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Marcel Proust, i segni e la genesi

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di Mauro Baldrati

Il 18 novembre cade il centesimo anniversario della morte di Marcel Proust. Si può tranquillamente affermare che lo scrittore francese, che la critica globale identifica come l’inventore del romanzo moderno, insieme a Dante Alighieri sia uno degli autori più famosi della storia. Il suo immenso romanzo, Alla ricerca del tempo perduto (la convenzione proustiana impone di nominarlo sempre e solo come Recherche) 3742 pagine in sette volumi, è il risultato di una sperimentazione durate una vita intera. L’ha terminato poco prima di morire, nella camera chiusa senza riscaldamento di rue Hamelin, sul letto di grande malato (un’asma che lo ho perseguitato fin da bambino), con migliaia di fogli e di quaderni sparsi ovunque. La fedele governante Céleste riferisce che, quando appose la parola “fine” sul manoscritto, la chiamò e disse: “Ora finalmente posso morire”.
Per scrivere la Recherche ha impiegato circa 15 anni, e la pubblicazione ne ha richiesti altri 14, dopo che il primo volume, La strada di Swann, fu rifiutato da André Gide per Gallimard, perché definito più o meno un cicalecchio mondano (salvo poi chiedere perdono al mondo per l’errore commesso). D’altra parte la storia è popolata di grandi rifiuti: Vincent Van Gogh non ha mai venduto un quadro in vita sua, e tutti i critici e i galleristi lo invitavano a trovarsi un lavoro vero, perché era negato per la pittura; Bob Dylan si vide rifiutare il suo primo disco perché secondo il produttore era “banale” (in seguito, quando si rese conto di cosa aveva combinato, si prese una sbronza durata diversi giorni); L’arte della Gioia di Goliarda Sapienza è stato ignorato da tutti gli editori addirittura per vent’anni. Poi però l’opera proustiana è deflagrata, il secondo volume, All’ombra delle fanciulle in fiore, ha vinto il premio Goncourt nel 1919, e la Recherche è diventata il riferimento di intere generazioni di scrittori e aspiranti tali.
Ma qual è la genesi di questo immenso progetto architettonico-letterario (La cattedrale Proust, lo definì il critico Giacomo Debenedetti), e quali sono i contenuti?

LA GENESI

Marcel Proust proveniva da una famiglia alto borghese, il padre, il dottor Adrien, era un primario igienista esperto di epidemie. Ipersensibile, di salute cagionevole, sviluppa subito un mostruoso senso di osservazione, che lo sosterrà durante le scorrerie giovanili nei saloni della nascente Belle Epoque. Non manca mai un appuntamento, un lunch, un dinner, una matinée. Roland Barthes l’ha definito un militante della mondanità. In effetti, pur essendo, in gioventù, per sua stessa ammissione, svogliato, demotivato, incapace di applicarsi ad alcunché, sembra spinto da una tenacia nella frequentazione degli ambienti mondani che rasenta la missione. Una sorta di cavaliere alla ricerca del Santo Graal, anche se il calice trabocca di vizi, di contraddizioni, di superbia, che inserirà con ironia, talvolta con feroce sarcasmo, nella Recherche. Ma proprio qui sta il progetto segreto, probabilmente inconsapevole: sta studiando, raccoglie personaggi, dialoghi, ambienti, colori. Si sente inabile a qualsiasi occupazione, ma lavora con impegno e dedizione. Dalla frequentazione delle dame dell’aristocrazia e dell’alta borghesia, di cui talvolta si innamora follemente, idealizzandole come delle semidee, trarrà i personaggi che sono diventati leggendari: Laura de Chevigné, discendente dal marchese De Sade e addirittura da Laura del Petrarca, la più ammirata e invidiata da tutto il Faubourg, diventerà la duchessa di Guermantes (dopo la pubblicazione, indignata, gli toglierà per sempre il saluto); la ricchissima borghese Madeleine Lemaire, che gestiva uno dei salon più esclusivi, fornirà il suo modello per la tirannica Madame Verdurin, che regna con mano ferma in quella jungla di gran lusso che è il suo esclusivissimo salotto; Robert de Montesquiou, il più mondano dei mondani, sarà uno dei personaggi maschili più potenti dell’intero romanzo: l’immenso, maligno, incredibilmente colto barone Charlus. Dopo avere spadroneggiato per tutta l’opera, in grado di rovinare il credito mondano di chiunque con poche, sferzanti battute, scenderà tutti i gradini dell’abiezione e dell’umiliazione, flagellato dall’ultimo amante-mantenuto.
Dunque il giovane autore in erba, scoraggiato per la propria pigrizia, costruisce il futuro, raccontando al passato. E proprio questo è uno dei meta-argomenti che costituiscono la struttura portante della cattedrale: il tempo.
La Recherchè è un recupero del tempo perduto, ovvero del tempo sprecato, attraverso il ricordo, l’indagine psicologica, l’esperienza e soprattutto l’arte, che è la più alta espressione della specie umana. Ma non è un testo nostalgico, che guarda indietro; il mondo passato si fonde col presente, lo rende dinamico e comprensibile. E’ un insieme, un Tutto unico che cerca una redenzione attraverso l’arte.

I SEGNI

Il filosofo Gilles Deleuze nel 1964 ha pubblicato un saggio, che è diventando un oggetto di culto, dal titolo Marcel Proust e i segni, dove analizza i messaggi che si sprigionano dal libro. Dominano i segni mondani, superficiali, effimeri e menzogneri; escono a milioni dai salotti, dai dialoghi enfatici e vuoti di molti personaggi del bel mondo; i segni dell’arte, i più profondi, perché puntano alla verità. Ma sono rari, perché è rara la sua manifestazione. Dire l’indicibile, pensare l’impensabile, spiegare il mondo, per esempio attraverso la musica, che è molto presente nella Recherche: “Se riuscissimo a riprodurre per via di concetti quanto la musica esprime, avremmo insieme ottenuto, per via di concetti, anche una soddisfacente spiegazione del mondo, che sarebbe vera filosofia” (Schopenhauer, uno dei grandi maestri di Proust). E i segni dell’amore, ambigui, ingannevoli, persino pericolosi.
Infatti proprio l’amore è un altro meta-argomento. Swann, un personaggio molto significativo della Recherche, vive un amore con Odette, nel “romanzo nel romanzo” contenuto nel volume La strada di Swann. Slalomando tra i segni dell’amore, come sciami di frecce di Cupido dalla punta avvelenata, il narratore ci guida in un’indagine chirurgica e spietata sui meccanismi dell’innamoramento. Qui sta una delle discese agli inferi della Recherche: l’amore è impossibile, e l’amante è condannato all’infelicità, perché non potrà mai conoscere e tanto meno possedere la persona amata. E più questa gli sfugge più si incrudelisce verso se stesso, fino a sprofondare nel delirio della gelosia ossessiva. “Non si ama che ciò in cui si persegue qualcosa di inaccessibile, non si ama che ciò che non si possiede” (La prigioniera)
Lo stile non è di facile e immediata lettura. E’ in fiera controtendenza con la moda attuale, influenzata dai social, frasi brevi, prosa povera: i periodi sono lunghi, talvolta lunghissimi, decine di pagine senza un solo punto. Sono contenitori che ne contengono altri, che a loro volta ne contengono altri, per cui siamo partiti con una descrizione del campanile di Combray e d’un tratto ci troviamo su un altro pianeta, e ci chiediamo come diavolo ha fatto il diabolico autore a condurci lì!
Ma ciò è salutare, è terapeutico. Leggere Proust ci obbliga a fare allenamento, come in una palestra mentale. Ci invita a non rassegnarci e a non omologarci. E proprio questo fa di lui un autore non solo attuale, ma persino utile.
A breve spiegherò, racconterò come sono diventato proustfobico, come tutti, e la mia decisione di animare addirittura il suo personaggio, di muoverlo nel tempo e soprattutto nello spazio, in un libro. A presto.

Latin Connection

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Il dopo-lavoro di Apuleio

(ovvero delle metamorfosi di Paul Hackett in After Hours di Martin Scorsese, USA 1985)

di Gigi Spina

 

  1. L’antefatto

La prima volta che ho visto Fuori orario[1] non avevo mai letto a fondo né incrociato per qualche ricerca particolare le Metamorfosi di Apuleio, conosciute anche come L’asino d’oro. Il film mi piacque per il ritmo e per i colpi di scena, per la composizione ad anello che riportava il protagonista nel luogo da cui tutto era cominciato, quella notte.

Un bel po’ di anni dopo mi capitò di dover leggere il testo di Apuleio; non per una ricerca, ma per scrivere il copione di una performance realizzata a Galassia Gutenberg[2] nel marzo 2008. La lettura del testo in traduzione, con confronti continui con l’originale, mi portò a ricordare quasi automaticamente Fuori orario, per nulla in particolare se non per le numerose peripezie e forse per qualche metamorfosi del protagonista. Dal primo numero, del 2010, e fino al 2017 (ultimo numero in cui è apparsa la sezione), ho curato la sezione Cinema e mondo antico della rivista online Dionysus ex Machina, ma il ricordo di Fuori orario  e di Apuleio era rimasto nel cassetto.

Solo qualche tempo fa, l’annunzio della pubblicazione di un volume su Apuleio sullo schermo[3] mi ha spinto a riprendere in mano i pochi appunti, acquistare il libro, consultare la mia esperta insostituibile, Domitilla Campanile, e dare finalmente corpo alle vecchie intuizioni.

2. Storia di una ricerca

Qui mi fermo per un momento, perché vorrei dedicare qualche rigo a spiegare i motivi di questo incipit narrativo con elementi autobiografici, una modalità che ho adottato da qualche anno per i miei articoli e volumi. La pubblicazione di una ricerca, soprattutto su una rivista scientifica di settore, si presenta quasi sempre come prodotto oggettivo finito, cioè come risultato, anche se le (quasi sempre abbondanti) note spesso indulgono in dettagli del percorso. Manca spesso la voce dell’autore, i dubbi durante la ricerca stessa, gli occasionali momenti di serendipity che accompagnano qualche volta una ricerca, ecc. Tutti quegli elementi, insomma, che fanno del processo e non del solo risultato la vera sostanza di una ricerca, come del resto accade per ogni forma di traduzione. La nota, distinta dal testo, stacca innaturalmente un legame che ha segnato, invece, la vera dimensione del percorso. In più, di fronte ad alcune ricerche, non so se in particolare nel mio campo di studi, si ha l’impressione che l’autore/autrice voglia mantenersi oggettivo/a, quasi un tramite fra lettore/lettrice e la sua ricerca bibliografica. Mi è capitato qualche volta di obiettare a colleghi/colleghe anche a me molto cari/e: io vorrei discutere con te, non con la tua bibliografia. Insomma, la soggettività di chi scrive dovrebbe in ogni momento essere ben visibile, anche per consentire a più giovani studiosi/e (e questo è un altro motivo della mia scelta) di entrare anche nei singoli laboratori, nei dubbi durante il percorso, negli azzardi e nelle sfide (e anche nelle delusioni), per poter affrontare i propri studi e le proprie ricerche con rigore, certo, ma con minor timore e sacralità. In particolare nei nostri studi, che risentono forse, oggi, di una sorta di classicismo di ritorno: certo, le novità del presente non possono essere tenute fuori, ma affiora talvolta un culto persistente del classico come portatore comunque di verità, di lezioni, di insegnamenti che finiscono per diventare dogmi indiscutibili. Se poi questo orientamento si trasferisce nella scuola, dove, a mio parere, non servono, da parte del mondo della ricerca e dell’università, semplificazione e divulgazione di risultati, ma confronto professionale fra formatori di ambiti diversi, il danno potrebbe, in prospettiva, essere pesante. Il greco e il latino della scuola, infatti, devono far parte di, e modellarsi su una formazione più ampia, in vista della quale devono distillare gli elementi che rispondono allo scopo; nell’università, invece, la formazione disciplinare, già orientata in un settore e per questo scelta, deve recuperarne l’ampiezza, la profondità, con una continua attenzione ai possibili collegamenti con altri campi, con i quali la formazione nel settore delle culture antiche interagisce ogni giorno. Ecco perché ritengo, ora, di dover continuare a raccontare in prima persona le tappe successive, e tutte recenti, all’antefatto.

 

  1. Rivedere e rileggere: qualche confronto

È stato necessario, dunque, non saprei dire in quale ordine: rivedere After Hours (in originale con sottotitoli) e rileggere le Metamorfosi, cursoriamente, con il testo a fronte, per evitare di farsi fuorviare da qualche traduzione imprecisa. E poi cominciare a leggere la bibliografia: prima i testi, poi i commenti è un principio che mi sembra valga per ogni tipo di testo. In genere leggo per ultime anche le prefazioni.

Tento, aprendo una breve parentesi, di condensare in poche righe, per quanto è possibile, la trama dei due testi, film e romanzo.

Il film: c’è un momento, verso la fine (1h17’38”), nel quale il protagonista, Paul Hackett, un programmatore di computer (computer data entry worker), racconta a un uomo che ha incontrato per caso durante la sua incredibile notte tutto quello che gli è accaduto dall’inizio del film. Ha appena urlato contro il cielo, quasi Jesus Christ Superstar a Soho[4] (il film di Norman Jewison è del 1973): «What do you want from me? What have I done? I’m just a word processor, for Christ’s sake»[5] (1h14’55”). Il racconto, abbastanza confuso, avviene a casa dell’uomo – qualche istante prima Paul aveva tentato di spiegare per telefono a un poliziotto perché avesse chiamato, ma il poliziotto aveva riattaccato – e trascura particolari importanti per il mio assunto, ma ho preferito affidare a due pagine della sceneggiatura (92-94)[6] e alla prima persona del narratore lo straordinario intreccio di persone e avvenimenti. Qualche piccola differenza con il sonoro originale del film non è rilevante[7].

Va solo premesso che il film inizia nel centro informatico, con Paul che insegna a un giovanotto ben vestito come lavorare al computer, solo che quello, senza accorgersene, inchioda Paul alla noiosa ripetitività del suo lavoro, dichiarando che non punta a fare per tutta la vita quello che sta imparando. Lo sguardo di Paul, mentre l’altro parla, vaga per l’ufficio, cercando di rintracciare brandelli di vita altrui, esterni al lavoro. La premessa è importante per quello che accadrà a Paul quando si chiudono i cancelli dell’edificio dove lavora e affronterà la sera e la notte, after hours, appunto (2’52”). Il tempo di questa avventura viene scandito da significative inquadrature di orologi, da polso, da tavolo, da muro: alle 23.32; all’1.40; alle 2.20; alle 4.10.

Ed ecco il racconto:

 

All right. I met … this girl … I got to know this girl. She gave me her phone number. In a cab on the way down to her friend’s all my money flew out the window. Now when I got to know her better, I must say I didn’t really like her, so I left. I mean, it just wasn’t going to happen so I left. I tried to take the subway, but the fare went up … Did you know the fare went up tonight? I didn’t know anything about that. Then I went back to the street … This bartender, he wanted to lend me money but I couldn’t get the money until I got the cash register key so he could open up his cash register to give me the money but he didn’t … I had to get the key from his apartment. Then when I was leaving his apartment and I saw these burglars stealing the sculpture, the, of, the sculptress was the roommate of the girl I met tonight and they were stealing her sculpture so I chased them and they dropped it and I took it back to her place, but this one time they weren’t burglars … they had actually purchased something, so of course the roommate was pissed at me but also because I walked out on that girl. So I was feeling sort of bad about the girl I met before and I went in to apologize but she’d killed herself. She … she … she’s dead.

Just … So, then I saw the waitress who works at the bar, worked, I think she quit, I don’t know … she invited me to her place. We became friends. Then I had to go back to the bar … he kept opening and closing the place all the time … I don’t know what that was all about … and a phone call came in and his girlfriend had killed herself … it was the same girl I came downtown to see in the first place … and then I thought it could have been because of me … then I got worried about Julie … Julie, who was the waitress, I told you, who was working at the bar. I ran right back, I said “I’ll be right back”, and I ran right up to her apartment, and I asked her if she was okay, you know because, like, for a second I thought “My God, what if another one kills herself?”, because, I mean, that can’t really happen, but who knows? The fare went up! And, uh, so I uh, I went back to uh, then I met this, uh, oh I went back to the Club Berlin to tell her about, the uh, that her roommate was dead, but … it was Mohawk night … I don’t know if you knew that, and I wouldn’t get a Mohawk to get in there. I just … it just isn’t worth it … So I, uh, left there and then I met this woman who was kind enough to let me use her phone but then she became enraged at me and I couldn’t, I still don’t understand that … there was some poster of me … she saw my face on some wanted poster, uh, so she wanted to, pretty much, she was gonna give me a ride home in her truck and changed her mind. You know … I just came downtown to get laid and now all these people wanna kill me … Maybe I, maybe I deserve it. Maybe I deserve to die, I don’t know … They could be right … I don’t know …

Il monologo narrativo dura quasi due minuti, ne mancano quasi diciotto alla fine del film.

Paul ha, dunque, il tempo di scendere in strada e di sfuggire di nuovo ai suoi inseguitori; tornare nel bar di Tom, il barista fidanzato di Marcy, la ragazza suicida. Tom, però, lo segnala agli inseguitori e Paul fugge verso il club Berlin, ormai vuoto, dove incontra June, una donna affascinante e malinconica, non giovanissima, cui chiede solo di poter parlare un po’, senza altre intenzioni. Durante un romantico ballo, improvvisato nella sala del club, la donna chiede cosa voglia Paul da lei, e Paul risponde: «I just want to LIVE». I due si spostano in un ambiente nel sottoscala del club, dove presto gli inseguitori si fanno sentire. Quello di June è anche un laboratorio di statue di cartapesta, così la donna trasforma velocemente Paul in una statua, molto simile a quella che lo perseguita fin dall’appartamento di Marcy e della coinquilina Kiki, una statua che ricordava L’urlo di Munch. Gli inseguitori, entrati nel laboratorio, non capiscono che dentro la statua c’è la loro preda e se ne vanno. June lascia Paul/statua nel laboratorio, nel quale si introducono Pepe e Neil, i due ladri già incontrati da Paul, che rubano di nuovo la scultura, caricandola sul loro furgone. Mentre ritorna la luce del giorno, il furgone scarica inavvertitamente Paul/statua dinanzi ai cancelli del suo ufficio, che puntualmente si aprono. La caduta ha mandato in frantumi l’involucro di cartapesta e Paul, sporco, stanco, scarmigliato, entra e si siede dinanzi al suo computer, che si accende salutandolo con una schermata familiare: «Good Morning, Paul». Titoli di coda[8].

 

Più complicato, forse, riassumere il romanzo, e non solo perché dura di più. Nelle prime righe, il (o un) narratore, rivolgendosi al lettore,  dichiara che intreccerà storie di ogni genere e dà così inizio «a una trama di figure e sorti umane che hanno cambiato aspetto e sono poi vicendevolmente tornate quelle di prima»[9].  Lucio, il protagonista, sempre assetato di cose insolite (sititor novitatis), entra in scena come ascoltatore dei discorsi di due commercianti, in bilico fra millanteria e verità. Con la sua curiosità, Lucio sollecita Aristomene, uno dei due, a proseguire il racconto. La scatola cinese dei narratori si complica, perché Aristomene racconta quello che ha sentito dal suo amico Socrate. Ed è la storia che determina poi l’avventura di Lucio. Perché Socrate aveva raccontato di un’ostessa di nome Meroe, da cui si era rifugiato dopo essere stato derubato di tutto da terribili briganti (la presenza dei latrones è costante nel romanzo). Ma Meroe non è solo un’ostessa, è una maga, saga atque diuina, capace di ogni tipo di prodigio e di trasformare gli amanti infedeli in animali. Lo straordinario racconto di Aristomene (e di Socrate), ricco di tanti colpi di scena, termina, tra lo scetticismo del compagno di viaggio e la gratitudine di Lucio, pronto ad accettare qualsiasi stranezza dal destino, ma giunto ormai a Ipata per incontrare Milone, un notabile ricco e famoso, cui deve consegnare una lettera. Entrano così in scena altri personaggi chiave: la ancillula di Milone, Fotide; Birrena, una parente di Lucio incontrata per caso, che lo mette subito in guardia dalle malae artes e dal fascino nefasto di Panfile, la moglie di Milone, esperta in sortilegi necromantici – ecco una nuova maga! -, dedita anche lei alla trasformazione in animali degli amanti. Ma Lucio sa di essere curiosus  e quindi saluta Birrena e corre a casa di Milone, pronto a insidiare Fotide, della cui chioma fa un breve elogio. Continuano a intrecciarsi cene e racconti, Lucio incappa in una sorta di ‘scherzi a parte’ in onore del dio Riso; giunge la notte in cui Fotide decide di rivelare a Lucio i segreti di Panfile. I due, Lucio e Fotide, nascosti, vedono la maga cospargersi di unguento, trasformarsi in gufo e volare via. Lucio, allora, chiede a Fotide di far provare anche a lui l’unguento della padrona, ma Fotide sbaglia barattolo e la metamorfosi di Lucio in asino (III, 24-25) apre una nuova fase del romanzo e della narrazione. Anche se basterebbe, come suggerisce la ragazza, masticare delle rose per tornare Lucio, per ben 8 libri ogni tentativo fallirà. Lucio/asino passerà di padrone in padrone, rapito subito da ladroni penetrati in casa di Milone; ascolterà in ogni sua tappa e in ogni nuova dimora racconti meravigliosi, come quello, celeberrimo, di Amore e Psiche; tenterà più volte la fuga; incontrerà i sacerdoti della dea Siria; rischierà di essere ucciso e macellato; conoscerà la fatica del mulino; un padrone ortolano; un padrone soldato, che lo vende a due cuochi, schiavi di un uomo molto ricco, Tiaso di Corinto, circostanza che almeno consente all’asino di mangiare finalmente come fosse Lucio. Ci si avvia verso la conclusione, perché Tiaso, colpito dai comportamenti ‘umani’ dell’asino, lo porta con sé a Corinto, dove Lucio/asino viene accolto da una folla curiosa di vedere i suoi prodigi. Una matrona finisce addirittura per desiderarlo e paga per passare una notte con lui. Ma quando Lucio rischia di doversi accoppiare in pubblico con una povera disgraziata, condannata a essere sbranata, riesce a fuggire di nuovo. Giunto a Cencre, invoca la dea Iside: redde me meo Lucio. Iside gli appare e gli prospetta la liberazione dal corpo d’asino, durante l’imminente processione isiaca. La metamorfosi di ritorno si compie, Lucio ridiventa uomo (XI, 13) e viene iniziato ai misteri di Iside. Infine parte per Roma, dove la sua iniziazione viene perfezionata e completata: gli appare in sogno Osiride, di cui diventa decurione quinquennale, una corporazione sacerdotale fondata ai tempi di Silla. Fine del romanzo.

Preferisco, a questo punto, elencare in ordine sparso i passaggi del film che la lettura di Apuleio mi ha in qualche modo ricordato. Al di là della trama complessiva, fatta di avventure una dietro l’altra nella notte ‘stregata’[10], sottolineo almeno la insistita presenza di ladri, l’atmosfera di magia, se non stregoneria, che accompagna gli incontri di Paul[11]; la presenza di molti racconti dei vari personaggi; il rilievo dato alla pettinatura di Julie, la waitress (vedi Apuleio e l’elogio della chioma: II, 8-9); i poster con l’identikit di Paul (le accuse, che Lucio/asino sente rivolte a Lucio/uomo, di essere il ladro che ha derubato Milone e l’impossibilità di difendersi: VII, 1-3); la trasformazione di Paul in statua di cartapesta, che diventa l’involucro che continua a contenere una persona, come l’asino continua a contenere Lucio e la sua mente pensante; l’invocazione di Paul al cielo, che avvia la fase dello scioglimento finale, come la preghiera di Lucio a Iside.

 

  1. La bibliografia, i modelli

Portate, dunque, a termine le prime due operazioni, lettura e visione (ma l’ordine può essere una scelta personale, quindi non credo utile rivelare la mia; ai risultati ho già fatto cenno), affronto il libro di Musio, che è il più recente e promette una trattazione esauriente. L’assenza di Scorsese nei riferimenti bibliografici – per ricerche come la mia si rivelano sempre utili anche gli indici dei nomi, per una prima indagine – mi fa già capire che apprenderò molto, ma non sul tema che sto indagando. Il film su Apuleio analizzato nel volume è, infatti, un film del regista Sergio Spina (coincidenza, nessuna parentela), un film del 1970 che comprende in un’unica sceneggiatura due opere di Apuleio, le Metamorfosi e l’Apologia[12]. Il titolo è, infatti, L’asino d’oro: processo per fatti strani contro Lucius Apuleius cittadino romano. Film non particolarmente famoso né segnalato, anche se ne dà scrupolosa notizia un repertorio che mi è stato sempre utilissimo nelle mie ricerche sul cinema e il mondo antico: parlo de L‘Antiquité au cinéma, di H. Dumont, Paris-Lausanne 2009, un dettagliato elenco commentato dei film relativi al mondo antico, non solo greco e latino. Il film di Sergio Spina vi figura al nr. 1971 (p. 265 s.) e viene definito «un film intellectuel, à peine distribué». Un po’ deluso dal fatto che il volume di Musio non possa aiutare la mia ricerca, annoto la sottolineatura della «prima colpa del protagonista, la curiositas» (p. 42). Bisogna quindi passare a bibliografia meno recente, approfittando della digitalizzazione di molte recensioni e articoli apparsi a ridosso del film di Scorsese, nel 1985. Emerge, così, la figura dello sceneggiatore, John Minion, allora ventiseienne, che, come ricorda Vincent Canby nella recensione apparsa il 13 settembre 1985 su The New York Times, «wrote it originally as part of an assignment for a film course at Columbia Unversity. Mr. Minion has a fine feeling for the absurd that Mr. Scorsese respects and illuminates right up to – though not including – the last scene, when ”After Hours” turns out to have been a large firecracker with a very small ”pop.”»[13].

La figura dello sceneggiatore, in realtà, riserva un po’ di sorprese, sulle quali mi soffermerò più avanti. Quello che colpisce subito, invece, nella bibliografia consultata, è la ricerca dei modelli, degli ipotesti, letterari o filmici, dei riecheggiamenti ai quali sembra essersi ispirato, secondo le analisi dei critici, il film di Scorsese, modelli fra i quali non figura, però, Apuleio. Provo quindi a elencarli (sottolineati) in ordine cronologico di riferimento bibliografico, così come appaiono citati:

  1. Faber, Kafka on the Screen: Martin Scorsese’s “After Hours” , «Die Unterrichtspraxis / Teaching German» , 19/2, Autumn 1986, pp. 200-205: Franz Kafka [opere varie]; Friedrich Murnau’s Nosferatu; Hitchcock’s Rear Window.
  2. van Daalen, Review: After Hours,  «Film Quarterly», 41 (3), 1988, pp. 31–34: The Odyssey, The Inferno, Candide, Miller’s Tropic of Cancer[14], The Wizard of Oz, Mad Magazine.
  3. Doré, Review of [After Hours / Quelle nuit de galère, États-Unis, 1985, 97 minutes], «Séquences» 244, 2006, p. 23: Kafka, Douze Travaux d’Astérix.
  4. Iovinelli, Il salto oltraggioso del grillo. Saggi di narrativa e cinema, Roma 2010[15]: Boccaccio, Decameron, la novella di Andreuccio da Perugia.
  5. Sterritt, Images of Religion, Ritual, and the Sacred in Martin Scorsese’s Cinema, in A. Baker, A Companion to Martin Scorsese, Malden MA 2015: James Joyce, Ulysses (Circe episode); il mito di Orfeo ed Euridice; Enoch in Genesi 5,24; Franz Kafka, The Trial.

Aggiungerei, dalla bibliografia consultata[16], P. James, Keeping Apuleius In The Picture. A dialogue between Buñuel’s Discreet Charm of the Bourgeoisie and The Metamorphoses of Apuleius, «Ancient Narrative»  2000, pp. 185-207, non perché analizzi il film di Scorsese, ma perché individua un legame tematico fra le Metamorfosi di Apuleio[17] e The Discreet Charm of the Bourgeoisie di Luis Buñuel (Francia-Italia-Spagna 1972). Segnalo questo contributo anche perché, in una della note finali (30, p. 204), l’autrice cita H. Elsom, Apuleius and the Movies, in Groningen Colloquia on the Novel, II, Groningen 1989, pp. 141-150, molto importante per la mia ricerca, articolo che conoscevo grazie a Domitilla Campanile.

Al contributo della Elsom conviene ora dedicare maggiore attenzione, perché è, a mia conoscenza, la prima (e finora unica) a citare Apuleio in relazione ad After Hours. Il titolo del suo articolo, Apulieus and the Movies,  prometterebbe una ricognizione generale della presenza sullo schermo di Apuleio, autore che la studiosa predilige (in particolare per il Golden Ass). Colpisce, però, il fatto che manchi alla Elsom, che esclude che il romanzo di Apuleio sia stato mai «metamorphosed into a film», la conoscenza del film di Sergio Spina. In ogni caso, le potenzialità filmiche del romanzo sono, per la Elsom, innegabili. Fellini (Satyricon), Cocteau (La Belle et la Bête) e Pasolini le hanno colte e a esse si sono ispirati. Si citano anche, per semplici richiami tematici, Tom Jones  di Tony Richardson, La voie lactée di Buñuel, ma la sostanza è data dal fatto che, come efficacemente scrive l’autrice, «Lucius is, so to speak, a camera». Accanto alle potenzialità, però, vengono indicati i motivi che avrebbero impedito fino ad allora una versione cinematografica del Golden Ass (il film di Sergio Spina, ovviamente, smentisce tale assunto, al di là di ogni possibile giudizio, anche negativo, sul risultato), in gran parte dovuti al back-ground storico-letterario del romanzo. Nel corso dell’analisi, appare Scorsese col suo After Hours. Cito (p. 145):

A second and associated reason for the absence of the Golden Ass from the screen is the fact that the issues which it raises – authority, the value of life, the nature of happiness – can be dealt with in much more immediate terms for a modern audience. For example, the story of an amiable, naïve and inquisitive young man in an alienating urban nightmare is well told in Martin Scorsese’s 1985 film After Hours. […] Although After Hours is Apuleian in spirit, this is largely  because as the writer Salman Rushdie has pointed out[18] the Golden Ass offers an alienated view of the infernal urban landscape, which is similar to that  of a modern resident of New York City. Why, then, reproduce urban terror in antiquity when there is so much available today?

Insomma, la riflessione della studiosa parte dal presupposto che le Metamorfosi di Apuleio non siano mai state tradotte in film[19], che  potrebbero esserlo solo a determinate condizioni e che i registi in grado di farlo, perché hanno operato intelligenti soluzioni di rapporto con testi e culture antiche in alcuni (e segnalati) loro film, sarebbero stati Pasolini (Il Vangelo secondo Matteo)[20] e Cocteau (La Belle et la Bête), l’unico film che si ispira a un pezzo del romanzo, ma, secondo lo stesso regista, non ne è una rielaborazione, bensì si struttura come un’opera poetica originale.

Volendo riassumere: mentre ero riuscito a trovare per la prima volta una connessione fra After Hours e le Metamorfosi di Apuleio, questa connessione veniva negata dalla stessa studiosa che l’aveva introdotta, soprattutto perché il film di Scorsese veniva considerato, sì, apuleiano nello spirito, ma solo perché – azzarderei il paradosso – Apuleio era già scorsesiano come narratore.

In più, come mi ha fatto notare Angela Andrisano, che ringrazio, è davvero strano che nella bibliografia consultata non compaia, in riferimento ad Apuleio e il cinema, nessun riferimento a un film totalmente ‘asinino’ di Robert Bresson, Au hasard Balthazar (Francia-Svezia 1966): le peripezie dell’asino Balthazar sono sicuramente ispirate alle Metamorfosi, oltre che alla Bibbia[21] e a L’Idiota di Dostoevskij. Abbandono subito questo ulteriore risvolto della ricerca, annotando solo che il film di Bresson contempla un processo di umanizzazione di un asino, inverso a quello di asinizzazione di un uomo presente nel romanzo di Apuleio.

  1. Ipse dixit

Non mi era rimasto, dunque, che concentrare l’attenzione sulle due figure chiave di After Hours, lo sceneggiatore John Minion e il regista Martin Scorsese, alla ricerca di qualche appiglio concreto all’idea che almeno uno dei due conoscesse le Metamorfosi e in qualche modo ne avesse tratto qualche spunto.

Dalle fonti consultate in rete[22], la figura di Joseph Minion sembra, però, non solo molto lontana da Apuleio, ma troppo, e pericolosamente, vicina a un monologo radiofonico di Joe Frank, Lies, del 1982, dal quale sembra aver plagiato almeno una buona parte iniziale della sceneggiatura.

Martin Scorsese racconta di After Hours in Scorsese on Scorsese, il volume fondamentale, arricchito  e aggiornato dalla prima edizione del 1989[23], che segue attraverso le stesse parole del regista la straordinaria carriera di un Maestro ancora capace di creare. Dalle poche pagine dedicate al film non ho potuto ricavare nessun elemento utile per la mia ricerca. Scorsese parla del finale; rivela di non aver mai letto Kafka, che pure molti, come abbiamo visto, hanno richiamato come modello. Per primo l’aveva fatto Michael Powell, il famoso regista, cui Scorsese aveva mostrato il film. Parla anche di un modello registico, Hitchcock, del cui stile (Marnie, in una particolare scena) After Hours  sarebbe una parodia. Nulla di più.

La sorpresa sarebbe arrivata, però, proprio dal regista: in un dialogo con Janet Maslin[24], critica cinematografica e letteraria del The New York Times, il 9 novembre 2002, Scorsese risponde così a una domanda dell’intervistatrice:

MASLIN: Is there any kind of film that you wish you could make but you just don’t…? You have ventured outside of the gangster thing a lot of different times, but you often come back to it, as you have now. And I wonder if there’s anything you think of as just being too far away from that.
SCORSESE: I’d like to make… I’m fascinated by the ancient world; I’d like to make a film from the point of view of pre-Christian thought and religion. Like Apuleius’s The Golden Ass would be great. A very religious book; Apuleius was a priest of Isis. By reading the classics – or trying to read them! I wish I had a classic education. I didn’t have a classic education, but I try to get through ‘em – and I think the interesting thing is trying to see the world apart from – not through the lens, so to speak, of Judeo-Christian thought and religion. Not to put that aside, but I want to see what else links us as human beings and who we are, you know.

After Hours non è dunque un film esplicitamente ispirato a The Golden Ass, ad Apuleio. Ma Scorsese aveva un film apuleiano in testa, film che avrebbe voluto fare. Non dice da quando l’aveva in mente, ma a me basta la sua risposta per dire che è valsa la pena portare avanti questa ricerca e aver trovato, forse, negli spunti che ho individuato, piccoli segnali di quel desiderio non portato avanti fino in fondo. Non portato avanti esplicitamente, ma ‘regalato’ a un ridotto pubblico ‘apuleiano’ attraverso tracce non proprio indecifrabili.

Ora non rimarrebbe che sottoporre queste mie riflessioni allo stesso Martin Scorsese, per averne il parere decisivo. Solo che quando il regista è stato a Bologna, il 23 giugno 2018, e ha dialogato sul palco del Teatro Comunale, per la rassegna il Cinema Ritrovato, con Jonas Carpignano, Matteo Garrone, Valeria Golino e Alice Rohrwacher[25], io non avevo ancora ripreso in mano i miei appunti, riletto Apuleio, rivisto After Hours, scritto questo articolo. E quindi non avrei neanche potuto chiedergli se conoscesse il film di Sergio Spina, l’unico regista che ha avuto il coraggio di portare sullo schermo, a suo modo, un Lucio trasformato in asino.

 

* Il mio grazie di cuore va a Domitilla Campanile che, fin da quando le ho comunicato il tema della mia ricerca, mi ha generosamente fornito utilissime indicazioni bibliografiche e poi suggerimenti al testo elaborato. Una conferma di amicizia e competenza indiscutibili. Ringrazio anche Angela Andrisano, che mi ha suggerito un imprescindibile film legato al romanzo di Apuleio.

[1] Fuori orario è il titolo italiano del film di Martin Scorsese After Hours, USA 1985. Film a colori, 97’. Sceneggiatura: Joseph Minion. Con Griffin Dunne (Paul Hackett), Rosanna Arquette (Marcy Franklin), Linda Fiorentino (Kiki Bridges), Verna Bloom (June), Teri Garr (Julie), Catherine O’Hara (Gail), John Heard (Thomas), Tommy Chong (Pepe), Cheech Marin (Neil). Vincitore a Cannes per la migliore regia, nel 1985.

[2] La fiera napoletana del libro fu per molti anni, grazie all’editore Liguori, un evento coinvolgente e nuovo per la città.

[3] A. Musio, Reus, magus, auctor: Apuleio sullo schermo, Lecce 2020. Qualche mese prima la Fondazione Valla, diretta ora da Piero Boitani, ha avviato meritoriamente la pubblicazione delle Metamorfosi apuleiane, per le cure di Luca Graverini (Introduzione, traduzione e commento) e Lara Nicolini (testo critico e nota al testo). Finora è uscito il primo volume (2019), con i primi tre libri degli undici che compongono l’opera. Nel corso dell’articolo mi rifaccio a questo volume per traduzione e commento, soprattutto perché non affronto, visto il mio scopo, nessuno dei complessi problemi posti dall’opera di Apuleio. Un’originale storia del romanzo greco e latino si deve a M. Doody, La vera storia del romanzo, trad. it. di R. Coci, Palermo 2009 (The True Story of the Novel, 1996).

[4] Diverso riferimento, a Enoch in Genesi 5,24, propone D. Sterritt, Images of Religion, Ritual, and the Sacred in Martin Scorsese’s Cinema, in A. Baker, A Companion to Martin Scorsese, Malden MA 2015, pp. 91-113: 101-102.  Su Soho nel film di Scorsese si veda B. Kredell, Borderlines: Boundaries and Transgression in the City Films of Martin Scorsese, in A. Baker, A Companion to Martin Scorsese, Malden MA 2015, pp. 331-351: 341-344.

[5] Il modo in cui Paul si autodefinisce, just a word processor, mi fa notare Domitilla Campanile, assegna al programmatore quasi il ruolo di software, di strumento di lavoro, non di lavoratore. Quasi che Paul voglia accentuare il suo ruolo di elaboratore di parole, di racconti, ma anche, purtroppo, di formattatore obbligato di esperienze angoscianti di vario tipo.

[6] After Hours, a screenplay by Joseph Minion, 6/6/84, 4/th Draft:  https://cinephiliabeyond.org/darkly-comedic-delightfully-manic-hours-one-scorseses-best-films/. [visualizzato a settembre 2022]

[7] Anche P. Doré, Review of [After Hours / Quelle nuit de galère, États-Unis, 1985, 97 minutes], «Séquences» 244, 2006, p. 23, mette in rilievo lo straordinario riassunto di 2 minuti di Paul.

[8] Va ricordato che la sceneggiatura terminava con una conclusione diversa e inquietante, che troviamo nelle scene che precedono il finale del film: gli occhi di Paul/statua che fissano terrorizzati la strada dall’interno del furgone, che diventa sempre più piccolo allontanandosi mentre aumenta la luce di una nuova giornata. Sul finale si veda anche D. Sterritt, Images of Religion, Ritual, and the Sacred in Martin Scorsese’s Cinema, in A. Baker, A Companion to Martin Scorsese, Malden MA 2015, p. 100.

[9] I 1,2 : Figuras fortunasque hominum in alias imagines conuersas et in se rursum mutuo nexu refectas.  All’importanza cruciale del prologo e alle sue 119 parole, è stato dedicato un volume con ben 24 interventi: A. Kahane, A. Laird, A Companion to the Prologue of Apuleius’ Metamorphoses, Oxford 2001.

[10] A proposito di avventure, è utile segnalare che Apuleio (II 14,1) ricorre già a un modello narrativo (Ulixea peregrinatio), con l’aggettivo attestato per la prima volta, per definire, per bocca di Diofane, un amico di Milone, un viaggio disastroso (dira peregrinatio).

[11] Fra i racconti ‘strani’ che tocca ascoltare a Paul, si segnala quello di Marcy, la ragazza suicida. L’ex marito, Franklin, nel momento dell’orgasmo, gridava: «Surrender Dorothy», la famosa frase che la strega traccia nel cielo, col fumo nero della sua scopa, nel film The Wizard of Oz di Victor Fleming (USA 1939).

[12] L’intero film si trova in rete: https://www.youtube.com/watch?v=UhTuidoUBpI (visualizzato a settembre 2022), ma il video è malamente montato.

[13] https://www.nytimes.com/1985/09/13/movies/after-hours-from-martin-scorsese.html [visualizzato a settembre 2022]

[14] È il libro che sta leggendo Paul quando, nelle scene iniziali, incontra Marcy.

[15] https://www.academia.edu/39247359/Il_salto_oltraggioso_del_grillo_Saggi_di_narrativa_e_cinema [visualizzato a settembre 2022] Dal documento scaricato online (che sembra essere un’ultima bozza con correzioni) non è possibile ricavare il numero di pagina. In ogni caso, si tratta del capitolo 4 della Prima parte: Un epigono di Andreuccio da Perugia: il protagonista di After Hours di Martin Scorsese (1985).

[16] Segnalo anche B. Eggert, Essay on After Hours, «Deep Focus Review», 7 dicembre 2013, con richiami ad altri film di Scorsese e riflessioni sul finale: https://deepfocusreview.com/definitives/after-hours/ [visualizzato a settembre 2022]; B. Gibson, Troubling Mastery: Scorsese’s and Kubrick’s Psychosexual New York Odysseys, «Bright Lights Film Journal», October 19, 2020, sulle odissee psicosessuali della New York di Scorsese e Kubrick.

[17] Paula James aveva già pubblicato, nel 1987, uno studio su Apuleio: Unity in Diversity. A Study of Apuleius’ Metamorphoses, Hildesheim-New York.

[18] L’autrice si riferisce a un articolo firmato ‘Salman Rushdie in America’, Travels with the Golden Ass, apparso su The Guardian il 17 aprile 1987, p. 11 (non il 18 aprile, come scrive Elsom), in cui lo scrittore recensisce la traduzione del Golden Ass di R. Graves, apparsa nei Penguin Modern Classics. Rushdie scrive: «The picture of America emerging from this notes is, of course, in some sense “unfair”. What you see depends on where you look.  But the Apuleian America does exist, and I make no apology for looking at it».

[19] Presupposto giusto, se preso alla lettera – nel senso di trascrizione filmica -, per Scorsese, ma errato per la non citazione del film di Spina.

[20] Illuminante una ‘confessione’ di Elsom, p. 146, molto vicina allo spirito delle mie riflessioni iniziali: «Pasolini is for me the person who should have made the film of the Golden Ass. (In fact, I began researching this paper in the mistaken belief that such a film was Pasolini’s next project at the time of his death.)». Va rilevato che, se Elsom non conosce il film di Sergio Spina, Musio, che, come abbiamo visto, ne ha pubblicato recentemente una approfondita analisi, non ha in bibliografia, nonostante il titolo del suo volume, Elsom.

[21] M.W. Winkler, che ringrazio per la lettura e per alcuni suggerimenti relativi a questo articolo, mi ricorda che le sofferenze e la morte di Balthazar lo avvicinano, per alcuni critici, alla figura di Gesù, quindi ai Vangeli. A questo proposito, ancora Winkler sottolinea giustamente che va ricordato uno dei film in cui Scorsese si è misurato col mondo antico: The Last Temptation of Christ (1988).

[22] Elenco qui i siti visualizzati nel settembre 2022, a partire da wikipedia (inglese): https://en.wikipedia.org/wiki/Joseph_Minion, fino ai siti su Joe Frank e sul plagio, più o meno esaurienti: https://www.joefrank.com/shop/lies/; http://jfwiki.org/index.php?title=Lies; http://www.edrants.com/joseph-minion-plagiarized-joe-frank/;

https://www.reddit.com/r/joefrank/comments/d2jx8d/the_joe_frank_martin_scorsese_connection/; https://andrewhearst.com/blog/2008/05/the-scandalous-origins-of-martin-scorseses-after-hours.

[23] Io ho consultato la traduzione italiana I. Christie e D. Thompson (curr.), Scorsese secondo Scorsese, nuova ed. agg., Milano 2003, pp. 126-129 (Scorsese on Scorsese, 1989, 2003).

[24] J. Maslin, A Pinewood Dialogue with Martin Scorsese, © «Museum of the Moving Image», 2002 [visualizzato a settembre 2022]  http://www.movingimagesource.us/files/dialogues/2/63569_programs_transcript_html_258.htm

[25]https://www.youtube.com/watch?v=1mV1_pJ-Muo&index=3&list=PLx3uAGILdftDkSEhC1efhZOaSF35hD2dy [visualizzato a settembre 2022].

Marco Ercolani, «14 luglio 1929. Due lettere a Freud»

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di Massimo Morasso

Oltre che facondissimo scrittore, Marco Ercolani è (stato) uno psichiatra (il participio fra parentesi non significa che è morto, ma, testiculis tactis, che è andato in pensione). Da sempre, però, alla sua prosa creativa non corrisponde la voce di uno psichiatra, ma, si direbbe, quella di un parapsicologo che parli sotto inquieta dettatura nel corso di una seduta medianica in cui lo spirito evocato… può essere chiunque. Beninteso, purché quel chiunque sia un uomo tormentato, o a volte addirittura dilaniato nel sottosuolo della coscienza, che il sensitivo medium ercolaniano “cattura” in qualche non-tempo della storia e trascina nel flusso etereo della sua visione – per ricomporla, frammento su frammento, nell’interminabile casa di parole piena d’anime che chiama a raccontarsi sulla carta.

Tramite il suo ultratrentennale tirocinio in più libri, e centinaia di voci, nella sua scrittura, fatta, per lo più, di segmenti eterogenei, Ercolani ha cercato interferenze e associazioni con l’urgenza inflessibile di un’ossessione, per far circolare una linfa impersonale. E lo ha fatto replicando in molteplici fogge una parola neutra, una parola- riverbero di una presupposta mescolanza autoriale, dove l’io parlante non parla mai per sé anche quando parla di sé, perché quel “sé” è già il “resto” del suo destino, per così dire, e l’io scrivente ha sempre il profilo di un intruso a malapena tollerato.

Ora con questo 14 luglio 1929. Due lettere a Freud, Robin edizioni 2022. Ercolani offre un iperbolico esempio dell’ampiezza del cerchio metapsichico che va tracciando col suo inesauribile gesto di frantumazione dell’io, e, di riflesso, della duttilità stilistica che gli consente la sua vocazione apocrifa, e si doppia. Scegliendo di immedesimarsi in due alter ego numinosi: Hugo con Hofmannsthal e Arthur Schnitzler; che coglie “per analogia” in un medesimo punto di massima crisi esistenziale – l’elaborata elaborazione del lutto per i suicidi dei figli Franz (von Hofmannsthal) e Lili (Schnitzler Cappellini) –, disegnando davanti ai nostri occhi due parabole interiori molto diverse eppure disperatamente convergenti nel “terzo” psicopompo Sigmund Freud, a un tempo deus ex machina e convitato di pietra nel singolare passo a due fra gli scrittori. Giacché, nella finzione del librino, è proprio il padre della psicanalisi il destinatario dei pensieri che Hofmannsthal gli avrebbe affidato in una lunga lettera di 50 pagine, il giorno dopo la morte di Franz, appunto il 14 luglio 1929 evocato nel titolo, e dei 30 racconti in forma di sogno che Schnitzler gli avrebbe raccontato, per iscritto, pochi giorni dopo.

In 14 luglio 1929 ogni blocco testuale è una scossa dei nervi, e fa breccia verso una zona d’ombra della psiche. Ercolani sa rendere credibile l’improbabile, e, a furia di invenzioni, coltiva con coerenza l’hortus apertus di una fantasmatica logopedia, che mette in pratica un salutare principio di pluralità della parola applicata alla scienza dell’anima.

“Io ero il milanese”: Lorenzo S. e l’inutilità del carcere

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di Daniele Ruini

This too I know ­­– and wise it were
If each could know the same­ –
That every prison that men build
Is built with bricks of shame,
And bound with bars lest Christ should see
How men their brothers maim
(Oscar Wilde, The Ballad of Reading Gaol)

 

Facciamo un gioco. Se ci venisse data una bacchetta magica per poter cambiare qualcosa del mondo in cui in viviamo, che cosa sceglieremmo? Per quanto mi riguarda, una delle prime cose sarebbe questa: basta carcere.
I mezzi di informazione italiana (con benemerite eccezioni) non se ne occupano mai, limitandosi a rilanciare periodicamente i gravi problemi delle carceri italiane segnalati da associazioni come Antigone. Eppure parlare di abolizionismo carcerario non dovrebbe essere un tabù, visto che se ne discute da decenni in tutto il mondo. In Italia, tra i nomi più noti, si possono citare Luigi Manconi (uno degli autori del volume Abolire il carcere: una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini, recentemente riedito da Chiarelettere), Gherardo Colombo (autore de Il perdono responsabile. Perché il carcere non serve a nulla) e il compianto Massimo Pavarini (curatore, insieme a Livio Ferrari, di Basta dolore e odio. No prison). Leggere quello che scrivono vuol dire venire inchiodati a una cruda verità: il carcere, eccettuate pochissime esperienze d’avanguardia (come quella milanese di Bollate), fallisce completamente nel dare attuazione al comma 3 dell’art. 27 della Costituzione, secondo il quale «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».

Nella realtà dei fatti stare in prigione significa invece andare incontro, quasi certamente, a problemi di salute mentale, senza poter ricevere cure adeguate; significa vivere in una promiscuità soffocante (nonostante i reati siano in calo da anni), all’interno di un mondo fatto di violenza, discriminazione, isolamento, solitudine e insicurezza; significa essere esclusi da relazioni sociali e, conseguentemente, dall’opportunità di maturare senso di responsabilità e autocontrollo; significa avere molte più probabilità di togliersi la vita (tema che coinvolge in percentuali considerevoli anche i membri della polizia penitenziaria); significa penetrare ancora di più nell’illegalità, aumentare le proprie idee di odio ed affinare la propria predisposizione delinquenziale (solo un terzo dei detenuti, una volta scarcerato, non finisce dentro di nuovo). E, tra l’altro, è molto più facile cadere in questa spirale se si appartiene alle fasce culturalmente, socialmente ed economicamente più deboli della società: poveri, disoccupati, tossicodipendenti, stranieri, persone con un basso livello di istruzione.

Come spesso succede, a rendere evidente tutto ciò, più che dati e statistiche, sono le storie di singoli detenuti, con tutta la loro forza dirompente. Soprattutto se queste storie vengono raccolte da chi ha grandi capacità di ascolto. Ed è esattamente quello che è successo con la vicenda di Lorenzo S., raccontata in un bellissimo podcast in 14 puntate curato da Mauro Pescio.
In “Io ero il milanese” ascoltiamo la viva voce di Lorenzo che, sollecitato dalle domande di Pescio, ripercorre tutta la sua vita, a partire dall’infanzia vissuta a Milano con la madre (mentre il padre scontava dieci anni di reclusione) e dal successivo trasferimento a Catania, dove matura la decisione di dedicarsi alla delinquenza. Una delinquenza lontana dalla criminalità organizzata e tutta dedita ad una sola specialità: le rapine in banca. Lorenzo inizia giovanissimo e già a 14 anni entra in quello che sarà il luogo in cui trascorrerà la maggior parte della sua esistenza: il carcere. Di fatto, negli anni successivi, conoscerà la libertà solo per periodi di pochi mesi; e quando è fuori il suo unico pensiero è sempre lo stesso: trovare banche da rapinare, riempirsi di soldi, spendere tutto in vestiti, macchine, night e ristoranti. Lorenzo sa che il rischio di essere di nuovo arrestato è sempre dietro l’angolo, e cerca di vivere i momenti di libertà al massimo della velocità.

E in tutto questo la prigione che ruolo ha avuto? Lorenzo impara presto la dura legge delle relazioni carcerarie, sposandone in pieno le regole non scritte. Approfitta inoltre dei consigli dei detenuti più esperti per migliorare le proprie capacità di rapinatore. E cerca anche di farsi passare per tossicodipendente o di comportarsi come detenuto modello al solo scopo di ottenere una detenzione più blanda e di costruirsi in questo modo un’eventuale opportunità di fuga. In breve, per parecchi anni il carcere non riesce minimamente ad intaccare la dura corazza che Lorenzo si è costruito né ad instillargli l’idea che una vita oltre alla delinquenza è possibile. Come potrebbe, d’altra parte, un luogo programmaticamente chiuso alla società riuscire a riattivare una messa in discussione da parte delle persone recluse?

Il protagonista di questa storia è molto onesto con sé stesso: pur essendo cresciuto in un contesto familiare e ambientale fatto di criminalità ed emarginazione sociale, non cerca scuse. Il fatto di aver voluto intraprendere la carriera di rapinatore –dice­– è stata solo ed esclusivamente una sua scelta. Eppure se avesse incontrato prima le persone giuste, se avesse conosciuto un altro modello di detenzione, probabilmente la sua giovinezza sarebbe stata un’altra. A 35 anni Lorenzo si ritrova infatti nella Casa di reclusione di Padova, dove opera la redazione di Ristretti Orizzonti, il periodico ideato e diretto da Ornella Favero e fatto dai prigionieri. La collaborazione col giornale rappresenta per lui uno snodo decisivo, così come fondamentale sarà la possibilità di iniziare a porsi davvero delle domande durante i confronti con gli studenti organizzati all’interno del carcere dalla stessa Favero. È la svolta: è da qui che inizia il cambiamento interiore di Lorenzo, un mutamento che i suoi famigliari disprezzano, accusandolo di essere un traditore.

Grazie ad altri incontri fortunati, come quello con un avvocato che, in maniera del tutto volontaria, si interessa del suo caso, a Lorenzo viene concessa la possibilità di una seconda vita. Un giudice accoglie infatti la richiesta di revisione delle sue vicende processuali e Lorenzo, che originariamente avrebbe dovuto scontare più di vent’anni di galera (senza poter accedere, ancora per molti anni, a nessun tipo di permesso), viene inaspettatamente scarcerato.
Alla gioia per la libertà riacquistata segue però ben presto il disorientamento nel ritrovarsi in un mondo a cui si era del tutto disabituato. Pur venendo accolto nella casa di una volontaria con cui, negli anni, aveva stretto una relazione affettiva, Lorenzo è terrorizzato: le finestre senza sbarre così come i contatti con gli estranei lo gettano nel panico, spingendolo a desiderare di ritornare in cella. Al disagio di continuare a portare lo stigma del delinquente si associa l’ansia di dover ricominciare da zero e un fortissimo senso di emarginazione sociale (diretta conseguenza dei tanti anni trascorsi nel chiuso di una prigione).

La storia di Lorenzo ha un lieto fine: l’ex rapinatore riesce a ricostruirsi una nuova identità, formandosi come mediatore penale e diventando responsabile di un centro specializzato in giustizia riparativa. Ma non andrebbe dimenticato che ciò è potuto avvenire, oltre che grazie ad una grandissima determinazione, solo perché ha avuto la fortuna di imbattersi in persone che hanno portato dentro al carcere una prospettiva completamente diversa, non prevista dalle istituzioni. E allora domandiamoci: quante storie di redenzione potrebbero essere raccontate se l’attuale sistema carcerario venisse interamente ripensato e fosse davvero finalizzato a favorire un percorso di rieducazione? Che cosa accadrebbe se chi ha infranto la legge, e magari pure provocato grosse sofferenze, non venisse completamente tagliato fuori dalla società e potesse invece ricevere una seconda possibilità? Come ha scritto Gherardo Colombo, «Fare male (pur nell’esercizio della funzione autoritativa della risposta alla trasgressione) non può che insegnare, irrimediabilmente, a fare male: non si può insegnare a non uccidere uccidendo; non si può insegnare a non privare gli altri della libertà togliendola»[1]. Di quante altre prove abbiamo ancora bisogno per capire tutti gli effetti negativi delle pene detentive?

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[1] G. Colombo, Il perdono responsabile. Perché il carcere non serve a nulla, Milano, Ponte alle Grazie, 2020, p. 61.

Perché è importante leggere David Graeber

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di Lorenzo Velotti

Foto di Guido van Nispen

Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo la postfazione di Lorenzo Velotti a David Graeber, Le origini della rovina attuale, E/O, traduzione dall’inglese di Carlotta Rovaris, in libreria dal 28 settembre. Sono quattro saggi inediti, curati dallo stesso Velotti. Antropologo anarchico, critico radicale della disuguaglianza economica e sociale, David Graeber (1966-2020) ha scritto per tutta la vita sugli effetti negativi della globalizzazione e di come abbia favorito la disciplina del lavoro e il controllo sociale.

L’idea di accogliere David Graeber tra gli auto­ri della Piccola Biblioteca Morale risale all’i­nizio del 2020. Avremmo voluto fare un li­bro-intervista: ne avevo parlato a lungo con David che, da vivo sostenitore della natura essenzialmente dialogi­ca del pensiero, ne era entusiasta, e avevamo pianifica­to sei ore di conversazione. Vivevo a Londra, l’anno precedente ero stato un suo studente, avevamo stretto un rapporto e, in quel periodo, ci vedevamo soprattut­to in conviviali contesti di lotta politica. Partendo dalla considerazione che Graeber – grande nome dell’antro­pologia contemporanea e punto di riferimento dell’at­tivismo libertario (soprattutto nel mondo anglosasso­ne e in Francia) – non fosse altrettanto conosciuto nel panorama italiano, pensavamo potesse essere utile trattare alcuni dei problemi contemporanei, italiani e globali, a partire dai suoi studi e dalla sua esperienza.

L’idea, purtroppo, non si concretizzò. Ci dicemmo che avremmo fatto le interviste non appena fosse finita la pandemia, ignari di quella che ne sarebbe stata l’ef­fettiva durata. A settembre 2020 Graeber ci lasciò all’improvviso, mentre si trovava in vacanza a Venezia dopo aver terminato il suo ultimo libro, L’alba di tutto (Graeber e Wengrow, 2022). In tanti – studenti, amici, attivisti – ci rendemmo conto della nostra totale impre­parazione di fronte alla mancanza di dialogo con Da­vid. Eppure, ci trovammo costretti a trasformarlo in antenato. Per quanto riguarda questo progetto, rimase la possibilità di tradurre in italiano qualcosa di inedito.

Non è stato difficile scegliere la prima parte di Possi­bilities: Essays on Hierarchy, Rebellion, and Desire (“Possibilità: saggi sulla gerarchia, la ribellione, e il desi­derio”). Il terzo saggio di questa raccolta, “Ribaltare i modi di produzione: o, perché il capitalismo è una tra­sformazione della schiavitù”, è il primo che lessi, duran­te le settimane iniziali del corso “Antropologia e Storia Globale” che Graeber tenne alla London School of Eco­nomics nel 2018. Ne rimasi così colpito che, un po’ inge­nuamente, al seminario successivo gli chiesi come fosse possibile che quanto scritto non avesse del tutto trasformato, negli anni successivi, il piano della discussione. Ri­spose ridendo: “Me lo chiedo anch’io”.

La raccolta originale contiene dodici saggi, divisi in tre parti. I quattro saggi che compongono la presente rac­colta corrispondono alla traduzione della prima parte [1].

Come racconta l’autore stesso nell’introduzione al libro, questa parte risale alle sue prime ricerche, condotte du­rante la specializzazione presso l’Università di Chicago negli anni Ottanta. Si tratta, innanzitutto, di uno studio antropologico delle origini del capitalismo. Ma, visto il carattere totalizzante di quest’ultimo, esaminarle dà mo­do di riflettere sulle infinite possibilità alternative, sem­pre presenti, di intendere e di vivere le relazioni sociali, i desideri, il mondo.

Il primo saggio, “Buone maniere, deferenza e pro­prietà privata: o elementi per una teoria generale della gerarchia”, è una versione accorciata e rivista della sua tesi di laurea specialistica. La tesi, racconta Graeber, era stata particolarmente apprezzata da Pierre Bour­dieu (durante il suo periodo come visiting professor a Chicago), il quale avrebbe proposto a Graeber di ren­derla più sintetica e di lavorarci insieme a lui per una pubblicazione in Francia. Tuttavia, a causa di quello che Bourdieu stesso ha teorizzato come un problema di (basso) “capitale sociale”, Graeber – di estrazione proletaria –, non riuscì a ottenere i fondi per raggiun­gerlo a Parigi. Il saggio è un’affascinante teorizzazione della relazione tra buone maniere, individualismo possessivo e gerarchia, che recupera categorie antro­pologiche ormai desuete come quelle di joking e avoi­dance (relazioni di scherzo e di evitamento) per trac­ciare questo legame e per sottolinearne le conseguenze politiche. Particolarmente affascinanti sono le riflessioni sul carnevale, sovversione per eccel­lenza delle gerarchie e della logica dell’evitamento. Non è un caso che l’ideologia della proprietà privata sia emersa in Europa contemporaneamente a quella delle buone maniere, mentre il carnevalesco veniva violentemente soppresso.

Il secondo saggio, “Il concetto di consumo: deside­rio, fantasmi ed estetica della distruzione dal Medioevo a oggi”, risale agli studi degli anni immediatamente successivi, o meglio alle letture a cui Graeber si dedica­va di soppiatto mentre lavorava in biblioteca per pagar­si gli studi. È una sofisticata critica al culto del consu­mo prevalente nei cultural studies del tempo – o a una certa teorizzazione critica del consumo che finisce pe­rò per naturalizzarlo – nonché una proposta radical­mente alternativa. Il terzo saggio, che menzionavo pri­ma, ha origine dal lavoro etnografico sul campo, che Graeber svolse, durante il dottorato, in Madagascar, dove aveva osservato una stretta relazione tra lavoro sa­lariato e schiavitù, relazione esplorata, e in certa misu­ra generalizzata, nel saggio in questione, attraverso il concetto marxiano di “modi di produzione”. Infine, il quarto saggio, “Il feticismo come creatività sociale: o, i feticci sono dèi in costruzione”, avrebbe dovuto far parte dell’ultimo capitolo di Toward an Anthropologi­cal Theory of Value (2001) – la sua opera più importan­te di teoria antropologica, a cui tutti questi saggi sono in realtà intimamente connessi – ma fu omesso per mo­tivi di spazio. Ne sottolineerò alcuni elementi fonda­mentali tra qualche paragrafo.

Ora, pensare che la lettura di questi saggi possa es­sere interessante solo per misurarsi con il pensiero di un “giovane Graeber”, magari teoricamente immatu­ro rispetto a quello dei lavori successivi, sarebbe un er­rore. Questi saggi non sono solo magnifici esempi di un’eleganza argomentativa rara, le cui tesi sono estre­mamente rilevanti in sé stesse, ma sono interessanti anche perché le domande a cui si cerca di dare rispo­sta, nonché il tipo d’approccio con cui queste risposte vengono ricercate, costituiscono le fondamenta teorico-antropologiche di gran parte della sua opera suc­cessiva – compresa quella più direttamente politica e divulgativa, per la quale è noto ai più. Indagare le ori­gini dell’attuale predicament (letteralmente “brutta si­tuazione”, che nel titolo abbiamo deciso di tradurre, un po’ liberamente, come “rovina”) non è lo scopo unicamente di questo volume: questi saggi costituisco­no il perno intorno a cui ruoterà gran parte del resto dell’opera di Graeber: ovvero, lo studio delle origini della rovina attuale al fine di rivelare alternative possibili[2]. Il che è poi, per l’autore, l’essenza dell’antropo­logia.

C’è un altro cardine, forse ancor più profondo, che tiene questi saggi insieme al resto dell’opera di Grae­ber: la dimostrazione – come ha scritto in Burocrazia (2016) che “la verità ultima e nascosta del mondo è che è qualcosa che noi creiamo e che potremmo facil­mente creare in modo diverso”. Questa frase, come cercherò di illustrare, è più profonda di quanto possa apparire, e credo riassuma, più di ogni altra, il progetto intellettuale e politico di Graeber. Come ha scritto lui stesso in una breve autobiografia, il suo lavoro: “… ha esplorato la relazione tra l’antropologia come ricerca intellettuale e i tentativi pratici di creare una società li­bera; libera, almeno, dal capitalismo, dal patriarcato e dalle burocrazie statali coercitive” [3].

Alla ricerca di una pratica intellettuale rivoluziona­ria e non avanguardista, e di una teoria sociale modella­ta sui processi di democrazia diretta, Graeber ha scrit­to che “un progetto del genere dovrebbe avere due aspetti, o se preferite due momenti: uno etnografico e l’altro utopico, sospesi in costante dialogo” (Frammen­ti di un’antropologia anarchica, 2006). Non è dunque difficile comprendere perché è a partire dall’antropo­logia (al servizio della storia, e viceversa) che è possibile elaborare nuove possibilità. È infatti alle (non) origini del denaro che bisogna guardare per trovare alternati­ve alla violenza del denaro contemporaneo (Debito, 2011), alle (non) origini della disuguaglianza (e dell’a­gricoltura, delle città, dello stato etc.) per ritrovare la possibilità delle libertà (L’alba di tutto, 2022), alle (non) origini della gerarchia, del consumo, della schia­vitù, e dei feticci (questo libro), per capire cosa è inevi­tabile, e fino a che punto, e cosa invece non lo è affatto.

Parlo di “(non) origini” perché Graeber è solito di­mostrare, quasi senza eccezione, che nessuno di questi fenomeni (disuguaglianza, denaro, gerarchia ecc.) ha di per sé un’unica origine, un punto di svolta definitivo e universale, che decapiterebbe le alternative possibili sotto la scure dell’inevitabilità storica. Da qui il tema della riconoscibilità, su cui tornerò tra poco. Il punto su cui vorrei ulteriormente insistere, però, è l’impor­tanza di leggere Graeber su questo doppio piano, di in­dagine antropologica e di trasformazione politica. Cre­do che ogni suo scritto li contenga entrambi. Ma credo anche che, se si volesse operare una forzatura e leggere su questi due livelli l’opera di Graeber nella sua inte­rezza, allora, forse, questi saggi farebbero parte dell’in­dagine antropologica più profonda, che sostiene le sue opere successive. Ripeto, è sicuramente una semplifi­cazione (David stesso amava sottolineare che ogni teo­ria necessita di semplificazioni, valide nella misura in cui si rimanga coscienti del fatto che sono tali), ma cre­do sia proprio da queste prime ricerche che emerge la teoria fondamentale su cui Graeber potrà poi costrui­re, con una certa facilità e capacità di convinzione, le sue tesi politiche e antropologiche più note.

Proverò allora a suggerire, senza alcuna pretesa di esaustività e precisione, e privandoli dei tantissimi riferimenti etno­grafici o bibliografici (che i lettori e le lettrici potranno trovare direttamente nei testi), due elementi teorici che mi sembrano attraversare tanto questi saggi quanto il resto dell’opera di Graeber, rendendoli forse utili chia­vi di lettura.

Il primo, come anticipavo, è quello della riconosci­bilità, o somiglianza. Graeber, infatti, a prescindere dal tema specifico di cui si occupa in un determinato sag­gio (la gerarchia, la produzione, i soldi…) è solito dimo­strare, attraverso lo studio di fonti storiche e antropo­logiche, che i fenomeni in questione sono sempre esistiti, e non sono interamente ineludibili. Ciò che ap­pare del tutto “altro” è invece, il più delle volte, una pratica completamente riconoscibile, simile a una di quelle che svolgiamo ogni giorno. Potrebbe sembrare controintuitivo, ma credo si tratti di un elemento fon­damentale del progetto emancipatorio di Graeber. La gravità del momento presente (la rovina attuale) è data dalle specifiche modalità pervasive e totalitarie che hanno assunto questi fenomeni, in particolare in quan­to percepiti come gli unici possibili, provocando per­ciò una rassegnata accettazione del fatto che non pos­sano in alcun modo essere trasformati, resi innocui o minoritari, se non addirittura ribaltati.

Per Graeber è invece nella ricerca di quanto abbiamo in comune con i nostri antenati, o con le popolazioni indigene di ogni dove, che si possono riscoprire modalità altre, potenzialmente emancipatorie. E questo è possibile, in breve, perché condividiamo la stessa realtà, nella quale, attraverso il valore, creiamo universi. In questo senso è interessante che sia proprio “la minaccia della somiglianza” (si veda il saggio n. 4) ad aver spinto i primi mercanti europei in Africa a confondere l’arbitrarietà del valore con la follia del “feticismo”, o i teorici politici successivi a non cogliere la somiglianza tra feticci e contratti sociali. Certamente quella che ho chiamato riconoscibilità, in antropologia, non è un elemento di grande originalità. Per certi versi, si tratta dell’essenza stessa della disciplina. Ma è sicuramente un tratto che caratterizza l’antropologia di David Graeber più di altre. Infatti, è proprio in risposta al saggio sul feticismo e sulla creatività sociale contenuto in questo volume che Eduardo Viveiros de Castro, noto antropologo e teorico dell’“alterità radicale”, criticò duramente Graeber, dando così il via al famoso dibattito relativo alla “svolta ontologica” in antropologia.

Un altro tema trasversale di questi saggi è senza dubbio la relazione tra materialità e immaterialità: una distinzione – in termini marxiani, tra “infrastruttura materiale” e “sovrastruttura ideologica” – che Graeber considera, di per sé, una forma di idealismo, perché non ci sono idee da cui non derivino processi d’azione e non ci sono processi d’azione possibili senza idee. Se la dicotomia tra materiale e immateriale è illusoria, esiste tuttavia la questione dell’astrazione, dell’elevazione di processi a una sfera altra, trascendente, cristallizzata, identica a se stessa. Innanzitutto, la cristallizzazione di processi in oggetti identici a se stessi è ciò che rende possibile la loro riduzione a proprietà. Graeber, in questo senso, problematizza tanto il concetto di produzione (a cui dedica il terzo saggio) quanto quello di consumo (a cui dedica il secondo), entrambi concetti che, alla luce di quella che Graeber definisce la teoria antropologica del valore, andrebbero interamente ripensati come produzione di persone e di rapporti sociali, essa stessa una produzione materiale di cui la classica produzione di cose non è altro che un momento subordinato. Qui Graeber si inserisce, consapevolmente, nella preesistente e dalla ben più ampia prospettiva critica femminista (in gran parte marxista), che rende visibile il lavoro di cura – svolto da donne nella stragrande maggioranza dei casi – in quanto necessario per mantenere la vita e far funzionare la società, nonché come presupposto per qualsiasi altra forma di produzione. L’originalità di Graeber sta nelle fondamenta antropologiche, storiche, etnografiche e comparate impiegate per costruire queste tesi, nella teoria antropologica del valore a cui fa riferimento, e nel collegamento col nesso tra il modo di produzione schiavista e quello capitalista, che si fondano su un’analoga separazione tra luogo di lavoro e sfera domestica. Sono queste le basi su cui poggiano i suoi successivi lavori sulle “economie umane”, ma anche la sua ricerca sui Bullshit Jobs (2018) e i suoi suggerimenti riguardo alle caring classes (“classi che si prendono cura”).

Tornando al problema dell’astrazione – la creazione di un ente astratto che ha poi un potere su chi l’ha creato – Graeber ne sottolinea in certa misura l’inevitabilità, in quanto presente in qualsiasi processo di creazione di valore e dunque di creatività sociale. Anche nella socie­tà più libera creiamo continuamente regole a cui per­mettiamo di avere potere su di noi. Basti pensare a quando giochiamo, o a quando gli artisti si esprimono sentendosi veicoli di ispirazioni “esterne”. È qui, dun­que, che possiamo scorgere la base teorica della famosa frase, citata precedentemente, riguardo al fatto che creiamo il mondo ogni giorno: lo studio antropologico dei feticci permette di comprendere un ben più ampio raggio d’azione creativa degli esseri umani. I feticci ri­sultano, in vari aspetti, equivalenti ai contratti sociali, ma anche, più in generale, a qualsiasi totalità immagina­ria, possibilità sociale o, appunto, mondo, che esistono solo se tutti si comportano come se essi avessero davve­ro qualità soggettive. La creazione di feticci, e dunque di accordi, contratti, forme sociali, risulta essenzial­mente rivoluzionaria. Ma diventa un problema nel mo­mento in cui il feticcio, da astrazione consapevole, di­venta teologia: quando si perde di vista il fatto che ogni cosa è in realtà in continua costruzione.

E sono questo continuo movimento e questa continua processualità che mettono in dubbio, appunto, la dicotomia tra materiale e immateriale. Il problema, allora, è quando l’astrazione si cristallizza e non se ne riesce più a scorgere il carattere di creazione umana (l’annoso tema dell’alienazione), e può dunque essere usata per giustificare un sistema di dominio. Si tratta sicuramente degli dèi veri e propri, ma anche della teologia materialista della nostra attuale economia (saggio n. 4) o dell’astrazione della forma societaria e del suo rapporto violento con la realtà materiale (saggio n. 3); così come della separazione umana dalle proprie sostanze materiali (si vedano le buone maniere e la logica dell’evitamento, nel primo saggio), dell’uomo autonomo e autosufficiente astratto dal mondo (il modello dell’homo oeconomicus), o dell’illusione di uno stato razionale e disinteressato. Sono infatti tutte queste modalità di astrazione che stanno alla base di qualsiasi forma di gerarchia (si veda il primo saggio) e sfruttamento (si veda il terzo).

Se tutto questo può sembrare eccessivamente com­plicato, esorto il lettore a fare riferimento alle pagine scritte da Graeber stesso. Vi avrà già notato una delle doti più significative di quest’autore: la capacità di tra­smettere concetti complessi in modo semplice ed ele­gante, addirittura avvincente. La mia speranza è che questa traduzione contribuisca a far apprezzare, anche in Italia, la fondamentale argomentazione antropologi­ca e politica di David Graeber. Soprattutto, mi auguro che il suo pensiero possa essere d’aiuto a chi, oggi, non si rassegna alla naturalizzazione del capitalismo, del patriarcato e delle burocrazie statali coercitive, e si de­dica, con caparbietà e giocosità, alla costruzione di un mondo più libero.


[1] Un saggio tratto dalla terza parte, invece, è stato tradotto come Critica della democrazia occidentale (2019).

[2] In particolare: Debito. I primi 5000 anni (2012) e L’ alba di tut­to. Una nuova storia dell’umanità (2022), scritto con David Wen­grow e uscito postumo.

[3] Da https://davidgraeber.org/about-david-graeber/, tradu­zione nostra.

Il tornello dei dileggi

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di Massimo Salvatore Fazio

Il brano che segue è tratto dal romanzo di Massimo Salvatore Fazio “Il tornello dei dileggi”, pubblicato (2021) dall’editore Arkadia, che ringraziamo per la disponibilità

Madrid è anche il flamenco. Olaaa, olaaa. Il cipiglio dello scrittore nichilista non manca. Descrivere il flamenco.
Come il peggiore degli assassini incapace di uccidere e di smacchiarsi del delitto commesso, danzano e urlano i pagliacci che interpretano questa danza, per ricordar, della natia terra, i venditori al mercato di piazza Carlo Alberto, chiamato dagli autoctoni A Fera ’O Luni (La fiera del lunedì).
Urlano puttane vecchie, cadenti a inventar di danze tradizionali quasi a vendere le calze o merce americana. E tutt’intorno si emoziona la platea tradita. Convinta di un’arte fallita, portata in auge da bipedi orripilanti. Dopo il primo round dell’urlo e quattro minuti per rabbuiarsi e chiedersi cosa si fa a uno spettacolo di flamenco, tornano i conigli vestiti di nero a recitar melodrammi che anche il peggior emulo di Mario Merola omicidierebbe.
È la Spagna signori.
Entra con il suo culetto che sembra una pigna, rasato in testa, simile a una palla da tavolo di carambola, il ballerino che rumoreggia sui tacchi.
Olééé, olééé come il venditore di indumenti intimi al mercato, Fera ’O Luni, di Catania: «Calze e mutande tre euro tre paiaaa.» Olééé
Il toro servito al piatto dell’impresario che al ritorno in Italia racconterà prima d’una corrida e poi di tacchi e urla da mercato di poveri che lui detesta all’uscita di banca. Porco.

***

Orrenda Spagna dal caos mattutino a quello pagato urlante. Olà. Chissà come stanno Michele e Martina, lui comunista convinto e diretto, lei maestra di Spagna che adora e ammira.
Solo alle due del mattino, con i dovuti ringraziamenti, il taxi riaccompagnerà Paolo e Giovanna in albergo.
Giunti in stanza, a lui, non casualmente, cade l’occhio sul cellulare, c’è un nuovo sms, è di Adriana che in qualche modo, dandosi della “frullata” per non dichiararsi matta, chiede di lasciar stare quel che ha scritto nell’e-mail precedente.
Olé. Il flamenco ha portato bene.
È stanco Paolo, dorme e a sprazzi si risveglia. In una di queste fasi ha sognato e nello stesso sogno prospetta che qualche cambiamento è sopraggiunto, dove forte si imporrà la persona. Ha coraggio. Non è fuori dai luoghi. Tutt’altro. Si eleva a novus. Atto in atto. Forza in forza. Trasformati dove vuoi, con chi vuoi, ma trasforma le presenze, gli indugi e le tensioni. Ci sono altre vite qui. E mancano. Se non ti trasformi, resisti e vivi. E se resisti e vivi non è detto che non anneghi. E se anneghi, di fattori liquidi ne escono pure dall’anticamera del basso bacino, ed è normale come quando passeggi in una qualunque città e sui muri stanno scritte e stanno sempre stampati i soliti simboli. Falce e martello e svastiche o croci celtiche. Se si rimane fermi, immobili, nel non cambiamento, si è fottuti. Agire. Muoversi. Su altri fronti. Subito. Ecco cosa. Ecco.
Entra ed esce senza armonia. Mancando pur di rispetto, ma liberatosi.
Pensa. È questo uno dei nuovi mutamenti, Adriana. Te lo consegno. E via. E anche Gesù Cristo, non c’è da prendermi in giro, sia salvato, che ci salvi. In Spagna o altrove. Ma lo si salvi.

***

Come belve impazzite che però vogliono nascondere il dolore causato dalla fine di un dominio, gli uomini che perdono il controllo sul proprio simile, sottoposto alle loro fittizie verità e reali manipolazioni, perdono, appunto e nuovamente, il controllo e, con il dileggiare più tragico e le risate elaborate solo dal piccolo orticello delle proprie figure inutili che stanno intorno come api nel punto centrale di un fiore che non producono nulla, si scagliano ubriachi, alla stregua di allegorici falsi profeti. Inetti, innanzi alle loro compagne che rimangono inermi e atterrite al solo vedere cosa sta accadendo. E loro, ominuccoli senza ritegno, avanzano nello spergiuro.
La sconfitta autoinflittasi, come tutta la cocaina assunta che spinge a giustificare accoppiamenti multipli senza che vi sia necessità di aprire le porte della percezione, proprio come il cocainomane che necessita di forza esterna ed è tollerato da falsi intellettuali nel compiere qualsivoglia azione di superamento. Se la medesima forza, però, viene elaborata da chi non assume nulla, lo si additerà come matto, minchiataro, spara balle. Ma, inesorabile, si impone il successo di quest’ultimo e, disgraziatamente per i falsi intellettuali, non si può far a meno di non riconoscerlo. Quello è il momento in cui crollano le loro inutilerie. Pessima roba per pessime menti che non vogliono osare nei cambiamenti.

 

Peninsulario

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di Marino Magliani

Oltre Sorba, nascosto nella campagna perché raggiungere la città in quel buio era impossibile, Secondo attese l’alba. Giunse a casa verso mezzogiorno, stanco, accaldato, perché più di una volta aveva perso la strada, come all’andata. Era rimasto senza acqua e cibo, e attraversando il paese di Sant’Agata s’era attaccato al rubinetto di una fontana e s’era lavato la faccia e la testa, come a cancellare di dosso tutte le cose che aveva visto.
Adele era in casa, si mise la mano davanti alla bocca, disse che aveva chiamato la polizia, e U – era già in casa anche lui – dapprima s’era detto contrario, disse Adele, ma lei aveva dato lo stesso l’allarme. Secondo si accorse che, per questo fatto di non avergli ubbidito, U l’aveva rimproverata e ora lei tremava ancora, scaricando i nervi su Secondo.
«La colpa è tua».
«Mia?».
«Certo. Ti ho dato per morto, suicida, ti stanno cercando sul molo e nei torrenti. Dov’eri?».
Secondo non glielo disse (si liberò della mano di U che lo teneva per il braccio e gli aveva chiesto le stesse cose: «Dov’eri, scemo? Eravamo a ficcare il naso?»), andò nella stanza delle canne da pesca e sentì che di là bisticciavano di nuovo. Poi lei, sempre su ordine di U, aveva richiamato la polizia e dato notizia del ritrovamento. Secondo a queste cose non badava più, era molto stanco, aveva fatto spazio in quel disordine e si era sdraiato sul vecchio divano, corto e cigolante. Ma non dormì, teneva gli occhi sbarrati rivolti alla finestra che mostrava una rama di palma e un po’ più in su, malgrado fosse giorno, una grande luna bianca.
Forse alla fine riposò e quando tornò alla finestra c’era solo la rama della palma e a Secondo venne nostalgia della luna.
Uscì dalla camera, guardato in cagnesco da Adele, e scese dal professor Filipponi. Mise la faccia tra le assi del cancello e si aggiustò la voce. «Filippo, lo so che ci sei, non farti pregare».
«Ieri ti cercava la polizia. Volevano entrare pure qui da me…», disse Filipponi piuttosto allarmato.
«Lascia perdere la polizia. Ti ricordi quando ti ho detto che erano d’accordo, che l’idea di piazzare guanti dappertutto era per farmi diventare matto come sono in effetti diventato, e poi farmi interna re e prendersi casa e garage, tutto? È lui, è la strategia di Cuculo… Ora ne sono certo, sai, è proprio così, ma io resisto».
«Basta che non ne ricombini qualcuna che la poli zia voglia di nuovo entrare a cercarti qui».
E così fu, Secondo resistette un buon mese, in quelle stanze piene di canne da pesca, dove viveva ormai da confinato. Mangiava pane e frutta che rubava negli orti, ma faceva presto a tornare a casa perché temevano cambiassero la serratura.
La sera guardava la luna, e sentiva la nostalgia di altre cose, del passato e del futuro. Quando non giravano per la casa (se non sentiva la musica, voleva dire che U non c’era) usciva dalla camera, se ne stava un po’ in sala e magari accendeva la tv.
Una volta che stranamente U non aveva messo musica, accostando l’orecchio al muro e sentendoli parlare, per la prima volta Secondo sentì la parola «comunità». Il discorso era durato un po’ e l’avevano menzionata entrambi più di una volta. E questa cosa lo preoccupò. Comunità? Era certo l’avessero fatto apposta, di modo che quella parola penetrasse tra le mura della casa. Andare a vivere in comunità? Sarebbero arrivati a tanto? L’avrebbero portato in uno di quei posti che sono l’ultimo angolo della vita? E lui, avrebbe accettato, e del resto, quanto poteva resistere ancora in quello stato?

 

NdR Questo frammento fa parte dell’ultimo dei cinque racconti (“Il cuculo”) che compongono la raccolta di Marino Magliani “Peninsulario”, con prefazione di Filippo Tuena, pubblicata di recente da Italo Svevo.

Il Mondo è Queer. Festival dei Diritti

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Crimes of the future, di David Cronenberg

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di Mauro Baldrati

A  settantanove anni il vecchio maestro ha ideato, scritto e diretto un altro film durissimo, estremo, inquietante. L’estetica radicale non fa sconti, non si piega alle esigenze dello spettatore. L’ha detto lui stesso, in un’intervista relativa a Crash, il film del 1996 tratto dal romanzo di Ballard: «Se ci si preoccupasse delle reazioni del pubblico si sarebbe completamente paralizzati, perché si sa che qualunque sia la direzione presa si verrà criticati e che alcuni saranno delusi. Se si pensasse allo spettatore-tipo e alle sue attese sarebbe la morte di ogni creatività.» Era controcorrente, e lo è ancora, coraggioso e solitario. In effetti oggi il concetto da lui aborrito sembra diventato legge. Tutti corrono dietro ai cosiddetti gusti dello spettatore-tipo. La politica soprattutto, ha sepolto per sempre ogni ideale di guida per compiacere la pancia “bassa” degli elettori. Ma Cronemberg rimane sé stesso, uno dei sopravvissuti nella Zona Morta (1983, tratto da Stephen King). Questo film, che come al solito ha causato reazioni opposte a Venezia, dove una parte del pubblico è uscito disgustato dalla sala, mentre l’altra ha applaudito al capolavoro, sembra quasi un testamento. Raccoglie tante suggestioni che hanno creato il suo “brand”: il tempo futuro di un mondo morto, o morente, rappresentato con luci livide, atmosfere cupe, dove le emozioni umane, che non possono morire se non muore il corpo, sono mutate, contaminate con la follia lucida e rassegnata della “morte felice” della civiltà. E il corpo, quasi un’ossessione, coi suoi bisogni, il sesso, il desiderio, la commozione, muta a sua volta, fondendosi con sostanze estranee o pezzi di macchina (e qui il capostipite è il capolavoro La mosca, 1986). Il corpo, questa entità melanconica, violentata, dove si introducono le peggiori schifezze, barrette-merendine di plastica e rifiuti, o la polvere insetticida nel magnifico Il pasto nudo (1991, tratto dall’omonimo romanzo di Burroughs). I personaggi sono oscuri, poco o per nulla empatici, e tanto meno patinati. In questo film sono vestiti squallidamente, con abiti vecchi e ordinari che ben si confanno con le atmosfere desolate di edifici fatiscenti e abbandonati, coi muri ammuffiti, carcasse di navi coperte di ruggine, rottami, terreni inariditi invasi dalle erbacce. Anche la recitazione (rigorosamente in originale, non entrate se il film è doppiato) è singhiozzante, sofferente, smozzicata. L’inizio non è dei più facili: una madre soffoca col cuscino il figlio di dieci anni, Brecken, sorpreso a mangiare un cestino di plastica, masticando rumorosamente con una sorta di schiuma biancastra che non è l’ideale per uno spettatore con un po’ di “imbarazzo di stomaco”. Infatti una delle mutazioni che verranno alla luce è proprio questa: la capacità di digerire la plastica e i rifiuti tossici. La madre, sconvolta dalla scoperta che il figlioletto è un mutante, non regge al dolore e preferisce ucciderlo. Il cadavere del bambino viene raccolto dal padre (separato dalla moglie), che lo tiene in frigorifero, finché, dopo che ha conosciuto il grande perfomer Saul Tenser, interpretato dall’attore preferito di Cronemberg, Viggo Mortensen, che recita sempre vestito di nero col cappuccio, come la Morte del Settimo Sigillo (Igmar Bergman, 1957), decide di offrirlo per la più grande delle performance: l’autopsia in diretta. E questa è una delle scene più critiche, non sopportabile da tutti gli spettatori: nella sua razzia dei tempi e degli stili il regista ha campionato certi filmati dell’underground splatter e gore con l’esibizione del sangue e degli organi interni, che vengono asportati con dovizia di particolari. Già, perché in quel futuro remoto, l’arte consiste nell’aprire i corpi, infliggere ferite, tagliuzzare le facce, nell’assenza del dolore, che nessuno prova più, e nella scomparsa del sesso tradizionale, sostituito dalla chirurgia senza anestesia. In effetti questa è proprio la specialità del famoso Saul Tenser. Anche lui è un mutante, la sua specialità è produrre nuovi organi, spesso tumorali, che vengono asportati in vivisezione. Il pubblico, rapito, guarda, fotografa, filma. Gli spettatori desideranti si eccitano eroticamente, sognano di essere al suo posto, come Timlin, impersonata dall’attrice Kristen Stewart (che abbiamo visto in una straordinaria performance attoriale in Spencer), che è attratta morbosamente da Tenser. In uno sbocco di erotismo quasi classico gli rivela il suo desiderio di essere “aperta”. Tenser ha addirittura una cerniera nell’addome, che permette alla sua compagna d’arte, Caprice, di praticare il sesso orale leccando e succhiando gli organi interni. Nella sua ricognizione degli stili e dei generi che hanno caratterizzato la sua produzione, non poteva mancare una componente thriller, di cui Cronemberg si è dimostrato un maestro, nei due fortissimi A history of violence (2005) e La promessa dell’assassino (2007): Tenser è anche un infiltrato nella setta degli evoluzionisti mangiatori di plastica, che hanno accettato la mutazione del tempo, dei corpi e dello spazio, addirittura modificando il proprio sistema digerente, in nome della modernità che consiste nel consumare gli stessi rifiuti che l’umanità produce. Una non meglio precisata forza dell’ordine indaga sulle mutazioni e sulla produzione di nuovi organi, e Tenser ne è l’informatore. Non mancano due omicidi, per una faccenda di trapianti abusivi di organi, di un chirurgo plastico e del padre del bambino Brecken, che fugge dal teatro dopo l’autopsia, inseguito da due killer che gli bucano il cranio con due trapani. Tenser è una figura inquietante, produce ansia, sempre mascherato da Morte, sofferente per un problema respiratorio e uno digestivo, per cui è costretto a mangiare su una sedia speciale fatta di ossa umane, che immediatamente evoca le opere del pittore svizzero HR Giger, creatore delle immortali scenografia di Alien. E’ fiancheggiato da due donne belle e seducenti, le già citate Timlin, e Caprice, interpretata da Léa Seidux, che si sottopone a un intervento di “chirurgia estetica” che le provoca degli orrendi bitorzole sulla fronte, e questa, perdio, è una trovata che proprio non possiamo perdonare a David Cronemberg.

Morire, un anno dopo

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di Rebecca Molea

Mi sono chiesta a lungo cosa sarebbe successo: come avrei reagito alla notizia – piangendo? con sollievo? –, come sarebbe stato il dopo – un senso di solitudine perpetua o, a un certo punto, un’abitudine? – e, sopra ogni altra cosa, che significato avrebbe avuto, per me, per noi, per tutti, la morte. La morte in generale e quella morte: la morte della persona che avevo amato più di ogni altra.

La prima volta che ho preso in mano L’anno del pensiero magico di Joan Didion era il ventuno settembre, una data che da un anno ha i contorni dell’indistinto. Il ventuno è, insieme, venti e ventidue: il giorno in cui è successo, in cui ho saputo, e quelli dopo, nei quali la mia consapevolezza è diventata consapevolezza condivisa, rituale – i canti, le preghiere, la maschera del dolore sul viso; l’intimità della perdita e il racconto di ciò che eravamo stati offerti agli altri in dono per avere, in cambio, un vago senso di pacificazione interiore. In quel ventuno settembre la morte era ancora un pensiero astratto: sapevo – perché avevo sentito mia sorella piangere a telefono – che alla fine era successo, che il momento era venuto, ma quel sapere si esauriva lì, nello spazio della mente, come un assioma che non richiedeva presa di coscienza o partecipazione emotiva. Avevo fatto le valigie in uno stato di alienazione, muovendomi precipitosamente tra la mia stanza, il corridoio, la farmacia, il supermercato. Immaginavo che a un certo punto avrei sentito qualcosa – avrei dovuto sentire qualcosa – e volevo farmi trovare pronta. Mi dicevo: crescere è anche questo, trovarsi a più di mille km di distanza quando arriva la notizia e riuscire a badare alla propria sopravvivenza. Quando avevo messo L’anno del pensiero magico nello zaino credevo che sarebbe servito allo stesso scopo: aiutarmi nel processo. Il lutto di Joan Didion mi avrebbe guidata attraverso ogni fase, come era accaduto, con altri libri, durante tutti i momenti importanti della mia vita. Desideravo essere equipaggiata al meglio per quell’evento a cui mi preparavo da cinque anni, perché sapevo che era arrivato il momento di dare una risposta alle domande che mi avevano tolto il sonno, quando la morte era ancora un’incognita da osservare a distanza.

Quel ventuno settembre non ho letto L’anno del pensiero magico, né l’ho fatto nei giorni successivi. Ci ho provato tre volte, finché l’incipit, con la sua assolutezza di epigrafe, ha iniziato a suonarmi familiare: «La vita cambia in fretta. La vita cambia in un istante. Una sera ti metti a tavola e la vita che conoscevi è finita. Il problema dell’autocommiserazione». Dopo dieci pagine, però, puntualmente mi fermavo. La morte che stavo affrontando era così diversa da quella che raccontava Didion da apparirmi comunque indecifrabile. Non aveva avuto, come quella, il senso di uno scoppio imprevedibile: in un certo senso, la mia era stata pianificata, aspettata da anni, intuita con rassegnazione in ogni degrado fisico, nella progressiva sparizione delle parole, negli sguardi che man mano si facevano bassi e lontani. Certo: anche la mia vita, come la sua, era cambiata in un istante, ma l’effetto di quel mutamento si sarebbe palesato solo nel tempo, a distanza di mesi, ogni volta che avrei preso un treno per tornare a casa consapevole di non aver più alcun motivo per prolungare la vacanza (negli anni la risposta che davo ai miei amici quando si lamentavano delle mie partenze era sempre la stessa: non so quanto ci rimane, non voglio avere rimpianti). Quel settembre del 2021 le due esperienze mi apparivano inconciliabili: ogni morte – realizzavo in quel momento – aveva forma propria, carichi emotivi a sé stanti, e non avrei mai letto o ascoltato o guardato abbastanza per sentirmi pronta, per capirci qualcosa, per strappare a quell’esperienza tanto priva di senso un’intuizione che potesse offrirmene, anche solo vagamente, uno.

Eppure.

Eppure, alla fine, ho letto L’anno del pensiero magico. Erano passati quasi dieci mesi dal ventuno settembre; avevo preso un treno – un altro – ed ero tornata a casa per le vacanze, non so dire se con senso di aspettativa o preoccupazione. Sarebbe stata la prima estate senza, la prima di tutte quelle che avrei vissuto negli anni (il dopo ha acquisito spesso, nel tempo, la forma di una sottrazione, di una particella privativa ribadita per ogni esperienza presente); ma soprattutto sarebbe stata la prima estate del ricordo, in cui – credevo – quell’assenza avrebbe potuto rendersi concreta giorno dopo giorno, mentre ripassavo mentalmente le coincidenze, gli anniversari: il primo ricovero, la telefonata del medico, mamma che piangeva, quella frase obbrobriosa che spesso avrei rigirato nella mente – mi dispiace rovinarvi la vacanza di ferragosto, ma dobbiamo operarlo subito –, e poi i tamponi, le guide in uno stato di apnea, la corsa per vederlo prima che fosse troppo tardi, gli attacchi di panico delle persone a cui volevo bene (loro riuscivano a provare emozioni, io no: mi chiedevo perché), il senso di rassegnazione, i pugni di mio fratello al muro, poi la notizia insperata, l’apparente miracolo, il calvario successivo, il letto su cui giaceva quel corpo che si sarebbe lentamente spento con una richiesta taciuta negli occhi. Ecco, leggevo L’anno del pensiero magico mentre aspettavo l’inondamento della memoria – e leggevo in una sorta di rito, di commemorazione silenziosa preventiva, come se la morte del marito di Didion, John, potesse offrirmi un percorso già calcato sul quale poggiare i piedi mentre procedevo, titubante, attraverso quei giorni di incertezza. Quel libro rappresentava ciò che io non ero riuscita a fare per mesi: l’elaborazione del lutto, la presa di coscienza, la ricognizione precisa di tutto ciò che era successo dal giorno della morte all’anno successivo. Joan Didion aveva scritto quel memoir con una lucidità che riconoscevo, ma che prima non avrei capito: il distacco del medico che incide la carne per estrarne i ricordi e dissezionarli, in uno sforzo di comprensione che è anche un tentativo di disarmo.

John era morto la sera di Natale per un infarto fulminante, mentre era seduto su una poltrona su cui riposava dopo la consueta visita in ospedale alla figlia in coma. A Didion inizialmente era sembrato uno scherzo (l’incomprensibilità della morte che si traduce in irrealtà); poi era arrivata la consapevolezza, il senso di allarme, la fuga precipitosa verso il frigo, dove si trovano i numeri d’emergenza che aveva appuntato in caso di necessità altrui (l’impossibilità di pensare al dolore come qualcosa che un giorno ci riguarderà da vicino; l’illusione di rimanere per sempre in una posizione di spettatore del dramma). I momenti successivi sono confusi: Didion li ricostruisce a partire dalle testimonianze o dai racconti che gli altri le faranno di quella sera: «Non ricordo di aver parlato dei particolari con nessuno, ma devo averlo fatto, perché tutti sembravano conoscerli […] sapevo che la storia veniva da me [perché] nessuna delle versioni che sentivo comprendeva i particolari che non riuscivo ancora ad affrontare». La scrittura è un mezzo d’approssimazione imperfetto alla verità, al grumo doloroso altrimenti inavvicinabile: «Questo è il mio tentativo di raccapezzarmi nel periodo che seguì, settimane e poi mesi che cambiarono ogni idea preconcetta che io avessi mai avuto sulla morte, sulla malattia, sul calcolo delle probabilità, sulla fortuna e sulla sfortuna, sul matrimonio e sui figli e sulla memoria, sul dolore, sui modi in cui la gente affronta o non affronta il fatto che la vita finisce, sulla fragilità dell’equilibrio mentale, sulla vita stessa». Per capire il lutto, Didion deve scomporlo: deve partire da quella sera – da cosa è successo davvero, clinicamente, nel corpo di John, in quel momento in cui tutto si è fermato e poi dopo, quando gli infermieri tentavano di rianimarlo – e attraversare tutto quello che ne è seguito: l’orrore, la stasi obbligata, il disorientamento e poi le alterazioni, le insensatezze, l’impossibilità di abitare qualsiasi luogo che le ricordasse, in qualche dettaglio, lui.

Inizia, così, l’anno del pensiero magico.

Nei lunghi mesi che hanno seguito quel ventuno settembre – mi ostino, ancora, a parlare di ventuno: forse perché è stato quello, per me, il giorno della consapevolezza; il momento in cui ho abbracciato il corpo morto di mio nonno è il primo in cui ho avvertito, in qualche modo, che qualcosa se n’era andato per sempre – mi sono spesso trovata a chiedermi se il modo in cui stavo affrontando il lutto fosse normale. Avevo messo in atto un processo di rimozione: non negavo che l’evento fosse avvenuto, ma allo stesso modo non credevo che fosse davvero accaduto nel presente, nel mio presente. Ero convinta, in qualche modo, di aver vissuto un tempo alternativo, uno spazio alternativo, in cui sapevo di aver fatto delle cose perché me le ero viste fare. Riesco ancora, per esempio, a rappresentarmi nella mente il momento in cui ho salito uno ad uno i gradini della chiesa, e poi quello in cui ho letto ad alta voce delle parole che nessuno avrebbe mai davvero capito (nessuno se non lui, che un anno prima, quando tutti lo credevano incapace di comprendere appieno ciò che gli succedeva attorno, si era fatto forza per alzarsi dal divano e abbracciarmi, con gli occhi lucidi, perché invece aveva capito, aveva capito tutto di quello che gli stavo dicendo, di quanto avessi sempre cercato di renderlo orgoglioso per ciò che stavo facendo, quasi fosse un risarcimento per quella lontananza obbligata, per la vita – la sua – che intanto mi stavo perdendo). Ricordo i pranzi successivi, le colazioni, i vassoi che ci avevano preparato per non farci sentire soli o abbandonati. Ma è come se tutto ciò aleggiasse in uno stato di sospensione pari a quello di un sogno, di un film visto e rivisto; ed è lo stesso ogni volta che cerco di ricordarmi – mi impongo di ricordare – che tutto quello che oggi sto scrivendo è avvenuto davvero, è avvenuto a me, a noi: noi che, come Joan, avevamo illusoriamente creduto di poter ritardare quel momento fino all’infinito, e viverlo sempre da fuori, da esterni. Per mesi mi sono sforzata di piangere questa assenza che mi sembrava fittizia, e per mesi non ci sono riuscita, se non in rari momenti in cui la consapevolezza mi colpiva come un incidente imprevisto: con la forza di una piena inarrestabile, che risaliva le viscere e arrivava direttamente alla gola, agli occhi, ai polmoni che soffocavano. In certi frangenti non riuscivano a bastarmi neanche i segni più evidenti della scomparsa – come quando avevamo raccolto le scatole sulle scale, la sedia a rotelle, le medicine e i pannoloni per consegnarli a chi avrebbe dovuto averne bisogno: non capivo perché lo facessimo, così come avvertivo fuori luogo, profondamente sbagliato, il fatto che qualcuno volesse cedere i suoi vestiti. Mi chiedevo: perché? Perché farlo ora, perché non aspettare, perché non tenerli nel caso in cui possano servire. Non mi sono mai chiesta: servire a cosa?; non avevo un’idea chiara rispetto al modo in cui quei due mondi alternativi tra i quali mi tenevo in equilibrio si sarebbero un giorno sovrapposti. Tacitavo gli stessi pensieri che, avrei scoperto mesi dopo, impedivano a Joan Didion di dare via i vestiti del marito: «Come poteva tornare indietro, John, se gli toglievano gli organi, come poteva tornare indietro se non aveva le scarpe?».

La morte mi è sempre parsa un’eventualità impossibile da afferrare cognitivamente, e oggi mi rendo conto che è esattamente così, almeno per me: non importa che l’abbia attraversata, che l’abbia sentita sulla pelle (per anni ho creduto che non avrei mai sfiorato il corpo freddo di un morto: mi sembrava una cosa da horror, impossibile da superare; oggi so che nel gelo di una camera mortuaria quella sensazione è impercettibile, e sono altri i segni della tragedia: il bastoncino che regge il mento, la posa innaturale, i vestiti impeccabili); non ho realizzato la morte di mio nonno così come non avevo realizzato, un anno prima, la morte del padre della mia più cara amica. Non riesco a capire in che senso, un giorno, la vita possa finire, e per lo stesso motivo non sono riuscita a piangere questa scomparsa come avrei voluto. Ho taciuto per un anno intero l’impossibilità del cordoglio, perché mi sembrava vergognosa, stonata, la mia reazione all’evento: come potevo continuare a vivere come se non fosse accaduto niente, come potevo continuare a vivere mentre lui non viveva più; come osavo trattenere il dolore – eliminarlo, sopprimerlo – di fronte alla sua scomparsa? Non era, il mio lutto, un dono votivo obbligato? Una sorta di dimostrazione del mio amore infinito, assoluto, per lui? Com’era possibile che il pensiero della sua assenza non mi togliesse il sonno, la notte; che mia madre soffrisse nel presente quel dolore e io non riuscissi a fare altro che proiettarlo in un tempo lontano, distante, irreale? Ci sono voluti dieci mesi per ottenere una risposta a queste domande inespresse. È stato necessario imbattermi in questa frase che aveva scritto Joan Didion nello stesso libro di cui sto scrivendo: «Perché continuavo a chiedermi insistentemente cos’era normale e cosa non lo era, quando non c’era nulla di normale?». La morte non ha nulla di normale: è una deviazione del percorso, una possibilità che non ci riguarderà mai davvero in prima persona, per lo meno fino a quando potremo scriverne. E non c’è niente di sbagliato, quindi, nell’elaborazione del lutto, che a volte ha il senso di un’illuminazione epifanica e altre di una consapevolezza latente: niente di tutto ciò che affronteremo in questa esperienza è normale, né mai potrà esserlo.

Se dovessi scegliere due pagine, soltanto due, di L’anno del pensiero magico, non avrei dubbi. Sono quelle che cominciano così: «Il dolore risulta essere un posto che nessuno conosce finché non ci arriva. Noi ci aspettiamo (sappiamo) che qualcuno che ci è vicino potrebbe morire, ma non spingiamo lo sguardo oltre i pochi giorni o le poche settimane che seguono da presso questa morte immaginata. […] Ci potremmo aspettare, se la morte è improvvisa, di avere uno choc. Non ci aspettiamo che questo choc sia obliterante, disarticolante per il corpo e per la mente. Ci potremmo aspettare di essere prostrati, inconsolabili, sconvolti dalla perdita. Non ci aspettiamo di impazzire, di impazzire letteralmente, di diventare ossi duri, convinti che il marito stia per tornare indietro e che abbia bisogno delle scarpe. Nella versione del dolore che immaginiamo, il modello sarà “la guarigione”. […] Quando pensiamo al funerale ci chiediamo se “ce la faremo ad arrivare alla fine”, se saremo all’altezza, se mostreremo la “forza” che invariabilmente viene indicata come la corretta reazione alla morte. Si pensa che dovremo temprarci per l’occasione: sarò capace di ricevere la gente, sarò capace di lasciare la scena, sarò capace, quel giorno, anche solo di vestirmi? Non abbiamo modo di sapere che il problema non sarà questo. Non abbiamo modo di sapere che lo stesso funerale sarà anodino, una sorta di narcotica regressione in cui ci affidiamo alle cure degli altri e siamo completamente assorbiti dalla gravità e dal significato dell’occasione. Né possiamo conoscere prima del fatto (ed è questo il cuore della differenza tra il dolore come lo immaginiamo e il dolore com’è) l’interminabile assenza successiva, il vuoto, l’esatto contrario del significato, l’inesorabile successione dei momenti in cui ci troveremo ad affrontare l’esperienza della mancanza stessa di significato». Non avrei saputo raccontare meglio l’esperienza della morte: il biancore dell’inconsistenza, la cecità della luce, l’assoluta insignificanza di ogni cosa. Siamo portati a cercare un riscatto nelle nostre esperienze umane: qualcosa che gli dia valore, senso, che sappia trascenderle e dargli forma compiuta. Ma la morte non ha alcun significato, anzi: è l’orizzonte su cui la possibilità del significato si infrange per sempre. Mi sono resa conto, leggendo queste pagine, che non so affrontare il lutto non perché non ne sia potenzialmente capace, ma perché non esiste davvero alcun mezzo per venirvi a patti, almeno in questa vita. E io ho solo questa vita, ora: ho questa fila interminabile di giorni in cui questa assenza sarà più o meno presente, più o meno pesante; questa lunghissima serie di momenti in cui dovrò replicare il rito composto del lutto per ogni esperienza che, al contrario, non potrò più replicare (ancora l’esperienza della sottrazione – della negazione obbligata). Non esiste alcun modello di guarigione, se non nel racconto che continuiamo a farci ogni giorno della morte – perché non si tratta di una malattia, ma di un’amputazione irreversibile: una contraddizione logica a cui non ci si può arrendere, se non aggrappandosi all’idea che in qualche modo, poi, ce la si fa, si sopravvive. Ed è vero, si sopravvive, ma la sopravvivenza è solo abitudine: rimozione di ciò che sarebbe un carico insopportabile da portare addosso nella vita di ogni giorno per ricreare l’apparenza di una qualche, vaga, sensazione di vivibilità; dimenticanza, come quella che mi sono rimproverata per mesi, o capacità di convivere con il dolore fintantoché non diventa inoffensivo, addomesticato, familiare; rassegnazione, infine, alla mancanza di significato, interrotta di tanto in tanto da un nuovo ostinato tentativo di fornirgliene uno.

Ho pensato a lungo a cosa resti, alla fine, di tutto ciò che siamo stati. Dopo l’estenuante malattia di mio nonno ho difficoltà a ricordarlo in situazioni diverse da quelle in cui l’ho visto negli ultimi istanti: il letto in quella stanza fredda, le ossa sporgenti, i lamenti – insopportabili – che avevano sostituito il linguaggio verbale, il viso stanco, inespressivo. In questi giorni d’estate mi è impossibile mantenere il calmo distacco dei mesi precedenti. È come se fosse di nuovo tutto vivido, di fronte a me, pronto ad accadere di nuovo; eppure è tutto già accaduto, per sempre, compiutamente, e non c’è modo – se non ora, in queste righe che stanno acquisendo il significato di un rito catartico – di riportarmi indietro nel tempo e rivivere tutto, per trattenere qualcosa che mi è sfuggito, per stringere ancora, un’ultima volta, quella mano liscia, perfettamente circolare, che anche nei momenti di maggiore debolezza riusciva a compiere lo sforzo di un’ultima stretta d’affetto. Nelle ultime pagine del suo memoir, Joan Didion scrive qualcosa che mi ha colpito con la forza di una rivelazione: «Siamo esseri umani imperfetti, consapevoli di quella mortalità anche quando la respingiamo, traditi proprio dalla nostra complessità, e così schizzati che quando piangiamo chi abbiamo perduto piangiamo anche, nel bene e nel male, noi stessi. Come eravamo. Come non siamo più. Come un giorno non saremo affatto». Nel mio anno del pensiero magico l’impossibilità del pianto è stato rifiuto dell’accettazione. Inconsapevolmente devo aver creduto che se non avessi messo in scena il lutto ne avrei negato l’evidenza: lui sarebbe tornato, in qualche modo, in qualche universo; questa era solo una parentesi momentanea – un’attesa. E nel profondo chi non volevo piangere non era lui, ma noi, la me che esisteva solo e soltanto con lui, il senso di calore dell’abbraccio, la necessità della cura che era, al tempo stesso, agita e subita, quasi che potessi sentirmi protetta da lui mentre lo proteggevo. Cosa mi sarebbe rimasto se avessi accettato, invece, che tutto ciò era perso per sempre, che non ci sarebbe stato un futuro possibile, un ritorno, ma solo una nuova realtà retta sui senza e i non più?

Allo scadere di questo anno di ragionamenti ossessivi credo di aver capito che non c’è soluzione a ciò che si prova, in una direzione o nell’altra, e che in fondo non mi rassegnerò mai a questa impossibilità logica, perché è il mio modo per tenermi in piedi. Ma devo a Joan Didion l’aver raggiunto questa consapevolezza: al suo anno del pensiero magico che, in un qualche modo, ha innescato anche il mio.

L’esperienza della morte si regge su due poli inconciliabili: è unica e, allo stesso tempo, universale. È per questo che è difficile comunicarla, perché il linguaggio resiste alle contraddizioni. Ho sempre creduto, però, che la letteratura abbia il potere straordinario di legarci a partire dalle nostre alterità: ci riconosciamo nonostante la percezione delle differenze, nei punti di contatto che ci fanno sentire parte di qualcosa o, come direbbe Fitzgerald, «meno soli». L’anno del pensiero magico è un magnifico esempio di questo potere, perché Joan Didion non ha alcuna ambizione di offrire un ritratto assoluto della morte, ma racconta la propria irriducibile, singolare, esperienza – ed è da lì, da quel nucleo doloroso, incomprensibile, ma così limpidamente autentico, che si genera la possibilità del legame, della cura. Dal riconoscimento di una simile impossibilità umana: quella di venire a patti con l’esperienza della morte. Leopardi una volta ha scritto che le opere di genio «non trattando né rappresentando altro che la morte, le rendono, almeno momentaneamente, quella vita che aveva perduta»: ecco, se dovessi raccontare in una frase L’anno del pensiero magico userei queste stesse, esatte, parole.

les nouveaux réalistes: Francesca Perinelli

10

Accesso negato

di

Francesca Perinelli

i.               frontale

c’è questa pletora di questa, questa qui, di sé medesima, esattamente questa, in questo luogo e in ogni luogo altrove, adesso proprio ora in questo tempo c’è questa sovrabbondanza e quantità eccessiva, quest’eccedenza, enormità ed eccesso, di ridondanza colta nella flagranza d’un ascesso di pura esuberanza, apneico pieno, estremo pigiato e gonfio, un nugolo, un fottìo tronfio, un subisso, un mucchio, un insufflato gheriglio, contorto groviglio e turgida valanga, gommosa e satura, che sfianca, raccolto generoso di tutte le valanghe, foce di una fiumana espansa, incomprimibile, torrenziale, esponenziale e tanta, e debordante, e tracimante, infettivante frotta, marea poliglotta, precipitosa, insana, dolorosa, vanesia e vana, e soffocante, esacerbante, e irrispettosa, e offensiva, e poi cattiva, e tempestosa, e ancora, a iosa, infame scroscio di inutili favelle di ogni foggia, versate sulla testa a pioggia in piena ebollizione, che irrompe e cozza e scotta, e schizza e marchia a fuoco:

 

(volevo consultare il mio pensiero

per un poco

ci ho provato

ma per me)

: accesso negato

 

ii.             struttura

senza uno schema ferma alla fermata dello schermo scherzo con scherni e cambi di vocale e consonante

te ne avrei date tante e sante e giuste giusto per mantenere viva qualche rima

ma vedo che non esco dalle tentazioni della lira né dalla forma chiusa anche se getto alla rinfusa segni ed evito accuratamente i sogni e i lamenti e sento che non vorrei sentire e invece tento e vengo tanto tentata – tanto da rendere quasi inutile lo spreco di verbosità e l’imbratto

ora pertanto provo a provocare il primo scatto metto un tessuto fitto stretto stretto lo lego con lo spago del non detto che sembri quello che sembra a te che leggi che sembri quello che leggi a te che leggi che legga quello che leggi a te che leggi e uso questa mia base come canovaccio prendo e la strappo e quindi poi ne faccio

coriandoli finissimi – vedessi, oh li vedessi! come svolazzano eterei così ben scissi dall’impatto con le lame affilate di questa mia cesoia digitale! digi di di – da da da – dadale –  dado dada dadaumpa-pa è un suono da cui emerge una canzone quella degli hello boys venuti qui dell’illinois e tu, saluta le gemelle che sono brave e belle e che sono sorelle e han occhi come stelle e a pranzo mangeran finocchi insieme a caramelle piegate sui ginocchi

non è che io mi blocchi ma, senza alcun oggetto, di che parlo, che m’urge, a che fare lirismo senza tarlo?

stamane sul tiggì e sul giornale tu vedi tante bombe ed è normale e il tale che commenta è sempre uguale e il tale che intervistano è ferale e dice russia carri dostoevskij vuoi mettere la strage di mariupol siamo onesti e via col lungo elenco di capestri e io che non so nulla e non so giudicare vedo soltanto in giro tanto male

un mare tanto

ma tanto, che per giorni ho solo pianto e il lirismo mi si è fatto oscuro e uso le rime a mo’ di scudo regressivo e l’assenza di struttura

 

[lo so che un anno fa a gennaio avevi detto

vedrai che dopo il covid sarà anche peggio

stanno testando la vostra sudditanza

e poi a ottobre – in odore di latitanza – avevi rilanciato

vedrai i rincari dell’energia adesso

vi vogliono in ginocchio

ed è successo

ma avevi detto anche:

gli ebrei sono discesi dalle stelle

e non gli è stato torto mai un capello

che nella storia tutto viene distorto

e hai detto pure quello:

che l’uomo sulla luna non è sorto

e non è vero (e non è vero il resto)

lo so non tanto perché credo nella scienza (la scienza non è cosa in cui si creda)

quanto perché non credo nella trascendenza

come ai progetti vaghi di una casta

e perché la tua vita intera mi dimostra

la forza di ogni singolo egoismo

che pensa disfa e fa solo al presente

distrugge ogni struttura del futuro

 

corriamo già benissimo da soli

verso il baratro oscuro]

 

è l’unica cosa certa per me, giuro

iii.           lo scotto del lavello

il caldo scioglie i grassi

vanificando forse il tentativo di fare economia, aperto il rubinetto va aspettato che la caldaia si azioni e porti a temperatura l’acqua

nei giorni freddi dell’anno, quando il flusso è pronto per lavare i piatti, immergere le mani in acqua calda è un piacere

e allora no, che non si economizza

quando il flusso è pronto si tuffano le mani, e il calore brucia quasi fastidioso su dita e dorso ma subito

scavalca un brivido sordo

dal polso al gomito alle spalle e poi va a diramarsi

dalle clavicole

 

in su percorre a ondate rastremate il collo

raggiunge la radice dei capelli, le mascelle

le rilassa, aprendo alle labbra fredde un’ipotesi remota di sorriso

carezza e pungola le guance e il naso

fa fremere le rughe sulla fronte

 

in giù attraversa il petto a rullo

spiana lo stomaco

palpeggia i genitali

si srotola tra femore e caviglie

e infine va ad accoccolarsi ai piedi

 

per quanto misero e breve, a questo piacere si può essere grati

si può

versare un goccio di sapone e attendere ancora

che si sfochi la schiuma sulla spugna fino al buio

arretrando la vista

infossandola nel corpo

mandandola in missione da paciere

presso le palpebre arrese

alle annose contese tra i pensieri

mostrare prove chiare

dichiarare le responsabilità

 

lasciate stare, ipocrite, io so

come ve ne stavate spalancate

 

quando

 

si dissipavano le mani

e gli aliti e gli spasmi

e non si accusava stanchezza

e non si contavano i lividi

e non si contavano le ore

e i piatti si accumulavano

come le incrostazioni

e si sapeva già lo scotto del lavello

(che poi quello

non era colpa né di biden né di putin)

e si sapeva bene di non poter pagare

 

 

In armonia con le tenebre. Notturno Cioran

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di Ludovico Cantisani

Cioran. Definirlo il più grande pessimista del secolo non è un’esagerazione. Grande per profondità della visione, abissale, grande per potenza delle immagini, grande per aver saputo frantumare ogni prosa nel momento stesso in cui infrangeva ogni certezza, ogni accortezza, ogni pruderie: lacerti, aforismi e mezze frasi è la dimensione feroce e minimale in cui si confinano i momenti più alti, e più profondi, della sua riflessione. Grande anche per una capacità unica di tenersi in equilibro tra i linguaggi, dal momento che, romeno quale era, si ritrovò a scrivere tutte le opere della sua maturità in francese, in un movimento semantico parallelo e simmetrico a quello compiuto dal suo amico Beckett, dall’inglese al francese. Ancora più nomade di Céline, tanto nella vita quanto nella lingua.

È proprio sul linguaggio di Cioran che ci costringe a ritornare, questo nuovo Finestra sul nulla appena portato in Italia dall’Adelphi. Curato da Nicolas Cavaillès e tradotto in italiano da Cristina Fantechi, dopo il decesso dello storico traduttore e corrispondente di Cioran Mario Andrea Rigoni lo scorso anno, Finestra sul nulla rappresenta un notevole rinvenimento editoriale, un vero e proprio reperto risalente al momento in cui, a metà degli anni quaranta, Cioran passò dal romeno al francese, troncando definitivamente con la sua lingua madre, almeno nella sua attività da scrittore. Al momento della sua morte, Cioran aveva lasciato alla sua vedova Simon Boué un gran numero di appunti inediti, con la preghiera kafkiana di distruggerli al più presto; altrettanto kafkiana, anzi brodiana, era stata invece la scelta, da parte della sua “vedova” Simone Boué. di renderli pubblici, in un mastodontico volume di Quaderni che però copriva gli anni dal 1957 al 1972, quando Cioran già da tempo, anche negli appunti apparentemente più privati, si esprimeva esclusivamente in francese. Alcuni aforismi formulati nell’ultimo periodo dello “Cioran rumeno” già erano stati riscoperti alcuni anni fa, e pubblicati in Italia sotto il titolo di Breviario dei vinti dalle edizioni Voland; ma questi “nuovi” frammenti presentati come Finestra sul nulla sono stati rinvenuti nella Bibliothèque Doucet di Parigi, e segnano un fondamentale momento di passaggio nel percorso letterario di Cioran.

Autodefinitosi “il più straniero fra gli stranieri di Parigi”, “puttana astratta al servizio dell’Assoluto”, Cioran si era trasferito prima momentaneamente a Berlino e poi, in pianta stabile, a Parigi usufruendo di una serie di borse di studio, ma già da ragazzo era divenuto scandalosamente famoso nella sua nativa Romania grazie ai due blasfemi libri d’esordio, Al culmine della disperazione e Lacrime e santi, usciti tra il 1934 e il 1937. A Parigi, superfluo dirlo, nessuno lo conosceva: e ci sarebbero voluti altri dodici anni prima che, nel 1949, uscisse per Gallimard il Sommario di decomposizione, che segnava il debutto di Cioran nella lingua francese.

Il valore filologico e culturale degli aforismi che compongono Finestra sul Nulla sta proprio qui: si tratta, verosimilmente, di alcuni degli ultimissimi scritti di Cioran in romeno – come testimonia il suo epistolario con Mircea Eliade, una volta adottato il francese per i suoi libri Cioran avrebbe cercato di utilizzarlo il meno possibile persino nella corrispondenza privata – e fanno luce su quell’essenziale fase di passaggio che separa lo Cioran giovanile, e rumeno, dallo Cioran “francesizzato”, vicino a certi echi del coevo esistenzialismo letterario dei vari Sartre e Camus, ma al tempo stesso irrimediabilmente lontano da questa congrega di scrittori per il disprezzo assoluto di qualsivoglia impegno politico.

Si potrebbe giocare molto di biografismi, su quest’interregno: affermare che la vera differenza tra i primi due libri rumeni di Cioran e i successivi francesi, anzi “gallimardiani”, non si riduca affatto a una scelta di lingua, ma sia conseguenza, se mai, del profondo disincanto nei confronti del nazismo, di certo antisemitismo e della fascinazione per la Guardia di Ferro che pure aveva espresso da giovane. Non sarebbe inesatta un’analisi di questo genere, eppure invaliderebbe la prospettiva Cioran, sempre propensa a trascendere i meri fatti contingenti, biografici, cronologici.

E.M. Cioran, a dire il vero, va contro il tempo, e ai suoi occhi tutto in fondo si riduce a questo, “essere o non essere all’interno della chimera”. Una frase così la poteva scrivere tanto un intellettuale sradicato nel Novecento quanto un illuminista del Settecento, e forse anche qualche antico romano propenso allo stoicismo o a qualche altra filosofia più riflessiva. Cioran, sin da subito, mira all’atemporalità: poco importa cosa gli sia occorso per arrivare a quell’insopportabile stadio di consapevolezza che compone il fascino e al tempo stesso il disgusto alla base del successo delle sue opere, l’importante è che ci sia arrivato. Se “fuggire la solitudine è il miglior modo per rimanere fuori da sé stessi, e questa fuga è il tratto fondamentale dell’uomo”, avere una vocazione vuol dire precisamente “poter restare soli con sé stessi”. Tra le pagine di Finestra sul Nulla, tra una riga e l’altra, assistiamo alla definitiva presa di consapevolezza, da parte di Cioran, del suo innegabile talento di scrittore, e del fascino aberrante del nichilismo cosmico-cinotico –  ovunque, paesaggi di Paradiso assente. Un passo ancora, e subentra il francese, un passo ancora, ed è già il Précis. Con la Finestra sul Nulla, siamo ancora in anticamera.

Quest’anticamera che è la Finestra sul Nulla non è però in tutto e per tutto un’anticipazione dello Cioran che verrà, o una prosecuzione dello Cioran rumeno che-era-stato. Qui, Cioran è ancora alla ricerca della sua identità letteraria e autoriale definitiva, ancora si interroga sullo stile – “lo stile è una maschera e una fuga”, si premura di precisare in un passaggio – e ancora non sa compiutamente traslare le sue personalissime esperienze di insonnia, di depressione, di Nausée, di disgusto per la vita: rileggendosi, Cioran si annota di restare “sorpreso” proprio dalla “sincerità di tutte queste pagine, tante e mal scritte”. Rispetto appunto allo Cioran futuro, allo Cioran che si imporrà dal Sommario di decomposizione in poi, la vera differenza sta nel minor distacco che lo scrittore rivendica, nei confronti del baratro di pessimismo da cui trae le sue riflessioni. In alcuni momenti, sembra quasi che Cioran parli faccia-a-faccia a noi insospettati ma invocati lettori di frammenti postumi, vis-à-vis – se ne coglie il respiro.

Veniamo al testo, dunque. Alcuni dei passaggi più sorprendenti sono quelli in cui Cioran si rivolge a sé stesso con toni patetici – “viandante attardato, titubante in mezzo a idee fauste, sospirando davanti all’impossibilità di ogni giorno” – se non addirittura a Dio, in soffertissime, blasfeme orazioni che condannano l’esistenza umana sin nei suoi fondamenti ontologici, fino a trasformarsi in un processo al Creatore – “sei stato Tu ad aprire all’uomo la strada della follia, a seccargli il sangue col fuoco… perché lo hai creato se poi fessuri l’argilla di cui è fatto in vapori che lo precipitano nell’assenza?”. La paura della morte è più pressante, in questo pagine, il suicidio, invece, meno presente. Il vero punto di continuità è la passione, verrebbe da dire l’ossessione, per la musica: “se l’uomo non avesse scoperto il concetto”, si legge a un certo punto di Finestra sul nulla, “la musica avrebbe preso il posto della metafisica”, e così “l’universo sarebbe diventato un paradiso dell’evidenza incomunicabile ma direttamente percepibile”. Ipse dixit.

“L’io di Cioran è un vastissimo scenario teatrale. In questo scenario, egli proietta quasi tutte le figure della letteratura, del pensiero, della storia, del cielo, della natura. Quasi niente è escluso. L’io si trasforma in moltitudine, assumendo sempre nuove maschere. Senza saperlo, Cioran diventa il romanziere e il mitografo della propria mente”. Così scriveva nel 2001 Pietro Citati, recensendo la già citata edizione postuma dei Cahiers cioraniani, a quei tempi appena arrivata in Italia con l’Adelphi. Quanto Citati scriveva su quegli appunti privati di Cioran di quella raccolta, su tutte quelle “piccole Apocalissi isteriche e ridicole” risalenti per lo più agli anni sessanta, spiega l’atteggiamento dello Cioran di quindici anni prima.

Gli appunti ritrovati alla Bibliothèque Doucet risalgono a un momento in cui Cioran ancora se le provava, le maschere, anzi aveva da poco iniziato a riaccarezzarle. In Finestra sul Nulla per giunta, incredibili dictu, trovano molto più spazio che in tutta la sua opera successiva due tematiche puramente romantiche, l’amore e la poesia, nutrimenti della vita affrontati da Cioran con un’ottica tutto sommato positiva – ancora, attorno al 1945; più avanti sarà diverso; ma in fondo già da questa Finestra sul Nulla Cioran non tarda a intravedere la sua radicale estraneità verso tutti e tutto, la sostanziale inapplicabilità, a proposito della sua persona e anche della sua emotività, dei criteri umani standard che caratterizzano e categorizzano tanto la vita umana in società quanto l’interiorità stessa di ogni individuo.

“Tu non sei tagliato a misura del sole, se le tue vene pulsano sempre in disaccordo con l’azzurro, se i tuoi polmoni respirano sempre in armonia con le tenebre. Tu hai rotto con il sole prima di rompere con la Terra; il tuo pianeta è la Notte”. È con questo monologo allo specchio che Cioran si slancia definitivamente sul vuoto, è con questa allocuzione al silenzio, al silenzio lunare della sua stessa anima, che Cioran si immerge finalmente nel lato notturno che noi tutti conosciamo e amiamo.

Poi verranno il Sommario di decomposizione, e Squartamento, e Storia e utopia, e un libro cult sin dal titolo quale è L’inconveniente di essere nati. A monte c’erano infinite veglie notturne, un’incessante insonnia, angoscia a non finire, passeggiate saturnine senza alcuna direzione che pure hanno definito l’erraticità e l’atopia di tutti gli schemi mentali di questo pensatore unico nel suo genere. Ma il momento in cui l’esperienza si fa letteratura, il laboratorio in cui Cioran filtra la sua stessa esistenza per trarne una filosofia che è assalto all’Assoluto e ad ogni illusione di sistema – quest’interregno atavico in cui Cioran diventa Cioran, solo la Finestra sul Nulla ce lo può restituire. Da qui deriva l’angoscia profonda e senza soluzione che permea queste pagine – di solito leggendo il rumeno si vive una sorta di Schadenfreude, se non una vera e propria catarsi alla vecchia maniera, ma la Finestra sul nulla manca di quel distacco spettatoriale necessario per vedere una tragedia senza viverla. In fondo, Finestra sul nulla è l’anello mancante della sua evoluzione letteraria, un vero e proprio “grado zero” di Cioran: excusez du peu

 

Quattro romanzi: Tanizaki, Camilleri, Slimani, Evison

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di Gianni Biondillo

Jun’ichirō Tanizaki, La gatta, Shōsō e le due donne, Neri Pozza, 2020, 125 pagine, traduzione di Gianluca Coci

Per amore si accetta qualsiasi cosa: dormire in posizioni scomode sul tatami, avere un compagno, Shōsō, infantile e senza nerbo, accettare il suo ronfare rumoroso e la sua passione di dar da mangiare dei pescetti direttamente dalla bocca alla piccola Lily, un’indolente gatta di tipo “europeo”. E per amore si è pronti ad ogni tipo di vendetta, come quella che ha orchestrato Shinako, dopo che il marito l’ha lasciata per un’altra donna, Fukuko, più bella e più agiata di lei.

E la vendetta è davvero subdola. Shinako implora la sua contendente di lasciarle almeno il gatto, unico ricordo di un passato felice. A Fukuko non pare vero liberarsi di quella gattina viziata, fonte di attenzioni fin troppo ossessive del marito, per averlo tutto per lei. E così, all’inconsapevole Lily, tocca traslocare.

Per amore si può fare qualsiasi cosa: prendere una bici dal primo che passa, cucinare a casa di uno sconosciuto, passare ore al freddo e all’umido, pur di vedere anche solo per un istante la protagonista delle proprie passioni. Che per Shōsō non è né la prima moglie né l’attuale compagna. Un amore così puro, senza doppi fini, oltre le convenzioni sociali o i biechi interessi economici, non poteva essere che per Lily. Al punto che Shōsō, vigliacco di natura, è pronto ad ogni ribellione pur di rivederla.

La gatta, Shōsō e le due donne è tutto qui. Un libro con una storia piccola, persino ridicola. Ma quanto si sarà divertito a scriverla Jun’ichirō Tanizaki? Sia lode al romanziere giapponese capace di raccontarci un legame sentimentale e ossessivo che può crearsi solo fra un essere umano e un gatto. Non un gatto qualsiasi, ovviamente, ma l’emblema stesso, il correlativo oggettivo del sentimento folle e illogico che è l’amore: Lily, centro del vortice impetuoso dei sentimenti e perciò unico punto immobile e indifferente di questa storia.

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Andrea Camilleri, Autodifesa di Caino, Sellerio editore, 2019, 81 pagine

Fa specie pensare che questo sia il primo libro pubblicato da Andrea Camilleri dopo la sua morte. Ma conoscendone la straordinaria prolificità sono certo che non sarà, fortunatamente per noi, l’ultimo. Detto ciò, viene fin troppo naturale immaginarlo come un lascito, un testamento. Non sono d’accordo. Autodifesa di Caino è, nei fatti, un testo minore nella sua produzione. Poco più di un gioco, dove il vecchio maestro, dopo l’esperienza alle terme di Caracalla della Conversazione su Tiresia, voleva replicare il piacere di raccontare una storia con la sua voce, a teatro. Abbiamo perso l’occasione, non ci resta che immaginarlo, magari augurandoci che qualche coraggioso, prima o poi, metta davvero in scena questo monologo, seguendo fedelmente le indicazioni previste nel testo.

Che di copione si tratta, insomma. Di qualcosa che va visto e ascoltato, prima ancora che letto. A parlare è Caino stesso, a prima vista il simbolo del male dell’umanità, ma ascoltando le sue ragioni, forse il più umano degli umani, consapevole degli errori fatti, orgoglioso delle conquiste realizzate dopo il tragico fratricidio. Ché, non dimentichiamolo, siamo tutti figli di Caino, l’inventore delle città e dell’arte, non di Abele, colpevole (come da citazione di Elie Wiesel riproposta dall’autore) di indifferenza. Non basta essere buoni, occorre essere solidali, vuole dirci il vecchio maestro. Camilleri lo fa con una lingua all’apparenza semplice, colloquiale ma in realtà colma di dotte citazioni (dai testi sacri a Dario Fo), riproponendo anche in questa sua ultima opera i suoi temi più cari: il piacere incolpevole della carnalità, il gusto del paradosso, l’umanità come speranza collettiva. Dal mito, insomma, si può solo imparare. Nessuno tocchi Caino.

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Leïla Slimani, Il diavolo è nei dettagli, Rizzoli, 58 pag., 2020, traduzione di Elena Cappellini

Un difetto? Troppo breve. Resto sempre dell’idea che le rivoluzioni si facciano con i pamphlet e non con le enciclopedie ma qualche pagina in più non avrebbe di certo stonato in questa raccolta di scritti di Leïla Slimani. Anche perché i temi toccati ne Il diavolo è nei dettagli sono così cogenti (e cocenti) che l’esiguità del testo potrebbe indurre a leggerlo di fretta, in un batter d’occhio (d’altronde sono pagine ben cesellate e di facile approccio). E sarebbe un peccato. Fra racconti, apologhi, ricordi d’infanzia, articoli d’attualità, i sei testi di questo libello affondano come uno stiletto nel ventre molle della nostra contemporaneità, chiedendoci di prendere posizione. Slimani lo fa, senza indugio. Scrittrice marocchina, più francese degli stessi francesi, ricorda a tutti noi su quali valori l’Occidente non può trattare.

Ogni fanatismo deve essere bandito, perché ogni intolleranza esclude in partenza ogni dialogo, ogni conquista sociale, ogni emancipazione. Accettare, per quieto vivere, le piccole o grandi intolleranze dei fanatici – su tutti quelli religiosi, dogmatici, pieni di odio nei confronti della cultura – significa perdere di giorno in giorno posizione. Subire, lasciar correre, su certi argomenti nevralgici della vita sociale è immorale. Quindi non resilienza ma resistenza.

Scorgere anche nel minimo dettaglio la presenza dell’intolleranza è il primo dovere di ogni intellettuale che meriti questo appellativo, cioè colui che ha gli strumenti per descrivere e denunciare ogni deriva autoritaria. Ma allo stesso tempo, nel patto che ogni democrazia ha firmato con i sui cittadini, ognuno deve fare la sua parte, senza demandare. Questo scrive Slimani, raccontando con chiarezza, senza borie, da scrittrice autentica qual è.

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Jonathan Evison, Il giardiniere, 332 pag., Sem, 2020, traduzione di Marta Salaroli

Mike Muñoz è uno di noi: ha una vita mediocre e un futuro che si prospetta altrettanto mediocre. È un ragazzo di ventitré anni con un padre alcolista che lo ha abbandonato presto, una madre che si barcamena con fatica di lavoretto in lavoretto, un coinquilino – amante della madre – che passa il tempo a suonare il basso e fumare erba, un fratello ciccione e disabile, un amico d’infanzia razzista e sessista. Nulla è dalla parte di Mike. È un mezzosangue messicano, timido con le ragazze, che vive in un posto anonimo degli Stati Uniti (Suquamish, Washington), in un paesaggio anomico fatto di parcheggi, ipermercati, pub.

Messo così il romanzo di Jonathan Evison parrebbe una tragedia. Ma l’autore ha regalato al suo personaggio una passione: l’arte topiaria. Mike è un giardiniere appassionato, capace di trasformare ogni cespuglio in una scultura spettacolare. Non ostante le frustrazioni di una condizione sociale che lo rigetta di continuo nella precarietà – niente lavoro, niente soldi, niente futuro – Mike ad ogni caduta, ad ogni rinuncia, è pronto a rialzarsi e a ripartire come un vecchio lupo di mare, abbastanza disincantato e allo stesso tempo abbastanza illuso dalla vita.

Il giardiniere è scritto in prima persona, seguendo il racconto direttamente dalla voce di Mike che non lesina disavventure, delusioni cocenti, situazioni imbarazzanti, raccontate con ironia e disincanto. Niente di davvero romanzesco, sia chiaro. La stessa trama del libro si sposta di poco, non ha colpi di scena memorabili. In fondo Evison lo sa, la vita è vita, non è un film. È una lotta continua fra il mondo che ha deciso dove devi stare per sempre e i sogni che ti chiedono di fuggire, o quanto meno spostarti da quella condanna, anche di poco, anche solo abbastanza per sentirti temporaneamente felice.

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(pubblicati precedentemente su Cooperazione nel 2020)

 

 

La stagione delle piogge

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di Edoardo Mazzilli


Foto di Pexels da Pixabay

La coppia seduta accanto a loro si alzò e il cameriere uscì a ritirare i bicchieri. Passando di fianco al loro tavolo li informò che nel giro di venti minuti avrebbero chiuso. «Siete rimasti solo voi» disse.

Lei chiese se fosse possibile avere un ultimo Long Island.

«Un altro?» chiese il cameriere, sorridendo.

«Sì, per favore.»

«Porto anche un altro Gin Tonic?» chiese, rivolgendosi a lui.

Lui scosse la testa e alzò il bicchiere, ancora mezzo pieno.

Il cameriere rientrò e per un attimo si guardarono senza dire niente, poi la musica smise di andare.

«No…» disse lei, rivolgendo un’espressione imbronciata verso l’interno del locale.

Lui sorrise e le chiese se le piacesse quel genere. Lei rispose che non era male e lui allora domandò che musica ascoltasse di solito.

«Un po’ di tutto» disse, allungando la mano sul tavolo verso la busta di tabacco. «Mi piacciono molto i Tame Impala. In realtà non sono un gruppo, è una persona sola, ma tutti li chiamano sempre al plurale. Mi piace ascoltarli quando fumo erba, anche se mi ricorda Bali.»

Mentre lei parlava lui fissò le sue dita bianche e ossute arrotolare il tabacco, e la punta della sua lingua scorrere delicatamente lungo la striscia di colla della cartina.

«Tu ci sei mai stato?» chiese dando un’altra piccola leccata. «A Bali, dico.»

Fece no con la testa.

«Vai, se ti capita.»

Lui non rispose e lei accese la sigaretta.

«Jacopo era innamorato di Bali, soprattutto per il surf. Per lui il surf era tutto. Aveva iniziato a quindici anni. In primavera e in autunno prendeva il treno tutti i weekend e andava in Liguria solo per prendere un paio di onde. Ma lì non era molto bello, diceva.

«Ai tempi dell’università invece aveva iniziato ad andare in Portogallo con Dave, un suo amico. Caricavano le tavole sul suo Defender e partivano. È lì che l’ho conosciuto.»

La prima cosa che aveva notato in una delle foto del suo profilo Tinder erano i piercing ai capezzoli. Era rimasto a fissarli per qualche istante, poi si era slacciato la cintura e aveva lasciato scivolare la mano sotto i boxer. In una delle foto successive si vedeva lei in spiaggia, di spalle, con un costume nero a due pezzi. Aveva pensato che quel sedere dovesse essere frutto di anni di danza o ginnastica artistica, e mentre pensava, l’uccello gli si era indurito in mano. Da quella foto aveva notato anche il tatuaggio thailandese che aveva sulla spalla, quella stronzata che si erano fatti anche i suoi amici quando erano stati a Phuket. Un Sak Yant. Solo nell’ultima foto si vedeva nitidamente il volto. Il colore della pelle era chiaro e i capelli sfumavano attraverso diverse gradazioni di castano. Aveva gli occhi verdi e le sopracciglia scure. Attaccato alla narice aveva un anellino d’argento.

A quel punto lui aveva iniziato a masturbarsi, continuando a scorrere a destra e sinistra tra le foto, anche se aveva deciso che sarebbe venuto guardando quella in cui si vedevano i piercing ai capezzoli, nascosti da una canottiera bianca portata senza reggiseno.

«Ero in Erasmus, studiavo architettura al Politecnico di Setúbal,» disse buttando fuori del fumo e stortando le labbra per indirizzarlo di lato. «Dividevo l’appartamento con una ragazza francese, si chiamava Juliette. Era simpaticissima. Nel weekend andavamo sempre a fare giri a Lisbona o da qualche altra parte. Poi una volta una sua compagna di corso ci ha proposto di andare con lei a vedere l’oceano e siamo finite a Cascais, in una spiaggia bellissima. C’eravamo arrivate in autobus, si chiamava Praia do Guincho, mi sembra. Avevamo portato delle birre e ci eravamo sedute lì a guardare quelli che facevano surf.

«Quando ormai stavamo per andarcene dei ragazzi sono usciti dall’acqua con le tavole sottobraccio. Avevano i capelli lunghi e le mute abbassate fino alla vita. Dei fisici pazzeschi. Si sono seduti di fianco a noi e uno ha chiesto all’altro, in italiano, di chiederci una sigaretta.»

Dopo essere venuto aveva scorso definitivamente a destra con il pollice, mettendole like, ma prima si era deciso a cercarla su Instagram. Le uniche informazioni che vedeva su Tinder erano la distanza che c’era tra loro, il suo nome di battesimo, l’età e l’università che aveva frequentato, così era andato sul profilo Instagram del Politecnico di Milano e aveva cercato tra i followers il suo nome. Erano uscite almeno una quarantina di ragazze che si chiamavano come lei. Aveva sfogliato con calma i profili e alla fine l’aveva trovata. L’immagine di profilo era la stessa che aveva in anteprima su Tinder e tra le foto pubblicate c’era anche quella in cui si vedevano i piercing. Altre invece risalivano a un paio di anni prima e ritraevano soprattutto palme e paesaggi tropicali. Poi ce n’era un’altra di lei in spiaggia di spalle, questa volta in topless. Aveva la vita stretta e i fianchi magri. Scorrendo ne aveva notata anche una in cui si vedeva un tizio capellone che faceva surf, ma non l’aveva nemmeno aperta. La sua bio invece recitava: «Wanna play you all my songs».

Il cameriere lasciò il Long Island sul tavolo, lei lo prese e bevve un sorso, poi rimise in bocca la sigaretta e aspirò a lungo.

«Era di Milano anche lui, studiava Economia in Bicocca. Abbiamo iniziato a seguirci su Instagram e quando sono tornata da Setúbal mi ha chiesto di uscire.

«Quasi subito abbiamo deciso che se le cose fossero andate bene, una volta laureati saremmo andati a vivere a Bali per sei mesi. Entrambi lavoravamo e avevamo dei soldi da parte. Volevamo solo godercela, vivere un’esperienza e stare insieme. Abbiamo scelto Bali perché piaceva a entrambi. Io volevo andare a Ubud e fare yoga con i maestri indonesiani, lui invece voleva fare surf, fare quello e basta, dalla mattina alla sera.

«All’inizio siamo stati a Ubud per un paio di settimane, ma lui soffriva perché a Ubud non c’è il mare, è nell’entroterra. C’eravamo comunque divertiti lì, abbiamo scalato un vulcano di notte e visto un sacco di cose, ma poi ci siamo trasferiti perché lui fremeva per surfare. Ci siamo spostati a Canggu, una località a Sud dell’isola, sulla costa Ovest, perché Jacopo aveva degli amici che ci erano stati e gliel’avevano raccomandata.

«Quando siamo arrivati lì è stata la fine di tutto.»

L’aveva cercata anche su Facebook, dove il profilo però non veniva aggiornato da parecchi anni. Non avevano amici in comune e l’unica cosa che aveva scoperto con quella ricerca è che doveva aver studiato anche all’estero per qualche tempo, probabilmente in Spagna, ed era laureata in architettura. Mentre passava in rassegna le immagini del profilo, constatando che negli anni il suo aspetto era migliorato, gli era arrivata una notifica di Tinder: «Hai un nuovo match!»

Si interruppe per bere, poi tirò ancora a lungo dal filtro della sigaretta e poi bevve ancora. Lui sentì una folata d’aria fredda colpirgli le spalle e lei si strinse nel cappotto, rimettendo in tasca la mano con cui non reggeva la sigaretta.

«Canggu è un paradiso» disse. «Quando siamo arrivati ci hanno spiegato che è la località più nuova di Bali, ma anche la più occidentalizzata. Case, bar, ristoranti e negozi erano tutti appena stati costruiti, ma ancora in pochi lo sapevano. Sembrava un piccolo villaggio riservato solo ai giovani. In giro si vedevano solo ragazzi e ragazze, tutti in costume e Vans, ognuno con il proprio scooter con la tavola agganciata di lato.

«Abbiamo preso un appartamento in affitto lì e abbiamo passato i mesi più belli della nostra vita. Al mattino Jacopo andava a surfare e io facevo yoga in balcone, guardando le risaie e le piantagioni di banani. Poi lo raggiungevo all’Old’s Man, che era un locale fichissimo sulla spiaggia, dove abbiamo conosciuto la maggior parte dei nostri amici, tutti ragazzi australiani e californiani. Nel pomeriggio invece prendevamo lo scooter e andavamo a farci i nostri giri, a visitare cose, a perderci tra i villaggi, le palme, le risaie. Abbiamo fatto anche delle immersioni a Nusa Penida qualche volta, abbiamo visto le mante. Stavamo davvero bene, sia mentalmente che fisicamente. Eravamo magri, abbronzati e mangiavamo in modo salutare. Anche Jacopo stando lì era diventato vegetariano.

«Alla sera andavamo alle feste in spiaggia vicino all’Old’s Man e ormai tutti ci conoscevano. Era come essere in una grande famiglia. “Italians”, gridavano quando arrivavamo. Uscivamo tutte le sere. Se non c’erano feste in spiaggia andavamo a cena da amici a Seminyak e da lì poi finivamo sempre al Mexicola o al Favela a ubriacarci, dei posti che non ti puoi immaginare.»

Lui notò che lei aveva iniziato a parlare velocemente e non lo stava più guardando. Era concentrata sul bicchiere che aveva davanti a sé e le parole che pronunciava cominciavano a essere sbavate.

«Poi una sera ci hanno portato al Pretty Poison» continuò lei. «E Dio… quanto mai.»

Aveva deciso di aspettare almeno un giorno per scriverle, ma alla fine era stata lei a farlo, poco dopo. Aveva esordito dicendo che non pensava che anche gli studenti di medicina usassero Tinder. Lui pensò che si trattasse di un modo originale per cominciare una conversazione e le rispose che pensava anche lui lo stesso delle ingegnere. «Infatti, io sono architetta» aveva risposto lei. A quel punto lui le aveva chiesto se fosse l’erede di Renzo Piano e lei gli aveva chiesto in cosa si sarebbe specializzato. Poi le aveva chiesto se lavorasse, cosa facesse nel tempo libero, in che zona abitasse e come mai fosse su Tinder. Lei aveva risposto a tutte le domande, meno che all’ultima. Lui non aveva voluto insistere e allora aveva cambiato argomento chiedendole di uscire. Lei aveva accettato e lui le aveva chiesto se preferisse stare in zona Garibaldi o Navigli. Lei aveva risposto Navigli. Lui, aveva pensato, avrebbe preferito andare in zona Garibaldi.

Spense il mozzicone nel posacenere, finì il drink e allungò di nuovo la mano verso il tabacco. Iniziò a girare un’altra sigaretta.

«Il Pretty era un altro locale strafico, in pratica un capannone di cemento in mezzo alle risaie di Canggu. Era gestito solo da balinesi. Dentro c’era un palco su cui ogni sera si alternavano band locali che suonavano cover dei Led Zeppelin e dei Nirvana. Erano bravi, cazzo. Una volta hanno persino fatto dei pezzi degli Arctic Monkeys. Sul retro invece c’era l’area esterna, una sorta di cortile, sempre in cemento. Al centro c’era una pool dove i ragazzini balinesi giravano con lo skateboard. La gente si sedeva attorno e stava a guardarli ascoltando la musica e bevendosi una Bintang dietro l’altra. Io un posto così non l’avevo mai visto.

«Al Pretty c’era un’usanza, tutti i ragazzi con i capelli lunghi si salutavano tra loro, anche senza conoscersi. Si battevano il cinque e si dicevano: “long hair, long life”. È così che abbiamo conosciuto un tizio sudafricano di nome Roy. Era la copia di Taylor Hawkins. Lui e Jacopo si sono salutati e hanno iniziato a parlare di surf. Questo Roy era stato in tutto il mondo, ma arrivato a Bali si è fidanzato con una di Denpasar e ha deciso di rimanerci.»

Prima di andare all’appuntamento si era masturbato. Gli piaceva chiamarla «la preventiva». Voleva sentirsi tranquillo, rilassato, e non rischiare di sparare colpi troppo presto nel caso in cui lei avesse accettato di andare a casa sua dopo l’appuntamento. Poi si era messo il maglione nuovo, il profumo e la giacca in pelle, ed era uscito. Era arrivato prima lui al locale, ma non era entrato subito, l’aveva aspettata fuori. Lei era arrivata con dodici minuti di ritardo. L’aveva riconosciuta quando era ancora sull’altro lato della strada e stava arrotolando il filo delle cuffie nella borsetta. Lei invece l’aveva riconosciuto solo quando era arrivata davanti all’ingresso del locale. L’aveva indicato sorridendo e gli aveva chiesto se fosse lui. Era più bassa di quanto si aspettasse e portava un cappotto grigio, un dolcevita bianco e una gonna nera in pelle con degli stivali dello stesso colore. Si erano salutati con un bacio sulla guancia e avvicinandosi non aveva potuto fare a meno di notare che avesse un buon profumo, e che sotto i suoi occhi si estendevano delle occhiaie gonfie e marroni.

«È stato Roy a parlare a Jacopo di Uluwatu» disse, fermatosi ad accendere la sigaretta. «Una delle località più a Sud. In pratica, una scogliera unica.»

Lei tirò su col naso e lui osservò i suoi occhi. Le occhiaie sembravano essersi gonfiate e i capillari sulla sclera si erano fatti più rossi e densi.

«Lì ci vanno solo i locals e i surfisti più esperti, ma Roy un giorno ci ha portato Jacopo. Gli ha fatto vedere gli accessi nascosti per arrivare in acqua passando per dei cunicoli. Ci sono tornati un altro paio volte e io e Putri, la fidanzata di Roy, li abbiamo accompagnati. Ci sedevamo con le gambe a penzoloni giù dalla scogliera e stavamo a guardarli.»

Lei aveva chiesto se potessero sedersi fuori, perché fumava. Appena si erano accomodati aveva ordinato un Long Island e quando arrivò lo finì in pochi secondi, senza nemmeno toccare una patatina o un’oliva. Lui invece aveva ordinato un Gin Tonic, precisando che fosse con gin Hendrick’s, e nel tempo in cui lo finì lei aveva già ordinato un secondo Long Island e aveva scolato anche quello. Nel frattempo avevano parlato ancora di università e lavoro, delle ambizioni per il futuro e della vita a Milano, poi lui aveva spostato la conversazione sulla vita quotidiana e lei gli aveva raccontato di nuovo che faceva yoga, ma da piccola aveva fatto atletica, era quattrocentometrista, oltre a questo le piaceva andare alle mostre di arte moderna e nient’altro.

Le aveva chiesto di nuovo come mai fosse su Tinder e lei aveva risposto che aveva bisogno di uscire, conoscere gente e perché no, magari trovare un ragazzo. Ammise che quello era il primo appuntamento con uno conosciuto su Tinder, e il primo dopo molto tempo. Lui le aveva chiesto a quando risalisse la sua ultima storia, ma lei aveva esitato, inspirando a lungo dalla sigaretta, per poi dire che non voleva parlarne, non subito quanto meno, perché era finita male. Gli avrebbe parlato di Jacopo più tardi, disse. In quel momento lui pensò al capellone della foto che aveva visto su Instagram e si chiese se fosse lui Jacopo.

Si fermò di nuovo, ma questa volta non fece niente, fissò semplicemente per terra, come se la porzione di asfalto su cui poggiava una delle gambe della sua sedia fosse importante. Poi si portò una mano sulla fronte e iniziò a singhiozzare.

«Una sera di dicembre si erano dati appuntamento per andare a Uluwatu la mattina dopo, ma quando ci siamo svegliati Jacopo aveva trovato un messaggio di Roy che diceva che era stato male, probabilmente si era preso un virus intestinale con il ghiaccio dei drink del Pretty, e sostanzialmente aveva passato la notte in bagno. Aveva scritto a Jacopo che sarebbero andati un’altra volta a Uluwatu, ma lui ormai era in piedi e voleva andarci lo stesso. Io l’ho pregato di lasciar perdere, ma lui ha insistito, allora mi sono alzata e sono andata con lui.»

Una lacrima scese lungo la sua guancia. Lei picchiettò delicatamente la sigaretta con l’indice, lasciando cadere una piccola quantità di cenere nel posacenere. Poi si asciugò la lacrima con il dorso della mano.

«Eravamo nella stagione delle piogge e quella mattina l’oceano faceva paura. Il cielo era grigio e in acqua c’erano solo due balinesi. Mi ricordo che gli avevo chiesto ancora se fosse sicuro di volerlo fare. “Non preoccuparti” mi ha detto, allora mi sono seduta sulla scogliera. C’era talmente tanto vento che avevo paura di volare giù. Ero convinta che nel giro di poco avrebbe iniziato a piovere. Jacopo è sceso dall’anfratto ed è comparso sotto di me. Mi ha guardato e mi ha sorriso come un bambino, poi si è sdraiato sulla tavola e ha iniziato a pagaiare con le braccia verso il mare aperto.»

Lui finì il Gin Tonic e continuò a non dire niente. Rimase adagiato nella sedia con le mani nella giacca e la guardò piangere.

«Io vedevo che appena si metteva in piedi sulla tavola le onde lo riportavano verso la scogliera in un attimo. Dovevo capire. Sarei dovuta scendere e dirgli di andare a casa, ma non l’ho fatto.

«A poco a poco la corrente ha iniziato a spingerlo sempre più verso destra. Mi sono sporta e ho visto delle rocce che emergevano da quel lato. Quando le onde ci passavano sopra le rocce scomparivano. Solo in quel momento ho iniziato a gridare più forte che potevo. Sono scesa nel cunicolo e sono arrivata in acqua. Gli urlavo di venir via, ma lui non mi sentiva. Anche i balinesi si sono accorti e hanno alzato le braccia facendogli dei gesti, ma lui era in piedi sulla tavola e non li guardava.»

Mentre lei raccontava lui aveva pensato che se avesse continuato a bere così probabilmente entro fine serata sarebbe stata ubriaca, e forse a quel punto avrebbe accettato di andare a casa sua senza esitazioni, o magari sarebbe stata addirittura lei a invitarlo.

«Quando l’ho visto cadere non sono più riuscita a sentire niente. Ho iniziato a nuotare verso di lui. Le onde mi riportavano indietro e io nuotavo. I ragazzi sono arrivati prima di me. Li ho visti raccogliere un pezzo della sua tavola. Poi hanno trovato lui.»

Le sue parole erano increspate dal pianto e dai singhiozzi. Il suo viso era diventato rosso e il mascara era colato lungo gli zigomi.

«Li ho visti riportarlo in superficie. Aveva la testa e i capelli pieni di sangue… i suoi bei capelli biondi. Le onde lo lavavano via, ma il sangue riprendeva a uscire, e lui era lì con la testa china, i ragazzi parlavano tra di loro e io non capivo niente. Poi l’hanno sdraiato su una delle loro tavole e l’hanno spinto a riva. Quando l’ho visto mi sono buttata su di lui. Sarei voluta morire anche io quel momento. È stata tutta colpa mia, mi dicevo.»

Lui deglutì un cumulo di saliva amara e le disse che non immaginava.

«Non ti preoccupare,» disse lei. «Non potevi sapere. È colpa mia, è sempre colpa mia. Sono passati due anni, ma ancora non ce la faccio.»

Non dissero più niente. Lei continuò a fissare il bicchiere vuoto e lui continuò a fissare lei, finché il cameriere non uscì a dire che ora stavano proprio per chiudere.

Lui si alzò ed entrò a pagare.

Un gatto silvestro

1

di Giulio Spagnol

Finalmente ho chiesto a J**** di uscire: ha accettato subito! Va detto che non è stata una mia idea: me l’ha imposto un Gatto Silvestro. Ma tant’è. Mi alzo tardi, pioggerella estiva, temperatura uterina; sbuffo, prendo la metro e sbuco a Porta Genova. Non mi va di bagnarmi. Entro da Alice Pizza; le cameriere si stiracchiano dietro il bancone, hanno tutte un’aria da gattini assonnati e occhi grandi come piattini da the. Ordino un cafè con leche, mi comunicano che da Alice Pizza servono solo tranci di pizza. Insisto, ci accordiamo per una margherita e un caffè americano. In strada le persone camminano veloci, come se corressero incontro al proprio patibolo: ogni giorno nella cerchia urbana almeno un tizio si schianta in motorino perché si è girato a guardare una modella di Gucci. Immagino un patibolo eretto in piazza affari: è costruito con stuzzicadenti e cannucce da cocktail; appesi al cappio sbatacchiano i cadaveri di dodici agenti immobiliari in completo gessato; vengono portati via da una carrozza trainata da cinque TMAX opachi neri, la piazza è deserta, nessuno li piange, nessuno qui ha tempo per il mio spleen in salsa guacamole. Conclusioni: 1) questa città non mi merita; 2) sopravvivere qui è come strappare qualcosa dalle grinfie del nulla; 3) in realtà sono proprio uno stronzo. Pago, saluto, carta nella carta, umido nell’umido, esco. Gironzolo per la fiera di Sinigaglia sull’Alzaia del Naviglio Grande. Ha smesso di piovere. Noto una bancarella mandata avanti senza zelo né passione da un trittico padre-madre-bambina. Mi avvicino alla bancarella. Il padre e la madre litigano dietro a una vecchia Fiat Doblò con la vernice bianca scrostata qua e là. I loro dreadlocks, accrocchiati a piramide, sbucano oltre la capotta della macchina; hanno sfumature variopinte: giallo Marte, terra di Siena. Da dietro la macchina piovono espressioni come “la tua parte”, “la bambina”, “questa merda di vita”. La bambina sta alla cassa (una sedia di plastica sormontata da un registratore Anker 1948). Indossa un costumino da bagno giallo ocra, ha gli occhi duri da serpente e i capelli nero-Sofocle, nelle mani regge un Game Boy Color; da bambino, in spiaggia, devo essermi innamorato di una così. Ispeziono la mercanzia: pipe di vetro, orecchini, anellini da mani, anellini da piedi, spillette della Jamaica, una maglietta nera con su scritto “Un uomo senza pancia è come un cielo senza stelle”. In una cesta di dadi trovo un solido convesso, di densità uniforme: sembra il guscio di una tartaruga. Lo appoggio sul banchetto; il guscio comincia a vibrare e dondolare come un Ercolino sempre in piedi.

«E questo che diavolo è?».

La bambina mi risponde senza staccare gli occhi dal Game Boy.

«Oh quello? È un Gatto Silvestro, signore; mi sa che ne è rimasto solo uno».

«Fandonie!».

«Glielo giuro su quello che vuole».

«E a che cosa serve?».

La bambina sembra molto presa dal suo gioco.

«E quanto costa?»

«Costa come gli altri dadi nella cesta».

«Va bene, ma siamo sicuri che…»

«Ehi signore! Non mi starà mica dando della bugiarda?!».

«Ma no. È che mi sembra un po’ strano che…»

«Senta, se vuole chiamo mio padre, ma glielo sconsiglio, che mi sembra molto impegnato a litigare e non vorrei che poi le rompe il muso».

Mi avvicino alla bambina e le sussurro nell’orecchio – la gente mi guarda male.

«Certo, piccola cara, ma non è che magari si chiama Tlön o Uqbar o Orbis Tertius? O, chessò, qualcosa di più appropriato alla circostanza, di più nobile… vedi…, qualcosa che non rovini tutto l’insieme, ecco».

La bambina esegue una scrollatina di spalle.

«Cosa vuole che le dica? Una sera ci giocavo e mi sono addormentata, ho sognato Gatto Silvestro alla guida di un pullman di turisti tedeschi, il pullman passava sopra un covo di vipere, i piccoli di vipera, le mamme vipera e i padri di vipera si fondevano in un’unica vipera dalle mille teste e mi inseguivano, ma io mi salvavo chiedendo asilo politico al re dell’Ohio. Le basta come spiegazione?»

«Hai un sacchettino?»

«No».

 

 

*        *        *

 

 

Ho conosciuto J**** nella biblioteca di filosofia. Lavora al banco mentre prepara gli esami di filologia romanza. Ha sempre un libro in grembo e, quando è seduta, tiene le gambe abbastanza aperte; può concedersi il lusso di portare gonne corte abbinate a magliette da ragazzino delle medie; ha i capelli neri lisci e al vertice delle labbra che sembrano intagliat… insomma, le solite cose. È anche molto consapevole di sé stessa, perlomeno nello spazio: tutti i suoi movimenti sembrano stati messi a punto da un orologiaio, o dal tizio che si occupava dei giochi d’acqua a Versailles. Da come sorride ai ragazzi che restituiscono timore e tremore, mi sembra che disponga di un intero arsenale: ghigni, smorfie, paresi facciali, sghignazzi, moine, svenevolezze. Ingegnose tattiche di guerriglia sentimentali per stupire e scoraggiare. A casa controllo su internet cosa diavolo significhi J***. Be’ insomma, per farla semplice: in un lineare episodio nel libro dei Giudici si narra di Sisera (giovane generale del re Iabin, sovrano dei Cananei, figlio del re Ioacaz e di una ninfa di buona famiglia) che disponeva di un temibile esercito di novecento carri da guerra e, controllando il territorio del Carmelo fino al lago di Galilea, opprimeva gli Israeliti. Il guappo Sisara venne sgominato dal re Barac (figlio di Abinoam, il cui nome significa lampo), come profetizzato da Debora (il cui nome significa ape, sposata infelicemente con un certo Lappidot, che esercitava la professione di profetessa e giudice biblico sotto una palma nella periferia di Rāma o di Betel), nel seguente modo. Dopo un’atroce battaglia e spargimento di interiora ai piedi del monte Tabor (oppure, in alternativa, il monte Hermon) presso il torrente Ghincor, Sisara fugge, e da autentico vigliacco si dirige verso la tenda di un tale Eber (un Kenita come se ne trovano a migliaia, che non abitava lontano da Kades e che Sisera, poveretto, riteneva fedele al suo re), lì fu accolto dalla moglie di lui, J**** (il cui nome significa stambecco della Nubia), che gli dice qualcosa del tipo: “Eber è andato un attimo giù a Kades, a procurarsi foglie di canapa e latte di asinella; entra pure nella sua tenda e riposati”. L’allocco ci casca e, esausto, si mette a ronfare su un mucchio di molli cuscini. «Allora J**** tolse un picchetto dalla tenda, prese in mano un martello e si avvicinò a Sisara senza far rumore. Gli conficcò nelle tempia il picchetto, ma così forte che rimase piantato anche in terra. Sisara passò dal sonno alla morte». Dopo averlo inchiodato al suolo da vivo, J**** va incontro al re Barac, e, tutta orgogliosa come un bambino, mostra un disegno alla mamma, le indica il lavoretto ben fatto; invece di inorridire davanti a tanta carognaggine, piovono grandi pacche sulle spalle e si stappano gli otri; qualcuno canticchia «Sia benedetta fra le donne J**** […] così periscano tutti i tuoi nemici, Signore». Fine.

Deglutisco. Chiudo il computer. Metto su le variazioni di Goldberg e mi faccio un the verde. Ho bisogno di calma. Con le dita che tremano tiro fuori il mio Gatto Silvestro dalla tasca. Mi sono informato: ogni Gatto Silvestro possiede specifiche qualità geometriche e topologiche che, pare, mutano in base a una costante che si ottiene dividendo il numero di bottoni sinaptici del possessore per il numero di rimorsi o ripensamenti che ha accumulato fino a quel giorno. In altre parole, ogni Gatto Silvestro, più che posseduto, viene “cucito addosso” al possessore, come i feed di YouTube o i menu dei voli in primissima classe. Ogni Gatto Silvestro che si rispetti percepisce, computa, immagazzina, predice, agisce di conseguenza, registra la risposta, paragona la risposta alla previsione, si premia o si punisce, fornisce una risposta al suo proprietario, si adatta e ricomincia da capo. Solo una caratteristica, la più importante, non cambia: ogni Gatto Silvestro, prima o poi, cade da un lato o da un altro; c’è poco da fare.

Bene, ci siamo. Sono fuori, nel chiostro della biblioteca di filosofia, appoggiato a una colonna in finto porfido di plastica espansa – quelle originali le hanno portate via per la mostra su Atlantide a Gardaland. J**** ha il turno in biblioteca, dalle quattro alle quattro e un quarto: devo sbrigarmi. Mi accovaccio, sgombero il lastricato di cicche e sigarette, estraggo il Gatto Silvestro. Entro in biblioteca. J**** è lì che non mi aspetta. Mi sorride. Ed eccoci qui, seduti al tavolino del Friedrich der Grosse, appena uscito da uno scrupoloso rebranding; nella nuova carta ci sono solo birre ispirate a famosi campi di concentramento. Sia che io che J**** concordiamo nel trovarlo di cattivo gusto, o perlomeno opinabile. Ordiniamo una Ravensbruck.

«Dovresti smetterla di pensarmi: mi fai venire l’acufene».

«Come fai a sapere che sono io?»

«Ogni volta che entri in biblioteca, cominciano a sanguinarmi le orecchie».

«La massa, per avere forza, deve essere pura: non può accettare scorie dialettiche».

«Questo però mi permette di introdurre un argomento seminale e cioè la top tre dei gelati dell’estate italiana».

«…»

«…»

«Senti – le dico –, perché non la smettiamo con tutti questi fuochi d’artificio? Perché non arriviamo al cuore della faccenda?».

«Insomma, vuoi sapere il motivo di tutti quei sorrisoni in biblioteca?».

«Sarebbe un ottimo inizio, sì».

«Be’, è molto semplice: è un modo per tenervi lontani, per confondervi. Allontano chiunque voglia conoscermi, per rassicurarmi di essere intatta e intoccabile, pura e inespugnabile».

«Ah sì?», la mia Ravensbruck ha un retrogusto smaltato.

«Già già! Il problema è che, sotto sotto, non lo sono; o meglio, lo sono nella misura in cui esiste una purezza che coincide con l’aridità e la sterilità. Ambisco, invece, a una purezza ottenuta attraverso il crogiolo e il fuoco, luoghi di incontro e di fusione, per definizione».

«Gulp».

«Eh sì».

«Aspetta, non sarai mica…?»

«Evangelica, per la precisione. Il fatto è che…, sì, che tu mi piaci costituisce un notevole problema».

Le mostro il mio Gatto Silvestro.

«Me l’ha venduto una bambina. Se non diventerà una hippie, credo avrà un futuro negli Esports».

Mi dice che è molto bello e utile.

Breve scambio e-pistolare.

J: «Ci ho riflettuto, e tra noi non può assolutamente funzionare. Il fatto che tu non creda costituisce un problema insormontabile – capisci? Non te la prendere: nulla di personale».

Io «Con un malato condannato non bisogna voler essere medici. Non ti preoccupare. Mi prendo la mia cottarella e me la infilo in tasca».

J: «Che ne dici di un gin & tonic?».

Io «Guarda, mi piacerebbe molto. Il problema è che il mio Gatto Silvestro mi ha imposto un viaggetto a New York; quindi, non credo proprio di farcela per le sei di oggi pomeriggio. Mi chiedi com’è New York? Sfruttando le proprietà del mio Gatto Silvestro, ho esplorato un po’ la città lanciandolo a ogni biforcazione. Considerata la sua pianta-a-scacchiera, le probabilità di impantanarsi in un loop saranno altine, obietterai tu. In verità, se si considera l’albero dei lanci e un quartiere fatto a rettangolo, le probabilità di tornare sui propri passi e scontrarsi due volte contro lo stesso rabbino sono di ½ x ½ x ½ x ½. Pochine, tantine: dispende dai punti di vista».

 

 

J: «A quarant’anni inoltrati, il conte Lev Tolstoj (Tolstoj in russo significa “grasso”) tentò più volte di ammazzarsi, sparandosi in testa con un fucile da caccia, o impiccandosi nel granaio della sua tenuta di Jàsnaja Poljàna. Motivo? Totale mancanza di significato. Trovare Dio o il “bene” gli ha letteralmente salvato la vita. Ho sempre pensato che l’amore andasse meritato. Quando ne ho trovato uno gratuito, che giustifica e redime, non è che ci sono stata tanto a pensare: certe cose si vedono; è inevitabile, assolutamente inevitabile, come quando sbadigli, o cadi in un fosso. È inutile, quindi, che stiamo tanto a discuterne. Allora? Vuoi venire in campeggio con me?

Io: «È che non sono in città, sono ad Amsterdam. Temo che presto il mio Gatto Silvestro mi spedirà dritto dritto in Finlandia. Vallo a capire. In ogni caso, c’è da stare attenti qui: se entri in un canale le possibilità di tornare sui tuoi passi aumentano vertiginosamente; direi nella misura di ½ x ½. Saluti & baci».

 

J: «Mi sembri uno di quei cavalli da alpeggio, quelli a cui mettono un sacco in testa e, ciechi, continuano ostinati a brucare l’erba».

Io: «1) Il conte Lev Tolstoj un giorno visita l’asilo per i poveri e i senzatetto di Ljapin, a Mosca. 2) Il conte Lev Tolstoj rimane a bocca aperta davanti agli abitanti dell’asilo di Ljapin: affamati, storpi, malnutriti, tremanti dal freddo, dementi, con gli arti incancreniti, umiliati. 3) Il conte Lev Tolstoj, davanti a un Samovar incandescente e a un circolo di principesse, pronuncia la frase «è impossibili vivere così, impossibile. 4) Il conte Lev Tolstoj abbandona i poveri di Mosca, perché non è possibile aiutarli tutti, e torna in campagna, a Jàsnaja Poljàna, a giocare a fare il contadino, a cucinare con la padella, ad affondarsi nella terra come un aratro. 5) Il conte Lev Tolstoj ricava dal lavoro fisico una pace perfetta dello spirito: trova Dio, trova il ‘ bene’, comincia a predicare con frasi patetiche come “tu sentirai la gioia di vivere liberamente con la possibilità del bene”. Chi non lo segue, chi non la pensa come lui, è un’anima perduta che merita l’inferno. 6) Una notte, davanti al camino, ripensa ai poveri di Ljapin. Che felice trovata! Il loro pensiero adesso lo rincuora: grazie a loro sono diventato migliore. Quella notte, al ricovero di Ljapin, un neonato muore di freddo tra le braccia della madre. Il mio Gatto Silvestro mi suggerisce di non diventare un mostro, se lotti contro un mostro.

J: «Carino, ho prenotato una tenda per due».

 

 

*        *        *

 

Si vocifera che il campeggio ‘Sola Gratia ­– Galletto Valparaìso®’ di Introbio (LC) sia stato edificato sulla planimetria originale di un campamento de verano, trovata nella biblioteca personale dell’Inquisitore generale Tomás de Torquemada. Io dormo in tenda con J****. Abbiamo ottenuto un permesso speciale e l’arcidiacono in persona è venuto a inchiodarlo alla nostra zanzariera. In cambio del permesso, ha preteso che dormissimo in una tenda di vetro. Zanzare e rifrangenza a parte, non si sta poi tanto male. Alle cinque e mezza, i megafoni ci svegliano con gli esercizi spirituali di Meister Eckhart, io mi tolgo il caschetto (non si sa mai) e, con il dito indice, perforo un buchino nel paravento e la spio mentre si veste. Usciamo tutti dalle tende e ci disponiamo in semicerchio. Le tende sono posizionate ad anfiteatro romano, in mezzo alla radura. Impilati uno sull’altro, arrugginiscono vecchi strumenti di tortura: Frusta, Gogna, Ruota, Argano della strega, Culla di Giuda, Collare, Gabbia sospesa, Forca, Mordacchia, Maschera di ferro, Pera rettale, Vergine di Norimberga; dovrebbe esserci tutto. Ci scrolliamo la rugiada di dosso e intoniamo i salmi. Colazione veloce. Ci dividiamo in gruppi e iniziamo le attività: digiuno, catechismo, evangelizzazione dei nativi (l’autogrill più vicino è appena a venti chilometri in pulmino), volantinaggio, mortificazione del corpo al ruscello, preghiera nei boschi; oggi si giocano gli ottavi del torneo di pallavolo (Utenti Pornhub VS. Antisti). La notte, quando tutti dormono, copro la tenda con una tovaglia rubata in mensa e mi sdraio di fianco a J****, che fa finta di dormire, girata di spalle.

«Alla fine, si riduce tutto a questo?», mi bisbiglia.

«E ti sembra poco?»

«Cosa ti suggerisce il tuo Gatto Silvestro?»

«Non saprei. È nella tasca dello zaino, ma credo mi direbbe di scappare a gambe levate».

«Quanto ti piace andare in giro a fare l’impunito con il tuo spleen al guacamole, con le tue cottarelle e i tuoi sentimenti? Straccetti lividi, al centesimo lavaggio a freddo in lavatrice: la verità è che sei come tutti».

«Mediocre?».

«Impaziente».

Le passo un dito sulle guance e me lo metto in bocca: sa di salatino al formaggio.

Il giorno dopo, tutti in gita! L’apparizione del Cristo in vetta è data per le 12.45: dobbiamo accelerare il passo. J**** mi cammina davanti, indossa dei pantaloncini da trekking e una magliettina che le lascia le scapole scoperte: che le vorrei spolpare. La lunga fila di devoti si snoda su per la montagna in una preghiera silenziosa. Ci accampiamo a pochi metri dalla cima e aspettiamo il nostro turno. Chi scende dalla cima ha gli occhi gonfi e un sorrisone postcoitale. Tocca a noi. J**** mi trascina su e si inginocchia. Io guardo verso valle: gli uomini e le donne del paese si sono radunati su una collinetta e si divertono a fare rotolare giù una forma di formaggio e a inseguirla. Il Gatto Silvestro comincia a vibrarmi in tasca. Devo essermi perso qualcosa perché J**** si è rialzata e sta piangendo.

«Hai visto?».

( n.b.: modificato su richiesta dell’autore il 9/9/23)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Radio days: Mariana Branca

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Il regno del soundscape senza bordo e confine – Mariana Branca

di Mirco Salvadori

Improvvido mi immergo senza ritegno nel vagare elettronirico di Mariana Branca impossessandomi di una delle più immaginifiche frasi contenute nel suo libro: “Non nella Enne non nella A ma nella Esse” edito per i tipi della Wojtek. La uso come titolo per una conversazione che ha come intento raccontare, raccontarci quanto può avvenire in quel regno senza bordo e confine in bilico tra reale e immaginario. In quella inconsueta ir-realtà possono convivere veri sound artist, musicisti e produttori assunti alla notorietà mondiale come Nicolás Jaar e il suo intimo e indivisibile amico Andrés, creatura partorita dall’alchimia creata dalla mente di una scrittrice abituata a dondolare perennemente in bilico tra i due mondi: quello di Nicolás e l’altro, di Andrés.

Ma lo stupore non si ferma certo all’esplosiva idea che ha generato questa perla di romanzo scritto da una esordiente, si dirà. Calma, valutiamo: se una esordiente riesce a trascinarti così ferocemente in un vortice psichedeliconirico a 80 bpm non uno di più, chissà quanti scritti respirano nell’oscurità dei cassetti nei quali ha racchiuso i suoi pensieri in continuo divenire, proprio lei, la stessa esordiente che lo scorso anno si è guadagnata la finale del Premio Italo Calvino.

Accennavo allo stupore creato anche dall’argomento nel quale l’estraniante miscela creata dalla Branca viene immerso: il suono elettronico. Tutti abbiamo letto libri che avevano una struttura sostenuta dalla musica, ma quale: rock, classica, jazz, rithm’n blues, soul, pop e chi più ne ha, difficilmente però  collegabile a un universo musicale e culturale tenuto a distanza, misconosciuto o non capito perché di non facile fruizione, secondo i canoni dell’imperante mainstream. “Non nella Enne non nella A ma nella Esse” rappresenta, per chi nell’universo musicale elettronico vive e di esso si nutre, una sorta di liberazione, il sentirsi parte di una variegata comunità minore, nascosta, poco valutata ma terribilmente vitale. Mariana Branca, con maestria da docente di sound-scrittura innovativa ad alto tasso elettronico, descrive gli intimi meccanismi della passione che si scatena quando la macchina madre: il synth, inizia la sua danza algo-ritmica. Lei riesce a rendere tangibile fisico, il piacere che si prova quando il beat penetra e la materia sprigionata si espande nell’ascolto, trasformatosi in prova sensoriale descritta con una modalità difficilmente riscontrabile altrove.

Questo libro è una testimonianza di profonda passione per l’amicizia, per il ricordo costante del proprio vissuto, per il suono elettronico ascoltato e prodotto, per la vita notturna con i suoi capisaldi: i club. Un’indagine svolta indossando bombole di profondità perché a volte, il tono della nota e della parola, possono togliere il respiro.

Da dove iniziare? Dalla lettura del tuo libro se ne esce sospesi, con le mani che cercano un appiglio da afferrare e stringere per rimettersi in posizione eretta, i piedi appoggiati al suolo dopo un volo di centotrentatre pagine lette d’un fiato. Prima di partire, ancora in lento avvicinamento alla solidità di una conversazione, mi chiedo chi sia Mariana Branca e quale sia il suo percorso letterario e artistico. Al pari dei personaggi del tuo libro, hai parvenze ir-reali, non sei rintracciabile nei social, non esiste un tuo blog o sito, bisogna cercarti come si fa quando ci si trova nelle città sconosciute alla ricerca dei locali notturni che forniscono ottimo suono e buon bere.

Ciao Mirco, grazie per avermi accolto su Nazione Indiana, che bello, ne sono felice, onorata. Come suonano le tue parole, suonano, suonano proprio. Le trovo così familiari che potrei raccontarti tutto di me facendo un riassunto super stringato ma sperare che tu mi chieda qualche dettaglio, che sono quelli i più belli. Rispondo alla tua domanda: non ho un percorso letterario e artistico. Ho studiato prima al liceo scientifico del mio paese, un village a tutti gli effetti, per la dimensione, la mentalità, la chiusura intellettuale e geografica. Un posto che mi ha tormentato per anni, tanti. Adesso lo amo. Poi me ne sono andata a Napoli, e l’energia del vulcano io me la sentivo sotto i piedi, salirmi nelle ginocchia e farmi avere voglia di muovermi, muovermi continuamente, muovermi, scoprire, conoscere. A Napoli ho passato degli anni a cambiare facoltà, terrorizzata dall’idea di studiare una cosa soltanto e poi trovarmi a fare quel lavoro per sempre, quel lavoro e basta. Alla fine ho scelto architettura e mi sono laureata. Oggi faccio comunque un altro lavoro, l’architetto lo faccio pochissimo, se e solo se ci sono le caratteristiche perché sia un’esperienza creativa e non una mera gara a chi firma più documenti all’ufficio tecnico. Mi avvilisce la burocrazia, non ci vado d’accordo. E nemmeno coi social, coi blog, con le cose che hanno una portata troppo aperta: in questo sono davvero irpina, amo la riservatezza, condividere le cose con una persona alla volta, far entrare solo dopo un’analisi attenta, uno scambio, anche breve, di empatia. Preferisco le lettere, anche cartacee, a internet.

Mariana Branca, come mai la scelta di Nicolás Jaar, un nome decisamente famoso ma soprattutto per chi segue con più passione la scena musicale elettronica. Avevi un range di scelte indubbiamente più ampio, che ne so: Richard David James (Aphex Twin) o un più pop William Orbit che ai tempi era assunto alle alte sfere per il suo lavoro con Madonna, giusto per fare due esempi diversi a caso. Sembra quasi la tua scelta sia dettata da un irrinunciabile legame con l’indipendenza artistica, a parte l’amore per il suono del musicista di origine cilena.

Avrei parlato di Glen Porter, se ci fosse stato materiale bastante su di lui, in rete, nel 2016, quando ho iniziato a scrivere questa storia. Glen Porter che io amo, brutalmente amo. Glen come chiunque altro stessi ascoltando in quel periodo, musicisti di cui potevo parlare con poca gente, quei quattro amici che avevo, per esempio, a cui mandavo la tune del giorno. Nicolás l’ho scelto senza sceglierlo, lui era là, come un meteorite caduto accanto a me. Mi metteva addosso la pace di una galassia aliena. Lui era là, a vent’anni già con la sua etichetta, il suo mondo di arti e artisti, quella dimensione piccolissima e ricercata, segreta, della Clown&Sunset. Lo ascoltavo giorno e notte, guardavo le sue interviste e gli vedevo negli occhi un sottile imbarazzo, una timidità (come citi dopo), una voglia di essere invisibile che mi facevano il cuore in pezzi, in senso buono. Vado matta per i timidi, per chi non ostenta mai, come fa la musica indipendente, per quel poco che ne conosco. Questi musicisti fanno quello che sentono e, se sei fortunato e curioso, un giorno ti ci imbatti e ti cambiano la vita, le ore, le orecchie, il ritmo, il battito in petto. E lo fanno senza clamore, zitti zitti, in segreto. Gli rendo lode.

Come ti è apparsa (uso un termine legato alla magia perché di magia si tratta) l’idea che ha dato il via a questo lungo racconto di musica, fratellanza, introspezione e mille altre sfumature che vanno a comporre il tuo romanzo e come sei riuscita a far convivere la realtà e la finzione, le due componenti invisibili che sorreggono l’intricata struttura del racconto.

Ero alla scrivania di questa casa a Lyon dove mi sono ritirata dopo Londra, maciullata dal grind della vita di Londra. Iniziai a scrivere di una vicina di casa di mia nonna, ‘Ngiulina si chiamava, una tipa buffissima. E mi venne voglia di parlare di cose che conoscevo, che mi dessero un senso di vicinanza, di amore anche, perché era un momento che mi sentivo spaiata, esiliata. Avevo bisogno di un amico, uno immaginario anche, che stesse con me in quella casa col gatto e una pianta tropicale. Nicolás era il più vicino e immaginario che avessi intorno, e perciò ho raccontato di lui, di me che ero Andrés e lui, a fare tutte le cose che non farò mai ma che, scrivendone, ho vissuto, con tutta l’intensità di cui sono capace. A quel punto dovevo parlare del Nicolás reale, perché era reale il suono che mi sparava nelle orecchie, lui e un bel po’ degli Other People amici suoi. Perciò mi sono messa a cercare, ricostruire, creare cronologie, elencare, accumulare informazioni sui posti dove era andato, sulle cose che aveva suonato, fatto, detto, visto, scritto. Ho passato dei mesi senza sapere cosa avessi fatto io dal 2009 in poi, ma lui sì, lui sì. Ho inventato tutto, ma come un ricordo, come se avessi vissuto tutte quelle cose in una vita altra e le avessi dimenticate. Poi è arrivato lui e il Suono e lo Spazio, e io me ne sono ricordata, vividamente, e ne ho scritto.

La tua è una storia di musica, sulla quale andremo a indagare ma è anche intensa descrizione di un rapporto di amicizia oserei dire estrema, di adorazione dell’uno nei confronti dell’altro tra due ragazzi che si ritrovano a vivere l’esplosione musicale in campo elettronico degli anni zero. Semplificando mi verrebbe da citare il nome del duo che Jaar aveva formato con Sasha Spielberg: i Just Friend.

I duetti di Nicolás mi sembravano pura magia, soprattutto quello con Dave Harrington. Una cosa che mi chiedevo: ma come fanno. Perché io questa cosa l’ho desiderata fin da piccola, di avere uno scambio intimo/intimistico con qualcuno, profondissimo e epiteliale, al contempo. Quel legame che se ci si sfiora un braccio senti la portata della vibrazione che attraversa l’altro. Uno scambio viscerale, che non si ferma alle cose che uno fa insieme, ma che crea come un altro essere, un’entità terza che è la fusione dei due. Uno scambio che è la condivisione di quelle cose che non si possono dire, ma cantare forse sì, suonare, inventare, dargli una forma. La musica permette, meglio della parola scritta, questa condivisione a più teste, io però non ho mai suonato uno strumento, non ho mai duettato con nessuno, a parte, forse, nelle relazioni epistolari che ho avuto per anni. Nelle lettere mi svelavo i silenzi di dosso, questo so. Ero timida, di quella categoria che quasi definirei patologica: arrossivo (non ho smesso), non sapevo dire, dichiarare. E forse anche con la recitazione, forse in qualche occasione, duettando con un qualche attore assolutamente-non-professionista, ho sentito questa “cosa” provenire dalle mie budella, dagli organi interni, dai fluidi del corpo. Ascoltavo Nicolás suonare con altri e percepivo questo legame, animistico quasi, che mi commuoveva, mi faceva ridere della gioia di una bambina di otto anni, prevedere mondi futuri, psichedelici di sogni la notte a venire.

Inoltrandomi nella lettura una domanda mi si presentava in random: Mariana Branca si sarà posta il dubbio della poca dimestichezza di gran parte del pubblico con questi suoni e quindi con la sua scrittura, zeppa di riferimenti ben precisi facilmente capibili per gli appassionati ma alieni al grande pubblico? A rincuorarmi il sapere che sei giunta finalista al prestigioso Premio Italo Calvino lo scorso anno.

Mi sono posta un milione di dubbi! Mi dicevo: ma chi ti capisce! con tutti sti paroloni, sti termini tecnici, sti riferimenti a cose eventi date personaggi numeri e tutto il resto. Sapevo che era difficile da leggersi, questa storia, illegibile, mi avrebbero forse anche detto. Ma non avevo alternative. Il mio amico Alfredo Speranza, anche lui finalista al Calvino con me con un libro troppo bello che parla di una grossa ratta e del suo mondo (Rattata), mi ha detto, dopo aver letto il libro: tu sto libro non l’hai scritto, l’hai suonato, Maria’. E io sono rimasta a guardarlo, poi l’ho abbracciato, perché forse è stato proprio così. Perché mentre scrivevo io avevo solo suoni, il Suono, in testa, le parole dovevano perdere consistenza e farsi suono e basta, questo volevo. E allora mi sono detta che, forse, qualcuno, magari anche uno solo, un giorno lo avrebbe letto ascoltandolo, il libro, e mi sarebbe bastato, avrebbe voluto dire che la prepotenza di quei suoni che ricercavo aveva ragione lei, che non potevo scrivere diversamente. Credo molto nella inevitabilità degli eventi, nella necessità che si svolgano proprio così e non in un altro modo. Senza fatalismo, solo l’urgenza che le cose vadano come vogliono andare.

 

Non nella Nenne non nella A ma nella Esse, titolo affascinante il cui significato non vorrei svelare. Farlo leggendolo alla fine del tuo mirabilante racconto è decisamente commuovente. Perché una storia di profonda amicizia, una sorta di on the road sulle strade di mezzo mondo e su quelle al tempo stesso più impervie e accoglienti dell’introspezione personale con una matrice psichedelica ad alto potenziale e una multidisciplinarità oserei dire impressionante: chimica, fisica, filosofia, esoterismo, architettura (so che in questa materia ti sei laureata), religione, etimologia e qui mi fermo ma potrei continuare?

Non so molto di filosofia, ma molte volte ho letto che tutto è espressione del divino. Io non mi esprimo, in merito a dio e dei e religione, ma sento come una fragancia oscura che la si può annusare in tutte le cose, volendo. Credo nei campi magnetici, nelle energie che ti muovono i piedi, negli incontri casuali perché il caso non esiste. Mentre scrivevo ero allibita dalla potenza e dalla quantità di “coincidenze” che trovavo nel mondo reale rispetto a quello che stava sviluppandosi nella mia testa, sulla pagina. Forse è davvero come dicono, che notiamo le cose solo quando ne abbiamo un pensiero precedente: pensiamo a qualcosa e poi ci appare continuamente. È stato così, con questa storia. Tutto era paurosamente connesso. C’è un film di Jarmusch che adoro, The Limits of Control, del 2009, che per me è un po’ l’esplicitazione di questa idea che tutto, le cose le arti la scienza gli eventi, tutto è la manifestazione di una sola enorme energia. Il messicano del film a un certo punto dice: “The old men in my village used to say, “Everything changes by the colour of the glass you see it through.” Nothing is true. Everything is imagined. For me sometimes the reflection is far more present than the thing being reflected.” (I vecchi del mio villaggio dicevano: “Tutto cambia con il colore del vetro attraverso il quale lo vedi”. Niente è reale. Tutto è immaginato. Per me a volte il riflesso è molto più presente della cosa riflessa.)

Direttamente legata alle tue argomentazioni espresse con incredibili voli dentro e fuori il tempo reale, sospesi come lo si è subito dopo la lettura del libro, c’è la presenza di una forma di scrittura che assolutamente incanta e ha la capacità di far pensare quanto sia importante la continua ricerca, l’innovazione, il non fermarsi al già detto e sentito. La stessa cosa che succede in musica. Come ti giungono le ondate di pensieri che tramuti poi in parole sulle quali noi surfiamo investiti dalle folate di vento con il quale le accompagni. Quale il meccanismo della notevole trasmutazione che avvolge il lettore con la potenza dell’onda che si frange e travolge nel tuono del suo contorcersi su se stessa per rinascere e ancora abbattersi sulla pagina.

 Ci vuole un doppio occhio, un guardare doppio, un guardare e poi un vedere, vedere; e ci vuole un doppio orecchio, per ascoltare e poi sentire quello che evocano le cose, le persone, la musica, soprattutto quella. Per esempio, se vado a fare una passeggiata nei boschi, in mezzo ai castagneti che circondano il village dove sono nata, io in quella verdescenza (!) mi sento perdermi, sminuzzarsi il perimetro di quella che sono e farmi inconsistente, vaga. Non è un fatto di entrare in sintonia, non propriamente, perché nei boschi, a volte ci si sente estranei, a volte ti sono ostili, a volte fai troppo rumore e ti senti goffo, inappropriato. È più un assorbire, un partecipare a quello spazio, a quei suoni, a quella trascendenza verde, appunto. E allora si creano immagini nella mia mente, immagini che collegano la sensazione di quel posto a qualcosa che ho vissuto, provato, o che non ho provato mai ma che invento, io invento sempre. Così succede che lo scrocchiare delle scarpe sulle foglie secche e i ricci, nella penombra del bosco di castagni di cento anni almeno, mi faccia pensare a quando ho visto un amico partire, alle patatine che avevamo mangiato tutta la notte, facendocele cadere di bocca, a terra, e il pavimento scrocchiargli sotto le scarpe, prima di andarsene. O viceversa: l’ho visto partire, e le sue scarpe facevano il suono crepitato del bosco, roboante, potente, devastato di ricci secchi.

Esiste una particolarità nella scelta delle parole che mi ha da subito incuriosito. L’uso di termini che potrebbero essere descritti con vocaboli attuali ma vengono riportati con loro simili appartenenti al mondo della pura intima descrizione. Sono infiltrazioni stilistiche volute, portatrici di vicinanza e comunione come per esempio: “timidità” che suona incredibilmente più efficace di “timidezza”.

 Io ci perdo proprio la testa, sui dizionari dei sinonimi e contrari, su quello etimologico, ci passo il tempo, le ore, mi lascio conquistare, ammaliare. Solo quando completamente sedotta, smetto di cercare. Non sempre, s’intende, ma con questa storia era proprio inevitabile, per questa cosa che il suono doveva averla vinta lui e anche perché io mentre scrivevo ero in una bolla, attutita, gommosa o gommata, come sott’acqua, e questa sensazione io la volevo restituire. Nel libro, per esempio, non uso mai la “ed”, come congiunzione, o “ad” prima di una vocale. Io questa cosa l’ho voluta, decisa fin dall’inizio, difesa in fase di editing (spalla a spalla con il mio editor, Eduardo Savarese, la piuma e lo scalpello), perché volevo che ci si fermasse sul suono di ogni parola, stare (..) a (..) ascoltare non è la stessa cosa di stare-ad-ascoltare, no? Io volevo perderci il tempo, sulle parole, ché perdere il tempo sulle cose piccole o insignificanti è una cosa che so fare bene, che mi fa stare bene. Volevo creare un distacco dalle parole consuete, quelle che mastichiamo tutti i giorni e non ci facciamo caso più, volevo farci caso, starle a pensare anche dopo averle scritte, lette e rilette. Volevo che mi rimanessero in testa, e da lì, che mi portassero da qualche parte. Se leggi la parola pappalecco, non ti viene automaticamente voglia di pappaleccare qualcosa? E come si pappaleccano le cose? Insomma, ci resti a pensare, no?

Intitolo questa domanda: Della descrizione del suono. Visto il mio ruolo di “scrittore prevalentemente musicale”, sono rimasto impressionato – chapeau! – dalla tua capacità di descrivere ciò che ascolti con parole che non sono legate agli standard desueti della critica musicale. Leggendoti ho come ritrovato la voglia – che appartiene anche al mio andare per ascolti – di superare la semplice descrizione del ciò che avviene nei solchi di un disco o sul palco di un concerto o dietro una consolle. Ho sentito come una sorta di vicinanza nel cercare di creare un racconto che vada oltre la semplice descrizione di quanto si ascolta.

Tu, Mirco, sei decisamente, definitivamente quel “qualcuno” a cui pensavo mentre scrivevo, come ho detto sopra: magari anche uno solo, un giorno lo avrebbe letto ascoltandolo, il libro, e mi sarebbe bastato. Non ci capisco molto di critica, in generale non mi interessa, e come Nicolás penso che le definizioni siano una cosa mortale, comoda ma riduttiva. Ok, sì, ci danno un’indicazione, ma poi? Non è sempre la nostra percezione delle cose che ci permette di definirne il senso? Avevo un’amica a Parigi, era incredibile. Non aveva nessunissimo interesse musicale, apriva una compilation passatale da qualche amico e la metteva in loop. Si addormentava felice solo con un po’ di sano metalcore (ci sono cascata: definizione), tipo gli August Burns Red, dormiva proprio felice, e se io le proponevo Burial, le vedevo proprio la faccia storcersi in una smorfia di insofferenza, diceva che le faceva venire l’ansia, l’irrequietezza, la smania. Burial.

“E’ un fatto essenziale indossare la musica giusta”: alé. Si entra in area Suono con una tua citazione che spero possa essere compresa da molti ma che in realtà riguarda pochi, tanta è la confusione e disinformazione musicale sotto questo cielo. Nicolas e Andrés, indossano più generi musicali, spaziano in modo estremo dal contemporaneo, al classico passando per la trance, la techno, l’house, l’antico rock, il pop e chi più ne ha. Il risultato è che non sono classificabili come ascoltatori, come in effetti è difficilmente classificabile la musica di Jaar, se non con un ambiguo termine: elettronica. Una scelta questa che ti rispecchia o dovuta al tuo inseguire nel lato reale del racconto, il percorso di un vero musicista e sound artist.

 Chi si somiglia si piglia, credo. Io mi sono pigliata Nicolás perché lui esplicitava tutte queste cose insieme, delle quali non so fare a meno, nemmeno di una di loro. Ho bisogno della techno, dell’antico rock e di quello contemporaneo, del metal, del blues e tutto il resto. Nicolás prendeva questi generi, non tutti s’intende, e li squagliava, li fondeva. E io a sbavare su questa colatura sonica. Lo sentivo mosso da una bramosia, da un non fregarsene niente di rientrare in uno schema, lo sentivo curioso, maniacale, accanito investigatore di onde sonore, comunque esse si propaghino e in qualunque tipologia di spazio. Questo suo interesse per lo spazio, poi, per il contenitore di propagazione del suono, mi fece proprio cadere ai suoi piedi: avendo studiato architettura, mi accorgo che non so prescindere dallo spazio, dai luoghi, dal contesto costruito o naturale che mi sta intorno. C’è una differenza, però: la musica giusta da indossare la puoi scegliere, un posto no. Se vivi in un posto che ti sta stretto, che ti opprime, che non succede mai niente, ti svilisce o che è caotico, hectic e pazzo, se non ci stai bene, quello è un fatto grosso. Nicolás disse in una intervista: fare che il suono si adatti allo spazio. E io ho cominciato a pensare a quante volte ho visto i ragazzi in qualche piazzetta lurida, senza manco una panchina, un baretto, un albero niente, solo un micro vuoto urbano, una rimanenza in mezzo ai palazzi, i ragazzi stare in quella piazzetta come se stessero a Central Park (riferimento letterario, direi, non ci sono mai stata, non so, come si sta a Central Park?) o al Parc de la Villette, adattare quella piazzetta alle loro risate, alle acrobazie sugli skate, al limonare appartati dietro un cassonetto. Ascoltare io lo penso come un verbo gigantesco, ascoltare i palazzi, le strade, la gente dentro. Con un disco che si chiamava Space Is Only Noise, capirai Mirco, che io per poco non ci rimanevo secca.

Mariana Branca si rende conto che è riuscita, nello spazio indefinito che occupa il confine tra realtà e finzione, in quel “regno di soundscape senza bordo e confine” a raccontare la storia di un fenomeno che ha letteralmente stravolto il panorama musicale mondiale? E’ conscia di esserci riuscita descrivendo solo il mondo che girava attorno ad un preciso sound artist, tra l’altro cresciuto lontano dai circuiti classici?

Questa è la domanda più difficile, Mirco! Perché io ho una terribile capacità di autocritica, mi pare sempre che ho fatto un po’, solo un po’, di quello che avrei voluto. Non lo so se ci sono riuscita, ma le tue parole, quelle di altre persone (un poco magiche della magia di cui parli tu, che per essere magia, ci deve essere chi la fa, e chi la sa ricevere), per me sono proprio cosmogoniche: descrivono, si avvicinano, parlano della nascita di questo piccolo universo che ho in testa, che spero, voglio guardare da vicino nella sua evoluzione, starlo ad ascoltare mentre si trasforma in qualcos’altro, questo piccolo universo che ho in testa dove il riflesso, a volte, è più presente della cosa riflessa.

A chi dedichi queste pagine, quale lettore pensi possa abbracciarle sentendosi parte di esse?

Ai timidi curiosi, ai curiosi timidi. Ai timidiosi, ai cùridi.

Ai musicisti, in chiusura conversazione, solitamente si chiede dei programmi in corso o futuri. Lo si fa anche con le scrittrici?

Non lo so, Mirco, se si fa, ma accoglierei qualsiasi domanda provenga dalla tua testa di ascoltatore seriale, compulsivo forse. Voglio scrivere, questo so. Magari potessi solo quello. C’è sempre musica, della musica, nelle cose che scrivo, me ne accorgo quando rileggo. Non una pagina senza almeno un intramezzo. In “Non Nella Enne Non Nella A Ma Nella Esse” parlo anche un po’ di posti, immaginati per lo più, ma ci sono, essi determinano, aprono, chiudono, circoscrivono, esondano. Adesso voglio scrivere esplicitamente di posti, farlo attraverso dei personaggi diversi, somiglianti o opposti agli spazi che abitano, che attraversano. E poi voglio scrivere di persone/personaggi che sono paesaggi, luoghi, edifici, autostrade, corridoi, praterie. Personaggi che sono di questa Irpinia selvatica da cui vengo, farla descrivere a loro. Che lo Spazio è solo Rumore, sì, ma il rumore, da dove viene il rumore, e dove arriva, dove finisce, il rumore.

 

 

 

 

Meglio Papi che Regine: auguri Anna Maria!

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foto di Giorgio Cipriani

foto di Giorgio Cipriani

di

Francesco Forlani

Qualche giorno fa mi ha scritto Dominique Papi a proposito di un progetto che abbiamo in mente per trasmettere in forma di qualcosa, l’incredibile archivio, composto da opere, disegni, fotografie, articoli e testi geniali di Anna Maria che il lettore di Nazione Indiana ha avuto qualche anno fa l’occasione di leggere e amare come li abbiamo amati noi. Questo lunedì avrebbe compiuto 94 anni, e questo reportage miseria della nobiltà dai reali appartamenti dell’aristocrazia inglese mi sembra il modo migliore per ricordarla.

LONDRA: NATALE IN CASA GETTY

di

Anna Maria Papi

Diario di Saragozza: Ex vuoto 11 settembre

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di

Francesco Forlani

L’uomo è un cavo teso tra la bestia e il superuomo, – un
cavo al di sopra di un abisso.

Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra

 

Queste riflessioni sono parte di un corso di filosofia preparato per i miei ragazzi al Lycée Français Molière di Saragozza sulla nozione di Arte e particolarmente sul ruolo che quest’ultima può avere nella creazione di un territorio nell’immaginario collettivo, qualcosa di simile a un’utopia che, seppure per pochi attimi, da idea astratta diventa qualcosa di concreto, reale. Un attentato al terrorismo.

Per cominciare abbiamo letto le pagine secondo me più belle dello Zarathustra, precisamente quelle in cui Friedrich Nietzsche racconta il “tramonto”di Zarathustra, la sua discesa tra gli uomini che incontrerà poco dopo in una pubblica piazza dove sta per esibirsi un funambolo.

Il nostro arringa la folla, in un’appassionante invettiva contro Dio e contro gli uomini annuncia il suo piano di battaglia e se sulle prime i presenti gli prestano ascolto, subito dopo ce ne viene raccontata l’insofferenza:«Abbiamo sentito parlare anche troppo di questo funambolo; è ora che ce lo facciate vedere!». E la folla rise di Zarathustra. Ma il funambolo, credendo che ciò fosse detto per lui, si mise all’opera.

Un passaggio per certi versi comico questo che mi ha fatto tornare in mente la straordinaria gag di Hollywood Party, quando Peter Sellers si immette nell’esecuzione dell’ordine da parte del regista e fa saltare in aria, letteralmente, la scena preparata con cura ed esplosivi.

Ma ecco che:

A questo punto però avvenne qualcosa che fece ammutolire tutte le bocche e strabuzzare gli occhi di tutti. Nel frattempo, infatti, il funambolo si era messo all’opera: era uscito da una porticina e camminava sul cavo teso tra le due torri, per modo che ora si librava sopra il mercato e la folla. Ma era giusto a metà del suo cammino, quando la porticina si aprì di nuovo e ne saltò fuori una specie di pagliaccio dai panni multicolori, che a rapidi balzi si avvicinò all’altro. «Muoviti, piè zoppo, gridava con voce agghiacciante, muoviti poltrone, impostore, faccia di tisico! Che io non ti solletichi col mio calcagno! Che stai a fare qui fra le due torri? Dentro la torre dovresti essere, lì bisognerebbe rinchiuderti, tu sei di impaccio a chi è meglio di te!».  – E a ogni parola che diceva, si avvicinava sempre di più: ma quando fu a un passo dall’altro, ecco che accadde la cosa atroce che fece ammutolire tutte le bocche strabuzzare gli occhi di tutti: – cacciò un urlo diabolico e con un salto superò colui che gli ostacolava il cammino.

Questi, però, vedendosi battuto dal rivale, perse la testa e l’equilibrio e, – più rapido ancora del bilanciere che aveva lasciato cadere, – precipitò in basso, in un mulinello di braccia e di gambe. Il mercato e la folla sembravano il mare quando è investito dalla tempesta: tutti fuggivano per conto proprio, ma si calpestavano a vicenda e la maggior parte correva là dove il corpo si sarebbe schiantato. Zarathustra rimase immobile, e proprio accanto a lui cadde il corpo malconcio e frantumato, ma non ancora morto. Dopo un po’ lo sfracellato riprese coscienza e vide Zarathustra inginocchiarsi accanto a lui: «Che fai qui? disse infine, sapevo da un pezzo che il diavolo mi avrebbe fatto lo sgambetto. Ora mi porta all’inferno, vuoi impedirglielo?».

«Sul mio onore, amico, rispose Zarathustra, le cose di cui parli non esistono: non c’è il diavolo e nemmeno l’inferno. La tua anima sarà morta ancor prima del corpo: ormai non hai più nulla da temere!». L’uomo lo guardò diffidente. «Se dici la verità, disse poi, non perdo nulla, perdendo la vita. Non sono molto più di una bestia, che ha imparato a danzare a forza di botte e di magri bocconi».
«Non parlare così, disse Zarathustra; tu hai fatto del pericolo il tuo mestiere, e in ciò non è nulla di spregevole. Ecco che il tuo mestiere ti costa la vita: per questo voglio seppellirti con le mie mani».
Quando Zarathustra ebbe detto queste parole, il morente non rispose; ma agitò la mano, quasi cercando la mano di Zarathustra per ringraziarlo.

da Così parlò Zarathustra
Un libro per tutti e per nessuno
di Friedrich Nietzsche  ( Versione e appendici di M. Montinari. Nota introduttiva di G. Colli, ed Adelphi)

Non credo esista un testo più bello di questo in grado di raccontarci come si cade, perché e dirci che in fondo, al di là delle intenzioni e delle prove, l’essenziale sia proprio questo: cadere. Risuona la celebre frase di Samuel Beckett, All of old. Nothing else ever. Ever tried. Ever failed. No matter. Try again. Fail again. Fail better. Frase tradotta generalmente con «Ho provato, ho fallito. Non discutere. Prova ancora. Fallisci ancora. Fallisci meglio». Fall, Fail cadere e insieme fallire.

*

Al primo passaggio, e sempre nel tema, sarebbe seguita una seconda visione da proporre ai ragazzi e che pure aveva segnato l’immaginario collettivo negli anni settanta, ripresa in un recente racconto autobiografico del funambolo francese Philippe Petit, Traité du funambulisme, ( Actes Sud, 2015)  libro recensito doviziosamente da Giorgio Vasta all’ uscita della sua traduzione in italiano.

Intanto i fatti ( fonte: wikipedia )

“Il mattino del 7 agosto 1974, Philippe compie la sua impresa più famosa e spettacolare: la traversata delle Torri Gemelle del World Trade Center di New York. Sono le 07:15 quando raggiunge il tetto della Torre Nord, aiutato dai suoi complici nell’installazione dell’attrezzatura, e si prepara a salire su un cavo di acciaio spesso poco meno di 3 centimetri, sospeso a 417,5 metri dal suolo. La traversata dura 45 minuti, tempo in cui Philippe ripercorre il cavo (42,5 metri) otto volte avanti e indietro, con il solo aiuto di un’asta per l’equilibrio e del tutto privo di sistemi di sicurezza. Durante la performance non manca un saluto alle torri e anche al pubblico, che si è formato nel mentre. Al termine dell’esibizione Petit viene arrestato dalla polizia di New York. Tuttavia, valutata la copertura mediatica dell’impresa, il procuratore distrettuale fa cadere le accuse formali e tramuta la condanna nell’obbligo di esibirsi per i bambini a Central Park. Dopo l’accaduto, l’Autorità portuale di New York e New Jersey gli concede un pass a vita per il punto panoramico delle Torri Gemelle.”

Sul sito di Ponte alle Grazie viene riportata la nota di Werner Herzog al Trattato di funambolismo di Philippe Petit:

«Ecco un libro di consigli per quelli che, un giorno, oseranno l’impossibile: camminare dritti incontro al cielo e raggiungere le stelle. Esso mostra l’arte di colmare e illuminare il Vuoto, un vuoto tra due torri, due orli di precipizio, due pianeti, o lo spazio fra il cuore e lo spirito. Un filo collega ciò che sarebbe rimasto separato per sempre nella solitudine. […] Ecco un libro sulla paura e la solitudine, un libro sul sogno e la poesia, sulle altezze crudeli e le nobili audacie, sull’equilibrio maestoso e l’immobilità d’un altro mondo, sulla caduta e la morte. Esso evoca un’estasi che sonnecchia nel profondo di ciascuno, uno stato interiore magnifico, come una luce nascosta. Ti rendo omaggio, Philippe, Uomo Fragile del Filo, Imperatore dell’Aria. Come Fitzcarraldo, sei tanto raro e prodigioso che più non si potrebbe: un Conquistador dell’Inutile. E m’inchino con rispetto profondo».

*

Tornando al punto da cui eravamo partiti, ovvero alla capacità o meglio vocazione dell’arte a creare un paesaggio poco importa quanto riempito dall’esperienza e dall’immaginario che ne traccia la realtà di fatto accaduto, o dal vuoto su cui si sospende un filo, un ponte per rendere possibile l’attraversamento ecco che il “beau geste”, completamente inutile, gratuito, superfluo, compiuto da Philippe Petit ci offre una soluzione. Potrebbero trarre in inganno le facce rivolte all’insù del pubblico, nell’uno come nell’altro caso, l’incredulità di chi è sulla scena ed assiste al gesto audace del funambolo o alla tragedia dell’attentato.  Nessuno comunque avrebbe immaginato che la profezia di Beckett si sarebbe avverata l’11 settembre di ventuno anni fa. Nella stessa opera Worstward Ho, (Peggio tutta, traduzione di Gabriele Frasca, Einaudi 2006) da cui è tratta forse la citazione più famosa dello scrittore irlandese da noi evocata, leggiamo infatti poco oltre:

First, the body. No: first the place. No: first both of them – now one, now the other. When I’m sick of one I’ll try the other. I’ll go on like that (somehow go on) till I’m sick of both of them – till I throw up and go away to where neither of them are. Till I’m sick of that too. Then I’ll throw up and come back: to the body again (where there isn’t one), and to the place again (where there isn’t one). I’ll try again and I’ll fail again – fail better again. Or (better) I’ll fail worse again, fail still worse again. Till I’m sick of it for good, throw up for good, go away for good to where neither of them are, for good: for good and all.

Ci sarebbe da interrogarsi su cosa significhi in Beckett “the place”. La metafisica? cui il corpo cederebbe il posto prima di lanciarsi nel vuoto? Oppure semplicemente il luogo da cui necessariamente si deve partire per poter cadere. Forse il posto è le due torri, e il vuoto,  un vuoto tra due torri, due orli di precipizio, riprendendo quanto suggerito da Herzog a proposito di quell’arte del funambolo, la sola forse in misura di colmare e illuminare il vuoto? A cadere, fall, a crollare furono le torri. Delle stesse, della loro stessa esistenza oggi rimane un vuoto, smisurato, colmato soltanto da un gesto inutile e grandioso, iscritto  nella memoria di chi avrebbe assistito alla magnifica impresa, la traversata compiuta da Philippe Petit nell’estate del ’74.

 

 

Il paese delle persone integre

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di Mariasole Ariot

È con un bianco e nero di un passato non ancora risolto, e che a più riprese riappare nella storia del paese, che il regista de Il paese delle persone integre (presentato il 4 settembre alla Mostra del Cinema di Venezia) apre il film documentario che schiude una porta ad una storia sottratta alla narrazione dei media occidentali: la storia del Burkina Faso.

Un bianco e nero che non è solo scelta stilistica, ma scelta necessaria: dire il non detto, l’oscurato.


Christian Carmosino Mereu si reca nel paese l’ottobre 2014 per realizzare un documentario in collaborazione con l’Università Roma Tre, il 27 ottobre scoppiano le proteste di piazza di un popolo reduce da 27 anni di dittatura: Blaise Campaoré, l’uomo che nel 1987 ha portato alla morte del rivoluzionario Sankara in un colpo di stato sostenuto da Francia e Stati Uniti, ha indetto un referendum per una modifica costituzionale che gli permetterebbe di prolungare ulteriormente il mandato.

Carmosino decide di restare e partecipare all’insurrezione popolare. La telecamera si muove veloce nei sussulti, si inclina, un movimento accelerato e piegato come fosse un corpo in rivolta, e attraverso la fuga dagli spari, il regista e la camera sempre accesa entrano nei territori fisici e metaforici della lotta. Quattro giorni che non prevedono pausa e ritorno alla base, la notte sulle panchine, gli incontri.

Le grida dei giorni portano il ricordo della volontà di cambiamento di un passato mai dimenticato, un passato remoto ancora vivo nei ricordi di chi l’ha attraversato e di chi l’ha conosciuto per memoria collettiva. Gli anni di Sankara – lo stesso che ha ribattezzato la nazione dell’Alto Volta in Le pays des hommes intègres, Burkina Faso – tornano nei canti, nella ritmicità delle voci di protesta, motore che muove la spinta all’abolizione di un potere malato in ricordo di un’epoca, quella di Sankara, guidata da un governo di impronta socialista che spingeva per la rinascita del paese.

Il paese delle persone integre: un’integrità che vorrebbe essere lacerata dall’alto, ma che, nonostante la ferita, continua nella direzione contraria alla resa.


Se il bianco e nero traccia e demarca il tragico e l’ombra dell’offesa e della violenza nei confronti dei manifestanti, il viraggio al colore accade quando Campaoré abbandona il paese e fugge in esilio.


Una parentesi di rinascita al grido di liberazione, la musica che apre ad una dimensione di sguardo che si volge al futuro.

I corpi, come la telecamera, sono adesso rivolti all’alto, si raddrizzano con fierezza, l’obiettivo partecipa alla danza. Dagli sguardi tesi delle prime scene, allo stato di gioia e speranza di un ottobre che segna una dichiarazione di resistenza e mutamento.  

Restano le macerie nei luoghi del potere: là dove nelle strade assediate il frastuono delle cose viene ripulito dai manifestanti ne giorni seguenti, a segno di memoria i resti e i detriti (reali e simbolici) vengono lasciati a testimonianza nella sede del Parlamento.

Il regista riparte, torna in Italia.

Nel 2015, alla notizia di nuovi attacchi alla popolazione (un nuovo colpo di stato militare depone il potere dell’allora presidente in carica provvisoria) Carmosino riparte nell’immediato per un reportage televisivo. Ma è là, nuovamente in una terra che negli anni è diventa una seconda casa, che decide di rimanere, seguendo le tracce di quattro persone:

il musicista raggae Sam’sk LeJah, simbolo della contestazione nei confronti della dittatura e premiato da Amnesty International come Ambasciatore di coscienza, Assanata Ouedraogo, una giovane donna, madre, che il regista ha conosciuto nei giorni delle proteste del 2014 e di cui seguiremo i passi tra gli scorci del suo quotidiano, Ghost, operaio in miniera, Yiyé Consant Bazié, candidato alle elezioni e protagonista di campagne di informazione.

È così che il passaggio dalla visione esterna a quella più intimista che fa parlare l’altro si amplifica, un dialogo tra la parola che narra del regista – la voce fuori campo che accompagna il girato – e gli incontri in forma di visione o di voce dei tre uomini e della donna che ha scelto di seguire.

L’occhio del regista che osserva dal fuori si sposta in direzione dello sguardo altro, del dire attraverso la parola dei protagonisti.

Come ha dichiarato Carmosino: “Cambiare sguardo è un atto politico”.

Se nella prima parte de Il paese delle persone integre è ricorrente l’uso del fermo immagine sul volto delle persone, intervallato da un nero di silenzio, nella seconda la macchina da presa procede nel suo fluire – pur mantenendo l’interpunzione con brevi pause di silenzio e schermo nero, quando una sospensione accade nel reale.

I primi fermi immagine catturano, quasi a presentazione e ad accenno delle tracce che verranno poi seguite, le persone che nell’evolversi dell’opera cinematografica prenderanno uno spazio esistenziale maggiorato di grado.


Nella seconda parte del film, alcuni scorci e rappresentazioni dell’attuale del paese riportano il regista (e lo spettatore) ad un passato personale – ma universalizzato – di fermento della parola politica e sociale: locande in cui giovani e anziani si accendono nella discussione di temi, questioni sociali, ideali che oggi, qui, vediamo crollare, disperdersi, sotterrati da un brusio superficiale.

E lo stesso fermento anima le riunioni politiche, nei ricordi della vita e delle conquiste e dei tentativi di apertura sociale, economica e politica di Sankara.

Uno popolo connotato dalla volontà della possibilità, del rovesciamento di un passato ancora presente. Nonostante la situazione tragica del paese, la povertà, le difficoltà del quotidiano e l’allerta costante, Carmosino ci mostra come il popolo dei burkinabé resti nell’acceso, non si chini passivamente all’offesa, in un noi collettivo che nel pronome plurale trova la sua forza.

Una dimensione radicalmente diversa da quella che oggi, nel paese da cui osserviamo, stiamo perdendo a favore di un individualismo spento, nell’accettazione passiva e impotente rispetto al cambiamento, o nella una forma di un crescendo rancoroso desertificante. 


Se dal 2015 a oggi il Burkina Faso è diventato territorio di conquista da parte di Is e Al Qaeda e contingenti militari occidentali sono schierati nella regione, se un nuovo colpo di stato del 2022 ha portato nuovamente il regime militare al potere, Il paese delle persone integre ci parla allora non solo della condizione di quel territorio taciuto, ma parla anche  a (di) un occidente che si sfalda nella storia, che dimentica e offusca con una patina di grigio  ciò che sta accadendo nell’altrove, e in un qui in cui lo spirito di resistenza cede in direzione di cecità: quel non voler vedere che il film cerca di ribaltare.

Note:

Il Paese delle persone integre è stato patrocinato da Amnesty International.

Christian Carmosino Mereu è un regista, produttore, docente e operator culturale attivo in Europa e in Africa da più di venticinque anni. È stato direttor artistico di festival e rassegne dedicate al cinema documentario, come [CINEMA.DOC], Doc/it Professional Award e Il Mese del Documentario, e dal 2022 è direttore artistico del Rome International Documentary Festival. Dal 2006 è responsabile tecnico del Centro di Produzione Audiovisivi dell’Università degli Studi Roma Tre, coordinatore del Master in Cinema Documentario.

Per la filmografia completa www.carmosino.com

Antonio Castronuovo. Tra bibliofilia e patafisica

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di Matteo Bianchi

 

Una miriade di vizi, più o meno capitali, connota il rito della lettura, o quanto meno i supporti che l’avverano: passioni, erotismo, malanni, amputazioni, sepolture, morti e fantasmi aleggiano tra gli scaffali di biblioteche pubbliche e librerie private. Il dizionario del bibliomane, edito da Sellerio, si rivela una fenomenologia dei luoghi dei libri nonché un sommario di psicopatologia di chi li ama e li accumula con affanno, dall’antichità ai giorni nostri. Gli inferni del bibliomane comprendono anche i comportamenti atipici, le stramberie, così la ricerca dell’esemplare unico e dell’abbigliamento adatto per stanarlo sotto polverose pile, o dell’odore specifico di un tipo di colla, e ancora la lotta furiosa contro i tarli, il rapporto con il bancarellista, la ricerca di geometrie sulle mensole di casa, fino ai feticisti della bandella.

Quale bibliofilo, poi, non possiede almeno un Babbomorto nella sua collezione? Castronuovo continua a pubblicare esili plaquette di poche facciate: testi ironici, divertiti, memoriali, aneddotici. Non demorde, vuole la leggerezza, la spensieratezza. Fondando questa piccola etichetta editoriale è riuscito a creare un circolo Pickwick di persone che, sebbene affogate nella tristezza del mondo, sanno stare insieme attorno al focolare di un sorriso. All’opera dal 2017, Babbomorto Editore vanta un catalogo di 250 titoli, tutti fermamente “fuori commercio”: circolano in poche mani ed entrano subito nel piccolo antiquariato, dando alle stampe degli oggetti di carta e inchiostro che sono già delle rarità.

Immagino che lei sia stato contagiato dal morbo sacro dell’accumulare libri. Di quale altra patologia – presente nel suo dizionario – è affetto quando si rapporta con gli oggetti in questione?

«Tutte le patologie presenti nel mio libro mi affliggono: le ho tutte. Mi piace acquisire libri, accumularli, annusarli, palparli, dormirci assieme. A volte li bacio anche, così come mi arrabbio con quelli che comincio a leggere e devo subito abbandonare perché mi respingono. Sto anche già pensando quale libro portarmi nella tomba, ma nessun autore scorbutico: dovendo morire, voglio ridere».

Rimane incancellabile il veleno cosparso a bordo pagina che uccideva dopo dolori atroci i benedettini de Il nome della rosa. La figura di Eco ritorna più volte nel libro. Che cosa ha rappresentato per lei e per la cerchia dei bibliofili Umberto da Bologna?

«È stato un grande bibliomane italiano (aveva cinquantamila libri…); ha scritto cose importanti sulla bibliofilia (pensi ai saggi de La memoria vegetale); è stato tra i fondatori del più antico sodalizio bibliofilo italiano, l’Aldus Club di Milano, nel cui direttivo adesso siedo io pure (sebbene immeritatamente): impossibile non guardare ad Eco come a una stella polare».

Per quale libro commetterebbe un delitto esemplare?

«Premetto che il mio delitto esemplare non sarebbe mai un reato da Corte d’Assise, ma per un grande libro sarei disposto a organizzare un geniale colpo. Quale libro? sono indeciso tra una Bibbia stampata a Magonza da Gutenberg nel 1455 o un ottimo esemplare della Hypneotomachia Poliphili, stampata a Venezia da Manuzio nel 1499».

Un aneddoto gustoso?

«A me piace molto la vicenda di quel tale che invece di far rilegare i libri li faceva rinchiudere da un maestro vetraio dentro delle bottiglie, che poi allineava sugli scaffali. Nel biglietto da visita aveva fatto stampare il termine enigmatico “bibliopixidista”: un titolo molto sonoro, ma resta inteso che far collocare i propri libri in bottiglie o damigiane è una forma davvero pazzoide di collezionarli».

Il locus amoenus del bibliofilo è la biblioteca: secondo quale criterio lei dispone i suoi libri?

«Il paradiso del bibliofilo è la sua collezione privata, in cui egli ama trascorrere giornate intere. Il vero bibliofilo è uno che dovrebbe restare scapolo: in fondo, i buoni libri non tradiscono mai, le persone sì. Anche io adoro passare ore con i miei libri, disposti secondo un ordine mentale molto personale. Credo che non esista un disposizione valida per tutti e per ogni collezione: ognuno allinea i propri libri come vuole. In fondo è lui a doverli gestire e ritrovare: non dobbiamo ordinare i libri pensando agli altri. Noi bibliofili non siamo biblioteche pubbliche, anzi dobbiamo evitare di prestare i libri, ed è anche bene non invitare nessuno nelle nostre biblioteche: a parte noi stessi, chiunque altro è stonato e non gradito».

So che da anni percorre i sentieri luminosi della patafisica. Cosa l’ha convinta della scienza delle soluzioni immaginarie?

«Il fatto che la Patafisica riflette la vita (costituita da progetti che non si avverano o che falliscono sempre), che è immagine degli uomini (seriosi, ma sempre ridicoli), che insegna a non dare troppa importanza a se stessi e, di conseguenza, a tutti gli altri. La Patafisica è un magnifico spazio fatto di nulla: specchio verace dell’universo».

Chi è il più grande maestro di aforismi della storia della letteratura e come si compone l’aforisma perfetto?

«Non esiste un solo maestro di aforismi, ma molti nomi che afferiscono ai diversi ambiti dell’aforistica. Perché dire “aforisma” equivale a dire “forma breve”, e la forme brevi in letteratura sono tante. Pochi esempi: maestro del genere della massima è il francese La Rochefoucauld; grande maestro dell’aforisma pessimista europeo è Cioran; maestro dell’aforisma impertinente italiano è Longanesi, e così via. Come si scrive un aforisma perfetto? Semplice: si prova, si corregge, si riprova, si sbozza, si cambiano parole, si butta via tutto e si ricomincia. Scrivere un aforisma è come scrivere la pagina di un romanzo…»

La creazione del mondo

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di Tomaso Boniolo

“Ho letto così tanto sui popoli primitivi, che sono diventato io stesso un popolo primitivo”. (Elias Canetti, La Provincia dell’uomo)

 

1- La creazione degli uomini e delle donne.

I Boniolo sono una piccola tribù che vive tra le montagne, in un isolamento che è frutto della presunzione e del rancore.

Degni di nota sono i loro miti sulla creazione del mondo.

All’inizio -dicono i Boniolo- il mondo fu creato da una coppia di dei, la Madre e il Padre, che lavoravano in perfetto accordo.

Verso la fine dell’opera, però, i due si trovarono in disaccordo su qualcosa (il colore delle nuvole? I dinosauri? Non lo sappiamo).

Il mondo era quasi finito, mancavano solo gli uomini e le donne. Per non continuare a litigare all’infinito, Padre e Madre si divisero il lavoro: lui creò le donne, lei gli uomini.

Dato che i maschi -quando lavorano concentrati su qualcosa che li interessa molto- ottengono spesso ottimi risultati, il Padre creò le donne senza difetti. La Madre invece creò uomini imperfetti perché -come tutte le femmine- scambiò i suoi sogni per realtà.

Così furono creati i nostri antenati e le nostre antenate e così, secondo i Boniolo, sono rimasti fino ad oggi.

 

2- La creazione della luna.

All’inizio dei tempi (secondo i Boniolo) Padre e Madre crearono la luna profumata.

A ogni luna nuova il profumo cambiava: per esempio a maggio la luna profumava come di gelsomino, tenue all’inizio e poi sempre più intenso fino al plenilunio.

Sfortunatamente la luna -a quel tempo- stava molto vicina alla terra e il profumo era troppo forte. Una notte serena di luna piena alla lavanda (in febbraio) poteva far impazzire una mandria di tori. Quindi i primi Boniolo pregarono gli dei di allontanarla un pochino, e furono esauditi.

Però Padre e Madre spostarono la luna troppo in là e oggi il suo profumo non si sente affatto. Per questo ci assale la tristezza quando la guardiamo, e per questo gli sciacalli, nostri fratelli, ululano alla luna piena: si lamentano e cercano di richiamarla indietro.

[Questo racconto Boniolo è stato inserito da Roth e Dal Bon nell’Atlante mondiale della Nostalgia (Heimweh-Weltatlas 2a ed., Heidelberg: Springer, 1959)]

 

4- La memoria

Un tempo -raccontano i Boniolo- noi non avevamo memoria.

Gli effetti erano a volte comici (dato che non ricordavamo di esserci già incontrati, passavamo tutto il nostro tempo a salutarci) altre volte tragici (la tigre dai denti a sciabola è pericolosa, se lo scordi sei fritto). C’erano anche dei lati positivi dell’essere smemorati, però li dimenticavamo sempre.

Così gli anziani mandarono un giovane guerriero a chiedere agli dei la memoria. Gli tolsero il cuore (che del corpo è la parte più pesante), e lui poté salire oltre la montagna. Arrivò al villaggio della Madre e del Padre. Quando fu davanti a loro, chiese quel dono per la sua gente. “E tu, cosa ci darai in cambio?” gli chiesero gli dei. “Faremo dei sacrifici in vostro onore” rispose il giovane Boniolo, ma gli dei dissero che non bastava. “Sacrifici umani, ragazze vergini, roba di valore” aumentò la posta il guerriero, ma non bastava ancora.

“Vi daremo la nostra coscienza di quel che è bene e quel che è male” disse lui alla fine. Dal momento che non aveva il cuore, gli sembrava un prezzo accettabile. Il Padre e la Madre accettarono subito. Ancora oggi si discute tra i Boniolo se il prezzo pagato per la memoria sia stato troppo alto. I nostri fratelli maggiori gli sciacalli, invece, non hanno nessun dubbio e ci chiamano: Quelli-che-non-chiedono-scusa.

 

7- Il futuro

Quando il Padre e la Madre li ebbero creati, i Boniolo -tutti sorridenti- restarono in attesa.

Dopo un lungo momento di imbarazzo, chiesero ai loro creatori: “E adesso che si fa?” Gli dei non rispondevano, così i Boniolo pensarono di insistere: “Come sarà il nostro futuro, o dei onnipotenti?” “Il vostro cosa?” chiesero gli dei

“Il nostro futuro… programmi, aspettative, impegni, cose di questo genere”. Gli dei restavano muti.

Le creature alzarono la voce: “Eclissi, mutui, vacanze, piani quinquennali! L’evoluzione della specie!”

“Ah, ok, quelle cose lì -dissero gli dei- … noi le decidiamo sul momento… di volta in volta”

“Ma questo è il presente, non il futuro! Imbroglio! Vergogna!” I Boniolo erano indignati, ma gli dei se ne andarono senza aggiungere una parola.

Dal momento che non avevano ricevuto alcun futuro dalla Madre e dal Padre, i Boniolo se ne fecero uno da soli, e anzi -appena fu pronto- vi si trasferirono tutti. Tra parentesi: quello fu il momento esatto nel quale si cacciarono in un vicolo cieco culturale.

Ne eravamo coscienti? si chiedono. No. Avevamo dei sospetti? Forse sì, ma a quel tempo eravamo bambini e quindi, e giustamente, irresponsabili. Ci assolviamo, amen.

 

11- Arte

Una settimana circa dopo l’inizio del mondo, la Madre e il Padre si complimentarono tra di loro: “l’abbiamo creato a regola d’arte”.

I Boniolo che stavano ascoltando distratti (come al solito), della parola “arte” capirono questo:

  1. a) ha a che fare con gli dei b) è una faccenda creativa e c) però ci sono regole, di qualche genere.

Per questa ragione i primi artisti Boniolo erano molto simili agli sciamani e l’opera d’arte sembrava la celebrazione di un sacramento estetico.

Erano i cosiddetti bei tempi andati: everybody is happy, everybody is fine.

Poi purtroppo arrivarono le famose Incomprensioni, delle quali abbiamo già parlato: in pratica, gli dei e i Boniolo litigarono furiosamente.

I preti -senza una loro responsabilità diretta- scivolarono giù per la scala sociale fino al rango dei parassiti, gli artisti si fermarono a quello dei perdigiorno.

 

Questa situazione difficile mise in luce le differenze tra i due gruppi di reietti. I sacerdoti si fecero minacciosi, scomunicarono e predissero sventure. Gli imprevedibili artisti, invece, si dissero contenti che fosse finita questa tregua tra loro e una società “meschina, conformista, materialista, fondata sull’ipocrisia”.

Fu un grande successo! I Boniolo, che detestano sentirsi chiamare meschini, conformisti, ecc. si fecero piccoli piccoli.

Si abituarono subito a guardare l’artista dal basso in alto: era ancora un perdigiorno, ma di gran livello: si occupava di questioni sublimi! Una parte della tribù (quella che non faceva l’elemosina agli sciamani) istituì borse di studio per artisti.

Loro profittarono della situazione per scrollarsi di dosso tutte quelle regole che li obbligavano a mantenere rapporti decenti con la società meschina, conformista ecc.

Un giorno dichiararono abolita la funzione morale dell’arte, la settimana dopo quella sociale. Poi toccò alla figurazione e alla composizione, alla fine fu abolita anche la creazione. L’objet trouvé, il video amatoriale, il rumore e la poesia automatica regnarono sovrani nelle sale da concerto e nelle gallerie.

Se i Boniolo non avessero inventato, per legittima difesa, i critici d’arte e i curatori delle mostre, a quest’ora gli artisti avrebbero il comando su quella piccola tribù che sarebbe condannata alla rovina, poco ma sicuro.

 

13 – Verità e scrittura

«I nostri Dei ci hanno creati sinceri -dicono i Boniolo- noi non diciamo bugie».

Lo dicono con orgoglio, ma un piccolo sospiro tradisce come sentano, dopotutto, il peso di questa grande virtù.

Mai si sentirà una madre chiedere ai figli se si siano comportati bene, né mai un fidanzato chiederà alla sua bella se lei lo ami davvero. La vita è già abbastanza complicata -dicono- soprattutto quando si ha un carattere difficile come il nostro. Per amore della verità (e della pace) i Boniolo sono obbligati alla prudenza. Non si sveglia il cane che dorme.

Così, anni dopo, la Madre e il Padre  -per premiare la sincerità di quelle creature- regalarono loro la scrittura. Come se non avessero aspettato altro, tutti si misero a scolpire iscrizioni sulle prime rocce a portata di mano. Ogni giorno un nuovo autore promettente terminava un’ode, o un saggio.

La questione della verità, però, dovette essere riconsiderata.

«La parola pronunciata ha la vita breve -argomentarono i Boniolo- mentre la scrittura dura nel tempo. Ma nel tempo le opinioni e i giudizi cambiano, spesso più e più volte. Quindi chi scrive è sollevato dall’obbligo della sincerità. Anzi, si può dire che scrivere cose vere sia un atto di presunzione imperdonabile, un ostacolo fatale al progresso delle idee».

Per questo le loro promesse scritte, le leggi, i romanzi, i trattati, ecc. erano (e sono anche oggi) una sequenza di menzogne allegra e prolissa.

 

14 – Antropologi

Il desiderio segreto dei Boniolo è quello di essere raccontati, dicono i nostri fratelli sciacalli. Purtroppo però il gran passatempo di questa tribù è confondere le opinioni che gli stranieri hanno su di loro. Forse (pensano) quel gran Alexander Stephen  ha capito qualcosa dei Severi-delle-Aquile, ma con noi non ha cavato un ragno dal buco. Eppure è strano: scappiamo dagli stessi fantasmi, inseguiamo gli stessi sogni.

Quando qualche antropologo arriva in uno dei loro villaggi per studiare gli usi e i costumi, si sentono subito le grida “è mio!”, “no! L’ho visto prima io!”, “qui, signore! Io parlo volentieri!”. Poi, la sera, si raccontano davanti al fuoco: “gli ho detto che di pomeriggio sento le voci, e che quando mia figlia vive con la madre di mia moglie diventa una specie di mia zia”. Sorrisi, denti che brillano nel buio.

Non mentono -non ne sono capaci- ma se la godono a ingarbugliare il più possibile le idee delle loro vittime. Se alla fine l’antropologo conclude con un sospiro che la loro raffigurazione del mondo è “assai ridotta, insolitamente primitiva, confusa nelle categorie”, i Boniolo sono sorpresi e si offendono: “non è vero! Noi non siamo ingenui! Siamo complicati! Siamo complicatissimi!”.

 

17 – Lepri

 

Su quel che accade quando si muore, i Boniolo e i loro vicini hanno idee differenti.

I Wariri-dei-leoni immaginano regole complicate sul destino delle anime: se sei stato un buon guerriero, o cattivo, oppure se il tuo clan, se invece gli antenati, e se la posizione delle stelle di qua, o di là, ecc., ecc. … allora ti ritroverai dopo morto in quel posto, o nell’altro, dove sarai contento, o soffrirai tantissimo, o magari -sorpresa!- né l’uno né l’altro. Per i Wariri l’aldilà è argomento di conversazioni  appassionate, che spesso finiscono a colpi di clava. I loro sciamani  hanno cataloghi (e tariffari) per le anime, proprio come quelli che si trovano nelle agenzie di viaggi.

I Severi-delle-aquile sono più riservati, si potrebbe quasi dire: enigmatici. Riportiamo qui di seguito quello che ci sembra di capire.

La posizione ufficiale della tribù sull’argomento è che “quando uno muore tira il fiato, non succede più niente di importante”.

Interrogati con discrezione alcuni di loro parlano però di “trasparenze improvvise”, echi di canti, cose che accadono “nella nebbia, quando si leva, dopo la pioggia”.

Altri Severi parlano di “seguire la pista del tasso” o anche di abitare “nell’ombra del corvo”. Stranamente, queste idee differenti non li disturbano. Ammettiamo tutte le varianti dicono, con solennità.

 

Noi Boniolo invece abbiamo una maniera molto più elegante di affrontare il problema. Incarichiamo chi sta per morire di stendere, una volta arrivato,  una breve relazione su quel posto: basta una mezza paginetta, per favore, solo i fatti.

Ci raccomandiamo, loro promettono: sì, sì, vi scriviamo (come fanno sempre quelli che partono). Poi preghiamo le lepri di portarci quei messaggi. Così sappiamo senza incertezze, senza paure, quel che accade davvero dopo la vita.

Purtroppo, tra tutte le bestiole portatrici di notizie la lepre è la meno affidabile.

Si ferma ad annusare, si inquieta per un fruscio di foglie. Lungo il cammino, in quel prato sono spuntati i denti di leone: c’è tempo per uno spuntino. Incontra altre lepri, o i porcospini: cortesia vuole che si faccia conversazione. Si è fatto tardi: meglio scendere nella tana e riposare. Sogna, i suoi lunghi baffi vibrano. La mattina dopo ha dimenticato tutto.

Alcune sono tornate, ma solo per scusarsi. La maggioranza non si fa vedere affatto. Siete proprio delle belle messaggere! ci lamentiamo noi. Non sappiamo proprio niente della morte, ma l’idea era buona. È tutta colpa delle lepri.

( questi paragrafi sono una selezione  di un’opera originariamente destinata al teatro, l’illustrazione che l’accompagna è dell’autore, g.m.)