mezzo di pubblicazioni fatte dal pulpito delle chiese, nei giorni di predica in ciascuna parrocchia.

Spirata la dilazione considerevole che questa eccezione gli aveva procurato, egli scusò nuovamente la contumacia dei suoi clienti, adducendo la lunghezza e la difficoltà del viaggio, il pericolo cui erano esposti per parte dei gatti loro mortali nemici, che, avendo saputo la cosa, li aspettavano al varco.

Quando i mezzi dilatorii furono esauriti tutti, egli motivò la sua difesa, appoggiandosi ad alte considerazioni di umanità e di politica. «Nulla esservi di più ingiusto delle proscrizioni generali che colpiscono in massa le famiglie, che fanno ricadere sui figli la pena dei delitti dei loro genitori, che colpiscono senza distinzione anche coloro che la tarda età rende incapaci di delinquere»!

E se non piangi, di che pianger suoli?

E tutte queste belle cose, a proposito dei sorci grigi!

Spazio delle mie brame

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di Giuseppe Dambrosio 

(è in uscita un libro di filosofia dell’educazione che tratta dello spazio-potere e della relazione tra l’ipercittà e l’elemento spaziale del dispositivo disciplinare scolastico. Di seguito l’introduzione al volume.)

Giuseppe Dambrosio, Spazio delle mie brame. Riflessioni sul potere, lo spazio e l’educazione diffusa,  Ed. Mimesis, 2023. Postfazione di Francesco Muraro

Lavorare per molti anni nel disagio educativo come insegnante ed educatore a scuola, nei centri di aggregazione giovanile e in progetti di educativa territoriale, mi ha portato a riflettere in modo critico su come ripensare il mondo dell’educazione formale e non formale a fronte dei cambiamenti epocali che attraversano la nostra epoca.

Grazie all’esperienza diretta, ricca di osservazioni e sperimentazioni sul campo, del disagio, nel corso del tempo, ne ho fatto il mio oggetto privilegiato di riflessione, cercando dapprima di inquadrarne le cause e successivamente delinearne una possibile risposta pedagogica, ma guardando ad esso come a qualcosa che sempre più si radicalizza nella quotidianità di tutti noi e non esclusivamente di chi viene categorizzato come “portatore di disagio” educativo, sociale, psicologico, sanitario, ecc., ossia coniugando il disagio educativo con quello sociale.

Avendo lavorato soprattutto con preadolescenti ed adolescenti ritenuti inadeguati, difficili, incontenibili, asociali, se non etichettati come veri e propri devianti − molti dei quali finiti nelle “prigioni chimiche” degli psicofarmaci, fuoriusciti dal sistema d’istruzione o caduti nelle maglie del sistema giudiziario minorile − mi sono chiesto inizialmente se la causa di così tanto disagio, generatore di emarginazione e devianza sociale, non fosse da ricercare soprattutto in quella “tecnologia disciplinare” oggi sempre più sofisticata e al contempo mascherata, che tende al disciplinamento dei corpi dei minori ed al limite al loro totale dominio, finalizzata essenzialmente all’omologazione al sistema di potere vigente.

Nel presente lavoro ho cercato dunque di sintetizzare la mia lunga ed eterogenea esperienza sul campo, avvalendomi della prospettiva analitico-riflessiva di ricerca e soprattutto dei concetti portanti proposti dal filosofo Michel Foucault, quale chiave interpretativa per descrivere le strutture e le dinamiche storico-materiali che presiedono i processi di formazione del soggetto, in un’ottica dialettica di teoria e prassi.

Di Michel Foucault ho condiviso in prima battuta l’idea che l’istanza di disciplina e di controllo che presiede al sorgere delle carceri si sia affermata − e perduri ancor oggi − anche in altre “istituzioni segregative” che nascono parallelamente in seno alla società occidentale: ospedali, manicomi, scuole, caserme.

Ossia l’idea che ancor oggi assistiamo purtroppo alle propaggini delle istituzioni totali in quelle ordinarie.

Particolare attenzione è stata rivolta dunque ai dispositivi disciplinari e di governo, ai processi di assoggettamento e di soggettivazione, nonché alle procedure di controllo, sorveglianza e contenimento che pervadono gli ambienti formativi, in primo luogo la scuola e più in generale l’intera città in cui essi sorgono e sono inglobati.

Il lavoro proposto, inserendosi nella prospettiva di una pedagogia critica, affronta dunque in generale l’importante e spinosa questione del potere in educazione ed in particolare indaga l’elemento spaziale del dispositivo disciplinare strutturale, per l’importanza fondamentale attribuitagli da Foucault stesso che ha definito la nostra esser l’epoca dello spazio.

La riflessione teorica procede criticando la struttura architettonica scolastica, definita statica, monolitica, plumbea e mortificante, in relazione alle trasformazioni che investono la città post-moderna, definita ipercittà − smart city neoliberista, città dei flussi, città-rete, città-fortezza, città-panico − proponendone una ridefinizione generale e profonda.

Emerge dunque con evidenza il tema della deriva securitaria e del controllo esasperante che negli ultimi anni ha completamente colonizzato l’ambiente scolastico, che procede di pari passo con l’esasperazione del controllo sociale, oggigiorno implementato dall’introduzione delle nuove tecnologie digitali antropometriche che hanno trasformato le nostre città in immense prigioni a cielo aperto.

A fronte dell’inquietante delirio securitario, legittimato da una certa idea di progresso sociale, viene proposta la radicale destrutturazione dello spazio disciplinare scolastico in virtù di un’educazione diffusa, sulla scorta in parte della rielaborazione della contro-educazione di Paolo Mottana e dell’ultra-architettura di Giuseppe Campagnoli, condensate nell’idea di città educante e più in generale degli apporti teorici della pedagogia libertaria, proponendone un rilancio ed una valida attualizzazione.

L’educazione diffusa viene qui proposta quale miglior antidoto per il superamento del disagio sociale ed educativo imperante e al contempo quale argine alla deriva securitaria e al controllo sociale totalizzante nella metropoli post-moderna.

Le riflessioni contenute nel saggio mettono necessariamente in relazione l’ambito pedagogico con quello politico in vista di un cambiamento radicale d’ordine educativo e sociale, poiché il fine della formazione proposto è il soggetto etico suggerito dallo stesso Michel Foucault , capace di sfuggire da ogni dipendenza e da ogni asservimento, in opposizione all’homo consumens. Quest’ultimo descritto come il docile lavoratore e consumatore della post-moder-nità, deprivato di ogni possibile immaginario collettivo e totalmente omologato al sistema di dominio neoliberista.

Un individuo sempre più plasmato dall’imperante pedagogia grigia e direttiva, disciplinante e normalizzante, che mira, servendosi degli apporti dei progressi tecno-scientifici, al mantenimento di pratiche di assoggettamento dei corpi e di de-soggettivazione delle persone, attraverso la sempre più deleteria robotizzazione delle azioni umane e l’informatizzazione della società, grazie alla fusione tra Rete Internet e modo di produzione capitalistico.

Le domande che attraversano indirettamente il saggio  ̶  A che cosa educare? come educare? perché educare?  ̶  non si pongono dunque in astratto, ma in stretto rapporto con l’attuale contesto storico-culturale, caratterizzato da una nuova concezione tecnocratica dell’anthropos, dalla selvaggia colonizzazione digitale che in pochi anni ha investito il mondo della scuola, del lavoro e delle istituzioni e dallo sfruttamento a opera del capitalismo avanzato.

Una condizione che ha dato luogo ed accresce quotidianamente nuove forme di disagio sociale e vede l’affermarsi di una società sempre più atomizzata, fluida, sostanzialmente composta da uno sciame di consumatori alienati che ronzano, insieme ma isolati, nell’illimitato spazio dell’ipercittà, sdoppiati tra identità reale e virtuale.

Per cambiare alla radice l’idea di educazione dei bambini e degli adolescenti risulta necessario dunque superare il concetto di scuola imperante, fatto di rigidi codici disciplinari, norme esasperanti, materie ossificate, interrogazioni, esami e valutazioni selettive agite in luoghi de-umanizzanti, spartani, fatiscenti, alienanti e totalmente mortificanti.

Un’educazione nel complesso performante e devitalizzante, che annienta nei minori l’autentica curiosità, il senso della meraviglia per la scoperta, il desiderio di conoscenza e nega lo sviluppo di un’autentica capacità critica nei confronti di una cultura della produttività, della prestazione e del successo.

“La scuola mi ha distrutto psicologicamente” denunciano i ragazzi, “i professori non si preoccupano per me”, “soffro di un disturbo bipolare diagnosticato a causa dello stress dello scorso anno scolastico”, sono solo alcune tra le migliaia di esternazioni da parte dei minori da sempre ridotti ad “allievi”, imprigionati dentro le quattro mura scolastiche ormai da più di un secolo, come denunciano Mottana e Campagnoli nei loro testi.

L’idea che pervade dunque l’intero libro è che l’educazione debba finalmente cessare di assumere il ruolo di annichilimento della libertà e del desiderio del soggetto, per assumere quello di insegnamento dei diversi modi attraverso cui l’individuo può praticare la libertà in armonia con gli altri, attraverso la “liberazione del proprio corpo” e non “dal proprio corpo”. Liberazione che necessita della possibilità di dar luogo ad un apprendimento a contatto con il mondo reale, con le cose e le persone, opportunamente mediato da soggetti pregni di autentica sensibilità pedagogica, in netta antitesi con la nuova idea di formazione dilagante che si vorrebbe imporre dall’alto, quella della DAD e della DDI, che struttura nuove identità di connessione addestrate ad una nuova forma di obbedienza a distanza.

I minori risultano oggigiorno quanto mai assoggettati, sottomessi e imbrigliati che in passato, perché dal “sorvegliare e punire” di foucaltiana memoria, si è giunti al “controllare e prevenire”, patrocinato da quella ragione “strumentale” – di cui argomentavano Horkheimer e Adorno – al servizio del sistema totale di dominio.

Quella che attualmente si presenta ai nostri occhi è una nuova forma di potere, inedita rispetto al passato, che sta progressivamente colonizzando anche il mondo scolastico e fa presagire i soggetti in formazione vengano silenziosamente e meccanicamente sempre più annientati dentro, attraverso tecniche affinatissime e apparentemente indocili di addestramento che inducono alla propria auto-sorveglianza ed auto-punizione. L’educazione diffusa, pubblica e ovviamente gratuita personalmente intesa, farebbe da contraltare al tentativo di relegare la formazione all’interno delle mura domestiche nella forma dell’e-learning, finalizzata all’addomesticamento del futuro home working ed al contempo porrebbe un sicuro argine al delirio securitario dilagante, che ha fatto sì le nostre città si siano progressivamente trasformate in veri e propri panottici digitali.

La riflessione guarda infine alla necessaria interazione che dovrebbe sussistere tra scelte politiche ed istanze pedagogiche e per far ciò si avvale del pensiero del pedagogista venezuelano Luis Bonilla- Molina, che nel saggio Apágon Pedagógico Global, afferma le pedagogie pericolose per il capitalismo esser quelle che interpretano i fatti educativi nella loro complessità, che mettono l’aula scolastica in relazione con la dimensione collettiva, con l’ambiente circostante, col progetto Paese e il contesto geopolitico internazionale.

 

L’ultimo giorno di Robespierre

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di Giorgio Mascitelli

  La caduta di Robespierre. Ventiquattr’ore nella Parigi della Rivoluzione di Colin Jones ( trad.it. di Alessandra Manzi, Neri Pozza, Milano, 2023, euro 38) è un saggio storico sul 9 termidoro che riesce a coniugare un ampio apparato di rigorosa documentazione con una piacevolezza della lettura e della narrazione storica. Lo storico inglese imposta il suo lavoro su un’analisi estremamente puntale condotta con la necessaria acribia di quel 27 luglio 1794 che fu nel contempo l’ultimo giorno di vita di Robespierre e la conclusione del potere giacobino e della fase più radicale della Rivoluzione francese.

Tra i meriti storiografici di questo saggio, almeno per il lettore che non è storico di professione, va indicata in primo luogo la dimostrazione che la caduta di Robespierre non fu frutto di un piano accurato, di una congiura dei suoi avversari, ma di una casuale convergenza tra i colleghi di Robespierre e Saint Just nel comitato di salute pubblica, definitivamente intimoriti dal discorso tenuto dall’Incorruttibile la sera prima al club dei giacobini, dunque da una parte giacobina e montagnarda con la componente centrista e moderata della Convenzione, che trova un suo provvisorio leader in Tallien, dovuta innanzi tutto alla paura di essere inseriti nelle prossime liste di proscrizione e poi all’odio e allo spirito di vendetta, che unisce deputati della Montagna e della Pianura, estremisti e moderati. L’analisi puntuale di queste circostanze permette di evidenziare come quell’oggetto storico che in seguito sarebbe stato chiamato Terrore non riposa su una struttura stabile, una volontà di potenza definita e un’organizzazione efficiente di un sistema di potere, come quello delle purghe staliniane, ma su pratiche espressione di mentalità e di responsabilità eterogenee e diffuse. Lo stesso potere di Robespierre, che pure è accusato di tirannide dai suoi rivali, non appare fondato su un nucleo di acciaio di fedelissimi, che ci sono ma non così efficienti, e sul controllo di apparati di repressione, ma sulla parola, su un eloquio abbacinante che incarna agli occhi di molti la virtù. Infondo questa lettura suggerisce che il 9 termidoro può anche essere descritto come crisi o caduta della parola di Robespierre: l’improvvisa mozione d’ordine di Tallien alla Convenzione impedisce all’Incorruttibile di prendere la parola, che trascorre in silenzio in cella il pomeriggio e, anche quando verso sera viene liberato dagli uomini della Comune, e portato alla Maison Commune non è in grado, ancora sorpreso,  di formulare un discorso all’altezza della nuova situazione, infine il ferimento della mascella gli leva definitivamente la facoltà di parlare.

In secondo luogo la scansione da cronaca, in cui i capitoli sono dedicati ai vari momenti del giorno e i paragrafi a luoghi della città dove sta accadendo qualcosa di significativo o semplicemente di ben documentato, favorisce una rappresentazione della Parigi rivoluzionaria di tipo annalistico, in cui il lettore coglie anche vari aspetti della vita quotidiana. Nel libro non si muovono solo i grandi protagonisti di cui parlano i manuali, ma cittadini semplici che si trovano coinvolti, talvolta loro malgrado, negli eventi. Questa impostazione è importante perché permette di comprendere che la più grande protagonista della giornata è la confusione, la ridda delle voci ora false ora vere ora troppo frammentarie ora superate che si susseguono non consentendo né alla cittadinanza di comprendere con esattezza cosa è successo alla Convenzione, né ai contendenti quale sia l’equilibrio delle forze e dei favori: man mano che nel corso della giornata si delinea l’evidenza che lo scontro è tra la Comune, roccaforte robespierrista, e la Convenzione, centro dei suoi nemici, si chiarisce anche che il suo terreno è la capacità di imporre la propria versione dei fatti, che non a caso viene vinta dalla seconda, grazie al controllo delle stamperie e alla maggiore persuasività dei propri rappresentanti,  con cui riesce a diffondere le proprie deliberazioni e, in definitiva, le proprie ragioni. Questa impostazione è anche importante perché mette in scena anche il 9 termidoro come punto di crisi definitiva del movimento sanculotto. I militanti delle sezioni parigine della Comune sono colti nelle loro incertezze, nei loro timori, dubbi e nei loro rancori che non sono diversi da quelli dei deputati della Convenzione e, quando sono messi di fronte alla scelta, si schierano prevalentemente con questa perché sembra incarnare lo spirito rivoluzionario che antepone le istituzioni repubblicane al singolo per quanto prestigioso.

Eppure questa scelta dei sanculotti comporta l’annientamento della Comune, che esce distrutta come Robespierre dalla giornata, e con esso l’abbattimento dello stesso contropotere rivoluzionario, che è l’unico baluardo contro forme di restaurazione e ripiegamento. Jones sottolinea che la presa di posizione del comitato di salute pubblica, dei deputati montagnardi e della stragrande maggioranza delle sezioni parigine è coerente con i principi rivoluzionari e non ha nulla a che fare con la reazione termidoriana dei mesi successivi, ma nel contempo la sconfitta della Comune determina la liquidazione del processo rivoluzionario e non a caso molti dei protagonisti di quella giornata seguiranno Robespierre sulla ghigliottina o periranno nelle violenze della jeunesse dorèe. Ci troviamo dunque di fronte a un’antinomia tragica tipica di molti eventi storici, ma come emerge dalla descrizione della giornata  il processo rivoluzionario si trova già in un vicolo cieco perché ha cominciato a rivolgersi contro i suoi sostenitori più fedeli: non a caso la Parigi del 27 luglio è solcata da manifestazioni popolari che protestano contro l’introduzione di un tetto ai salari voluto anche da Robespierre e messo in atto con cura dalla Comune.

Sottolineando la qualità narrativa del testo non intendevo dire che Jones scrive molto bene, cosa vera ma comune ad altri storici, quanto al fatto che questo tipo di articolazione narrativa consente al testo di avere un’impostazione assolutamente particolare e inedita su questa vicenda perché sviluppa una visione sul 9 termidoro non con il senno di poi, ma per così dire in diretta, in cui i fatti narrati conservano l’incertezza del frangente e non sono riportati ex post, come accade in molti testi storiografici. Essi appaiono dunque sotto la lente della possibilità e non dell’ineluttabilità. Si recupera così una dimensione che è quella dell’inconoscibilità e della parziale aleatorietà degli esiti, che visse ogni contemporaneo di quegli eventi storici.

L’organizzazione narrativa del testo è insomma uno dei motivi del suo valore storiografico. Questo non significa che sia una scrittura di tipo letterario perché da essa si distingue per due motivi tanto evidenti quanto fondamentali: in primo luogo qualsiasi tipo di osservazione anche su un singolo tratto caratteriale di uno dei personaggi, qualsiasi aneddoto, qualsiasi conversazione riportata indirettamente, anche la più interlocutoria, è giustificata sempre dal ricorso in nota a testimonianze e documenti; in secondo luogo la struttura e la lingua di questa narrazione non si avvalgono di quegli strumenti stilistici e retorici tipici della narrativa ( per es. la focalizzazione interna o il libero indiretto). Ciò non toglie che in qualche misura il testo di Jones abbia qualche omologia con opere narrative. Certo l’organizzazione di tipo cronachistico, che non si fissa su un protagonista o un gruppo di protagonisti, ma segue quel che accade a Parigi in quelle ventiquattro ore richiama romanzi come Vita e destino, in cui non vi è né un intreccio né un protagonista unico, ma storie che si sviluppano parallelamente e trasversalmente o anche un romanzo come Una mattina ci siam svegliati di Nanni Balestrini che ricostruisce tramite le voci raccolte dei protagonisti la grande manifestazione a Milano il 25 aprile 1994, favorendo una rappresentazione corale dell’evento in questione.

Questa caratteristica permette di fare alcune rapide considerazioni non solo su questo notevole libro, ma in generale su ciò che ci suggerisce  sui rapporti tra scrittura narrativa e storica: in primo luogo il libro dello storico inglese mostra che ci possono essere delle influenze tra scrittura storica e letteraria molto più interessanti e produttive di quello scrivere storia in prema persona che, giustamente, Enzo Traverso ne La tirannide dell’io, di cui ho già parlato qui, considera problematico. In secondo luogo questo aspetto positivo è, almeno in parte, dovuto al fatto che non vi è una dimensione di memoria individuale e dunque si supera appunto ogni pretesa di tirannide dell’io a favore di una dimensione collettiva, che prevede e in parte tematizza il conflitto delle memorie divergenti. In terzo luogo questi rapporti con la letteratura sono mantenuti entro limiti accettabili dall’uso rigoroso delle fonti, che limitano ogni eventuale abuso della memoria. In quarto luogo questa contaminazione positiva è possibile perché Colin Jones non sottomette mai la narrazione storica totalmente schiacciata sul presente e funzionale alle esigenze dell’ideologia attuale, cioè non cade mai in quello che Traverso chiama il presentismo.

 

All’ombra della Bomba: l’Atomica nella cultura pop

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di Daniele Ruini

Because if it’s not love
Then it’s the bomb, the bomb, the bomb

The bomb, the bomb, the bomb, the bomb
That will bring us together

(The Smiths, Ask me)

In una conferenza pronunciata nel 1965, Pro o contro la bomba atomica, Elsa Morante impiegava l’immagine dell’ordigno nucleare per simboleggiare l’«occulta tentazione di disintegrarsi» da parte di un’umanità sempre più alienata, corrotta dalla società di massa e succube degli «stregoni-scienziati»; e enfatizzava, al contrario, l’importanza degli scrittori, ai quali spetterebbe un ruolo di disinnesco e di risveglio delle coscienze, visto che compito dell’arte è quello di «impedire la disintegrazione della coscienza umana».

Quando Morante scriveva queste parole si era nel pieno della Guerra fredda, a pochi anni dalla crisi missilistica cubana che, nell’ottobre del 1962, portò Stati Uniti e Urss a un passo dallo scontro armato: il timore dello scoppio di un conflitto nucleare faceva allora parte dell’immaginario collettivo e l’ombra della Bomba accompagnava la crescita del consumismo americano e il boom economico dell’Europa occidentale. Non sorprende, allora, che quella paranoia atomica sia stata assorbita, veicolata e anche sfruttata dalla cultura pop, a partire da quella statunitense: arti visive, letteratura, musica e cinema si sono infatti nutriti di costanti riferimenti all’era nucleare, e l’interesse per tale tema non sembra ancora essersi esaurito (lo si ritrova, per esempio, nell’ultimo romanzo di Cormac McCarthy, Il passeggero, i cui protagonisti sono figli di un fisico che lavorò al Progetto Manhattan).

A raccontare tutto questo è Camilla Sernagiotto nel suo La trappola atomica: come la bomba ha contaminato la cultura pop (Ultra), un’interessante ricostruzione di come le armi atomiche, dalla loro tragica manifestazione nel 1945, siano state protagoniste della cultura popolare. Come scrive l’autrice, la sua ricerca ha l’obiettivo di sottolineare il ruolo dell’arte come «filtro che permette all’uomo di rendersi conto di quello che ha fatto» (p. 15); e anche in quei casi in cui l’interesse per il tema atomico è stato alimentato da motivazioni commerciali (negli anni della Guerra fredda la bomba atomica è infatti un soggetto che fa vendere), «il grande merito delle opere che raffigurano quell’orrore è che ci costringono a vederlo, ad ascoltarlo, ad affrontarlo» (p. 96). Molte di quelle opere possono allora ancora fungere da monito, per ricordarci cosa è successo quando l’uomo ha deciso di mettere la scienza al servizio della distruzione di massa e di basare le relazioni internazionali sulla deterrenza nucleare e la corsa agli armamenti.

Il primo ambito affrontato da Sernagiotto è quello delle arti visive: oltre a soffermarsi su alcune opere emblematiche –come Leda Atomica (1949) di Salvador Dalì, F-111 (1964-65) di James Ronsenquist, Red Explosion (or Atomic Bomb) (1965) di Andy Warhol o la più recente Bomb Hugger di Banksy–, l’autrice dà visibilità ad artisti meno noti il cui lavoro è però strettamente legato alla nascita della bomba atomica, come gli americani James Acord (1944-2011), Tony Price (1937-2000) e Jim Sanborn (1945–).

James Acord è considerato l’unico artista al mondo «ad aver lavorato direttamente con materiali radioattivi» (p. 57): riuscì infatti ad ottenere il permesso di vivere per quindici anni a Richland, all’interno della riserva nucleare di Handford, sito che ospitò vari reattori nucleari e complessi di lavorazione del plutonio; e lì realizzò sculture con barre di combustibile nucleare, oltre a reliquiari ospitanti oggetti legati all’era nucleare. A Tony Price si deve invece l’invenzione della cosiddetta “arte atomica”, basata sul recupero di materiali di laboratorio utilizzati a Los Alamos, il centro del New Mexico dove gli USA portarono avanti il programma di costruzione dei primi ordigni atomici. Jim Sanborn ha infine dedicato la sua ricerca artistica alla ricostruzione delle stesse macchine impiegate dai fisici del Progetto Manhattan, realizzando acceleratori di particelle e ripetendo l’esperimento originale di scissione dell’atomo di uranio: l’idea è di mettere in primo piano la circostanza spaventosa per cui –come dichiarato dall’artista intervistato dall’autrice– «i primi dispositivi erano realizzati con materiali disponibili a chiunque» (p. 79).

Passando alla letteratura, grande spazio è dedicato ai romanzi di fantascienza che, a partire dagli anni ’50, hanno raccontato storie legate all’atomica; tra i tanti, Paria dei cieli (1950) di Isaac Asimov (1950), I trasfigurati (1955) di John Wyndham, L’ultima spiaggia (1957) di Nevil Shute, Command the Morning (1959) di Pearl S. Buck, Addio, Babilonia (1959) di Pat Frank, Un cantico per Leibowitz (1959) di Walter M. Miller, Cronache del dopobomba (1965) di Philip K. Dick. E non mancano anche opere teatrali legate al tema atomico, come il celebre Copenhagen del londinese Michael Frayn (1998), che mette in scena l’incontro avvenuto nella capitale danese nel 1941 tra i fisici Niels Bohr e Werner Heisenberg, che si confrontano sulla scelta di sfruttare l’energia atomica a fini bellici.

Richiami all’era atomica si ritrovano anche in molti classici del fumetto americano (Batman, L’Uomo ragno, Superman, Hulk o Capitan America), a partire dalla circostanza per cui spesso i supereroi hanno origine da elementi radioattivi. Ma più in generale il mondo del fumetto è ricco di personaggi scaturiti dalla fantasia post-atomica: da Capitan Atom (nato negli anni ’60 da Joe Gill e dal disegnatore Steve Ditko) al Dottor Manhattan della serie Watchmen creata da Alan Moore (autore anche di V for Vendetta, ambientato in una Inghilterra post-atomica). Significativa, infine, la graphic novel Quando soffia il vento (1982) dell’inglese Raymond Briggs, trasformata anche in un film d’animazione nel 1986.

E naturalmente riferimenti all’era atomica si ritrovano nei manga giapponesi: basti pensare al mondo post-atomico devastato da un olocausto nucleare nel quale si svolgono le avventure di Ken il guerriero (creato negli anni ’80 da Testuo Hara e Buronson e poi divenuto un anime molto celebre anche in Italia); o al manga (1982) e poi film di animazione (1984) di Hayao Miyazaki Nausicaä della Valle del vento.

Per quanto riguarda la produzione musicale Sernagiotto si concentra soprattutto su Bob Dylan (con alcune canzoni dei primi anni Sessanta come A Hard Rain’s A-Gonna Fall, With God on Our Side, Talkin’ World War III Blues), Crosby, Still & Nash (con la loro Wooden Ship del 1969, registrata –con alcune modifiche–anche dai Jefferson Airplane) e David Bowie (la cui Bombers uscì nel 1971). Due capitoletti sono inoltre dedicati all’Heavy metal (molte band storiche come Black Sabbath, Iron Maiden, Metallica, Megadeth e Sepoltura hanno infatti consacrato brani al tema della costruzione della bomba atomica e dell’apocalisse nucleare) e al punk, da sempre attraversato da una vena antimilitarista ben evidente in diverse canzoni dei Clash (a partire dalla title-track del loro album più celebre: London Calling, del 1979).

Ma è soprattutto negli anni ’80 che le allusioni alla bomba atomica attraversano tantissime canzoni: tra le più note vi sono Enola Gay (1980) della band britannica Orchestral Manoeuvres in the Dark, il cui titolo riprende il nomignolo del bombardiere americano che sganciò la bomba sulla città di Nagasaki; ma anche Breathing (1980) di Kate Bush, Two Suns in the Sunset (1983) dei Pink Floyd, Dancing with Tears in My Eyes (1984) degli Ultravox, Two Tribes (1984) dei Frankie Goes to Hollywood.

Purtroppo manca invece del tutto un focus sulla musica italiana, che si è più volte dimostrata attratta dal tema in questione: dagli anni ’60 de La bomba atomica (1966) dei Giganti e de L’atomica cinese (1967) di Francesco Guccini, fino ai numerosi riferimenti degli anni ’80: basti citare Franco Battiato che ne L’esodo (1982) invitava a mettersi in marcia «prima che la terza Rivoluzione industriale / provochi l’ultima grande esplosione nucleare»; o ancora i Nomadi con la loro Il pilota di Hiroshima (1985); oppure l’hit dei Righeira Vamos à la playa (1983), il cui testo in spagnolo descriveva, pur con una certa ironia, uno scenario balneare post-atomico fatto di viento radiactivo e agua fluorescente.

Ci permettiamo inoltre di aggiungere a questo elenco Foreign Accents di Robert Wyatt (contenuta nell’album del 2003 Cuckooland), il cui testo è costruito sulla ripetizione alternata dei nomi di Hiroshima e Nagasaki, inframezzati dai saluti giapponesi konnichiwa e arigato, e dai nomi di Mordechai Vanunu (tecnico nucleare israeliano che ha passato 18 anni in carcere per aver rivelato l’esistenza di testate nucleari segrete in Israele) e di Mohammad Mossadegh (primo ministro iraniano che, in seguito alla sua politica di nazionalizzazione del petrolio, venne deposto nel 1953 da un colpo di stato militare favorito dai servizi segreti americani e inglesi).

Dopo un breve capitolo dedicato ai videogiochi, Sernagiotto passa in rassegna la settima arte, dimostrando come il cinema abbia a lungo flirtato con il tema della bomba atomica e come continui a farlo: basti pensare all’imminente uscita del nuovo film di Christopher Nolan dedicato a Robert Oppenheimer, il fisico a capo del Progetto Manhattan.

A registrare un grande successo del tema atomico sono stati soprattutto gli anni ’50: dai B-Movies americani pieni di radiazioni ed esplosioni nucleari (come quelli di Roger Corman), alle grandi produzioni hollywoodiane come L’ultima spiaggia (1959) di Stanley Kramer, fino al cinema d’autore, con opere come Hiroshima mon amour (1959), girato da Alain Resnais su sceneggiatura di Marguerite Duras, e Testimonianza di un essere vivente (1955) di Akira Kurosawa, il cui protagonista, terrorizzato dai rischi legati alle armi nucleari, cerca di convincere la famiglia a trasferirsi in Sud America.

Emblematico, in particolare, il film di Kramer, tratto dall’omonimo romanzo di Nevil Shute, in cui si descrive un mondo post-Terza guerra mondiale reso radioattivo dalle armi nucleari: dall’affannata fuga dei protagonisti –che cercano rifugio nelle zone più meridionali del pianeta, le uniche a non essere state ancora toccate dalla radioattività, trascorrendo gli ultimi giorni di vita su una spiaggia australiana– è infatti derivata la locuzione ultima spiaggia.

Gli anni ’60 sono inoltre segnati da due film imprescindibili: Il dottor Stranamore (Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba) (1964) di Stanley Kubrick, una delle più grandi satire del potere e una messa in guardia circa i rischi di un sistema difensivo basato sulla deterrenza atomica; e Il pianeta delle scimmie (1968) di Franklin J. Schaffner, tratto dall’omonimo romanzo del francese Pierre Boulle e ambientato in un futuro in cui la Terra è stata distrutta da una guerra nucleare e le scimmie sono diventate la specie più evoluta ai danni degli esseri umani.

Dopo che molte pellicole degli anni ’80 assorbono e rilanciano le tensioni legate alla Guerra fredda, a partire dagli anni ’90 il cinema sembra raccontare –sulla scia del disastro di Černobyl’ del 1986– soprattutto le paure legate non più ad un conflitto atomico quanto a possibili incidenti nelle centrali nucleari. Fa eccezione Rapsodia in agosto (1991) di Akira Kurosawa, un’opera che denuncia come i bombardamenti su Hiroshima e Nagasaki fossero diventati un tabù per i giapponesi d’America[1].

L’ultima parte del volume è infine dedicata alla serialità televisiva. Tra le serie citate da Sernagiotto in cui hanno un ruolo le armi nucleari (come 24 o Lost) particolare attenzione è dedicata a Twin Peaks-Il Ritorno (Showtime, 2017), ovvero il terzo capitolo, ambientato 25 anni dopo, della rivoluzionaria serie creata da David Lynch e Mark Frost all’inizio degli anni ’90. Nella immaginifica ottava “parte” di questa opera –girata da Lynch come un unico film di 18 ore (motivo per cui è meno appropriato parlare di “episodi” veri e propri)– viene infatti «mostrato come il Trinity Nuclear Test abbia facilitato la nascita di BOB, il killer assetato di sangue che ha messo a ferro e fuoco la cittadina di Twin Peaks» (p. 380)[2]. Ma già prima della messa in onda Camilla Sernagiotto aveva avanzato la suggestiva tesiper cui molti dei cognomi dei personaggi di Twin Peaks nascondessero un riferimento alla storia della bomba atomica: il caso più evidente è quello dello sceriffo Harry S. Truman, omonimo del presidente americano che decise lo sgancio delle due bombe su Hiroshima e Nagasaki.

Nessun accenno da parte dell’autrice è invece fatto a Mad Man (AMC, 2007-2015), l’acclamata serie televisiva ideata da Matthew Weiner e incentrata sulle vite di un gruppo di pubblicitari di stanza a Madison Avenue, nella New York degli anni ’60. Dato il periodo affrontato, le vicende raccontate riflettono spesso il clima da Guerra fredda che pervadeva allora gli Stati Uniti: oltre al fatto che il protagonista Donald Draper è un reduce della Guerra di Corea (mentre il suo collega e socio Roger Sterling combatté nella Seconda guerra mondiale, conservando da allora una forte idiosincrasia verso il Giappone), si può citare in particolare l’ultima puntata della seconda stagione, Meditations in an Emergency (dal titolo di una raccolta poetica di Frank O’Hara), in cui tutti i personaggi sono immersi nella tensione della crisi dei missili di Cuba (un’ansia nata in seguito al discorso televisivo con cui il presidente Kennedy preannunciava la reazione americana in caso di attacco da parte russa).

In chiusura, nonostante l’assenza di un indice analitico –senza il quale risultano di difficile consultazione le lunghe rassegne di romanzi e film che occupano, da sole, quasi la metà del libro–, La trappola atomica costituisce una preziosa guida alle opere della cultura occidentale (ma, come si è visto, non mancano incursioni in quella nipponica) che hanno rielaborato le angosce scaturite dalla tecnologia atomica. Angosce che accompagnano ancora le sorti dell’umanità, almeno fino a quando i «Potenti della terra padroni di nuovi veleni» (Primo Levi, Nulla rimane della scolara di Hiroshima) si decideranno davvero a dare alla pace una possibilità.

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[1] La vergogna fu, infatti, un altro effetto delle bombe americane sulla popolazione giapponese: per esempio molte donne di Hiroshima sopravvissute all’esplosione «si votarono a una lunga clausura per non percepire l’orrore nello sguardo di quanti, incontrandole, avrebbero veduto i loro volti sfigurati dai cheloidi, le larghe cicatrici provocate dalle ustioni» (Paolo Miorandi, Lessico di Hiroshima, Trento, Il Margine, 2015, p. 40). Sulla vergogna e l’assenza d’odio delle vittime di Hiroshima ha ragionato il filosofo e scrittore tedesco Gunther Anders nel suo Essere o non essere: Diario di Hiroshima e Nagasaki (Torino, Einaudi, 1961), opera-manifesto del movimento antinucleare.

[2] Significativamente, ad accompagnare le immagini è la Trenodia per le vittime di Hiroshima del compositore polacco Krzysztof Penderecki.

La nostalgia della madre

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di Giuseppe Raudino

Verticalità e orizzontalità sono i segni che nel corso degli ultimi due millenni si sono caricati di un più alto significato spirituale ben incarnato nel cristianesimo. Tuttavia questa carica semantica si manifesta nella loro immediata contrapposizione, come nel segno di croce: il sigillo verticale della relazione tra l’uomo e Dio, e la fratellanza orizzontale tra l’uomo e il suo prossimo.
Marino Magliani, narratore ligure residente nei Paesi Bassi, ci aveva finora raccontato la sua terra natia in termini di verticalità, con le preziose ambientazioni di valli, colline e rocce che discendono nel mare, ben descritte sia nel Cannocchiale del tenente Dumont (2021) che in Peninsulario (2022). Adesso, invece, come puntualizza lui stesso nella postfazione del nuovo romanzo, ci offre un’inedita orizzontalità della sua Liguria, forse influenzato dalla piattezza dei paesaggi olandesi, descrivendola da Levante a Ponente con lo sguardo che naviga sottocosta o ben prossimo alla riva, scrutando il mare in cerca di isole vicine e lontane. E così, contrapponendosi alla verticalità celebrata negli scritti precedenti, Magliani dà alle stampe Il bambino e le isole (un sogno di Calvino) per le edizioni 66thand2nd.

Un pellegrinaggio paraferroviario

La vera sorpresa di questo romanzo è dunque l’orizzontalità della Liguria, questo arco che tanto somiglia a un sorriso sottosopra e che viene percorso da destra a manca e viceversa lungo i binari ferroviari. Protagonista di questo insolito viaggio è un bambino che abbandona la propria madre e si trasforma in un “vecchio pellegrino ferroviario”. Un giovane che diventa vecchio, dunque. La bellezza del racconto consiste non solo nella sovrapposizione spazio-temporale di luoghi, ma anche nelle stratificazioni anagrafiche del personaggio principale, un bambino del quale non si sa bene se si stia imbarcando in un’avventura di vagabondaggio per sfuggire a una madre troppo apprensiva o se stia ubbidendo al destino che un celebre scrittore avrebbe designato proprio per lui. Lo scrittore, in questo caso, è Italo Calvino, che, oltre a comparire nel titolo del libro, in vita ebbe forti legami con la terra di Magliani e che in Magliani ha lasciato una forte traccia di ammirazione.

Una vita senza attraversare

La peculiarità della storia di questo bambino è seguire i binari senza mai attraversarli (raccomandazione materna alla quale non si sottrae per tutta la vita), e campare di espedienti mentre i giorni, le stagioni e gli anni si susseguono. Teniamo presente, in nome dell’orizzontalità, che la Liguria è solcata trasversalmente dalla rete ferroviaria, e questa peculiarità detta le oscillazioni narrative tra Ponente e Levante. Da bambino, il protagonista diventa adolescente, e poi uomo maturo, e poi anziano, fino al declino fisico accompagnato da un pizzico di crescente irriverenza, perché si sa che una vita dura finisce per rendere più saggi e disincantati, e perfino più allergici alle regole. Eppure il vecchio vagabondo, prossimo a chiudere il ciclo della propria esistenza, presenta in qualche modo delle strette somiglianze con il bambino che era stato un tempo, ed è pronto a emozionarsi per un incontro o un ricordo. In ultima analisi, il vecchio è il bambino coincidono, sono simultaneamente la stessa persona, non c’è scarto tra i distinti piani temporali.

La madre coincide con l’isola

Nel girovagare tra est e ovest, alcuni posti sono toccati più di una volta, ma non sono mai osservati dallo stesso sguardo. I luoghi sono a volte uguali a sé stessi, sono trasformati dal di dentro o dal di fuori. Gli occhi del protagonista si posano sulla costa, scrutano dentro le gallerie buie, si riparano dai riflessi accecanti, ma soprattutto sono alla ricerca di qualcosa di più impalpabile, di un’isola lontana o vicina, dell’imponente Corsica o degli isolotti prossimi, come il Tino, Palmaria e Bergeggi, Gallinara e Alassio.
Questa frenetica osservazione delle isole liguri spinge il protagonista ad alcune riflessioni che portano alla personificazione delle isole stesse: le “isole non sono mica eterne, ci sono e se ne vanno”. Come le persone.
La chiave per comprendere il senso profondo di questo romanzo la si può ottenere facendo coincidere la figura materna con il concetto di isola: la madre è colei dalla quale all’inizio il bambino scappa semidisubbidiente e alla quale giunge nella vecchiaia per un fugace incontro al di fuori del tempo. Scrive infatti Magliani: “La voce di lei [della madre] emergeva dalle rive, o da più lontano, proveniva dalle isolette che la costa seminava tra i suoi occhi e l’orizzonte”. Le isole sono il richiamo della donna che lo ha generato e dalla quale il protagonista si separa volontariamente (“Le isole, come l’esilio perfetto”).

Una mappa di odori e relazioni

Nella postfazione Magliani puntualizza che questo suo libro è “una mappa, qualcosa di puramente geografico e nello stesso tempo cronologico”. Io aggiungerei che è una mappa di relazioni: il bambino incontra o sogna di incontrare dei personaggi chiave che arricchiranno spiritualmente il suo viaggio. Spesso sono artisti e letterati come Italo Calvino, Camillo Sbarbaro e Carlo Levi. A volte ci sono forti indizi che tra le righe del romanzo prendano forma intellettuali del calibro di Antonio Tabucchi e Carlo Bo, rievocati per scritture e traduzioni altisonanti, ma alla fine quella che accompagna incessantemente il protagonista è la figura della madre-isola.
A prova di ciò, avviene a un certo punto una trasformazione nel protagonista che conferma la teoria della madre trasfigurata in isola: all’inizio il protagonista racconta che “gli mancava così tanto una madre che l’avrebbe raggiunta a nuoto, se avesse saputo nuotare”, e qualche pagina più avanti, a seguito dell’incontro con un maestro che gli insegnerà a nuotare, lo stesso protagonista gioirà affermando che “sentiva la madre più accanto, ne sentiva l’odore, non il profumo di violetta che usava prima di uscire, ma il suo odore di madre”. E ancora, a ribadire il forte legame tra odore e ricordo, oltre che tra isola e madre: “lui la scoprirebbe per il suo odore di madre. Ora crede di saperlo bene cosa è la nostalgia. Non è mica la nostalgia del passato o del tempo futuro o di una regione, è solo la nostalgia di noi stessi”.

L’impalpabilità di un sogno che comincia

Dopo una vita trascorsa a rincorrere un sogno altrui (di Calvino) che in seguito ha fatto proprio, un sogno che lo tiene lontano dal calore domestico, l’incontro con la madre si carica di toni commoventi: nonostante la presunta vicinanza fisica, lei resta ancora impalpabile come un’isola che si vorrebbe tanto raggiungere a nuoto ma che è appena troppo lontana, e questa impalpabilità viene resa con maestria attraverso la leggerezza di un vestito che svolazza al vento, con il rifiuto di mangiare qualcosa (esiste nulla di più fisico del cibo?), con la proposta di lei di portare la bisaccia e la maglietta pulita del figlio da qualche parte misteriosa, con il verosimile intento di dare sollievo al figlio dopo le fatiche del vagabondaggio, rimuovendo quel fardello nell’ultimo tratto della vita di costui, precedendolo e serbandogli una candida veste metafisica che il figlio avrebbe presto ritrovato dopo aver finalmente guadato il fluire dei binari, quei binari che per tutta la vita aveva affiancato senza mai attraversare.

Vita (sillabario della terra # 3)

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di Giacomo Sartori

Alla terra associamo inconsciamente la vita, perché ci è capitato di osservare gli esserini visibili che la abitano: insetti, formiche, larve ialine, ragnetti leggeri, lumache, vermi. Una vita brulicante e un po’ repellente, molto lontana dall’ideale di natura che prediligiamo, i vasti spazi dove il nostro sguardo può perdersi: immensità che ci impressionano, ma ci attraggono e dove ci sentiamo in realtà a nostro agio. Per i nostri gusti la vita della terra è troppo umida e buia, sa troppo di decomposizione e marcescenze, di morte. Gli spazi delle nostre esistenze sono sempre più asettici e areati, la terra ci appare viepiù sporco che rimane attaccato alle scarpe, fango fastidioso, possibile contaminazione.

Fin da tempi remotissimi i nostri antenati la associavano alla fecondità e alla fertilità, restavano abbagliati dalla sua capacità di far crescere ogni anno le piante, di darci il nostro cibo. E pur sempre un bel servizietto. La rispettavano e omaggiavano, non dimenticavano mai che la nostra esistenza dipende da essa. Da qualche generazione diamo però importanza crescente alle trasformazioni e agli impacchettamenti, all’industria, a quello che facciamo noi, che ci procura fierezza: tendiamo a dimenticare che quello che mangiamo spunta dalla terra o nella terra. I prodotti agricoli sbarcano nelle nostre case puliti e condizionati, curati nell’estetica e nell’igiene, con una ben livellata e formattata apparenza. Non ci interessa più da dove vengono, e la loro salute intrinseca: guardiamo il prezzo.

La terra è diventata un male necessario, un arcaismo che non siamo riusciti a eliminare. La livelliamo quindi con maniacale precisione, diamo ai campi forme perfettamente rettangolari, sterminiamo qualsiasi erbaccia, facciamo insomma del nostro meglio per darle – almeno quello – un aspetto moderno e al passo coi tempi. Siamo noi che dobbiamo decidere quello che succede, come deve succedere, e come è duopo presentarsi. Ci mancherebbe solo che le automobili, che sono i nostri nuovi animali da soma e di compagnia, andassero dove vogliono loro. Gli ingegneri pianificano addirittura coltivazioni senza terra, come le chiamano, finalmente emancipate da quella brutta bestia, finalmente sotto controllo dall’a alla zeta, finalmente linde e sterilizzate, indipendenti dalle piogge e dal sole: ci dicono che il futuro è quello. Considerare che è viva vorrebbe dire accettare la sua immanente insubordinazione.

Sapevamo da tempo che ribolle di una incredibile vita microscopica, che non è lì per caso, ma è necessaria per tutto quello che succede al suo interno. La fa funzionare. Grazie ai batteri i residui vegetali ritornano all’aria sotto forma di composti semplici, e in parte vengono rielaborati, ingrossando una riserva stabile, un capitale con una rendita annua sicura di elementi minerali per le radici. Grazie a loro si arricchisce di azoto nella forma utilizzata dalle piante, il loro companatico più necessario. Grazie alle ife fungine le radici aumentano a dismisura la loro superficie utile e la loro capacità di estrarre acqua e elementi. E via dicendo.

Non potevamo però vedere questa vita tanto importante. E per certi versi ci tornava comodo non vederla, facendo come se non esistesse, perché la dittatura della chimica preferiva non avere concorrenti, tanto meno così agguerriti.  Con molta fatica i microbiologi riuscivano a allevare qualche ceppo nelle scatole Petri, bassi recipienti trasparenti con una gelatina di coltura sul fondo, a osservare le escrescenze che produceva. Troppo poco dal punto di vista scientifico, e quindi chi sottolineava la sua centralità veniva trattato da esoterico farneticante, da nemico della chimica e quindi, con un ardito salto ben poco veritiero, della scienza.

Solo le tecnologie degli ultimi decenni permettono di mettere a nudo il codice genetico: si è aperto un mondo. Le forme di vita microscopica presenti nella terra sono infinitamente più abbondanti di quello che si pensava, una varietà che lascia senza fiato. La grandissima maggioranza di quei microbi non si lasciavano mettere al guinzaglio, per questo nessuno li aveva mai visti. Ma c’erano, e questa volta lo diceva la scienza: avevano una dignità scientifica, pari a quella dei composti chimici. E anzi superiore, visto che gran parte dei processi chimici sono il risultato della loro presenza, sono in realtà biochimici. Impossibile di ragionare ancora in soli termini chimici, come si era fatto per un secolo.

Ora si può fare conoscenza con i geni, è già qualcosa. E’ come se entrando in uno stadio affollato a occhi chiusi si potessero avere i codici genetici di tutta la gran folla. Uno può immaginare un sacco di cose, dai dati genetici, il che non implica affatto una qualche familiarità. Certo, spendendo tempo e denaro si riesce a scendere fino alla specie, a averne delle fotografie di ogni faccia. Ma è una smisurata bolgia, è impensabile preparare la scheda segnaletica di tutti. Solo per i batteri si parla di decine di migliaia di specie. Nemmeno in dieci vite uno specialista arriverebbe a orientarsi un minimo, anche dedicandosi solo a quello. E si ipotizza che attorno a ogni esserino girino attorno una decina di virus.

Verosimilmente ogni specie è ben diversa dalle altre, e ha le sue abitudini e vizietti: un cane non è un gatto, e un topolino non è un elefante, restando tra i mammiferi. Ma appunto nella terra le specie sono come i granelli di sabbia di una spiaggiona. Chi mai potrà studiarle, chi potrà conoscerle, chi potrà cogliere le loro infinite interrelazioni, che nel loro insieme determinano il funzionamento dei vari terreni? I tali germetti se ne stanno in grembo ai tal’altri, i quali abbracciano i tal’altri ancora, chissà con quali accordi e vantaggi reciproci, i tali mangiano i tal’altri che sono mangiati dai tal’altri ancora: vai a capire come stanno davvero le cose. Davvero solo le intelligenze senza vita, si insinua più acute e capienti delle nostre, per ora non sembra il caso, potranno capire la vita? (Ma bisogna per forza capire tutto? Non possiamo accettare di non capire tutto? La vita non è appunto quel mistero che non possiamo conoscere?)

I fantasmi di Bruciata

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di Romano A. Fiocchi

 

Licia Giaquinto, Cuori di nebbia, TerraRossa Edizioni

 

Bruciata esiste davvero. È una località sulla via Emilia, tra Modena e Bologna. Se la si cerca sulle mappe di Internet, si fatica a identificarla: le descrizioni che ne fa la Giaquinto risalgono a oltre vent’anni fa, nel periodo in cui ha ambientato la storia. Non esiste nemmeno più la scritta sull’intonaco scrostato del casone abbandonato, che l’autrice ricorda nella Postfazione. Ma poco importa, i suoi fantasmi continuano ad aleggiare in quella zona di nebbia e di desolazione. Perché sono personaggi veri, ben costruiti, modulati su diversi stadi di sviluppo a seconda del proprio ruolo nel congegno narrativo: dal personaggio completo di Filippo, il contadino “scarpe grosse e cervello fino”, a quello in forma di comparsa dell’anoressica Silvia.

La Giaquinto ne alterna le voci narranti in prima persona lungo i quarantacinque capitoli del romanzo, contrassegnati dal nome stesso del personaggio e dal numero progressivo di entrata in scena (Mirella 1, Natascia 1, Mirella 2, Filippo 1, Mirella 3 e così via). Finisce così per attribuire a ciascuno un ordine di importanza: non per nulla il numero più alto di capitoli è assegnato a Filippo (Filippo 9), che se da un lato non si può definire protagonista del romanzo, dall’altro è sicuramente un personaggio costruito “a tutto tondo”. Quasi suo alter ego, anche come numero di entrate in scena, è il bulimico Francesco. Poi a parità di importanza la Mirella, moglie di Filippo e amante della vicina di casa Ivonne, e il guardone Nicola, con il vizio di spiare le coppiette. Altre voci narranti, per completare il quadro, sono quelle della prostituta Natascia, della tossicodipendente Patrizia e del vagabondo Mirco.

L’elenco qui sopra non è fine a se stesso: Cuori di nebbia è un romanzo corale, dove i personaggi – o piuttosto i fantasmi di una realtà che è stata – intrecciano l’un l’altro le loro vite e diventano parte integrante del meccanismo stesso del libro. Sono i “sei personaggi in cerca d’autore” (sette, in questo caso) che non hanno una storia da rappresentare perché è già stata rappresentata. Basti leggere la scena iniziale, quarto capoverso:

«Qualche casolare, fosse ricolme di letame e bidoni di plastica azzurra affiorano, come pustole, sulla crosta gelata. La scena è perfettamente in sintonia con il luogo e la stagione, se non fosse per quei tre corpi, abbandonati come spaventapasseri inutili tra un argine e un solco, a distanza di poche decine di metri l’uno dall’altro».

Tutto è già stabilito nella prima pagina, anche se il lettore non può ancora conoscerlo e lo scoprirà solo alla fine. I corpi dei tre personaggi sono come pupazzi abbandonati, emblemi del filo conduttore drammatico uomini-personaggi-oggetti. La penna della Giaquinto li manovra e si sostituisce al loro destino mantenendolo costantemente avverso, come ricordano le parole spesso ripetute da Filippo:

«A me il destino mi ha sempre remato contro, e ci potevo dare tutto l’unto che volevo, ma ci restava sempre la ruggine e si inceppava, in un modo o nell’altro».

È un destino beffardo, quello che colpisce tutti i personaggi del libro. Un destino costruito su verità soggettive, vizi, menzogne, rapporti di coppia deteriorati sino all’estremo, che aggroviglia le esistenze e le lega vicendevolmente fino alle incredibili coincidenze del finale. Vero e proprio scherzo del destino, visto che ciascuno a suo modo cerca di “oliarlo”, come dice Filippo, ma il risultato è sempre l’opposto di quello desiderato. Sembra di avvertire il tema dei “vinti” di verghiana memoria: per quanto tutti aspirino a qualcosa di diverso, a qualcosa che riscatti le loro vite grame, nessuno si salva. Sia che la loro forma mentis, come nel caso di Mirco, venga arricchita dalla lettura dei “più bei poemi dell’umanità”, Iliade, Odissea, Eneide, Divina Commedia, sia che attinga, come nel caso di Filippo e della Mirella, alla più becera cultura televisiva, dove i livelli di riferimento più alti sono quelli di Chi l’ha visto? e del Maurizio Costanzo “Sciò”.

Non esistono, in questo romanzo, personaggi positivi o negativi. Ogni ossessione o gesto, anche i più detestabili, hanno la propria giustificazione nelle circostanze della vita, nella pressione cui è sottoposto l’individuo, pressione che finisce per plasmarne il carattere. L’amore di Filippo per “l’angelo” della Natascia giustifica i tentativi di eliminazione fisica della Mirella, così, senza nessun odio particolare. La stessa vendetta finale della Mirella trova le sue motivazioni nel rocambolesco piano di fuga architettato da Filippo. È dunque un mondo di condannati, privi di qualsiasi possibilità di salvezza.

Una precisazione: personalmente non amo i romanzi noir, ma quello della Giaquinto – nonostante lo stesso risvolto di copertina lo definisca tale – non è propriamente un noir. È un romanzo duro, verista, anche di denuncia, con un finale drammatico, certo, ma che ha come obiettivo mettere a fuoco la desolante condizione di chi abita i margini di una provincia abbandonata a se stessa, tra lavori massacranti e “falene” che accendono di fuochi la notte con lo scopo di catturare camionisti assuefatti alla solitudine e alla lontananza. Insomma, un Assomoir contemporaneo e italianissimo.

Sembrerà strano ma Cuori di nebbia è una fortunata riedizione. Pubblicato per la prima volta nel 2007 con i tipi della piccola casa editrice Flaccovio, si tratta dell’ennesima riscoperta di TerraRossa che con la sua collana Fondanti sta riproponendo titoli meritevoli di un ritorno in libreria. Basti ricordare la pubblicazione nel gennaio 2019 di un romanzo straordinario come Il Pantarèi di Ezio Sinigaglia (su Nazione Indiana se ne parla qui), uscito nel 1985 e passato pressoché inosservato.

 

L’incontro con il pubblico come esercizio mitopoietico

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La poesia è un’erbaccia nella storia della letteratura? Per molti sembra così. La vita di un libro di poesia è generalmente una vita minorata, una vita di acciacco. Rispetto a un romanzo o un saggio, per dire, ci si aspetta meno da chi scrive: presentazioni sporadiche, reading spesso affollatissimi, miracolose apparizioni in qualche festival. L’incontro con il pubblico è tanto desiderato quanto mal visto, come se si trattasse di una inutile –  o addirittura pericolosa – ginnastica del consenso. La poesia sembra ostinarsi a vivere di una purezza che ignora il fondamento “impuro” di ogni avventura immaginativa. Manca allora un pubblico? No: manca una mitologia. Questo discorso può essere esteso all’intero mercato editoriale: c’è una letteratura che  circola e vende, ma manca spesso dall’altra parte un’immaginazione capace di confrontarne il gigantismo al di là dei rancori, per farne il controcanto. Immaginazione vuol dire anche sapere osservare le gigantomachie, coglierne i flussi, le intersezioni, i sintomi da giocare, da mischiare, da ribaltare in chiave di imprevista alleanza, di gioiosa controffensiva o di postura persino destinale. Cito, a tal proposito, una recente riflessione della scrittrice Sara Gamberini, che mi sento di condividere: «a me non dispiace che qualcuno scriva male, scriva bene, scriva più pop di me, meno pop, che scriva di temi più spicci, meno spicci, più accattivanti, più spendibili. Non mi dispiace che grazie alla sua spendibilità e bellezza e carisma e freschezza e modernità ed estroversione vada in televisione, ai festival, che venga tradotto in mille lingue. […] Non penso mai che qualcuno possa rubarmi un posto. In questo la scrittura è per me garanzia di fedeltà, so che non mi sostituirà mai con nessuno. È mia. Poi certo, la difendo molto, anzi moltissimo, la amo, la proteggo, ma la difendo da altro, ad esempio difendo la sua unicità e non la sua posizione rispetto a quella di un altro scrittore, di un’altra scrittrice. Sarebbe bellissimo che noi scrittrici e scrittori fossimo molto più […] solidali e complici».

Esiste, chiaramente, una stringente logica prestazionale che danneggia questa solidarietà. Una  logica che domina spesso i tour di presentazione di libri particolarmente “sostenuti” dal mercato editoriale: romanzi che debbono apparire, biografie che bisogna cercare di vendere, e così via. Ecco: proprio perché apparentemente svincolata dall’obbligo mercantile, la poesia può allora giocarsi in maniera formidabile l’occasione dell’incontro nella dimensione pubblica – invece che subirla. È questo il grande problema: se ci si incontra con un pubblico, in poesia, ciò avviene di frequente in un ambiente di ricatto, con l’obbligo di scusarsi in anticipo per la convocazione. Un sospetto (un complesso?) di inadeguatezza, di recita di fino anno a cui ha dato voce Gilda Policastro, descrivendo «il disagio» che prova, ultimamente, quando la «invitano a leggere in pubblico». Scrive Policastro: «perché non concedersi di tremare o di balbettare, che male c’è. Anzi, sarebbe meglio per un po’ tornare a leggerci con calma, uno per volta, senza gli abusi di pazienza altrui con queste maratone in cui ciascuno va ad ascoltare solo se stesso. Provo lo stesso disagio delle recite di fine anno a scuola o dei saggi di pianoforte, Gilda tocca a te». Maratone, recite, recinti, gareggiamenti, palchi che crollano: che squallore! L’incontro non deve essere presenzialismo, ma mitopoiesi.

Chiamo ora in campo un altro “acciacco”, quello biografico: in questi ultimi mesi ho viaggiato molto per accompagnare la vita del mio ultimo libro. Parliamo di trenta incontri programmati a quattro mesi dall’uscita. Ho avuto il privilegio di poterlo fare, grazie alla cura di una casa editrice che ha sostenuto e desirato ogni spostamento.  Per di più lo ha fatto per un libro di poesia, e di un autore poco più che ventenne. Insomma: prontuario della catastrofe? Tutt’altro. È andata diversamente. Innanzitutto si trattava, per me, più che di fare presentazioni critiche,  di cercare legamenti con altre realtà, di sconcertare un poco l’esperienza del libro come fenomeno terminale, conclusivo, arroccato per sempre nel proprio silenzio; un atto, volta per volta, di ricreazione condivisa con un pubblico chiamato a radunarsi attorno a questo strano congegno-libro. Novalis si chiedeva: «Chi ha dichiarato la bibbia completata? Non potrebbe forse la bibbia continuare ancora?». Aprire nuovamente il testo, ricominciarlo nell’incontro, farne uno strumento di tremore, uno strumento generativo e mitopoietico: ecco ciò che m’interessava.

Al margine di un’accoglienza positiva, ho ricevuto commenti di questo genere da persone da me peraltro assai ammirate: «bisogna pensare al buio dell’alfabeto e lasciar perdere le gazzette». Ecco: credo che la postura del flagellante, l’esercizio inutilmente punitivo, sia divenuto oggi una scusa banale, poco più che una difesa. Attenzione: vi sono altissime forme di aristocrazia spirituale nel ritiro, nell’indietreggiamento, nella decreazione. Ma sono urgenze, esercizi di scoincidenza dal tempo che coincidono con il tempo – e il compito – di una vita: domandano rigore, e non la banalità di un post Facebook dove si manifesta la propria frustrazione contro tutto e tutti. Anche la dimensione “performativa” è vista con grande diffidenza, come se si trattasse di una trovata recente, di una vocazione della modernità,  e non di una formula di pathos che agita da sempre la vita della letteratura.

Riporto, a tal proposito, un frammento molto interessante da Caccia allo Strega di Gianluigi Simonetti, citato proprio da Gilda Policastro in un’altra sua recente riflessione: «La letteratura stessa, nel complesso, tende sempre più spesso alla performance: rilutta a conservarsi ‘solo scritta’, oltrepassa i confini del libro; dopo secoli di estetiche autonome riscopre l’eteronomia; sollecita, per farsi più seducente, interazioni con le immagini e la musica, con interviste, documentari e making of, col corpo stesso dell’autore, sempre più invitato a non lasciare sola la sua opera: a leggerla in pubblico ad alta voce, esibirla in una installazione, commentarla, firmarla, insomma, accompagnarla, in un’ossessione di presenza e incarnazione. Lo scrittore è quindi indotto, per acquisire una posizione centrale nel campo letterario, a trasformarsi in performer, attivo su diversi fronti, abile su diversi tavoli, mediaticamente (e non solo) virtuoso; oppure a specializzarsi come narratore, specialista di affabulazione nell’enfasi attuale per le ‘storie‘. L’uno e l’altro rischieranno soprattutto di essere, in fin dei conti, brillanti storyteller, al confine tra letteratura e comunicazione (e sempre più spesso col giornalismo a fare da mediatore): la fiction narrativa essendosi costituita come genere privilegiato nella rappresentazione comune del letterario”».

Simonetti evidenzia una questione fondamentale dell’attuale scena letteraria, ma la cui genealogia è complessa. Pensiamo all’idea di una letteratura totale veicolata dai poeti-performer come Adriano Spatola, o – per converso –  alle straparlate performance di  gigantismo televisivo di Carmelo Bene, che trivellano “da dentro” lo schermo del talk show pur evocando continuamente l’ambito letterario: ciò che s’agita è sempre uno sbordamento dal libro, che raggiunge il terreno dello storyteller nel comune mandato d’incontro-scontro con un pubblico, nell’incarnazione come preciso portamento.

Un testo vive certamente una vita autonoma, ma ciò non toglie che l’incarnazione, quando vissuta non come una resa ma come una risorsa, è capace di aprire nuove vie impreviste, anche in risposta all’attuale mercato.  Dice la poetessa Ida Travi, autrice di un fondamentale saggio su L’aspetto orale della poesia: «il libro non basta». Proprio per questo fenomeni apparentemente totalizzanti per il nuovo mercato letterario come il BookTok (vero o proprio spettacolo della presenza fantasmatica) non debbono essere ignorati:  come appuntavo altrove, proprio per via del suo aperto gigantismo, il BookTok richiede un gigantesco sforzo di rottura, lo invoca, lo infiamma, reinnescando la potenza immaginativa.  Non trincee o palchi che crollano ma spazi di cura, radicalmente impuri proprio perché mirati all’impatto imprevisto, alla formulazione di altri miti, alla potenza del contagio immaginativo. Nell’incontro con la dimensione pubblica, ricominciamo dalla poesia: cioè dell’erbaccia.

Mots-clés__Panchina

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Panchina
di Paola Ivaldi

Georges Brassens, Les amoureux des bancs publics -> play

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Da: Alida Airaghi, Omaggi, Giulio Einaudi Editore 2017, p. 43.

Con il cielo coperto, l’erba ormai alta
(la panchina azzoppata,
e cartacce e lattine). Ero sola
in un’ora di quasi pomeriggio
a tentare nel vuoto un pensiero di bene.
L’amore era lontano o era in ogni cosa?

 

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

Scrittura e “quote rosa”: una mise en abîme

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di Francesca Scala

Come da diversi anni ormai, dall’8 all’11 giugno si è tenuta a Bologna la Repubblica delle Idee, il festival di Repubblica che prevede una serie di incontri con nomi più o meno noti del panorama intellettuale.

Mentre nella sala Leo de Berardinis dell’Arena del Sole, davanti alla conversazione tra Edoardo Albinati e Francesco Piccolo sul mestiere della scrittura, qualche mente illuminata si domandava “Possibile che non abbiano trovato una donna da inserire nel panel?”, in sala Thierry Salmon, un pubblico costituito esclusivamente da donne assisteva a un dialogo (tra donne sole), che avrebbe dovuto vertere sul cinema riscritto dalle donne.

Le intervenute erano, guarda caso, tre sceneggiatrici di non poco peso e di non poca esperienza. Un’esperienza di sceneggiatura di oltre trent’anni nel caso di Francesca Marciano; un’esperienza declinata in ambito letterario e visuale (sia accademico, sia cinematografico) nel caso di Ippolita Di Majo e un’esperienza passata attraverso la recitazione e la sceneggiatura, per arrivare fin quasi alla regia (con molte incursioni, niente affatto sporadiche, nella scrittura letteraria “pura”) nel caso di Francesca D’Aloja.

Dunque almeno una donna c’era da inserire in quell’infelice “manel” per trasformarlo in panel. E sarebbe stato interessante sentire che cosa avevano da dire sulla scrittura (e basta) quelle tre professioniste. Purtroppo però qualcuno o qualcosa le aveva relegate nel recinto di una scrittura di donne, che nella percezione comune confina pericolosamente con la scrittura femminile intesa nel senso di “genere rosa”.

E così, anziché di scrittura o riscrittura cinematografica, le tre ospiti illustri hanno parlato giocoforza di “quote rosa”: quelle quote rosa che, come ha espresso in maniera cristallina Ippolita Di Majo, sono assolutamente necessarie nel cinema per evitare che un sistema, attualmente a prevalenza maschile, si replichi (per natura) tale e quale è. Un giorno, quando le quote rosa avranno assolto al loro compito, quando avranno scalfito lo sbarramento che (non soltanto nel cinema!) garantisce agli uomini le opportunità che da secoli toglie sistematicamente alle donne, quando avranno trasformato (nel cinema e fuori del cinema) il sistema di potere in un sistema misto, ecco, a quel punto, le quote rosa potranno essere abbandonate e il sistema potrà essere lasciato libero di replicarsi in maniera naturale tale e quale è, perché allora sì che sarà un sistema giusto. Ora purtroppo c’è assoluto bisogno di un servizio d’ordine (le quote rosa appunto), un servizio d’ordine capace di “scortare” le donne in quei luoghi dai quali sono state programmaticamente escluse da sempre.

Inserire anche solo un paio delle tre scrittrici nel manel Albinati-Piccolo non soltanto sarebbe stato corretto (il no women, no panel dell’azienda Rai dovrebbe costituire un fulgido esempio da tenere presente a tutti i livelli: dall’informazione pubblica in giù, fino alle testate giornalistiche, ai festival cittadini di ogni ampiezza e risonanza o ai convegni aziendali). Non soltanto sarebbe stato interessante e istruttivo (un dialogo “promiscuo” è senz’altro più stimolante di un “maschile monologante”, per usare un’espressione di Daniela Brogi). Sarebbe stato anche utile all’instaurazione della parità di genere e ci avrebbe dimostrato che, almeno in ambito culturale alto, delle quote rosa non c’è alcun bisogno perché l’intelligenza ne fa, brillantemente, le veci.

Ferma restando infatti la specificità del punto di vista femminile, che discende da ragioni storiche ineludibili, ricomprendere sotto la voce “scrittura” e sotto l’espressione “mestiere della scrittura” esempi di scrittori e scrittrici avebbe avuto la pregevole conseguenza di far passare un messaggio sotteso eppure dirompente: esiste la scrittura, quell’attività creativa cui viene conferito un innegabile valore, ed esistono uomini e donne che la praticano: con stili diversi, certo, ma con uguale dignità artistica.

L’unico messaggio che è passato, invece, attraverso questa programmazione ghettizzante è che esistono gli scrittori (il maschile non è casuale e non è inclusivo) e poi esistono una scrittura e una questione femminile. E questo dimostra che, se persino la Repubblica delle idee concepisce idee così preconcette, le quote rosa servono, servono eccome (non soltanto nel cinema). Sono anzi l’unico valido strumento su cui contare per sperare che un giorno il nostro comune sentire possa dirsi libero dai mille cascami di una cultura che è ancora profondamente e radicalmente patriarcale.