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Divise senza corpi. Mitopoiesi di Erich von Stroheim

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di Gabriele Doria

 

 

“L’uomo sano tollera la nudità. Negli uomini e negli animali. L’uomo perverso non la tollera. L’uomo sano percepisce ogni abbigliamento come oggetto erotico. Per l’uomo sano ogni abbigliamento deve apparire spudorato […]”

Adolf Loos, Nudità

 

“You’re born naked and the rest is drag

RuPaul

I.

Ne l’Image-mouvement, parlando del naturalismo nel cinema, Deleuze spiega che esso “non si contrappone al realismo, ma ne accentua i tratti prolungandoli in un surrealismo particolare”, quello del mondo originario, che “si definisce in virtù di un inizio radicale, una fine assoluta, una linea di massima pendenza”.  Il mondo originario è ciò che ribolle sotto tutti gli ambienti.

L’immagine naturalista per Deleuze, l’immagine-pulsione, si compone di simboli e feticci, pulsioni e frammenti, pezzi strappati ad un ambiente reale che ne rivelano tutta la violenza e la crudeltà, il fondo terribile. L’oggetto della pulsione è sempre l’oggetto parziale, il frammento strappato, il feticcio: “quarto di carne, pezzo crudo, rifiuto, mutandine, scarpa”. La pulsione lacera, disarticola, e la perversione è la sua derivazione, la sua espressione nell’ambiente derivato.  Non si tratta tanto delle qualità intrinseche della conquista possibile, perché la più grande gioia è “nella potenza di scelta, nel desiderio di cambiare ambiente per esaurirlo”, per quanto ripugnante, disgustoso possa essere. E’ un rapporto costante predatore-preda.

Nel cinema naturalista, ad esempio, il falso ricco penetra nell’ambiente povero per catturarvi le sue prede (in Bunuel, e più tardi in Losey, si considera invece il fenomeno inverso, forse più terrificante, “più prossimo alla iena che sa attendere”, del servo che penetra nell’ambiente ricco) ma “poveri o ricchi, le pulsioni hanno lo stesso destino: fare a pezzi, accumulare rifiuti, costituire il grande campo d’immondizie e riunire il tutto in una grande, generalizzata pulsione di morte.”

II.

E’ nella veste impeccabile del militare, sciabola tra le gambe, mani guantate sull’elsa , che appare in Blind Husbands (1919) il “tenente” von Steuben (cito dalla didascalia che lo presenta: “un millantatore che usa l’uniforme da ufficiale per compiere più facilmente le sue furfanterie”) interpretato dallo stesso von Stroheim. Nella sequenza iniziale è già mostrato tutto l’impianto su cui poggerà la trama, attraverso i movimenti della macchina da presa nel ristretto spazio diegetico della diligenza che porta i nuovi ospiti alla pensione. Siamo al confine italiano-austriaco, Monte Cristallo, Cortina. I tre personaggi mostrati alternativamente sono il dottor Armstrong, impassibile lettore di giornale, la signora Armstrong, che giocherella civettuola col velo del suo cappellino, e per l’appunto von Steuben. Il militare è fin da subito impegnato in un’esibizione sia per la dirimpettaia che per gli occhi dello spettatore. Quando la signora Armstrong decide infine di togliere il velo, scoprendo gli occhi e il viso che il militare stava da tempo cercando di decifrare,  inizia il gioco di malizia e seduzione tra questi due compagni di perversioni. In tutto ciò il signor Armstrong viene definitivamente relegato nel terreno amorfo dell’irrilevanza, neghittoso in ogni occasione almeno fino a che il desiderio, sotto forma di gelosia, lo spinge a riaffermare i suoi diritti, e lo condurrà su un inaccessibile pinnacolo dolomitico insieme al suo rivale, col segreto intento di ucciderlo. Quando scoprirà che infedeltà non vi era stata, “se non nella volontà perversa dello spettatore di crederci”, sarà troppo tardi. Steuben, come tutti i personaggi di Stroheim, va incontro al suo disfacimento, al proprio personale precipizio.

L’invincibile fascino per la divisa, per il portamento aristocratico e militare, allarga il campo a una questione fondamentale nel cinema di von Stroheim: il feticismo della veste. Come scrive Cappabianca, Stroheim non indossa la divisa, “vi sembra nato dentro, intrattenendo con essa quei rapporti di perfetta familiarità e di aderenza plastica, che gli altri non riescono a stabilire neppure col proprio corpo.”

Ancora: abbigliarsi seguendo pedissequamente le regole, offrirsi con la massima rigidità al reticolo delle convenzioni prefissate, significa offrirsi alla gioia narcisistica di un esibizionismo puro, un modo di essere completamente nudo in scena. Il von Steuben/von Stroheim accuratamente incartato, che assale l’inquadratura, rappresenta l’ingresso dell’Assolutamente Altro, che increspa lo schermo e instaura la dittatura del desiderio. In Baudrillard: “solo il rito è violento, solo la regola del gioco è violenta, perché pone fine al sistema del reale: questa è la vera crudeltà […] e la perversione in questo senso è crudele. […] Perverso non è ciò che trasgredisce la legge, ma ciò che sfugge alla legge per abbandonarsi alla regola”, quindi forma ritualizzata, cerimoniale.

Le codificazioni rigide dell’Impero asburgico dovevano pretendersi incrollabili quanto l’immutabile apparato che le sorreggeva e il culto della divisa non ne era espressione secondaria. Già nella nostalgia letteraria mitteleuropea, in opere come Radetzkymarsch di Joseph Roth, ma anche in un film tedesco come L’ultima risata di Murnau, in cui la rovina di un uomo inizia con la perdita del suo diritto a indossarne una, sia pure da portiere, la divisa rappresenta quel baluardo di ordine e armonia in contrapposizione ai presagi della finis Austriae, emblema di un universo familiare, centrato sui propri rassicuranti cardini, ma anche proiezione semi-conscia di un’identità basata sul vuoto, lavorio immaginativo di un io lacerato.

(E’, non a caso, Robert Musil a parlare della condizione di quelle mosche rimaste intrappolate in quella materia “vischiosa, tossica e gialla” della carta moschicida Tangle-Foot, le quali, inseguendo in volo rassicuranti principi di stabilità e regolarità hanno finito in realtà per negare se stesse e quella vita che volevano rappresentare e col vedere svanire per sempre ogni possibilità di riprendere il volo.)

III.

Il fantasma della vecchia Europa  da bancarotta metafisica che cerca di infiltrarsi nella serenità coniugale della coppia americana, è un portato di quella più grande invasione europea nella Hollywood degli anni trenta ( David Robinson parlerà ironicamente di Ernst Lubitsch come dell’ invasore straniero coronato dal successo più duraturo).

In un clima affamato di cliché europei, registi come Max Ophuls o Ernst Lubitsch dovranno ricreare nostalgie patrie sotto forma di cartoline, misura di un duplice straniamento,  Polibio dalla parte dei vincitori (inquietudine espressa molto più tardi da un altro esule della diaspora, Billy Wilder:  “ We wondered where we should go now that the war was over. None of us – I mean the émigrés – really knew where we stood. Should we go home? Where was home?”)

Tra produttori affamati di immagini di “un’Europa impastata di differenze di classe e fantasie romantiche”, il punto di riferimento privilegiato diviene Vienna, segno e simbolo  al pari solo di Parigi. Vienna come “città dei paradossi” (Musil), delle lotte di classe da operetta, in cui padroni e straccioni si trovano fianco a fianco a ubriacarsi nelle stesse bettole, accomunati dall’avversione verso il borghese emergente dal suolo sfaldato dell’impero durante gli ultimi giorni dell’umanità.

Von Stroheim va oltre, e non solo col tempo pretenderà di ricostruire in scala 1:1 intere porzioni di questi sogni esotici da cartolina (in Foolish Wives, del 1921, ricostruirà la piazza centrale di Montecarlo) ma a uso e consumo del meccanismo produttivo Hollywoodiano si costruisce l’immagine dell’aristocratico decaduto e decadente, austro-ungarico, (raddoppiando quindi i connotati di messa in scena e recitazione) corrispondente a quel forsennato ideale di perfezione che esibiva sulla scena, lui figlio di un modesto cappellaio immigrato ( il  “von” di Erich von Stroheim è auto-attribuito, come von Sternberg, e von Trier ). Stroheim sarà quindi corpo-divisa realizzato nella vita reale, archetipo in vita rimodellato dall’industria, muovendosi all’interno della quale riuscirà a far coincidere ogni gesto ogni parola alla maschera che non toglie mai (quella da cui il vero dandy secondo Barbey D’Aurevilly beve il proprio sangue che cola, rimanendo mascherato) per poter arrivare a spendere il proprio mito come moneta sonante. Da quel momento, sarà Erich von Stroheim per sempre, nelle memorabili parti tagliate su di lui (e non potrebbe essere altrimenti)  da Renoir ne La grande illusion (1937), e da Wilder in Sunset Boulevard (1949), così come nella parte che sceglierà per sé stesso, interpretata fuori da un film, sul set di Greed (1924), quando da regista orienta il costo (inteso come valore monetizzabile, e quindi reclamizzato) verso gli abissi dello spreco, ovvero tutto ciò che non può avere un immediato impatto col pubblico e quindi, per l’industria, irrecuperabile.

IV.

In Foolish Wives (1921) questa volta l’antagonista è il falso conte Karamzin, avventuriero, spacciatore di denaro falso e seduttore senza scrupoli, che si accompagna alle false principesse Olga e Vera. Colei che questa volta cercherà di irretire nelle sue trame è la moglie dell’ambasciatore americano Hughes.  Karamzim è fisso, stretto nella divisa attillata, “sigaretta che appartiene alla sua bocca non meno di quanto il monocolo appartenga al suo occhio”, si tura il naso per proteggersi dagli odori dell’esterno, si muove con precisione millimetrica.

Non sapessimo dell’appartenenza di Stroheim all’area della Mitteleuropa, basterebbe la forza con cui si impone fin dal primo film il nodo del rapporto Servo-Padrone. La smorfia di disgusto dell’elegantissimo damerino trascolora in desiderio oscuro, che lo attira nelle delizie “del basso”, “degli inferiori”. L’oscura disponibilità alla degradazione spingerà il Karamzin di Foolish Wives verso una domestica e una ragazza ritardata, ed è una pulsione di morte. Archiviato il tentativo di seduzione della ricca donna americana, mentre la città dorme e il suo volto acuminato super-carezzato dalla macchina da presa è irretito da un fumo espressionista sotto la luce spiovente del lampione (Stroheim usa l’espressionismo come Bunuel il surrealismo: se ne serve, ma per finalità del tutto diverse, quelle di un naturalismo onnipotente), la maschera di cera von Stroheim, tra poco maschera mortuaria, si lascia a sua volta sedurre dal basso istinto. Sorpreso nella camera della giovane catatonica dal padre di lei, sarà fatto a pezzi e chiuso in un sacco, gettato nelle fogne attraverso un tombino. Parallelamente alla rovina di Karamzim, avviene quella delle due complici, che finiscono arrestate dalla polizia. Privata della parrucca bionda da principessa russa, Olga, come del resto Vera, non si rammarica poi troppo: “impersonava quella parte da tanto tempo, che aveva finito per crederci anche lei.” Confessione che d’altra parte potrebbe essere di Stroheim stesso.

V.

Karamzim è uno straniero, dice di essere nobile, ha portamento militare, viene da un paese lontano (la Russia) nel paese del gioco (Montecarlo); Stroheim è uno straniero, dice di essere nobile, ha portamento militare, viene da un paese lontano (l’Austria) nel paese d’un altro gioco (Hollywood). L’equazione lampante tra personaggio e autore non è meno evidente tra Montecarlo e Hollywood: entrambe sono piene di perdenti, rovinati al gioco, che hanno voluto nonostante tutto giocare, entrambe sono piene di divise senza corpi, al di qua o al di là della castrazione che le attende. Inquietante e rivelatore, come notato da Cappabianca, è il personaggio impassibile dell’ufficiale in mantellina nera, in Foolish Wives. Lo troviamo all’inizio impettito e quasi alieno all’ambiente circostante, quando non raccoglie il libro appena caduto a Madame Hughes (Karamzin, in agguato, ne approfitterà subito per farsi notare con la sua galanteria da rettile). Successivamente, all’interno di un ascensore, ritroviamo Mme Hughes e l’ufficiale. A lei cade la borsetta, l’uomo resta nuovamente impassibile, e accade la sconcertante scoperta: quella che si credeva sprezzante alterigia è invece mancanza, assenza: l’ufficiale è senza braccia. La divisa nasconde un vuoto, “la forma ha divorato il corpo che avrebbe dovuto vestire”. Il “fantasma del corpo senza braccia”, scrive Cappabianca, senza braccia per dirigere, è quello che attenderà Stroheim alla fine della sua parabola.

La nostalgia per l’intero si fa col tempo manifesto di un’opera programmaticamente incompiuta, col colosso rinnegato Greed (1924) che diventa massimo monumento alla depense, del piacere perverso di lavorare in pura perdita, della minuzia spettacolare, mettendo su il set più inaudito e singolare mai realizzato per un film e gettando le basi perché questo sforzo enorme, inutile e controproducente, non sia visto da nessuno (progenitore del Kubrick di Barry Lyndon, che pretese i costumi di scena comprendessero anche indumenti intimi del Settecento). Le 42 bobine iniziali di Greed (circa sette ore di titanica durata) furono ridotte dai produttori, tagliando interi personaggi ed episodi, fino a 10 bobine (108 minuti). All’uscita, il film fu un fiasco.

La tendenza al gigantismo, il rovello del set che porta alla ricostruzione completa negli studios della Place Centrale di Montecarlo, del Casino, del Café de Paris, con interni dotati di soffitti (pratica avulsa dal contesto della scenotecnica dell’epoca, ripresa più tardi da Orson Welles) questo delirio di raddoppiamento della realtà, come per il Caden Cotard di Synecdoche New York, porterebbe al sospetto di un inconscio antagonismo, di un adoperarsi per precipitare. Per Cappabianca, si tratta del “privilegio accordato all’hic et nunc del cinema, al momento primigenio e irripetibile” che deve fare i conti con la sua riproducibilità tecnica, la sua maledizione e perdita di realtà (essendo il cinema, nelle parole di Carmelo Bene, “quanto è già abortito, un oltraggio all’attimo presente”, nient’altro che la natura morta del set) e quindi un inconscio senso di colpa verso il materiale girato e la pellicola impressionata, “tale da provocare, come coazione a ripetere, gli infortuni e le mutilazioni inferte ai film dopo le riprese.”

Allora ci si accanisce contro la “fine” tradizionale del film, perché mostrare la verità è mostrare quel di più che segue il tradizionale finale: quando si scruta l’uomo, lo si abbraccia tutto, ostinatamente ribellandosi al divenire familiare del rimosso, che diverrebbe un ex-non mostrabile riassorbito dal senso generale, ormai svilito. “Come ogni pratica artistica anche quella di Stroheim sarebbe quindi una pratica di nominazione del nulla.”

Barthélemy Amengual legge tutta la parabola di Stroheim alla luce di un divorante senso di colpa. Dalla rimozione conscia dell’infanzia e dell’adolescenza povere, fonti di possibili umiliazioni, nascerebbe un meccanismo di auto-punizione, una pervicace insistenza nel ripetere gli stessi errori, per andare incontro alle stesse fatali conseguenze.

I biografi scopriranno la verità sulle sue origini solo dopo la sua morte.

 

 

Coda

In Sunset Boulevard (1949), di Billy Wilder, Stroheim si trova interpretare una parte singolarmente crudele: se stesso. “Max von Mayerling” è un ex-regista, al servizio di una ex-diva dei tempi del muto (Gloria Swanson, realmente diva del muto e per di più diretta da Stroheim nell’incompiuto Queen Kelly) che riceve false lettere da ammiratori immaginari, scritte in realtà dal proprio maggiordomo nel tentativo di non farla impazzire di solitudine. L’idea delle lettere, confessò Wilder, fu di Stroheim.

A concludere una parabola di somma derisione, all’ex-regista verrà infine concessa dal connazionale l’agognata occasione di tornare a dirigere per un’ultima volta, nella finzione, ma sarà “un film-fantasma da girare per un attimo, lungo una scala, prima che il buio inghiotta definitivamente la vecchia star, il set, Stroheim e, forse, il cinema.” (Cappabianca)

Insegnare alle macchine la noia dell’umanità. La svolta dell’intelligenza artificiale dal machine learning a ChatGPT.

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di Nicola Ludwig (*)

 

“Dobbiamo mettere in pausa l’avanzata dell’intelligenza artificiale”, sostengono in una lettera aperta pubblicata martedì 28 marzo oltre mille esperti e ricercatori del settore, tra cui Elon Musk, amministratore delegato di Tesla. La richiesta dell’appello promosso dal Future of life institute (1) è di sospendere per sei mesi la ricerca sui software della generazione successiva a GPT-4, il software conversazionale lanciato a metà marzo dalla società californiana OpenAI. Il codice di intelligenza artificiale noto come ChatGPT è talmente addestrato alla lettura e al riconoscimento di strutture ripetitive del linguaggio umano da essere in grado di sostenere una conversazione con umani in modo totalmente mimetico: l’utente, non a sua volta addestrato, non è cioè in grado di riconoscere nell’interlocutore una macchina o un altro umano.

La moratoria dovrebbe essere utilizzata per sviluppare sistemi di controllo del software, ritenuto “pericoloso per l’umanità” o meglio secondo il principio di Asilomar redatto già nel 2017 “i sistemi di IA avanzati possono rappresentare un profondo cambiamento nella storia della vita sulla Terra e dovrebbero essere monitorati e gestiti con appropriate cura e risorse” (2).

 

Gli ultimi mesi hanno infatti visto i laboratori di intelligenza artificiale richiusi su se stessi in una corsa incontrollata per sviluppare e implementare sistemi di IA sempre più potenti, scoprendo strada facendo che nessuno – nemmeno i programmatori stessi – può comprendere, prevedere o controllare in modo affidabile cosa essi siano in grado di fare. Uno degli aspetti più inquietanti, peraltro non imprevisto ma cercato per motivi di ottimizzazione del tempo dei programmatori, è la capacità dei software di scrivere autonomamente parti di codice, cioè di se stessi e quindi in ultima analisi di replicarsi e autogenerarsi, creando, almeno secondo alcune teorie, le basi per una nuova forma di vita virtuale. Il cosiddetto machine learning, cioè l’uso di macchine in grado di imparare dall’esperienza e  quindi in grado di modificare il proprio comportamento è passato in pochi anni dall’apprendimento in ambito robotico a quello linguistico-conversazionale.

Ciò che più ha colpito l’opinione pubblica, sicuramente più attenta al tema della sostituzione tecnologia nel lavoro che allo sbocciare di nuove forme di vita, è tuttavia la perizia con la quale i nuovi algoritmi riescono a usare il linguaggio umano per intrattenerci, forse per ingannarci, probabilmente per superarci. Perizia che dimostra, da un lato, l’immensa potenza raggiunta dai sistemi basati sull’accesso al cloud, la banca dati virtualmente infinita della conoscenza umana in rete, dall’altro il fatto che i linguaggi umani non sono poi così inaccessibili a sistemi basati su connessioni elettroniche invece che sulle sinapsi cerebrali.

A questo proposito sono numerose le testimonianze, le più riferite alla capacità di ChatGPT di scrivere tesi o temi scolastici assolutamente indistinguibili da un compito di medio valore, privi di errori tanto quanto di originalità. Tutte riconducono al nocciolo del funzionamento del codice: costruire testi a partire da un patrimonio quasi infinito di esempi linguistici, letterari, saggistici o in generale attingendo al vasto patrimonio di testi messo in rete negli ultimi 20 anni, dall’inizio dell’era dell’internet di massa. Una funzione che in parte ricalca proprio il metodo con il quale gran parte dell’umanità, o perlomeno parte cospicua dei media, comunica in forma scritta: copiando. Curiosamente i limiti attuali dei codici di IA sembrano essere proprio nel ragionamento astratto e nella capacità di risolvere problemi matematici, le cui soluzioni non sono evidentemente reperibili in rete. Fra le più spassose e forse volutamente scherzose testimonianze, visto il coinvolgimento di Microsoft nella start up californiana, c’è quella pubblicata da Bill Gates sul GatesNotes lo scorso 21 marzo (3). In essa il fondatore di Microsoft riferisce che una IA richiesta di programmare le tappe di un viaggio può inventare hotel inesistenti o proporre quelli già al completo. Non distingue cioè il contesto della richiesta: la differenza fra un viaggio pensato e uno da programmare realmente. Secondo la CNN, Gates, inizialmente fra i promotori della lettera avrebbe in seguito ritirato il proprio appoggio.

Su un piano meno faceto i firmatari rilevano il pericolo che i nuovi sistemi di IA diventino in un futuro imminente competitivi con l’attività umana nello svolgere compiti generali con il risultato di inondare la società di informazioni non verificate o puramente propagandistiche nonché di rendere automatizzati molti lavori intellettuali, considerati creativi o comunque non tediosi. Il rischio sarebbe quello di sviluppare menti non-umane in grado in via definitiva di superarci, renderci inefficaci, obsoleti e infine sostituirci. Fino a lanciare il drammatico grido “possiamo rischiare di perdere il controllo della nostra civiltà?” e soprattutto invitare lopinione pubblica a riflettere sul fatto che decisioni in merito allo sviluppo di queste IA  possono essere delegate a personalità non elette democraticamente.

Questo articolo nell’esperienza del suo autore umano avrebbe potuto essere scritto da ChatGPT utilizzando circa un decimillesimo del tempo, ma sarebbe stato nettamente più prolisso, noioso e avrebbe potuto inserire notizie del tutto non verificate.

(*) Professore di Fisica applicata presso l’Università statale di Milano

Berlino

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di Alberto Comparini

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7.

nel foglietto illustrativo le istruzioni per l’uso

scandiscono in liturgie e formule chimiche

il confine biologico tra la vita e la morte

assomiglia in fin dei conti a questo gesto

svegliarsi ingoiare delle pastiglie in bagno

lasciare nello specchio prima di ogni pasto

un segno di decenza vomitare e apprendere

tra le gocce di sangue il conto alla rovescia

 

7.1.

il superstite soffre di superstizione

lascia attraversare la strada ai gatti

neri non mette il cappello sul letto

dispone in fila le sedie degli ospiti

 

7.2.

il superstite ha il dono della presenza

può testimoniare il vero e il falso non

ha vincoli morali è vivo per miracolo

il superstite ha assistito alla sua storia

 

7.3.

il superstite vuole essere un sopravvissuto

fanno a gara a chi ha vissuto di più la morte

è un atteggiamento compulsivo dei corpi

sopravvivere è un lusso riservato a pochi

 

7.4.

il superstite ha una seconda vista ci vede

doppio forse è solo strabico il superstite

non è convinto alza la voce è arrabbiato

all’oculista grida di conoscere il passato

 

7.5.

il superstite è veggente non ha assistito ai fenomeni

preferisce guardare il basket è un lavoro più stabile

nessuno gli vuole credere quando prevede i risultati

degli esami potrà smetterla di sopravvivere ai morti

 

7.6.

il superstite non si riconosce più nel presente

ascolta dei superstiti agli incontri settimanali

capisce di non capire più niente dei superstiti

cosa rimane dopo la chemio sono tutti uguali

 

7.7.

il superstite diventa il testimone di un superstite

alla fine la famiglia gli ha fatto pure causa dove

sei finito figlio fratello ma quando diventi marito

vogliamo un nipote smettila di fare il testimone

 

7.8.

il superstite sopravvive nel futuro anteriore

le nostre parole sono già compiute e incerte

è come nel paradosso di Schrödinger siamo

vivi e morti aspettiamo di superare la notte

 

7.9.

il superstite non si sveglia alle sei del mattino

si rivela nella finestra una copia del tuo corpo

siete identici la prospettiva è inversa resistete

in silenzio al pronto intervento dei paramedici

*

Immagine di Laszlo Moholy-Nagy (Berlin-Weimar, 1925). Fondo RMN.

Gente che chiacchiera, che mormora, che cincischia: una lettura di “Ridondanze”

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di Giuseppe A. Samonà

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Mentre leggevo Ridondanze (anzi, / ri.don.dànze /, Exòrma, 2022), strampalata – a prima vista – raccolta di storie romane, o meglio testaccine,  composte da Paolo Morelli, mi è tornata in mente la mia polverosa insegnante di greco del ginnasio (ahimè, agli antipodi dei rari insegnanti, che poi ci sono stati, capaci di incendiare d’amore i ragazzi per questa splendida lingua), la quale, al chiacchiericcio mormorato ma continuo che opponevamo alla rigida noia che lei cercava di instaurare, esplodeva con il mantra: cosa? cosa? gente che chiacchiera, che mormora, che cincischia…. Ecco, Morelli chiacchiera, anzi, strachiacchiera, stracincischia, e in generale stra-perde-tempo: è un fiume in piena, ma appunto sommesso, come se mormorasse al vento. La letteratura, molto spesso (non sempre) racconta storie e ogni tanto, nel raccontare, divaga, ma in questo libro è la divagazione a regnare sovrana, è il centro della narrazione, e sembra essere la vera direttrice del tutto.

Spesso parlando dei suoi libri (e anche di questo) si è chiamato in causa Manganelli (di cui ricorreva nel 2022 il centenario della nascita, e ancora non si è spento l’eco delle commemorazioni, arte in cui la necrofila critica italiana eccelle) o Celati (morto anche lui, proprio nel 2022, e il delizioso In viaggio con Gianni, Celati, Tic 2021, appunto di P. Morelli, ne è stato una sorta di profetica, anticipatrice – rieccola… – commemorazione), o ancora Malerba. E cominciando il libro si potrebbe anche essere tentati di scomodare il Moravia un po’ bozzettistico dei Racconti romani, o ancora il Benni di Bar sport, che il bozzettismo lo immerge in una surreale comicità; un po’ più avanti nella lettura, e per certi versi all’opposto, si penserà magari a Campanile o a Ionesco, per l’uso devastante che fanno della surrealtà (per altro ben più profondo di quello di Benni).

Questi possibili punti di riferimento però sono come scontati, persino banali: Morelli infatti non li imita, neanche li cerca, anche se certo li conosce, e (almeno i primi sunnominati) li ha senz’altro assunti e digeriti, disciolti nella sua prosa – che non in essi tuttavia trova la chiave della propria originalità. Così, mentre avanzavo nella lettura, è un altro lo scrittore che mi si è delineato all’orizzonte, il più grande di tutti e, mi verrebbe da dire, il Maestro dello straparlare e del divagare: Miguel de Cervantes. Intendiamoci, non è che voglia paragonare Morelli al genio spagnolo (e universale), del resto è probabile che lo stesso Morelli non lo abbia neanche pensato come esplicito punto di riferimento (ma forse sì, mi piacerebbe chiederglielo); voglio semplicemente dire  che mentre mi perdevo nelle pagine di / ri.don.dànze /, inizialmente anche esasperandomi per questo filo che perdevo e ritrovavo in continuazione, mi è tornata in mente la lunga, dapprima faticosa, poi appassionante, insostituibile lettura del Qujote. E di più: quando mi è venuta in mente mi sono reso conto che mi si era già affacciata dentro – ma come un’ombra, come quelle associazioni che non riusciamo a compiere sino in fondo, e restano allo stato larvale – leggendo più o meno un anno prima Il cielo per Roma (2021), di Mariano Bàino, sempre edito da Exorma.

Ora questi due libri sono diversissimi, e mai sarei stato probabilmente tentato di confrontarli: il primo (Bàino) è infatti aereo, come fantascientifico, letteralmente intergalattico, in quanto capace di viaggiare attraverso le epoche, e garbatamente ma intensamente dotto; il secondo (Morelli) è terrestre, avvitato al suo spazio, e ancor di più al suo (mitico) tempo, ai suoi riferimenti ristretti, rionali, anche se dottissimo anche lui, pur se in modo molto più nascosto, e ironico. Ma ecco: per poterli seguire veramente, l’uno come l’altro, si deve accettare di perdercisi dentro. Voglio dire: ci sono libri, la maggior parte di quelli che si impongono oggi nel mercato, in cui il filo, l’incastro dei dettagli, quel che vi si racconta, sorprese incluse, sono programmati secondo schemi precisi, il lettore deve solo restare concentrato, per navigare tranquillo (tranquillo anche nelle sorprese), e per carità! evitare di perdere colpi, battute,  altrimenti non capirà più nulla: se però giustamente resta attento, il risultato è garantito. Altri libri, appunto come quelli di Bàino e Morelli, richiedono invece pazienza, rilassatezza più che concentrazione, anzi la concentrazione (ansiosa), l’attenzione ossessiva al dettaglio, al filo, l’intreccio, porta il lettore inevitabilmente alla resa. Fanno parte insomma di quella categoria di libri che più che meticolosità logica richiedono abbandono, persino distrazione, e un consapevole, paziente atteggiamento di lasciar venire. (Immagine: andare a vedere un film di Tarantino, aspettandosi Antonioni o Bergman, o anche – il che è forse peggio – viceversa…).  Per l’appunto (ed ecco il collegamento): pazienza, abbandono, gusto per la distrazione etc. sono i requisiti indispensabili – nella mia esperienza – per gustare a fondo il capolavoro dello scrittore spagnolo, che a sua volta sviluppa ulteriormente queste disposizioni, insegnando in un certo senso ad esercitarle nella vita, è leggendo il Qujote che mi ci sono per la prima volta consapevolmente confrontato.

Dice (di nuovo la mia professoressa di greco): dice? dice? ma che dice? gente che chiacchiera… (io), etc… È vero, sto straparlando, sto divagando anch’io – ma lo faccio per scelta, nel senso che un po’ di straparlìo divagante è il modo migliore per avvicinarlo, questo libro, prima di dire cosa concretamente racconti. In due parole, si tratta di una dozzina di storie, dodici variazioni (più una premessa e un’appendice), tutte ambientate nel “rione”, cioè il Testaccio, e tutte rocambolesche: tre amici, appunto testaccini, fanno un incidente di macchina sulla strada del ritorno, da cui segue un’improbabile gita sulle montagne della Maiella per vedere in una cappella  gli affreschi di un improbabile pittore che rappresentano il Ciclo delle quattro notti (e ogni personaggio, ogni cosa, ogni Notte, entra in una nuova scatola, con un meccanismo alle Mille e una notte, dove le storie sembrano non aver quasi nulla a che fare l’una con l’altra, invece…); uno  sconvoltone (la droga…) esce ogni giorno dal rione in bicicletta e passa sempre alla stessa ora di fronte a un antico monumento dove centinaia di turisti scattano sempre la stessa foto e lui ci si ritrova dentro sino a diventare, come il monumento, eterno; due nemici-amici, fortunato l’uno, sfortunato l’altro, vittorioso e sconfitto, riuscito e fallito (dove la riuscita è, alla Cossery, fare un lavoro che permetta di non lavorare, elevando la scioperataggine a virtù civile), mettono retoricamente le loro vite a confronto; sempre al rione si confrontano i destini paralleli degli artisti e dei topi, che prima erano grassi e pochi (e morti di fame, perché la fame paradossalmente li ingrossa, gli artisti e i topi) adesso molto più numerosi ma rimpiccioliti; il redattore di una rivista di viaggi trova la formula per narrare e difendere dall’assalto delle folle i posti belli ancora da scoprire (il dilemma: solo il silenzio protegge la bellezza, ma la bellezza scoperta dà voglia di parlare, soprattutto al Testaccio, dove nessuno viaggia ma sono tutti gran chiacchieroni – appunto… Ma è ancora possibile viaggiare? Esistono ancora i posti belli? Ecco, sto divagando…) – e segue il suo racconto… etc. O forse si dovrebbe meglio dire: non storie testaccine, ma variazioni dello stesso Testaccio, sinfonia della sua essenza. Di tempo e appunto di musica più che di spazio: di fatto  chi cercasse nel libro di Morelli (ed ecco un altro punto di contatto con quello, pur diversissimo, di Bàino) tracce concrete del Testaccio, e di Roma, vie, piazze, monumenti, descrizioni, rimarrebbe molto deluso. Il Testaccio di Morelli è un’utopia, è un luogo che non esiste, o se vogliamo una realtà derealizzata, fatta di sogni, di ricordi, di speranze, di pura immaginazione anche, di suoni – come la lingua che si avvita in alcune ruggenti cadenze romanesche, verosimili più che vere, opera di fina letteratura più che di riproduzione vernacolare (viene ovviamente da pensare al romanesco di Gadda), o ancor più semplicemente come i nomi dei personaggi, Pocaluce, Volume, Battiscopa, Merdara Rognoso, Ritorti, Sarchioni, Ruggero Maglione… Non sarà inutile, in tal senso, notare che il libro di Morelli come quello di Bàino non solo sono editi dalla stessa casa editrice, ma anche appartengono alla stessa collana: quisiscrivemale (questo è il suo nome!), che antifrasticamente evoca una letteratura libera dai generi omologati e lisci – quelli che dominano il mercato, insomma, anche grazie alla loro facile fruibilità – ma ossessivamente attenta alle parole, allo stile.

Dice (di nuovo lei, l’insegnante, che avrebbe probabilmente fulminato Morelli): gente che parla, gente che ripete. Ma senza ripetizione (e diciamolo, ossessività) non c’è arte. Così, la chiacchiera, il ritornare sugli stessi incatenamenti variandoli all’infinito – e in questo senso straparlano i personaggi non meno del loro autore – dirige il libro e lo fa rigurgitare di parole, come un fiume in piena, un delirio febbricitante, come quando qualcuno ti attacca un implacabile bottone che non la finisce più – ma a un certo punto (lo dicevo, occorre pazienza), ci si accorge che quella febbre ha un senso, e il fiume in piena comincia a scorrere maestoso, persino educato, calmo. Le storie si sciolgono l’una nell’altra, alcuni personaggi (la ripetizione) riaffiorano qua e là, forse è un romanzo? no, piuttosto un ipnotizzante esercizio zen – per questo occorre non cercare di afferrarsi a un ramo, a un dettaglio, ma semplicemente lasciarsi trasportare  – che finalmente, come se di colpo si alzasse la nebbia, fa emergere nitidi i contorni, il senso di tanto raccontare. Sì, c’è un mondo, fatto di cose, di gesta, di emozioni, ma noi in realtà non lo vediamo, ne vediamo solo la crosta, la sua vera vita si dispiega al di là di quella: il (rac)contatore  ci permette appunto di coglierla.

Gli antichi Greci esaltavano, in alternativa alla logica della visione/immagine, quella dell’audizione/parola, che dava accesso al misterioso universo del mondo-tempo: non a caso il cantore che trasportava il pubblico era antonomasticamente cieco – le orecchie vedono, non gli occhi. Ecco, è in questo senso profondo che Morelli mescola l’Oriente lontano con l’antica tradizione epica Occidentale,  in cui l’immaginazione e il raccontare sono più importanti dei fatti raccontati, anzi questi fatti, ora glorie e trionfi ora disgrazie, sono distribuiti dagli dèi agli uomini affiché altri uomini futuri possano svelarle nel canto, e solo in questo canto, o racconto, acquistano finalmente senso. Insomma (se esiste, è questa la morale del libro) raccontare è tutto, raccontare e divagare (perché non si può raccontare senza divagare), a resuscitare tramite la parola mondi, gratuitamente, dando fondo all’immaginazione, ridendo e danzando, appunto, ridon-dan(zan)do: per diventare liberi. Cioè per conquistare pienamente la propria umanità.

Un 25 aprile indimenticabile

1

Il coro Inni e canti di lotta della Scuola popolare di musica di Testaccio canta Bella ciao a Porta San Paolo. È accaduto a Roma in un giorno di sole. Un 25 aprile indimenticabile.

Epurazione

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di Italo Calvino

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Aggrappati ai parafanghi degli ultimi camions tedeschi, hanno fatto perdere le loro tracce alcuni dei professionisti del recentissimo terrore neo; sperano forse, trasferendosi in zone sconosciute, di sfuggire all’immancabile giustizia.
Altri ci hanno succeduto nei nascondigli e nelle tane: rimedio provvisorio anche quello, poiché le speranze che sostenevano noi, mancano del tutto a loro. Altri infine hanno già pagato il fio delle loro colpe e – riguardo ad essi – la partita è chiusa.
Resta, del vasto, troppo vasto meccanismo fascista di ieri, la massa amorfa di quelli che non sono scappati né si sono nascosti, oppure, nascostisi i primi giorni, visto che “tutto era calmo” sono tornati fuori. E’ la massa di quelli che “non hanno fatto niente di male”, di quelli che “se no morivano di fame”, di quelli che “prima c’erano ma poi quand’hanno visto, ecc…” , di quelli che c’erano ma hanno sempre aiutato i patrioti” e così via. E, in mezzo a loro, un notevole aumento di ex-squadristi, ex-spie, ex-tedescofili, ex-spettatori dell’arma nuova che passeggiano indisturbati e magari, nei giorni festivi, coprono le slabbrature fatte all’occhiello dal distintivo con una coccardina o un garofanetto.
Passeggiassero soltanto, non rappresenterebbero che una visione sgradevole ai nostri occhi, una ittitazione al nostro sistema nervoso, Il guaio è che non hanno ancora abbandonato le cariche e i posti che ricoprivano, su nomina e per meriti fascisti.
E l’epurazione?
L’epurazione, ci si risponde, è cosa difficile, delicata e, per necessità, lenta. Non si precipitino le cose: prima o poi tutti i nodi verranno al pettine.
Interpretando il sentimento delle masse popolari il P.C.I. ritiene indispensabile per il bene del paese che l’epurazione sia fatta COMPLETAMENTE e SUBITO.
COMPLETAMENTE perché non possiamo, nell’immane lavoro di ricostruzione morale e materiale che ci attende trascinarci dietro pesi morti e ostili che continuerebbero ai nostri danni un sabotaggio attivo o passivo di cui già in certi ambienti locali abbiamo cominciato a subodorare l’esistenza. Fatti come lo scandalo della fuga di Roatta da Roma nel febbraio scorso ci dicono chiaramente come le forze reazionarie-fasciste continuino a operare nascostamente, ove non si provveda a una severa epurazione, estesa a tutte le pubbliche istituzioni. La resistenza dei residui fascisti ha fini manifestamente antinazionali: mira a gettare sull’Italia il discredito, a determinare condizioni di scontentezza, di disagio materiale e morale, tali da per mettere il risorgere di velleità imperialistico-irredentistiche e con esse il ritorno al potere di cricche fascisteggianti. Nei tafferugli avvenuti in questi giorni a Roma per la delicatissima questione triestina, vediamo ancora la quinta colonna fascista all’opera. Con manifestazioni di piazza fuor di proposito si tenta di stornare dall’Italia la stima che il mondo le tributa oggi per le vittorie dei patrioti nell’Italia settentrionale.
SUBITO va fatta l’epurazione, perché se vogliamo cominciare a ricostruire bisogna
– come disse il compagno Togliatti – “bruciare i ponti col passato”. Non possiamo riedificare che su nuove fondamenta, abbiamo bisogno di vederci attorno, in tutti i campi, un ambiente rinnovato ed entusiasta. Quello che oggi è facile, domani potrà essere difficile. Bisogna evitare che le cricche reazionarie, asserragliate nelle pubbliche istituzioni, si organizzino per la resistenza, come pattelle che si attaccano allo scoglio se non si è lesti a staccarle. Bisogna evitare che dette cricche usino della compiacenza di qualche partito dalle vedute incerte per rientrare nell’agone politico, e servano a sleali interessi conservatori per controbilanciare le forze a danno naturalmente delle aspirazioni delle classi lavoratrici.
Nelle amministrazioni provinciali e comunali coprono ancora cariche direttive persone notevolmente compromesse col passato regime che si fanno scudo d’una pretesa apolitica delle loro mansioni. Non v’è apoliticità che tenga: chi ha bazzicato fino adesso coi pezzi grossi del germanesimo o del brigantaggio nero non creda che siano cambiati solo i titolari delle ditta. Altri, – mentre egli sedeva in poltrona tranquillo e invulnerabile – piuttosto che collaborare con la oppressione hanno preferito sottoporre se stessi e le proprie famiglie a tutte le sofferenze.
Ora è giunta l’ora di quello che i fascisti chiamavano il cambio della guardia.
Anche riguardo agli organismi d’ordine pubblico si sente parlare d’apoliticità: cosa assurda in un regime che aveva tutte le sue fondamenta nella polizia. Qui non basta cambiare i dirigenti, qui c’è tutto da rifare!
Ed ancora rimangono alle cattedre di istituti scolastici insegnanti che fino all’ultimo avevano dalle stesse cattedre fatta professione della più settaria fascistofilia. Verrà a questi stessi insegnanti dato il compito di rifare una coscienza politica alla nostra disorientata gioventù?
E quegli ufficiali del più inglorioso esercito che mai si vide, quei repubblichini che fino a ieri godettero di stipendi favolosi e di una immunità senza limiti, pretenderanno di potere – come ora possono girare indisturbati – entrare domani a far parte del nuovo esercito dell’Italia libera?
Questo per le istituzioni pubbliche. Ma anche va riveduta la posizione di molti imprenditori privati che erano riusciti con intrighi politici ad ottenere monopoli locali, forniture lucrose; di molti profittatori che hanno fatto i milioni collaborando coi tedeschi e hanno negato le migliaia di lire ai partigiani.
Nè certi squadristi che si danno arie di martiri perché sono stati guardiafili, credano che i misfatti recenti abbiano fatto dimenticare gli antichi. Bisogna risalire alle cause. Chi per primo marciò, manganello alla mano, contro i diritti della classe operaia, ha le più gravi responsabilità della rovina del paese. Non è più il tempo dello idialliaco luglio ‘43 in cui ci si chiedeva se i delitti degli squadristi non erano caduti in proscrizione. Giustizia dev’esser fatta al più presto di tutti i crimini commessi 25 anni fa, come si sta facendo dei recenti.
Solo quando avremo depennato con striscie di sangue tutti i nomi delle liste nere, potremo cominciare la parte positiva del nostro cammino.
“Non pronunciamo parole d’odio, né chiediamo vendetta – ha detto Togliatti – ma soltanto giustizia per il popolo italiano. Noi chiediamo che vengano puniti i responsabili della catastrofe”.

NdR: il testo di Italo Calvino che precede è tratto dal volume “Italo Calvino, Il partigiano Santiago”, di Daniela Cassini e Sarah Clarke Loiacono (con contributi di Vittorio Detassis, Massimo Novelli e Manuela Ormea), appena pubblicato da Fusta Editore, con il sostegno dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia, I.S.R.E.C.Im.). Pubblicato su “La Nostra Lotta” (Anno I – N. 4; Sanremo, 7 maggio 1945), organo del PCI di Sanremo, diretto da Lodovico Luigi Millo (Calvino era condirettore), fino a questo momento non era stato ripubblicato nella sua interezza.

L’immagine rappresenta un messaggio fatto pervenire dallo scrittore ai genitori durante la sua clandestinità.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Questa la presentazione del libro del risvolto:

cento anni dalla nascita di Italo Calvino era doveroso
ritessere la trama intorno alla esperienza
diretta e vitale da lui vissuta nella Resistenza, che
si svolse nei suoi boschi e nel suo paesaggio e che
poi lo accompagnerà per sempre, come dimostra
l’insieme delle sue opere.
Alla lotta di Liberazione Calvino diede un contributo
originale come narratore, testimone e
interprete che lo solleva senz’altro ai vertici della
letteratura nazionale della Resistenza, con Beppe
Fenoglio, Cesare Pavese, Elio Vittorini, Primo Levi
e Luigi Meneghello.
In questo libro antologico vengono evocate le sue
parole perfette, la sua capacità di cogliere il reale
e insieme la visione, nella ricerca costante del
senso “di ciò che appare e scompare”.
Questo percorso di memoria parte dalle pubblicazioni
fondamentali sulla storia della Resistenza
nella I Zona Liguria, dai preziosi documenti originali
dell’Archivio Storico dell’Istituto Storico della
Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia,
dai fervidi giornali della Resistenza e della Liberazione
a cui Italo Calvino collaborò come giovane
giornalista, cronista e curatore della stampa
partigiana e dalla riproposizione dei suoi articoli.
Arriva in ne ai documenti unici e inediti dell’Archivio
privato Giacometti-Loiacono, che svelano
nuovi elementi di questa storia appassionata di
giovani partigiani e partigiane attraverso racconti,
poesie, lettere, appunti… e che raccontano
una ricchezza di esperienze e di vite tra il Ponente
ligure, Sanremo, il Piemonte e Torino, il mondo».
Documenti, fotogra e, scritti d’archivio, approfondimenti,
inediti a corredo dell’opera raccontano
di giovani vite, storie politiche e umane della
generazione degli anni di cili, scorci di biogra e
che parlano di impegno per la libertà e la giustizia,
per l’a ermazione di una civiltà progredita
dal punto di vista politico, sociale, economico,
culturale.

 

E qui di seguito l’introduzione del volume:

SE IN UN GIORNO D’APRILE UNO SCRITTORE

Italo Calvino: militante, testimone, interprete della Resistenza sanremese.

di Daniela Cassini e Vittorio Detassis

Non sono molti i passi del primo romanzo di Calvino in cui l’autore abbandona il consueto iter narrativo, tra picaresco e fiabesco, di Pin e dei suoi compagni di ventura per inoltrarsi in una meditata riflessione sulle motivazioni profonde, a un tempo esistenziali ed etico-politiche, della Resistenza armata. Tra questi passi il più esplicito e ragionato è là dove il commissario Kim spiega ai compagni la differenza tra loro e noi, tra fascisti e partigiani. Per concludere infine: questo, nient’altro che questo è la storia.
“Quel peso di male” dice Kim “che grava sugli uomini del Dritto, quel peso che grava su tutti noi, su me, su te, quel furore antico che è in tutti noi, e che si sfoga in spari, in nemici uccisi, è lo stesso che fa sparare i fascisti, che li porta a uccidere con la stessa speranza di purificazione, di riscatto. Ma allora c’è la storia. C’è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra. Da noi, niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo, pur uguale al loro, m’intendi? uguale al loro, va perduto, tutto servirà se non a liberare noi, a liberare i nostri figli, a costruire un’umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi. L’altra è la parte dei gesti perduti, degli inutili furori, perduti e inutili anche se vincessero, perché non fanno storia, non servono a liberare ma a ripetere e perpetuare quel furore e quell’odio, finché dopo altri venti o cento o mille anni si tornerebbe così, noi e loro, a combattere con lo stesso odio anonimo negli occhi e pur sempre, forse senza saperlo, noi per redimercene, loro per restarne schiavi. Questo è il significato della lotta, il significato vero, totale, al di là dei vari significati ufficiali. Una spinta di riscatto umano, elementare, anonimo, da tutte le nostre umiliazioni: per l’operaio dal suo sfruttamento, per il contadino dalla sua ignoranza, per il piccolo borghese dalle sue inibizioni, per il paria dalla sua corruzione. Io credo che il nostro lavoro politico sia questo, utilizzare anche la nostra miseria umana, utilizzarla contro sé stessa, per la nostra redenzione, così come i fascisti utilizzano la miseria per perpetuare la miseria, e l’uomo contro l’uomo.” (Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Milano Oscar Mondadori, 2022, pag. 106).
A cento anni dalla nascita dello scrittore era doveroso ritessere una trama intorno alla esperienza diretta e vitale da lui vissuta  nella Resistenza, che si svolse nei suoi boschi e nel suo paesaggio e che poi lo accompagnerà per sempre, come dimostra l’insieme delle sue opere.
Alla lotta di Liberazione Calvino diede un contributo originale come narratore, testimone e interprete che lo solleva senz’altro ai vertici della letteratura nazionale della Resistenza, con Beppe Fenoglio, Cesare Pavese, Elio Vittorini, Primo Levi e Luigi Meneghello.
In questo libro antologico vengono evocate le sue parole perfette, la sua capacità di cogliere il reale e insieme la visione, nella ricerca costante del senso “di ciò che appare e scompare”.
Questo percorso di memoria viene  inquadrato partendo dalle pubblicazioni fondamentali sulla storia della Resistenza nella I Zona Liguria, dai preziosi documenti originali dell’Archivio Storico dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia, dai fervidi giornali della Resistenza e della Liberazione a cui Italo Calvino collaborò come giovane giornalista, cronista e curatore della stampa partigiana e dalla riproposizione dei suoi articoli.
Per arrivare ai documenti unici e inediti dell’Archivio privato Giacometti-Loiacono, che svelano nuovi elementi di questa storia appassionata di giovani partigiani e partigiane attraverso racconti, poesie, lettere, appunti… e che raccontano una ricchezza di esperienze e di vite tra il Ponente ligure, Sanremo, il Piemonte e Torino, il mondo.
Calvino inizia il suo viaggio di uomo e di scrittore dalla narrazione non agiografica di quell’ Epopea dell’esercito scalzo  che lo àncora a ideali e valori della Resistenza, in una rara coerenza intellettuale e morale.
Fattosi scrittore dallo sguardo etico, come lo definisce Francesco Biamonti, intellettuale impegnato, curioso e complesso, militante del dubbio e della continua proiezione verso un cambiamento possibile, per Calvino era stata centrale da subito, nell’inquieto e problematico dopoguerra, la questione dell’engagement, e cioè dell’impegno politico degli scrittori, posta con forza all’attenzione degli intellettuali antifascisti da Jean Paul Sartre così come da altri noti autori quali André Malraux e Albert Camus in Francia, George Orwell e Bertrand Russell in Inghilterra, Thomas Mann e Bertolt Brecht in Germania, Alberto Moravia e Pierpaolo Pasolini in Italia, per citare solo alcuni degli intellettuali più prestigiosi di quell’epoca.
L’osservazione del “lancinante mondo umano”, la cui prima scoperta avvenne proprio con la partecipazione alla Resistenza, continuerà sempre nel corso della sua vita e della sua scrittura anche se da una posizione più defilata ma cosciente e responsabile, in una ricerca continua di “fili da dipanare e cose da guardare”.
Sin dagli esordi di scrittore, la dimensione entro cui Calvino si muove concede poco al colore locale. L’ambiente naturale è ostensivamente realistico e puntualmente riconoscibile così come il labirintico contesto urbano della Sanremo Vecchia, la Pigna, con i suoi carrugi e cortili avari e a un tempo avidi di luce e calore solare, così come pure la dolente umanità dei suoi abitanti, razza di miserabili votati al magaiu, al frantoio o alla fornicazione.
A ben vedere, l’infanzia di Pin assomiglia forse più a quella di Rosso Malpelo che a quella dell’Ivan di Tarkovskij, ma c’è, per Pin, la via di fuga, la strada di San Giovanni, il Sentiero dei nidi di ragno, la montagna tutta da scalare della Resistenza.
In alto, sui lenti crinali inondati di luce, quasi magicamente sospeso a un invisibile raggio di sole, volteggia irraggiungibile il falco. Più sotto, a tiro di schioppo, ruota pigramente il corvo. Ma tu, tu non t’ingannare. Tu, imberbe soldato tedesco o imberbe partigiano di Pigna, non chiederti per chi suona la campana. Essa suona pur sempre per te.

La memoria della neve

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a cura di Lorenzo Canova e Piernicola Maria Di Iorio

Giancarlo Limoni – La memoria della neve è la mostra che inaugura la nuova sede di
Aratro, Galleria Gino Marotta-Museo Laboratorio di Arte Contemporanea
dell’Università degli Studi del Molise, a Campobasso, che riapre, dopo la pandemia, in
un grande spazio espositivo collegato all’Aula Magna di Ateneo.
L’antologica, curata da Lorenzo Canova e Piernicola Maria Di Iorio, ripercorre alcuni
tratti salienti degli ultimi venticinque anni di lavoro di Giancarlo Limoni (Roma, 1947),
protagonista della Nuova Scuola Romana degli anni Ottanta e della pittura italiana
contemporanea.
Come scrive Luca Brunese, Rettore dell’Università del Molise: «nelle sue moltissime e
possibili interazioni, il lavoro di Giancarlo Limoni ha anche il pregio di rappresentare
un simbolo di connessione tra i diversi centri che compongono il Polo Museale della
nostra Università. La presenza dei quadri di Limoni nel nostro Ateneo può avere così
un importante valore non solo per la sua altissima qualità artistica, ma anche per le
molte implicazioni che si configurano nella ricerca, nella didattica e la terza missione
di un’Università, che si proietta verso il futuro rinnovando una storia lunga
quarant’anni».
La memoria della neve raccoglie opere di grandissimo formato, con un nucleo speciale
dedicato alla serie dei Quadri bianchi, dove il pittore lega le sue immagini del giardino
alle aperture verso il paesaggio, in una combinazione generata dal bianco di una neve
irreale e da un’armonia di colori velati e vibranti, germinazioni di piante e di fiori che
crescono e premono sotto la coltre lattescente.
Come scrive Lorenzo Canova «nella storia umana le arti hanno il dono profetico di
intercettare in modo magnetico e sotterraneo le questioni del presente e del futuro,
parlando di grandi temi con modi e forme che altre discipline non sono in grado di
esprimere. Questo accade, ad esempio, nella mostra di Giancarlo Limoni che,
partendo dalla sua personale e poetica ricerca sul tema del giardino e del paesaggio,
sembra aver dato vita a un ciclo di opere segnate da una visione innovativa e profetica
del nostro presente e di quello che potrebbe essere il nostro futuro, minacciato dalla
catastrofe ecologica che grava su terre dove non nevica più, dove i ghiacciai si
sciolgono e dove l’acqua scaturita dalle nevi sembra sempre più rara e preziosa».
Non a caso, anche Piernicola Maria Di Iorio in catalogo scrive: «i paesaggi divengono
così intrecci e interconnessioni nella sua pittura, elementi alla base di un indagare
dell’artista sulle qualità profonde che esistono nella natura. Giancarlo Limoni si
avvicina alla sua materia mediante un’attenta osservazione e rappresentazione della
forma per sviluppare una comprensione e una connessione personale con ciò che
vede; percorre quindi un processo creativo che passa da una risposta osservativa a
una intuitiva, creando una nuova realtà».
In mostra è esposta anche una videoinstallazione del collettivo L’uomo che non
guarda, composto da Ambrogio Palmisano e Sonia Gentili: tre poesie con testo
dinamico di Sonia Gentili dedicate ai Quadri bianchi di Giancarlo Limoni.
Il catalogo della mostra, edito da Gangemi Editore, comprende i testi del Rettore
dell’Università degli Studi del Molise Luca Brunese; della Delegata al Polo Museale di
ateneo Paola Fortini; di Lorenzo Canova e Piernicola Maria Di Iorio (direttore e
curatore di Aratro) e di Fabio Sargentini, il grande gallerista de L’Attico di Roma che
collabora con Limoni da quasi quarant’anni.
Il volume raccoglie anche cinque poesie di Roberto Deidier e Sonia Gentili, professori
ordinari di Letteratura Italiana alle Università di Palermo e Roma Sapienza, che hanno
fatto dialogare i loro versi con la pittura di Giancarlo Limoni.
Si ringraziano per la collaborazione: L’Attico-Fabio Sargentini; FFMAAM, collezione
Francesco Moschini e Gabriel Vaduva-A.A.M. Architettura Arte Moderna.

Avevano ragione i soliti guastafeste?

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di Sergio Violante

Finalmente, era ora! Ci è voluta una napoletana come Lucia Tozzi per far sorgere anche nell’elegante e felpato mondo dell’”intellighenzia progressista” meneghina qualche dubbio sul cosiddetto “Modello Milano”. Ho letto con attenzione prima sulla rivista del Mulino, ieri su Doppiozero due recensioni al libro della Tozzi L’invenzione di Milano ( Napoli, Cronopio, 2023, euro 15) che incominciano a mettere in discussione la propaganda sulla Milano città modello, città all’avanguardia in Italia, in Europa e, se possibile, nel mondo. Le analisi di Alberto Saibene per il Mulino e Luca Molinari per Doppiozero prendono finalmente atto che il punto di svolta nell’attuale modello di sviluppo della città è stato l’”evento” Expo 2015, che ha impresso a Milano una traiettoria da cui la sinistra al governo cittadino non si è mai più discostata. Il modello magnificato da Matteo Renzi, che veniva considerato a quel tempo il nuovo messia della sinistra del fare, che superava e svecchiava la politica del ‘900 portandoci nella dimensione postindustriale, il nuovo sol dell’avvenire, tutto mercato (tanto) e solidarietà (poca). Oggi la sinistra progressista cittadina si accorge che la città è piena di contraddizioni, che il livello degli affitti è insostenibile, che i prezzi delle case aumentano secondo una curva esponenziale, che “Milano diventa una città per ricchi ed espelle, oltre alle classi popolari, la parte più debole del ceto medio” ( Saibene, art. cit.). Si certifica che la qualità dell’aria è tra le peggiori al mondo ma che le poche aree ancora non edificate vengono immediatamente coperte di cemento, che non esiste una politica dello spazio pubblico, dello spazio sociale, se non in funzione subalterna degli interessi dei colossi immobiliari internazionali. Si parla della costruzione ideologica di una massa di cittadini-consumatori e ci si ricorda finalmente del sinistro spot “Milano non si ferma” che fu offerto ai tempi della crisi pandemica. Ci si interroga sul ruolo dell’intellettuale oggi, categoria a cui appartengono entrambi gli autori, “che ha smesso di essere apocalittico ed è comodamente integrato…” ( Molinari art.cit.).

Tutto bene direi, ottimo anzi! Ma mi sorge birichina e un po’ maliziosa una domanda: ma dove eravate voi, che fino a ieri avete magnificato questo modello, che avete irriso come utopisti folkloristici quello “sparuto gruppo di critici antagonisti” ( Molinari art. cit.) che da sempre, non da oggi, hanno lottato per le posizioni che voi oggi, sembra, stiate abbracciando?

Un minimo riconoscimento credo sia loro dovuto.

 

Post in translation: Gerard Manley Hopkins

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Nota critica

di

Valérie T. Bravaccio

Claudia Azzola traduce Gerard Manley Hopkins, Giubilo al tempo del raccolto

Il titolo Giubilo al tempo del raccolto può essere sorpendente per chi conosce le poesie di Hopkins. Infatti, non si tratta dell’opera più famosa di Hopkins, The wreck of the Deutschland / Il naufragio della Deutschland (1876) oppure della famosa poesia intitolata Pied beauty / Bellezza variegata tradotta da Eugenio Montale. Si tratta, certo, del titolo di una poesia di Hopkins, Hurrahing in harvest, ma forse è meno conosciuta. Perché Claudia Azzola l’avrà scelta per dare il titolo alla sua antologia di 65 poesie tradotte in italiano che si riferisce all’originale, Poems and Prose[1] ? Secondo me, oltre ad accogliere traduzioni, la raccolta ha una particolarità: Claudia Azzola ha creato un oggetto poetico per trasmettere una sua profonda lettura di Hopkins. Infatti, quando precisa che ha « enucleato due liriche fuori dall’ordine […] Duns Scotus’s Oxford […] e Moonrise […], non è per civetteria ma per dare a queste due poesie un posto di riguardo nell’antologia, cioè proprio all’inizio (pp.18-21). E forse spiega perché Giubilo al tempo del raccolto non solo è il titolo della raccolta, ma è anche, e soprattutto, la poesia che viene collocata proprio nel cuore della raccolta. Giubilo al tempo del raccolto assumerà sicuramente un significato particolare: riassumerà tutte le particolarità stilistiche di Hopkins? Per Claudia Azzola, Hopkins è un « Poeta intensamente sperimentale [che] conia parole, le infila nel ritmo ‘a salti’, il running rhythm, o sprung rhythm, nel redeeming power della parola, come egli stesso lascia scritto »[2]. Ed infatti, il verso 5 ne è un’illustrazione lampante:

I wàlk, I lìft up, I lìft up heart, éyes, / Vado, levo, levo cuore, occhi,

Claudia Azzola spiega, inoltre, che « Hopkins ha giocato con il lessico, non meno di Joyce, di Dylan Thomas. […] Ha spinto il lessico alle estreme conseguenze, in una condensazione verbale di allitterazioni, assonanze, spezzature, […]. »[3]. Ed è stata attenta a riproporre in italiano l’urto dei suoni dandone un esempio in Winter with the Gulf stream / Inverno con la corrente del Golfo, vv. 5-6 :

 

Sarebbe interessante paragonare le sue traduzioni con quelle di Beppe Fenoglio nel suo Quaderno di traduzioni (Pied Beauty, In the valley of the Elwy, The May Magnificat, Peace, Spelt from Sibil’s Leaves, The Starlight Night, Nondum) oppure la sua traduzione di The wreck of the Deutschland / Il naufragio della Deutschland con quelle di Baldi (1939) e di Cagnone (2021) per accorgerci quanto il lavoro di traduzione è diverso da una persona all’altra. E quello di Claudia Azzola è particolarmente ricco di sensibilità ritmica e fonica.

da The wreck of the Deutschland / Il naufragio della Deutschland 13 – 14 pp. 34-3

[1] Gerard Manley Hopkins, Poems and Prose, Penguin Classics, Londra 1953 (prima edizione) ; e altre a seguire negli anni.

[2] p. 5

[3] p. 8

Il Bambino

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di Valerio Paolo Mosco

Massimo Cecchini, Il Bambino, Neri Pozza, 2023

Il Bambino di Massimo Cecchini è un romanzo prezioso, inconsueto per la letteratura italiana. La storia è comune, se non anonima, e scandalosa al tempo stesso. Il termine scandalo ha un’etimologia greca e il suo significato è quello di pietra di inciampo, l’inaspettato che può accadere a chiunque e che interrompe il percorso. Lo scandalo ne Il Bambino è la nascita di un figlio gravemente disabile in una famiglia borghese normale, tipica degli anni ’70 ma più in generale del mondo borghese del benessere economico e dell’edonismo ad esso associato.

La nascita del Bambino non dà tempo alla famiglia di ragionare: essa è sopraffatta dai bisogni di un essere bisognosissimo, che non può vivere senza il supporto di uno o più esseri umani caritatevoli. Date le necessità la famiglia si allarga con l’arrivo di una coppia di domestiche filippine anch’esse assorbite dalle necessità del Bambino, per poi allargarsi ancora con gli autisti, ovvero dei giovani che portano il Bambino a fare ciò che lui ama di più, viaggiare in macchina di notte.

Simone Weil, che ha messo al centro della sua riflessione la carità, ha scritto che “amore è cura costante”. Attenzione: l’amore non implica attenzione costante, ma semplicemente coincide con essa, una coincidenza che necessariamente implica la devozione. Una devozione che nel quotidiano, come tutte le devozioni ripetute, diventa rito, con le sue regole e i suoi tempi, nel caso specifico della famiglia regole e tempi dettati dal Bambino. La devozione trasformata in rito e in seguito persino in liturgia, intensifica i legami fino al punto di cristallizzarli. La peculiarità, ben compreso dal libro di Cecchini, è che queste trasfigurazioni avvengono senza colpi di scena, senza sussulti, come normale e paradossale evoluzione delle cose. La devozione, sembra raccontarci Cecchini, ha un aspetto non razionale, insondabile, non particolarmente distante da una dose di follia.

Nella devozione la critica è come sospesa, messa da parte: il rito della cura assorbe il cuore e la mente: qui sta la sua forza ancestrale e qui sta il suo limite. Il valore di ciò non può essere pienamente compreso dagli esterni: il rito di sua natura tende a chiudersi in sé stesso, da qui quell’intimità condivisa di cui scriveva la Weil. La famiglia tende perciò nel tempo a identificarsi con il Bambino. Le sue necessità coincidono con quelle del Bambino fino al punto che il l’oggetto della cura è come se prendesse il sopravvento, diventando un alibi per allontanare e poi dismettere le relazioni del mondo esterno.

Cecchini racconta ciò con una prosa piana, compatta, chiosata da ponderate riflessioni, mai assertive e che più che altro non scivolano nel sentimentalismo, in quell’empatia grossolana del tutto inappropriata allorquando si tratta di argomenti realmente gravi, ovvero di quella dimensione, ineludibile dalla vita, denominata tragico. Sembra Il Bambino un libro francese, alla Flaubert: circospetto e indagatore al tempo stesso, che mantiene un pudore e un ritegno attraverso i quali in filigrana traspare un’attenzione al prossimo che fa sì che un racconto privato, anzi del tutto privato, si eleva a narrazione collettiva. “Empatia”, un termine abusato, del tutto appropriato alla straripante letteratura cortigiana e subalterna, che sembra camminare spedita, fiera del suo sentimentalismo d’accatto, ma che inciampa alle volte su delle pietre a terra non viste, inaspettate. Una di queste pietre di inciampo è Il Bambino di Massimo Cecchini.

Tintoretto: l’agire dell’immagine

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di Giulia Pigliapoco

È solo quando si riconosce vita a tutto ciò che si dà storia, e che non è solo lo scenario di essa, che si rende giustizia al concetto di vita[1].                                                                                                                                            

La vita si può intendere come creazione artistica data dal circostante. La vita è un’opera d’arte nella quale le immagini che si creano da essa sono formule di comprensione della vita stessa. Bisogna saper aprire gli occhi o chiuderli bene su tutto quello che passa, su tutto quello che c’è, che è, per poter far venire in sé le considerazioni, gli spostamenti, per esporsi, esporre. La storia dell’arte, scrive G. Didi. Huberman, è «un sapere poetico, rigorosamente e archeologicamente costruito…L’occhio s’apre per avvicinarsi alle immagini, per cogliere meglio (per analizzarle, per capirle). Ma, colto, preso in cambio da esse, l’occhio si chiude per un po’, per sentire le loro sovrane fantasticherie»[2].

Essere presi in cambio dalle immagini richiama il corpo a posizionarsi in uno spazio altro dello stare, in uno spazio guardingo e partecipe, cosciente di sé e della specificità della rappresentazione.

Saper guardare un’immagine significa indagare e interrogare il suo fondo, il dietro e il nascosto, quello che è avvenuto prima. È solo con questo tipo di attenzione che l’immagine diviene così un atto, un’azione performativa, un veicolo di significati, di strumenti di potere, un’espressione di una precisa cultura, una richiesta di desiderio, una nostalgia, una rappresentazione teatrale.

Nell’immagine l’uomo è il visitatore stupito per eccellenza del mondo perché essa è linguaggio, forma di comunicazione, espressione trasformativa capace di attivare e di informare in movimento la dimensione interiore, intima e rivelatrice di sé, e di trasportare l’osservatore, spettatore in uno stato altro.

Uno dei pittori che è riuscito ad indagare l’invisto dell’immagine portando a vista la sua essenza, il suo processo di creazione è Tintoretto. È riuscito a trasporre il suo sguardo attento del circostante attraverso il mezzo della pittura, creando così dei gesti, dei simboli, delle sensazioni. Attraverso la sua conoscenza del teatro, della musica, del suo sguardo, è riuscito con i suoi dipinti a realizzare veri spettacoli teatrali. Pham Van Khanb scrive ne Theatricality in Tintoretto’s religious painting che l’artista ha inventato delle «messe in scena energetiche che inducono lo spettatore a percepire l’immagine come reale. Attraverso tale illusione teatrale costruita ad arte, Tintoretto non solo ricrea una visione per il suo pubblico, ma soprattutto trasmette la profondità della sua esperienza spirituale»[3].

Lavorando per le compagnie della Calze, Tintoretto aveva appreso la metodologia dello scenografo. Attraverso la costruzione di figure di creta o cera che collocava in una scatola-palcoscenico di legno o cartone faceva diventare i suoi dipinti vere illusioni teatrali. Tintoretto sembra fare un patto con tutte le cose, con il circostante. Dipingendo quasi sempre all’interno della città di Venezia, nei suoi dipinti ne vediamo l’influenza. Si è catapultati nella città, nella sua architettura, nelle sue cerimonie, nei suoi riti, nella sua musica, nel suo fascino per l’estetica teatrale. I suoi dipinti sono animati dal processo, da quell’arte di combinare il tutto, il possibile, dalla tensione interna di cui è partecipe il mondo.                          Gilles Deleuze ne L’esausto scrive che «a definire l’immagine non è il suo contenuto sublime, ma la forma, cioè la “tensione interna”, la forza mobilitata per fare il vuoto o aprire il fuori, sciogliere la morsa delle parole, asciugare il trasudamento delle voci, per liberarsi dalla memoria e dalla ragione, piccola immagine logica, amnesica, quasi afasica, ora sospesa nel vuoto, ora fremente nell’aperto. L’immagine non è un oggetto, ma un “processo”»[4].

Sembra che Tintoretto osservasse tutto il mondo visibile che lo circondava, studiando e analizzando le posture, le sfumature, le incrinature, le spazialità, le temporalità intrecciando l’invisibile con il visibile, incarnando l’etereo all’interno del corporeo. La pittura appartiene all’arte del vedere. La tela è lo spazio immaginifico dove avviene l’azione, dove i personaggi si muovono, parlano, interagiscono con ciò che è altro da loro. Fatti di pennellate di colore fanno a battaglia per emergere, urlare, significare. Attraverso la visione, si viaggia nel tempo e nello spazio, nel passato e nel futuro, nell’aperto. Saper stare nella morte dell’immagine, nel suo possibile, nel qualcosa di visto significa misurarsi con l’incommensurabile, con ciò che eccede i fini, rapportarsi con l’esistenza e con il suo eccesso. Nell’immagine c’è la destinazione dell’uomo che non fa altro che «non andare da nessuna parte ma spostarsi sul posto in questo luogo di ogni aver luogo in cui viviamo insieme alla totalità degli esistenti, spostarsi lungo – o intorno a, nei paraggi di –  questa tensione»[5].

Nell’immagine, dunque, è la tensione del corpo che comanda. La sua creazione continua non è altro che la rimessa in gioco del gioco stesso che cerca sempre un aver luogo, uno spostarsi incessante, un rapporto e uno scambio continuo con l’aperto.

Il mio corpo è fatto della medesima carne del mondo (è un percepito), e che, inoltre, di questa carne del mio corpo è partecipe il mondo, esso la riflette…il mio corpo non è soltanto un percepito fra i percepiti, è misurante di tutti.[6]

Il corpo è obbligato a trovarsi nel contatto con l’aperto, che siamo noi stessi, che è il linguaggio, che è il mondo. Il corpo è pregnante di vita, di linguaggio e di pensiero. «Nel corpo» scrive Rubina Giorgi «si riverberano tutte le vibrazioni, impressioni, figure di ciò che vive e accade»[7].

Tintoretto sembra essersi misurato con l’aperto riuscendo a trasportare le sue sensazioni, emozioni,  impressioni e pensieri nella pittura.

Nel 1564-66 l’artista viene incaricato di decorare la sala delle riunioni della Scuola Grande di San Rocco con episodi del ciclo della passione di Cristo. Tintoretto è riuscito a vedere il prima dell’immagine studiando e analizzando attentamente i movimenti, i gesti, le posture provocando vere emozioni agli spettatori.

«Tintoretto ha esteso la sua ambientazione al regno dello spettatore che sembra condividere lo stesso spazio pittorico e quindi partecipare attivamente all’evento spirituale…Si ha l’impressione che il palcoscenico invada l’ambiente degli spettatori e li circondi da tutte le parti. In questo modo viene sofferta l’esperienza di entrare fisicamente nel quadro. Tintoretto ha ricreato una visione per il pubblico, ha tradotto la sceneggiatura dell’opera in termini visivi»[8].

Si può considerare il quadro come un dispositivo performativo? Esiste un’analogia tra corpi dipinti, figurati e corpi vissuti? Il dipinto crea una separazione con il circostante o è insito in esso? Si può parlare dell’immagine come un secondo mondo? Si può parlare di evento attraverso l’osservazione di un  dipinto?

Erika Fischer-Lichte ne L’estetica del performativo, indaga la svolta performativa come un processo che coinvolge la nozione stessa di arte e che si può trovare nelle azioni o nei lavori di artisti che approdano a discipline e metodologie differenti. Negli anni sessanta anche il teatro ebbe una spinta performativa e non venne più concepito come rappresentazione di un mondo immaginativo che doveva essere osservato e interpretato dallo spettatore, ma attraverso la produzione di un rapporto tra attore e spettatore. «Il teatro si costituiva perché avveniva qualcosa tra spettatore e attore»[9].                                     Considerati come veri spettacoli teatrali, i dipinti di Tintoretto, dunque, creano un evento dove il fruitore negozia, attraverso il dipinto, le relazioni che si innescano tra soggetto e oggetto. Lo spettatore, dunque, non è indifferente alla vista. Max Herrmann, fondatore della scienza del teatro berlinese, scrive che «nell’esperienza estetica dello spettacolo “la cosa più importante dal punto di vista teatrale” sia “co-esperire il corpo reale e lo spazio reale”. L’attività dello spettatore non è concepita come un’attività della fantasia e dell’immaginazione, come si potrebbe forse pensare a una prima e superficiale lettura, quanto come un processo corporeo»[10].

Attraverso alcuni interrogativi si cerca di analizzare la drammaturgia interna in due dipinti di Tintoretto del 1583-1587 conservati nella Sala Terrena della Scuola Grande di San Rocco a Venezia. Attraverso l’analisi dei due dipinti: Santa Maria Egiziaca e Santa Maria Maddalena, molto simili nelle dimensioni e composizioni, si tenta di scoprirne gli eventi, le analogie e le differenze. Solo con un occhio attento si possono scorgere le diverse tonalità dei colori, le varie funzioni della luce, le disposizioni dei corpi e le loro posture, la danza come movimento incarnato del sapere, i diversi tempi sospesi o dinamici insiti nell’immagine.

Santa Maria Maddalena  1583-1587

Santa Maria Maddalena detta anche Maria di Magdala, è stata, secondo il Nuovo Testamento, una importante seguace di Gesù. Tra le poche a poter assistere alla crocifissione, secondo alcuni vangeli divenne la prima testimone oculare e la prima annunciatrice dell’avvenuta resurrezione. La figura di Maria Maddalena è stata anche identificata con altre figure di donna presenti nei Vangeli: donna peccatrice e adultera. Nel Pistis Sophia, vangelo gnostico, si parla di Maria Maddalena come simbolo della Conoscenza (gnosi) e rappresenta dunque, l’incarnazione umana di Sophia e, come tale, la sposa e la controparte femminile di Cristo: «sei la più beata di tutte le donne della terra, poiché tu sarai la pienezza di tutte le pienezze e il compimento di tutti i compimenti»[11].

 

Santa Maria Egiziaca 1583-1587

 

Santa Maria Egiziaca è stata monaca e eremita, venerata come santa patrona delle prostitute pentite dalla Chiesa Cattolica, Ortodossa e Copta. Nasce nel 244 ad Alessandria d’Egitto e fugge dalla propria casa all’età di dodici anni, abbandonandosi ad una vita dissoluta. All’età di ventinove anni incontra ad Alessandria un gruppo di pellegrini che stavano partendo per Gerusalemme e, spinta dal desiderio di lasciare l’Egitto per visitare nuove terre, s’imbarca con loro, seducendoli uno dopo l’altro. Da quel momento Maria Egiziaca inizierà un lungo cammino di penitenza per il deserto. Il suo errare solitario durerà 47 anni, durante i quali si nutrirà solo con l’erba che troverà nel suo cammino.

Bisogna considerare il quadro come una specie di teatro: si apre il sipario e noi guardiamo[12].

È in questa prospettiva che si devono guardare i dipinti di Tintoretto. In Santa Maria Maddalena e Santa Maria Egiziaca, si può notare il passaggio che avviene dalla visione alla contemplazione. I dipinti iscrivono in se stessi la propria teoria, si presentano già teoricamente per rappresentare qualcosa. Trovandoci difronte ai due dipinti il primo focus va al corpo del fruitore che già nell’atto di osservare, di stare in un determinato spazio, ambiente sonoro, lo esperisce o meglio si esperisce, sentendosi dall’interno, sentendo il circostante. È in questa maniera che si è toccati da tutte le cose, che si può andare in altri luoghi rimanendo apparentemente fermi. Lo spazio che intercorre tra l’osservatore e il dipinto è già immagine, luogo altro, corpo in movimento già in trasfigurazione, in azione per assorbire l’esperienza dell’abitare, comunione di atmosfere fisiche-spaziali-temporali. Pavel Florenskij in Lo spazio e il tempo nell’arte, scrive che «quella parte di spazio che un corpo occuperebbe in un certo luogo non differisce da quella che occuperebbe in un altro…lo spazio intorno a un certo corpo è lo stesso dello spazio intorno a questo stesso corpo, spostato in un altro luogo»[13]. Tutto diviene adiacente al corpo e lì, quando si è agiti, inizia l’immagine. Saper interrogare cosa avviene nel mezzo permette di avvicinarsi al tutto, permette di modellare lo spazio, noi, il tempo. Saper stare sempre in vicinanza, saper toccare con lo sguardo per non vedere tutto ciò che è evidente, ma lo scarto, il nascosto.

Uno degli elementi evidenti nei dipinti di Tintoretto è la luce. La luce è uno strumento prezioso sia per il teatro che per la pittura. Sappiamo quanto la distribuzione dell’illuminazione nello spazio pittorico può accrescere l’intensità drammatica nella scena. Sappiamo anche che Tintoretto è riuscito attraverso essa, a rappresentare il mistero sacro, con l’intento di dimostrare che «il legame immediato tra l’uomo e dio è in realtà un’esperienza spirituale accessibile a tutti attraverso la fede e l’amore di Dio»[14]. La luce come veicolo di rivelazione, restituisce forma concreta al pensiero astratto attraverso la pittura, mostrando le emozioni che sono capaci di portare l’evento sacro alla comprensione di tutti, riducendo il divario tra spazio reale e fittizio. Ma la luce nei suoi dipinti non è soltanto questo, non è solo evidenza, rivelazione e simbolo. La luce comanda lo sguardo, crea percorsi, delimitazioni, ci obbliga a stare e percepire. In Santa Maria Maddalena la luce è corpo, è presenza del e nell’ambiente. Due sono i punti focali di illuminazione: uno proviene dalla terra, dalle radici, illuminando la Santa che rivolta allo spettatore è intenta a leggere; l’altro proviene dal cielo illuminando l’albero che sembra acquisire le sembianze di un corpo danzante. La luce nel primo caso incarna la figura della Santa e del suo pensiero, divenendo così scrittura, conoscenza. Sdraiata a terra ma in tensione, come noi, Maria Maddalena è nel luogo dell’altrove. Si racconta, si legge, si ascolta in uno spazio assorto, di comprensione, di interrogazione come quello del pensiero, che non è altro che il suo spazio e il nostro spazio. Nel secondo caso l’albero si mostra come corpo danzante che per volontà della luce si pone come essere presente equivalente alla presenza della Santa. L’albero, la figura principale o per lo meno la più imponente nel quadro sembra voler chiedere pietà, sembra urlarle con le braccia alzate al cielo, la sua esistenza al mondo in una danza sfrenata come a dire io esisto.

In Santa Maria Egiziaca la luce ci fa sentire e comprendere la totalità dello spazio, dell’ambiente e forse del luogo. La luce in questo caso è incarnata nei dettagli che compongono i corpi, le cose, la natura. Le pennellate luminose sono azioni, già prossime alla percezione sensoriale. È in queste pennellate, in questi corpi materici, in questi dettagli, che si aprono delle fessure che sfuggono al primo sguardo. Il paesino che attraverso la luce si scorge da lontano non è forse quello da cui la Santa è fuggita? È Alessandria? O Gerusalemme dove andrà con i pellegrini? Al contrario di Maria Maddalena, Maria Egiziaca è rivolta di spalle allo spettatore, sempre con un libro in mano. Non è attenta ad esso, ma posto sulle ginocchia essa sembra essere attratta dal lontano, dal luogo da raggiungere, luogo della sua memoria. È una luce, questa, che pone l’attenzione al suo status di santa, alla sua vita, alle sue avventure attraverso l’aureola che diventa il primo punto visivo d’attrazione del dipinto. È una luce, questa, contemplativa, che indaga sul sé, sull’ambiente, sui suoi patimenti e pentimenti.

Ond’è che ogni sognatore, pensatore e artista è un danzatore; compreso anche colui il quale non conosce sino in  fondo il suo essere intimo, come colui il quale mediante la ponderazione tradurre in azione i suoi moti. È danza ogni moto, ogni azione, movimento, ogni avvenimento. Ogni atteggiamento esistente è il prodotto armonico di un procedimento di danza[15].

È così che Aurel Millos, danzatore, coreografo e regista ungherese, parla della danza nel libro Coreosofia. Scritti sulla danza. La coreosofia è la disciplina che si occupa della danza dal punto di vista morale, cercando di analizzare le apparizioni e le manifestazioni della danza nell’intera vita umana. Un altro aspetto interessante che in questi due dipinti di Tintoretto si può interrogare e leggere è la danza, nel senso più ampio del termine. Tintoretto è stato capace di tradurre in dinamismo il grande fenomeno del pensiero. In questo caso la danza è incarnata nel movimento del sapere. In entrambi i dipinti si può riscontrare due differenti danze del pensiero rese visibili grazie alla diversa postura dei due corpi nello spazio. Come scrive Virgilio Sieni in Danza cieca, si «danza l’arte del trasformare, dell’elaborare e restituire poeticamente materia invisibile e percepita. Si vuole dare vita a qualcosa che non è propriamente visibile, ma che prende forma nella relazione tattile dei due corpi»[16]. Si può scorgere in questi due dipinti una danza del sotterraneo, dell’invisto, del nascosto. In Maria Maddalena, la danza è data e sembra nascere dalla lettura. È una danza, questa, del riposo, una danza per se stessa, danza di resistenza alla vita, rivendicazione del sapere, incarnazione della conoscenza. Difronte ad un corpo apparentemente immobile, rilassato, ma al tempo stesso dinamico e in continuo divenire, Maria Maddalena sembra non attendere nulla, ma immersa in sé, danza l’altrove immobile della scrittura. In Maria Egiziaca possiamo vedere al contrario una danza di introiezione e di riflessione. La santa in questo caso danza il naufragio di sé nella contemplazione del paesaggio. È una danza, questa, che sembra nascere dalla sua vita, dalla sua storia. Anche in questo caso è una danza di resistenza e rivendicazione ma, di una donna che, fuggita da casa, si abbandona ad una vita dissoluta. Lei danza la sua penitenza, i suoi sensi di colpa, gli errori, i giudizi. Lo si nota da una postura in questo caso tesa, quasi severa, statica che osserva il lontano, il suo passato. È una danza questa che nasce con la sua nascita e morirà con la sua morte.

Giorgio Agamben nel libro Ninfe parla di Domenico da Piacenza, il più celebre coreografo, maestro di danza alla corte degli Sforza a Milano e a quella dei Gonzaga a Ferrara. Domenico scrisse intorno alla metà del Quattrocento il trattato: Della arte di ballare et danzare. La danza è, per Domenico, «un’operazione condotta sulla memoria, una composizione dei fantasmi in una serie temporalmente e spazialmente ordinata. Il vero luogo del danzatore non è nel corpo e nel suo movimento, bensì nell’immagine come «capo di medusa», come pausa non immobile, ma carica, insieme, di memoria e di energia dinamica. Ma ciò significa che l’essenza della Danza non è più il movimento – è il tempo»[17].

L’ultimo aspetto importante da indagare è il tempo nell’immagine. Le immagini vivono dentro di noi, si trasformano, crescono, scompaiono, mutano e ci mutano. Che funzione ha il tempo nell’immagine in relazione all’uomo che la fruisce? Esiste un tempo interno all’immagine che sia indipendente, coincidente con se stessa e che non ha bisogno di nessun sguardo esterno per essere esperita, analizzata?

«Quel che conta nell’immagine non è il suo povero contenuto, ma questa forsennata energia, catturata e pronta ad esplodere, che fa sì che le immagini non durino mai a lungo, ma si confondano con la detonazione, la combustione, la dissoluzione dell’energia condensata»[18].

Nell’immagine si può sperimentare la presenza del fuori, il suo vuoto, la sua tensione interna. Nei due dipinti in questione, il tempo crea un’apertura, una fessura che crepa l’adesso, rivelandoci una situazione di stallo, una soglia fra l’immobilità e il movimento, tra presente e passato, tra il soggetto che percepisce e i corpi raffigurati, tra il visto e l’avvento del suo significato. È sempre un oscillare tra, fra le cose. Theodor Vischer, filosofo e poeta tedesco, parla di una sospensione, «uno stato intermedio, in cui l’osservatore non crede più alla forza magico-religiosa delle immagini e, tuttavia, rimane in qualche modo legato ad esse, tenendole in sospeso fra l’icona efficace e il segno puramente concettuale»[19].

Saper stare e guardare nel mezzo, nella penombra che il tempo crea, nella parvenza. In Maria Maddalena il tempo della visione ci restituisce l’importanza del presente, del godimento della lettura, della natura che circonda la santa. Sembra esserci un tempo di permanenza, del riposo e dello stare. La santa è in un altrove dato dalla lettura. Immersi come lei nell’evento, si innesca un meccanismo di corrispondenze tra chi guarda e il guardato, tra due temporalità apparentemente diverse ma inserite nello stesso tempo, nello stesso spazio. In Maria Egiziaca sembra esserci un tempo di sospensione, apparentemente immobile ma carico in sé del frenetico. L’unico elemento che sembra dinamico è l’acqua del fiume, mentre la postura precisa, ferma, severa della santa, mette in risalto un tempo che passa e scorre soltanto nel e attraverso il suo pensiero. Un tempo che contraendosi nel corpo in un brusco arresto fa iniziare il movimento della sua memoria. È come se Maria Egiziaca si fosse fermata a pensare, riflettere, riposare, decidere le sorti della sua vita. Distanziando il libro e ponendolo sulle ginocchia, lei si concentra sul paese in lontananza, dunque sul futuro. È un tempo di resistenza e di riflessione il suo che ci porta a viaggiare con lei, a pensare la sua storia attraverso la nostra storia, per poterne parlare, per poterla riscrivere.

Saper gettare lo sguardo per cogliere ciò che nasconde l’evidenza. Saper essere uno strumento di misurazione per non coincidere con il tempo e con lo spazio. Saper stare in più attimi per toccare alcune porzioni di realtà. Pensarsi in caduta per avvicinarsi alla fioritura delle cose.

 

NOTE

[1] Cfr. W. Benjamin, in A. M. Millos, Coreosofia scritti sulla danza, a cura di S. Tomassini, ed. Leo S. Oshki, Venezia 2002, p. XXXVII.

[2] Cfr. G. D. Huberman, in S. Mei, Drammaturgie dello sguardo. Studi di iconografia dello spettacolo, ed. Edizioni di pagina,  Bari 2020, p. 10.

[3] P. V. Khanb, Theatricality in Tintoretto’s religious painting, Tesi di Laurea, Dipartimento di Storia dell’Arte, Università McGil, Montréal, marzo 1995, p. IV.

[4] G. Deleuze, L’esausto, a cura di G. Bompiani con un testo di G. Agamben, ed. nottetempo, Roma 2016, p. 31.

[5] J. L. Nancy, L’adorazione. Decostruzione del cristianesimo II, ed. Cronopio, Napoli 2012, p. 27.

[6] M. M. Ponty, L’invisibile e il visibile, a cura di M. Carbone, Edizione digitale 2014, p. 498.

[7] R. Giorgi, Alla ricerca delle nascite (lingua e mania), a cura di M.Mussio, ed. La Nuova foglio, Pollenza-Macerata 1978, p. 48.

[8] Khanb, Theatricality cit., p.34.

[9] E. F. Lichte, Estetica del performativo, a cura di T. Gusman, ed. Carocci editore, Roma 2014, p.37.

[10] Lichte, Estetica cit., p.63.

[11] S. A. Weor, Pistis sophia svelato, Primo libro, p.30.

[12] Cfr. R. Barthes in S. Mei, Drammaturgia dello sguardo. Studi di iconologia dello spettacolo, ed. Edizioni di pagina, Bari 2020, p. 94.

[13]P. Florenskij, Lo spazio e il tempo nell’arte, a cura di N. Misler, ed. Adelphi, Milano 2012, p. 30.

[14] Khanb, Theatricality cit., p. 54.

[15] Millos, Coreosofia cit., p. 65.

[16] V. Sieni, Danza cieca, a cura di D. Stella, ed. Cronopio, Napoli 2022,  p. 53.

[17] G. Agamben, Ninfe, ed. Bollati Boringhieri, Torino 2020, p.14

[18] Deleuze, L’esausto cit., p. 36.

[19] Agamben, Ninfe cit., p. 34.

Dal sogno del bacio

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di Enrico Dotti

 

Immagine di Ina Hoekstra da Pixabay

Alla fine di settembre del 1984 ricevemmo in visita alcuni amici dei miei genitori. A giugno avevo concluso gli studi liceali e mi apprestavo a intraprendere quelli universitari, che sarebbero stati più lunghi e avventurosi del previsto. Per celebrare la fine di un ciclo, mio padre, che in qualche raro caso applicava alla vita gli schemi della sua letteratura, mi aveva regalato un viaggio a Parigi, che avevo accettato con moderata gratitudine e compiuto con relativa indifferenza. I nostri ospiti giunsero alla fine di un pomeriggio fresco, preceduti da una telefonata e recando una pianta tropicale dall’aspetto sinistro, sulla quale si concentrò subito la conversazione. La formazione era composta da due coniugi dell’età dei miei, da una vecchia signora bassa e un po’ massiccia e da una ragazza, che si distinse subito come il pezzo forte della compagnia. Cominciò a interessarsi ai libri della nostra modesta biblioteca, chiedendo e rispondendo con competenza e serietà. Anch’io ero un appassionato, ma le mie dispute con l’amico letterato, e ancor più quelle con gli altri compagni illetterati, mi parvero, in confronto alle sue considerazioni, una sequela di infatuati luoghi comuni e di entusiasmi infantili. Comunque presi parte alla conversazione, cercando, senza successo, di essere misurato e profondo e provando a rimodulare le mie urgenti e confuse passioni in un registro di coerenza e ragionevolezza. Gli adulti guardavano e ascoltavano la ragazza con convinta ammirazione e simpatia, ma a un certo punto la vecchia signora chiese a mia madre che fine avessero fatto certe conoscenze comuni e si aprì un altro fronte. Mio padre per un po’ rimase nel campo letterario, poi però fu distolto da una discussione su certe rendite e la letteratura non ebbe che noi giovani. A quel punto la ragazza aprì la sua borsa, ne tirò fuori un libro e me lo porse, chinandosi su di me, seduto in un angolo. E consegnandomi il libro mi diede un lungo amoroso bacio. Nel tempo di quel bacio, o forse nei secondi immediatamente successivi ebbi un futuro fatto di lettere e di incontri, di libri e di abbracci; ebbi, con certezza, un mondo nuovo. Nessuno si accorse di quel fatto clamoroso: lei si era chinata su di me e aveva coperto il suo gesto agli altri, che avevano continuato la conversazione. Si fece buio e fu necessario accendere le luci della sala. Gli ospiti vollero andar via, nonostante i ripetuti inviti dei miei genitori affinché si trattenessero a cena. Salutai tutti con una stretta di mano e un bacio fraterno, anche la vecchia signora, ma quando fu la volta della ragazza sentii la sua guancia rovente ed ebbi uno sbandamento.

A ottobre cominciai i corsi; non posso dire che avessi dimenticato quell’episodio, era anzi sempre presente nella memoria come un fondale sul quale scorrevano le nuove ed eccitanti esperienze della vita universitaria. E una sera, tornando da una lezione, trovai una lettera. Dopo i saluti, entrava nella cosa senza preamboli. Ma quale cosa?

quel libro che ti ho dato parla della contrapposizione tra la vita attiva e la vita contemplativa. Confesso che al momento non sto praticando né l’una né l’altra. Ho intrapreso gli studi di filologia perché mi sembra che lì ci sia qualcosa da smontare e rimontare, e questa attività fa passare il tempo senza che ci si pongano tanti problemi. Ho il libro di Bobbio sul comodino, sono le mie orazioni; e dunque seguo la regola benedettina

Continuai a scorrere rapidamente le righe cercando ciò che avrei voluto trovare e che non arrivava. Perché tardava a introdurre l’argomento più importante? Non mi aveva forse cercato perché anche la sua vita correva sul territorio circoscritto da quel nostro primo incontro? Scriveva ancora

inghiotto senza sputarla l’amara sorba del mondo, il telegiornale delle 19 me ne riserva una razione quotidiana, che altro dovrei fare? Però faccio il mio lavoro certosino coscienziosamente, non rispondo male a chi mi parla e il mio piccolo mondo è contento. Hai visto quanti bei film a Cannes? Accontentiamoci

Forse mi dovevo accontentare. Pure mi sembrava artefatto questo silenzio su ciò che evidentemente a entrambi premeva. Quella lettera era vuota come un concetto senza intuizione, andava a sbattere contro la ragione. La conclusione era inutile e promettente

Per arrivare all’Università prendo il treno alle sei, mi alzo alle cinque e trenta e la sera leggo fino a tardi; dormo poco, ma è come la mescalina. Pensami sul treno. A presto, Claudia.

Così la pensavo sul treno e terminavo il primo anno con quattro esami facili, superati nonostante un’intensa attività sociale. Ora i compagni erano tutti letterati ed intorno ai tavoli già sporchi dei nuovi locali di San Lorenzo parlavamo fino a chiusura di Kant, Bach e Thomas Mann. Da Claudia ebbi altre due lettere, se nel conto mettiamo un biglietto di auguri per Natale, alle quali risposi con una circospezione che però non riusciva a nascondere la domanda inespressa. Le raccontavo la mia vita, cercando di imprimerle un’ironia luterana (o, se questo vi sembra un paradosso, un’autoironia ebraica), smorzando gli entusiasmi, diminuendo le passioni; non ci riuscivo fino in fondo: nelle sue parole leggevo un certo compatimento o un severo distacco o nessun commento (che era peggio). Dopo l’estate ricevemmo una telefonata che ci comunicava che la vecchia signora era morta. Accompagnai i miei genitori alla stazione e consegnai loro un libro per Claudia, tra le cui pagine aveva inserito un biglietto con poche brevi frasi la cui redazione era stata lunga e penosa. Non ebbi risposta, né sue notizie fino all’estate successiva.

Mio padre, fedele ai suoi idoli, diceva che bisogna raccontare solo quello che si conosce bene, anzi, quello di cui si è fatta esperienza. Dunque incontrai Claudia a Roskilde, Danimarca. Vi ero giunto da un mese, in pieno inverno, tra il buio e la neve che non oscuravano né raffreddavano l’energia  fisica e intellettuale dei miei giovani compagni mediterranei e che, come potemmo constatare, non avevano influenzato il carattere dei nativi. Ci erano venuti a ritirare all’aeroporto con automobili e pulmini come se fossimo i regali di Natale, ci avevano scaraventati negli studentati con un movimento la cui spinta inerziale continuava a farci girare giorno e notte mentre la temperatura si attestava intorno allo zero della scala di Celsius e la neve formava muretti lungo i viali. Gli edifici universitari occupavano una campagna stepposa e spoglia, rallegrata dai laghetti con le oche e dalle mucche che fumavano dietro ai recinti di filo elettrificato. Le nostre case erano colorate di rosso di giallo e di verde e la stazione era una pensilina ficcata su un dosso della strada ferrata. Una sera, mentre mi interrogavo se fosse meglio bere vino cattivo o birra calda in una Wohngemeinschaft, qualcuno mi chiamò dal camminamento di ferro sul quale si aprivano le camere degli studenti. Guardai in alto e vidi una ragazza affacciata, gli avambracci poggiati sulla balaustra di tubi innocenti, che mi invitò a salire.

– Eccoti, finalmente. Mi disse salutandomi

Le avevo parlato di Roskilde nell’ultima lettera. L’aveva interessata. Aveva provveduto a procurarsi una borsa di studio. Era là. Non per me. Non mi aveva cercato.

– Sapevo che prima o poi ci saremmo incontrati. In caso contrario…

Lasciò in sospeso. In caso contrario prima o poi avrebbe cercato di contattarmi oppure, semplicemente, niente? La sua stanza era spoglia, con pochi libri e un quadruccio alla parete, incorniciato e con il vetro. Vicino al letto c’era un piccolo tavolino con un piano di marmo sul quale poggiava aperta una Bibbia ed un pacchetto di sigarette.

– Come sta tua madre? Quando ci è venuta a trovare per la morte della nonna ci ha confortato molto. È una signora molto per bene. Che fai a Roma. Studi o ti diverti? Quanti esami hai dato? Perché fai quella faccia?

Non so che faccia avessi fatto, forse ne avevo fatta una, mi sentivo stranito. Ancora più stranito di quanto non mi sentissi da quando ero arrivato in quel posto, come se mi avessero dato un colpo in testa in una lingua che non conoscevo. Cercai di essere all’altezza.

– Mia madre sta bene, grazie, e ti saluta. Studio Filosofia. Studio e mi diverto. Ho dato quattro esami, però facili. Cos’è quel quadruccio?

(E perché la Bibbia, perché le sigarette? Avrei voluto chiederle)

– Niente, una cosa che ho portato per ricordo. Stare lontani da casa senza avere gente intorno non è facile. Si desidera a lungo, non se ne può fare a meno, ma poi non è facile. Quel quadro lo devo riportare per forza, è una specie di biglietto di ritorno. A un certo punto la tentazione di non tornare diventa forte. Però anche quella di tornare; questa impasse si risolverà con un piccolo cambiamento: lascerò questo curioso ostello per una stanza in una casa normale, in città. Ho visitato già qualche appartamento. Visto che stiamo su una specie di isola tanto vale abitare vicino al mare. Tu dove abiti?

– A Trekroner.

– Come stare in un eremo con monaci adolescenti. Ci stai bene?

Risposi che ancora non lo sapevo ma sospettavo di no. Nel tempo della risposta il sospetto era diventato certezza. Casette gialle rosse e blu vicine all’Ateneo ma lontane da tutto il resto; legate alla città da un treno che faceva servizio fino alle diciannove, piene di matricole con la timidezza dell’adolescenza e la ferocia della nuova libertà. Allora desiderai di andare a stare con lei, nella stanza di una vecchia casa di Copenhagen vicini al mare. Era la soluzione più romanzesca, la migliore, la più coerente. La vita è un romanzo.

– Per me è troppo stravagante, disse. Voglio una casa con una vecchia danese, un soggiorno con un divano ed una stanza per me con un piccolo letto e un armadio.

Bene. Non c’è posto. Le chiesi se volesse scendere a bere con i miei amici. Rispose di no, ma mi invitò a salire quando la compagnia si fosse sciolta, se non avessi avuto troppo sonno.

Ridiscesi. Il vino era finito e si utilizzava birra calda in bottiglia. Era in corso una discussione politica, si parlava di lavoro; le parti sostenevano rispettivamente: che il lavoro è sempre sofferenza; che è il mezzo, nobile e inevitabile, con cui l’uomo si fa società. La seguivo distrattamente, gli altri avevano voglia di parlare e potevo accontentarmi di ascoltare. Avevo in mente l’invito di Claudia, che in assoluto avrebbe potuto contenere un’intenzione di intimità, ma che in particolare non l’aveva. Mi era parso di conoscerla, attraverso le lettere e le poche parole scambiate quella sera e prima. Ne avevo ricevuto l’impressione che non desiderasse rapporti duraturi, col suo sesso o con l’altro, né occasionali. Una di quelle persone che stanno per sé, che destinano la quantità di responsabilità loro assegnata a loro stesse ed ai loro rapporti con un mondo generico, in cui niente o nessuno rilevi. Ma poi c’era stato il bacio. Che voleva dire? Era un elemento dirompente, contraddittorio ed estrinseco; eppure era il legame, ed i nostri rapporti presenti e futuri, qualunque essi fossero e fossero stati, avrebbero dovuto dipendere da esso. Intanto nella grande cucina racchiusa nel quadrato di tubi colorati era rimasto solo il nostro gruppetto. Passava l’ultima piccola sigaretta d’hashish. Chi doveva prendere l’ultimo treno andò, gli altri tornarono nelle loro stanze. Io ero tra i primi, ma presi la via della porta di Claudia.

Mi aprì quasi subito. La stanza era illuminata solo da una lampada sullo scrittoio. Era vestita come prima, con i pantaloni neri ed un maglione verde. Mi fece entrare e sedere su una poltrona di vimini. Poi mise dell’acqua nel bollitore elettrico.

– Faccio un po’ di tè. Ho sempre freddo.

Si sedette sulla sedia dello scrittoio, rivolta verso di me.

– Allora, di che parlavate, di sotto?

– Del lavoro, di politica, dei corsi che stiamo seguendo. Non saprei dire con esattezza, ero piuttosto distratto. Poi non avevo voglia di partecipare, o forse non avevo cose da dire.

– Credevo che fossi uno che ha sempre qualcosa da dire. Almeno questa è l’idea che mi ero fatta quando ci siamo visti la prima volta a casa tua.

– Anche tu sei una che non si tira indietro.

– Se ti riferisci a quel medesimo giorno, chiarisco subito che era l’effetto di un grande imbarazzo. Quella visita formale, il fatto che mia madre tenesse tanto a presentarmi per quanto ero brava, mi aveva agitato, così ho reagito rompendo gli indugi e precipitandomi a rotta di collo. Dovete aver pensato che fossi una sciocca.

– Per niente. Hai fatto una grande impressione. Di misura e maturità anche.

– Non sono proprio sciocca. Ho le mie manie e cerco di tenerle a bada. Mi servono cose piccole da maneggiare. Piccole e semplici. Però devo averci continuamente a che fare. Queste cose che sto studiando realizzano questa necessità: piccoli problemi da risolvere, soluzioni che non salvano la vita a nessuno. Devo lavorarci nella mia bottega, con poca luce che illumina solo il pezzo che ho sul tornio, o sul deschetto, da sola. Non sono capace a lavorare con gli altri. Non sono misantropa né agorafobica, prendo la metropolitana e vado ai concerti; stringo anche la mano…

– E baci. Dissi, interrompendola.

Mentre parlava, la leva del bollitore era scattata. Si era alzata, aveva versato l’acqua nella teiera dandomi le spalle. Adesso si voltò.

– Che vuoi dire?

– Non dovrebbe essere difficile capirlo.

– Ti assicuro che lo è. Che vuoi dire?

– Mi riferisco al bacio che mi hai dato quel pomeriggio, a casa.

– Ti ho salutato urbanamente, come richiedevano le circostanze, come si salutano i parenti. Non vedo perché tu debba sottolinearlo.

– Non quello. Il bacio che mi hai dato prima, durante la conversazione, coprendo il gesto agli altri. Un bacio che mi ha sconvolto, non faccio fatica ad ammetterlo, e che è il contesto di ogni parola che ti ho scritto o ti dico, e attraverso il quale interpreto ogni parola che mi hai scritto o mi dici.

– Ma non ti ho dato nessun altro bacio. Come sarebbe stato possibile? Durante la conversazione, dici. Ma poi perché? Non c’era alcuna ragione e, anche se ve ne fosse stata, non sarebbe stato opportuno. Ma non c’era nessuna ragione. Non c’è stato nessun bacio. Cos’è questa storia?

Spinse la sedia verso la poltroncina. Disse ancora:

– Cos’è?

Era seria, non offesa né ostile. Non potevo insistere, perché senza alcun dubbio non mentiva. La stanza si inclinò di 15 gradi. Cos’è? Che storia è questa? Si alzò e versò il tè nelle tazze, me ne porse una.

– Bevi, disse. Come può capitare una cosa del genere, proprio non lo so. Dovresti aver capito che non sono una che va in giro a baciare la gente. Non escludo che se dovessi farlo saresti il primo a saperlo; né che quel pomeriggio tu mi sia piaciuto e che ti abbia guardato con affetto. Arrivo a dire: con una certa commozione del corpo. Posso dirti, visto che siamo a questo punto, che ho continuato a pensare a te. Ma questo lo avrai capito dalle lettere. Ma avrai capito anche che cosa sono io, cosa mi è concesso e cosa no. Allora queste cose che tu hai in mente sono irragionevoli, mettile da parte.

Era scossa e tremava. Le misi una mano sulla spalla, la prese e ne baciò il palmo. Poi disse, incoerentemente:

– L’amore l’abbiamo appena fatto. Se vuoi scopare, scòrdatelo: col bacio che dici che ti ho dato ho suggellato la mia verginità.

Era un congedo. L’ultimo treno era passato, così tornai a Trekroner a piedi. La temperatura era scesa e l’indomani avevo quaranta di febbre. Rimasi a letto tre giorni. Il secondo giorno venne un medico a visitarmi, una giovane dottoressa sposata con un medico di Padova, con la quale potei spiegarmi in italiano e che non mi prescrisse alcun farmaco. Il quarto giorno ero guarito e fortificato. L’inverno danese non aveva più effetto sul mio fisico. Non vidi più Claudia, né la sentii, il congedo era stato definitivo. Qualche volta la pensavo in una casa danese vicino al mare a lavorare al suo tornio, ma poi non più.

I poeti appartati: Paola Ivaldi

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Ph. Zhugher da Pixabay

Ph. Zhugher da Pixabay

 

Quattro poesie

di

Paola Ivaldi

 

Oplà
E levati le scarpe, e salta sul mio letto,
concedimi – suvvia – un piccolo pezzetto,
quell’intima poesia che non so più cos’è ,
parendo condannata a far tutto da me.

*

 

Non ancora
Trattenere gesti
deglutire parole
interrompere coiti, bloccare conati
e, sospesi singhiozzi e starnuti,
nelle tasche buie cacciare giù
giù fino nel fondo
mani tutte intirizzite
declinare gli occhi sul giorno
poi sbarrarli nella notte.
Questo non è il tempo della rinascita, no
della testa che, fradicia, emerge dal buco
ancora no, ma quasi, adesso
il pensiero fecondo ravviva i moti dell’anima
e ritroviamo, insieme, i passi sgomenti
delle stanche legioni disilluse.
E in tanti che saremo noi ci diremo: si riparte.

*

L’uscita delle quattro e mezza
Care voci chiare tintinnanti età dorate,
anni ancora che in una mano – piccola manina – stanno,
io v’ascolto rapita e risucchiata nei miei ieri,
declinata ancora all’esser mamma più che figlia,
graziandomi così, le potenti voci vestite di bianco,
carezzandomi assai più di nostalgia che di rimpianto.

 

*

Nulla da dichiarare
Vista da qui, l’esistenza è ben poca cosa
I nostri medaglieri son mezzi vuoti
Assai più numerose le volte in cui
Abbiamo dato il peggio di noi stessi
E non v’è modo alcuno di rimediare
A buchi, strappi e indelebili patacche
Solo accettare il vuoto che rimane
Al doganiere nulla da dichiarare.

Silvia Federici: «dal corpo magico al corpo macchina»

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È recentemente uscito per D Editore Oltre la periferia della pelle di Silvia Federici. Un’opera che non pacifica, un libro che – tanto negli affronti quanto nei dialoghi – interroga radicalmente gli scenari dei femminismi contemporanei, e il corpo come luogo ancora profondamente politico nel suo continuo farsi e disfarsi.

Ospito qui uno dei frammenti centrali per la riflessione sul capitalismo come macchina disciplinare.

 

Il corpo nel capitalismo: dal corpo magico al corpo macchina

In Calibano e la Strega (2004) ho affermato che la “storica battaglia” intrapresa dal capitalismo contro il corpo è scaturita da una nuova prospettiva politica che ha posizionato il lavoro come la fonte maggiore dell’accumulazione, concependo perciò il corpo come la condizione di esistenza della forza lavoro e come l’elemento principale di resistenza alla sua spesa. Si spiega in questo modo la crescita delle biopolitiche intese tuttavia non come un generico “gestire la vita” ma come un processo che storicamente ha richiesto costanti innovazioni sociali e tecnologiche oltre alla distruzione di tutte le forme di vita incompatibili con l’organizzazione del lavoro capitalista.

Al riguardo ho identificato l’attacco alla magia avvenuto nei secoli XVI e XVII e l’attuale crescita della filosofia meccanica come siti prediletti per la produzione di un nuovo concetto di corpo e dell’emergere di nuove collaborazioni tra la disciplina filosofica e lo Stato del terrore. Tutti e due hanno contribuito, sebbene con strumenti differenti e su registri diversi, a produrre un nuovo paradigma concettuale e disciplinare, concependo un corpo privo del suo potere di autonomia, fisso nello spazio-tempo, capace di uniformare, regolare e controllare tutti i suoi comportamenti.

Nel Sedicesimo secolo, la macchina della disciplina era già all’opera per perseguire la creazione di un individuo adatto al lavoro astratto e che fosse al contempo costantemente da riorganizzare a seconda dei cambiamenti nell’organizzazione del lavoro, delle forme di tecnologia dominante e della resistenza a essere assoggettato.

La resistenza ci mostra come, mentre nel XVI secolo il modello che ispirò la meccanizzazione del corpo era una macchina esterna, del tipo della pompa o della leva, nel XVIII secolo il corpo si fosse già evoluto in una macchina più organica, che si muoveva da sola. Con la diffusione del vitalismo e della teoria degli “istinti” (Barnes e Shapin, 1979, p. 34), abbiamo una nuova concezione del corporeo, che spiana la strada a un tipo di disciplina diverso, meno basato sulla frusta e più dipendente dal gioco di dinamiche interne, un possibile segno dell’interiorizzazione dei requisiti disciplinari imposti dal processo lavorativo, conseguenza del consolidamento del lavoro salariato.

Il salto più rilevante fatto dalla filosofia politica dell’Illuminismo nell’ambito dell’arsenale di strumenti richiesti dalla trasformazione del corpo in forza lavoro è stato però il giustificare scientificamente la disciplina del lavoro e l’eliminazione di qualsiasi devianza da essa. Rimpiazzando l’attrattiva esercitata dalla stregoneria e dall’adorazione del diavolo, la biologia e la fisiologia del XVIII secolo hanno giustificato le gerarchie razziali e di genere e la creazione di diversi regimi disciplinari, sviluppando contemporaneamente una divisione sessuale e internazionale del lavoro. Molto del progetto intellettuale dell’Illuminismo ruotava attorno a questo sviluppo, nonostante abbia inventato la razza e il sesso (Schiebinger, 2004, pp. 143-83; Bernasconi, 2011, pp. 11-36) o abbia prodotto nuove teorie monetarie che intendevano i soldi come uno stimolo a lavorare, piuttosto che come indicatore di una ricchezza del passato (Caffentzis, 2000; Caffentzis, in fase di pubblicazione). È vero che non possiamo comprendere la cultura e la politica dell’Illuminismo – i dibattiti tra monogenisti e poligenisti, la ricostruzione della fisiologia maschio/femmina come due generi incommensurabilmente diversi (Laqueur, 1990, pp. 4-6), gli studi di craniologia che “dimostravano scientificamente” la superiorità del cervello maschio e bianco (Stocking, 1988) – senza collegare questi fenomeni alla naturalizzazione delle diverse forme di sfruttamento, specialmente quelle al di fuori del parametro legato al salario.

In questo contesto si è tentato di attribuire la diffusione di un meccanismo più organico, evidente nel XVIII secolo in tutto il campo della filosofia e della scienza, alla crescente biforcazione della forza lavoro, e alla formazione di un proletariato maschio e bianco, non ancora in grado di autocontrollarsi ma, come dimostrato da Peter Linebaugh in The London Hanged (1992), che accettava sempre di più la disciplina del lavoro salariato. Si è tentato, in altre parole, di immaginare che lo sviluppo della teoria del magnetismo nel campo della biologia, della teoria degli istinti in filosofia e nell’economia politica (per esempio si parlava dell’istinto a commerciare), e del ruolo dell’elettricità e della gravità nella fisica o nella filosofia naturalista – tutti presupponenti un modello di corpo più mente che non carne e che si spingeva da solo ad andare avanti – riflettano la crescente divisione del lavoro e, con ciò, la crescente differenziazione nel modo in cui i corpi venivano trasformati in forza lavoro. Si tratta di un’ipotesi che dovremmo esplorare maggiormente. Ciò che è certo è che con l’Illuminismo vediamo un nuovo passo nell’assimilazione dell’umano alla macchina, mentre visioni ricostruite della biologia umana forniscono una base per le nuove concezioni meccaniche dell’uomo e della natura.

La psicologia e la trasformazione dei corpi in forza lavoro nell’età industriale

Avrebbe dovuto essere compito della psicologia di fine Novecento perfezionare la costruzione dell’“uomo macchina”, destituendo la filosofia dal suo ruolo strategico. A causa della credenza nelle leggi psicofisiche e delle regolarità causali, la psicologia è diventata la serva del taylorismo, con il compito di contenere i danni causati dal sistema alla psiche dei lavoratori e di stabilire le connessioni appropriate tra umani e macchine. Il coinvolgimento della psicologia nella vita industriale si è intensificato dopo la Prima Guerra Mondiale, che ha fornito agli studi clinici una massa di soggetti uniforme e obbediente, provvedendo a creare un laboratorio formidabile per lo studio dei “comportamenti” e dei mezzi di controllo adatti a ciascuno di essi (Brown, 1954; Rozzi, 1975, pp. 16-17). Inizialmente preoccupata degli effetti del lavoro muscolare sul corpo, ma presto chiamata a far fronte all’assenteismo e ad altre forme di resistenza alla disciplina dell’industria, la psicologia è diventata rapidamente la scienza con il compito di controllare la forza lavoro. Più dei dottori e dei sociologi, gli psicologi sono intervenuti nella selezione dei lavoratori conducendo migliaia di colloqui, somministrando migliaia di test per scegliere “il miglior uomo per la mansione”, per scovare frustrazioni e decidere promozioni (Rozzi, p. 19).

Attribuire patologie intrinseche dell’organizzazione industriale del lavoro a una realtà preesistente, istintiva, (bisogni, inclinazioni, attitudini) e dare un’apparenza di scientificità alle politiche dettate solo dalla ricerca del profitto ha fatto sì che gli psicologi, fin dagli anni Trenta, fossero presenti in fabbrica, a volte in qualità di impiegati a tempo indeterminato, e che intervenissero direttamente nel conflitto tra lavoro e capitale. Come Renato Rozzi nota in Psicologi e Operai (1975), questo intervento nella lotta è stato cruciale proprio per lo sviluppo della psicologia come disciplina. Il bisogno di controllare i lavoratori ha costretto gli psicologi a riconoscere la loro “soggettività” e a adeguare le loro teorie agli effetti della resistenza dei lavoratori. La lotta per la riduzione dell’orario lavorativo, per esempio, è nata in un turbinio di studi medici sul problema della fatica muscolare, rendendolo per la prima volta un concetto scientifico (Rozzi, 20n, p. 158).

Tuttavia la psicologia dell’industria ha continuato a rinchiudere i lavoratori in una rete di costrizioni – il discorso delle inclinazioni, delle attitudini, delle disposizioni naturali – costruita sulla sistematica mistificazione dell’origine delle “patologie” e sulla normalizzazione del lavoro alienante. Il compito degli psicologi è stato quello di negare ogni giorno la realtà dei lavoratori, al punto che gli studi del periodo non hanno alcun valore, come sostiene Rozzi, se non quello di fornire un punto di vista storico o genealogico. È impossibile, per esempio, accettare seriamente teorie come quella della “propensione agli incidenti” (Brown, pp. 257-59), usate regolarmente negli anni Cinquanta per spiegare la frequenza di incidenti sui luoghi di lavoro statunitensi e sostenere l’inutilità dei miglioramenti apportati al luogo di lavoro.

La psicologia è stata essenziale anche al rimodellamento della riproduzione sociale, in particolare attraverso la razionalizzazione della sessualità. L’attenzione posta sulla teoria di Freud e sulla sua costruzione di una concezione della femminilità con basi biologiche, insieme alla sua messa in relazione con la crisi di fine secolo della famiglia della classe media (che Freud credeva essere scaturita dall’eccessiva repressione sessuale delle donne) hanno offuscato il contributo dato dalla psicologia alla disciplina della sessualità della classe lavoratrice, soprattutto a quella delle donne. È indicativa la teoria di Cesare Lombroso secondo cui la prostituta “nasce criminale” (Lombroso e Ferrero, [1893] 2004, pp. 182-92), ispirazione di tutta una serie di studi antropometrici a sostegno della convinzione che la donna che sfidava il ruolo assegnatole alla nascita compisse un salto all’indietro nella scalata dell’evoluzione. La costruzione dell’omosessualità, dell’inversione e della masturbazione come disturbi psichiatrici (si veda, per esempio, Kraft-Ebbing, Psycopathia Sexualis) e la “scoperta” di Freud dell’orgasmo vaginale nel 1905, fanno parte dello stesso progetto. Questa tendenza ha avuto il suo culmine con l’avvento del fordismo, la cui epocale introduzione del salario di cinque dollari al giorno garantiva al lavoratore i servizi di una donna, legando indissolubilmente il suo diritto alla “soddisfazione” sessuale al salario, rendendo al contempo il sesso una parte essenziale del lavoro delle casalinghe. Non è un caso se, durante la Grande Depressione, le donne proletarie che chiedevano l’elemosina venissero requisite dagli assistenti sociali se sospettate di “atteggiamento di promiscuità” frequentando per esempio un uomo senza alcuna prospettiva di matrimonio, e venissero poi messe in manicomi alla mercé di psicologi incaricati di convincerle a farsi chiudere le tube per riconquistare la libertà. Negli anni Cinquanta, la pena per le donne che si ribellavano era ancora più severa dato che si era scoperta la lobotomia, un trattamento ritenuto particolarmente adatto alle casalinghe depresse e fallite che avevano perso il gusto per il lavoro domestico[1].

La psicologia fu portata anche nelle colonie con la teorizzazione dell’esistenza di una personalità africana, giustificando l’inferiorità dei lavoratori africani rispetto a quelli europei e, su questa base, l’introduzione di differenze salariali e della segregazione razziale. Dagli anni Trenta in poi, in Sudafrica gli psicologi hanno ricoperto un ruolo cruciale nell’applicazione dei rituali di degradazione che, sotto il falso nome di “test per la tolleranza al calore” preparavano gli africani a lavorare nelle miniere d’oro, portandoli verso una situazione lavorativa che li privava di qualsiasi diritto (Butchart, pp. 93-103).

Uno sguardo al presente

Cosa abbiamo imparato da questa storia? Tre lezioni importanti. La prima, abbiamo imparato che la disciplina del lavoro capitalista richiede la meccanizzazione del corpo, la distruzione della sua autonomia e della sua creatività, e che nessun resoconto della nostra vita psicologica e sociale dovrebbe ignorare questo dato. La seconda, complici della trasformazione dei corpi in forza lavoro, gli psicologi hanno violato i presupposti della loro devozione alla scienza, ignorando aspetti chiave della realtà che avrebbero dovuto analizzare, come la repulsione dei lavoratori verso l’irreggimentazione che il lavoro in fabbrica impone sul corpo e sulla mente.

La lezione più importante è che la storia della trasformazione del corpo in forza lavoro rivela la profondità della crisi che il capitalismo si trova ad affrontare fin dagli anni Sessanta. È una crisi che la classe capitalista ha tentato di contenere con la riorganizzazione globale del processo di lavoro ma che è riuscita solo a rifocillare le contraddizioni alla base della sua nascita a un livello ancora più esplosivo, poiché diventa chiaro ogni giorno di più che i meccanismi che garantiscono la disciplina richiesta per la produzione del valore non sono più in moto. I movimenti degli anni Sessanta e Settanta sono stati un punto di svolta sotto questo aspetto, hanno espresso una rivolta contro il lavoro in fabbrica che aveva investito ogni articolazione della “fabbrica sociale”, dalla catena di montaggio al lavoro domestico, alle identità di genere funzionali a tutti e due. La depressione degli operai, la richiesta dei lavoratori di avere pause piuttosto che più soldi in cambio di più lavoro, il rifiuto femminista della naturalizzazione del lavoro riproduttivo e l’ascesa del movimento gay, seguito di poco dal movimento transessuale, sono davvero esemplari. Esprimono il rifiuto di ridurre la propria attività a lavoro astratto, di rinunciare alla soddisfazione dei propri desideri, di interfacciarsi al corpo come fosse una macchina, di determinare e l’intento di definire il corpo in modo indipendente dalla nostra capacità di funzionare in quanto forza lavoro.

 

[1] La lobotomia è stata pratica comune per oltre due decenni, diffusa per lo più negli Stati Uniti, dove negli anni Cinquanta quasi quarantamila persone furono sottoposte alla procedura, la prima eseguita nel 1936. Il picco di casi si ebbe nel 1949, quando si praticarono oltre cinquemila operazioni. Le lobotomie venivano eseguite anche in Gran Bretagna e nei tre Paesi nordici, Finlandia, Norvegia e Svezia. Gli ospedali scandinavi lobotomizzarono due volte e mezzo più persone per capita degli ospedali negli Stati Uniti. La stragrande maggioranza dei pazienti sottoposti a questa procedura era donna. Si veda Joel Braslow, Therapeutic Effectiveness and Social Context: The Case of Lobotomy in a California State Hospital, 1947-1954, in Western Journal of Medicine, vol. 170, n.5, BMJ, London 1999, pp. 293-96. Nonostante la perdita di spontaneità e desideri individuali, sia i dottori che i mariti ritenevano che le donne lobotomizzate traessero grande giovamento dall’operazione, consideravano l’abilità di cucinare, di pulire e di portare a termine le faccende di casa come parte integrante della ripresa post-operatoria.

Un corpo che si chiama desiderio. Wittig ritradotta

1

di Jamila Mascat

VandA ha recentemente ripubblicato Il corpo lesbico di Monique Wittig nella traduzione di Deborah Ardilli, che ne ha anche curato l’introduzione.

Qui di seguito l’incipit dell’introduzione e del libro.

di Deborah Ardilli

All’interno del romanzo di formazione della generazione che, nell’ultimo scorcio del Novecento, ha tentato l’assalto al dominio patriarcale, Monique Wittig occupa il posto riservato alle grandi esploratrici, alle intrepide che prendono il largo per inoltrarsi in mare aperto, in attesa di essere raggiunte da chi è rimasta indietro. «Wittig è stata il nostro primo spaesamento culturale», ha scritto Simonetta Spinelli (2001) rievocando la forza d’urto di una scrittrice* capace di far deflagrare assetti categoriali ritenuti intangibili e, perciò stesso, di suscitare reazioni contrastanti nella generazione femminista e lesbica degli anni Settanta. In generale, non è affatto raro che il disorientamento provocato dall’incontro con l’inaudito dia luogo a risposte divergenti, sospese tra i poli estremi dell’accettazione senza riserve e del rifiuto pregiudiziale. Lo spaesamento può essere la prima tappa di un’avventura politica e conoscitiva perseguita fino alle estreme conseguenze o, viceversa, può indurre l’attivazione di meccanismi difensivi finalizzati a neutralizzare l’agente estraneo insinuatosi in un sistema di credenze naturalizzate. In particolare, se si volge lo sguardo alla prima ricezione italiana del Corpo lesbico, apparso in traduzione nel 1976 per le Edizioni delle Donne, salta agli occhi una pronunciata tendenza alla neutralizzazione.

Certo, il vantaggio prospettico della posterità impone un esercizio di carità ermeneutica nei confronti del lavoro di chi ci ha precedute: le valutazioni che oggi sono possibili, all’epoca erano precluse, o rese difficilmente udibili, da una serie di fattori contestuali che hanno pesantemente condizionato la ricezione italiana di Wittig. Nel 1976 non esiste ancora, nel nostro Paese, una vera e propria soggettività lesbofemminista e i contatti del movimento delle donne con l’area francese sono mediati quasi esclusivamente da incontri periodici con le donne di Psychanalyse et politique, il gruppo raccolto intorno all’autorità carismatica di Antoinette Fouque, avverso al riconoscimento politico del lesbismo e incline semmai a riferirsi a un’omosessualità primaria concepita in chiave psicoanalitica. Per Psychanalyse et politique, la funzione del movimento delle donne consisteva infatti nel riattivare l’originaria relazione madre-figlia in modo da farne la via maestra per il recupero della differenza femminile forclusa dall’ordine fallogocentrico. Era questa la forma archetipa dell’omosessualità individuata da Fouque, per altro convinta che non esistesse nulla di più falso della celebre affermazione di Simone de Beauvoir – successivamente ripresa da Wittig in chiave lesbica – secondo cui «donna non si nasce». A propria volta, la valorizzazione simbolica dell’omosessualità primaria e della libido femminile che le era connessa – una libido creandi assimilata in tutto e per tutto alla procreazione – era intesa da Fouque come tappa essenziale di processo più ampio, finalizzato alla costruzione di relazioni più “autentiche” con gli uomini, libere dal potere, fondate sull’amore e sull’avvento di una “vera” eterosessualità. Poste tali premesse, l’ostilità di Psychanalyse et politique era riservata alla tendenza femminista rivoluzionaria, rea di volersi liberare simultaneamente della discriminazione e della differenza sessuale, e a maggior ragione alla coscienza politica lesbica che, in quella tendenza, affondava le proprie radici. Il lesbismo politico, inteso come indisponibilità permanente allo sguardo maschile, come denuncia vivente dell’oppressione patriarcale, come possibilità incarnata di rimettere in questione la società eterosessuale e le sue istituzioni, rappresentava, all’interno del quadro politico e concettuale disegnato da Psychanalyse et politique, una provocazione inconcepibile o, al più, una fissazione di segno regressivo.

Nella battaglia delle idee, Antoinette Fouque poteva inoltre giovarsi di una risorsa egemonica come le éditions des femmes la casa editrice creata nel 1972 da Psychanalyse et politique, grazie ai generosi finanziamenti dell’ereditiera Sylvina Boissonnas, con l’obiettivo di promuovere la letteratura femminile rifiutata dalle case editrici mainstream e di creare un presidio culturale capace di fare da cassa di risonanza alla teoria della differenza sessuale.

L’ambiguità irrisolta tra la denigrazione del lesbismo, squalificato da Psychanalyse et politique come grottesca imitazione del modello maschile, e l’enfatica messa in scena dell’amore tra donne, è stata il binario ideologico su cui ha viaggiato Il corpo lesbico nella sua prima sortita al di qua delle Alpi: circostanza, questa, che ha impedito alle femministe italiane di apprezzare appieno la novità della visione politica del lesbismo tratteggiata da Wittig. Se la scrittrice francese intuisce precocemente la necessità di accelerare il passo per non lasciar rifluire la radicalità originaria del movimento, le italiane continuano invece a procedere con maggiore prudenza. Del resto, l’eco dei conflitti che infiammano il movimento di liberazione delle donne a Parigi, in particolare a partire dal momento in cui Wittig inizia a premere (senza successo) per la costituzione di un Fronte Lesbico Internazionale**, non raggiunge il nostro Paese: le prime manifestazioni di autocoscienza lesbica legate al femminismo si sviluppano in un contesto non toccato dalla «grande disputa tra le madri e le amazzoni» (Wittig e Zeig [1976] 2020, p. 51) che, a metà degli anni Settanta, porta la scrittrice ad allontanarsi dalla Francia e a stabilirsi negli Stati Uniti. Estranee ai quadri di riferimento entro cui si svolge la discussione fra le femministe italiane in quegli anni sono anche le premesse teoriche che, in Wittig, saldano l’affermazione del punto di vista lesbico all’attacco sferrato contro l’eterosessualità, intesa come sistema sociale fondato sull’appropriazione delle donne da parte degli uomini e come forma ideologica volta a giustificare, tramite la dottrina della differenza tra i sessi, tale appropriazione. Mancano ancora all’appello gli scritti in cui Wittig espone i lineamenti teorici della propria politica; e soprattutto manca, in Italia, un filone autoctono di femminismo radicale e materialista in grado di sintonizzarsi con la proposta della francese.

Date queste condizioni, sfugge una chiave interpretativa indispensabile per avvicinare Il corpo lesbico: nella pratica politica, letteraria e teorica di Wittig il lesbismo non denota un orientamento sessuale o un marchio identitario, non configura un’ennesima differenza essenziale candidata al riconoscimento. Esso si pone invece come negazione determinata di un rapporto sociale di oppressione e, perciò stesso, come punto prospettico privilegiato in vista della ricostruzione del contratto sociale al di là dei meccanismi costitutivi di alterizzazione e inferiorizzazione delle donne riprodotti nel contesto del dominio eterosessuale. Come ha sottolineato Christine Delphy, sua sodale all’interno delle Féministes Révolutionnaires e delle Gouines Rouges (le “lesbicacce rosse”) nei primi anni Settanta e poi ancora nei tre anni di vita della rivista Questions féministes (1977-1980), Wittig non è stata certo la prima scrittrice francese a far sapere di essere “omosessuale”: è stata invece la prima «ad aver collocato il lesbismo al centro della sua politica, e la sua politica al centro del lavoro di scrittura» (Delphy [1985] 2020). Al di fuori di queste coordinate, la prima ricezione italiana del Corpo lesbico risente di una provincializzazione profondamente equivoca del messaggio wittighiano. Ascritto d’ufficio al novero della “scrittura femminile”, il libro è presentato come un esempio di rivalutazione della differenza sessuale, alla sua figurazione del lesbismo vengono attribuite le fattezze di un’omosessualità onirica equivalente all’autoerotismo femminile e i presupposti di poetica che governano l’orchestrazione del testo passano clamorosamente inosservati.

[…]

*Wittig prediligeva per sé la denominazione écrivain (scrittore), in luogo del femminile écrivaine (scrittrice), per distanziarsi da esponenti dell’écriture féminine come Hélène Cixous, Luce Irigaray, Annie Leclerc e Chantal Chawaf, a cui imputa un fraintendimento naturalistico del lavoro di scrittura, ridotto alla stregua di una secrezione naturale. Ciò nonostante, al pari di altre studiose (per esempio Feole 2020), utilizzerò il sostantivo “scrittrice” per indicare Wittig, ferma restando la necessità di dissociare il termine da ogni riferimento alla “scrittura femminile” e al suo apparato categoriale: differenza, specificità, natura, produzione inconscia, rimandi metaforici alla generatività corporea. Sulla critica di Wittig all’écriture féminine, cfr. Wenzel 1981; Griffin Crowder 1983; Armengaud 1998; Lasserre 2018.

** Wittig inizia a pensare al progetto della costituzione di un Fronte Lesbico Internazionale nel novembre del 1974, in occasione della Conferenza Internazionale delle Donne di Francoforte, a cui partecipano 600 donne provenienti da 18 paesi. L’idea di una coalizione lesbica internazionale è la proposta politica che Wittig lancia per evitare un riassorbimento del movimento di liberazione delle donne all’interno dell’ideologia patriarcale, eventualità che nella Francia di quel periodo appariva tutt’altro che remota: il 1974, infatti, non è solo l’anno dell’esplosione pubblica dell’écriture féminine, ma anche quello della creazione del Segretariato di Stato sulla condizione femminile, istituito dopo l’elezione presidenziale di Valéry Giscard d’Estaing. La proposta, tuttavia, non sopravvive all’ostilità che Wittig incontra non tanto da parte di Psychanalyse et politique quanto da parte della componente maggioritaria delle Féministes Révolutionnaires. Per la ricostruzione di queste vicende, si vedano Turcotte 2003 ed Eloit 2018; 2019. L’amarezza e la disillusione di Wittig per gli esiti di quelle vicende hanno trovato una trasposizione letteraria in Paris-la-politique (Wittig 1999).

***

Monique Wittig,  Il corpo lesbico

In questa geenna dorata adorata nera è tempo di dire addio m/ia molto bella m/ia molto forte m/ia molto indomita m/ia molto sapiente m/ia molto feroce m/ia molto dolce m/ia prediletta, a ciò che esse chiamano l’affetto la tenerezza o il grazioso abbandono. Ciò che ha corso qui, nessuna lo ignora, non ha nome per ora, che esse lo cerchino se ci tengono veramente, che si lancino in una battaglia di belle rivalità, cosa di cui i/o m/i disinteresso quasi completamente mentre tu puoi con voce da sirena supplicare qualcuna dalle ginocchia brillanti di venirti in aiuto. Ma lo sai, nessuna potrà sopportare di vederti gli occhi revulsi le palpebre tagliate gli intestini gialli fumanti spalmati nell’incavo delle tue mani la lingua sputata fuori dalla bocca i lunghi filamenti verdi della bile colanti sui tuoi seni, nessuna potrà sopportare l’ascolto della tua risata bassa frenetica insistente. Lo splendore dei tuoi denti la tua gioia il tuo dolore la vita segreta delle tue viscere il tuo sangue le tue arterie le tue vene i tuoi abitacoli cavi i tuoi organi i tuoi nervi la loro disgregazione il loro zampillo la morte la lenta decomposizione il lezzo il divoramento da parte dei vermi il tuo cranio aperto, tutto sarà per loro ugualmente insopportabile.

Se qualcuna pronuncia il tuo nome m/i sembra che le orecchie siano sul punto di caderm/i pesantemente a terra, sento il sangue surriscaldarsi nelle m/ie arterie, percepisco d’un tratto i circuiti che irriga, un grido m/i sale dal fondo dei polmoni per farm/i scoppiare, stento a contenerlo, i/o divento bruscamente il luogo dei più oscuri misteri, la pelle m/i si accappona e si copre di macchie, i/o sono la pece che brucia le teste assalitrici, i/o sono il coltello che squarcia la carotide delle agnelle neonate, i/o sono le pallottole delle mitragliatrici che perforano gli intestini, i/o sono le tenaglie arroventate al fuoco che tormentano le carni, i/o sono la frusta che flagella la pelle, i/o sono la corrente elettrica che folgora e paralizza i muscoli, i/o sono il bavaglio che imbavaglia la bocca, i/o sono la benda che copre gli occhi, i/o sono i lacci che legano le mani, i/o sono l’aguzzina forsennata galvanizzata dalle torture e le tue grida m/i eccitano tanto più m/ia prediletta perché le trattieni. A questo punto i/o ti chiamo in m/io aiuto Saffo m/ia incomparabile, damm/i a migliaia le dita che leniscono le ferite, damm/i le labbra la lingua la saliva che porta nel lento nel dolce nel velenoso paese da cui non si può fare ritorno.

Scopro che la tua pelle può essere rimossa delicatamente pellicola per pellicola, tiro, si solleva, si avvolge sopra le tue ginocchia, a partire dalle ninfe tiro, scivola lungo il ventre, sottile fino all’estrema trasparenza, a partire dai lombi i/o tiro, la pelle scopre i muscoli rotondi e i trapezi della schiena, si solleva fino alla nuca, arrivo sotto i tuoi capelli, le m/ie dita ne attraversano la massa, tocco il tuo cranio, lo tengo con tutte le dita, lo comprimo, palpo la pelle sull’insieme della scatola cranica, strappo brutalmente la pelle sotto i capelli, scopro la bellezza dell’osso lucente percorso da vasi sanguigni, le m/ie mani frantumano la volta e l’occipite dietro, le m/ie dita ora sprofondano nelle circonvoluzioni cerebrali, le meningi sono attraversate mentre il liquido rachidiano defluisce da ogni parte, le m/ie mani sono immerse negli emisferi molli, cerco il bulbo rachidiano e il cervelletto racchiusi sotto da qualche parte, ti ho afferrata ora tutta intera muta immobilizzata ogni grido bloccato in gola i tuoi ultimi pensieri dietro gli occhi chiusi nelle m/ie mani, il giorno non è più puro del fondo del m/io cuore m/ia amatissima.

Con i tuoi diecimila occhi tu m/i guardi, lo fai e sono i/o, non m/i muovo, ho i piedi completamente piantati nella terra del suolo, m/i lascio raggiungere dai tuoi diecimila sguardi o se preferisci dallo sguardo unico dei tuoi diecimila occhi ma non è lo stesso, questo sguardo immenso m/i tocca in ogni parte, esito a muoverm/i, se alzo le braccia verso il sole tu abbassi gli occhi di sbieco rispetto alla luce, scintillano ma tu m/i guardi oppure se vado verso l’ombra ho freddo i tuoi occhi non sono visibili là dove tu m/i segui neanch’i/o sono vista da te, i/o sono muta in questo deserto svuotato dei tuoi diecimila occhi più nero del nero in cui i tuoi occhi m/i apparirebbero diecimila alla volta neri e brillanti, i/o sono sola fino a quando sento come dei rumori di campane dei rintocchi si dice, tremo, ho le vertigini, m/i risuona dentro, m/i sconvolge, è la musica degli occhi m/i dico, sia che si urtino dolcemente e con violenza sia che da soli producano questi suoni molteplici, cado bocconi davanti o dietro da questa parte o dall’altra, gesticolo disordinatamente il tempo di capire che i/o non posso sfuggire alla molteplicità dei tuoi sguardi, ovunque i/o sia tu m/i guardi m/ia ineffabile con i tuoi diecimila occhi.

 

 

Troppo stretta, questa morte

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di Ornella Tajani

Troppo stretta, questa morte è il romanzo d’esordio di Serena Cacchioli che, seppur ancora inedito in italiano, è stato fin da ora pubblicato in portoghese per le edizioni Lingua Morta (Lisbona) nella traduzione di Sofia Andrade. Già nell’infanzia editoriale di questo libro c’è dunque una spaccatura, che ne è in fondo la figura strutturale: non solo perché la narrazione è divisa tra due paesi, e due città in particolare – Lisbona e Parma –, ma anche perché il punto focale del testo si situa fra due grandi temi, il lutto e il desiderio.
In Un destino di felicità, sorta di abbecedario rimbaldiano, Philippe Forest sceglieva il termine Deuil (lutto, appunto) per la lettera D, ossia quello che a suo avviso rappresentava il rovescio della medaglia del Désir. Riprendendo una definizione di Aragon, Forest spiegava che Deuil e Désir formavano il suo “Sistema Dd”, il suo sistema Dada. «Deuil è la parola che spezza la vita in due, stabilendo un prima e un dopo; ma è anche il vuoto, la mancanza strutturante che il desiderio cerca per tutta la vita di colmare», scrivevo nella recensione.
Anche il romanzo di Cacchioli sembra governato da un «sistema dada», alla cui origine sta il lutto materno: un vuoto, un enigma rimasto tale finché la narratrice non intraprende una sorta di indagine sulle tracce della madre, per ricostruirne la figura e il percorso, per recuperarne le tracce e i ricordi – indagine che necessariamente si rinfrange su chi narra, costringendo a interrogarsi e accompagnando nuove tappe della formazione. La ricerca di chi non c’è più diventa anche racconto di chi c’è, di chi parla; l’intento di ricomporre un ritratto porta a (ri)disegnare due figure femminili, figlia e madre.
Troppo stretta, questa morte, il cui titolo è ripreso da una frase che Alfio pronuncia in La storia di Morante, resta dunque più un racconto di formazione che un récit de filiation, come il critico Dominique Viart ha definito i testi in cui il protagonista è un ascendente di chi narra – o, al limite, è un racconto di filiazione in absentia, che dunque si presta a esercizi di immaginazione sulla cui legittimità s’interroga la stessa narratrice.
L’italiano di questo romanzo è ibridato dalla conoscenza e dall’esperienza di altre lingue, dalle quali ha assorbito molto, salvo poi distaccarsene e conservarne soltanto delle venature, che a tratti rilucono tra le righe; è una lingua intrisa di letteratura e poi lasciata essiccare a lungo, fino a raggiungere una pulizia e una potenza notevoli – il tutto incorniciato in una struttura in frammenti ben governati, quasi dei piccoli quadri autonomi.
Presento qui alcuni estratti del libro, con l’augurio di vederlo presto pubblicato anche in Italia.

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2.

Rimasugli mentali di un viaggio in treno verso Cesinali con la nonna materna, la nonna Italia. Era sorridente e sferica, sferruzzava in carrozza e rispondeva con poche parole alle mie domande. Nel nostro vagone passavano varie persone, ma nessuna si fermava per tutta la durata del viaggio. La prima volta che la nonna aveva visto il mare, mi aveva raccontato, era stato dal finestrino di un treno. Aveva quarant’anni e pensava che fosse un campo di verze. A lei nessuno aveva mai detto che esistesse il mare. Andavamo, scorrendo sui binari, verso un posto dove lei era nata e cresciuta, dove avrei potuto immaginarla bambina come me. Il posto dove aveva messo al mondo i suoi figli, tra cui mia madre. Un posto che poi mi era sembrato solo un paesino incastonato fra le montagne, freddo anche in estate, devastato da ricordi di terremoti e tragedie. Un posto attraversato da continue processioni, feste di paese, pannocchie fritte, musica di chitarra e concertina. Non riuscivo a immaginarla lì. Mi raccontava che andava a piedi dal paese più piccolo fino a quello più grande, molti chilometri che allora io non sapevo concepire come distanza, tutti fatti con una cesta di verdure dell’orto sulla testa, sulla capa, da vendere al mercato. Una vita di avanti e indietro a piedi, senza conoscere nient’altro se non il suo orto, il paese più piccolo e il paese più grande. E la strada tortuosa e in salita che li univa. Tutta una vita racchiusa nel percorso tra un paese e l’altro. Io, la nonna, la sapevo immaginare solo dove l’avevo conosciuta: nel suo appartamento al quarto piano di via Abbeveratoia, con due stanze piccole piccole, dove il massimo del suo percorso era andare dal divano alla sedia e dalla sedia al divano, ricevendo in viso il riverbero azzurro della televisione che non guardava.

 

3.

L’ultima volta che sono tornata in Italia ho preso e portato con me alcuni oggetti che sono appartenuti a mia madre. Di tutti, il mio preferito è un maglione giallo opaco e sformato. Era un maglione che aveva passato anni da solo nell’armadio di casa, un po’ scostato da una pila di altri indumenti che le zie non avevano preso. Ha aspettato paziente il momento che io raggiungessi la grandezza giusta per riempirlo. Verso i quindici anni potevo già metterlo e forse ogni tanto lo provavo davanti allo specchio, ma ho cominciato a indossarlo veramente soltanto all’inizio dell’università. Lo usavo nelle sere d’estate quando fa caldo di giorno, ma fresco di sera. È un maglione di cotone, sembra pesante e invece è leggero, lascia passare tutta l’aria. Mi ero sorpresa a usarlo nelle occasioni che mi sembravano importanti. Lo portavo un pomeriggio sul lungomare di Livorno, a mo’ di portafortuna e poi lo portavo una sera, a Pisa, una volta che si doveva mettere un punto a una storia, oppure trovare il modo di continuare. La sera che invece si rovesciò, inavvertitamente, un bicchiere di vino rosso sul mio maglione. Irrecuperabile. La macchia si allargò arrestando il dialogo all’improvviso. Noi, sotto ai portici di Piazza Vettovaglie, in bilico sulle sedie d’acciaio, con lo stuzzicadenti a metà tra la bocca e l’oliva, le tartine sparse sul tavolo e i dialoghi interrotti. Quando ci scongelammo, sentii una voce che diceva te lo lavo, te lo recupero, lascialo a me, non preoccuparti. Sapeva quanto fosse importante. Ma ci stavamo lasciando, quella sera. Non potevo di certo dare in affidamento il maglione così. Ma sì invece, che c’entra, te lo lavo, te lo pulisco, poi te lo restituisco. Ma no, invece, e se non ci rivediamo mai più? Ma non dire sciocchezze, le so togliere le macchie di vino, te lo riporto in settimana. Lo tenni con la macchia e in settimana non ci rivedemmo. Io non le sapevo togliere le macchie di vino. E ogni volta che lo guardo, quel maglione sbiadito, mi ricordo di quella sera dolorosa, l’inizio di un’incrinatura definitiva. Da quel giorno in poi ho iniziato a metterlo solo ogni tanto, solo in casa. Mi ci sdraio dentro, mi ci dimentico di me. Ho una foto della mamma con quel maglione. Siamo io e lei contro un parapetto, abbiamo il vento nei capelli, io sono piccola, con il caschetto scompigliato, forse non so nemmeno ancora scrivere e ci teniamo per mano. Lei ha i capelli corti, un po’ mossi, non so dov’eravamo, né che anno fosse. Dopotutto la geografia non conta e l’anno nemmeno. Quello che conta è la testimonianza di quella calma atemporale, di quel maglione nel vento ancora senza macchie, e della mia mano nella sua mano, piccola com’ero.

4.

Ma provo sempre una certa difficoltà anche solo a scrivere o dire la parola madre o mamma. Difatti non la dico mai, neanche quando mi devo riferire a quella delle mie amiche. Cerco sempre il nome proprio della persona o un altro modo per chiamarla. Quella parola ha, nella sua facilità linguistica, qualcosa di arcaico e di morbido che mi turba. Mi ha sempre messo in imbarazzo la naturalezza con cui sta sempre sulla bocca di tutti, anche abbreviata o vezzeggiata: ma’, mami, memi. Mi chiedo come far fronte a questa parola. Mi chiedo se non sia il caso di riafferrare qualche filo, anche solo linguistico, rimasto spezzato da qualche parte nel tempo, e riannodarlo a me. Ho sempre fatto poche domande in casa e, ogni volta che chiedevo qualcosa, mi sembrava di dover sollevare una pietra enorme che richiedesse delicatezza e destrezza nel maneggiarla, oltre a una gran fatica. Non sapevo mai cosa avrei trovato sotto quella pietra. A volte polvere, a volte ricordi, spesso lacrime, a volte, invece, niente. E quel niente ha riempito tutto il tempo dell’infanzia, dell’adolescenza, fino all’oggi. Un vuoto di memoria dopo l’altro, ognuno pieno di niente. Un tentativo dopo l’altro di sollevare la pietra senza trovarci sotto granché. Non per assenza di informazioni, né per un qualche tabù. Non per estrema delicatezza, né per morbosità. Non per mancanza di domande, né per mancanza di risposte. Soltanto che veniva più facile non parlarne più. Abbiamo iniziato tutti a fare altre cose. Ognuno si è infilato nella propria vita portandosi dentro di sé un lutto segreto. Io ero piccola, con poco criterio di me stessa e non so dove avessi deciso di nascondere la tristezza. La vita poi si è sempre sovrapposta ai vuoti come la carta da schizzi nei disegni degli architetti. O dei geometri. Credo di avere iniziato, a un certo punto, la mia scoperta del mondo e di aver creduto di dimenticare il resto. Prendevo aerei, andavo a concerti, mi affacciavo su persone sconosciute, m’infilavo in posti ignoti. Cambiavo città, mi tagliavo i capelli. Mi facevo infrangere il cuore e infrangevo cuori io stessa. Ma forse certe sofferenze che pativo da lontano erano legate a quei vuoti.

8.

Lisbona è facile da controllare. La vivo ormai da molti anni. Ci sono arrivata per studiare e poi per viverci dentro. La vedo dall’alto ogni volta che la sorvolo, in aereo. Si snoda e si attorciglia su edifici grossi e pericolanti, si apre su piccole rotonde, ospedali e biblioteche come blocchi di cemento in mezzo al traffico. A volte si arriva volando da Sud e si assale la città dal fiume, dal ponte rosso, dalla riva brulicante di persone. A volte, invece, si arriva da Nord o Nordest e si attraversa l’aria delle periferie sfilacciate, si vola così basso che si possono vedere le persone alle finestre, i cortili con le sedie fuori, i terrazzi con i panni stesi. In lontananza il ponte Vasco da Gama sembra un sottile filo di gomma da masticare che si allunga da una riva all’altra, da un labbro all’altro. Lisbona è tutta lì, chiusa tra la periferia e il fiume. E si sviluppa in altezza, sulle colline. […]
Parma, riesco a vederla solo riflessa nelle pozzanghere delle piazzette dell’Oltretorrente. La vedo sporchina, nebbiosa, piena di fumi. Ma all’inizio dell’autunno, con la luce rosata del pomeriggio, dà il meglio di sé. Ha le polveri sottili, le targhe alterne, i capannoni e le fabbriche affacciate sulle strade di provincia. Emana sentimenti sottili. Impossibile da abbracciare, si può solo osservare dal suo stesso ventre. È come una palla di vetro con dentro la neve finta in cui la torre Eiffel, immobile e spaurita, sono io. Non mi ricordo i nomi delle sue vie, dei suoi ponti, non mi ricordo i numeri e i percorsi dei suoi autobus. Non mi ricordo quasi mai quasi niente di lei. Ogni volta che ci torno, gli amici mi danno appuntamento nei loro luoghi che io non so più riconoscere e non so mai come arrivarci. La mia città mi dà le vertigini, non mi appartiene e sono dentro di lei. Io non le appartengo e lei è dentro di me.

10.

Siamo a bordo di una bicicletta bordeaux con le ruote sottili. Io sgambetto seduta sulla canna, ho sette o otto anni; il babbo pedala fischiettando, ne ha trentasei o trentasette. Siamo rimasti soli, noi due, ma non siamo preoccupati. Solo tristi. In estate, alla sera, andiamo sempre al Parco Ducale, in giardino, diciamo tra noi. Ci sediamo ai tavolini del chiosco e lui chiede un gin-fizz. I camerieri sembrano appena sbarcati da un’altra epoca. Sono tutti uguali con le loro camicie bianche e scuotono i muscoli per shakerare i cocktail. Sono sempre molto gentili con me, mi trattano come se fossi una signora. E il mio accompagnatore ride. In giro c’è solo gente del quartiere che arriva in ciabatte, mangia un gelato e se ne va. La formalità dei camerieri fra i tavoli sembra fuori luogo. Io prendo una granita al tamarindo e stiamo lì ad aspettare che la sera ci rinfreschi le gambe allungate sotto il tavolo, con il naso sull’odore del limone che friccica dentro al gin-fizz del papà.

13.

Poi, certo, c’è la questione dell’archivio e dell’archiviare. Cosa teniamo e cosa buttiamo di noi stessi? Dei nostri rapporti con gli altri? Di lei non mi è rimasto niente di scritto. Solo uno scontrino, trovato per caso in un cassetto qualche anno fa, sepolto da altri oggetti inermi. Il dorso dello scontrino dice «oggi è una giornata così così». E poi dice «Giuliana» varie volte, con grafie diverse e alcuni scarabocchi, come di chi prova una penna nuova e non sa cosa scrivere. Quel giorno era una giornata così così. Di tutte le quattordicimilanovecentosessantacinque giornate che ha vissuto, nei suoi quarantun anni di vita, è rimasto solo questo scontrino spiegazzato testimone di una giornata così così. Forse dà testimonianza di quello che sono la maggior parte delle nostre giornate. Senza grandi sconvolgimenti, senza grandi drammi, senza grandi esuberanze. Senza nulla da registrare per i posteri. Una distesa languida di calma o di noia con qualche pensiero che deraglia sulle impossibilità del presente, qualche sguardo al paesaggio che ci circonda.

 

Una storia finita bene

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di Walter Nardon

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La corriera frenò in modo brusco, andando quasi a sbattere contro il cestino posto accanto al palo della fermata: l’autista era nuovo. I passeggeri già in piedi oscillarono aggrappandosi chi a un sedile, chi alla propria valigia. Poi le porte si aprirono e cominciarono a scendere. La prima fu una donna bionda che teneva per mano un ragazzo di undici anni con un enorme zaino e nell’altra un trolley di medie dimensioni. Per quanto potesse sembrare inverosimile, aveva scritto alle amiche che si sarebbe regalata un fine settimana di vero relax.

Si fermò un istante a controllare il telefono. Mentre il soprabito grigio e la cartella di pelle nera indicavano un’eleganza ordinaria, ma innegabile, il figlio era ingolfato in un enorme piumino nero con felpa viola oversize, pantaloni da paracadutista e scarpe da basket il cui abbinamento esprimeva un che di ostinato e di casuale.

«Non ci sarà nessuno della mia età».

«Ci saranno al corso. Te l’ho già detto. Non lamentarti».

«Posso avere almeno il gelato?».

«Arriviamo in albergo e poi vediamo».

Anna aveva già soggiornato in quella località balneare per famiglie: la prima volta ci era rimasta dieci giorni, in una meta che a vent’anni avrebbe trovato improponibile ma che a ventiquattro, con le amiche, aveva assunto un’altra fisionomia e che a ventotto l’aveva addirittura conquistata con l’atmosfera e la vita capricciosa che muoveva i turisti verso le uscite più improbabili. Naturalmente, allora stava con Paolo.

Si voltò indietro: «Finiscila di lamentarti, siamo quasi arrivati».

In effetti l’albergo era proprio lì a due passi. La facciata aveva subito una risistemazione che l’aveva resa meno monumentale; anche il colore, ora verde oliva al posto del bianco, se nelle intenzioni avrebbe dovuto renderlo più accessibile, in realtà l’aveva sminuito fino a farlo confondere fra gli altri, mentre allora era inequivocabilmente uno dei più eleganti piccoli hotel della cittadina, un tre stelle che avrebbe meritato di più. Comunque, nonostante la bassa stagione, quasi non era riuscita a trovare posto.

Da uno dei tavolini davanti all’entrata la salutò una signora robusta che si stava alzando proprio in quell’istante: «Buon giorno, ben arrivati». Aveva più di settant’anni.

Anna rispose con un cenno di capo.

«È sempre un piacere incrociare una donna indipendente».

Appena dentro, la signora chiamò un commesso perché si prendesse cura della valigia.

«Le do subito i documenti», disse Anna.

«Oh, no, per carità, non a me, può farlo alla Reception con tutta calma. Si tratterrà a lungo?»

«No. Solo per il fine settimana»

«Beh, spero di avere il tempo di conoscerla. Ricordo al nostro eroe che a partire dalle quattro si serve la merenda» disse, allontanandosi verso l’interno e rimettendo a posto il soprabito sopra uno splendido vestito a fiori. Il ragazzo intanto giocava con le caramelle poste in un vaso sul banco della Reception.

«Mirco, non farmi incazzare».

 

2.

Il rapporto col denaro nasconde spesso motivazioni complicate. Ad esempio, per quale ragione entrare in una boutique monomarca a comprare un abito da mille euro se, grazie a qualche sapiente indicazione, per lo stesso capo ce la si potrebbe cavare con meno della metà rivolgendosi direttamente a un outlet, o meglio allo spaccio aziendale? Di fronte al dilemma, e al prezioso suggerimento che aveva dato a sua cugina, lei gli aveva risposto: «Per una volta non voglio fare calcoli, voglio fare come quelle che se lo possono permettere» ed era corsa felice a buttar via i suoi soldi. Ecco, avere stima di sé in virtù della capacità di affrontare un sacrificio gratuito è sicuramente un argomento da approfondire.

Da quasi undici mesi Enrico era un uomo libero, se non fosse che tutta quella libertà – più apparente che effettiva – gli era piombata addosso improvvisa dopo la separazione e certo non per scelta sua. Partito alle undici da Rimini, dove si trovava da due giorni per chiudere una compravendita, ora guidava lungo le distese dell’A14 Adriatica. Si sentiva meglio. Certo sua cugina cercava il riscatto in direzione sbagliata. Come sempre si faceva strada in lui qualcosa di spontaneo, che si accompagnava però a una determinazione incerta, come se la volontà, prima di giungere a effetto, dovesse passare il vaglio del raziocinio pagando di volta in volta un prezzo più alto e finendo per estenuarsi; in parte questo era frutto di un carattere poco volitivo, ma la parte prevalente andava ricondotta alla crisi che l’aveva colto nei mesi della separazione e che non era ancora scomparsa. Sì, aveva ricominciato a uscire, prima con qualche amico poi, su consiglio dei suoi familiari, in contesti lontani dalle sue abitudini, ma non ne era ancora fuori. I corsi di ballo lo avevano stufato, così a un certo punto era passato alle gite. L’aveva conosciuta proprio in una di queste, in un viaggio verso un museo di Treviso che non gli sarebbe mai venuto in mente di visitare (la mostra era stata messa in piedi attorno a cinque tele di valore, il resto era poca cosa); anche se non disprezzava di dare di tanto in tanto un’occhiata alle pagine culturali, l’arte lo consolava poco. Era più che altro un uomo da esercizi all’aria aperta, o almeno era contento di pensarlo. In realtà usciva poco e si muoveva solo per i sopralluoghi legati all’acquisto o alla vendita di capannoni dismessi; lo faceva con grande accortezza, parlando con tono pacato e lasciando in albergo mance ragionevoli e altrettanto discrete che rispondevano a una strategia personale per affrontare l’imprevisto: supponeva di aver reclutato in un certo numero di alberghi del Triveneto una schiera di alleati pronti a venire in soccorso del meno rilevante dei suoi bisogni. Del resto, non amava gli inconvenienti. Rosa, la sua quasi ex-moglie, lo riteneva unico nel suo genere, ma poi se n’era andata con un imprenditore del settore plastica con la passione per l’e-bike. Proprio perché lavorava in un mercato turbolento – e, dopo la separazione, in una congiuntura peggiorata – il ricordo dei sacrifici sostenuti per uscire dalle aule universitarie reclamava di tramutarsi in qualcosa di durevole.

Il piano di spedire Mirco al corso di scherma era suo; dopo una rapida valutazione, Anna non aveva trovato nulla da ridire.

 

3.

In effetti, il primo pomeriggio andò meglio del previsto. Si era fatta dare in anticipo il pezzo di torta della merenda di Mirco e lo aveva accompagnato – recalcitrante ma fiero della sua nuova tuta – fino alla storica palestra di scherma distante ottocento cinquantatré metri dall’albergo (così il cellulare). Lì, dopo le rassicurazioni sulla regolarità dell’impianto, si era fermata solo un quarto d’ora; del resto, e in questo caso provvidenzialmente, Mirco non amava che sua madre si fermasse a guardarlo mentre impugnava il fioretto. E dunque era rientrata. Enrico era già arrivato: camera sullo stesso piano ma dietro l’angolo. Per Anna e il figlio, invece, camera doppia con porta comunicante. Per lei letto matrimoniale: «Voglio stare comoda».

Certi alberghi sanno offrire ogni sorta di confort.

 

4.

La sera, Anna e Mirco erano scesi a cena in un tavolo in mezzo alla sala da pranzo. Dietro di loro la signora dal vestito a fiori, ora in un’elegante fantasia color vinaccia, conversava con un’amica che era venuta a trovarla. Enrico stava in un angolo, col tablet davanti, simulando la posa di chi non ha tempo da perdere neanche quando mangia (anche se un’occhiata verso Anna, ogni tanto, continuava a darla).

Scomposto sulla sedia, Mirco era seccato con i compagni di corso «degli stronzi», ma aveva imprevedibilmente apprezzato il maestro perché fin dall’inizio – nella prontezza e precisione nell’uso dell’arma – aveva saputo intuire alcune qualità che nel suo gruppo sportivo erano state già colte come promettenti. Ora, due pareri a favore erano quasi una certezza. Non era arrivato al punto da ringraziare la madre, ma non era troppo scontento e quindi lei si era complimentata da sé:

«Hai visto che abbiamo fatto bene? Io sto un po’ al mare e tu migliori nella scherma. Vedrai come ti guarderanno i tuoi compagni di squadra al ritorno, già lunedì».

«Sì, ma resta il fatto che qui sono stronzi».

La signora dietro il loro si chiamava Erminia. Dalla conversazione (una delle due aveva problemi di udito) Anna aveva compreso che si trattava della moglie di un giornalista che si occupava di cose di Chiesa, un vaticanista. Questa specializzazione esotica doveva aver portato con sé un gran numero di relazioni, poiché la donna – col tono ricorrente di certi ambienti della capitale – parlava di personalità note come se fossero di casa. E non solo l’amica non aveva nulla da ridire, ma nella sua conversazione confermava la disinvoltura con cui l’altra parlava di queste relazioni. Aveva ovviamente incrociato molti cardinali e giornalisti; di passaggio aveva perfino fatto cenno a Enzo Biagi; conosceva il mondo cinematografico. E poi la politica, i nomi dei maggiori esponenti di orientamento democratico cristiano per lo più scomparsi, o anziani e acciaccati. Si fermò pericolosamente sulle soglie del caso Moro, di cui però, a sentirla, si era fatta un’idea che sintetizzando si poteva riassumere in questo modo: hanno lasciato che le cose seguissero il loro corso. Nella sua aggettivazione musicale mostrava di essere invecchiata in un ambiente in cui il bene era un contrassegno di riconoscimento che rendeva più facile intendersi, almeno «fra simili».

«Dici del vescovo di ***? Sì, l’ho visto di recente. Sarebbe una testa finissima, se non fosse impaludato in mille questioni della diocesi. Deve trovare qualcuno, gliel’ho detto, non può mica sperare di fare tutto da solo. Suo fratello, invece, è uno psicologo. Uno bravissimo, dicono; e così serio. Dovrei proprio scrivergli».

La soddisfazione del pomeriggio (e dei quattro passi in solitaria sul lungo mare, poco prima di tornare a prendere Mirco) aveva lasciato in Anna un appagamento che la rendeva padrona di sé. Non aveva quasi guardato in direzione di Enrico. Fra il primo e il secondo aveva preso in mano il telefono e aveva confermato quanto già detto alle amiche: «Non avete idea. Qui si sta davvero benissimo».

 

5.

C’era di che riflettere. L’aumento degli affitti per gli studenti universitari aveva determinato un effetto secondario sulla generazione più vecchia, quella di chi lavorava con contratto precario – ma anche di un buon numero di partite iva – che per effetto di questa concorrenza d’un tratto si era trovata ad affrontare la questione-alloggio in modo molto più complicato del previsto. Non era una novità, questa semmai la vedeva nel tono del quotidiano finanziario, in genere poco sensibile al tema. Ristrutturando un immobile con i benefici per la destinazione ad alloggio per studenti, c’era chi aveva colto l’occasione di un buon profitto, ritoccando poi il canone verso l’alto perché ora si trattava a tutti gli effetti di un nuovo appartamento. Tutto legittimo, si intende, tranne – a ben vedere – i benefici statali, che non sembravano essere finiti nella direzione sperata, a meno che non si volesse malevolmente credere che questa fosse proprio quella di incentivare la speculazione. Lui, per ora, non ne era stato toccato.

Anna lo stupiva. La sua disinvoltura, il suo approccio così disinibito lo aveva conquistato più che nei loro precedenti incontri: si mostrava in completo accordo con lui, senza il minimo sforzo di piacergli. Lo aveva sorpreso, sciogliendolo per un istante dalle complesse necessità della sua prudenza per condurlo a vivere il presente senza imporvi, per così dire, la solita ipoteca. Aveva una coscienza del suo corpo così serena. O forse, più semplicemente, gli si era affezionata: gli voleva bene. Per quanto i loro incontri esigessero un’organizzazione complessa – e  per quanto questa comportasse senza dubbio costi non trascurabili – si sentiva propenso ad affrontarla; anzi, come in questo caso, aveva perfino cominciato a contribuire, a dare ad Anna una mano concreta.

Passò in rassegna le previsioni per la domenica, poi tornò a un articolo sui limiti degli investimenti in ambito digitale.

Certo, in astratto, la sua non poteva definirsi una situazione vantaggiosa: difficilmente Anna avrebbe potuto trasferirsi. L’affidamento congiunto di Mirco con l’ex-marito la vincolava, questo era inevitabile; ma il ragazzo stava crescendo. Dopo aver sperato, per lo più inconsapevolmente, che fosse lei a trasferirsi, da un po’ di tempo aveva cominciato a valutare un’opzione remota, quella di fare lui il grande passo; ma le difficoltà non mancavano e sapeva che gli ostacoli sarebbero cresciuti, proprio ora che stava riguadagnando un po’ di calma. Aveva intuito che non sarebbe stato tanto il lavoro a soffrirne, quanto proprio ciò che a lungo gli era stato più a cuore, il momento in cui staccava e poteva tornare a casa conscio di aver fatto il suo dovere. In fondo, non avendo figli, per lui la casa si era ridotta alla funzione di rifugio-tana in cui ritirarsi dalle eccessive preoccupazioni materiali, il luogo di un relax che non doveva essere interrotto.

Anna era discreta, elegante, cosa ancor più degna di nota, dato che lo stipendio era di molto inferiore al suo. In più aveva gusto; e si sa, il gusto in queste faccende è tutto. Prendere una nuova casa in affitto, arredarla quel minimo da avere ogni cosa a portata di mano (in sintesi, riprodurre su scala maggiore la sua organizzazione casalinga) poneva delle difficoltà, ma non era impossibile. Poi c’era la questione-Mirco. Ma tornare a trovare i suoi sarebbe stato più complicato, ancor di più se avesse dovuto seguirli, assisterli, cosa che ormai, vista l’età, non poteva escludere.

 

6.

La mattina dopo tutto appariva tranquillo. Le sale da colazione degli alberghi sul mare sono luoghi dove fra gli esseri umani regna un’armonia quasi edenica: non sembra vero di poter dedicare tanto tempo a un’attività il più delle volte risolta in fretta, addirittura in piedi; quella mattina, però, un cameriere aveva rovesciato una brocca di spremuta d’arancia su un tavolo, creando un momentaneo scompiglio accolto dai presenti con la più celeste delle comprensioni, tanto più che in quel momento al tavolo non era seduto nessuno. Mentre su indicazione del cameriere Anna e Mirco si stavano accomodando (Anna aveva ordinato), Erminia si fece loro incontro con una tazza da tè in mano:

«Vi dispiace se mi unisco a voi, mentre rimettono a posto?»

«No, anzi. Mi spiace per il suo tavolo».

«Oh, non fa nulla. Quando si è in vacanza si sopporta tutto, tanto più se ci si trova bene. E qui non manca niente, lei che dice?»

«Sì, anche noi ci troviamo bene».

Mirco fece giusto un cenno con la testa, prima di girarsi verso i due camerieri impegnati a pulire il pavimento.

«Le colazioni sono particolarmente apprezzabili».

Benché l’avesse sentita discorrere di persone note non risparmiando giudizi sintetici – «***, poverino, era un pozzo di scienza, ma spesso era anche di una noia mortale» – sembrava che giudicasse le persone a partire da un intimo convincimento, a prescindere dai risultati raggiunti; se questo la poneva nella condizione di ignorare la reale statura del suo interlocutore – che del resto le importava poco – la induceva però ad assecondare la sua generosa disposizione d’animo, trattando chiunque in modo equanime. Che poi arrivasse anche a comportarsi così, ossia che, chiusa la conversazione, non desse alcun credito alle disuguaglianze sociali, era già un’ipotesi più azzardata.

Mirco era corso al tavolo per prendersi una fetta di torta alle pere.

Il cameriere servì il caffè per Anna e il latte macchiato per il figlio.

«E il campione?»

«Mah, sta facendo un corso di perfezionamento in fioretto».

Mirco rivolse alla loro interlocutrice un breve sguardo, che accompagnò a un cenno poco più convinto del primo, continuando a tacere e a mangiare la torta. E in effetti, poco dopo chiese alla madre di poter salire in camera a cambiarsi e si dileguò.

«Lo scusi, è molto preso».

«Capisco. Ho un figlio anch’io. E non creda, benché ormai sia un uomo, conserva ancora molte abitudini di quando era ragazzo».

Nel frattempo, anche Enrico era sceso, aveva ordinato e con tutta calma si era diretto al buffet.

«Comunque,» riprese Erminia, «mi sembra che lei se la stia cavando benissimo. Volevo invece chiederle: mentre Mirco è in palestra, si è per caso già prenotata per i massaggi e il ciclo detox in spa? Ho già formato un gruppo di amiche per andarci insieme e credo che non avrebbero nulla in contrario se lei ci raggiungesse».

Anna rimase un istante in silenzio, poi disse: «La ringrazio, ma forse è il caso che cammini un po’ all’aria aperta». Lasciò passare un altro istante in cui Erminia si trattenne dall’intervenire e poi aggiunse, quasi come una precisazione non richiesta: «O magari rimango un po’ in stanza a leggere. Mi scusi, ogni tanto l’avere di nuovo del tempo per me mi coglie di sorpresa. Sono quasi impreparata».

Enrico aveva preso un tè con biscotti.

«Non me lo dica, lo so anche troppo. È una questione matematica. Essere soli a gestire un figlio richiede il doppio dell’attenzione e altrettanta disponibilità: e questo porta a dimezzare le possibilità di movimento. Alcune mie amiche rimaste sole non hanno saputo come rimettere in sesto la loro vita per parecchio tempo, ma immagino che oggi per chi è più giovane sia un po’ più facile: ci sono tante diavolerie digitali per conoscersi».

Mentre beveva il tè, l’amabilità di Erminia aveva fatto passi avanti; l’esperienza aveva tenuto a bada le ambizioni di una curiosità un tempo troppo impaziente e le aveva permesso di esprimere alcune considerazioni che ad Anna erano parse non prive di buon senso, benché generiche. Del resto, alla volontà di Erminia non si poteva negare un moto benevolo – il tratto caratteriale che, stando a lei, la distingueva anche da suo marito.

Enrico era passato alla torta di mele.

«Non lo so, provo molta diffidenza per le applicazioni di incontri».

«Beh, io sono davvero di un’altra generazione ma penso che l’incontro diretto, per quanto complicato, vada sempre favorito. Del resto, le gioie maggiori, come purtroppo i dolori più cocenti li dobbiamo conoscere direttamente. E io credo che esperienze come queste, intendo la possibilità di trascorrere un fine settimana in una struttura di tutto rispetto, siano l’occasione ideale per alimentare la nostra vita di relazione».

Anna avvertiva un fastidio incipiente: «Beh, magari in teoria. Poi dipende. Forse dovrò scusarmi con lei, ma trovo i gruppi e le associazioni un po’ troppo impegnativi per i ritmi di vita che mi sono imposta».

«Oh, ma la prego, usciamo subito da un equivoco. Qui non si tratta di esperienze collettive, ma delle più squisite fra quelle individuali. Dicevo, sono i posti ideali in cui conoscere qualcuno, o farsi conoscere; incontrare qualcuno o farsi raggiungere. Sotto questo profilo non è cambiato niente. È tutto come un tempo: per fare qualche esperienza non ci sono rimaste che le terme, con la loro vaporosa promiscuità o, in bassa stagione, queste stazioni balneari. Mi scuso se per caso le sto dando l’impressione di esagerare ma, pur essendo sposata, non posso fare a meno di sapere come vada il mondo».

«E come va, il mondo?»

«Ma come sempre, cara, ovviamente».

 

7.

Enrico era irrequieto. Dal suo tavolo sembrava che la conversazione di Anna con la signora anziana la turbasse: si chiese se potesse fare qualcosa per interromperla, ad esempio un passaggio accidentale accanto a loro, un finto inciampo, in modo da distoglierle per un istante dall’argomento che stavano trattando. Sul viso di Anna si era fatta largo un’espressione di improvviso imbarazzo, come se stesse subendo un interrogatorio a cui avrebbe voluto sfuggire. Si era trattenuto solo perché sapeva di essere incline a enfatizzare gli aspetti negativi. Perciò si diede un limite: se entro un paio di minuti non fosse successo qualcosa, si sarebbe diretto verso di loro.

Ma in effetti qualcosa cambiò. Dopo un istante di silenzio, Anna rispose alla sua interlocutrice sorridendo in un modo così goffamente complice che sembrava portare impresso il segno della spontaneità: al che la signora rise molto più apertamente. Forse, dunque, si era trattato di un equivoco.

Tutto questo però rendeva ancora più evidente che non avrebbe potuto continuare a lungo in quel modo, restando in un angolo a interpretare ogni dettaglio: doveva avvicinarsi, uscire dall’oscurità che lo tutelava, ma che non rendeva in alcun modo migliori le sue giornate. Avrebbe dovuto fare un passo avanti, magari anche con prudenza, per quanto questo – gli fu chiaro come un’intuizione definitiva – significasse in primo luogo presentarsi a Mirco.

Ci sono decisioni che si annunciano con la forma di una necessità non più differibile: davanti a queste non si può che assecondare il moto interiore cercando di mantenere un’espressione equilibrata. Enrico si alzò in piedi e si diresse verso il tavolo dove Anna era seduta con l’amica. In quel mentre, da una porta sbucò anche Mirco, vestito della sua tuta fiammante, tanto che i due, arrivando da direzioni opposte, vennero a trovarsi entrambi a un metro di distanza dalle due donne.

Tre mesi dopo Enrico e Anna presero casa insieme.

 

 

Investimenti e disinvestimenti ( dettagli)

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di Giorgio Mascitelli

 

Nelle scorse settimane campeggiava nelle stazioni della metropolitana milanese una réclame recante lo slogan Investi in borse, non in borsa. Confesso che la cosa che mi ha più colpito, essendo io fuori target per il prodotto pubblicizzato ed essendolo forse per qualsiasi merce, a giudicare dalle scarne e generiche proposte pubblicitarie che mi rivolge l’algoritmo, è la perfetta tempistica dell’uscita dei cartelloni, appena pochi giorni dopo il crollo delle borse a seguito del fallimento della Silicon Valley Bank e della successiva crisi del Credit Suisse. Di fronte a tanta prontezza devo dire che mi sono chiesto se esistessero anche gli instant billboard, esattamente come ci sono gli instant book.
Naturalmente non so come sia andata, anche se mi piacerebbe saperlo, quello che è certo è che una simile pubblicità rappresenta un piccolo sintomo di un cambiamento nell’immaginario contemporaneo. Difficilmente dei pubblicitari, infatti, affiderebbero la sorte di un prodotto a un messaggio, per immagini e per parole, che non sia codificato entro un sistema di valori accettato positivamente nella nostra società e proprio questo dato di fatto contiene un segnale inquietante per broker, banchieri e affini.
Dunque il messaggio della réclame è quello che sarebbe meglio investire il proprio denaro in un oggetto di moda che, anche se non privo di un valore pratico, ha evidenti finalità voluttuarie piuttosto che vedere andare in fumo i propri risparmi nei giochi speculativi di borsa. Non si tratta di una novità in assoluto, in fondo nell’avanguardia novecentesca possiamo trovare affermazioni analoghe, per esempio ne Il codice di Perelà di Palazzeschi, quando l’omino di fumo incontra il banchiere Teodoro Di Sostegno, quegli si affretta a spiegare all’illustre interlocutore che loro due a ben vedere si occupano della stessa materia perché se Perelà è di fumo, lui stesso, si potrebbe dire, è di carta e pertanto sa cos’è il fumo. Ma questo per gli operatori finanziari non è mai stato un problema perché Palazzeschi era uno scrittore, perdipiù futurista, ed è normale che gli artisti dicano verità del genere o collochino della statue a forma di dito medio alzato davanti all’entrati della borsa. Di diversa natura è la stessa affermazione, la stessa battuta, fatta da una pubblicità per due motivi: in primo luogo perché pubblicità e borsa fanno parte della stessa parte di mondo, quella dei valori solidi che reggono la società, quella del progresso, quella delle formiche, e in secondo luogo perché, a differenza degli artisti d’avanguardia, i pubblicitari conoscono e rispettano il valore del vecchio adagio popolare ‘scherza con i fanti, ma lascia stare i santi’ e mai e poi mai giocherebbero con valori portanti e socialmente condivisi perché la loro mission ne sarebbe danneggiata.
In altri termini il fatto che sia uscita una pubblicità di tale tenore testimonia che sempre di più tra le idee diffuse nella nostra società vi è quella di accostare i giochi di borsa a quelli d’azzardo; naturalmente poi i pubblicitari propongono come alternativa non il risparmio ma di collocare il denaro in beni più piacevoli e godibili dell’accumulazione, peraltro molto aleatoria, ma il segnale che ormai uno dei fondamenti più seri della religione informale del nostro tempo, la borsa, sia considerato alla stregua di un giocattolino inaffidabile è chiaro. Probabilmente questa trasformazione è dovuta al fatto che quindici anni tra una crisi e l’altra sono troppo pochi, specie se la società non si è ancora ripresa del tutto da quella precedente. Forse non è nulla, è solo una réclame che sparirà nel giro di pochi giorni o forse ci stiamo avviando a vivere una di quelle fasi storiche transitorie in cui le idee dominanti non sono quelle delle classi dominanti.

Termini senza mezzi

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Artwork by Lorenzo Trivelli
Artwork by Lorenzo Trivelli

Artwork by Lorenzo Trivelli

di Laura Mancini

Se a ossessionarmi non fosse la morte ma l’enigmistica troverei gustosa Termini senza mezzi. Prenderei nota della coincidenza idiomatica – che cos’è, una crittografia, un indovinello, un’inversione? –  e scatterei una foto di piazza dei Cinquecento nella sua inconsueta nudità, brutta insanabile, inondata di urina, segnata da affronti al poco arredo urbano che si ritrova. La direi tanto negletta quanto il campo di battaglia coloniale che il suo toponimo commemora e poi scomoda, faticosa da attraversare come quando gli autobus la affollano. Forse uno sciopero, azzardo, ma sembra sia altro, questo vuoto unanime, una radicale dispersione, la dichiarazione di inservibilità del servizio, la fine del pubblico, la città post-apocalittica che molti hanno profetizzato senza averne un quadro preciso. Eccolo, il quadro preciso.

Igino è partito da poco lasciandomi all’interpretazione della sua ultima sentenza – non credo sia più possibile infierire sui nostri cadaveri, sarai d’accordo ma per tua sensibilità restia a dirmi lo stesso. Interrogo il panorama sui termini violenti da opporre alla sua mancata fede o al mio presunto accordo, ma la maculazione del cemento, il marciapiede a cornice, gli spartitraffico, i tabulati del capolinea tacciono. Non resta che la vergogna della posa ebete e muta tirata fuori lì per lì, fino al fischio e al vero addio. Immagino le linee che ripartono e inchiodano, si sfiorano e incastrano, rombano, inquinano e non ho nostalgia di niente, all’orrore si sostituisce altro orrore, al treno in partenza altri treni in arrivo. In questo momento Igino sarà seduto nel convoglio lato corridoio, avrà incastrato gli occhiali tra i ricci e terrà una mano sul viso in segno di apparente disperazione ma effettiva mera ricerca di oscurità. È suo uso concludere lunghi periodi di solitudine in mia compagnia – silenzi, porte socchiuse, cuffie, sguardi eterodiretti, torri di carta, mancate risposte, improvvise uscite in impermeabile – con sintetiche spiegazioni su come io mi senta e comporti. È sempre suo uso confermare la nostra comune passione per la morte ponendola ad argomento, causa, figura retorica; peccato non ci sia riuscito di coltivarla insieme come il caso avrebbe favorito. Avere una fortuna e sprecarla così.

Da una casupola di cartoni da imballaggio e cassette della frutta spuntano una testa, due spalle ricurve, infine una schiena che srotolandosi mi ispira la massima: insospettabile è la maestosità di chi si accuccia entro piccole gabbie autocostruite. Ciao, fa con la mano l’uomo senza fissa dimora. Ciao, replico con lo stesso gesto. Igino può andare, ciao Igino. Era scotennato dalla tristezza per questioni che di politico hanno ben poco, afflitto, perduto, stremato da ciò che non sa smettere di fare, finirà male, può andare, che vada, prima che il suo viaggio termini la mia ira sarà risolta. Gli invierò uno scritto, ché lettera sarebbe troppo: un testo angosciante scevro da accuse o richieste d’attenzione camuffate da sdegno minimale, nudo come questa piazza all’alba e altrettanto brutto, faticoso da leggere, difficile da connettere nei suoi vari punti, disinteressato a essere compreso. Lo faccio per lui, per sua sensibilità restio a scrivermi lo stesso, per incoraggiarlo alla spietatezza.

Quando ero giovane mi tirava la pelle del viso per i troppi grazie! che distribuivo in cambio del solito commento sugli occhi – di norma detti belli o profondi, ma una volta fluorescenti e ipnotici da un poeta che faceva la maschera a teatro di cui ricordo tutto, anche il modo di fumare e toccarsi rapido gli angoli della bocca con la punta della lingua. Di notte, rigiravo tra le dita i fluorescenti e gli ipnotici sull’unica piazza stropicciata del letto costruendovi intorno le memorabili mura che oggi me li consegnano intatti e non meno solenni: fluorescenti, ipnotici. Mi tastavo le anche, l’interno coscia e la vita per verificare che i pane e nutella pomeridiani non scontornassero il tutto, stiravo i capelli, mettevo il rossetto. Come mi restasse tempo per studiare è un mistero. Igino non mi ha mai detto nulla degli occhi, certo li ha scavati a fondo coi suoi ed è stato un affare quasi morboso quello del guardarci senza fiatare, avremmo dovuto cronometrare le sessioni di fissaggio oculare, un continuo rialzo del record. L’uomo senza fissa dimora si stira e sbadiglia, accende una cicca e un altro giorno ha inizio. Ancora oggi gioisco del riconoscimento, ma riservo la priorità agli scritti – molto avveduto, commenta il relatore della mia tesi di dottorato, una delizia! dice Saveria delle e-mail che le inviavo dalla Germania quando ero triste e sfavillante. Non è chiaro, però, aggiunge storcendo il naso il redattore che rimbalza il mio pitch per il semestrale e: l’apparato bibliografico manca di organicità, recita la blind review del progetto di ricerca che ho inviato d’istinto allo scadere dei termini. Vorrei non mi importasse più delle cosce né degli scritti, ma non è così, agogno l’approvazione, la esigo. Igino questo in me lo sentiva e detestava. Al solo vedermelo dentro lo rimbalzava con altrettanto sguardo, ma pregno di biasimo. Vada, vada, è atteso altrove, qualcuno con un cartello recante il suo nome lo guiderà al parcheggio, caricherà in macchina, condurrà all’appuntamento, lascerà proprio davanti all’ingresso.

L’ovvia metafora dello scenario cimiteriale che contemplo con ostilità è una tabula rasa. L’uomo senza fissa dimora… ma perché continuo a chiamarlo così? È un barbone, un barbone coi fiocchi, libero dal giudizio sociale e dalla fame di approvazione. Si stiracchia con un’espressione divertita dall’ironia della sorte e dall’afa d’inverno, non tutto deve sempre avere senso, dice quel ghigno. Considerando la questione dalla prospettiva più spiccia, nel corso della mattinata non mi importerà di nulla, ma non escludo l’indifferenza possa dilatarsi fino al dopo pranzo. Le parole sbiadiranno, le disporrò in fila per due come le uova nel plasticone bucherellato del frigorifero, pronte a essere rotte o dimenticate, sciatte e insulse, basi per altro, ma altro cosa? Era migliore l’ansia tutta corporea dell’adolescenza, quando se mi dicevano fluorescenti arrossivo e ammiccavo vagheggiando sviluppi di cui non contava l’esito ma la sola potenzialità. Grazie! Non ho mai raccontato a Igino ricordi analitici e masturbatori come questo, ero io ad ascoltare lui che però del passato conserva una traccia evanescente, troppo concentrato sull’oggi, sulla riunione, la mozione, la manifestazione, la legge. Dura lex sed lex, e invece col cazzo! urlava battendo il pugno sul tavolo in tarda serata quando gli amici trasformavano il gran discutere in bisboccia. Tutti stanchi, sbronzi e vogliosi di pensare ad altro tranne lui che anche dopo la mezza, occhi sbarrati dizione impeccabile e muscoli tesi, restava ancorato alle sue priorità. Quant’è già memoria, tutto questo, con quanta speditezza rielaboro, Saveria sarebbe fiera di me, vedova istantanea, un podio in fondo al binario. Ciò che facevo io, a quel tavolo, è interessante, una delizia, una fluorescente ipnosi. Tacevo fumando ed ero tutta con Igino, seguivo il suo discorso con una tale compenetrazione nel suo stato emotivo e una conoscenza tanto precisa del suo metodo ragionativo e dei suoi riferimenti da poter anticipare ciò che avrebbe detto di lì a poco. Ma a volte sorprendeva anche me con slanci inediti – leggendari quelli su povertà e morte in cella, pensiero recluso, pena e rieducazione come contraddizione in termini. Gli exploit creativi rinfocolavano il mio – mio, non nostro – legaccio – legaccio, non legame – l’idea che potesse stupirmi per sempre. Era instupidirmi, ciò che faceva. Il suo reale spessore non coincide con l’improvvisazione filosofica, questo me l’avrebbe svelato una più assidua frequentazione della saggistica psicoanalitica e del giro del carcere, al bar della biblioteca Nazionale. Il talento di Igino è l’identità, quel suo rimanere uguale a se stesso come la piazza della stazione, anche in assenza delle condizioni ottimali per il riverbero e la detonazione del sé, anche in presenza di urina e affronti. La coerenza è la sua qualità più alta, quella per la quale lo ricorderemo da morto. Era reso impermeabile allo svaccamento generale dalla concentrazione sul suo intento di agire, ogni giorno e da mattina a sera, contro la mortificazione dell’intelletto e per l’amnistia ma, più ampiamente, per l’abolizione del carcere. Se non è questo amore, dico col solo labiale al barbone. Non sembra raccogliere, si dirige a passo rilassato verso una fontanella con una damigiana di plastica. Ma era soprattutto amore per la morte e doveva finire qui, in questo campo di battaglia senza cadaveri né carrozzeria.

Ai margini, diceva spesso Igino, sono il bello e il brutto, l’oscenità che non vorremmo mai ammettere e l’umanità bandita da ogni altro contesto, o ci stai o non ci stai ai margini, o li accetti o non li accetti, ma se ci stai, ebbene eccetera. Durante il suo ultimo discorso al binario, quello in cui mi ha indicato come dovrei trascorrere il mio tempo, non ho mosso un passo dal mattonato, non un dito dal collo del thermos. Una posizione ridotta ai minimi termini, quella che occupo nello spazio in cui abito. Senza arrivare al punto di dirsi preoccupato per il mio stato di prostrazione dovuto al suo abbandono – ma è la tesi che mi cruccia, la tesi – mi ha spiegato che pur progredendo nella ricerca, dovrei dedicarmi alla letteratura di cui so più di quanto non ami sfoggiare, o alla musica modernista, che lui ha scoperto tramite me. Coltivare questi interessi significa leggere romanzi e discuterne con altre lettrici forti, andare ai concerti e applaudire o fischiare. E poi frequentare le amicizie, i vent’anni non tornano, la vita sociale è tutto, stempera i tormenti privati e crea bla bla, ho smesso di ascoltarlo più o meno a questo punto, non un passo fuori dal mattonato, non un dito lontano dal collo, gli occhi sbarrati, i muscoli tesi. Non è un parlare senza mezzi termini questo, Igino vorrebbe darla a bere al mondo intero col suo affondo diretto ma chi non vi ravvisi piuttosto un ridicolo attentato manipolatorio non fa che nutrire il suo mito, applaudire il suo cadavere, incoraggiare i suoi oltraggi. Gli stessi che, mentre cerco un appiglio nello squallore della spianata di cemento, mi gonfiano nello stomaco un rutto ciclonico prossimo a ribaltare la baracca di cartoni e cassette e arricciare in onde tsunamiche tutto il piscio di cui la piazza è innaffiata. Mi rammarica che gli unici spettatori dell’imminente Apocalisse siano il mio amico barbone e due commessi di un negozio della stazione venuti sotto la pensilina a fumare. Dal loro scambio colgo commenti sviliti sui turni, ma nulla sugli autobus, il vuoto resta un mistero, l’assenza irrisolta.

Igino andava e tornava da qui con un gran gusto dei cammei intercettati tra la banchina e il foyer, su e giù per le scale mobili e in tutto il quartiere pulsante dietro i binari, coi suoi locali malfamati e le sue tavole calde etniche. I compagni in arrivo su lenti convogli economici invece di essere accolti dall’abbraccio dell’amico dovevano raccattarlo in un bar senegalese preannunciato da un esplicito messaggio con posizione come il posto più bello di Roma. Ci cascavano tutti, ci cascavamo tutte. Il barbone mi saluta e sbaracca, vorrei seguirlo e imparare a campare, ma è tardi. Quando la nostra non era ancora una vera relazione sono andata ad ascoltare diversi interventi pubblici di Igino. Man mano che mi avvicinavo lo vedevo sbracciarsi al centro della situazione, lanciare fogli, stringere mani, urlare: urlava. Non conoscevo mai nessuno e sostavo ai bordi dell’evento fumando una sigaretta con l’aria un po’ torva. Al secondo appuntamento ho individuato altre due ragazze e una terza dall’aspetto più maturo che sostavano ai bordi dell’evento fumando una sigaretta con l’aria un po’ torva. Non osavamo avvicinarci, addestrate da espliciti messaggi con posizione su quale fosse il nostro posto. Ai margini, dove sono il bello e il brutto, i treni in partenza e quelli in arrivo, i termini di un’equazione tra chi giudica e chi è giudicato.

Termini senza mezzi è la mia condanna senza giusto processo, il fantasma dei bus, taxi e pullman bi-piano. Spio ai margini, ancora e ancora, ma non colgo che una coperta di pile e, sotto, una donna che conosce il proprio ruolo nel mondo, sa come trascorrere il tempo, al giudizio sociale dedica l’egregia indifferenza di chi è scesa a patti col proprio sentire. Io sono scesa dalla metro a Termini per continuare a capire poco, di me e del resto. Torno all’interno della stazione, scavalco i tossici che assediano le biglietterie automatiche, acquisto un titolo di viaggio da poco – Campo di Carne, un’altra battaglia persa ancor prima di essere combattuta – e supero i tornelli per dirigermi alla lapide di Igino, in fondo al binario, dove saluto la fame d’approvazione, gli occhi, le cosce, la tesi, i margini, il tempo. Ciao a tutte e tutti, anzi grazie! e poi addio: aspetterò che un viaggio qualunque abbia inizio perché il mio, senza offesa, termini.

Nulla si sa, tutto si immagina: Fellini e la letteratura

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di Daniele Ruini

Francamente, raccontare mi sembra l’unico gioco
che valga la pena di giocare (F. Fellini)

Chissà come avrebbe reagito Federico Fellini se gli avessero detto che il suo centenario sarebbe coinciso con una pandemia… Forse avrebbe pensato che questa nostra società, sguaiata e narcisistica, un po’ se l’era meritato; o magari, lui che aveva trascorso gli ultimi anni tanto celebrato quanto sempre più mal sopportato dai produttori, avrebbe riso sornione di fronte all’agitazione del gran circo dello spettacolo alle prese con chiusure e cancellazioni. Di certo tale coincidenza non avrebbe lasciato indifferente il Maestro, attratto dai mondi dell’occultismo e dello spiritismo e così attento al significato profondo di numeri e sincronicità.

Tra le iniziative per festeggiare i 100 anni del regista, nato a Rimini il 20 gennaio 1920, c’è stata anche la giornata che l’Istituto di studi italiani dell’Università della Svizzera italiana ha dedicato al tema “Il cinema di Federico Fellini e la letteratura”, e di cui Quodlibet ha pubblicato gli atti con il titolo Nulla si sa, tutto si immagina. Introdotto da una premessa del curatore Stefano Prandi, il volume contiene quattro interventi (a firma di Corrado Bologna, Valeria Galbiati, Giacomo Jori e Marco Maggi) più un’intervista a Ermanno Cavazzoni (che sceneggiò l’ultimo film di Fellini, La voce della luna, ispirato al suo Poema dei lunatici).

Come sottolineato da Giacomo Jori,

Il rapporto di Fellini con la letteratura è costante e articolato, e riguarda tanto le sceneggiature che rielaborano o si ispirano a opere letterarie, dal Satyricon a La voce della luna, quanto gli scrittori e letterati che lungo tutta la sua parabola artistica collaborarono alle sceneggiature dei film: Pinelli, Flaiano, Guerra, Pasolini, Zapponi, Cavazzoni. […] Fellini esordisce come scrittore, e anche nell’impegno per il cinema la pubblicazione delle sceneggiature fa di lui, a tutti gli effetti, uno scrittore in dialogo con scrittori.

In effetti il rapporto con i libri e la scrittura attraversa tutta l’esistenza del grande regista riminese, che non ha mai smesso di frequentare scrittori e di farsi ispirare dalle loro opere.

Tra i temi toccati nella giornata di studi ticinese vi è, per esempio, l’ammirazione sconfinata di Fellini per Kafka, scrittore di cui –come rilevato da Corrado Bologna– il Maestro amava in particolare la «comicità metafisica» e gli aspetti più grotteschi. Non a caso in Intervista (1987) Fellini ha messo in scena sé stesso impegnato a girare un film da America, romanzo dell’autore praghese di cui apprezzava soprattutto il personaggio di Brunelda (possibile modello dei vari donnoni che popolano il cinema felliniano: dalla Saraghina di 8 ½ alla tabaccaia di Amarcord). E si potrebbe ricordare che tra i sosia che partecipano alla becera trasmissione televisiva messa in scena in Ginger e Fred (1986) compaiono anche quelli di Proust e dello stesso Kafka.

Ragionando intorno al Viaggio di G. Mastorna (film mai realizzato di cui ci resta la sceneggiatura), sia Bologna che Valeria Galbiati toccano poi la questione della presenza di Dante nella cinematografia felliniana, un tema a cui alcuni anni fa era stato dedicato un convegno ravennate (si veda Fellini & Dante, l’aldilà della visione, Genova, Sagep. 2016) oltre a un bel saggio di Massimiliano Chiamenti (Effigi di Dante e di Leopardi in Fellini, in «The Italianist», n. 24/2, anno 2004, pp. 224-237).

Valeria Galbiati rimarca inoltre l’importanza rivestita per Fellini da uno scrittore come Tommaso Landolfi, molto presente nella biblioteca del regista (si veda I libri di casa mia: la biblioteca di Federico Fellini, a cura di Oriana Maroni e Giuseppe Ricci, Rimini, Fondazione Federico Fellini, 2008): se il racconto Cancroregina potrebbe aver influenzato la conclusione del Mastorna, altri testi dello scrittore frusinate (come La pietra lunare e Il racconto del lupo mannaro, e il romanzo La pietra lunare) hanno certamente contribuito alle atmosfere de La voce della luna, debitrici anche di Leopardi, come testimoniato da Ermanno Cavazzoni.

E, a proposito dell’attrazione di Fellini per quegli scrittori che –come Kafka e Landolfi–frequentano il fantastico, il grottesco, l’irrazionale e il mistero, vale la pena di menzionare sia la collaborazione con Dino Buzzati per il progetto abortito del Mastorna (la cui vicenda prende le mosse da un suo racconto), sia la partecipazione al film collettivo Tre passi nel delirio/Histoires extraordinaires (1968), che consiste di tre episodi ispirati a racconti di Edgar Allan Poe (quello girato da Fellini, Toby Dammit, è tratto da Mai scommettere la testa con il diavolo).

Giacomo Jori si sofferma invece sul rilevantissimo contributo offerto al cinema di Fellini da Andrea Zanzotto, autore dei versi in dialetto veneto che accompagnano due scene del Casanova di Federico Fellini (1976), tratto dalle memorie dell’avventuriero veneziano, nonché dei cori cantati su musiche verdiane in E la nave va (1983). L’apporto di Zanzotto per questi due splendidi film, forse tra i meno celebrati di Fellini, costituisce in effetti uno dei capitoli più entusiasmanti della storia del rapporto tra gli scrittori italiani e l’arte cinematografica (una storia ricostruita da Gian Piero Brunetta in Attrazione fatale: letterati italiani e letteratura dalla pagina allo schermo: una storia culturale, Milano-Udine, Mimesis, 2017).

Ai nomi degli scrittori italiani chiamati a partecipare alle sceneggiature dei suoi film (tra i quali, oltre a quelli già citati, anche Luca Canali, autore dei dialoghi latini per il Satyricon) si possono poi aggiungere i molti e importanti autori, anche stranieri, che il Maestro era solito frequentare e con i quali ha spesso corrisposto: Roberto Calasso, Pietro Citati, Mario Tobino, Alberto Moravia, Natalia Ginzburg, Georges Simenon, Milan Kundera, Patricia Highsmith. Complice l’insonnia sempre più snervante, negli ultimi anni Fellini divenne inoltre un appassionato lettore di letteratura italiana contemporanea, spendendosi per promuovere gli scrittori che lo avevano più colpito: da Marco Lodoli a Pier Vittorio Tondelli, da Susanna Tamaro a Ermanno Cavazzoni.

Ampliando il discorso agli anni della sua formazione, si può ricordare inoltre che, prima di cimentarsi dietro la macchina da presa, Fellini si fece le ossa scrivendo per altri registi e lavorando insieme a Brunello Rondi e Tullio Pinelli, futuri sceneggiatori di molti suoi film. E, tra i progetti a cui collaborò, vi furono anche alcune riduzioni di opere letterarie, come gli adattamenti per lo schermo del romanzo di Gabriele d’Annunzio Giovanni Episcopo (diventato nel 1947 Il delitto di Giovanni Episcopo per la regia di Alberto Lattuada) e dei Fioretti di San Francesco (alla base di Francesco, giullare di Dio di Roberto Rossellini), e due film –Il mulino del Po di Alberto Lattuada (1949) e Il brigante di Tacca del Lupo (1952) di Pietro Germi– tratti da opere di Riccardo Bacchelli. Come riportato da Stefano Prandi nella sua premessa, Fellini, parlando nel 1980 del suo lavoro giovanile di sceneggiatore, dichiara che si trattava di un’attività che lo immalinconiva e lo irritava: «Le parole, l’espressione letteraria, il dialogo, sono seducenti ma appannano quello spazio preciso, quella necessità visiva che è un film». Resta il fatto che per lui l’approdo al cinema avvenne attraverso la scrittura, attività che, ancora prima che in qualità di sceneggiatore, aveva esercitato come autore umoristico per la rivista «Marc’Aurelio».

Naturalmente, di fronte a un campo di approfondimento così vasto come quello del rapporto tra la filmografia felliniana e la letteratura, i saggi contenuti nel volume non possono che rappresentare un’inchiesta parziale che, pur toccando alcuni punti decisivi, lascia spazio per ulteriori analisi. Ad esempio, se non abbiamo visto male, nel libro non si fa mai il nome di Carlo Emilio Gadda, che era uno degli autori che Fellini stimava maggiormente.

A tale riguardo, chi scrive aveva suggerito l’ipotesi di una possibile influenza del Pasticciaccio gaddiano su Le notti di Cabiria (1957), seguendo una pista che tirava in ballo anche il rapporto di Fellini con Pier Paolo Pasolini, chiamato dal regista a collaborare alla scrittura del film. Ma, al di là di questa suggestione, è indubbio che la storia della presenza di Gadda nella filmografia felliniana resta ancora da indagare; così come quella dell’altro grande milanese delle lettere italiane del ‘900, ovvero Giorgio Manganelli, i cui libri –tre dei quali con dedica autografa– figurano nella biblioteca di Fellini giunta fino a noi. Tra di essi compaiono due edizioni di Pinocchio: un libro parallelo, il che sarà da ricondurre all’attaccamento del Maestro per la figura del burattino di legno: non solo Fellini dichiarava infatti che quello di Collodi, di cui possedeva varie edizioni illustrate, era stato il primo libro che mai avesse letto, ma alcuni studiosi (come Paolo Fabbri e Nicola Dusi) hanno sottolineato la presenza di Pinocchio nel cinema felliniano e, in particolare, nel Casanova (film che contiene anche citazioni di Petrarca, Ariosto e Tasso).

Possiamo allora concludere con le parole di Marco Maggi: pur avendo dichiarato di diffidare dell’accostamento tra cinema e letteratura, Fellini ha dato ampie prove di una «spregiudicata disponibilità ad attingere a fonti letterarie per dare forma ai propri sogni» (p. 69). Delle sue letture voraci e disordinate, così come del suo amore generoso verso gli scrittori, sono impregnati tutti i suoi film, che continuano ad incantarci e ad offrirci motivi per non smettere di guardarli e interrogarli.

Marco Bisanti: «e si diviene terra promessa»

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Ospito qui una selezione di testi da Nella camera. Esercizi per l’attesa di Marco Bisanti, AnimaMundi edizioni, 2023. Dalla nota di Franca Mancinelli: «un piccolo frammentato romanzo di formazione alla paternità e insieme il diario lirico di una gestazione vissuta, per bios, dall’esterno, nella consapevolezza del ruolo di sentinella e di custode di un prodigio che riconnette la quotidianità con il cosmo […]. Questa capacità di accogliere il mistero dentro i piccoli gesti e rituali quotidiani, fanno di questo libro lo spazio di un apprendistato alla vita, una guida nella gestazione dell’altro che vive nel profondo di noi stessi, un accompagnamento nel praticare l’attesa di dare luce al mondo.»

 

da Il sereno

Fuori c’è il sereno e fa freddo
ma tu dormi nella camera,
cresci nella camera del sangue
dov’è buio caldo liquido
e non c’è spazio
per le favole che conosco,
solo una resa al mistero.
Ti aspetto con la fata dei limoni.

*

La tua costruzione
su questa riva
miete già insonnie
fatte di molte perdite
nausee e gonfiori
con ricorsi a più consulti,
un apprendistato
che si esegue sulla pelle.

*

Il primo suono percepito
ricorda un’eco di vita
in fondo al mare,
poi le acque si rompono
come nel racconto
più antico
di una liberazione

e si diviene terra promessa.

*

Come padre ho un destino
di sapiente nei misteri del buio
– leggerò l’impatto
di una meteora, mi guiderà
la forma di un cratere
sulla superficie di Venere.

 

da Del sangue

La notte si accende
come un giglio di sangue
– fammi accogliere
il pianto e la debolezza
concedimi la resa
di essere sconfinato
sottile e forte, stremato e forte
debole e forte… forte.

*

Finché una mattina ti vedrò
tornare a casa,
negli occhi le arnie
delle api alla fine dell’inverno.

 

da Per la voce

Un’orbita sola di sangue abbiamo
contato attorno alla camera,
poi eravamo di nuovo
azzurri e gravi, impreparati.

*

Le fate quando ti parlano
credono sempre
che tu abbia le ali come loro.

 

da Nella camera

L’attesa rivive davanti alla finestra
nei piccoli abiti di fata
che asciugano sullo stendino,
pentagramma di note
disposte alla prima esecuzione.

*

Usciamo presto la mattina
per il lavoro, diciamo
ma è per la fotosintesi,
a pochi passi dal portone
la camera del sole
sulla pelle ancora di notte.

*

Sarà immenso vedersi
con la nuova vita sulla pelle,
faremo costellazione
se un altro disegnerà nell’aria
la nostra vicinanza.

*

Sei un fiume che unisce
continuità e inizio,
ti ho aperto al sole
con tua madre
e ti navigo per sempre.

*

Adesso entriamo nell’ombra
della Terra, noi
vivi al mistero
come esche all’amo del mondo.