di Lea Melandri
Uno dei luoghi comuni, per non dire dei capisaldi, delle analisi politiche è l’idea di “strumentalità”. Nell’articolo di Sergio Romano, sul Corriere della sera del 5 marzo 2005, relativo alle vicende che hanno accompagnato la liberazione di Giuliana Sgrena, il “rischio” che qualcuno faccia “uso” di una situazione per i propri fini si moltiplica tanto da coinvolgere in vario modo tutte le parti in causa, anche se prevale, per nulla celata, la convinzione che a cadere in questo “vizio” sia soprattutto la sinistra. Il corrispettivo di questa visione machiavellica, che separa mezzi e finalità, alludendo indirettamente all’esistenza di un agire politico “vergine” di compromessi, è, per quanto riguarda il lettore-spettatore, una non meno radicata sfiducia verso tutti i protagonisti della politica, accomunati dal sospetto di obbedire all’unico improrogabile imperativo del proprio utile.
Di Giuliana Sgrena si sarebbero serviti innanzi tutto i rapitori: per muovere compassione nell’opinione pubblica e per garantirsi risonanza mediatica, essendo lei donna e giornalista, per mobilitare le piazze contro gli Usa, in virtù del suo impegno per la pace. Di lei e del tragico viaggio verso l’aereo che doveva condurla finalmente libera in Italia –in cui ha perso la vita il suo salvatore, Nicola Calipari- avrebbero poi tratto profitto tutti quelli che le sono stati solidali, a partire dagli amici e colleghi del Manifesto, convinti assertori della necessità di ritirare il contingente italiano dall’Iraq, e, infine, entrambi gli schieramenti politici, centro-destra e centro-sinistra, decisi a spaccare il paese in due. Una chiave interpretativa così totalizzante, e così universalmente condivisa da passare inosservata, meriterebbe quanto meno una breve riflessione.

Caro Antonio,



Si guarda intorno, muovendo la testa lentamente, e muovendo velocemente gli occhi, come a cercare qualcosa che dovrebbe essere lì, davanti a lei, all’altezza dei suoi occhi sbarrati. Dovrebbe proprio esserci. Ma non c’è. Senti, Lama, ascolta. Lo so che ci sei. Non è stata colpa mia. Mi ha afferrata. Mi ha afferrata come si afferra un concetto. Das begriff. Il concetto è ciò che si afferra, i tuoi amici tedeschi la sanno lunga. Più che lunga la sanno bene. Ce l’hanno dimostrato, a Dresda. Ma a me non interessa la cosa che si afferra. A me interessa il gesto dell’afferrare. Fa il gesto di afferrare qualcosa, lentamente, lentamente la mano si contrae, i nervi delle dita tesi, vibranti.
Autore de“Il fascino oscuro della guerra” (Laterza, pp. 200, 16) Chris Hedges è stato famoso corrispondente, per molti anni, dai fronti di guerra per la stampa Usa: su questo libro,qualche giorno fa,è apparsa una breve recensione sul “Corriere della sera”.

– Ma ti rendi conto? L’eroe più popolare dell’impero è un professore di semiotica esperto in simbologia!
Armando ha cinquantadue anni. E’ in cassa integrazione dal 2003. Sposato, con un figlio che fa il terzo anno delle scuole superiori. E’ entrato in Italtel nel 1969. Lui è la sua famiglia vivono con mille euro al mese.
Diciamolo sùbito a scanso di equivoci: in arte non si stilano classifiche, e i superlativi vanno sempre adoperati con estrema parsimonia. E’ una questione di bon ton culturale, prima ancora che di logica. E poi, in genere, la passione smodata per le graduatorie, le formule consolatorie (il genio è 90% traspirazione e 10% ispirazione), le simmetrie dei chiasmi e i rigidi aut aut da tertium non datur è tipica degli incolti.
– E’ uno degli eroi più popolari dell’impero. Indovina di chi parlo!