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La neve

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Herisau 1956
 

di ⇨ Paolo Marco Durante

[Ho descritto fatti reali e provato anche a immaginare, mescolando: ne è venuto fuori un misto di verità e menzogna, come sempre d’altronde, nelle cose che facciamo. Percorrere sentieri del possibile, se non sempre del plausibile. Da questo, comunque, mi sono lasciato irretire e trascinare in un gioco pieno di rischi, che però non voleva essere irrispettoso, né presuntuoso né, tantomeno, arrogante. Provare l’emozione, la vertigine, il privilegio, concesso solo a chi scrive e a chi recita, di vivere altre vite, le vite degli altri.]

Esiste al mondo qualcosa di più bello della neve? Si può immaginare una meraviglia più meravigliosa di una fitta, lenta, silenziosa nevicata? E un’attesa più santa, quando il cielo promette e tutto sta per accadere? E si può pensare a una gioia più intensa e più pura di quella dipinta sul volto di un bimbo appoggiato al vetro di una finestra quando i primi fiocchi cominciano a scendere?

Eccoci lì – immobili, fermi e zitti per non sentire noi stessi – ad avvertire la musica celestiale dei fiocchi che calano sul mondo e che si assestano piano, con garbo e accuratezza, l’uno su l’altro, l’uno su l’altro… Una mobilità immobile, incessante, lontana. Una pace ovattata, una quiete imperturbabile, totale, senza paragoni possibili. E un’indifferenza letale, implacabile.

Il mondo – se ancora il mondo esiste – è distante, inaccessibile. L’uomo è solo,  dimenticato, sperduto in uno spazio straordinario, straniato nel possente, opaco, grandioso silenzio, nel prodigioso non colore, mortale, della neve.

Una gioia antichissima, prenatale. Una calma armonia, una beatitudine indicibile, insondabile. E una commozione intensa come una vertigine.

Nello stesso tempo un’ansia lieve, una tenue sofferenza che si insinua, qualcosa di inappagato, di inestricabile, di irraggiungibile. Nel paesaggio stupefacente e caduco, sotto la candida, precaria coltre, pare si debba nascondere qualcosa di smisurato, si debba concretare qualcosa di formidabile, fragile, fuggevole.

Cosa ci può essere di più bello del camminare in un campo innevato, nella luce velata del primo meriggio, il giorno di Natale?


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Herisau 1956
 

La passeggiata era iniziata subito dopo pranzo.

Il paesaggio, stranoto, era dunque irriconoscibile: morbido, smussato, amichevole, evanescente, spettrale. Anche malsicuro però, rischioso, un suo abbraccio più stretto avrebbe potuto… Era bello, bello da far paura, bello da morire. Non c’era possibilità di raffronto, con null’altro al mondo.

Mentre i passi avanzavano piano, sprofondando leggermente in quel morbido sogno, si stava impadronendo della sua anima un senso di acuta e quieta distanza dalle cose mentre il cuore palpitava sommesse emozioni prossime a sconfinare in un’infantile idea di santità  della terra.

C’era un laghetto lì da presso. In realtà nulla più di un minuscolo stagno, circolare. Non era ancora del tutto ghiacciato. La lastra di gelo, partendo dalle basse rive, si espandeva come una ragnatela cristallina lasciando però il centro della pozza in balia dell’alito stesso dell’acqua che si increspava impercettibilmente ricevendo i fiocchi che scendevano pacati, sereni. E rassegnati a morire, annullandosi sulla superficie liquida, rinunciando ad opporvisi. Lì dunque si dissolveva quella unicità irripetibile, quella molteplice, infinita, geometrica singolarità incomparabile, come le generazioni nel tempo, una dopo l’altra, una dopo l’altra.

La passeggiata riprese dopo quella sosta che aveva rivelato il quieto sacrificio.

Scricchiolava quella sconfinata moltitudine di particelle d’acqua ghiacciata sotto i passi che sprofondavano con dolcezza. Un abete si scrollò di dosso il candido mantello con un fruscio lieve, wuff…, un soffio di sollievo.

Si levò dalla coltre bianca un nugolo di fringuelli che rapidi s’innalzarono su, su dove avrebbe dovuto trovarsi il cielo e più quelli salivano più a lui sembrò di precipitare in basso, di sprofondare in una candida vertigine che lo avrebbe inghiottito.

Era giunto sul vasto prato davanti all’Abbazia. Il grande rosone splendeva della luce all’interno come se invece fosse il sole, sparito dal mondo, a farlo risplendere. Sulla destra il cancello del camposanto.

La neve aveva smesso di scendere. Dopo aver tuttavia già uniformato il paesaggio, smussandone le asperità, spegnendone le lame affilate, le cuspidi aguzze che sotto la coltre immacolata si erano chetate. Ora tutto appariva gentilmente e dolorosamente morbido per quel bianco remissivo, mansueto.

Dall’interno della chiesa giunsero voci di bimbi, un coro natalizio, cantavano “O Tannenbaum”.

Le punte di lancia del cancello erano diventate placide e inoffensive. E buffe, come bonari batuffoli d’ovatta sui rami dell’abete addobbato.

Si voltò indietro, a guardare ancora una volta le ultime case del paese. Osservò a lungo il fumo uscire dai comignoli, che si condensava e subito si perdeva nell’aria gelida, e svaniva.

Vide due corvi levarsi dai campi di neve con un volo pesante, faticoso, due cupi pensieri. Il fumo dei comignoli e due corvi. Lo schiocco delle nocciolaie, che però non si vedevano. E le cose, le altre cose. Tutte le altre cose. Il cielo, le nuvole, la nebbia leggera che accarezzava tutto. Gli alberi, il bosco, il paese che adesso era lontanissimo. Le montagne, il resto del mondo, i mari, i fiumi, le isole, tutto, tutto. Avrebbe voluto scrivere una storia su ognuna di quelle cose, tante storie su tutte le cose del mondo, una per ogni cosa. E sulla neve. Sull’aria di neve che si sente ancora prima che scenda. Sul profumo di neve che tutti conoscono ma che nessuno sa descrivere. Su quel cielo da neve invisibile e opaco e su quelle silenziose promesse. Sulla panchina, lì vicino allo stagno. La panchina coperta di neve, curiosa e arrotondata dalla bianca materia che l’ha trasformata in un oggetto allegro, paffuto e inutile, sul quale non puoi sederti ma che fa simpatia.

Robert Walser

Tutta quella neve! Scrivere una storia per ogni cristallo, in omaggio alla sua indicibile irripetibilità. Raccontare – ma come? – la stabile precarietà della coltre bianca, gli equilibri impossibili su un tetto, su un ramo, su una foglia, su un lampione, su un fil di ferro, sui suoi baffi, sui suoi capelli, sulle ciglia, minuscole perle che trasformavano la vista in un regno fatato. E il tonfo attutito di quando la gravità vinceva su quella vita inattuabile, sulla poesia. Fino a quando, anche per questa volta, sarebbero rimaste per terra solo le ultime chiazze ingrigite di tutto l’antico immacolato splendore, a testimoniare che un altro anno è passato.

Proprio in quegli ultimi giorni gli era accaduto di ripensare al romanzo di uno scrittore italiano, che aveva letto, tanti anni prima. Parlava di un uomo, un prete, che si sentiva come un vaso di coccio in mezzo a tanti vasi di ferro. Gli erano rimaste impresse, quelle parole. Anche lui si era sempre sentito così, un vaso di coccio. Ma proprio in quel pomeriggio, durante quella passeggiata avventata, imprudente, proprio in quell’esatto momento, si era reso conto di come quella sensazione che si era portato in spalla, oneroso fardello, per tanti anni, fosse stata invece ingannevole. Aveva compreso ora, ora soltanto, che in realtà i vasi di coccio erano loro, gli altri, anche se mascherati dietro ridicole armature di tolla. E come lui fosse invece non certo un vaso di ferro ma un’ampolla di cristallo, finissimo, lucente, sfavillante. E fragile, sì, fragile e fugace come tutte le cose che contano davvero.

Il coro dei bimbi intonava adesso, lontano, “Stille Nacht”.

Si sentì stanco. Una stanchezza leggera, aggraziata, deliziosa. E profonda, quieta, misteriosa. Una sensazione singolare, nuova, mai percepita prima.

Da lontano sembrò che s’inginocchiasse.

In mezzo all’immenso prato bianco adagiò l’ampolla di cristallo.

La neve, che aveva ripreso a scendere fitta, copiosa, ricoprì la fragile ampolla, in poco tempo, sapientemente, e allora rimase soltanto una morbida ondulazione del manto candido, a ricordo.

Quella morbida ondulazione era adesso in perfetta armonia con la terra e col cielo che intanto s’era riempito di opache minuscole stelle.

Lo trovarono i bimbi.

Herisau, 25 dicembre 1956

 
Robert Walser. Herisau, 25 dicembre 1956
   

Il gatto nel burro

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"La flûte", gravure sur bois de Félix Vallotton (1896)

È uscito per le edizioni Via del vento il volumetto dal titolo L’ubriaco, che raccoglie alcuni racconti inediti di Charles-Louis Philippe; traduzione e cura sono di Stefano Serri. Pubblico come anticipazione il primo testo, Il gatto nel burro. [ot]

 

“La flûte”, gravure sur bois de Félix Vallotton (1896)

 

Boyaud, il macellaio, non solo era alto, ma era anche grosso. Occupava un sacco di posto in città. Lo si notava da lontano, non solo per il suo volume, ma anche per il suo colore. Era rosso. I suoi capelli erano rossi, come quelli di tutti i rossi, ma di simile alle guance c’era soltanto il fuoco. Quando passava vicino a un fienile, gli gridavano:
– Non avvicinarti. C’è della paglia.
Doveva essere come lui, la strada, enorme, rossa e distesa, perché vi potesse trovare posto. Non gli piaceva la carne bianca, il vitello. Mangiava carne di manzo, ne mangiava parecchia. Avrebbe voluto mangiare qualcosa che fosse più carne della carne stessa, e poi, mangiarlo crudo. Non gli piaceva il vino leggero, beveva un vino denso che a bicchieroni si versava dentro come sangue. Quando aveva finito con il vino, attaccava con l’acquavite per scaldarsi le budella. Solo l’acquavite era calda come lui.
Di certo fu la moglie di Regrain che sbagliò per prima. Boyaud era andato a casa di Regrain per cercare un vitello che aveva comprato un giorno nel corso dei suoi viaggi. Quando arrivò, la moglie di Regrain era sola in casa, intenta a battere il suo burro nella zangola. Gli disse:
– Regrain lavora nel campo. Mi aspetti, vado a cercarlo.
Partì, lasciando Boyaud solo nella stanza. Commise un errore. Boyaud non amava restare solo. Se almeno gli avesse dato da bere, avrebbe bevuto per impegnare il tempo. Se ci fosse stato un bambino, lo avrebbe piazzato in cima all’armadio. Non poteva mica sedersi e incrociare le gambe una sull’altra. Che fare? Nelle stanza c’erano soltanto una gatta con il suo gattino. Mentre Boyaud li guardava senza prestare loro troppa attenzione, vide anche la zangola, e gli venne un’idea.
S’impossessò del gattino, sollevò il coperchio della zangola e mollò la bestia lì dentro. Soltanto dopo riuscì a calmarsi e ad aspettare la moglie di Regrain.
Tornò con il suo uomo. Boyaud sistemò i suoi affari. Il vitello venne staccato, caricato nella vettura, il prezzo venne corrisposto. La moglie di Regrain, come al solito, disse:
– Fa comunque male, darlo al macellaio.
L’uomo rispose:
– Che vuoi! gli animali son fatti per essere mangiati!
La donna tornò al suo lavoro, perché così è la vita. Batteva il suo burro, lo batteva per bene. Aveva fama di fare il miglior burro del paese. Dimenticò il vitello. Era stato davvero seccante quella distrazione. Non ci si dovrebbe mai distrarre quando si batte il burro: il suo era già rappreso. Ne fu anche stupita.
– Eppure non c’è stato brutto tempo! È come se la mia panna si fosse trasformata!
Spinse più che poté per comprimerla: davvero, il suo burro era duro come formaggio. Si arrabbiò, lo pestò, gli parlò come se volesse tenerle testa:
– Bestia rognosa, ti sistemo io!
Regrain fu costretto a dirle:
– Invece di arrabbiarti in questo modo, guarda piuttosto che non ci sia qualcosa dentro la tua zangola.
Aveva proprio ragione. Sollevò il coperchio, guardò con attenzione. Quello che vedeva era troppo strano perché non ci pensasse su prima di parlarne. Convinse pure suo marito a venire a vedere.
– Vieni a vedere, si direbbe che c’è una cosa tutta nera!
Nessuno ama mettere le mani nel burro, perché non è corretto verso chi lo compra. Regrain disse:
– Chissà, che non sia caduto dello sporco nella tua panna.
Non si è mai sicuri, nonostante si stia attenti. Rispose:
– Non credo proprio!
– Insomma, resta solo una cosa da fare. Tirati su la manica e tocca quella cosa.
Diede tre grida. Il primo fu un grido di paura; lo diede afferrando un cosa enorme e appiccicosa che stava in fondo alla sua zangola. Il secondo grido, lo diede sollevando quella cosa, e il terzo grido, che fu il più acuto, lo diede nel momento in cui espose il gattino alla luce.
Del resto, entrambi, Regrain e la moglie, videro subito di che si trattava. Era stato Boyaud! Sapevano bene come, da lui, ci si dovesse aspettare di tutto, ma mai si sarebbero aspettati una cosa simile. Si era comportato come un macellaio.
Povero animaletto! Regrain ce l’aveva anche con la moglie. Le disse:
– Non c’era bisogno che spingessi tanto. Dovevi chiederti cosa ci fosse.
Avrebbe pianto, lei, sia per colpa del gatto che per la discussione che ora minacciava di nascerne. Di colpe lei non ne aveva! Posò il gattino all’angolo del camino. Era tutto schiacciato. Mamma gatta si avvicinò. Leccava il figlio. Regrain era furioso e non voleva mettersi in testa che la gatta leccava il cucciolo non perché fosse il suo piccolo, ma perché era coperto di panna! La cacciò con delle pedate.
Solo in un secondo momento pensarono al burro.
Regrain era del parere, santo cielo! che nessuno avrebbe saputo nulla, che lei doveva solo continuare a battere il suo burro e lo avrebbe venduto il giorno di mercato come se la disgrazia non fosse accaduta. Ma lei era orgogliosa, ci teneva alla reputazione dei suoi prodotti, e, prima ancora di approfondire l’argomento:
– Questo, neanche morta!
Regrain ebbe un’altra idea: poiché lei non voleva venderlo, beh! non avevano che da usarlo loro stessi. Di questo, ella non volle sentire neppure parlarne.
Aveva un bel dire, lui.
– Insomma, meglio usarlo che perderlo!
Ce n’erano almeno quattro libbre nella zangola. Per la rabbia, Regrain si alzò e andò a lavorare nel campo.
Il giorno dopo questa sinistra avventura era giorno di mercato. La donna si recò in città con il suo paniere. Sapeva che tutte le mattine, verso le undici, Boyaud andava da Monsel, l’oste, per prendere il suo vermut. Lo spiò. Appena quello si fu piazzato per bene, in compagnia di tutti i bevitori, se ne andò nella macelleria dove la signora Boyaud era sola. Le diede le sue spiegazioni:
– Ecco qua! Vostro marito mi ha detto che volevate mettere da parte del burro e mi ha incaricato di portarvene quattro libbre.
– Giusto, in effetti, è venuto a casa vostra ieri! rispose la macellaia.
Povera donna! Nemmeno per sogno le avrebbe raccontato i brutti scherzi del marito. Eppure le faceva pena, ingannarla! Quella pagò il burro. La moglie di Regrain non perse la testa e le fece pagare un buon prezzo: trenta soldi alla libbra. In piazza, costava ventisei soldi, ma, perdio! la differenza avrebbe rimborsato il gatto!
Quando Boyaud, tornando dall’osteria, venne a conoscere questa storia, fu fortunato a non aver pranzato, perché, in quel caso, si sarebbe beccato una congestione. Uscì in strada, senza cappello; uccidere i Regrain non sarebbe stato sufficiente. Avrebbe dovuto, almeno, mangiarseli! Bruciare la loro casa, era una misera vendetta. Avrebbe voluto ridurla in macerie e ballare sulle rovine fino a farne polvere. Avrebbe voluto rivoltare i campi di Regrain, ammalarsi di una malattia immonda e vomitarcela sopra.
Rientrò a casa per cercare il suo berretto. Aveva voglia di attaccare il cavallo alla vettura e di partire subito per andare a buttarsi nel fiume. Del burro dov’era crepato un gatto! Certo, nessun cibo poteva spaventare Boyaud. Avrebbe mangiato manzo frollato, vitello malato, porco magro, gallina vecchia, porcellino d’India, se avesse voluto. Una volta aveva mangiato anche un porcospino e un’altra volta un corvo. Ogni cosa avrebbe potuto farla bollire un giorno intero nel brodo, se fosse stato necessario. Ma un gatto! Non è, a ben vedere, che di per sé non sia un animale adatto. Un giorno, quando era nel’esercito, durante le grandi manovre, dei soldati, come lui, si erano impossessati di un gatto, gli avevano tolto la pelle, lo avevano fatto cuocere e lo avevano mangiato. Quello che lo spaventava, era il pensiero dei peli. Erano gialli. Dovevano essere bagnati, quando avevano tolto la bestia dalla zangola. I gatti, quando vengono immersi nella panna, diventano una porcheria. Gli sembrava che tutto il burro fosse una sorta di liquido innominabile, che chiamava succo di gatto. Sentiva che stava per diventare incapace di mangiare, per il resto della vita.
Tremava. Non poteva neppure camminare. Attaccare il cavallo? A che pro! Forse non ne avrebbe avuto neppure la forza. Andò in camera da letto, perché lì non c’era nessuno. Avrebbe voluto morire da solo in un angolo, come un cane. Si sedette. Posò il berretto, che gli faceva male. Povero Boyaud! Si mise la testa tra le mani, chiuse gli occhi per non vedere nulla e, tra le sue grosse dita di macellaio, sentì colare delle grosse lacrime, le lacrime del grosso bambino che era.

Per un’educazione democratica

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di Christian Laval e Francis Vergne

( E’ uscita l’edizione italiana del saggio di Christian Laval e Francis Vergne Educazione democratica, trad.it di Davide Borrelli e Rossella Latempa, Novalogos, Roma, 2022, euro 16, riporto qui sotto le conclusioni finali del saggio grazie alla cortese disponibilità di curatori ed editore, g.m.)

Il desiderio di conoscere e l’esperienza del comune

 

I cinque principi dell’educazione democratica[1] non sono ricette ma spunti per riflettere, agire e creare. Mirano a un aldilà rispetto ai tempi oscuri per la democrazia in cui viviamo. Sappiamo in che stato si trovano oggi scuola e università, e sappiamo come ci sono arrivate. L’anomia prende il sopravvento, e con essa la demoralizzazione, a volte il disimpegno. Si sottovaluta la sofferenza che provano gli insegnanti quando non riescono più a trovare nessuno con cui parlare e agire. Si dimentica troppo spesso che insegnare mette a dura prova la persona del docente, lo espone a volte alla violenza fisica e ancora più di frequente a quella psicologica. Si è fatto di tutto per disarticolare i quadri professionali comuni, e l’attuale desindacalizzazione del settore rischia di rimuovere gli ultimi sostegni che gli insegnanti trovavano nel collettivo. Nulla è più grave per il futuro dell’educazione dell’indebolimento della capacità di pensare e agire insieme. Freinet aveva sofferto l’isolamento nella sua scuola, ed è con cognizione di causa che rivolgeva ai membri del suo movimento questo avvertimento: «non restate da soli». La raccomandazione non è mai stata così attuale. L’invenzione di un’altra scuola comincia con la moltiplicazione dei comuni professionali e dei comuni sindacali[2] . È quindi spesso su un terreno ostile e in condizioni a volte estremamente difficili che il docente esercita la sua professione. In qualunque condizione, favorevole o meno, il docente nella sua stessa pratica opera in un campo di molteplici tensioni, messo di fronte ad antinomie che riflettono ed esasperano dottrine e ideologie pedagogiche a volte palesemente opposte: tra libertà e autorità, tra sviluppo del bambino e logica della conoscenza, tra istruzione generale e formazione specializzata, tra finalità economica e finalità socio-politica, e così via. Se abbiamo presupposto che la finalità democratica deve orientare le dimensioni fondamentali dell’educazione, non è certo per dire che le pratiche concrete si possono miracolosamente liberare da tali tensioni. Dare un senso politico forte a ciò che si fa costituisce ancora il modo migliore per non demoralizzarsi di fronte alle difficoltà che ci sono a svolgere semplicemente il proprio lavoro, soprattutto nel momento in cui la condizione economica e il ruolo simbolico di docenti e ricercatori sono così svalutati in un gran numero di paesi, compresa la Francia. L’operazione che abbiamo provato a fare in questo libro è irrealizzabile se non si accetta di immaginare il possibile al di là di ciò che la realtà ci impone. Le pratiche democratiche che consentono fin da ora di cambiare la scuola non sono concepibili se non nell’orizzonte di questa “altra scuola” possibile.

 

Un desiderio condiviso di conoscere

Che cosa può sostenere l’insegnante nel suo slancio verso un’alternativa democratica se non il desiderio di conoscere? Con quali energie il desiderio di conoscere può coinvolgere studenti che non vi sono stati predisposti dal proprio ambiente o dalla propria famiglia? Qui viene chiamata in causa la responsabilità degli insegnanti, ed è in gioco la loro legittimità. Si dice giustamente che i docenti per funzione ne sanno più degli studenti, e che in questa differenza risiede la fonte della loro autorità e del rispetto che dovrebbero ispirare. Se bastasse questo, le cose sarebbero meno difficili per molti di loro. Abbiamo mostrato che occorrono anche altre condizioni, come ad esempio la riduzione del numero di studenti per classe e la maggiore eterogeneità sociale degli istituti. Ma ci sono anche delle condizioni soggettive che hanno a che fare con il desiderio di fare della conoscenza un bene comune accessibile a tutti, e con lo sforzo di facilitare in ogni modo il superamento della distanza tra ciò che gli alunni sanno e le conoscenze che devono acquisire, anche contro programmi o prescrizioni palesemente non idonei. Non affliggere le menti dei ragazzi con la noia e l’addestramento quando invece non ci può essere niente di più appassionante che insegnare e imparare, dipende in parte da tale disposizione soggettiva. Ma l’erotizzazione della conoscenza si scontra con i giganteschi sforzi burocratici tesi a standardizzare i metodi, i contenuti e i dispositivi di valutazione che esperti e ingegneri della formazione impiegano ovunque e in ogni grado d’istruzione. La più recente innovazione “neuro-pedagogica” non è la meno pericolosa: essa si limita a prendere in considerazione del “cervello-computer” solo delle zone di attivazione neuronale in cui si cercherebbe invano, perché non ve la si può trovare, la relazione desiderante che i soggetti istituiscono con la conoscenza attraverso la mediazione del docente e del gruppo classe. All’oggettivazione degli studenti si aggiunge il maltrattamento manageriale che subiscono i docenti, oltre al degrado sociale e all’impoverimento economico. Come possono trasmettere ancora qualcosa del desiderio che li ha portati in classe, come ci riescono ancora, quando la razionalizzazione burocratica intende trasformarli in tecnici obbedienti? Non si pensi che parlando di soggettività si abbandona il terreno politico: al contrario, si resta sempre su questo piano, e più di quanto non si creda. Il management presunto apolitico lo sa bene, quando cerca di “cambiare le mentalità” dei docenti sottoponendoli al «governo per mezzo dei numeri», così ben analizzato da Alain Supiot (2015). Infatti, la posta in gioco non è solo subordinarli nel merito della loro professione a una gerarchia locale, di per sé molto dipendente dalla macchina burocratica, ma indurli a comportarsi come sinistri ingranaggi in un meccanismo di trasmissione degli imperativi economici. È sminuendo il valore della loro funzione, negando la loro professione, degradando la conoscenza a semplici dati d’informazione e a supporti della comunicazione commerciale che il potere burocratico ha cercato di arruolare la massa degli insegnanti nella moderna scuola-impresa, e questo con il pretesto delle “pari opportunità”, dell’“equità” o dell’“individualizzazione”. E per spacciarsi agli occhi dei docenti come una politica virtuosa, tale trasformazione manageriale della scuola è stata avvolta in una retorica pseudo-democratica, un modo ingannevole per mascherare il cambiamento di scopo e di funzione che si è voluto imporre all’istruzione. Peggio ancora, la dimensione democratica e cooperativa di alcune fra le nuove pedagogie è stata ridefinita nei suoi scopi attraverso una reinterpretazione imprenditoriale e tecnicistica della cosiddetta nuova pedagogia. L’“alleanza” fra innovazione pedagogica e spirito del capitalismo è costata cara, soprattutto perché ha accantonato il problema di un’autentica democrazia nelle pratiche scolastiche. Ci sono infatti due tipi di nemici dell’educazione democratica, uno antico e l’altro moderno. Conosciamo bene tutti i vecchi avversari della libertà di pensiero e di azione, i fedeli amici della gerarchia sociale, gli adoratori del mondo ineguale, i seguaci dei dogmi religiosi, i sostenitori dell’autoritarismo e del disciplinamento dei ragazzi. A questi si sono aggiunti nuovi nemici, che pretendono di essere moderni. E non sono meno pericolosi per la libertà di pensiero e per la capacità di agire, anche se il loro linguaggio vuole essere più attraente. La digitalizzazione, l’intelligenza artificiale e la connettività sono i rimedi universali. Succede che i due gruppi di nemici dell’educazione democratica, quello antico e quello moderno, formino un’alleanza. Ad esempio, nei paesi dove si è imposta negli ultimi anni una forma particolarmente autoritaria e brutale di neoliberalismo, in particolare in Brasile, Ungheria o Turchia. Questo nuovo patto oscurantista si può estendere. I segni si stanno moltiplicando fino in Francia.

 

L’esperienza del comune educativo

È verso tutt’altra direzione che occorre muoversi nel fare l’esperienza del comune in ambito educativo, a tutti i livelli e in tutte le sue dimensioni. L’educazione democratica non si può immaginare pienamente che in un’altra società. Diviene concepibile solo nel momento in cui “quelli che stanno in basso”, vale a dire la maggioranza delle persone, possono scegliere il proprio destino rendendo la società più vivibile e la Terra ancora abitabile, non per rimettere questo desiderabile futuro nelle mani di persone più potenti di loro, ma determinandolo essi stessi negli organi decisionali alla loro portata, dove vivono e lavorano. Qui si incontra una grande difficoltà: come possono i poteri costituiti accettare di buon grado un’educazione guidata da un obiettivo così radicale che li mette in discussione? Si misura allora la posta in gioco storica e la responsabilità degli educatori che sostengono l’accesso a scuola per tutti, una pedagogia cooperativa, una cultura comune di buon livello: lottare per l’istruzione democratica significa volere la sovranità popolare che ne è l’orizzonte. L’educatore democratico, se è coerente con sé stesso, deve interrogarsi sul rapporto tra la sua azione educativa e l’andamento della società. Non può nascondere la testa nella sabbia come gli struzzi, che gli piaccia o meno vi è coinvolto. Quando si chiede di quale cittadino avrà bisogno il mondo per continuare a essere ancora vivibile e abitabile domani, è costretto a chiedersi che tipo di educazione politica si dovrebbe attuare a partire da oggi. E si rende conto che non saranno sufficienti solo piccoli ritocchi e aggiustamenti del vecchio sistema. Che ci vuole una vera rifondazione, una vera rivoluzione. La consapevolezza della necessità di una rivoluzione educativa non gli impedisce di fare lezione. La speranza in un altro mondo possibile è la condizione affinché il docente sia ascoltato dai ragazzi che saranno chiamati ad attuare quella che troppo pudicamente viene definita “transizione ecologica”, e che in realtà è un mutamento radicale del modo di produzione e di vita su una scala che è difficile da immaginare. L’educatore democratico non deve essere semplicemente “in sintonia” con le urgenze del suo tempo, deve essere soprattutto un portatore di speranza. Se vogliamo evitare le regressioni religiose dogmatiche o le ridicole illusioni della svolta transumanista o della conquista del pianeta Marte, l’educazione democratica deve offrire alle nuove generazioni un orizzonte politico, sociale ed ecologico più felice della rappresentazione da incubo di una serie di disastri della cui esperienza ci ha dato una prima idea la pandemia di Covid 19. Ma la speranza non può passare come ai tempi del razionalismo illuminato, del positivismo e del marxismo dogmatico attraverso una fede ingenua nel progresso della scienza, il che tornerebbe a rimettere ai sapienti, ai professori e agli “intellettuali” il compito di tracciare la via alla felicità. L’alternativa non è nella tecnoscienza ma nella democrazia reale, nella presa in carico da parte della società stessa del proprio futuro, al quale la conoscenza deve contribuire nella misura in cui risponde ai bisogni di sapere di tale società. Robert Musil ha osservato che «se il senso della realtà esiste, e nessuno può mettere in dubbio che la sua esistenza sia giustificata, allora ci dev’essere anche qualcosa che chiameremo senso della possibilità. Chi lo possiede non dice, ad esempio: qui è accaduto questo o quello, accadrà, deve accadere; ma immagina: qui potrebbe, o dovrebbe accadere la tale o talaltra cosa; e se gli si dichiara che una cosa è com’è, egli pensa: be’, probabilmente potrebbe anche esser diversa» (1930-43, p. 12). E Musil plaudiva al «consapevole utopismo che non si sgomenta della realtà bensì la tratta come un compito e un’invenzione» (ibidem). Questo è quanto abbiamo voluto tentare. Non si tratta come nelle vecchie utopie di proiettare in un futuro immaginario l’educazione perfetta, ma di darci la possibilità di espandere su più vasta scala aspirazioni, lotte, pratiche che si aprono a una nuova forma di educazione. Come ci ha invitato a fare André Gorz, «bisogna imparare a discernere le possibilità non realizzate che sonnecchiano nelle pieghe del presente» (1997, p. 9). Eric Olin Wright ha parlato di «vere utopie» (2010). Si tratta in effetti di sperimentare realmente e concretamente nuovi principi e di verificare collettivamente che le conseguenze siano positive. In questo senso il nostro lavoro vuole essere un invito a un nuovo sperimentalismo educativo nella prospettiva della rivoluzione democratica e nei limiti del possibile. È tempo di rendersi conto che il senso della realtà si unisce oggi al senso della possibilità. Questo è il solo senso veramente realistico nel momento in cui è la realtà stessa che impone un cambiamento nei modi di vivere, di agire e di educare.

[1] Sono i 5 principi attorno ai quali è organizzato il libro, uno per ciascun capitolo: il principio di libertà pedagogica e accademica; il principio di uguaglianza di condizioni concrete di accesso ai saperi; la ricerca di una cultura comune aperta e plurale; il principio di democrazia e autogoverno dell’istruzione, dalla scuola d’infanzia all’università [NdR].

[2] Non abbiamo analizzato nel libro una delle condizioni di tale trasformazione, che è il rinnovamento dell’azione collettiva e la rifondazione del sindacalismo nel settore dell’educazione. Lo abbiamo fatto nei nostri lavori collettivi per l’istituto di ricerca della Federazione Sindacale Unitaria dell’insegnamento, della ricerca e della cultura (FSU): Barnier, Canu, Laval, Vergne (2016), Laval, Vergne (2019) e Vergne (2021).

 

 

Fascismo di oggi

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di Antonio Sparzani

Il 26 dicembre 1946, nello studio del padre di Arturo Michelini, presenti anche Pino Romualdi, Giorgio Almirante, Biagio Pace, avvenne la costituzione ufficiale del Movimento Sociale Italiano (MSI) e la nomina della giunta esecutiva, formata da Giacinto Trevisonno, Raffaele Di Lauro, Alfonso Mario Cassiano, Giovanni Tonelli e Carlo Guidoboni. Su indicazione di Romualdi, Trevisonno fu scelto come segretario perché poco esposto nel regime fascista e decise di fondare un movimento invece che un partito. Tuttavia Trevisonno si dimise il 15 giugno 1947 perché la giunta esecutiva aveva deciso di accettare nelle sue file anche deputati della Costituente dissidenti provenienti dall’Uomo Qualunque. Diventò allora segretario Giorgio Almirante. L’MSI dal 1947 ha come simbolo la fiamma tricolore, spesso identificata in quella che arde sulla tomba di Mussolini.

Gazzetta Ufficiale 27 dicembre 1947, n. 298:
Costituzione della Repubblica Italiana, disposizioni transitorie e finali,
titolo XII
È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista.
In deroga all’articolo 48, sono stabilite con legge, per non oltre un quinquennio dall’entrata in vigore della Costituzione, limitazioni temporanee al diritto di voto e alla eleggibilità per i capi responsabili del regime fascista.

Da allora l’MSI, non sfiorato dal Titolo XII qui sopra riportato, ha cambiato vari aspetti formali, nome e statuti. Ha cambiato segretari e dirigenti, ma ha continuato ad avere buoni rapporti con personaggi del tutto equivoci (grande eufemismo!) del genere di Pino Rauti o Stefano delle Chiaie, il cui ruolo nella strategia della tensione e nelle azioni della destra radicale è stato storicamente provato oltre che dichiarato in varie sentenze di tribunali passate in giudicato. Ha sempre invece mantenuto, e tuttora mantiene, irrinunciabile, la fiamma tricolore nel suo simbolo ufficiale che arda ancora per bene.

Nell’attuale non felice centenario della Marcia su Roma, che portò Mussolini e il fascismo al potere, in Italia governa una coalizione il cui principale partito è appunto l’erede, ovvero l’ultima versione, del MSI, che dopo tutti gli opportuni cambiamenti di nome, è diventato Fratelli d’Italia, che bello, è l’inizio del nostro inno nazionale.

Per la non felice coincidenza del recente 26 dicembre con quella lontana data di 76 anni prima, l’attuale sottosegretario alla Difesa Isabella Rauti, figlia del sunnominato Pino, e il presidente del Senato, seconda carica dello stato, Ignazio La Russa (entrambi, s’intende, fratelli d’Italia) si sono sentiti che ormai, date le condizioni politiche attuali, potevano permettersi di commemorare, o, diciamo, celebrare la nascita del MSI.

L’Italia, che nel 1960, quando il governo di Fernando Tambroni ebbe l’appoggio esterno del MSI, saltò per aria, tanto che il governo durò, con qualche interruzione, quattro mesi, adesso muta e attonita, quando non plaudente, sta; proteste deboli e inconcludenti dai vari partiti d’opposizione che neppure su questo comunque trovano un qualche accordo. Continuiamo tutti a stare a guardare, anche noi muti e attoniti?

Lettura molto consigliata: Franco Ferraresi, Minacce alla democrazia – La Destra radicale e la strategia della tensione in Italia nel dopoguerra, Feltrinelli, Milano 1995, purtroppo non più ristampato ma reperibile nelle migliori biblioteche (o chiedendone al sottoscritto una copia pdf).

“Signora Disgelo”: tre cartoline per il sei gennaio

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a cura di Bianca Battilocchi,

Viviana Fiorentino, Mariadonata Villa

Il sesto giorno del calendario gregoriano celebra l’Epifania cattolica e la cosiddetta ‘Befana’ che raccoglie l’eredità di quegli antichissimi culti agrari propiziatori alla rinascita della natura. Questa personificazione al femminile dell’inverno è infatti chiamata anche ‘Signora Disgelo’, colei che spazza via dalle case il vecchio per fare spazio al nuovo. In Irlanda, soprattutto nel sud del paese, il 6 gennaio è Nollaig na mBam, il ‘Piccolo Natale delle donne’, con riferimento alla tradizione di lasciare che gli uomini si occupino dei preparativi della festa lasciando riposare le donne. Oggi viene festeggiato con degli incontri di lettura e scambio di libri di autrici che si sono lette e amate.

In sintonia con l’augurio di Rigenerazione racchiuso in questa giornata di crocevia culturali, abbiamo voluto proporre tre cartoline poetiche per ricordarci e ricordare la necessità di quegli elementi femminili volti alla creazione e trasformazione.

 

 

1922-2022: tre piste di riflessione dopo il voto del 25 settembre in Italia # 1

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di Giuseppe A. Samonà

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Ho vissuto in Italia i primi vent’anni della mia vita, e altrove i successivi quaranta: ma in Italia sono tornato regolarmente, almeno una volta l’anno, soprattutto per via di alcuni affetti preziosi che ancora ci vivono, registrandone attraverso il tempo mutamenti più o meno significativi. È questa distanza partecipe che ha orientato le mie impressioni sul voto del 25 settembre, sulla campagna elettorale che lo ha preceduto e sulle reazioni, o i silenzi, che ha provocato nelle settimane che lo hanno seguito, in particolare imponendomi all’attenzione questioni che nella discussione italiana sono meno o per nulla considerate, o comunque facilmente risolte con formule che a me, da questo mio punto di vista lontano-vicino, appaiono spesso come luoghi comuni. Vorrei condividere queste impressioni, questi abbozzi di riflessione, forse più antropologiche – o persino in parte sentimentali – che politiche, con gli amici italofili o italiani che come me non abitano in Italia, e con quelli che continuano ad abitarci.

  1. Il fascismo

In Italia c’è da tempo un gran ripetere che non esiste più un pericolo fascista. Anno dopo anno sempre più forte e aggressiva nella società come nel parlamento, lo ha frequentemente ripetuto la destra radicale, dapprima suadente poi via via più sprezzante, fiera: Non siamo fascisti, volentieri precisando che non possono esserlo perché il fascismo non esiste più, non ha più senso (e dunque, va da sé, non ne ha più neanche l’antifascismo…). Ma, sia pur in una diversa prospettiva, lo han ripetuto non pochi dei loro avversari a sinistra, o per dir meglio, nel campo che si richiama al progressismo: Non sono fascisti, il fascismo non può tornare, appartiene alla storia, spesso precisando che la destra va combattuta, certo, ma il voto deve essere rispettato, la democrazia è solida, etc. Per i primi, si è trattato innanzitutto di un modo di farsi accettare, di rassicurare – più l’Europa che l’Italia, dove la parola fascismo oramai non crea più il rigetto di una volta – nella loro marcia trionfale verso il potere, e del resto il ritornello sta nel contempo mutando di colore e perdendo in intensità ora che al potere ci sono arrivati; per i secondi, viceversa, si è trattato di un modo di rassicurare se stessi, di addomesticare la possibile sconfitta, con il ritornello che si è intensificato nel mentre quella sconfitta assumeva i contorni dell’apocalisse, quasi che il negare il pericolo ne dissolvesse la realtà: un po’ come quando si evita di pronunciare il nome di una grave malattia, perché il semplice nominarla la renderebbe irreversibile, costringendoci a cambiar vita per combatterla.

Ora il pericolo, anzi, il fascismo, in Italia esiste, non è mai morto, e non è mai stato tanto florido come oggi – anche se certo non si tratta del fascismo storico, quello del manganello e dell’olio di ricino, perché la storia non si replica: e su questo ha buon gioco Giorgia Meloni a ridicolizzare l’accusa che le è, sempre di meno per altro, rivolta. Ma di cosa si tratta, allora?

Innanzitutto, a un livello più profondo, sotterraneo, va considerato quello che Carlo Levi ha definito “l’eterno fascismo italiano” [L’eterno fascismo italiano (altritaliani.net)], e su cui hanno aggiunto del proprio tanti altri scrittori e artisti (Sciascia, Consolo, Camilleri, Fellini, etc. per non citare che quelli che ho avuto modo di riavvicinare negli ultimi tempi): il lungo Ventennio mussoliniano ne è stato solo uno straordinario momento di compiuta apoteosi; i molti anni di Berlusconi (di nuovo, più o meno un ventennio…) e quelli più recenti e meno numerosi di Salvini lo hanno prepotentemente riportato alla luce, con le sue pulsioni, i suoi tic, i suoi luoghi comuni… Il termine “eterno” tuttavia non deve trarre in inganno: non rimanda a una presunta italianità innata, quanto a un terreno, a una predisposizione culturale composita che si è formata in un largo movimento della storia e i cui tratti hanno finito con l’infiltrare – come se fosse appunto da sempre – la società italiana.

Del resto è Manzoni, con I promessi sposi, a offrirne una delle più acute e inalterabilmente attuali descrizioni, come se questo romanzo del XIX secolo (la versione finale è del 1840) che retrocede l’azione nella pre-Italia del XVII avesse acquisito, attraverso l’immortalante caratterizzazione dei personaggi che mette in scena, la capacità di navigare attraverso il tempo, anticipando il futuro: che si pensi fra i più significativi al mediocre tiranno Don Rodrigo e alla corte dei mediocri e cinici asserviti che gli gira intorno, dal frivolo conversatore cugino Attilio al cialtronesco avvocato Azzecca-garbugli, con l’incomprensibile intrico di grida leggi e pene che lo aiuta e aiuta in generale l’oppressore contro l’oppresso, affermando tutto e il contrario di tutto; o ancora al vanesio e ridicolo politicante Conte zio, gonfio del proprio vano prestigio, o al Griso, al Nibbio, allo Sfregiato e agli altri bravi, gli scherani del potente don Rodrigo o dell’ancor più potente Innominato; e soprattutto a Don Abbondio, il prete codardo e arrangione, disposto a sottomettersi a qualunque potente in cambio della sua piccola ed egoista tranquillità domestica (il cattolico – convertito – Manzoni è stato vicino al pensiero illuminista e al protestantesimo versione giansenista e non esita ad denunciare il vizio insito nella struttura ecclesiastica), non a caso è Alberto Sordi, vera e propria incarnazione della viltà furba e meschina della piccola Italia, a rappresentarlo nel celebre sceneggiato televisivo della fine anni Ottanta. (Ovviamente nei Promessi Sposi, come anche in Italia, oltre ai vizi ci sono le virtù: ma, nonostante il lieto fine, Manzoni è decisamente più abile nell’eternizzare i primi che le seconde: forse perché i primi esistono veramente, le seconde sono soprattutto delle aspirazioni.).

Anzi, pochi anni prima dei Promessi Sposi – o se se si preferisce parallelamente alle prime versioni del romanzo – alcuni di questi vizi insieme ad altri li aveva già descritti Leopardi, con identica capacità di navigazione attraverso le epoche, anche se su un piano più filosofico, nel Discorso sopra lo stato presente del costume degli Italiani (1824 – e si noti che sia Manzoni che Leopardi pensano e scrivono prima della nascita istituzionale dell’Italia…). Ora, appunto, non sono più i personaggi emblematici a parlare, ma lo scheletro stesso della nazione, in modo ancora più crudo, attraverso alcune sconvolgenti generalità: in primis, quella da cui derivano tutte le altre, la mancanza di società stretta, la società cioè considerata nel senso del rapporto più intimo che gli individui hanno fra di loro, nella quale ognuno tiene conto di tutti gli altri – e dietro appunto, di conseguenza, la generale assenza di centro, la poca cura che si ha verso il proprio onore, l’indifferenza all’opinione pubblica, il cinismo sociale, la forte predisposizione a ridere di tutto e di tutti che va insieme all’incapacità politica etc. Con una radicalità assoluta: le possibili virtù stanno infatti sullo sfondo, sono ombre che accompagnano i vizi, in un certo senso li definiscono, non hanno esistenza propria, non interessano comunque Leopardi; e in realtà non si dovrebbe neanche parlare di vizi e virtù, ma semplicemente di incurabili peculiarità, analizzate con l’impassibile occhio clinico del chirurgo, o dell’entomologo. Qui insomma non è previsto nessun lieto fine.

Andrebbero entrambi riletti, il romanzo di Manzoni e il discorso di Leopardi, insieme agli scritti storico-politici di Piero Gobetti, che interpretò il fascismo – per riassumerlo con la sua celebre formula – come l’autobiografia della nazione. Se dovessi molto liberamente, anche attraverso la griglia storica che mi viene dai miei studi, intrecciarli insieme tutti e tre (anzi tutti e quattro, con Carlo Levi), direi: l’Italia, arroccandosi  sulla Controriforma, o meglio, non essendo neanche sfiorata dalla Riforma – una Controriforma senza Riforma insomma! – è rimasta più o meno impermeabile alla modernità, immatura, strutturalmente dominata dall’ideologia piccolo-borghese, caratterizzandosi con una mancanza di autonomia, di vita libera, o più semplicemente di società autentica, nel senso del vivere insieme, anche per via di una disposizione (nel senso collettivo della polis, del vivere insieme) alla servitù volontaria e al cinismo, all’indifferenza per il bene comune – il che significa anche la preminenza del senso comico rispetto a quello civico – al quale sempre si preferiscono le diverse forme di famiglia… In questa direzione, il fascismo è una malattia soggiacente, cronica, una vocazione culturale prima ancora che politica, che come l’araba fenice sempre può rinascere dalle sue ceneri. E l’antifascismo la cura, l’antidoto – anch’esso per fortuna appartenente alla storia italiana! – l’unica possibilità di riscatto…

Va quindi considerato un secondo elemento, più drammaticamente concreto e squisitamente storico, nel senso della storia più vicina, breve. La Resistenza, che ha appunto permesso di riscattare la vergogna del Ventennio, ha di fatto, soprattutto ai suoi inizi, mobilitato un’esigua minoranza di italiani in una piccola parte del paese, facendosi più consistente solo dopo l’evidenza della disfatta. In questo senso, guardando indietro nel tempo attraverso quasi ottant’anni di vita nazionale (che in tutto, lo si ricordi, ne conta poco più di centocinquanta), non si può non constatare che questa gloriosa pagina della storia italiana è stata anche la foglia di fico che in qualche modo ha permesso di non vedere, di evitare un reale lavoro di memoria: l’Italia, vuoi per adesione vuoi per indifferenza, era stata globalmente fascista, e il fascismo, i suoi uomini, non si sono evaporati per magia dopo il 1945, ma – anche grazie a consistenti provvedimenti di amnistia – sono materialmente passati dentro gli apparati pubblici, la burocrazia, i luoghi di lavoro della nascente Repubblica italiana – ed è stata un’infiltrazione capillare, profonda. E poi c’è stato il Movimento Sociale Italiano (MSI), fondato da reduci della Repubblica Sociale Italiana e del Regime, Giorgio Almirante in testa, un partito consapevolmente, volutamente fascista, anti-democratico, anche se via via con qualche aggiustamento più di facciata che di sostanza, che costituzionalmente  sarebbe dovuto essere fuorilegge – ricordate? articolo 12 delle disposizioni transitorie e finali:  È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista – e invece è stato sin dall’inizio presente nel Parlamento, nonché dentro la società, più o meno oscuramente legato alle diverse trame nere che hanno avvelenato la vita del paese. Berlusconi ha avuto per così dire il merito di ridare legittimità, forza, blasone a questa destra radicale e a idee, gesti, simboli, che nella Prima Repubblica erano ufficialmente fuori dal cosiddetto arco costituzionale, e di annacquare il termine “fascista”, al suo posto trasformando “comunista” in insulto (i comunisti, lo ricordiamo, ebbero un ruolo fondamentale nella Resistenza, e poi nella scrittura della Costituzione). Quella che un tempo si chiamava maggioranza silenziosa è tornata, e rumorosamente, a parlare, è diventata la spina dorsale del paese. Ed ecco, come a compiere la parabola iniziata nel 1994 con la prima vittoria del Cavaliere, che oggi a vincere le elezioni c’è un partito che se, va ripetuto, non si richiama al Ventennio, si vuole esplicitamente diretto erede, financo in alcuni suoi elementi chiave, del MSI, a cominciare dall’assunzione come suo simbolo rappresentativo dell’infausta fiamma tricolore. Con un sintomatico rovesciamento: se un tempo il partito di Berlusconi ha guidato, come elemento principale, coalizioni di centrodestra in cui rappresentava la destra, oggi fa parte di una coalizione di cui rappresenta, come partitino comprimario, il centro moderato – di conseguenza sarebbe forse più chiaro parlare di coalizione di “estrema destra-destra”. E c’è anche, come emblematica ciliegina sulla torta, il ritorno in senato di Berlusconi in persona, nove anni dopo la sua decadenza per via della legge anti-corruzione detta Severino (che ora la destra a lui più vicina vorrebbe non a caso cambiare nella sostanza).

Insomma, il fascismo del 1922 non è tornato né sta per tornare, ma se questa destra governerà per qualche anno – e non vedo nell’immediato cosa potrebbe impedirglielo – la Repubblica nata dalla Resistenza, l’antifascismo con i suoi simboli, a partire da diversi nomi delle strade, delle piazze, dei ministeri, etc., i libri di testo nelle scuole, la Costituzione, e dietro tutte le battaglie per i diritti civili e sociali, saranno (già lo sono) oggetto di un attacco costante, e senza precedenti: anche se probabilmente tale attacco, considerando la notevole intelligenza politica e retorica di chi questa destra la dirige, non si farà in modo lineare e frontale, ma come dire, dal di dentro, localmente (i segni già si moltiplicano…) sotto la spinta di una subdola e questa sì senza mezzi termini riscrittura della Storia: cambiare il passato per regnare sul presente – il discorso di insediamente del(la) neo-nominat(a) Presidente del Consiglio è in questa prospettiva esemplare. L’Italia in altri termini non si avvia – probabilmente – a essere fascista, ma si avvia decisamente a non essere più antifascista, risvegliando valori, parole, gesti, simboli evidentemente soltanto sopiti, in totale antitesi con quelli che nei cinquant’anni successivi alla guerra hanno fatto, socialmente, civilmente, culturalmente, la forza di un paese avido di futuro, e sino a qualche anno fa ancora avvolti dalla vergogna. Il mutamento è epocale, antropologico, ben più che politico – si provi a immaginare, secondo scenari ovviamente molto diversi, se la Francia si svincolasse dalla Rivoluzione del 1789, o la Germania dalla pregiudiziale anti-nazista, o ancora gli Stati Uniti dichiarassero che la lotta al razzismo non ha più senso… – e come tale non è certo istantaneo, matura da tempo. Di fatto, quelle parole, quei gesti, simboli e valori circolano già da diversi anni, diventando più forti, più banali a ogni giro di calendario, e rivelandosi anche nei più piccoli dettagli: le esternazioni di un barista romano o palermitano, i malumori della gente al mercato, o in qualche luogo di lavoro, con ricche variazioni di esterofobia, gli scambi, le chiacchiere ad alta voce di sempre più numerosi turisti nel metro parigino, o in fila per prendere l’aereo che li riporti a casa o per salire al Partenone di Atene (cito a caso ricordando episodi di cui sono stato testimone e che negli anni si sono fatti sempre più frequenti). È come se l’immagine dell’italiano medio stesse cambiando colore – la leggendaria bonomia lascia gradualmente il posto a un livoroso incattivimento… – e il paese si isolasse sempre di più, si avvitasse su se stesso: nel senso di quell’autobiografia della nazione di cui dicevo prima. Tuttavia un paese non è mai un paese solo, ma molti: così, mentre la nuova-antica Italia si andava via via risvegliando, l’altra Italia, quella diciamo della Repubblica nata dalla Resistenza, o almeno dei suoi settori più a sinistra, ha via via perso la sua capacità collettiva di resistere, di manifestare il dissenso, di progettare il futuro, sino a cadere in una sorta di rassegnata letargia, se non direttamente a scomparire. Ecco, in questa prospettiva le ultime elezioni sono semplicemente il sigillo, la sentenza che rende ufficiale una situazione già esistente, come anche un’ulteriore, significativa scossa, un poderoso squillo di tromba, le cui conseguenze non sono ancora misurabili.

Questa nuova destra al passo coi tempi (formuletta…) ormai dichiara apertamente di voler cambiare in profondità l’Italia, anzi, la Nazione; molti suoi avversari sdrammatizzano dicendo – è una formula anche questa – non cambierà nulla, come sempre! E da un certo punto di vista è vero perché, come scriveva Giuseppe Pontiggia, l’Italia è il paese delle Sabbie immobili – anche nel senso di quel che scriveva nel Gattopardo Lampedusa: Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi… Si tratta tuttavia, per così dire, di un’immobilità dinamica e pericolosa, perché riafferma un’antica e radicata prospettiva della storia nazionale. Eh già…: Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta… (O anche appunto, per qualificare questo risveglio con un’epentesi: … s’è destra…)

[Continua…]

Palo luce 33

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di Anna Caldara

Diceva che ero la sua Jeanne Hebuterne ma non so se lui fu mai il mio Modì.

Erano giorni da cani sciolti e rhum in vena, con l’astinenza che non sapeva più se restare o venirmi a cercare per le strade di quella Milano da bere, o da trascurare, chissà, per riportarmi al solito posto. Al palo luce numero 33. E me l’ero conquistato quel palo a suon di scazzottate con le altre puttane della zona, tutte straniere con tanto di papponi al seguito che però non si immischiavano e ci lasciavano sfracassare tra noi mignotte.

Io non avevo un pappone ma un fidanzato e forse non c’era davvero tutta questa differenza se non la soddisfazione di poter dire e pensare che a me qualcuno mi amava davvero, mica come quelle poverette che una volta a casa le prendevano se avevano incassato poco. Io le botte non le ho mai prese per i soldi, anche perché nessuna guadagnava più di me che ero italiana e, modestamente, mi davo un gran daffare con bocca e cosce, ma le prendevo solo quando lui aveva bevuto troppo e magari ci aveva aggiunto anche qualche sniffatina. Allora gridavo che la doveva smettere, che doveva farsi bastare l’eroina, che non la sopportavo più tutta quella situazione da tossici scaduti e che me ne sarei andata. Anzi, se ne doveva andare lui visto che l’affitto lo pagavo io. Più urlavo più lui si arrabbiava perché mi volevo far sentire proprio da tutti, brutta puttana della malora, e ci dava dentro ancora di più con calci in testa e anfibi rinforzati fino a che stare zitta mi sembrava la soluzione migliore. Alcune volte i vicini chiamavano la polizia ma, anche se lo portavano in questura, poi tornava sempre a casa chiedendo scusa, che non l’avrebbe più fatto e che mi amava e che non era colpa sua ma delle sostanze e che si sarebbe disintossicato al Sert e le solite balle. Io ero una puttana romantica e quelle bugie me l’ero sempre bevute ma scema fino in fondo no e, dopo l’ultima volta, decisi che non l’avrei più fatto entrare in casa. Avrei cambiato la serratura e staccato il citofono e se l’avessi visto solo una mezza volta in quartiere o al mio palo avrei chiamato subito la polizia, i carabinieri e tutto l’esercito messi insieme. Non volevo più rivedere la sua faccia del cazzo perché volevo sentirmi libera di fare quello che mi pareva, anche di non essere più una puttana, e di andarmene in giro tutto il giorno a fare shopping e bere rhum e coca. Di certo io non mi sarei mai ubriacata col vino nel cartone a 0,99 euro della Lidl che chissà quante porcate doveva contenere e che se poi ti stordiva avevi mal di testa per tre giorni. Ne avevo già abbastanza della scura che fumavo su strisce di stagnola e che anzi, in questa mia nuova vita non avrei più nemmeno fumato. Mi sarei liberata da tutte le dipendenze per tornare a splendere nel fantastico firmamento delle luci in ascesa. Largo gente, non c’è nulla di più irresistibile di una ex puttana ingrifata di vita!

E davvero non saprei dire come fosse potuto accadere di ridurci così, a sputarci addosso saliva e bestemmie con la stessa passione con la quale una volta facevamo l’amore. Ci eravamo amati tantissimo anche se lui era un eroinomane ed io, pur di non perderlo, lo sono diventata a mia volta perché volevo sempre stare con lui, addosso come fanno i vermi e, quando mi bucava, il mio cuore scoppiava d’amore. “Sono tua” gli dicevo “puoi anche uccidermi se ti va e se lo farai io non lo saprò mai perché sarà una morte tanto veloce che nemmeno me ne accorgerò”. E quando poi finirono i risparmi, e quando i soldi prestati e poi rientrati sparirono definitivamente, e quando gli sbattimenti per smerciare qualche vestito o almeno uno dei nostri due cellulari, che tanto uno poteva bastare visto che eravamo sempre insieme, o il minipimer perché a quanto pareva gli spaccini avevano sempre bisogno di un minipimer, quando tutto questo cominciò a fruttarci meno di un grammo, e per noi un grammo sarebbe stato comunque poco, quel tanto per tirare là mezza giornata, decidemmo che battere sarebbe stata la scelta migliore. O meglio, decidemmo che io avrei iniziato a battere mentre lui mi avrebbe fatto da bodyguard e mi avrebbe portato un bel caffè caldo nelle notti gelate in cui l’aria si sarebbe divertita a mangiarmi la fica. Saremmo stati l’invidia di tutte le puttane della zona, roba da non credere.

E invece eravamo diventati i nostri nemici pubblici numeri uno e non si riusciva proprio a farlo quel maledetto passo indietro in memoria dei vecchi tempi perché i vecchi tempi se n’erano andati e con loro anche il nostro grande amore. Troppa droga, troppi soldi, troppi uomini, troppa solitudine. Insieme ci saremmo solo fottuti perché non saremmo mai riusciti a salvarci, nemmeno se ci fossero mancati quei nostri abbracci forti, con quell’odore acido di scoppiatura che rimaneva sui vestiti per giorni.

“Sai che assomigli a Jeanne Hebuterne? Te l’hanno mai detto?”

Proprio così mi disse a uno dei nostri primi appuntamenti, o non appuntamenti visto che io avevo preso un impegno con lui mentre lui aveva un puntello con lo spaccino di turno.

“No, non credo. Ma non so nemmeno chi sia”

“Era la donna di Modigliani che si è buttata dalla finestra due giorni dopo che lui era morto”

Non mi sembrava un bel presagio, perdio!

“Vuoi essere la mia Jeanne Hebuterne?”

Gli risposi di no ma nella realtà lo fui e lo seguii più della sua stessa ombra in posti in cui anche le ombre se ne sarebbero andate volentieri se avessero potuto. Vidi uomini in quasi decomposizione con una puzza di carogna così acre da non sapere più se quella che avevo davanti era proprio una persona o una carcassa animale. Vidi donne sbavare per aver fatto una pera troppo piena e altre camminare carponi cercando il figlio che avevano dato in adozione. E non ci si può mica dimenticare di un dolore così doloroso perdio, che a pensarci la disperazione mi camminava ancora addosso.

Avevo bisogno di una fumata di roba per calmarmi.

Non potevo di certo mollare tutto in una giornata, ci voleva organizzazione perché senza eroina sarei stata male come una cagna bastonata e di botte ne avevo abbastanza. E il palo luce 33 non lo potevo mica abbandonare all’improvviso, dopo tutte le lotte intestine che nemmeno i sindacati ne avevano mai viste di così appassionate: il territorio era stato segnato ed ora andava difeso. E poi forse non ero arrivata al punto da odiare così tanto il mio fidanzato o ex fidanzato, chi lo poteva sapere, da condannarlo a dormire in strada, col freddo di Milano a gelargli l’uccello che pure il piscio sarebbe uscito a cubetti.

Ci avrei pensato poi, ora sentivo la nausea salire peggio che a una donna incinta e nessun pensiero poteva essere degnamente pensato senza quella stramaledetta fumatina. Me ne sarei tornata al mio palo luce perché ne avevo lasciata un po’ nascosta in una buca per i momenti di crisi come questo, visto che in casa c’era sempre stato lui che avrebbe potuto fregarmi qualunque cosa, anche i soldi, perfino la droga e farmi rimanere scoppiata. Ma la colpa non era tutta sua, lo sapevo che aveva una dipendenza bestia che se lo gestiva come voleva e quando prendeva una tirannia così c’era ben poco da fare.

Bisognava solo che arrivassi al posto e poi magari due o tre pompe le avrei fatte lo stesso, tanto per avere qualche soldo in tasca veloce veloce. E se poi lo avessi visto lo avrei lasciato a liquefarsi nella sua merda, anzi gli avrei fumato in faccia lasciandolo scoppiato. E se mi avesse chiesto di poter tornare a casa gli avrei detto: “Seguimi se ci riesci, scoppiato del cazzo che non ce la fai nemmeno a stare in piedi”. Ma no, non lo so cosa avrei fatto, piuttosto bisognava pregare che lui non avesse scoperto il nascondiglio che all’occorrenza gli poteva venire un fiuto peggio di un cane da tartufo, e allora addio fumatina. Dovevo sbrigarmi ad arrivare. Il quartiere non mi era mai parso così dispersivo e ancora non lo vedevo il mio palo, anche se era il più alto di tutti, così alto che se ci si arrampicava fino in cima si sarebbe potuto di certo vedere il Duomo di Milano con la Madonnina appesa.

“Ancora uno sforzo, piccoline!”, dicevo alle mie gambe per incitarle al proseguimento dell’impresa, che se mi avessero abbandonata sul più bello sarebbe stata la fine. La scoppia non perdona mica. E all’improvviso ecco la discesa di Cristo sulla Terra con le colombe, l’asinello e il bue a intonare buona Pasqua e buon Natale, ecco l’alleluja del cielo! Il mio palo. Fine della sofferenza. Ora mi ci sarei anche potuta appoggiare, come succedeva nelle serate in cui non stavo in piedi o perché troppo fatta o perché troppo scoppiata. Era il palo più illuminato della zona e anche da un chilometro mi si sarebbe potuta vedere là sotto, con la fica ai raggi X, perfino con la nebbia. Ed era mio, cazzo, mi ci ero battuta per averlo, con le altre puttane della zona e i loro papponi al seguito che ogni tanto si immischiavano pure e ci sfracassavano di botte tutte quante.

Di tutta una vita spesa tra il provare un po’ a resistere e un po’ a morire non mi rimaneva altro che quel misero palo. Il numero 33. E con le nude mani iniziai a scavare la nuda terra con quel poco di dignità che ancora mi rimaneva.

 

Apprendistato alla salvezza

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di Marino Magliani

In un catalogo di bellissimi titoli di narrativa e di sillogi e saggi, persino titoli di canzoni e quadri, che raccontano di scienze, come anatomia, fisica, geometria, il termine apprendistato si ritaglia uno spazio non definito, un percorso non compiuto: apprendistato come qualcosa di possibile. Anche il resto, alla salvezza, sembra trascinarne il valore verso lo sconosciuto, verso qualcosa di cui non sappiamo, non noi almeno, che restiamo e alla fine possiamo prevedere molto, ma non se l’apprendistato ha funzionato, se ha portato all’ottenimento della salvezza. Forse perché la salvezza sembra riguardare qualcosa di cui da qui si sa poco. Alla fine sembra giocarci la vita intera in un connubio del genere. Insomma un titolo così dovrebbe incoraggiare a darsi delle regole, essere una specie di regolario dell’apprendistato alla salvezza, ecco. No, in realtà, nessuna regola, qui, in questo apprendistato, nessun ordine, se non l’invito alla calma, la meravigliosa esortazione a un silenzio. Il primo verso ce lo indica. Il silenzio della notte modellato dalla voce. Non fosse che il poeta mi è amico da anni – collaboriamo da distante a un blog che si chiama La Poesia e lo Spirito- , e che questo libro mi è giunto da lui, leggendo il secondo verso della seconda poesia avrei desiderato saperne di più sull’autore. È un verso che sento tremendamente mio:

Oggi sono il cane di me stesso

Dev’essere qualcosa che lega scrittori e poeti il bisogno di identificarsi in un cane ”solitario”. In un mio libretto sul paesaggio olandese faccio chiedere a un camminatore con cane: “Lei non ha un cane?” La domanda è rivolta naturalmente a un camminatore senza cane. Uscire la sera in questo quartiere sbattuto dal vento e dalla pioggia è una forzatura, uno lo fa se deve portare fuori il cane. Come dire, se esce senza cane non ha un alibi. Il camminatore senza cane, dinnanzi a una domanda del genere, si compiace d’aver pronta la seguente risposta: “Io sono il mio cane”. Ecco, quando le poesie ci prendono. Quando, come scrive Vitagliano, ci portano in un posto che sentiamo, sconosciuto o già “nostro”, e costruiscono il nostro teatro anatomico e di certo lo condividono. A quel punto ci stupiamo, esattamente come lo fa il poeta:

 Non mi sembra vero

Di essere riuscito a fare delle parole

Copie che vibrano e dialogano

E rileggiamo. Questo faccio da tempo con Apprendistato.
E allora l’apprendistato diventa un processo di trasformazione, sembra una questione di trovare altri mezzi di respiro? Ci sono nate le branche starnutiremo senza paura – di tentarle tutte, per dire È completata questa vita.

Mots-clés__Perdersi

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Manuele Fior, copertina per "Il diavolo sulle colline", Cesare Pavese, Einaudi, 2020

 

Perdersi
di Valeria Nicoletti

Radiohead, How to Disappear Completely -> play

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Manuele Fior, copertina per “Il diavolo sulle colline”, Cesare Pavese, Einaudi, 2020

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Marco Mancassola, Non saremo confusi per sempre, La nave di Teseo, 2018, p. 167

Uno straordinario cielo bianco sull’intero paese. Aerei silenziosi a diecimila metri d’altezza. Treni stanchi lungo le pianure. Vivi e morti che coesistevano, avvinghiati gli uni agli altri, disputandosi lo spazio. E dovunque, come sempre, diffusa come un pulviscolo, la solita disperata urgenza di fuggire da qualche parte, pur senza sapere dove dirigersi.
Perciò, quel giorno, ad alcuni apparve chiaro che non ci fosse altra via d’uscita che questa, verso il dentro, verso il centro della propria difficile umanità, attraverso il pozzo che il dolore di ognuno scavava, silenzioso, fino a congiungersi con l’infinito.

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

Istoria del piccolo Iom

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Istoria del piccolo Iom, da indifendibile a miracolato

In ventidue paragrafi e prosodiche strofe. Nell’Anno del Signore MMXXII

di Salvatore Enrico Anselmi

Caro lettore, questa che mi accingo a raccontare è la storia del piccolo Iom che da indifendibile passò a miracolato. Non ti crucciare se gli eventi ti faranno sgranare gli occhi, portare le mani alle orecchie per non poter più sentire, premere la mano sulla bocca per trattenere le parole, perché di fantastica ma vera storia vorrei narrare. E potrai eccepire come mai di fantastica eppure vera storia si tratti. Te lo dirò immantinente perché la realtà è talvolta la più fervida delle fantasie e supera straordinari eventi che a ripeterli di nuovo ti sembreranno frutto della più improbabile invenzione.

Come titolo avrei potuto anche sceglierne un altro che questo è, se t’accontenti:

“Anatomia di un miracolo. Antefatto, svolgimento e risoluzioni”.

 

 

 C’era una volta,

puntuto negli occhi e nel corpo, spiritato di natura, insinuante e intrusivo per indole, il piccolo Iom, ordinario, perché ordinario era diventato in fondo, incapace d’inventiva propria, che sconfinava nel terreno limitrofo per saccheggiare il raccolto altrui. Perché nel campo del vicino maturavano mele succose, grappoli densi e frutta rubizza in ogni stagione, mentre nel suo campo si potevano cogliere solo bacche, ghiande e frutti secchi, racchiusi da un guscio renitente a farsi aprire.

A forza di ghiande gli era cresciuto il setolame sulla schiena e sulle orecchie diventate pinzute. I denti a sciabola ricurva gli erano usciti fuor di bocca, lustri e taglienti da far paura quando rideva e spalancava la gola, e di quel medesimo, sinistro bagliore gli riluceva anche lo sguardo. Era quello lo sguardo del predatore che, millantando vello e mansuetudine d’agnello, sotto i riccioli lanuti e bianchi, nasconde il pelo nero della sedizione.

Anche la voce, acuta di natura come quella di verginella condotta a prima messa, che sembrava fargli pronunciare solo dolcezze, quando di dolcezze si riempiva l’ugola, s’era intorbidita alquanto. E senza che egli stesso la potesse più controllare gli faceva dire sozze lordure a ogni canto, contro l’uno e contro l’altro, anche se s’erano seduti accanto a mangiar il pasto dal suo stesso piatto.

«No, no! Non è colpa mia, che voce di mio petto e mio pensiero questa non è!» – si schermiva Iom, rosso in faccia – «Forse male l’hai compresa e interpretata perché dorme nel tuo orecchio cerume vecchio, steso a strati come crema di meringa e cioccolato dalla spatola del pasticcere tra i filari del pane di Spagna!»

Divenuto ipertricotico autoreferenziale, egotico celebrante dell’auto-culto, catechista del misfatto e imbonitore mellifluo, Iom arrivava appena al numero civico XV, poi era costretto a deflettere all’indietro perché quando sconfinava verso il XVI e oltre, e ci provava spesso, si perdeva, smarriva l’orientamento, sparigliava le carte, straparlava, dichiarava l’inesistente e spesso era costretto a ritrattare. Rettificava allora i suoi improbabili contorcimenti verbali, i suoi ready-made da pochi soldi, perché erano senza l’estro dell’artefice innovatore.

Allora s’aggiustava sul viso la remissiva maschera del penitente, il cappuccio e la schiena a vista del flagellato, il cero dell’offerta quaresimale, la bussola delle elemosine da devolvere a cuore largo a beneficio del piccolo rimasto senza pane.

Ma era tutta una commedia. Una recita adulta, ma condotta in scena e lì interpretata come se fosse stata nuova e bambina: «Più non lo farò! Lo giuro e lo prometto. Croce sul cuore, libro aperto da leggere e in testa sempre il berretto!»

Ma il pentimento durava sempre per poco tempo e attecchiva con epidermica contrizione. Mentre recitava il fervorino di ciò che si deve fare e di ciò che è proibito, sentiva già pungerlo al fianco la spina che non lo abbandonava fino a quando ne avesse combinata una nuova, peggiore di prima…Come se lo spino, se di spino si trattava, lo punzecchiasse da sotto rendendogli faticosa la seduta e lo scatto in piedi. Come se qualcuno gli spegnesse un ferro arroventato addosso e Iom dovesse saltare in aria per il dolore e combinarne un’altra.

Con manuzze nodose in perenne ricerca di suo vello capillare, ormai caduto insieme alle idee di un tempo, si aggirava per stanze e corridoi, che avrebbe voluto acconciare al gusto suo, curvo da un lato come se il peso di qualcosa che doveva portarsi dentro, lo gravasse alquanto. E tentava di dissimulare, – come conseguenza di sodale meraviglia per il suo interlocutore, – il gonfiore delle sclere fuoriuscite dalle orbite come per incontenibile azione pressoria dal basso e dall’interno. Forse il senso di colpa, il peso della sua non risoluzione identitaria, di casacca, di stemma, di logo, di genere: mai stato padre, figlio non figlio, negletta produzione eiaculatoria di un trasmettitore di geni più sordo di lui, egocentrico al parossismo, dolosamente distratto e assente che diceva sempre: «Chi Iom? Ma quello non capisce niente. Gli dovrò io procurare una bardatura, entrature potenti, fargli conoscere notabili irti di pelo sulla pancia e consenzienti, condiscendenti ad assecondare il mio volere come banderuole che ruotano al mutare del vento. E il vento sono io! Se io non fossi vento, o foco, o tempesta a Iom poco di suo resta come un allocco meravigliato e stolto! Ma per il momento che viva manzo solo e negletto, In tal modo e guisa diventerà più forte»

Iom, quindi, era stato vittima del padre impositore che dapprima non gli aveva assicurato vesti o corposi interessi annuali, ma gli aveva comminato soltanto crudelissimi disinteressi decennali. Malgrado questo, affinché il nome della loro famiglia e il logoro titolo di Gransciamberlani – dell’Imperial – decadimento – etico – di – Cacania – scribacchini non venisse meno, lo sgrullò dalla guazza nella quale l’aveva prima immerso e poi esiliato.

E lo miracolò comunque – «Perché non si dica che io, fondatore del Giornale degli araldi liberi di parola incatenati, abbia fatto perir di stenti la mia medesima figliolanza. Che non si dica mai! Che non si dica! Ne va della buona creanza e fama del mio nome, che non s’appanni mai la luce di mia lanza. Voscenza, Illustrissimo Regnante, Reverendissimo migrante dall’etica insalda alla quale or’ io m’appello per fortificare in rocca il frutto dei mei lombi, quand’ero ancora giovine e bello!»

Mingherlino malvissuto, livoroso, perennemente aggrovigliato all’altezza delle budella strapazzate di scorcio, Iom si aggirava per le strade del centro antico, in pescosa cerca di carne fresca per colmare presto il suo carniere. Spesso i manzi più triviali lo giubilavano con recisa insofferenza e lo mandavano lì nel luogo dove la liberazione del digerito maleodora, impregnando dello stesso tanfo il deiettore che non sa come nettarsi.

Ominide riottoso, Iom non sapeva scrivere, ma s’incaponiva a farlo.

Confuso ricercatore, cantore di pensieri in lasca sequenza, quando parlava per obbligo o per svago, apriva parentesi tonde, quadre e graffe, lunghi marginalia a bordo pagina, senza essere in grado di concludere la risoluzione secondo ordine critico o filosofico. Per cui, a soliloquio concluso, lui stesso non aveva ben chiaro il percorso tracciato. Idealmente imbalsamato, mummificato nel groviglio dei pensieri enunciati oralmente, ci rimaneva dentro, prigioniero della sua stessa costruzione fatta di spalti e torri incasellate. E nessuno, di ciò che diceva e didatticamente sillabava, capiva niente.

L’avrebbero potuto trovare rinsecchito e cadaverico, senza cibo, né acqua, chiuso nello stesso edificio illogico che egli stesso aveva progettato senza porre fine alla lessemica autogenesi, organica e incontrollabile, con cui aveva costruito intorno tetre muraglie e pinnacoli irrazionali.

Iom allora riteneva opportuno non aggirarsi tra gli scaffali di cancellieri o computisteria perché le poche volte che ci si era infilato s’era sperduto e l’avevano dovuto tirare fuori da sotto una pila di faldoni che gli erano rovinati addosso, seppellendolo quasi. Non sapeva leggere personalmente i testi antichi, i documenti di prima mano, le testimonianze dirette, ma si ostinava comunque a farlo ricorrendo all’aiuto di qualcuno, famiglio, sottoposto o prezzolato, che li leggesse in sua vece.

Quando si doveva confrontare con la pagina bianca e vuota, con lo schermo algido e respingente per dare senso al programma di scrittura installato nella sua mente, avrebbe preferito spellarsi le mani senza anestesia perché ogni volta che si accingeva a farlo, s’invischiava in una selva selvaggia, in un ginepraio nel quale infognarsi e disparire. Di solito, dopo aver rimestato per vari giorni tra le parole da usare e le espressioni che potessero far sembrare il suo scritto affidabile e sicuro, s’avvedeva in realtà di aver partorito un’immonda poltiglia, proprio lui, nuovo Tiresia transeunte non più primiparo ma inabile come se lo fosse stato, in preda alla depressione post parto, per aver scritto quello che gli sarebbe stato rifiutato come scarto.

E allora per ripicca scartava lui o faceva patire chi gli presentava testi e studi da poter diffondere e intorno far gire. Gli trovava tubercoli e difettucci, di forma e contenuto. Faceva ribaltar il costrutto anche a chi gli poteva esser, se non padre o madre, sorella o fratello maggiore per anni ed esperienza di ricercatore.

Ma il miracolo si compì lo stesso, – caro lettore, – quando, ricevuta dapprima la porta gracchiante in faccia – «Faccia da indifendibile senza onorificenze sufficienti sul petto!», – Iom innescò, comunque, procedura atta ad esser miracolato. Si rivolse all’ufficio apposito, quello che di fatto nell’oscurità e sottobanco esisteva da tempo. Quello che da sempre esisteva fondato primo corrotto e dal suo corruttore. Sottoscrisse questua e supplica dimostrando di poter sostenere le uscite corrispondenti che avrebbero fatto giungere doni ai giusti destinatari e concludere, con gloria sicura e squilla di tromba, la procedura.

Il sovvertimento della vicenda, secondo retto cammino, avvenne quando, su coloro che l’avevano allontanato perché ritenuto stitico produttore di stocastici contributi, di stentate indagini e di frastagliati studi, egli cominciò a riversare regalie e doni da far sciogliere il sangue rappreso del santo, da far sorgere il sole due volte al giorno, da far giudicare inetto il prolifico lavoratore e onesto il corruttore di sempre.

Le rade medaglie che portava in petto si moltiplicarono, piccole, grandi, incrostate di pietre rare e rai a saetta, come se da sempre Iom fosse stato orafo, abile ed esperto, incastonatore di algide perle e preziosissimi ori. Onorificenze e gloria diventarono viatico perfetto per salire in alto, più di Psiche o meglio ancor di Ganimede, che pressato dall’augusto usbergo, da sempre prende e mai recede.

Fu così che tutte le sue critiche produzioni che parlavano di segni zodiacali e dei suoi contrari, dell’arte del venare ma anche dell’ecologica conservazione d’animali, del verde stinto e della bava di lumaca usata come solvente, sì insomma del tutto e del niente, del suo effetto e del suo opposto, furono considerati grande prodotto di mente che poteva appartenere a un professorone d’ordinaria, elevatissima complessione.

Fu presa tosto decisione.

Fu così che i capitoletti isolati, i brevi contributi e gli articoli mal titolati divennero per prodigio considerati ognuno tomo lungo e ben relato, tale da esser consigliato in lettura sia allo studente capace che a quello annoiato. In tutte le accademie del regno e dell’impero, di notte, di giorno e all’imbrunire gli scritti di Iom ognun dovea sorbire insieme al latte caldo prima del riposo o come bevanda che corrobora dopo che il sole è sorto in suso.

Ora Iom – circondato dal debole di cuore e d’intelletto, dalla sposa del famiglio impresentabile per schiatta e nome, fatta comunque salir da questi ad alto grado, insieme al mostruoso Occhidipalla, rimasto greve e parassita di sua donna diventato, – s’è messo a studiare l’effetto che dal bosco di querce l’intelletto committente ha fatto suo per tirare su palazzi e regge avite. Anche se di tale ardimentoso cimento il gruppo di aiutatori niente sa e niente ha mai saputo perché di regge e palazzi tirati su dagli uomini di farnia mai niente ha studiato e conosciuto.

E se atlantico, enciclopedico sapere da tali imprese si caverà, stai attento gruppo ardimentoso, perché se non si deduce bene, per dovere e creanza da dove è stato tratto tutta l’informanzia, il preludio, tesi, svolgimento e conclusione con giusto nome e giusta citazione, solo un altro miracolo salverà. Ma dopo il primo, il secondo e il terzo prodigio ben donato, il ciel che già troppo ha erogato forse non più così benigno tornerà a mostrarsi. Perché la sorte, più volte manipolata, stretta ora alla spada di giustizia punitiva s’abbrancherà alla rudimentale, violenta mazzolata che il deretano ossuto o pingue, ancora integro o già rotto da percosse, a gran voce chiede.

Attenti che lo chiede lui, a gran voce, a gran voce! E presto peste saran tutte l’osse!

 

Colonna (sonora) 2023

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di

Claudio Loi

 

PLAYLIST 2022. 15 album da non sottovalutare

Come ogni anno eccoci alle solite classifiche, un’operazione che non serve a nulla e proprio per questo indispensabile. Un giochino che serve – così spero – a tenere viva una passione che a sua volta ci tiene vivi e a continuare a divertirci ascoltando musica, cercando di cogliere i nuovi fremiti che arrivano dalle diverse parti del mondo conosciuto. E di stimoli ne arrivano davvero tanti e di ottima qualità ed è facile perdersi in questo universo così ricco e multiforme. Per il resto questa lista rappresenta una visione soggettiva e opinabile e ognuno potrà essere in grado di farsi la propria playlist. Buon divertimento!

  1. Alvvays. Blue Rev (Transgressive)

Dal Canada con amore e una dose massiccia di suggestioni contrastanti. Una proposta che spiazza nella sua instabile composizione chimica: canzoncine d’autore cantate con suadente naïveté con sfondo noise che spiazza e destruttura. C’è di che uscirne pazzi (in senso buono) da questa strana dialettica degli opposti ed è come perdersi in paesaggi ameni e bucolici a la Twin Peaks o nella oscura immensità della nostra mente. Il miglior pop del pianeta è un ibrido formato da anime che finalmente trovano pace tra le sperdute lande del nord e la voglia di essere altrove. Instabile quiescenza dei sensi.

  1. Anteloper. Pink Dolphins (International Anthem)

La label International Anthem sta a Chicago che non è una città qualsiasi. In quel mondo violentato dal freddo e da temperature estreme si è creato un habitat favorevole alle migliori espressioni musicali divergenti: dal free al post free a tutte le vertigini successive. A Chicago ha trovato cittadinanza anche la visione laterale proposta da Jaimie Brunch e i delfini rosa del titolo sono piccole rimembranze di un sogno che purtroppo si è interrotto sul più bello. Jaimie ci ha lasciato con un patrimonio di suoni che saranno la base per ulteriori viaggi e scoperte e questo disco rimane un testimone prezioso e da tenere caro. Per chi vuole andare oltre le proprie certezze e immaginare un mondo diverso questa è la giusta base di partenza.

  1. Big Thief. Dragon New Warm I Believe In You (4AD)

Loro arrivano da Brooklyn ma sembrano dei fuorusciti di un racconto di Faulkner o da polverosi scenari descritti da John Fante. Folk nell’accezione più folk possibile ovvero di quelle cose fatte a mano con pochi ingredienti e tanta genuina passione. E poi amano fare le cose doppie: nel 2019 sono venuti fuori con due album (Two Hands e U.F.O.F.) che erano la quintessenza di una passione senza limiti verso il lato più poetico dell’esistenza. Nel 2020 la cantante Adrianne Lenker ha pubblicato Songs and Instrumentals, un doppio album dove la sua voce è protagonista assoluta e inesauribile scrigno di emozioni. Questo nuovo disco è anch’esso doppio e strapieno di umori ed emozioni e nessuna voglia di postproduzione, mixaggi, ritocchi superflui: questa è materia prima allo stato puro e una voce che non ha eguali.

  1. Black Country, New Road. Ants from Up There (Ninja Tune)

Le nuove leve del post-punk di scuola british sanno bene dove andare a pescare per fornire le giuste coordinate di un suono che può ancora stupire. Basta rovistare nei cassetti dei propri genitori per trovare quello che serve: la storia si ripete all’infinito e non è mai uguale a sé stessa ed è alquanto straniante rivivere emozioni che pensavamo ormai andate. In questi solchi riecheggia persino qualche reminiscenza prog che tanto ci fece inorridire e che il primo punk ha demolito con veemenza. Nella loro seppur breve storia ritroviamo tutti i topos del rockandroll style: passione, fremiti di innocente ribellione, ma anche studio e applicazione e persino le solite diaspore umane che riemergono quando il chitarrista ha lasciato stizzito la sua band.

 

  1. Black Midi. Hellfire (Rough Trade)

Anche in questo caso colpisce il rapporto tra età media dei concorrenti e capacità di leggere la storia del rock nel suo divenire. La gioventù inglese nasce e pascola tra le colture che del rock e allora viene facile citare, copiare e ricomporre un corpus musicale che così si rigenera e rivive in nuove mutazioni. Loro sono incredibili nel riuscire a fornire un prodotto coerente nonostante la schizofrenia citazionista che li anima. Rock, jazz, prog, elettroshock sonoro a velocità folle con continui cambiamenti di direzione. Qualcuno lo chiama math rock per la sua natura spigolosa e computazionale e ci può stare ma qui siamo di fronte a qualcosa di ancora più complesso e indefinibile.

  1. Cate Le Bon. Pompeii (Mexican Summer)

Una riflessione piuttosto amara sulla condizione umana generata nel profondo Galles nel periodo pandemico con lo sfondo delle eruzioni vesuviane che ben conosciamo. Nel nuovo disco di Cate le Bon tutto è profondo: la voce, i suoni, gli arrangiamenti, persino quell’aria di leggera frivolezza che arriva dalle tastiere e dai computer di bordo. Un’artista da cui è difficile prescindere e che rimanda alle migliori pagine di Kate Bush pure lei incredibilmente tornata in auge. Pochi elementi, quelli giusti e ben dosati e un ascolto che ogni volta rilascia sapori nuovi.

  1. Dry Cleaning. Stumpwork (4AD)

Li si aspettava al varco per capire se tutta quella magia profusa nell’album d’esordio fosse un fuoco fatuo o qualcosa di più duraturo e l’attesa non è stata vana. Il progetto è sempre quello: la voce ieratica e divina di Florence Shaw e un tappetto sonoro percorso da fremiti post-punk e noise di grana fine. Se una cosa funziona è anche giusto passarci il giusto tempo ma siccome noi siamo gente che ambisce all’infinito e ci stanchiamo e seguiamo quell’istinto evoluzionista come scelta di vita ecco che le cose iniziano a complicarsi. E loro questo l’hanno capito e persino affrontato con il giusto piglio trovando nuove soluzioni armoniche e con la Shaw che si permette persino di cantare come quella volta che Greta Garbo accennò un sorriso che sconvolse il pubblico. Stumpwork (il titolo) si riferisce a quella tecnica di ricamo in rilievo che troviamo nei cuscini che spesso invadono le case dei nostri cari e questa cosa ha qualcosa di commovente e scuote sentimenti arcaici. Ma la cosa più stupefacente è l’artwork della copertina con la sua estetica da toilette ed è curioso immaginare l’impegno profuso a sistemare con pazienza la peluria sulla saponetta. Arte estrema che farebbe emozionare anche Hermann Nitsch.

  1. Fontaines D.C. Skinti Fia (Partisan)

Irlandesi dal sangue caldo, hanno il piglio dei veterani pur essendo solo al terzo disco. La loro musica è quella dei muscoli sempre in tensione, di vibrazioni, sudore e fremiti e una nota di esotica baldanza nell’utilizzo della lingua madre e nel recupero di mitologie e fantasmi di matrice irlandese. Ormai li diamo per scontati consci che quello che fanno lo fanno sempre al meglio ma non per questo si rilassano sull’enorme successo ottenuto in questi pochi anni. Questa è gente seria che lavora duro e si conquista ogni giorno il giusto spazio nella scena della musica dei nostri tempi.

  1. Gigi Masin. Vahinè (Language of Sound)

Chissà cosa si prova ad essere veneziani e frequentare quella città, sentirsi assediati dal mondo, da tutto il mondo per tutti i giorni della tua vita. Un assedio che ti obbliga a sviluppare sistemi immunitari a prova di un virus subdolo e maledetto. Forse la miglior autodifesa è quella messa in atto da Gigi Masin capace di costruirsi un universo parallelo, un sistema di protezione che isola e allo stesso non trascura le dinamiche della vita in laguna. La musica di Masin contiene continenti e moltitudini, arriva da lontano, forse dal cosmo o dalle periferie di Dusseldorf o forse dalle oscure manifestazioni del proprio inconscio. La sua forza è quella di essere qualcosa che travalica le pose e le mode, manifestazione di un pensiero coerente e sincero. Arte fuori catalogo adatta ad assecondare la naturale predisposizione all’escapismo ma anche sintesi raffinata di strati sonori e sedimentazioni storiche. Il tutto con le referenze qualificate di Mirko Salvadori a cui potete rivolgervi per un tour subliminale tra campi, bifore e le acque torbide dei canali.

 

  1. Makaya McCraven. In These Times (International Anthem)

Makaya ci consegna il suo testamento spirituale con un’opera destinata a rimanere momento fondante della nuova estetica musicale contemporanea. Una gestazione lunga e ragionata, anche sofferta, l’apporto di un numero enorme di collaboratori, la giusta collocazione editoriale ci consegna un lavoro che spiazza, commuove, ipotizza nuove linee di ragionamento. Siamo oltre ogni genere, il jazz diventa in queste tracce un semplice punto di partenza e si disperde nella nuvola del caos dell’oggi e i suoni che si diramano da questo disco sono pieni di pathos e di infinite suggestioni. Ancora una volta Chicago e la sua gente si dimostra incubatori di sogni e, soprattutto, la patria della libera creatività e di un nuovo umanesimo. Ne abbiamo bisogno.

  1. Nina Nastasia. Riderless Horse (Temporary Residence)

La struggente atmosfera che trapela da queste canzoni ci riconsegna un’artista di cui si erano perse le tracce. Questo disco arriva infatti alla fine di un lungo e tragico percorso personale ed è probabile che la cara Nina sia riuscita a superare le atrocità del quotidiano attraverso una seduta di autocoscienza e ritrovo del sé che talvolta la musica fornisce. Quando ci si trova di fronte a opere così personali, aperte, senza nessuna difesa non possiamo che lasciarci andare al melanconico flusso di sussurri e lacrime. Musica che arriva dal tunnel, dalle profonde immensità della nostra vita e che ci accompagna con affetto. Mica poco!

  1. Not Moving LTD. Love Beat (Area Pirata)

Hanno iniziato le ostilità agli inizi degli anni Ottanta in quella meravigliosa bolgia sonica che si rifaceva a gruppi come Cramps, X, Gun Club e tanti altri e sono arrivati fino ai nostri giorni con qualche aggiustamento nell’organico ma con la stessa voglia di suonare e vivere di rock. Il miracolo sta nel fatto che non si legge in questa storia nessun rigurgito nostalgico, nessuna parodia dei bei tempi andati. Si fa semplicemente quello che si sa fare al meglio delle proprie possibilità (insieme a mille altre cose) schivando le insidie del tempo e delle stagioni. Love Beat è il battito del nostro cuore che imperterrito continua a tenerci vivi.

  1. Paolo Angeli. Rade (ReR)

Paolo Angeli e la sua chitarra o meglio Paolo Angeli è la sua chitarra: un organismo in continua evoluzione, un loop emozionale che non è mai lo stesso, l’isola che c’è e che non c’è. Quella di Paolo Angeli è una mitologia a cui ormai non possiamo rinunciare con la differenza che il rito non è ripetizione meccanica di suoni e parole ma sempre qualcosa di nuovo e inaspettato. Lui continua a rovistare nella storia della musica e si infila nei meandri della tradizione sarda senza passiva rassegnazione. Ogni volta arriva puntuale qualcosa di inedito, di inaudito, suoni che prima non conoscevi che per magia riescono a dialogare con i baluardi del passato. Tutto questo avviene con apparente semplicità e la forza di un sorriso. In realtà dietro questa storia si nasconde un continuo lavorio sulle cose, sui mezzi di produzione del suono e persino sulle dinamiche della fruizione. E siamo solo all’inizio…

  1. Verdena. Volevo Magia (Capitol)

Sono tornati dopo alcuni anni di quiete (apparente) e con un bel cestino pieno di nuove canzoni forse recuperate tra le colline di Albino o nelle cantine polverose delle loro case. Anche per loro arriva il tempo di capire dove andare e come portare avanti una carriera iniziata a metà anni Novanta che ha segnato in modo indelebile la storia del rock italiano. Volevo Magia è il disco che non ti aspetti, carico di energie primarie, di distorsioni, di belle canzoni, ricco di quella magia che di solito troviamo nei primi dischi di una band e poi lentamente si disperde e sfuma col passare del tempo. Loro sono ancora tra noi seppure con le differenze dovute alle normali vicissitudine della vita, del mondo che cambia, della trasformazione. Sarà interessante valutare anche dal vivo la forza reale di queste nuove composizioni ma sul palco loro non hanno mai deluso e anche stavolta sarà così.

  1. Weyes Blood. And in the Darkness, Hearts Aglow (Sub Pop)

Il suo vero nome è Natalie Mering è questo è il suo quinto album, quello della maturità e della consacrazione nel quale si configura la sua visione della musica e del mondo. Un disco complesso e strutturato con una produzione che esalta le capacità vocali della Mering e si posizione in quella zona grigia chiamata chamber pop che talvolta è stata abitata da fragili eroi come Rufus Wainwright, da Antony e tanti altri affascinati da un’estetica carica di ridondanze, di barocchismi e leziosità che possono anche dar fastidio. Weyes Blood è invece molto brava nel superare lo scoglio del kitsch e navigare in queste acque turbolente. Il suo è un universo decadente, pieno di contrasti e di apparenze che possono ingannare, ma anche di luce che appare, di speranze mai abbandonate.

 

 

 

Lost in translation

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di

Francesco Forlani

Qui poesia del nostro tempo presenta l’Archivio virtuale de L’Italia a pezzi. Antologia dei poeti italiani in dialetto e in altre lingue minoritarie, a cura di a cura di Manuel Cohen, Valerio Cuccaroni, Rossella Renzi, Giuseppe Nava, Christian Sinicco

Manuel che mi aveva voluto nell’antologia mi chiese di provvedere alla traduzione in italiano dei testi scritti in furlèn, nel mio idioletto come del resto ogni poeta aveva fatto per le proprie composizioni in dialetto. È stata la sola volta in cui ho tentato di autotradurmi e sinceramente non so se l’esperimento sia andato a buon fine. Essendo il furlèn una creolizzazione di tutte le esperienze linguistiche in cui mi ritrovo la difficoltà maggiore che ho riscontrato è stata nella sua riduzione a una sola lingua, in questo caso l’italiano quasi standard. Voi che dite?

da Il peso del Ciao
Paysage du Sarrà chi sa

(Su una canzone di Renato Forlani e Roberto Murolo)

Sitte sitte facimme, sitte sitte
Que personne ne puisse entendre nos lèvres
A lingua emmocca e’ vase a’ schiocche a’ schiocche
On dirait une fièvre une maladie, un attrape-bouches
Facimme allore sitte sitte allore faie
Ton corps vêtu se déshabille d’une lumière rose
Sta luna chiena chiena, sta curona e spine
Tu me chouchoute: meurs! tu me murmure: vis!
Sitte te staie e chiù sitte ie nun me saccie
La profondeur des yeux dépend de la posture des jambes
Tu me fai suspirà ie te voje bbene
Ton vague à l’âme enjambe, mon respire claque
Cu sti vase facimme sitte sitte, mo mo mo
Je suis Tristan, mais tu t’appelles Juliette
Tu m’adduvine a vocca ie m’annammore
Tu me caresse, je brûle, je deviens chandelle
Sti vase sitte sitte, sàrra sàrra
Ta peau s’enflamme à l’eau de ma salive
St’addore è rose e ciure ’mbuttunate
Une fière créature, une musique lointaine
Sitte facite sitte, vuie facite sitte?
Tu étais mon songe, mon demain, mon hier
Che all’intrasatte mo cull’ate staie
Tu te souviens de moi? Dis-moi, j’existe?
Sitte facite sitte mo chiù sitte maie
Là j’aimerais siffler-divine-ta bouteille
à faccie toie m’embriaca, e sò curtielle e mmane
Je dégueulerais ton âme, comme une chose vive
Sitte sitte facite, facite sitte sitte
Aux larmes citoyens jettate ’e mmane
Il n’y aura plus personne et chiù nisciune sape,
Saura celui qui sait, sarrà sta luna chiena

 

Zitti, facciamo zitti zitti / Che nessuno possa sentire le nostre labbra / la lingua in bocca e i baci a schiocchi a schiocchi / che poi uno dice è febbre, malattia, un acchiappabocche / facciamo zitti zitti allora zitta fai / il tuo corpo vestito d’una luce rosa è spoglio / con questa luna piena piena, questa corona di spine / e mi sussurri: muori! E mi mormòri: vivi / Zitta te ne stai zitta ed io zitto non mi so stare / la profondità degli occhi alla postura delle gambe tiene / tu mi fai sospirare t’amo / l’onda tua all’anima s’ingroppa, il mio respiro schiocca / con questi baci facciamo zitti zitti / Sono Tristano e tu ti chiamerai Giulietta / e m’indovini la bocca io m’innamoro / e mi carezzi, brucio, divento cera / e questi baci zitti zitti, sarà, sarà / la pelle tua s’infiamma all’acqua della mia saliva / quest’odore di rose e fiori fasciati / una creatura fiera, una musica lontana / Zitti, ora voi fate zitti zitti? / eri il mio sogno, il mio domani, ieri / e all’improvviso te ne stai da un altro / e ti ricordi di me? Dimmi, esisto? / Zitti, fate più zitti, zitti più che mai / ora che desidero baciare il collo della tua bottiglia / la faccia tua mi ubriaca, e coltelli sono le mani / vomiterò l’anima tua, come una cosa viva / zitti, fate zitti zitti fate / alle arti compagni gettate le mani / non risarà nessuno più e nessuno mai saprà / saprà soltanto colui che sa, sarà una luna piena

 

Acqua, minerale

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di Saverio Marziliano

Erano i primi giorni di giugno e verso sera l’aria iniziava a diventare molto calda e umida. Per sopperire alla calura, in realtà più per abitudinaria tradizione che per effettivo beneficio, alcune famiglie e molti anziani cercavano refrigerio sedendosi all’aperto davanti ai vari portoni d’ingresso dei palazzi e lungo i marciapiedi. Nei suoi ricordi d’infanzia Aldo ricordava lunghe serate trascorse tra folti gruppi di anziani e genitori stanchi intenti a vegliare distrattamente sui bambini che giocavano accanto mentre intorno infuriavano le discussioni sull’attualità o su erronee rievocazioni di eventi del passato.

Per un forestiero che fosse appena arrivato, osservare i gruppi di famiglie assiepate avrebbe costituito una buona approssimazione dei legami che intercorrevano tra le famiglie del quartiere e, in una qualche misura, anche della città. Mentre attraversava la via principale che divideva il quartiere dalla stazione notò qualche sparuta sedia vuota davanti a delle aiuole, mentre un anziano signore in bermuda e calzettoni compressivi tesi fino al ginocchio sonnecchiava sull’uscio di un villino sotto lo sguardo distratto della sua badante intenta a scorrere gli aggiornamenti sullo smartphone. Dalle poche finestre aperte si udivano suoni di stoviglie e TV accese; pensò che le altre fossero chiuse per evitare che il caldo potesse intaccare il microclima da condizionatore di quei miniappartamenti, per lo meno a giudicare dalle luci accese e dalle decine di motori esterni per condizionatori che donavano un tocco di contemporaneità alle anonime facciate pallide dei numerosi palazzi che si susseguivano lungo la via, stinte da anni di lenta esposizione al sole feroce della canicola. Pensò che forse fosse quello il motivo per cui la strada gli sembrò più silenziosa, vuota e desolata di come la ricordasse. Era però questione di qualche settimana e poi il quartiere si sarebbe temporaneamente ripopolato per l’estate. Lungo il tragitto per raggiungere la collinetta posta alla fine dello stradone, ripensava a quelle parole che aveva ascoltato la sera prima. Non era la prima volta che assisteva a un dibattito pubblico a scuola o in città, anche se a casa e tra i parenti si cercava sempre più spesso di schivare questi argomenti, non tanto per evitare di rovinare l’atmosfera quanto per non riaprire fratture mai del tutto sanate. Il discorso dell’anziano professore lo aveva però colpito e non riusciva a capire bene perché. In quel contesto ci era nato e ci viveva, eppure sebbene lo sentisse proprio continuava a trattarlo come un corpo estraneo, un altrove dove ogni tanto gli toccava approdare per poi ripartire verso paradisi artificiali che gli consentissero di affrancarsene. Quelle frasi però avevano smosso qualcosa di diverso dentro di lui. Per la prima volta ebbe la sensazione che qualcuno fosse riuscito ad esprimere con le parole quel mondo che da sempre sentiva di avere dentro, ma a cui non era mai riuscito a dare forma.

Questo era il primo anno che era rimasto sostanzialmente solo. Pisa, Milano, Roma, Firenze, perfino Trento, erano solo alcune delle città dove i suoi amici si erano trasferiti per studiare o lavorare. Tra meno di un mese li avrebbe finalmente rivisti. Era felice, certo, ma anche un po’ confuso. Per schiarirsi le idee aveva quindi deciso di uscire per una breve passeggiata e si era diretto verso la collinetta al termine del quartiere. Superato il parcheggio del discount market e arrivato ai piedi della montagnola aveva dunque percorso i duecento scalini due alla volta per arrivare allo spiazzo in cima e lì si era seduto sull’unica panchina rimasta ancora a presidiare la fortezza. Era ormai notte, eppure il cielo sembrava illuminato quasi a giorno dalla solita luce rossastra per lui ormai familiare. Sebbene non molto alto, quello era un punto di osservazione privilegiato sul golfo e la città; da lì, anche a occhi chiusi, sarebbe riuscito a indicare con estrema precisione dove si trovavano il mare, la città vecchia, l’antica acropoli cittadina, il porto. E la fabbrica.

A guardare quel moloch dall’alto sulle mappe satellitari si aveva l’impressione che il satellite avesse avuto qualche problema di messa a fuoco o anomalia nella trasmissione dei dati. Infatti, accanto alle immagini nitide del mare, dei palazzi e degli sconfinati appezzamenti di terreno frammentati in tanti piccoli pixel di vari colori a seconda della messa in coltura, ad un certo punto compariva un alone rossastro tendente all’amaranto scuro. Era la fabbrica, con i suoi parchi minerari en plein air. Il passato e il presente della città. Di recente, a custodia di quell’enorme polmone collassato color amaranto erano stati posti però due enormi sarcofagi bianchi che dopo meno di un anno dall’inaugurazione avevano già assunto un timido color nicotina. Suo padre, operaio in pensione che aveva lavorato nell’arsenale militare della città, diceva invece che visto così dall’alto il parco minerario gli sembrava un enorme bacino di carenaggio. Vista così di notte, racchiusa tra gli uliveti e gli agrumeti a nord-ovest, il mare ai suoi piedi e le luci della città che si confondevano con il cielo stellato velato dal fumo notturno delle ciminiere e dal bagliore delle luci di segnalazione poste su di esse, si sentì come un astronomo davanti a un buco nero; un’enorme massa dotata di un campo gravitazionale così violento da attrarre a sé qualsiasi elemento circostante. Si accese una sigaretta e davanti a quella vista pensò ai suoi amici e a chi come loro era partito anni addietro e sarebbe tornato a breve per le vacanze. Non si trattava dell’unica città a vivere quella diaspora e lui certamente non era l’unico ad affrontarne le dirette conseguenze sulla sua pelle. Pensò ai famigliari di chi era andato via, che restavano in città, e ai tantissimi volti giovani e adulti che vedeva sciamare per le vie del centro a Natale, Pasqua ed agosto e su cui non si era mai soffermato finché a quei visi sconosciuti non si erano uniti quelli dei suoi amici. Si chiedeva quanti e quali fossero i motivi di chi era partito, il loro stato d’animo, i sogni, le speranze e le aspettative. Sarebbero tornati? Il mondo che avevano trovato fuori dalla città era come immaginavano? Si guardavano mai indietro? E cosa vedevano? Chi e cosa trovavano quando tornavano? Chi decideva di restare lo faceva perché sceglieva di non partire o perché non aveva scelta? Aldo su questo non aveva dubbi, se avesse potuto decidere sarebbe partito anche lui. I suoi amici gli ripetevano che a vent’anni per loro il viaggio era aprirsi al mondo, ma anche alla scoperta di sé. Vero, pensò, ma forse per chi restava era più difficile affrontare se stessi, o per lo meno così era stato per lui da quando era rimasto solo in città. Fece un ultimo tiro alla sigaretta, ripensò alle parole dell’anziano professore, ai suoi amici, alla sua condizione e a quella di chi era partito e di chi restava a casa in attesa. Si alzò, lanciò lontano nel buio il mozzicone della sigaretta, poi si voltò ancora una volta a guardare il mare e la fabbrica, smisurato fenomeno collettivo che incombeva sulla città e aggregava ogni storia individuale, i palazzi, gli appartamenti, i villini, le luci e i lampioni che di notte rischiaravano il cielo e accarezzavano le acque del golfo. C’era ancora tempo per invertire la rotta o era ormai troppo tardi?

 

La “Storia della notte” di Borges

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Photo: kyriakosmauridis.gr

J.L. Borges, Caricatura di Kyriakos Mauridis -> kyriakosmauridis.gr

Quest’anno per Adelphi è uscito Storia della notte di Borges, a cura di Francesco Fava, con testo a fronte. Ne pubblico alcuni testi, ringraziando l’editore e felicitando il curatore [o.t.]

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UN LIBRO

Niente più che una cosa tra le cose
però anche un’arma. Forgiata nell’anno
1604, in Inghilterra,
è stata caricata con un sogno.
Racchiude suono e furia e notte e porpora.
La soppeso sul palmo. Chi direbbe
che contenga l’inferno: le barbute
streghe che sono le parche, i pugnali
esecutori di leggi dell’ombra,
l’aria leggera che avvolge il castello
che ti vedrà morire, la leggera
mano che sa coprir di sangue i mari,
la spada e le alte grida di battaglia.

Quel silenzioso strepito ora dorme
entro lo spazio di uno dei volumi
del placido scaffale. Dorme e attende.

L’INCISIONE

Perché, mentre la chiave apre la porta,
torna ai miei occhi con stupore antico
l’incisione di un tartaro che infilza
dal suo cavallo un lupo della steppa?
La belva si contorce eternamente.
Il tartaro la guarda. La memoria
mi offre questa tavola di un libro
il cui colore e la cui lingua ignoro.
Saranno anni ormai che non la vedo.
A volte la memoria mi spaventa.
Le sue concave grotte e i suoi palazzi
(disse Agostino) accolgono di tutto.
L’inferno e il cielo in lei trovano posto.
Del primo ne racchiude a sufficienza
il più comune e tenue dei tuoi giorni
e un incubo qualsiasi della notte;
per l’altro, c’è l’amore di chi ama,
la freschezza dell’acqua nella gola
della sete, il pensiero e il suo esercizio,
il nitore dell’ebano invariabile
o – luna e ombra – l’oro di Virgilio.

L’INNAMORATO

Avori, lune, marchingegni, rose,
le lampade e la linea di Albrecht Dürer,
le nove cifre e il mutevole zero.
Farò finta che queste cose esistano.
Fingerò che ci furono in passato
Roma e Persepoli e che una sottile
sabbia segnò i destini di fortezze
che i secoli di ferro hanno disfatto.
Fingerò armi, fingerò la pira
dell’epopea e i mari che gravosi
erodono i pilastri della terra.
Fingerò che altri esistano. È menzogna.
Tu solamente, sei. Tu, mia sventura
e mia ventura, tu incessante e pura.

LE CAUSE

I crepuscoli e le generazioni.
I giorni senza il giorno del principio.
La freschezza dell’acqua nella gola
di Adamo. L’ordinato Paradiso.
L’occhio che indaga e scruta nella tenebra.
I lupi che si accoppiano nell’alba.
La parola. L’esametro. Lo specchio.
La Torre di Babele e la superbia.
La luna contemplata dai Caldei.
Le sabbie innumerevoli del Gange.
Chuang Tzu e la farfalla che lo sogna.
Le tre mele dorate del giardino.
I passi dell’errante labirinto.
La tela senza fine di Penelope.
Il tempo circolare degli stoici.
La moneta che il morto ha nella bocca.
Sulla bilancia il peso della spada.
Nella clessidra ogni singola goccia.
Le aquile imperiali e le legioni.
Cesare la mattina di Farsaglia.
L’ombra delle tre croci sulla terra.
L’algebra e la scacchiera del persiano.
Le tracce delle lunghe migrazioni.
La conquista di regni con la spada.
La bussola incessante. Il mare aperto.
L’eco dell’orologio nel ricordo.
Il re decapitato dalla scure.
La polvere di secoli di eserciti.
La voce d’usignolo in Danimarca.
La scrupolosa riga del calligrafo.
Il volto del suicida nello specchio.
La giocata del baro. L’oro avido.
Le forme delle nubi nel deserto.
Ogni arabesco del caleidoscopio.
Ogni rimorso pianto in ogni lacrima.
Sono servite tutte queste cose
perché le nostre mani si incontrassero.

EPILOGO

Un evento qualunque – un’osservazione, un incontro, una separazione, uno di quei curiosi arabeschi di cui il caso si compiace – può suscitare l’emozione estetica. Il destino del poeta è proiettare quell’emozione, che è stata intima, in una favola o in una cadenza. La materia di cui dispone, il linguaggio, è, come afferma Stevenson, assurdamente inadeguata. Che cosa farsene, delle parole logore – gli idola fori di Francis Bacon – e di alcuni artifici retorici contenuti nei manuali? A prima vista nulla o molto poco. Eppure, è sufficiente una pagina dello stesso Stevenson o una riga di Seneca per dimostrare che l’impresa non sempre è impossibile. Per eludere la controversia, ho scelto esempi trapassati; lascio al lettore il vasto passatempo di ricercare altre felicità, forse più immediate.
Un volume di versi altro non è che una successione di esercizi di magia. Il modesto incantatore fa quel che può con i suoi modesti mezzi. Una connotazione mal riuscita, un accento sbagliato, una sfumatura, possono rompere l’incantesimo. Whitehead ha denunciato la fallacia del dizionario perfetto: supporre che per ogni cosa ci sia una parola. Lavoriamo a tentoni. L’universo è fluido e mutevole; il linguaggio, rigido.
Fra tutti i libri che ho pubblicato, questo è il più intimo. Abbonda in riferimenti libreschi, come pure vi abbondò Montaigne, l’inventore dell’intimità. Si può dire lo stesso di Robert Burton, la cui inesauribile Anatomy of Melancholy – una delle opere più personali della letteratura – è una sorta di centone, inconcepibile senza lunghi scaffali. Come alcune città, come alcune persone, una parte estremamente grata del mio destino sono stati i libri. Mi sarà permesso ripetere che la biblioteca di mio padre è stata l’evento capitale della mia vita? La verità è che non ne sono mai uscito, come Alonso Quijano non uscì mai dalla sua.
Buenos Aires, 7 ottobre 1977
J.L.B.

Tungsteno

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di Fabio Rodda

 

Alexander si era sciacquato il viso e aveva buttato giù un bicchiere di samogon con qualche fetta di pane nero e carne essiccata. Lo aveva diluito con l’acqua presa nel secchio vicino alla grande stufa, che da ottobre a marzo non si spegneva mai. Lo allungava perché il suo samogon era il più forte della regione, lo sapevano tutti: lui distillava una volta sola e non tagliava tutta la testa e tutta la coda. Una roba per veri uomini. Aveva visto amici svenire dopo solo quattro o cinque bicchieri del suo samogon. Era per il veleno, si lamentavano loro. La parte migliore, secondo Alexander. Fuori era ancora buio. 24 sottozero, diceva il termometro sulla porta di casa. La pelle si tende fino a rompersi, se non la copri con il grasso di foca o di balena. Aveva preso il sentiero per raggiungere la fermata dove gli altri sarebbero passati a raccoglierlo. Mezz’ora di cammino, poi il sole era sorto e aveva acceso il bianco improvviso, il bianco che acceca. Alexander era salito sul UAZ già fermo a bordo strada. Lo aspettavano Artyom, Mikhail, Ivan e Andrey, che, come al solito, guidava il furgone. Ivan gli fece posto vicino al finestrino. Due chiacchiere, niente di nuovo nelle poche ore che ognuno aveva passato lontano dalla miniera. Poi, solo luce che bruciava gli occhi e faceva saltare i nervi. Alexander aveva promesso a Zhanna che non avrebbe bevuto samogon al lavoro, né vodka, né nessun intruglio che gli amici avrebbero certamente portato. Ma quel bianco, quel bianco gli entrava nel cervello, si faceva strada scavando dalle retine fin nei punti più oscuri e segreti e poi tutto diventava luce che abbaglia la ragione, che stana i pensieri, che non da tregua. Mikhail gli passò una bottiglia torbida. Aveva promesso a Zhanna: quel giorno a casa c’era Maxim. Fece un lungo sorso, poi tornò a guardare fuori quel mare di fuoco bianco che adesso faceva appena meno male, dietro le iridi quasi trasparenti.

Zhanna stava rassettando casa, spazzava il pavimento di legno e aveva sul fuoco lo stufato di carne, piselli e cipolle. Iska sarebbe arrivata prima di pranzo con Maxim: doveva andare in città, aveva un colloquio di lavoro e Dmitriy era in fabbrica. Oggi avrebbe dovuto lasciare Maxim coi nonni tutto il giorno, il viaggio era lungo, sarebbe tornata col buio, non c’erano alternative. L’aveva chiamata una settimana prima, per dirle che aveva bisogno di aiuto. Zhanna era ubriaca, ma non ancora così tanto da non riuscire a parlare e aveva promesso a sua figlia che si sarebbe occupata del nipote. Era un giorno solo, non c’era problema. Aveva portato in casa più legna del solito, che la stufa fosse bella calda per il piccolo. Sarebbe stata contenta, sua figlia, di vedere il cibo sul fornello e sentire che caldo usciva dall’enorme stufa. Sarebbe stata contenta, almeno una volta.

Iska era inquieta. Non avrebbe voluto lasciare Maxim coi suoi, ma non aveva scelta. O, meglio, forse avrebbe potuto chiedere a Katya, ma Dmitriy aveva così insistito: per una volta, non potevano i suoi genitori fare i nonni? Non sarebbe neanche rimasto per cena, loro figlio. Era assurdo che non potessero mai contare sull’aiuto della sua famiglia, lei che ne aveva una. Katya già stava con Maxim tutti i pomeriggi e non voleva in cambio nient’altro che qualche torta e dei grazie. Era troppo chiederle di prendersi un giorno da lavoro, un permesso dall’emporio di Mirjana, per badare a Maxim. C’erano i nonni. Non avrebbe nemmeno dovuto deviare di molto dal tragitto per andare in città. Quel colloquio era importante, avevano bisogno di soldi. Fosse andato bene, avrebbero subito pensato a tutto, a cambiare casa, ad andare in città. Sarebbe stato meglio anche per Maxim. Per una volta i suoi sarebbero stati responsabili: si sarebbero comportati da nonni.

Ogni giorno, spaccare lastre di granito per tirarne fuori wolframite, pezzi neri o rosso cupo di roccia da cui estrarre il tungsteno. Per farci i fili delle lampadine. Almeno così dicevano gli altri, giù in miniera. Alexander odiava il tungsteno, odiava la luce. Non bastava quella riflessa dalla neve per otto mesi all’anno? Non bastava quel bianco accecante tutto attorno? In casa, teneva accese solo candele e lampade a olio. Odiava il tungsteno e la polvere di roccia che s’infila ovunque, che non si lava mai via del tutto ed entra nei polmoni, nei pori della pelle che diventa dura, ruvida e scura.

Quel giorno aveva chiesto di fare solo mezzo turno. Dopo pranzo, sarebbe andato via con Andrey, che doveva tornare verso Abaza a recuperare dei martelli pneumatici in riparazione e gli poteva dare un passaggio. Stavano salendo sul montacarichi che li portava in superficie. Andrey tirò fuori una borraccia, levò il tappo e fece un sorso. La passò ad Alexander. Aveva promesso. Ne avrebbe bevuto solo un goccio.

Quando Iska salutò il piccolo Maxim, che dormiva tranquillo vicino alla stufa, sentiva lo stomaco pesante. Sua madre era stata carina: la casa, se casa si poteva chiamare, era quasi pulita e nell’aria c’erano caldo buono e odore di stracotto. Restò a guardare suo figlio, il suo naso così piccolo, come le orecchie. Era così bello, Maxim. Così perfetto. Salutò sua madre, si raccomandò ancora. Zhanna la rassicurò di nuovo e la accompagnò alla porta. Iska salì sul piccolo fuoristrada, il motore sempre acceso: bastano pochi minuti, già a fine autunno, per far ghiacciare le parti meccaniche e dover lasciare la macchina ferma fino al disgelo. Rimase qualche istante a guardare quella stamberga che ancora oggi visitava i suoi incubi. Sognava, sempre più di rado per fortuna, quell’odore. L’odore strano che aveva sentito venire dal piano di sotto. Si era svegliata per un rumore improvviso, un guaito nel silenzio e aveva sentito quell’odore, quel puzzo che non capiva. Suo padre era così ubriaco da aver appestato l’aria coi miasmi di mele marce e zucchero che si mischiavano a un tanfo acre come quello della lana bruciata, ma più sporco, un flato sulfureo che non conosceva. Era scesa a piedi nudi sulle scale di legno senza far rumore e, nel vuoto tra i gradini, aveva inquadrato sua madre addormentata sul divano. E poi l’aveva vista: Nevà, la loro cagnolina, bruciava nella grande stufa. Suo padre, il volto sfigurato dall’alcol e dalle fiamme, la guardava arrostire senza dire una parola. Iska si era tappata la bocca per trattenere un urlo. Era tornata di sopra, si era chiusa in camera, certa che quella sorte, fra poco, sarebbe toccata anche a lei. Tratteneva il respiro, ma quell’odore, quella peste s’infilava da ogni interstizio fra la porta e i muri e il pavimento e per quanto lei avesse riempito con le sue felpe e i maglioni tutte le fessure, quel fetore era entrato nella stanza e non l’avrebbe lasciata più. Si addormentò per terra, la schiena appoggiata alla porta. La mattina dopo, non aveva avuto il coraggio di chiedere niente. Sua madre disse che la loro cagnolina, col buio, era stata male e suo padre l’aveva aiutata. Lei non rispose. Nevà stava bene. Le aveva dato lei, come ogni sera, la buonanotte e lei stava bene. L’aveva guardata coi suoi occhi buoni e si era nascosta nel fondo della cuccia, nell’angolo più facile da scaldare. Forse, quella notte faceva troppo freddo e Nevà si era lamentata. Forse, aveva abbaiato e suo padre, che quando puzzava di mele andate a male diventava un’altra persona, si era infuriato. Iska aveva sei anni, come Nevà: erano cresciute insieme. Quella mattina, non disse nulla e non pianse.

Si scosse. Respirò a fondo e guardò il fumo uscire dal camino di ferro arrugginito. Era passato tanto tempo. Infilò la marcia e partì per andare in città.

Alexander era tornato a casa ubriaco. Meno di tante altre volte, ma comunque ubriaco. Zhanna lo aspettava in cucina. Gli mise davanti una scodella di stufato e aprì una bottiglia di vino: se doveva sopportare suo marito in quelle condizioni, non poteva farlo da sobria. Maxim dormiva.

Poi, si svegliò e cominciò a piangere.

Le grida del bambino. Quel suono era come la luce bianca del mattino, abbacinante, che penetrava nel cervello e andava a scavare fra i pensieri più bui, che non aveva pietà e illuminava tutte le miserie della mente. Fuori, il sole era tramontato e Alexander aveva trovato, come ogni sera, un po’ di pace nella penombra. Ma quelle grida, era come se, ad ogni strillo, un po’ di luce bianca s’infilasse dietro gli occhi, fra i bulbi e il cervello, come filamenti di tungsteno incandescenti che scavavano nel cranio, come le trivelle che usava tutti i giorni, giù in miniera. Maledetta luce e maledetto quel pianto insopportabile.

Zhanna era stanca per il vino e per le botte di Alexander, furioso di samogon e delle urla di Maxim. Era riuscita a calmare il piccolo, finalmente. I suoi occhi grandi le ispezionavano silenziose rughe scavate anzitempo. Si era addormentata col nipotino stremato a fianco.

Iska aveva fretta, voleva passare a prendere suo figlio e correre a casa: avrebbe fatto in tempo a cucinare qualcosa per Dmitriy. Avrebbero brindato alla bella notizia con del vino buono. Dovevano cercare casa, organizzare il trasloco. Ma ci avrebbero pensato domani, adesso bisognava festeggiare. Adesso, voleva solo prendere Maxim e andare via. Doveva allontanarsi da lì, da quella baracca che illuminava coi fari della sua Lada. L’ansia, che da qualche minuto le chiudeva lo stomaco, le diceva di sbrigarsi a entrare e andar via. C’era tanto fumo, lì attorno. Troppo fumo. Parcheggiò davanti a casa dei suoi, il motore acceso. Il camino stretto sbuffava nuvole dense e scure che rotolavano davanti ai fanali puntati sulla porta di legno. Iska scese dalla macchina, sentì il freddo. Poi, le sue gambe cedere sulla neve compatta, mentre le narici si riempivano di quell’odore.

 

Così parlò Malatestra

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di

Errico Malatesta

Amare tutti somiglia molto a non amare alcuno.


Nota

Una riflessione problematica e per questo estremamente interessante sul sentimento dell’amore.

Fonte: La Questione Sociale, Paterson, New Jersey, nuova serie, n. 18, 6 gennaio 1900.

 


 

A prima giunta può sembrare strano, ma è un fatto che la questione dell’amore – dell’amore tra i due sessi – e tutte quelle che ad essa si connettono, preoccupano molto la mente di una gran parte degli uomini e delle donne, anche quando problemi più urgenti, se non più importanti, sembrerebbero dovere attirare tutta l’attenzione e tutta l’attività di coloro che cercano il modo di rimediare ai mali che affliggono l’umanità.

Tutti i giorni incontriamo gente, che è schiacciata sotto il peso delle istituzioni della Proprietà e del Governo; gente che non ha abbastanza da mangiare o è minacciata ad ogni momento di cadere, per mancanza di lavoro o per malattia, nella più assoluta miseria; gente che non può allevare decentemente i proprii figliuoli e spesso li vede morire per non poter dar loro le cure necessarie; gente cui sono preclusi i vantaggi e le gioie dell’arte e della scienza; gente che è condannata a passare la vita senza essere un giorno solo padrona di sé, sempre sottoposta all’arbitrio dei padroni e dei birri; gente per la quale il diritto di avere una famiglia, il diritto di amare, è niente altro che un’atroce ironia – e che pure non accetta i mezzi che le proponiamo per sottrarsi alla schiavitù economica e politica, se prima non siamo riusciti a soddisfarla sul modo come in una società anarchica si soddisferebbe al bisogno di amare e come si organizzerebbe la famiglia. E naturalmente questa preoccupazione cresce, e certe volte fa trascurare e disprezzare gli altri problemi, nelle persone che han risolto per loro il problema della fame, che possono normalmente soddisfare i più imperiosi bisogni, e vivono in un ambiente di relativa agiatezza.

Il fatto si spiega, perché grande, immensa, è la parte che l’amore occupa nella vita morale e materiale dell’uomo, e perché è nella casa, nella famiglia, che l’uomo spende la parte maggiore, e migliore, della sua vita.

E si spiega pure per una tendenza verso l’ideale che infiamma l’animo umano non appena esso si apre alla luce della coscienza. Fino a che l’uomo soffre senza darsi conto delle sue sofferenze, senza cercarvi un rimedio e senza ribellarvisi, esso vive animalescamente e piglia la vita come viene, o come gliela fanno. Ma quando incomincia a pensare, ed a capire che i suoi mali non dipendono da insuperabili fatalità naturali, ma da cause umane che gli uomini possono distruggere, allora è subito invaso da un bisogno di perfezione e vuole, almeno idealmente, godere di una società in cui regni l’armonia assoluta, ed il dolore sia scomparso completamente e per sempre. Tendenza questa utilissima, poiché sprona sempre in avanti; ma che riesce dannosissima quando induce a trascurare il realizzabile ed a restare nello stato in cui si è per la ragione che anche in questo realizzabile s’incontrano dei difetti e dei pericoli.

Ora, diciamolo subito, noi non abbiamo nessuna soluzione per rimediare ai mali che possono venire all’uomo dall’amore, perché essi non si possono distruggere con riforme sociali e nemmeno con un cambiamento di costumi. Essi dipendono dai sentimenti profondi, diremmo fisiologici, dell’uomo, e non sono modificabili, se lo sono, che per lenta evoluzione ed in un modo che noi non sapremmo prevedere.

Noi vogliamo la libertà; noi vogliamo che gli uomini e le donne possano amarsi ed unirsi liberamente senz’altro motivo che l’amore, senz’alcuna violenza legale, economica o fisica. Ma la libertà, pur essendo la sola soluzione che noi possiamo e dobbiamo offrire, non risolve radicalmente il problema, visto che l’amore per esser soddisfatto ha bisogno di due libertà che s’accordano, e che invece molto spesso non si accordano affatto: e visto che la libertà di fare come si vuole è una frase vuota di senso se non si sa che cosa volere.

È presto detto “quando un uomo ed una donna si amano si uniscono, e quando non si amano più si separano”. Ma bisognerebbe, perché questo principio fosse fonte sicura e generale di felicità, che essi si amassero e cessassero di amarsi contemporaneamente. Ma se uno ama e non è riamato? Ma se uno ama ancora quando il suo coniuge non lo ama più e vuol correre a nuovi amplessi’! E se uno ama nello stesso tempo più persone, e queste non sanno adattarsi a tale promiscuità?

“Io sono brutto”, ci diceva un tale; come farò se nessuna donna vorrà amarmi!” La domanda si presta al riso; ma non è meno rivelatrice di vere, strazianti tragedie!

Ed un altro, preoccupato dallo stesso problema diceva: “Oggi, se non trovo amore, lo compro, magari economizzando sul mio pane: come farò se non vi saranno più donne costrette a vendersi’?” La domanda è orribile, poiché mostra il desiderio che vi siano esseri umani che la fame costringa a prostituirsi; ma è anche terribile – e terribilmente umana!

Alcuni dicono che il rimedio sarebbe l’abolizione radicale della famiglia; l’abolizione della coppia sessuale più o meno stabile, riducendo l’amore al solo atto fisico, o meglio trasformandolo, col congiungimento sessuale in più, in un sentimento simile all’amicizia, che ammetta la molteplicità, la varietà, la contemporaneità degli affetti. E i figli . . . figli di tutti.

Ma è possibile abolir la famiglia? È desiderabile?

Prima di tutto notiamo che, malgrado il regime di oppressione e di menzogna che ha prevalso sempre, e tuttora prevale, nella famiglia, questa è stata, e resta ancora, il più gran fattore di sviluppo umano, poiché essa è il solo luogo dove l’uomo normalmente si sacrifica per l’uomo e fa il bene per il bene, senza desiderare altro compenso che l’amore del coniuge e dei figli.

Certamente vi sono casi di sacrifizii sublimi, di lotte e martirii affrontati per il bene della collettività tutta quanta; ma sono sempre casi eccezionali, la cui influenza sullo sviluppo dell’istinto sociale dell’umanità non può paragonarsi a quella, più modesta sì, ma costante ed universale della coppia che si dedica all’allevamento ed all’educazione dei figliuoli.

Ma, si dice, eliminate le questioni d’interesse, tutti gli uomini diventerebbero fratelli e si amerebbero tutti.

Certo, non si odierebbero più; certo, si svilupperebbe fortemente il sentimento di simpatia e di solidarietà, e l’interesse generale degli uomini diventerebbe un fattore importante nella determinazione della condotta di ciascuno. Ma questo non è ancora l’amore.

Amare tutti somiglia molto a non amare alcuno.

Noi possiamo forse soccorrere, ma non possiamo piangere tutte le sventure, o dovremmo passare la vita piangendo: e pure la lagrima di simpatia è la più dolce consolazione per un cuore che soffre!

La statistica delle morti e delle nascite ci può offrire dati preziosi per conoscere i bisogni della società, ma non dice nulla ai nostri cuori. Noi non possiamo rattristarci per ogni uomo che muore; non possiamo sussultare per ogni bimbo che nasce.

E se non amiamo alcuno più intensamente degli altri, se non v’è alcun essere pel quale più specialmente siam disposti a sacrificarci, se non conosciamo altro amore che quello tiepido, moderato, quasi teorico, che possiamo sentire per tutti, non sarebbe la vita meno ricca, meno feconda. meno bella? la natura umana non ne resterebbe castrata nei suoi slanci più nobili? Non resteremmo privi delle gioie meglio sentite? non saremmo più infelici?

Del resto, l’amore è quello che è. Quando uno ama fortemente, sente il bisogno del contatto costante, del possesso esclusivo dell’essere amato. La gelosia, intesa nel senso migliore della parola, sembra essere, è generalmente una cosa sola coll’amore. Il fatto si può lamentare, ma non si può cambiare a volontà, nemmeno a volontà di colui stesso che ne è affetto.

Secondo noi, dunque, l’amore è una passione per sé stessa generatrice di tragedie: tragedie che certamente non si tradurrebbero più in atti violenti e brutali, quando l’uomo avesse il senso del rispetto che si deve alla libertà altrui, quando esso avesse abbastanza controllo sopra sé stesso per comprendere che non si rimedia ad un male aggiungendovene un altro peggiore, e quando l’opinione pubblica non fosse più, come è oggi, morbosamente indulgente pei cosiddetti reati passionali, ma che resterebbero sempre dolorosissime.

Fino a che gli uomini avranno i sentimenti che hanno – e non ci pare che basti a cambiarli un cambiamento nell’assetto economico e politico della società – l’amore produrrà, nello stesso tempo che grandi gioie, anche grandi dolori. Si potrà diminuirli ed attenuarli eliminando tutte le cause eliminabili, ma non si potrà completamente distruggerli. Ma è questa una ragione per non accettare l’anarchia, e voler restare nello stato attuale? Sarebbe fare come uno che non potendo vestirsi di costose pellicce volesse andare ignudo, o non potendo mangiare pernici tutti i giorni rinunziasse anche al pane; o come un medico che, vista l’impotenza attuale della scienza a guarire tutte le malattie, non volesse curare nemmeno quelle che si possono guarire.

Distruggiamo lo sfruttamento e l’oppressione dell’uomo sull’uomo, combattiamo la brutale pretesa del maschio a credersi padrone della femmina, combattiamo i pregiudizii religiosi, sociali e sessuali, assicuriamo a tutti, maschi e femmine, uomini e fanciulli, il benessere e la libertà, diffondiamo l’istruzione . . . e avremo ben ragione di rallegrarci se non vi resteranno altri mali che quelli d’amore.

In tutti i casi, gl’infelici in amore potranno rifarsi con altre gioie, poiché allora non sarebbe più come oggi che l’amore – insieme all’alcool -·è la sola consolazione della più gran parte dell’umanità.

 

Autodafé nell’acqua: su Dovunque acqua sia voce di Domenico Brancale

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di Lorenzo Mari

Ci sono molti modi sbagliati per provare a parlare dell’ultimo libro di Domenico Brancale, Dovunque acqua sia voce (Edizioni degli Animali, 2022). E non si sta necessariamente parlando di modi di vento e di terra, perché, se è pur vero che nel libro dominano acqua e fuoco – «Numerose poesie bruciano in fondo all’acqua» è la citazione, dall’interno del volume, opportunamente riportata nella bandella –, questo non toglie che la “voce” sia un fatto di anima/ánemos, dunque alito di vento, e trovi, sempre, radice materiale, terrestre, in un corpo. Questo, Brancale lo sa bene e lo propone di continuo nel libro, la cui alchimia è innanzitutto alchimia del testo e della voce, prima che alchimia in senso tradizionale o esoterico.

Un altro modo sbagliato potrebbe essere quello di evocare la trama intertestuale del libro, andando a pescare la «lista di medicine» (p. 44) che Brancale offre nella sezione “Autobiografia dell’acqua” – titolo, peraltro, che poco ha a che spartire e di sicuro non è in relazione agonistica con la nota Antropologia dell’acqua (Donzelli, 2010) di Anne Carson. Certo, a «una fiala di Dostoevskij, una supposta di Flaubert, tre compresse di Walser, infusione di Kafka, sette gocce di Bernhard, pomata Lispector» (p. 44) si potrebbero aggiungere gli echi degli autori che Brancale ha tradotto e che sono riportati nella sua biografia – Cioran, Giorno, Royet-Journod, Scelsi, Artaud – e ancora i molti altri che si stagliano con maggior nettezza nelle pagine di questo libro: Friedrich Hölderlin, Thierry Metz, José Bergamín, Rubina Giorgi, John Berger, John Giorno… Quello di Brancale è un taccuino – alla maniera del Taccuino nero di Joë Bousquet, senza dubbio – ma non è certo un centone dominato da una volontà enciclopedica o indicale, da un tentativo, di qualche tipo, di narcisistica autoconferma. Tutt’altro, la sfida è intesa in modo più assoluto, nel senso della libertà dai vincoli (anche da quelli del canone letterario), come si legge, ad esempio, e sempre a proposito di Bousquet: «Forse il solo modo di opporre resistenza alle condizioni dell’esistenza è imprigionare il proprio pensiero. Joë Bousquet: devo molto a questo poeta, alle sue gambe i libri che mi hanno lasciato camminare» (p. 17).

Paradosso e rovesciamento non sono mai sacrileghi, in Brancale, se non nella misura in cui restituiscono una certa dimensione sacra. Il sacrificio è dappertutto, anzi, e il primo a cadere è, naturalmente, l’io: l’Autobiografia dell’acqua non può essere mai “autobiografia” in senso stretto – se non per ricordare che, appunto (e nonostante una sempre più implacabile messa a nudo della propria vicenda esistenziale, nel corso delle pagine del libro di Brancale), anche il genere autobiografico si regge su uno specifico patto con il lettore e non su un qualche tipo di referenzialità “dura” – e, soprattutto, dell’io bisogna liberarsi. Un insegnamento della mistica, questo, e di tutti quegli autori e autrici che con la mistica si sono misurati – come Cristina Campo, della quale si sta avvicinando il centenario della nascita, celebrato in anticipo dalla casa editrice Ripostes, che ha rimesso in circolazione già da qualche mese Cristina Campo in immagini e parole, curato, a suo tempo, anche dallo stesso Brancale – ma anche un insegnamento del buddhismo, cui certi passaggi del libro sembrano puntare, e soprattutto insegnamento dell’asino.

«Ih-Oh» dice l’asino che non sa dire “io”, se non a suo modo «Ih-Oh, Ih-Oh e io non voglio più essere Ih-Oh, non voglio più l’essere» (p. 80) – scrive Brancale ritornando sui passi del suo precedente libro, Scannaciucce (Mesogea, 2019), ma anche all’amore per gli asini di un autore come John Berger. In fondo, bisogna «Credere all’asino che vola. Fino alla fine. Fino alla voce» (p. 80) ribadisce, poco sotto, Brancale, usando quei giochi di parole, anche minimi, che ogni tanto si possono rintracciare nel testo, a testimonianza di una dolcezza – che, non per questo, è falsamente consolatoria – che resta e resiste tra quelle righe che, per altri versi, si confrontano di continuo con il dolore, la morte e, in genere, l’inappartenenza della vita per chi vorrebbe possederla.

Di nuovo, sulla stessa pagina: «Intendere il raglio è riscoprire la propria identità nell’altro, scoprire nel volto umiliato della bestia l’invisibile divino» (p. 80, corsivi nell’originale). L’autodafé continuo e sincero di Brancale – di quell’unica sincerità che è possibile in poesia e che non ha niente a che fare con l’immediatezza viscerale di certa lirica anche contemporanea, ma che è “senza cera”, come il miele più puro, quello che non ha messo alcuna cera di essere altro, e quindi, traslitterando, non ha alcuna faccia – è, innanzitutto, apertura all’altro. E dunque anche a linguaggi altri: Brancale non soltanto non esibisce alcuna saggezza canonica, se non per farne un uso totale, nel campo della letteratura, ma non lo fa nemmeno nel campo delle arti visive – di cui pure l’autore è esperto conoscitore e praticante, come testimonia il suo lavoro per la collana Prova d’Artista della Galerie Bordas – e questo lascia spazio all’altro che abita questo testo. I tre preziosi acquerelli di Miquel Barceló, artista che non ha bisogno di presentazione, restano incastonati nel testo e al tempo stesso assoluti, senza vincoli. Solo così lasciano trasparire gradualmente alcune forme nell’acqua: emerge qualcosa, ed è l’altro.

È anche per questo, – per la fascinazione di un testo che, finalmente, parla! – che in questa piccola nota di lettura si è voluto procedere più che altro per negazione: qualcosa emerge, sicuramente, ed è tanto, ma è qualcosa che va ascoltato come esperienza nuova e irripetibile di ciascuno, nel fare dovuto spazio ai colori dell’acqua di Miquel Barceló e alla voce dell’acqua di Domenico Brancale.

Democrazia e riscaldamento climatico: oltre la politica dei piccoli gesti

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di Andrea Inglese

 

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Suicidio come soluzione ecologica

Si potrebbe pensare che i Ginks – Green Inclination, No Kids – siano l’avanguardia nella lotta contro il riscaldamento climatico. Certo, la scelta di non riprodursi per non moltiplicare il consumo di energia, l’inquinamento, la distruzione della biodiversità è radicale e ammirevole. Dando però un’occhiata alle cifre, non dal lato tanto dei volonterosi cittadini dalla propensione verde, ma dal lato multinazionali delle energie fossili, questi sforzi pur eroici rischiano di apparire lillipuziani. Forse si potrebbe fare di più: piuttosto che differire la riduzione dell’impronta carbonica individuale nel futuro (impedendo nuove nascite), si potrebbe procedere a un più efficace Green Suicide, ovvero ci si toglie di mezzo ora, azzerando la nostra triste contribuzione all’emissione di gas serra, ed inoltre si tronca la domanda energetica, che giustifica tutte le turpitudini delle multinazionali. Anche questo ragionevole piano, però comporta un rischio. Chi ci assicura che gli Elon Musk rimasti in vita, la cui contribuzione al riscaldamento climatico è proporzionale alla loro ricchezza, non ne approfittino per estendere ulteriormente la loro impronta carbonica? E decidano – nelle autostrade che il nostro sacrificio estremo ha lascito sgombre – di far circolare SUV a motore diesel senza conducente ma con l’algoritmo della guida automatizzata? Sarebbe una bella fregatura. Essersi ammazzati, per permettere ai i più ricchi “senza propensione verde” di godersi da soli il pianeta prima della catastrofe.

 

La scienza (da sola) non ci salverà

La questione climatica è la questione politica del secolo XXI, ma non ci riguarda, perché non vogliamo, non sappiamo più, fare politica, e siamo d’accordo, con i nostri nemici, che la soluzione migliore è trasformarla in una questione morale. Questa scappatoia ha i suoi vantaggi e svantaggi. Innanzitutto, dà ai più benestanti e acculturati di noi la possibilità di essere virtuosi, di elevarsi moralmente rispetto alla plebe inconsapevole e inquinante, per limitarci ai vantaggi. Inoltre, abbiamo l’idea di riappropriarci del nostro destino, così come sui social ci riappropriamo quotidianamente della nostra immagine pubblica. Gli svantaggi, però, ci sono, soprattutto per i più giovani. Anche se virtuosi, gli piglia spesso una certa fifa, una certa ansia, che gli psicologi hanno già catalogato: è l’angoscia climatica. Come tutte le angosce, dovrebbe anch’essa essere curabile, previo numero più o meno grande di sedute terapeutiche.

Una cosa è certa: non è la scienza che sarà in grado di limitare il degradarsi del clima. Gli scienziati hanno già fatto il loro lavoro. Nel 1979, alla prima conferenza mondiale sul clima di Ginevra, han detto all’umanità grosso modo quel che era importante sapere: l’attività umana è responsabile di cambiamenti climatici, che avranno impatti negativi per gli esseri viventi sull’intero pianeta. La verità è stata formulata nelle sedi istituzionali apposite, ma nonostante ciò essa non ha avuto forza vincolante, non ha prodotto necessarie conseguenze sul piano pratico. Dire come le cose stanno (verità scientifica) non permette di dedurre quali decisioni bisogna prendere, ossia quali azioni compiere. La verità, dunque, è stata dapprima cercata, poi trovata e formulata, e infine è stata perfettamente compresa, restando – come spesso accade – lettera morta. (Questo fatto ha persino permesso la produzione di discorsi negazionisti, che quella stessa verità smentiscono, senza ingombrarsi con criteri di scientificità, ecc.). Quei dati di fatto hanno atteso almeno 26 anni per tradursi in qualche vincolo legale, in qualche obiettivo specifico da realizzare, in occasione del protocollo di Kyoto nel 2005. L’aggiornamento di quegli obiettivi e vincoli si è avuto nel 2015 con l’Accordo di Parigi sul clima, entrato in vigore l’anno successivo. Si tratta di un contratto di diritto internazionale che ha l’obiettivo di ridurre le emissioni di gas serra, di mettere in opera programmi di adattamento rispetto ai peggioramenti climatici, di indirizzare risorse statali e private verso uno sviluppo a emissioni ridotte. Approssimativamente, potremmo dire che, rispetto ai primi allarmi lanciati dalla comunità scientifica, gli Stati e il diritto internazionale hanno lasciato passare un mezzo secolo prima di reagire in modo conseguente. (Si pensi alle difficoltà enormi, anche solo a livello europeo, per introdurre una qualche forma efficace di Carbon Tax. E la tassa sulle emissioni inquinanti per gli importatori stranieri approvata questo dicembre dalla UE – Carbon Border Adjustment Mechanism (CBAM) – è salutata come la decisione politica più avanzata a livello mondiale nella lotta contro il mutamento climatico. Peccato che tutto ciò avvenga diciassette anni dopo il protocollo di Kyoto, che doveva segnare l’era delle “misure concrete”.)

Una tale inerzia in ambito decisionale dovrebbe ricordarci che, come la verità scientifica non è bastata a contrastare di per sé il mutamento climatico, così accadrà con il progresso tecnologico o la disponibilità finanziaria. L’organo che solo può indicare dove la ricerca scientifica vada indirizzata, quali priorità dare alle sue applicazioni tecnologiche e quali programmi energetici finanziare, è la politica, intesa non come sede decisionale – i governi dei vari Stati del mondo – ma come processo di confronto pubblico e di scelta collettiva. Si capisce ora che la concezione del rapporto tra comunità scientifica e cittadinanza democratica, come quella sviluppata da un Paul K. Feyerabend, è più che mai attuale. In La scienza in una società libera del 1978, il filosofo austriaco scriveva: “Gli specialisti, compresi i filosofi, possono naturalmente essere interpellati, si possono studiare le loro proposte, ma si deve riflettere con precisione per stabilire se tali proposte e le regole e i criteri che le hanno ispirate siano desiderabili e utilizzabili”. Si tratta, in realtà, di generalizzare il principio della giuria popolare che già vige nel diritto: “La legge richiede l’interrogazione in contraddittorio di esperti e la valutazione di tale interrogatorio da parte dei giurati”.

In realtà, quello a cui Feyerabend – e altri pensatori come Cornelius Castoriadis o Bruno Latour – fa riferimento è un processo che implica varie tappe e vari soggetti. Oltre ai lobbysti buoni e cattivi, oltre alle ONG, oltre ai dirigenti politici, oltre agli scienziati, ossia a coloro che già oggi partecipano a questi incontri mondiali sul clima, finalizzati ad accordi più o meno vincolanti sul piano delle politiche industriali, sociali e territoriali, è necessario che sia mobilitato il numero più ampio di cittadini, e questo non può avvenire che in seguito a pubbliche discussioni, inchieste, capillari opere di divulgazione realizzate dagli organi d’informazione, dalla letteratura e dalle arti. Non sto evocando un mondo utopico dove la cittadinanza costantemente ben informata possa intervenire in tutta chiarezza e trasparenza sui processi decisionali che riguardino indirizzi scientifici o sviluppi tecnologici. Sto solo affermando che, nell’attuale contesto di minaccia climatica su scala planetaria, è auspicabile che i cittadini in un modo o nell’altro riescano a costituire un contropotere nei confronti dei potentati economici, in particolar modo i giganti delle energie fossili (carbone, petrolio, gas). Ora, anche ammesso che esista, almeno potenzialmente, un contropotere, esso deve porsi degli obiettivi pratici, e può farlo con una certa efficacia solo in cognizione di causa.

Il termine “contropotere” non è neppure forse il più adatto, perché suggerisce l’esistenza di un potere illegittimo (le multinazionali dell’energia? i dirigenti politici? gli esperti?) a cui si oppone un potere più legittimo. L’uno e l’altro, in realtà, sono definitivamente legati, e non potranno funzionare come realtà indipendenti e autonome. Nella capitolo conclusivo del suo libro fondamentale, Carbon Democracy. Political Power in the Age of Oil (Verso, London, New York, 2011), Timothy Mitchell scrive riguardo alla duplice minaccia che inquieta il XXI secolo: il limite “fisico” delle energie fossili – ne vorremmo all’infinito, ma esse sono risorse finite – da un lato, e il limite “climatico” dall’altro – se continuiamo a sfruttarne quante ne vorremmo, andiamo incontro alla catastrofe. L’appello ai “limiti” naturali dei “maltusiani” è contraddetto inevitabilmente dall’appello all’innovazione tecnica dei “tecnologi”, che contro qualsiasi affermazione di un limite “naturale” predicano l’imprevedibilità delle soluzioni “tecnologiche”. Di fronte a queste due prospettive, scrive Mitchell:

“Si può preferire una posizione alternativa, che consiste a riconoscere, non che gli esseri politici sono determinati dalle forze naturali, o, all’opposto, che il progresso continuo della scienza e della tecnologia li libererà dai vincoli naturali, ma che noi ci troviamo nel bel mezzo di un numero crescente di controversie sociotecniche. Contrariamente a quello che sostiene l’idea convenzionale della scienza, il cambiamento tecnico non sopprime le incertezze: le fa proliferare. (…) Queste controversie tecniche sono sempre delle controversie sociotecniche, ovvero dei conflitti sui tipi di tecnologie con le quali noi desideriamo vivere, ma anche sulle forme di vita sociale, e sociotecnica, che noi siamo pronti a fare nostre.”

La controversia energetica e climatica non si affronterà semplicemente come un conflitto di cittadini contro le multinazionali dell’energia o contro lo strapotere della tecnologia, ma come una riorganizzazione dei processi democratici, che permettano ai cittadini di parteciparvi efficacemente.

Limiti della politica dei “piccoli gesti” quotidiani

Qualcuno dirà che da tempo i cittadini “comuni” sono entrati nella controversia climatica. È ormai diffuso un discorso sulla responsabilità di ogni individuo nei confronti dei suoi consumi di energie fossili (diretti e indiretti) e dell’emissione conseguente di gas serra nell’atmosfera; in quest’ottica, d’altra parte, è nato il concetto di “impronta carbonica individuale”, elaborato all’inizio del secolo dall’agenzia di comunicazione statunitense Ogilvy & Mather, su richiesta della British Petroleum (BP). I giganti delle energie fossili hanno un chiaro interesse nello spostare la responsabilità sull’individuo consumatore piuttosto che sull’azienda estrattrice. E l’operazione ha avuto un notevole successo. Ma il tipo di responsabilità a cui fa riferimento Mitchell va ben al di là del tentativo individuale di ridurre i consumi d’energia – tentativo, sia chiaro, non solo lodevole, ma necessario. Non è sufficiente l’emersione di nuove emozioni collettive, come la “vergogna di prendere l’aereo”, perché sia possibile esercitare una significativa responsabilità politica. (Faccio questo esempio, in quanto Greta Thunberg, in un suo recente intervento citava la nascita in Svezia del neologismo “flygskam”, che si riferisce appunto alla vergogna di viaggiare in aereo.) Ora, un calcolo sull’impatto che avrebbero comportamenti individuali “eroici” e “realisti” sulla riduzione dei gas serra, secondo gli obiettivi dell’accordo di Parigi – riduzione dell’80% entro il 2050 dell’impronta carbonica media di un cittadino francese – è stato fatto da Carbone 4, un’agenzia di consulenza indipendente e specializzata in strategie a basse emissioni di gas serra, che ha sede in Francia.

Secondo questo studio, nel migliore dei casi, ossia applicando un controllo virtuoso dei gesti quotidiani (rinuncia alla carne e all’aereo, prevalenza dello spostamento in bici, ecc.) si otterrebbe una riduzione del 25% sulla percentuale globale dell’80%. Se tutti questi cittadini virtuosi avessero, inoltre, anche notevoli capacità d’investimento, essi potrebbero attraverso ristrutturazioni, sostituzioni di caldaie, acquisto di auto elettriche, ecc., ridurre di un altro 20% la loro impronta carbonica. La virtù e i soldi di questi cittadini eco-responsabili non li sottrarrebbero però alla necessità di inventarsi qualcosa per fare in modo, stavolta al di fuori della politica dei “piccoli gesti” individuali, che qualcosa si ottenga collettivamente, ossia a livello istituzionale e giuridico affinché sia ridotto quel restante 35% di emissioni che non dipende da loro. In soldoni: anche se fossimo tutti delle irreprensibili Greta Thunberg, noi cittadini europei non potremmo evitare di passare dalla sfera delle scelte individuali e autonome a quella delle azioni pubbliche e politiche, affinché siano realizzati da tutti gli attori in gioco (Stati e imprese incluse) gli obiettivi di contenimento del riscaldamento climatico (accordo di Parigi). Più realisticamente, Carbone 4 ricorda che l’impegno individuale potrebbe in media ridurre le emissioni del 20%, lasciando fuori un corposo 60% che dipende dal nostro ambiente sociale, tecnico e politico. In questa fetta da ridurre, rientrano le emissioni dell’industria, del sistema agricolo, dei servizi pubblici, del settore trasporti, ecc.

 

Politiche contro i criminali climatici o contro le vittime del riscaldamento globale

L’insistere sull’efficacia dei “piccoli gesti” quotidiani e sulle nostre abitudini di consumo ha probabilmente qualcosa di rassicurante, ma di certo ci allontana da realtà spiacevoli che riguardano gesti di ben altra efficacia e che vanno in direzione del tutto contraria alla nostra buona volontà. Penso a quelle multinazionali dell’energia che il giornalista francese Mickaël Correia chiama criminali climatici e che hanno fornito il titolo del suo ultimo libro d’inchiesta (Criminels climatiques. Enquête sur les multinationales qui brûlent notre planète, La découverte, Paris, 2022).

Correia ha realizzato un ritratto in effetti agghiacciante delle tre multinazionali che sono in testa alle classifiche delle emissioni di CO₂ sul nostro pianeta: si tratta di Saudi Aramco, gigante saudita del petrolio, China Energy, conglomerato nazionale di aziende che producono elettricità dal carbone e dell’oggi ben noto Gazprom, leader internazionale del gas sotto controllo del governo russo. “La sinistra trinità delle energie fossili. Se oggi questo trio climaticida fosse un paese, incarnerebbe la terza nazione per emissione di gas serra dietro la Cina e gli Stati Uniti”. Uno dei punti più interessanti dell’inchiesta riguarda non solo le malefatte di questi attori delle energie fossili non occidentali. I criminali climatici (di Stato) godono, infatti, di una vasta complicità nel settore privato dell’energia, della finanza mondiale e della stessa politica in Occidente, e particolarmente in Europa. (Sul fenomeno generale in Europa delle revolving doors, ossia di personale politico che continua la sua carriera nelle lobby delle energie fossili, si può leggere questo studio degli ecologisti europei ; sulle infuenze di Gazprom in amibito francese, questo articolo di Correia.) Il capitalismo estrattivista, insomma, non ha frontiere né geografiche né culturali né religiose.

L’intervento su tali realtà implica non solo un lineare passaggio dal privato al pubblico, dal personale al politico, ma implica – come suggerisce Mitchell – l’invenzione di nuove forme di azione politica assieme a nuove forme di diffusione delle conoscenze, di discussione e confronto pubblico, di auto-educazione collettiva, dentro e fuori i contesti istituzionali. Purtroppo la crisi ecologica, di per sé, non garantisce nessun tipo di necessaria “presa di coscienza rivoluzionaria”. E questo neppure ora, dove si passa dalla previsione scientifica all’esperienza empirica diretta. A partire dall’estate del 2021, anche i San Tommasi della climatologia hanno potuto toccare con mano il cambiamento climatico. Non solo esso esisteva per davvero, ma era già lì, a portata delle loro orecchie e dei loro occhi. Tutti, d’altra parte, ci siamo ritrovati come in un film distopico, a fissare imbambolati all’ora di cena immagini televisive di città sventrate dalle inondazioni e massicci incendi di foreste nelle più svariate parti del mondo.

Questa nuova paura climatica potrebbe avere su quegli stessi europei che si ritengono l’avanguardia ecologica del pianeta (anche con qualche legittima ragione), effetti devastanti, innanzitutto sul funzionamento delle nostre democrazie. La volontà individuale e collettiva di cambiamento si scontrerà sempre di più con l’idea che il nostro mondo, ossia le nostre istituzioni politiche e sociali vadano preservate così come sono (con il dispendio energetico che le tiene in piedi) e che queste istituzioni non siano compatibili con i flussi migratori attuali e futuri. Le diverse forze politiche saranno in disaccordo sull’età pensionistica, sulla legislazione relativa all’aborto o ai matrimoni gay – cose certo fondamentali – ma condivideranno un’attitudine bellica e autoritaria nei confronti dei migranti poveri alle loro frontiere. Insomma, come già da tempo si dice, la questione ecologica è indissolubile dalla questione sociale (di classe, all’interno di un paese, e di rapporto tra paesi ricchi e paesi poveri, sul piano internazionale), ma essa determinerà anche il destino politico dei nostri paesi, ossia la capacità di quest’ultimi di sottrarsi o meno a soluzioni sempre più barbare nei confronti della popolazioni di non-cittadini che cercano di giungere sul nostro territorio.

[Le immagini sono tratte dal fumetto di Jancovici – Blain, “Le monde sans fin”, Dargaud, 2021.]

La più recondita memoria degli uomini

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Mohamed Mbougar Sarr, La più recondita memoria degli uomini, Edizioni e/o, 2022

 

di Valerio Paolo Mosco

L’incipit di La più recondita memoria degli uomini spiega molto, fissa il tema del libro. È un incipit che cattura: “Di uno scrittore e della sua opera possiamo almeno sapere una cosa: l’uno e l’altra camminano insieme nel labirinto più perfetto che si possa immaginare, una lunga strada circolare in cui la destinazione si confonde con l’origine: la solitudine”.

La solitudine aleggia nel libro di Saar come atmosfera e destino. I personaggi si muovono tra incontri continui, in luoghi sempre diversi, ma sono soli, soli con il loro destino. Solitudine e destino vanno perfettamente d’accordo: solo nella solitudine appare il destino e nella solitudine più totale appare ciò che il destino porta con sé: l’ineluttabile. Romano Guardini parlava di “fiducia nell’ineluttabile”, ovvero la fiducia nel tragico, nel grande disegno, anche se il grande disegno è destinato a sopraffarci. È questo un paradosso con cui si sono confrontati i grandi autori tragici, spesso schiacciati dal loro stesso compito. Ecco allora che appare l’intelligenza e l’astuzia di Shakespeare che ad ogni monologo metafisico faceva seguire l’irrompere di un fool, di un pazzo canzonatorio, stemprando così quell’inesorabilità che sarebbe stata troppo per il pubblico e probabilmente anche per sé. Saar non ha paura dell’inesorabilità tragica, ci si immerge in un romanzo denso e compatto, un thriller sulla condizione di più personaggi che corrispondono a lui stesso, ovvero con l’autore destinato a confrontarsi con un’opera che lo può schiacciare. Il ritmo del libro è ipnotico e allo stesso tempo mantiene sempre qualcosa di sfuggente e di arbitrario.

Ecco allora che appare il fine del libro, quello di mettere in scena il tragico passando attraverso il polimorfismo postmoderno, allora è come se Sarr si fosse chiesto se fosse possibile coniugare un postmoderno che ormai da decenni associamo all’alleggerimento della realtà, alla finzione, alla manierata sofisticazione estetica con l’ineluttabilità del tragico. Quello di Sarr è dunque un progetto teorico che in parte trova delle assonanze con quello di Houellebecq, ma che in Sarr acquista maggior respiro narrativo, quasi una plasticità e dei chiaroscuri mancanti all’autore francese. Diversi temi si intrecciano nella narrazione di Sarr: il tragico e l’ineluttabile, il magico e l’enigmatico, la condizione dell’esule e di colui che vive in bilico tra due culture, quella di appartenenza e quella di afferenza, quella senegalese e quella francese. La peculiarità della narrazione di Sarr è quella di disseminare questi temi nel testo facendoli affiorare e immergerli con destrezza nei diversi personaggi in una coralità che dona agli stessi temi quella che potremmo definire una profondità di campo. Si ha allora la sensazione che la costruzione narrativa sia asservita proprio a questa profondità di campo e ciò per evitare quel moralismo d’accatto e quella tendenza didascalica che fa sì che ad ogni interrogativo dobbiamo dare risposta, possibilmente quella più assertiva possibile. Non giungere a conclusioni, quasi essere condannati a non giungere a conclusioni definitive: è forse questo il senso di quel tragico postmoderno che sembra tenere insieme la letteratura contemporanea più convincente.

A sovrintendere poi il tutto nel libro di Sarr il tema dell’autorialità, della costruzione di un’autorialità ed è questo il vero tema tragico del libro. La tesi è chiara: un autore è colui il quale sacrifica e sacrifica, è colui che ha il coraggio di spingersi al di là dei sistemi difensivi, privati e pubblici che siano, è colui che sa che l’opera potrà sopraffarlo in quanto lo metterà a nudo, lo potrà sacrificare in quanto lui stesso si sarà messo in una condizione di vulnerabilità.  “Salvo solo ciò che è scritto con il sangue” sentenziava Nietzsche. Per anni le opere scritte con il sangue sono state evitate e i pochi autori che scrivevano con il sangue, per timore, hanno cercato di dissimulare il tragico in quanto rifiutato da un pubblico postmoderno perbenista. I temi sono cambiati e il libro di Sarr lo dimostra. Ci auguriamo che il suo messaggio possa essere raccolto da una letteratura italiana esangue, che dai tempi di Calvino si è alleggerita così tanto da risultare evanescente.

 

Diaporama

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Appunti sulle fotografie di Salvatore Cuccurullo

di

Enrico De Vivo

 

La sera del 15 settembre 2022 Salvatore Cuccurullo, maestro di pianoforte di Angri ed emigrato in Veneto circa vent’anni fa per insegnare, stava morendo in un ospedale di Vicenza. Dopo aver ricevuto la notizia, ho trascorso la serata fino a tardi a guardare le sue foto pubblicate sui social, a scorrere la sua pagina lentamente, soffermandomi su alcuni scatti che già conoscevo e su altri che mi erano sfuggiti. C’era sicuramente un sentimento magico, qualcosa di religioso o superstizioso, in questa mia reazione – forse la credenza inconscia di poter fare qualcosa intervenendo sugli oggetti collegati alla persona, o l’illusione che un miracolo potesse ancora accadere. Del resto, chi, in quelle ore, nonostante l’ineluttabilità della notizia, non ha sperato fino alla fine in un miracolo per Salvatore?

 

Ho sempre avuto l’impressione che le fotografie di Salvatore Cuccurullo fossero anacronistiche. Sembrano infatti concepite al di fuori dell’immediatezza telematica, estranee all’ideologia del carpe diem soffocante nel quale siamo immersi. Non sono consumabili perché non sono guardabili velocemente. Lo sguardo del frequentatore abituale di social vi scivola sopra, senza contare che spesso il dispositivo rende invisibile ciò che non gli aggrada. E invece quelle foto richiedono uno sguardo attento, essendo state concepite allo stesso modo: con attenzione e dedizione. Bisogna quindi fermarsi davanti alle fotografie di Cuccurullo, bloccare il thread dei post e prendersi una pausa, anche se a qualcuno potrebbe capitare di chiedersi: tutto qui? Ma in queste foto non c’è niente, solo alberi, cielo, monumenti… Come davanti a una “poesia della torre” di Hölderlin o a un haiku. Tutto qui?, ci si potrebbe chiedere. No. Non è tutto qui. Quello che devi cercare non si trova nel cosiddetto contenuto o soggetto dell’immagine, ma nella grazia con cui l’immagine è stata realizzata, nella sua forma studiata e nella composizione ragionata, nei suoi colori vividi e nel ritmo lento che le sottostà.

Le foto di Cuccurullo sono quasi sempre frutto di passeggiate, il bottino o meglio il residuo di escursioni, uscite, visite. Il cielo gli serve per far risaltare meglio i contorni delle cose, così tutto è più nitido e chiaro. Le ombre non sono molto presenti, Cuccurullo ama la luce e la chiarezza: la prima cosa che gli interessa è far capire bene agli altri quel che vuol dire. Era un fotografo della domenica? Difficile che un fotografo della domenica si ponga i problemi formali che si evincono dalle sue fotografie. Le immagini di Cuccurullo abbagliano per il nitore della compostezza formale e per il rigore compositivo, qualità che di certo ricavava dalla musica. I suoi scatti sono concepiti come fraseggi energici e allegri, mozartiani. Mai casuali. Ma neanche studiati con acribia. Le cose e le persone, gli animali e le piante sono messi insieme con ritmo musicale. Le sue foto è come se suonassero, e dunque prima del contenuto o del soggetto, offrono un incanto soltanto formale, coloristico, volumetrico. Come nella foto in cui il cielo per magia diventa verde, sovrapponendosi al paesaggio collinare che fa da sfondo a un volatore in parapendio.

 

Matteo Marchesini ha scritto di recente che Guido Piovene, riferendosi agli scrittori veneti (Zanzotto, Parise, Valeri), diceva che vivono il paesaggio come “un sogno di sé stessi”. Il legame di Salvatore Cuccurullo con il Veneto trapela dalle sue fotografie, che sono anche piccoli “sogni di sé stesso”. Probabilmente lo aveva catturato soprattutto questo del Veneto: la possibilità che il suo paesaggio offre di realizzare sé stessi come una proiezione onirica nell’esterno, in un “fuori di sé” che non ha nulla dell’impazzimento, ma è una forma superiore di sensibilità e conoscenza. Nelle sue immagini non c’è mai niente di narcisistico, le sue foto sembrano senza autore, quasi senza macchina fotografica: somigliano a epifanie. Il marchio personale, “d’autore”, che in genere è sempre sottolineato nella maggior parte delle immagini in circolazione, è come annullato. Le foto di Cuccurullo sembrano venute fuori dal nulla, scattate come da nessuno. Quello che l’estetica e le più raffinate poetiche otto-novecentesche hanno ricercato con tecniche sopraffine – l’ablazione dell’io, come diceva Beckett – nelle foto di Cuccurullo si realizza con naturalezza lampante, senza sforzo. Il fotografo ha lasciato che la macchina fotografasse, lui ha fatto soltanto da supporto, da cavalletto. È come se si fosse nascosto o fosse andato via, mentre l’immagine si faceva: e quando si è fatta, è riapparso per osservarla e magari commentarla con veloci didascalie oggettive. Cuccurullo nutriva quindi un grande rispetto per tutto quello che capitava davanti al suo sguardo, accolto nel riquadro dell’immagine e sistemato come un ospite in casa propria: un animale, un albero, un monumento, e tanto tantissimo cielo, come si vede ad esempio nell’ultima foto pubblicata ad agosto sui suoi profili social, in cui la torre di Romano d’Ezzelino svetta nel cielo azzurro su alcune figure umane in miniatura. Sotto vi leggiamo la didascalia: “Chi pedala, chi legge, chi passeggia, chi chiacchiera, chi guarda il panorama, chi stringe una mano, chi fotografa… È la torre dei sogni”. Poi, aggiunto nei commenti, in calce a un ingrandimento del medesimo scatto che mostra un minuscolo parapendio che galleggia sulla torre: “E c’è chi vola…”.

 

 

Adesso forse capisco meglio perché mi ci sono soffermato tanto, su queste foto. Perché Cuccurullo era così anche nella realtà, come le sue foto: aperto nei confronti di tutti con una gentilezza naturale, una delicatezza di modi e gesti di rispetto che mettevano sempre a proprio agio. Ti sorrideva sempre, come sorrideva alle cose che passavano nel suo obiettivo e alle quali faceva spazio per farle accomodare nel posto migliore, ossia per far venir fuori nel modo migliore il loro splendore ordinario (“Scene di ordinaria meraviglia”: sua didascalia a una foto). Uno sguardo, il suo, generoso, protettivo – quasi ansioso. Ansioso di far male o di provocare noia o danno. E per questo, forse, anche nervoso, alla ricerca di una perfezione dell’assenza che certamente non riusciva a raggiungere durante le sue interminabili divagazioni con gli amici, ma che la fotografia rendeva possibile, consentendogli di ritrarsi completamente dalla scena, in modo che ogni cosa potesse apparire nella propria “evidenza di immagine” (Hölderlin) – perché le immagini sono lì da sempre, si fanno da sole o le ha fatte dio, e noi possiamo soltanto aiutarle ad apparire, a vedere la luce.

Salvatore Cuccurullo ammirava molto Gianni Celati. Leggeva con passione i suoi libri fin dai tempi del DAMS di Bologna, frequentato dopo il diploma in pianoforte al Conservatorio di Salerno negli anni Ottanta. Anche Celati è morto quest’anno, a gennaio. Anche lui ha inseguito per tutta la vita le forme espressive che consentono all’io di farsi da parte in favore del mondo, in favore del divenire che paradossalmente è sempre possibile immortalare con un ritmo, un canto, un’alternanza di chiari e scuri. Negli scritti di Celati come nelle fotografie di Cuccurullo non prevalgono mai i “chicchirichì dell’io” (definizione di Celati), non ci sono le pose creative o le vanterie tecniche tipiche di chi si atteggia a scrittore o artista. Da questo punto di vista mi sento di azzardare che le fotografie di Cuccurullo erano qualcosa di più di oggetti artistici: l’”arte” – con le virgolette perché intesa nel senso degenerato al quale ho appena alluso – Cuccurullo l’aveva superata, guardava oltre, e pubblicando su Facebook e Instagram cercava di intuire dove avrebbe potuto condurlo la ricerca della calma, della serenità. Dove avrebbe potuto portare in futuro quelli come lui e come noi che studiando, scrivendo, suonando hanno cercato e cercano nella vita qualcosa di più della ricchezza o del successo: qualcosa di più umano, di più sopportabile e di più amichevole – un’immagine, un racconto, una musica – che ci salvi dai cani-pensieri inviati da una dea impietosa. Non mi stupisce che una delle sue foto più belle sia proprio dedicata a una scultura (nella Reggia di Caserta, riprodotta in questa pagina) del cacciatore Atteone, che secondo l’interpretazione di Giordano Bruno è sbranato dai cani dei propri pensieri, essendo andato in cerca di una preda troppo difficile: “I’ allargo i miei pensieri/ Ad alta preda, ed essi a me rivolti/ Morte mi dàn con morsi crudi e fieri”. Eppure la foto di Cuccurullo ci sorprende, perché non si limita a illustrare l’episodio mitico, ma quasi lo interpreta: una coloratissima paperella in primo piano, indifferente alla crudeltà della natura e del mito, se ne va per la sua strada beatamente, scampata infine ai propri terribili cani-pensieri.

 

 

Bisogna dire qualcosa infine di un altro tipo di fotografie che riguardano Cuccurullo: i ritratti che gli facevano i suoi amici (non ho mai visto un suo selfie). Nelle foto che lo riprendono in primo piano Salvatore mostra quasi sempre il suo sorriso ampio e fiducioso, in una posa naturale da monaco zen, imperturbabile ma determinato, calmo e nello stesso tempo infervorato. Le sue fotografie e i suoi modi pacifici con tutti ci trasmettono anche il suo profondo sentimento della totalità unitaria dell’esistente (natura e cultura, grandi e piccoli, Nord e Sud). La sua morte ci ha fatto male, molto male, ma ora ci resta la sua arte – senza virgolette –, ancora tutta da scoprire e valorizzare.

Evviva allora il nostro poeta della luce, evviva il nostro Hölderlin emigrante!

 

 

L’aperto giorno all’uom brilla di immagini

Quando in piana lontananza il verde appare,

prima che volga la luce al tramonto

e ceda ai tenui baglior la diurna face.

 

Spesso par chiuso, cupo il cuor del mondo,

dubbioso e scosso il sentir dell’uomo:

natura fulgida i suoi dì allieta,

e lungi è l’oscura domanda del dubbio.

 

[Friedrich Hölderlin, Veduta, in Poesie della torre, traduzione di Gianni Celati]

 

* Il 25 novembre scorso sono partite in Veneto una serie di iniziative – concerti, eventi, mostre – dedicate a Salvatore Cuccurullo. Auspichiamo che presto anche nel suo paese natale, ad Angri, possa nascere un giusto interesse per la sua figura esemplare di maestro di musica, insegnante e fotografo. Questo testo è dedicato alla sua memoria e vuole essere un primo contributo in questa direzione.

Quattro sonetti di Terrance Hayes

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Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo un estratto da Sonetti americani per il mio assassino del passato e del futuro, Edizioni Tlon 2022.

di Terrance Hayes (traduzione di Mario Capello)

You don’t seem to want it, but you wanted it.
You don’t seem to want it, but you won’t admit it.
You don’t seem to want admittance.
You don’t seem to want admission.
You don’t seem to want it, but you haunt it.
You don’t seem too haunted, but you haunted.
You don’t seem to get it, but you got it.
You don’t seem to care, but you care.
You don’t seem to buy it, but you sell it.
You don’t seem to want it, but you wanted it.
You don’t seem to prey, but you prey,
You don’t seem to pray but you full of prayers,
You don’t seem to want it, but you wanted it.
You don’t seem too haunted, but you haunted.

Non sembri volerlo, ma lo volevi.
Non sembri volerlo, ma non lo ammetterai mai.
Non sembri volere l’ammissione. 
Non sembri volere accettazione.
Non sembri volerla, ma la perseguiti.
Non sembri troppo perseguitato, ma perseguitavi. 
Non sembri capirlo, ma lo hai capito. 
Non sembra importarti, ma ti importa. 
Non sembri farlo tuo, ma lo svendi.
Non sembri volerlo, ma lo volevi. 
Non sembri predare, ma predi.
Non sembri pregare ma sei pieno di preghiere, 
Non sembri volerlo, ma lo volevi.
Non sembri troppo perseguitato, ma perseguitavi. 

∞∞∞

Seven of the ten things I love in the face
Of James Baldwin concern the spiritual
Elasticity of his expressions. The sashay
Between left & right eyebrow, for example.
The crease between his eyes like a tuning
Fork or furrow, like a riverbed branching
Into tributaries like lines of rapturous sentences
Searching for a period. The dimple in his chin
Narrows & expands like a pupil. Most of all,
I love all of his eyes. And those wrinkles
The feel & color of wet driftwood in the mud
Around those eyes. Mud is made of
Simple rain & earth, the same baptismal
Spills & hills of dirt James Baldwin is made of.

Sette delle dieci cose che amo nel viso
Di James Baldwin hanno a che fare con la spirituale
Elasticità delle sue espressioni. L’ancheggiare
Tra il sopracciglio sinistro e quello destro, per esempio. 
La ruga tra gli occhi come un diapason
O un solco, come un alveo che si dirama 
Nei tributari come righe di frasi estatiche 
In cerca di un punto fermo. La fossetta sul mento
Si restringe & si allarga come una pupilla. Più di tutto, 
Amo tutto dei suoi occhi. E quelle grinze
Della consistenza & del colore del fasciame umido nel fango
Intorno a quegli occhi. Fango fatto 
Di semplici pioggia & terra, le stesse battesimali
Fonti & colline di terriccio di cui James Baldwin è fatto.

∞∞∞

The earth of my nigga eyes are assassinated.
The deep well of my nigga throat is assassinated.
The tender bells of my nigga testicles are gone.
You assassinate the sound of our bullshit & blissfulness.
The bones managing the body’s business are cloaked
Until you assassinate my nigga flesh. The skin is replaced
By a cloak of fire. Sometimes it is river or rainwater
That cloaks the bones. Sometimes we lie on the roadside
In bushels of knotted roots, flowers & thorns until our body
Is found. You assassinate the smell of my breath, which is like
Smoke, milk, twilight itself. You assassinate my tongue
Which is like the head of a turtle wearing my skull for a shell.
You assassinate my lovely legs & the muscular hook of my cock.
Still, I speak for the dead. You will never assassinate my ghosts.

La terra dei miei occhi da nigga viene assassinata.
Il pozzo profondo della mia gola da nigga viene assassinato.
Le tenere campane dei miei testicoli da nigga sono andate, perdute.
Tu assassini il suono delle nostre stronzate & della nostra beatitudine. 
Le ossa che si occupano delle faccende del corpo sono rivestite
Fino a quando tu non assassini la mia carne da nigga. La pelle viene rimpiazzata
Da un involucro di fuoco. Certe volte sono un fiume o la pioggia
A rivestire le ossa. Certe volte noi giacciamo lungo il ciglio della strada
In cespugli di radici contorte, fiori & spine fino a quando il nostro corpo
Non viene ritrovato. Tu assassini l’odore del mio fiato, che è simile a 
Fumo, latte, il crepuscolo stesso. Tu assassini la mia lingua
Simile alla testa di una tartaruga che indossa il mio cranio come guscio. 
Assassini le mie belle gambe & l’aggancio muscolare del mio uccello. 
Eppure, parlo per conto dei morti. Tu non assassinerai mai i miei fantasmi.

∞∞∞

Probably, ghosts are allergic to us. Our uproarious
Breathing & ruckus. Our eruptions, our disregard
For dust. Small worlds unwhirl in the corners of our homes
After death. Our warriors, weirdos, antiheroes, our sirs,
Sires, our sighers, sidewinders & whiners, winos,
And wonders become dust. I know a few of the dead.
I remember my sister’s last hoorah. I remember
The horror of her head on a pillow. For a long time
The numbers were balanced. The number alive equal
To the number in graves. After a very long time
The bones become dust again & the dust
After a long time becomes dirt & the dirt becomes soil
And the soil becomes grain again. This bitter earth is a song
Clogging the mouth before it is swallowed or spat out.

Probabilmente, i fantasmi sono allergici a noi, al nostro cacofonico
Respiro & al nostro casino. Alle nostre esplosioni, alla nostra mancanza 
di rispetto 
Per la polvere. Piccoli mondi ruotano negli angoli delle nostre case
Dopo la morte. I nostri guerrieri, tocchi, antieroi, i nostri sovrani, 
Stalloni, i nostri sospiratori, crotali & piagnoni, ubriaconi, 
E meraviglie si fanno polvere. Conosco un po’ di morti. 
Ricordo l’ultimo urrà di mia sorella. Io ricordo
L’orrore del suo capo sul cuscino. Per molto tempo
I numeri sono stati in equilibrio. Il numero dei vivi uguale
Al numero nelle tombe. Dopo un tempo molto lungo
Le ossa si fanno nuovamente polvere & la polvere
Dopo molto tempo si fa terra & la terra si fa terriccio
E il terriccio si fa grano ancora una volta. Questa Terra amara
è una canzone
Che ostruisce la bocca prima di essere inghiottita o sputata fuori.

Dalla nota dell’editore:
«Il giorno dopo le elezioni presidenziali del 2016, Terrance Hayes scrisse il primo dei settanta sonetti raccolti in Sonetti americani per il mio assassino del passato e del futuro. Il momento storico era stato sconvolto in modo incerto e nefasto: il sonetto offriva un’unità di misura alternativa, antica, con le sue caratteristiche di base immutate da secoli, e al tempo stesso urgente, con le sue quattordici righe che correvano a un ritmo serrato. Ex stella del basket universitario, Hayes tratta la poesia come un gioco con il tempo, teatro per finali drammatici dell’ultimo secondo. Scritte durante i primi duecento giorni della presidenza Trump, queste poesie sono infestate dalla storia e dagli errori passati e futuri dell’America, dai suoi sogni e dai suoi incubi».