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Contro Odifreddi: per difendere la scienza

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di Daniele Barbieri

Non mi interessa particolarmente difendere Cacciari o Calasso, ma le parole di Piergiorgio Odifreddi su “Cacciari, Calasso e gli antiscienza” pubblicate su La Stampa del 1 agosto 2021 non sono perdonabili, e dimostrano una visione della scienza pervicacemente arcaica, quella stessa contro cui Nietzsche poteva legittimamente avanzare qualche riserva, ma che la riflessione del Novecento ha davvero da lungo tempo superato.

In un articolo pieno di supponente acredine nei confronti di un fantomatico umanismo antiscientista di cui i due Ca sarebbero esimi rappresentanti, Odifreddi arriva a scrivere la seguente perla: “Ora, non c’è bisogno di aver letto l’opera omnia di Nietzsche per sapere che uno dei suoi detti più memorabili e influenti per una certa cultura, che è appunto quella di Cacciari e Calasso, è: ‘Non ci sono fatti, solo interpretazioni’. Detto altrimenti, la scienza non conta nulla, perché si basa appunto su fatti che non ci sarebbero, e conta solo l’umanesimo, che fornisce le interpretazioni chiamate ‘valori’”.

Ora, se Odifreddi si fosse mai preso la briga di leggere almeno una piccola parte di Nietzsche, si sarebbe reso contro a priori del livello di ignorante faciloneria che sprigionano queste parole. Prima di tutto, la scienza si basa sulle interpretazioni, è costituita di interpretazioni del mondo, e i fatti stessi non sono a loro volta che interpretazioni di dati, i quali sono risposte a domande precise che il ricercatore fa alla natura, e quindi a loro volta interpretazioni. Odifreddi non ha, evidentemente, nemmeno letto Kant, altrimenti avrebbe almeno un’idea della differenza tra noumeno e fenomeno, e dell’inattingibilità del primo se non nei termini (interpretativi) del secondo.

Dire che ci sono solo interpretazioni non vuol dire che tutte le interpretazioni sono uguali e la scienza non ha senso, ma solo mettere in guardia dalle generalizzazioni indebite, la qual cosa è comunque parte della regola scientifica. Molto scorrettamente, Odifreddi cerca di sostenere che, al di fuori dei fatti ci sarebbe solo la doxa, della quale sarebbe dunque costituito l’umanesimo, per cui ogni opinione varrebbe quanto ogni altra. La retta scienza, che conoscerebbe il vero, viene contrapposta al corrotto umanismo, che non farebbe altro che fornire le interpretazioni chiamate valori.

Quello che Odifreddi in questo articolo difende, a guardar bene, non è affatto la scienza, bensì una sua specifica interpretazione, che ha nome scientismo. Lo scientismo è una fede, più o meno come quella in Dio, che bisogna avere per poter credere: lo scientismo non crede in Dio come garanzia del vero, ma nella scienza, unica detentrice della verità, e unica depositaria del valore (unico, al singolare, non come i “valori” vari costruiti dalle interpretazioni degli umanisti). Secondo lo scientismo esiste una realtà oggettiva e verificabile sino in fondo con strumenti scientifici e solo con quelli, ma lo scientismo dimentica che gli strumenti vengono costruiti dagli scienziati (e prima di loro dai filosofi), e non esistono al di fuori della cultura che li produce; e che il processo di raffinamento che li porta a risultati sempre più sottili è comunque un processo che dipende dalla cultura e non dalla natura.

Come ci insegna Carlo Rovelli (che, pur non essendo né new age né orientaleggiante, è stato pubblicato da Calasso) il concetto di fatto nella fisica quantistica diventa estremamente incerto, visto che i fenomeni cambiano a seconda dell’osservazione che se ne fa. Più che una realtà oggettiva, sembra emergere l’immagine di una realtà che muta continuamente a seconda del modo di osservarla. Del resto, Einstein osservava la stessa realtà di Newton, ma l’interpretazione cosmologica che ne esce non è certo la stessa: Einstein aveva a disposizione dei punti di vista che Newton non poteva avere, ovvero dei dati nuovi, i quali erano a loro volta frutto di interpretazioni scientifiche.

Tutta questa sottigliezza viene cancellata dall’atteggiamento grossolanamente manicheista che emerge dalle parole di Odifreddi, secondo le quali chi nega lo scientismo negherebbe la scienza, e sosterrebbe l’equivalenza di tutte le opinioni. Per fortuna, la scienza rimane un’impresa straordinaria e straordinariamente utile anche a dispetto di difensori come questo, molto più utili alla causa della cialtroneria ignorante (contro cui Odifreddi pretenderebbe di scagliarsi) che a quella di un dibattito epistemologico a cui la filosofia del Novecento (a partire da un nietzschiano come Wittgenstein) ci ha per fortuna abituato.

Overbooking: Sam Wasson

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A proposito di

Sam Wasson, Il grande addio. Chinatown e gli ultimi anni di Hollywood (Jimenez, 2021)

di

Franco Bergoglio

 

Si potrebbe tracciare una storia degli Stati Uniti partendo dalla Paramount Pictures: nata negli anni Dieci è l’unica casa cinematografica sopravvissuta al muto ancora oggi in (prolifica) attività. Giocando con le parole, si potrebbe anche ipotizzare un parallelo con la Paramount Records (1917-1932), che incise il blues degli anni Venti da Ma Rainey a Blind Lemon Jefferson, ma questa è un’altra storia: queste due aziende omonime non hanno legami tra loro. In particolare è stata la prima a subire una decisione dell’antitrust, la cruciale United States v. Paramount Pictures, Inc. (1948), che impose la divisione tra le case produttrici di film e le loro catene di sale cinematografiche con annesse pratiche distributive, privando l’industria di un business senza rischi e liberando sacche di creatività. Se su questa slabbratura del sistema innestiamo la beat generation degli anni Cinquanta e i fermenti sixties abbiamo il quadro per capire come Hollywood abbia potuto partorire dal suo corpaccione un film come Chinatown. Il libro che prova a raccontare tutto questo è Il grande addio. Chinatown e gli ultimi anni di Hollywood (Jimenez, 2021), opera di Sam Wasson, scrittore di Los Angeles che da anni sguazza nei miti cinematografici di casa. Il volume segue le vicende dei personaggi legati alla pellicola, come John Huston e sua figlia Anjelica o Faye Dunaway, concentrandosi sui quattro artefici del film: il regista Roman Polanski, lo sceneggiatore Robert Towne, il produttore Robert Evans e l’attore Jack Nicholson. Presi singolarmente sono personalità del cinema mondiale, insieme, ma sempre sul punto di schiantarsi, hanno realizzato Chinatown.

Prima di dedicarsi al film lo scrittore indugia sul dramma di Polanski, in lutto per la moglie Sharon Tate uccisa nella strage ordinata da Charles Manson. Il periodo dei delitti di Manson fu terribile: uno spartiacque simbolico e per molti, compreso Towne, la vera fine degli anni Sessanta. “Gli omicidi sembravano la conseguenza di ciò che tutti noi avevamo fatto”, ricorda una testimone del periodo. L’intera Los Angeles era implicata. La mitologia della città che cresce sulle ceneri di un peccato originale è il perno del ibro di Wasson, una palude di corruzione politica, affari illeciti e torbidi segreti di famiglia. Tutto vero (come la storiaccia della guerra per l’acqua di Los Angeles) o comunque verosimile. Ogni ingrediente entra nella sceneggiatura del film; un romanzo mancato a fianco di quelli veri, fioriti in una terra intrisa di letteratura. Nelle storie californiane dei vari Raymond Chandler, James M. Cain, Horace McCoy e Nathaniel West l’incubo è rappresentato dalla città. Per il critico David Wyatt la velocità di quei romanzi è “il suono del boom, della corsa ad arricchirsi in fretta”. Tanti di questi autori scrivevano per Hollywood e la frustrazione che derivava dal vedere le loro idee stravolte nei film veniva sublimata tramite la letteratura hard boiled utilizzata come valvola di scarico.

“Da quando Hollywood aveva cominciato a parlare nel 1927,
questi sceneggiatori della prima ondata erano in anticipo
e impreparati a scoprire (…) che quelli della loro specie
erano, nelle parole di Lester Cole ‘i negri del sistema
degli studios’. (…) Che fossero sognatori o detective, 
gli originali eroi e antieroi del poliziesco di Los Angeles 
erano palesemente sceneggiatori sotto mentite spoglie,
perdenti di vario grado e lontani dal colpo grosso quanto
lo erano gli sceneggiatori, privati della loro volontà creativa,
del loro sogno, della loro scrittura”.

Chi risponde in pieno a questa descrizione è Robert Towne: ideatore di Chinatown, sceneggiatore squattrinato e (fino a quel momento) di scarso successo. A Towne Los Angeles appariva come un luogo dove la gente andava per arricchirsi e scappare. “Era un posto da cui tirare fuori qualcosa, che fosse oro o petrolio, o la fama e Hollywood. Fai un mucchio di soldi e poi te ne vai senza pensare ai danni collaterali che sono stati fatti alla città”. Una posizione che si sposava con l’amarezza di Polanski: “Non esiste una città più bella al mondo, purché sia vista di notte e da lontano”. Del gruppo di Chinatown Jack Nicholson è quello più positivo: arrivato a LA dalla provincia “aveva appena scoperto l’imperitura combinazione di Ray-Ban neri e Camus” e trovava straordinaria la città. “E’una questione di ampiezza. Noi abbiamo una visione aperta delle cose che ci viene dalla topografia”, spiegava l’attore che era rimasto folgorato da quel misto di “Beat Generation, jazz West Coast e nottate a Venice Beach”. La visione romantica di Nicholson e quella nostalgica di Towne si sposano con la poetica hardboiled dei romanzi polizieschi di Chandler che dipingono una Los Angeles anteguerra in perfetto equilibrio tra disgusto e amore. Lo storico Morrow Mayo ha scritto che Los Angeles è una merce, una cosa da pubblicizzare e vendere agli americani “come le automobili, le sigarette, il colluttorio”. Nulla vietava gli si vendesse anche questo cocktail cinematografico: due parti uguali di nausea e fascinazione nello shaker, per ubriacare con l’hardboiled definitivo.

Nel libro c’è questo e molto altro: come si resiste alle trappole e si gira un capolavoro hollywoodiano? La vita a Hollywood è una navigazione tra industriali a digiuno di cinema desiderosi di spendere in un business tanto glamour, produttori/artisti o produttori/pirati, sceneggiatori devastati dallo scempio cui sono sottoposte le loro idee, attori generosi o mentalmente disturbati, registi capaci o pasticcioni e ancora: direttori della fotografia, scenografi, costumisti, attrezzisti, parrucchieri, montatori. Ciascuno mette al servizio della pellicola il proprio carico di genialità o frustrazione, aggiungendo il tocco da maestro o spingendo la produzione alla rovina. Questo vivere in bilico tra oscar e declino, tra soldi e fallimento richiede spesso un intervento “salvifico” esterno e qui, grazie al produttore Robert Evans, entra in campo la musica di Chinatown. Le colonne sonore erano cruciali per Evans, da un punto di vista politico, commerciale e artistico. “Facevano vendere dischi; erano il cuore pulsante di ogni film e, arrivando verso la fine della produzione, erano l’ultima occasione per sistemare le cose”. Le musiche possono salvare un film, portare al successo una pellicola debole.

La colonna sonora di Chinatown era stata originariamente affidata a Philip Lambro, un compositore senza esperienza di cinema, il quale tirò fuori una musica che “pullulava di atonalità, spaventosi muri percussivi, indolenti fiati notturni e pianoforti tremolanti: una classica atmosfera jazz che evocava Kurt Weill, imbevuta di mistero e pericolo”. Sulla musica si scontrano le anime diverse del film: Polanski vuole un noir, Evans vuole la storia d’amore definitiva sullo sfondo di Los Angeles e Towne vuole raccontare il canto del cigno di una città inghiottita dall’ingordigia dell’uomo. Venne chiamato a rifare da capo il soundtrack Jerry Goldsmith, uno stimato specialista che aveva già ricevuto delle nomination, la più recente per Papillon.

Evans che voleva una atmosfera d’epoca suggerì I can’t Get Started nella versione dominata dal suono malinconico della tromba di Bunny Berigan e incisa nel 1937, l’anno in cui era ambientato Chinatown. Quella era la musica che girava nei jukebox di allora e divenne l’ispirazione. L’immortale tema principale è descritto da Goldsmith come “un pezzo d’epoca con armonie più moderne”, con la tromba di Uan Rasey a echeggiare Berigan. Sentendola Evans gioì. “Il dolore, il desiderio, morente ma dolcemente supplichevole come un ricordo felice che annega nella verità”. La soluzione del rebus-film, la ciliegina sul capolavoro.

Chinatown avrebbe dovuto avere due seguiti e creare una trilogia sulla creazione di Los Angeles, per Wasson una sorta di “Chandler che incontra Uptown Sinclair”.

Eppure subito dopo il successo di Chinatown (1974) il piccolo mondo che ci aveva lavorato con passione iniziò a sgretolarsi: dai problemi con la giustizia americana di Polanski (un triste caso di violenza sessuale, precursore di MeToo) alle incomprensioni tra Evans e Towne. Forse il solo Nicholson era ancora tenacemente legato all’idea della trilogia, che inseguì fino a Il grande inganno (1990), film che si disintegrò subito di fronte a pubblico e critica e pose fine ai sogni di realizzare il terzo episodio della serie. Un finale interrotto e catastrofico, pienamente hollywoodiano.

Mots-clés__Tuffatore

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Yves Klein, Le saut dans le vide – performance in Rue Gentil-Bernard, Fontenay-aux-Roses, Parigi, ottobre 1960 – photo Harry Shunk

Tuffatore
di Daniele Ruini

Flavio Giurato, Il tuffatore -> play

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Le Saut dans le vide, octobre 1960 – Action artistique d’Yves Klein – 5, rue Gentil-Bernard, Fontenay-aux-Roses. Photo : © Harry Shunk and Janos Kender

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Dal racconto Per sempre lassù [Forever Overhead] di David Foster Wallace, in Brevi interviste con uomini schifosi, Einaudi, 2000, pp. 8-20, a pp. 18-20. Traduzione di Ottavio Fatica e Giovanna Granato.

Dove ti trovi adesso è immobile e tranquillo. Niente schizzi urla radio vento qui. Niente tempo né rumori reali, solo il tuo sangue che stride nella testa.
Quassù significa vista e odore. Gli odori sono intimi, di nuovo limpidi. L’aroma che ha il fiore del candeggio, ma di lì altre cose salgono fino a te come neve disseminata dalle erbacce. Senti odore di popcorn giallo intenso. Dolce olio abbronzante come cocco bollente. Hot dog o corn dog. Un sottile accenno crudele di Pepsi scurissima nei bicchieri di carta. E l’odore tipico di masse d’acqua che emanano da masse di pelle, salendo come vapore da un nuovo bagno. Calore animale. Da lassù è più reale che mai.
Guarda. Vedi tutta quella complicatissima cosa, azzurra e bianca e marrone e bianca, intrisa di acquosi lustrini di rosso sempre più intenso. Tutti. È quello che si dice uno spettacolo. E lo sapevi che da sotto non saresti mai sembrato così in alto lassù. Ora lo sai quanto sei in alto lassù. Lo sapevi che da sotto non si sarebbe mai capito.
Lui lo dice dietro di te, gli occhi sulle tue caviglie, l’omaccione pelato: Ehi ragazzino. Vogliono sapere. Come la mettiamo: pensi di fare una cosa di giorno. Ehi ragazzino tutto bene.
C’è stato tempo in tutto questo tempo. Non puoi uccidere il tempo col cuore. Tutto richiede tempo. Le api si devono muovere rapidissime per restare immobili.
Ehi ragazzino fa lui Ehi ragazzino tutto bene.
Sulla lingua ti sbocciano fiori di metallo. Non c’è più tempo per pensare. Ora che c’è tempo non hai tempo.
Ehi.
Lentamente ora, da un capo all’altro è tutto un guardare che si diffonde come cerchi sull’acqua colpita. Osservalo diffondersi a partire dalla scala. Tua sorella che ha riacquistato la vista e il suo magro bianco branco indicano. Tua madre dà un’occhiata all’acqua bassa dove stavi prima, poi si fa schermo con la mano. La balena si muove dondolando. Il bagnino alza gli occhi, la ragazza intorno alla sua gamba alza gli occhi, lui allunga la mano verso il megafono.
Di sotto è per sempre pavimento ruvido, spuntini, musica metallica acuta e stridula, giù dove una volta eri anche tu; la fila è compatta e non ha la retromarcia; e l’acqua, naturalmente, è morbida solo quando ci stai dentro. Guarda giù. Ora si agita al sole, piena di dure monete di luce che brillano rosse mentre si allontanano tenendosi in una bruma che è il tuo stesso dolce sale. Le monete si spezzano in lune nuove, lunghe schegge di luce provenienti dai cuori di tristi stelle. La vasca quadrata è un freddo lenzuolo azzurro. Il freddo non è che una forma di durezza. Una forma di cecità. Ti hanno preso in contropiede. Buon compleanno. Ci hai pensato bene. Sì e no. Ehi ragazzino.
Due macchie nere, violenza, e scomparire in un pozzo di tempo. Il problema non è l’altezza. Quando torni giù cambia tutto. Quando colpisci, con il tuo peso.
E allora qual è la bugia? Durezza o morbidezza? Silenzio o tempo?
La bugia è che è una cosa o l’altra. Un’ape immobile, fluttuante, si muove più in fretta di quanto lei stessa non pensi. Da lassù la dolcezza la fa impazzire.
La tavola annuirà e tu andrai, e i neri occhi di pelle si potranno incrociare e accecare in un cielo maculato di nuvole, luce perforata che si svuota dietro la pietra aguzza che è per sempre. Che è per sempre. Metti piede nella pelle e scompari.
Ciao.

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

Lettere da Merano

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di Paolo Marco Durante

[Ho descritto fatti reali e provato anche a immaginare, mescolando: ne è venuto fuori un misto di verità e menzogna, come sempre d’altronde, nelle cose che facciamo. Percorrere sentieri del possibile, se non sempre del plausibile. Da questo, comunque, mi sono lasciato irretire e trascinare in un gioco pieno di rischi, che però non voleva essere irrispettoso, né presuntuoso né, tantomeno, arrogante. Provare l’emozione, la vertigine, il privilegio, concesso solo a chi scrive e a chi recita, di vivere altre vite, le vite degli altri.]

Gasthof Frau Emma, Merano

La letteratura è un modo di evocare gli spiriti

La strada, da e per la Pensione, è quasi un piccolo viale, sereno, tra orti e giardini. Silenzioso e deserto, tranne che negli orari canonici di uscita e di entrata: dopo colazione, per il pranzo, nel pomeriggio dopo un breve riposo, la sera, per la cena. È raro però che il dopocena animi la strada, accade, forse, se c’è una festa o un concerto.
Nelle case non si vede nessuno. Eppure sono sicuramente abitate, le tendine alle finestre, i giardini e gli orti 7curatissimi, i balconi in parte già fioriti.
Questo piccolo viale conduce a un ponte sul fiume.
C’è un uomo che cammina.
Alto e magro, i capelli neri spruzzati di bianco precoce, sembra una lieve nevicata autunnale, anche se è primavera. Le spalle sono curve, come sotto un peso. Il corpo esile ondeggia, ma non c’è vento.
Gli occhi grandi, grigi, le sopracciglia folte e scure nel viso olivastro, che pure è pallido, oltre il consentito. Le orecchie sporgono dalla testa, anche loro più della norma, forse troppo, bensì senza arroganza. Il capo è coperto da un cappello nero a bombetta. Ha qualcosa di buffo e di tragico insieme.
L’uomo è vestito di grigio scuro, con una cravatta scura sulla camicia bianca. Un soprabito, anche quello scuro. Da come è abbigliato lo si direbbe un funzionario. Il quotidiano locale, che coscienziosamente annota ogni giorno gli arrivi e le partenze, lo ha definito impiegato.
Cammina, allontanandosi dalla Pensione, verso il ponte. Il passo è misurato, forse osservandolo meglio, un po’ indeciso. Camminando guarda per terra. Le mani, serrate dietro la schiena, ogni tanto non si attengono a quella disposizione, trasgrediscono, abbandonandosi cadenti, sperdute sui fianchi come a voler dire va bene, basta così.
È uscito, e invece avrebbe preferito rimanere in camera, a scrivere una lettera. Ma odia le lettere, di cui comunque abusa, ed è diffidente, spesso sfiduciato nei confronti della scrittura, che pure è il suo strumento, la sua pericolosa consolazione. La scrittura dai limiti inderogabili, la scrittura che non potrà mai dire ciò che conta davvero, la necessità e l’inattuabilità, che sono due facce della stessa medaglia.
Il linguaggio è tecnologia. Se neppure la scienza può essere neutrale, figuriamoci la tecnologia. È strumento, creato a bella posta, orientato a uno scopo eminentemente pratico. Il linguaggio serve a generalizzare e non a scoprire l’unicità che alberga in ognuno. Serve a stabilire rapporti non paritari, non di comprensione e simpatia, ma di potere. Nel linguaggio è implicita la dominazione e la subordinazione, non certo l’equilibrio, l’uguaglianza, l’amore. Ma l’amore, da sempre, l’abbiamo legato alle parole, ecco almeno una delle ragioni per cui esso è impossibile.
È uscito ma sa che presto ritornerà. Che non potrà resistere ancora a lungo. Che dovrà tornare e scriverla, quella lettera.

Il viaggio l’ho percepito faticoso, ma non so se lo sia stato davvero. Come l’oppressione che sento al petto. Malattia o normale stato di cose?
Tempo orribile, piove. Forse nelle Alpi Bavaresi, sarebbe stato meglio. Ma ho voluto seguire il consiglio del medico.
Dopo due giorni e mezzo finalmente cessa la pioggia.
Il sole.
In un attimo è aprile, primavera, e si viene subito assaliti da una moltitudine di odori, una miscela di profumi, una sinfonia. Che potremmo definire mediterranea, pur se tra le alte montagne: “Kennst du das Land wo die Zitronen blühn?” prendiamo a prestito, ma senza enfasi. Ci si può aspettare che da qualche parte, neanche troppo distante, vi sia il mare. Forse è quel frusciare del vento fra i rami che ci illude, come fosse il suo respiro lontano.
Il “Frau Emma” è bellissimo. Tutto d’improvviso, col sole, appare bellissimo. La città, le strade, i viali, i palazzi, le palme, le persone, il cielo. Anche la temperatura è ideale. Verrebbe da pensare a una Sicilia, che pure non conosco, trasferita come per magia fra l’incantesimo dei monti. Una Sicilia ordinata però, senza svogliatezze. E con qualcosa di curiosamente frizzante, che dovrebbe essere assente sotto quei cieli estenuati.

Lui però si sente fuori luogo. E questo è normale.
Si vede nell’abito scuro, scuro anche lui, opaco, spento. Un crisantemo in un giardino di rose. Un corvo su un campo di grano.
È malato. È lì per curarsi.
Procede impacciato, al contrario degli altri che paiono muoversi perfettamente a tempo, un’immensa deliziosa scenografia di una vivace operetta. Eppure, a guardare con maggiore attenzione, non riesce a non vedersi come se si trovasse in un lindo, luccicante, meraviglioso limbo di lunga degenza. E osservando gli altri, danzanti, si domanda se anch’essi siano malati.
Giunto all’Hotel, un inserviente ha preso i bagagli dalla vettura. Gli è venuto incontro un tipo azzimato, si è presentato come il Direttore, parla un tedesco leggermente infiorato, con una percettibile influenza sudtirolese. Anche il suo, di tedesco, deve avere un’inflessione particolare, forse riconoscibile. Comunque molta gentilezza e qualche salamelecco di troppo.
Viene condotto al secondo piano.
La camera è magnifica, ariosa e piena di luce – non sarà troppa? – con due portefinestre e un balcone che bisogna definire almeno leggiadro, con gerani fioriti precocemente, esagerati nella loro splendente semplicità.
C’è anche un delizioso salottino, forse solo un po’ troppo femminile, e una scrivania con tutto l’occorrente per la corrispondenza. Ci si siede.
Non si è neppure lavato le mani, non ha disfatto i bagagli, sistemato le cose, niente. Si siede lì con la prepotente, irrimandabile necessità, l’urgenza quasi, di dirle che è arrivato, di farle sapere che l’albergo è troppo bello – e forse anche troppo costoso – per quello che lui cerca. Di spiegarle che quel balcone così leggiadro è non solo inutile ma funziona quasi come una cattiva coscienza mostrando apertamente ciò che lui non sa fare, evidenziando il fatto che non sa vivere. Tutta quella luce! Così luminosa, sfacciata. E lui, scoperto, non ha buchi o cupi recessi nei quali nascondersi come un insetto impaurito, senza che tutto quel bianco accecante lo raggiunga comunque. La vedrebbe ugualmente, tutta quella luce, ed essa troverebbe lui, anche se si fosse nascosto in un buco, in una fessura del muro.

Mia Cara, non avrei niente da dirLe di interessante, di novità, come le intendono gli altri, eppure sono sicuro che, se soltanto mi lasciassi andare, tutti questi fogli non basterebbero che ad iniziare una lettera la quale potrebbe anche non finire mai, che vorrei diventasse, egoisticamente, lo scopo e l’unica occupazione della Sua vita il leggerla, e qualora dovesse un giorno riuscire a terminarla, rileggerla daccapo, punto per punto. E poi, se avanzasse ancora del tempo, vorrei che fosse Lei a scrivermi, ed io ad attendere spasmodicamente quella missiva che parrebbe non arrivare mai. E che, una volta arrivata, risultasse gonfia e pesante di fogli, di parole, di emozioni, le Sue. Che mi daranno – loro sì, non questo sfacciato balcone – l’illusione di vivere. Lei, così piena di vita! Oh, Cara, Nobile, Paziente! Il Suo Sacro Nome che ardisco pensare, ma non pronunciare o scrivere.

Infatti non lo scrive, non le scrive. Si rende conto, contro la propria volontà, di come sia ancora troppo presto. E allora scrive all’amico Max, surrogato di ciò che vorrebbe davvero. A lui dice però solo alcune cose, che comunque aveva pensato, anche quelle poche, per un destinatario diverso.

È stato davvero estenuante accomodarmi, assestarmi e ambientarmi in un luogo estraneo, la camera di un albergo – per quanto bella e lussuosa – in un luogo che non conosco, cosa che non mi riesce più molto facile. Sistemare gli abiti nell’armadio e nei cassetti, togliere alla vista le valige vuote che ci dicono sottovoce, ma perentoriamente, quanto rapido passerà questo momento. Che non so quanto durerà – troppo e troppo poco nello stesso tempo – curioso intermezzo in una vita scialba, scialbo anch’esso. Ma pure, sembra che in questi periodi fuori dal tempo, come durante le feste, si aprano, si potrebbero aprire, spiragli, impreviste opportunità, nuove visioni alle quali siamo i primi a non credere.
Sistemando in buon ordine, solo un po’ maniacale, gli oggetti da toletta sulla mensola del bagno, ho scoperto di aver dimenticato di portare il pennello da barba. Avrei potuto chiedere alla reception di procurarmene uno. Invece ho deciso di svolgere io stesso quel delicatissimo incarico. Sono uscito e mi sono recato in un negozio molto elegante. Un commesso eccessivamente premuroso me ne ha mostrati cinque, uno più bello dell’altro. Eppure non riuscivo a decidermi. Mi sono accorto che il commesso mi osservava, di sottecchi, sempre gentilissimo, ma curioso e circospetto adesso. Tutta quell’indecisione non poteva infatti non generare diffidenza. Ho trasferito su quell’oggetto, che pure mi era necessario, tutta l’irresolutezza del mio carattere, e il pennello, che alla fine ho dovuto acquistare, usandolo, trasferirà sul mio volto, anzi dipingerà su di esso, una maschera che ancora non esiste, un misto fra commedia e tragedia, le sopracciglia sconnesse una su e una giù, la bocca storta e contratta, atteggiata a una smorfia cruda e mortale, grottesca e patetica.
Quando sono tornato nella mia bella camera, sono stato aggredito dalla luce ancora violenta di queste già prolungate giornate primaverili che credevo aver lasciato al di fuori. Mi ha sospinto in un angolo, chiedendomi ragione del mio operato. Ho dovuto confessare tutto. Ho dovuto trovare una spiegazione al mio indugio, alla mia indecisione. Era una spiegazione ingenua, banale. Non fui creduto infatti. Me ne andai in bagno. La finestra del bagno guarda a est, a quell’ora da quella parte inizia la sera, almeno là non c’è più tutta quella rischiosa lucentezza. Me ne stetti in quella incipiente penombra, apparentemente amica, fino a che il chiaro, attenuandosi sempre di più, non accettò la sconfitta quotidiana, e per tutto il tempo di quell’agonia , che non fu breve, mi rigirai tra le mani quel meraviglioso pennello da barba nuovo di zecca di cui sperimentavo l’estrema morbidezza passandolo e ripassandolo senza sosta sul palmo e sul dorso della mano.

Frau Emma, Sala da Pranzo

Era in ritardo per la cena. La prima sera e già in ritardo.
Si allestì con un abito acconcio. Scese ed entrò nell’immensa sala dalle cui enormi vetrate si vedevano ancora scintillare le montagne e poi, pian piano, le stesse abbigliarsi con uno scialle di velluto color malva. Quindi le stelle, brillare nel cielo.

La sala è praticamente piena, tra pochi giorni sarà Pasqua. I tavoli sono occupati quando da due, quando da tre o quattro commensali. Alcuni sono ubertosi di famiglie con copiosa prole, c’è un brusio di fondo interrotto ogni tanto dall’acuto di una vocina infantile o dall’argentino schiocco di una risata femminile.
C’è soltanto un altro tavolo come il mio, almeno a prima vista, impegnato da una sola persona: una dama notevole per aspetto ed età, i capelli ancora vaporosi, azzurrini, incastonata in un abito nero sul quale brillano, come nel cielo che si vede attraverso le vetrate, gioielli sfarzosi che paiono stelle di prima grandezza. L’abito è serrato fino al collo, sembra un campionario di passamanerie e nastri vari, neri sul nero. Ha una dama di compagnia, intravista prima nella hall, che certamente ha pranzato da sola in camera, e che l’attende in un salottino, leggendo un libro probabilmente.
Mi è sembrato che, entrando, tutti mi guardassero. In realtà così non è stato, si è trattato soltanto di una mia impressione. Il tavolo a me destinato si trova circa a metà sala, verso la parete a grandi tende che si oppone alle vetrate, lungo la quale sono collocate le postazioni più cospicue, per gli ospiti più illustri. È un ottimo tavolo dunque, ma troppo esposto. Per raggiungerlo si deve attraversare quel campo minato. Bisognerà farselo cambiare.
Ho mangiato senza appetito cose molto semplici, sebbene il menù fosse ricco di piatti sfarzosi che avrebbero invitato chiunque a sbizzarrirsi. Zuppa d’orzo, trota bollita e una verdura. Al termine ho ripiegato il tovagliolo infilandolo in una deliziosa busta di merletto, come gli habitué.
Ecco, ho provveduto a informarLa (avrei voluto informarLa) dei fatti formidabili di questa prima giornata, episodi salienti di un’esperienza varia e scoppiettante come fuochi d’artificio di cui nessuno ha acceso la miccia.

dal Frau Emma

Tornato su, in camera, prende una decisione importante. Lascerà il Frau Emma. Per carità, che non lo considerino però un eccentrico irriconoscente, un estroso incontentabile. Albergo eccezionale, dislocazione prestigiosa, perfetta, elegante, lussuoso, ben frequentato, camere bellissime, ottima biancheria, servizio impeccabile, personale cortese e sollecito, prezzo adeguato ma, in fondo, corretto. Cosa volere di più?
Un altro posto. Più discreto, senza lussi imbarazzanti, con finestre e panorami ugualmente graziosi, leggiadri, ma meno scenografici e squillanti. Una camera piccola, modesta ma confortevole nella sua penombra, con le tende antiche, pesanti, che possono fare buio. Un letto accogliente nel quale però non smarrirsi. Una camera per uno che è solo.

Pensione Ottoburg, Merano

Ha trovato infine un luogo che gli si confà in misura certamente maggiore. Una piccola dignitosa Pensione, linda e silenziosa, tra i fiori di un curatissimo giardinetto. È anche economica, il che non guasta. Domani ci si trasferirà.
Si è svolto un curioso colloquio tra lui e il direttore del Frau Emma. Non si riusciva a capire chi dei due fosse il più imbarazzato. Se il direttore, che stentava a comprendere cosa avesse potuto spingere l’esimio cliente a prendere quella sconvolgente decisione, come ebbe la grazia di definirla, oppure fosse lui, l’ospite insoddisfatto, inpacciato, inceppato nel cercar di spiegare, prima a se stesso e poi all’altro, cosa non avesse funzionato.
Quel reciproco imbarazzo non si era risolto dando libero corso a parole sfoghi o giustificazioni plausibili, quindi si erano salutati molto formalmente.

Ho effettuato il cambio.
Non intendo annoiarLa elencando tutte le procedure che la situazione, complessa, comportava. Solo, volevo dirLe (avrei voluto dirLe) che sono andato via dal Frau Emma di sotterfugio, come un ladro, oppure come uno che scappa senza pagare il conto. Anche i gentilissimi inservienti, che mi hanno portato giù i bagagli, caricandoli poi sulla vettura presa a nolo, non avevo il coraggio di guardarli in faccia, continuavo a fissare per terra cose che non c’erano, e ho largheggiato elargendo una mancia davvero eccessiva, per farmi perdonare, fatto che ha provocato ancor più stupore e dedizione da parte di quegli umili – che io invece percepivo come giudici inflessibili – negli ultimi istanti del mio rapporto con il Frau Emma. Ho creduto, ho sperato, così facendo, di lasciare almeno un buon ricordo, ancorché curioso, di me, del mio soggiorno, ma subito mi sono reso conto che il contemporaneo arrivo di nuovi clienti – una famigliola bavarese di quattro elementi – aveva già consegnato il mio gesto sconsiderato, insieme a tutta la mia persona, al meritato oblio.

La nuova camera è modesta ma più che decorosa. Il letto fortunatamente è piccolo, il piumino è di un verde cupo. C’è la tenda, la famosa tenda pesante, che permette di fare buio. C’è addirittura una poltrona, anch’essa verde cupo, più tardi la proverà. Appena l’ha vista ha pensato di voler trascorrere la notte lì, tra le sue braccia capienti.
Il bagno è minuscolo, stretto e lungo, si fa per dire. Anche lo specchio, per fortuna, è di un formato minimo. A stento contiene un viso.
C’è un balconcino anche in quella stanza. Più discreto, più misurato, si intende, ma anche lui rigoglioso di luce e di verde. Alcuni alti alberi fanno da quinta al paesaggio che si può ammirare anche da lì. Che è un po’ troppo perfetto anche da quella nuova prospettiva, tanto da sembrare finto e, a tratti, malinconico.
Manca la graziosa, leziosa scrivania. C’è soltanto un tavolo, molto ampio però, ci si possono poggiare libri, giornali, riviste, e pure molte altre cose, rimanendo comunque un notevole spazio per carta da lettere, buste, penna e calamaio.
Così dunque si è messo a scrivere. Non con la penna però, col pensiero, con le parole che gli vorticano in testa come le foglie morte tra i piedi in un giorno di vento autunnale. Quelle foglie morte sono per lei, di nuovo indirizzate a lei.

Cara, gentile, pazientissima Amica. C’era forse qualcosa che mi urgeva di farLe sapere? Forse no. Ma ormai è chiaro come io non sia capace di staccarmi, anche solo per un istante, da queste pagine bianche che si agitano nella mia mente come panni stesi al sole, bianche, abbaglianti quasi, e allora subito le riempio, col pensiero, di una grafia più simile agli scarabocchi d’un pazzo che non alla nobile invenzione, la scrittura. E a chi posso scrivere se non a Lei, a chi confidare questo ingombro nulla che getto sulle Sue delicate spalle, forti come quelle d’Atlante per sopportare il peso di tutta l’angoscia che io produco similmente a una macchina infernale? Povera Cara, quale destino atroce questa condanna a essermi amica!
Per me sollievo, cura, per Lei tormento. Eppure, sapesse, niente di più lontano da me, dalla mia imbelle volontà, che l’idea di tormentarLa, di farLe del male, di anche solo tediarLa. Appartengo purtroppo alla razza dannata di coloro che portano con sé, come un talismano, tutti i mali del mondo, e che – senza colpa, o con tutte le colpe – coinvolgono coloro che amano nel loro proprio sfacelo. Questo il motivo per cui non posso scrivere altro che queste lettere immaginarie, immaginate. Ed è a cagione di ciò che dunque non Le scrivo davvero, che ancora – per poco, lo sento – riuscirò a trattenermi. Perché so già per certo che comunque non riuscirò a spiegarmi, a chiarire davvero ciò che provo. Mi appaiono, le parole, una foresta inestricabile nella quale il singolo albero è impossibile distinguere, nella quale comunque smarrirsi.
Le parole non sono altro che la scoria dell’esperienza. Ecco perché a me resteranno solo le lettere che non ho scritto. Mentre quelle reali, che forse scriverò, non Le confesseranno nulla di me, saranno esse stesse a stabilire il limite oltre il quale io non so andare, lasciandomi in bocca il gusto agrodolce (l’amaro è più netto però) di una singolare nostalgia per un sentimento indecifrabile, immaginato e sconosciuto. E per la moltitudine, praticamente infinita, dell’inesprimibile che a quella nostalgia è indissolubilmente allacciato.
Avrei voluto parlarLe della mia malattia, che ebbe inizio di notte (sempre la notte!) tre anni fa. Ma cosa dirne se non che la malattia polmonare è soltanto uno straripare della malattia mentale. Ecco dunque a cosa volevo arrivare, alla confessione di un dato incontrovertibile: sono un malato di mente. Avrei voluto dirLe che è stata Lei a farmi rendere conto di me. E ho paura – paura vera – che raccontando tutto questo a Lei, che è disposta ad ascoltarmi, io possa, non so come, contagiarLa, contaminarLa. Lei, pura, Lei, che è un uragano di vita, pensarLa malata. No!
La malattia d’altronde è un avvertimento. Di qualcosa di ancor più definitivo. Qualcosa che non dovremmo dimenticare mai. Con la malattia, sia fisica che mentale, paghiamo tutti i debiti che abbiamo contratto, e morendo, i conti, probabilmente, tornano a zero. Per questo non ci dovrebbe essere bisogno di un altro inferno. Raskol’nikov desiderava la punizione della sua colpa. Ma io?io devo pagare, espiare colpe che non ho. Espiare e basta. Delitti infatti non credo di averne commessi, di particolari. A parte quello di essere nato. Di essere nato così. È una colpa che si può emendare solo con la vita, vivendo cioè. La vita che è in quei crucci, in quegli assilli, in quelle tribolazioni.
La Pensione, il mio nuovo domicilio, è accogliente come una tomba di famiglia. Nella sua normalità evoca nostalgie non facili da identificare. Come gli odori. Di cui è piena.
È un posto in cui aspettarsi una visita inaspettata. Tutte le certezze e le convenzioni della quotidiana esistenza sembrano dissolversi, lì dentro. Si direbbe abitata da fantasmi, sennonché i suoi ospiti sono persone reali, in carne e ossa.
Il mio balcone – con quanta prosopopea lo definisco così – affaccia sul giardino che ha una sua curata selvatichezza, i cespugli che paiono roveti spontanei, se non fosse per le forme aggraziate e per i fiori precoci che li svelano domestici.
Su questo mio balcone, mentre ammiro le montagne azzurrine in lontananza, vengo visitato da una lucertola avida di primo sole e da uccelli fin troppo confidenti. Essi sbagliano, ma non conosco la loro lingua, per metterli in guardia.
E mi viene anche a visitare l’angoscia. L’angoscia che ha viaggiato con me, che è giunta qui insieme a me, che trascorrerà con me il periodo di cura – certamente essa ne uscirà rigenerata, rigogliosa – che ripartirà con me non guarito, io inguaribile, e fatalmente, come un cane fedele, non mi abbandonerà mai, fino alla morte.
E nonostante sia insostenibile, non c’è bisogno di pensare al suicidio per fuggirne. In quanto, come un orologio regolato sull’ora della sveglia, anche in me è regolata la mia ora, quella in cui mi addormenterò, nel dolore. Il normale trascorrere del tempo è già la sentenza. Così potrà essere evitato quello sgarbo, quell’offesa, quella sfida alla morte che è uccidersi.
Ci sono ancora cose da fare. Cose talmente importanti da non poter essere più rinviate. Cose da ricordare anche. Sebbene a volte ci può sembrare che i ricordi siano diventati inaccessibili.
E questo viaggio inutile, necessario a una salute che già non sa più che farsene delle cure…

Merano,1920

La Pensione è un luogo molto piacevole. Ha diversi ospiti: un generale, un colonnello – palesemente antisemiti – alcune vecchie signore, notevoli. Un medico in pensione con la moglie florida e ancora piacente, una famiglia giovane con tre figli. Tutti tedeschi, cristiani. Al contrario del Frau Emma dove la maggioranza degli ospiti, a parte alcuni nobili italiani, erano ricchi ebrei. Come d’altronde i moltissimi ebrei turisti di questa singolare città, linda, sfolgorante stazione climatica dall’ineluttabile sembiante funereo, una mediterranea Villa am Meer. Con il profumo dei fiori che aleggia ovunque, i colori pastello, la fragranza delle sue acque da campi Elisi, il sole, i giardini curatissimi, le promenades e i viali che assomigliano alle infinite corsie di un immenso ospedale a cielo aperto.

La padrona della Pensione è un donnone gioviale. Sempre sorridente e con le guance rosse. Ho ben tre amiche: tre sorelle, la maggiore ha sei anni. Vogliono spesso giocare con me, che non so giocare. Vorrebbero, ogni tanto, giocare a gettarmi nel fiume. Probabilmente mi considerano superfluo: in fondo, non essendo esperto di giuochi, non sono loro utile. Nel gioco dei bambini a volte c’è qualcosa, una determinazione che fa paura.
Dieta vegetariana, brevi gite – comunque stancanti – molte letture, Il Cantico dei Cantici, in particolare. E il tormento dell’insonnia. Cerco di raccontarmi che possa dipendere dall’aria fine, quella che giunge dalle montagne, ma non mi credo. Deve trattarsi di qualcos’altro. Provo a pensare a quali esseri, sulla Terra, non dormano. E non me ne viene in mente nessuno. Anche i cavalli, col loro sonno sofferente e miracoloso, in piedi sulle quattro zampe. O i pesci, galleggiando sospesi. Forse gli insetti. Alcuni insetti. Perennemente affannati a cercare un luogo in cui nascondersi. Per sfuggire al piede che li schiaccerà.

Sta seduto in poltrona, nella penombra. Le mani giunte, gli avambracci poggiati sulle gambe. Guarda attraverso i vetri della finestra e si stupisce, rendendosi conto di non riuscire a ricordarne i lineamenti. Nulla svanisce così rapidamente quanto i tratti di un volto.
Ora si alza, esce fuori, in balcone.
Smette di piovere. Cadono, con uno sforzo indicibile, le ultime stille. Alcune gocce, irresolute, pendono dalla ringhiera. Ogni tanto una di esse, meno titubante delle altre, decide di lasciarsi andare.
Ci sono ancora nuvole in cielo ma stanno fuggendo là, dietro le montagne, verso la Val Venosta e il Gruppo di Tessa. Il grigio si sta trasformando in una tavolozza di tinte brillanti. Tutto luccica pericolosamente.
Entra dentro, di nuovo.
Il quinto aforisma di Zürau recita così: “Da un certo punto in avanti non vi è più ritorno. Quello è il punto da raggiungere”.
Ecco, adesso finalmente si è fermato. Seduto sulla sedia, al tavolo. Anche lui sa che, a questo punto, non può rimandare. È la stessa carta che non ne può più di aspettare la violenza del pennino, la lordura dell’inchiostro.
E anche lei, il destinatario, lontana, sa che l’attesa è finita, che adesso si comincia davvero, sebbene il supplizio del dubbio non si estingua mai.
Cos’è poi quello che adesso inizia? Uno scambio di lettere. Scambio, sempre ammesso che ci sarà una risposta. Lettere strane, in cui ognuno parlerà non di sé ma per sé, più che per l’altro, dove attese e promesse, speranze, inquietudini, indugi e assalti si accavalleranno, si confonderanno come le onde l’una sull’altra, e non si potrà capire, nessuno potrà più capire quali le domande, e quali le risposte.
Ora è soltanto il rumore sommesso del pennino che gratta sul foglio.

[Aprile 1920]
Merano-Maia Bassa
Pensione Ottoburg, Maiastraẞe 12

Cara signora Milena,
la pioggia che durava da due giorni e una notte è appena cessata, forse soltanto provvisoriamente, ma certo è un avvenimento degno di essere festeggiato, e io lo faccio scrivendo a Lei. Del resto anche la pioggia…

Franz Kafka [Praga, 3 luglio 1883–Kierling, 3 giugno 1924]
Milena Jesenská [Praga, 10 agosto 1896-Campo di Ravensbrück, 17 maggio 1944]

Corpi anonimi in una stanza empia

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Three Studies for Figures at the Base of a Crucifixion c.1944 Francis Bacon 1909-1992 Presented by Eric Hall 1953 http://www.tate.org.uk/art/work/N06171

 

di Luca Ingrassia

 

Three Studies for Figures at the Base of a Crucifixion c.1944 Francis Bacon 1909-1992

 

«Ero ossessionato dalla colonizzazione della nostra coscienza da parte dei media, in particolare nei paesi occidentali e capitalistici, la loro formazione delle nostre identità e la loro formulazione delle ansie che spingono a consumare: un fenomeno recente che ha avuto inizio solo alla fine della seconda guerra mondiale, quando la pubblicità e la produzione si sono amplificate e le aziende hanno dovuto creare bisogni. […] Al giorno d’oggi quell’equazione è dilagante, fuori controllo, culminando nella probabile distruzione del pianeta e degli esseri viventi – tutti gli orribili effetti sociali dei mass media sulla nostra coscienza e sul nostro senso di chi siamo sul pianeta. Ho avvertito che questo intero processo, assieme al fatto di lavorare come uno schiavo di basso livello salariato per la maggior parte della mia vita, era come essere stuprati: essere invasi, contro la propria volontà, da stimuli sui quali non hai controllo, sui quali sei impotente, mentre incidono sulla tua coscienza. Questo è il motivo per cui ho utilizzato la parola “stupro”, ho sentito che era questa  l’esistenza moderna.» 

Così  si è espresso in un’intervista Michael Gira, spiegando la genesi di “I Crawled”, dall’album “Young God” , brano composto in seguito alla lettura di Psicologia di massa del fascismo di Wilhelm Reich, e pervaso dagli umori che seguirono alla sconvolgente rielezione di Ronald Reagan nel 1984. Bisogna però fare prima qualche passo indietro. Le vicissitudini biografiche di Gira sono presenti ormai nelle innumerevoli interviste che si possono trovare ovunque nel web, o nel preziosissimo Swans: Sacrifice And Transcendence – The Oral History di Nick Soulsby,  ma vale comunque la pena citare alcuni passaggi importanti, esperienze che hanno segnato la sua formazione artistica. Michael Rolfe Gira nasce nel 1954 a Los Angeles. I genitori non sono molto presenti durante la sua infanzia, si ritrova spesso coinvolto in risse, atti di vandalismo, furti, passa da un riformatorio all’altro, si droga, a dodici anni è già assiduo frequentatore dell’LSD, a quindici si ritrova a vagabondare per tutta Europa, finendo poi in Israele, dove viene arrestato per possesso di hashish. In prigione, a quella tenera età sperimenta già la solitudine estrema, il lavoro pesante nelle miniere di rame, è testimone di stupri, torture, abusi, si confronta faccia a faccia con la violenza poliziesca, mentre il suo odio per ogni forma di autorità continua a crescere irreversibilmente. Ma nella biblioteca della prigione scopre la letteratura, scopre Genet, Sade, Wilde. Dopo alcuni mesi viene liberato e riportato negli Stati Uniti. Ritornato a Los Angeles, decide di dedicarsi totalmente all’arte. Lì, nella Los Angeles “vulvica”, come la chiama in uno dei più suggestivi racconti de Il Consumatore, la Babilonia di Anger, disperata e spietata come quella di Ellroy, vi è in corso un’esplosione, un vulcano che minaccia di distruggere non solo la città, ma tutta la nazione, il mondo intero. E’ il 1977 e il nome del vulcano è Punk, proprio nel punk il giovane Michael trova la sua vocazione, la prima fonte di ispirazione musicale, e come tanti altri  decide di cavalcare quell’onda anomala. A Los Angeles si occupa di pubblicare una delle primissime riviste indipendenti, No Magazine, organizza anche performance artistiche estreme, ispirate agli Azionisti Viennesi, ad artisti come Vito Acconci, Chris Burden, Bruce Nauman. Nel 78 prende parte ad una delle sanguinose e scioccanti aktionen del dionisiaco Hermann Nitsch, talvolta interrotte dalla polizia. Tuttavia, l’ambizioso Michael comincia ad annusare qualcosa che viene da molto più lontano, dall’altra parte del continente, sa che lì qualcosa sta succedendo e lui vuole essere presente. La New York dei primi anni Ottanta è la città di Basquiat, di Jarmusch, di Haring, contraddittoria, violenta, eroinomane, povera e sporca come nei racconti di Hubert Selby Jr,  ma è in quel degrado invivibile che le chitarre, le voci ed i sassofoni digrignanti della cosiddetta No Wave vengono alla luce, scuotono le strade e gli edifici, denunciano il caos urbano, lo esorcizzano, lo destrutturano, ricostruendolo da cima a fondo attraverso la ricerca sonora esasperata . Gira lavora lì duramente come operaio edile, vivendo ai limiti della povertà assoluta, in un monolocale stretto e buio, circondato da droga e criminalità,  incontra i Sonic Youth, Glenn Branca,  fonda la sua prima band, i Circus Mort, che poi scioglie per creare gli Swans. Il resto è storia, il resto è musica.

Nigredo, il nero, cuore di tenebra dell’uomo,  la notte oscura dell’anima, quella che l’iniziato deve attraversare per cominciare il proprio cammino verso la luce, l’unione del suo sé con il  vero Sé, il Divino. «Lo Spirito conquista la propria verità solo a condizione di ritrovare se stesso nella disgregazione assoluta», scriveva Hegel. Solve et coagula. Scomponendo la sua materia, riducendola agli elementi primitivi, al caos primordiale, eseguendo la discesa negli inferi, tra la perdizione, la degradazione, l’annientamento, la putrefactio. E’ la morte iniziale, ma una morte apparente, come tutte le morti, che è tuttavia necessaria alle transmutazioni successive. Gli scritti de Il Consumatore, finalmente tradotto e pubblicato in Italia da Double Nickels, appartengono a questa fase oscura della vita di Michael Gira. Alcuni furono stampati in edizione limitata nel 1985, in un libriccino illustrato da Raymond Pettibon, col titolo di Selfishness. «Tutto si fonde, prima o poi; tutto è organico. Non è possibile distinguere una cosa da un’altra. Quando la tua mente viene svuotata dall’egoismo, si sbriciola e si dissolve nell’acqua». Così esordisce uno dei racconti  più commoventi della raccolta, “Perché ho mangiato mia moglie”, dove il cannibalismo non è che il tentativo disperato di un uomo distrutto dal dolore di unirsi alla sua amata, senza la quale la sua intera esistenza è inconcepibile. Come lui, i protagonisti di queste pagine manifestano la ferrea volontà di consumarsi, di dissolversi e sparire, ossessionati dall’immagine di sé, che non riconoscono, che rifiutano, nella quale alla fine sono comunque destinati ad affogare come Narciso nello Stige,  vogliono fondersi con un Altro, che può essere sia un altro corpo, una stanza, un’immagine, un ricordo, sia un altrove ben definito, sempre qui, non un Aldilà ideale ma questo pianeta, dal quale non si sfugge, no, non si può sfuggire da questa terra dove tutto ciò che è solido si decompone, si liquefà, per cambiare forma ulteriormente, dove tutto scorre, pus, piscio, merda, sudore, sperma, sangue, alcool, veleni, succhi gastrici, muco, scarichi industriali, lava vulcanica, un Tutto liquido che sommerge la coscienza, della quale non è che l’inevitabile estensione. La lacerazione assoluta è al di là del bene e del male, richiede i metodi più crudeli, i più inimmaginabili. L’orrore cosmico vibra in ogni giuntura del mondo, vive su qualsiasi superficie, su qualsiasi corpo vi è  già scritta l’ardua sentenza, la profezia funesta. Perché dunque non accelerare il processo, infine, abbracciarlo totalmente? «Per giungere al colmo dell’estasi in cui godendo ci perdiamo, dobbiamo sempre fissarne il limite immediato: l’orrore» , suggerisce George Bataille.

L’orrore nei racconti di Gira ha proporzioni lovecraftiane, ma laddove Lovecraft non osava inoltrarsi e descrivere, rendere il lettore testimone oculare di tutti gli eventi, qui ogni cosa viene sputata, sbattuta in faccia, nulla sfugge al lettore, né allo scrittore, che ha nei confronti delle sue creazioni lo stesso sguardo distaccato del medico che osserva un cadavere in obitorio per cominciare l’autopsia. Ciò non fa che rendere ancora più spaventosa la narrazione, che sebbene faccia  uso di metafore molto pittoresche, dal sapore arcaico, quasi decadentista, rimane comunque lucida e scarna, kafkiana, come sono kafkiane le metamorfosi alle quali si assiste, soprattutto negli scritti più brevi della seconda parte, perturbanti come le scene dell’esecuzione capitale che lo scrittore ceco descrive ne “La colonia penale” . Si discende in città, foreste, deserti e stanze devastate e desolate, nei bassifondi, nelle viscere corrotte ed inquinate di un mondo come il nostro, vicino ormai alla fine, dove niente è vero e tutto è permesso, in quelle lande selvagge ritratte dalle pupille oppiacee di William Burroughs, nel Meridiano Di Sangue di Cormac Mc Carthy, «regioni poste al di là della ragione umana, dove l’occhio si perde e la bocca sbava e si contrae». Si è combattuti tra il proseguire la lettura o fermarsi, prima che sia troppo tardi ed il peggio arrivi. «Non che l’orrore si confonda mai con l’attrazione, ma se non può inibirla, distruggerla, l’orrore rafforza l’attrazione! Il pericolo paralizza, ma se è meno intenso può eccitare il desiderio. Noi non giungiamo all’estasi se non nella prospettiva, sia pur remota, della morte, di ciò che ci distrugge». L’osservazione di Bataille esprime pienamente il conflitto che i personaggi di queste pagine attraversano e poi superano, naturalmente con conseguenze devastanti. Sono creature indefinite, perdute, sempre in bilico tra l’essere ed il non essere, tra la vita e la morte, sono soltanto voci che abitano corpi, corpi che abitano voci. Corpi anonimi in una stanza empia. Corpi soli, abbandonati, corpi malati, imprigionati in una carne che sentono estranea, mutilati, bruciati, violati, che perdono consistenza, deragliati da una mente senza controllo che li deforma e che deforma tutto ciò che li circonda, corpi senza controllo che vivono solo come immagini di qualcun’altro, riflessi, lontani e opachi, ombre di pensieri che brulicano come vermi, cibandosi di ogni stimolo, ogni informazione esterna ed interna, ogni stato di coscienza possibile, divorando se stessi, divorando tutto ciò che incontrano. Sembra che attraverso la scrittura Gira manipoli  i suoi personaggi così come Francis Bacon manipolava sulla tela i soggetti dei suoi dipinti. Ci si ritrova in un incubo cronenberghiano: non c’è limite alla carne. Non c’è neppure limite all’incubo. La carne urla, esplode, vuole farsi spazio assoluto, uscire dai contorni umilianti dello spazio esistenziale nella quale è racchiusa. «Non disprezzo tanto le condizioni della mia vita, quanto l’esistenza della mia carne». Oggetto e soggetto si confondono, mentre le carni e le menti confluiscono in esseri senza scopo, senza identità, entità estranee, inumane, che in alcuni casi assumono sembianze animalesche, ululano, ringhiano, nitriscono. In “Alcune debolezze” compare un essere mezzo uomo e mezzo mucca. Il maestro di cerimonia in “Un sacrificio” ha «un busto umano che si innalza dal corpo di un toro». Il mondo animale non è perciò lontano da tutti coloro che vivono attorno ad esso, anzi, condividono caratteristiche molto simili, tali da chiedersi dov’è che finisce l’umano e dov’è che comincia l’animale, come nel racconto in cui le ennesime vittime devono decidere se venire uccise dai cacciatori antropofagi o dalla bestia misteriosa nascosta nella foresta, che si rivolge a loro «con voce umana, simile a quella di una bambina innocente». Talvolta l’animale è persino un rifugio, la dimora purificatrice di una nuova possibilità, una vita ulteriore. «Ora sono al sicuro», pensa emblematicamente  il ragazzo anfetaminico che si nasconde nel ventre di un cavallo che ha appena ucciso, mentre attorno a lui la follia distruttrice della civiltà moderna si abbatte definitivamente sulla città in fiamme, come una nube tossica, travolgendo e contaminando tutto ciò che può. Crollata la civiltà e tutti i suoi limiti, dunque, crollata l’identità, qualsiasi possibilità di identificazione con l’ambiente, con gli oggetti, coi propri pensieri, rimangono solo la paura, l’indifferenziato, ed il successivo impulso totalitario a voler riprendere a tutti i costi il controllo sulla realtà. Ma quale realtà rimane?  Quel che viene percepito è davvero reale? Si tratta soltanto di allucinazioni? Cos’è la realtà? 

 

Edward Kienholz: The State Hospital

 

Sarebbe errato considerare questi scritti, nonostante le loro imperfezioni, come cataloghi pornografici di nefandezze qualsiasi, atrocità ballardiane assemblate ed esposte soltanto per scioccare, disgustare, nient’altro che frutti marci del godimento perverso di chi li  immagina e li scrive. Si dovrebbe altrimenti pensare la stessa cosa di opere cinematografiche come “Salò” di Pasolini, dei dipinti di Bacon o delle performance degli Azionisti Viennesi, immaginari con i quali  Il Consumatore ha molto in comune. Bisogna insistere invece sulla sottile ma evidente denuncia politica, della quale i personaggi sono portatori, consapevoli o non, ma senza moralismi di alcun tipo, senza proporre soluzioni né scegliere da che parte stare. Del resto, non possono: sono privi di volontà. «Si parla loro sempre come a bambini obbedienti. […] Separati fra loro dalla perdita generale di ogni linguaggio adeguato ai fatti, perdita che proibisce il minimo dialogo; separati dalla loro incessante concorrenza, sempre incalzata dalla frusta, nel consumo ostentato del nulla», così analizza spietatamente Guy Debord. Tre sono le Erinni che muovono la volontà dei corpi, reclamando il loro sangue: Spettacolo, Controllo, Consumo. Su di esse, la figura del Moloch per eccellenza, il Capitale, il Denaro, con i suoi altari sempre freschi ed il suo fuoco inestinguibile, Saturno che divora i figli e ne trasforma i corpi in valore speculativo,  plasma le carni adattandole a forme sempre più impossibili e insostenibili, così che i conduttori delle sue energie non si esauriscano nella presa di coscienza e nella rivolta. Come con il lavoro, la lobotomia per eccellenza.  «L’estetica del lavoro è lo spettacolo della merce umana», così cominciava ZYG (Crescita Zero), una canzone degli Area. In questo teatro della crudeltà gli unici rapporti possibili che intercorrono tra gli uomini e le donne sono dettate dall’odio, dalla vendetta e dalla povertà. Produttore o consumatore, padrone e schiavo, cliente o prostituta, sbirro o prigioniero, ricco o povero, vittima o carnefice, oppresso o oppressore, non c’è altra scelta: mangiare o esser mangiati. «I soldi sono carne». Ognuno di loro tenta disperatamente di guadagnare qualcosa dall’altro, anche perdendo tutto, persino la vita stessa. La vendetta continua pure dopo la morte. Si lava il sangue col sangue. Sono costretti, dalle loro condizioni economiche, fisiche o psicologiche, a nascondere le loro debolezze, o a mostrarle, a seconda del bisogno momentaneo, a seconda di come debbano manipolare l’altro per i loro scopi, così che i ruoli si invertono continuamente, come in un rituale sadomasochista. Per far ciò, devono sempre negare la loro identità, che in tal modo è perennemente malleabile, totalmente dipendente dagli ordini e dalle immagini proposte da autorità esterne, dalla televisione, dalla pubblicità. Senza questi stimoli, sono perduti. «Ero stato strappato dalla libertà dell’infanzia per essere rinchiuso nel carcere che è la vita adulta, dove l’immaginazione e le potenzialità finivano quotidianamente risucchiate da un buco nel pavimento, mentre le percezioni e il corpo venivano spogliati lentamente d’importanza e mistero, lasciandomi stupido e ubriaco».  Il dolore e la solitudine che li abitano sono vasti, le loro mancanze non possono essere colmate da nessuna scienza morale o religiosa. Eppure vanno continuamente alla ricerca di un’esperienza che li trascenda, seppur con mezzi molto drastici e violenti, che li fanno accomunare alle iconografie dei martiri cristiani che si donavano estatici alle torture ed al rogo dei loro inquisitori. Ecco come riflette Terence Sellers ne La sadica perfetta: «Si può anche sostenere che sia il sadico sia il masochista sono coinvolti in una forma di meditazione, nel senso che entrambi accettano come prerequisiti la sottomissione del corpo e le sue prevedibili reazioni. Una tipologia di comportamento, questa, che ha avuto molta risonanza nel corso della storia, per esempio tra asceti e mistici della chiesa cattolica romana, che in segno di deferenza allo spirito umiliavano il corpo, rivendicando in tal modo una percezione purificata dell’Essere Supremo». Per i corpi de Il Consumatore tuttavia non c’è Essere Supremo, né fede o disciplina, nessuna rivelazione o redenzione possibile, se si ripudiano e si autodistruggono è piuttosto perché in questo modo possono sfuggire alle immagini mortificanti di sé che la società in cui vivono ha modellato per loro e su di loro. L’incapacità di comunicare, poi, non permette altro linguaggio che quello della perversione. Vale per essi ciò che Klossowski esamina attentamente in Sade, prossimo mio: «Il corpo in sé è il prodotto concreto dell’individuazione delle forze impulsive secondo le norme della specie. Trattandosi qui d’una denominazione del linguaggio, si può dire che quelle forze impulsive parlino in tal modo nel perverso: il linguaggio delle istituzioni s’è impadronito di quel corpo e più specialmente di quanto v’è di funzionale nel “mio” corpo atto a meglio rispondere alla conservazione della specie; che questo linguaggio abbia assimilato attraverso tale corpo il corpo che “io sono”, a tal punto che sin dall’origine “noi” ne siamo stati espropriati dalle istituzioni: quel corpo è stato restituito solo a “me stesso”, corretto in un certo modo, vale a dire che determinate forze son state da esso sfrondate ed altre asservite dal linguaggio: in modo che “io” posseggo il “mio” corpo esclusivamente in nome delle istituzioni, il linguaggio delle quali in “me” è semplicemente il sorvegliante. Il linguaggio istituzionale “mi” ha insegnato che questo corpo nel quale “sono” era il “mio”. Il più gran crimine che “io” possa commettere non è tanto togliere il “suo” corpo a un “altro”: è il por fine alla solidarietà tra il “mio” corpo e il “me stesso” istituito dal linguaggio. Per via di reprocità, quel che “io” guadagno, avendo anche “io” un corpo, “io” lo perdo subito, in rapporto all’altro, il cui corpo non “mi” appartiene. L’impressione di sentire il corpo come non proprio è con tutta evidenza specifico della perversione: benché il perverso senta l’alterità del corpo estraneo, sente in particolare il corpo altrui come se fosse il proprio, e quello che, normativamente ed istituzionalmente, è il proprio come realmente estraneo a se stesso, ovvero estraneo alla funzione insubordinata che lo definisce. Perché possa concepire l’effetto della propria violenza sugli altri, egli abita innanzi tutto negli altri, e nei riflessi del corpo altrui verifica il fenomeno dell’irruzione d’una forza estranea all’interno di “sé”. è nel contempo al di dentro e al di fuori.»

Il travagliato percorso iniziatico di Michael Gira e del suo lavoro con gli Swans presenta delle impressionanti corrispondenze con l’itinerario alchemico. La sua musica e le sue parole nel corso degli anni sono state sempre più infiammate da una insostenibile tensione spirituale, che ha portato le composizioni stesse da uno stato solido ad uno più liquido, dilatato, mantenendo comunque la stessa potenza degli esordi. Questa tensione sarebbe poi divenuta evidente nel nome di un suo breve e tardivo progetto, nato in seguito al temporaneo scioglimento degli Swans nel 1998: Angels Of Light. Egli dedica inoltre il mastodontico “Soundtracks For The Blind” al padre, che sarebbe morto di lì a poco, utilizzando persino registrazioni della sua voce. Il primo album degli Swans dopo undici anni di pausa recita: “My Father Will Guide Me A Rope To The Sky”. Le tracce,tutti gli archetipi di questa magnum opus si possono individuare superficialmente anche nell’aspetto e nei colori che gli artworks di alcuni album assumono nel corso di più di trent’anni di carriera. Si comincia dal nero di “Filth” (nigredo), poi si giunge al rosso di “The Great Annihilator” (rubedo), al bianco di “To Be Kind” (albedo), infine al giallo di “The Glowing Man” e “Leaving Meaning” (citrinitas). Anche se non disposti nell’ordine tradizionale, i cambiamenti di colore, di elemento, le trasformazioni della tradizione ermetica sono comunque complete e mostrano con esattezza tutta la lavorazione, i mutamenti di forma e di sostanza del progetto di un artista che ha sempre sofferto questo conflitto, che è proprio di ogni essere umano, tra la perdita dell’io, l’abbandono, la minaccia dell’estinzione, ed il controllo ossessivo e paranoico,  inevitabilmente distruttivo, su di sé e sul mondo. Nei testi, ma anche nelle più recenti interviste, Gira non ha mai nascosto le sue paure nei confronti del tempo, dell’ineluttabilità della morte, il riavvicinamento alla religione, alla lettura della Bibbia, l’interesse per il buddhismo. Il Buddha e San Giovanni Della Croce vengono citati nella canzone Annaline. L’ultimo album ,”Leaving Meaning”, a trentasei anni di distanza dal primo, è  questa sorta di accettazione cosmica del proprio inevitabile destino. Solve et coagula.  Dopo lo smembramento, il ricongiungimento. Forse il Nirvana è stato raggiunto. Forse l’Ātman e il Brahman sono congiunti. Forse no. Forse la fede è solo un debole seppur necessario appiglio, un filo per orientarsi nel labirinto. Eppure il buio rimane, anche il caos, l’ignoto, la luce appare solo per pochi e brevi istanti,  la via d’uscita è sempre più lontana. Dio, o forse il Demiurgo, è inconoscibile, un mistero, e tale forse deve rimanere, così che il mistico possa continuare ad ardere e tendersi verso di esso senza risparmio, dimenticandosi, come il “cretino” di Carmelo Bene, perso e  avvolto nella Nube della Non Conoscenza. Questo Desiderio che desidera ardentemente, desidera oltre se stesso, non riconoscendo l’oggetto verso il quale tende, lo trova forse nell’estinzione. Questo annientamento, questa ricerca dell’estinzione dell’atto attraverso l’atto, del sé nel sé, con qualsiasi mezzo, anche il più immorale, non possono che richiamare alla mente le parole di  Bataille: «quel che il misticismo non ha potuto dire (al momento di dirlo, veniva meno), lo dice l’erotismo: Dio non è niente se non è superamento di Dio in tutti i sensi». In questo senso Gira può esser considerato un “mistico selvaggio”, un eretico, un pagano, uno gnostico oscuro che va alla ricerca dell’Assoluto attraverso l’eccesso,  il saggio eccesso di  William Blake, attraverso il conflitto tra gli opposti, sia nella musica che nella vita,  tra la melodia e il rumore, il cielo e la terra, l’uomo e la donna, anima e Animus. «E poiché, nella morte, nel momento in cui l’essere ci è dato, ci è anche sottratto, noi dobbiamo cercarlo nel sentimento della morte, in quei momenti intollerabili in cui ci sembra di morire, perché l’essere in noi è ormai solo presente per eccesso […].»   Attraverso questo eccesso, questo oblìo di sé, l’uomo si libera del peso dell’autocoscienza animale e raggiunge il suo potenziale nascosto, quell’energia che lo riconnette e lo riunisce a qualcosa di più grande di lui. Il suo corpo e la sua mente non hanno limiti.  Ma col crescere dell’immensità cresce anche il senso di sottomissione ed impotenza. Egli avverte di essere solo il minuscolo e transitorio pensiero di una mente infinita e permanente. Si ritrova trasparente. Egli non pensa, qualcosa lo sta pensando: viene pensato. «Che significa la verità, al di fuori della rappresentazione dell’eccesso, se non vedessimo quel che eccede la possibilità di vedere, quel che è intollerabile vedere, come, nell’estasi, quel che è intollerabile godere? Se non pensassimo quel che eccede la possibilità di pensare?» Ciò può far scatenare l’horror vacui, oppure una gioia impensabile, dionisiaca, “la gioia per l’annientamento dell’individuo” di cui Nietzsche andava alla ricerca, prima di trovarla nella malattia e nella follia degli ultimi anni. Perché tale gioia presuppone comunque l’idea del divino. Ma se Dio, o la sua idea, non ci sono, come accade nell’uomo contemporaneo, cosa rimane al suo posto? Bataille scrive: «Non possiamo impunemente aggiungere al linguaggio la parola che va oltre le parole, la parola “Dio”; nell’istante in cui lo facciamo, questa parola superando se stessa distrugge vertiginosamente i propri limiti». L’indicibile è lacerazione assoluta del linguaggio, glossolalia, il supplizio di Artaud. Il suono, la vibrazione, è perciò il mezzo più immediato e potente per giungere al sacro, per manifestarlo. Il suono inarrestabile degli Swans, oltre il volume, oltre la misura, oltre la sopportazione fisica, eccede la musica, nega la musica superandola, costringendo chi ascolta alla resa: ci si deve lasciare invadere, impotenti, negare il proprio sé all’esperienza in corso,sentirsi trasformare dal suono. Gira ha più volte dichiarato che è la sua stessa musica a manipolarlo, come se lui fosse solo un burattino, ed egli si lascia attraversare da questa forza, diviene un canale attraverso cui  il soffio sonoro scorre e vibra, un medium, una “colonna d’aria”, come Allen Ginsberg aveva definito Bob Dylan. Esorcismo, dono, sacrificio. Al di là della speculazione, della crescita economica, lo spreco ludico, il sacrificio come gioco, slancio, volontà di potenza. Il sacrificio inteso da Bataille, che è «antitesi della produzione, fatta in vista dell’avvenire, è il consumo che non ha interesse che per l’istante». L’istante vertiginoso in cui le forze irrazionali del mondo prendono di nuovo possesso della psiche. Allora è preferibile farsi consumare, mettersi da parte, accogliere il vuoto, divenire il vuoto, per far spazio all’innominabile perenne, per renderlo nominabile, trascenderlo, trascendersi. Questo è anche ciò che accadeva anticamente nei rituali di possessione presenti nelle varie culture del mondo, così nacquero gli sciamani, i primi poeti, gli attori. Bisognava dunque accordare la propria identità, entità impermanente, con quella permamente di un dio, un antenato, un elemento naturale, tutto ciò che rivive ancora e si ripete. L’eterno ritorno della coscienza, del soffio, del suono. E senza questo soffio, questa coscienza, questo suono, cos’è l’identità? Cos’è un corpo? Dove finisce? «Sono abitato da pensieri di altri. Se mi amputo un dito,  taglio via generazioni di storia, gli stimoli che mi hanno attraversato e dato forma». Ma cosa esiste oltre a questo corpo-storia, corpo-simulacro, oltre al corpo come offerta sacrificale alla culture e le ideologie, ai deliri di onnipotenza dei transumanisti, al  pantheon capitalista, come campo di battaglia della dialettica, cos’è un corpo al di là della Storia, dell’ontologia? è forse il corpo senza organi di Artaud, elettrico e nudo nel  centro del Tutuguri, il rito del Sole Nero, liberato dalla Croce, dalla materia alla quale è crocifisso, dagli automatismi, un corpo che canta e danza, che «generato dal cavo buio della madre, dovrà rituffarsi nella sua origine notturna per risorgere, lavato, nella sfera luminosa della riconquista di sé». È proprio Artaud ad affermare che «il corpo è una moltitudine impazzita, una specie di baule a soffietto che non può mai aver finito di rivelare quello che racchiude. Ed esso racchiude tutta la realtà. Il che vuol dire che ogni individuo che esiste è tanto grande quanto tutta l’immensità e può vedersi in tutta l’immensità». Ed eccolo quell’individuo, Michael Gira, lì sul palcoscenico, il volto, il busto e le braccia scosse e tirate su da enormi mani sconosciute che lo nutrono e lo consumano allo stesso tempo. C’è e non c’è, non è più un individuo, è tutt’uno con il vortice della musica, abbandonato, rapito da quel maelstrom invisibile. E mi pare di scorgere per un attimo, solo per un attimo, l’uomo libero di Dino Campana, che «sotto le stelle impassibili, sulla terra infinitamente deserta e misteriosa […]tendeva le sue braccia al cielo infinito non deturpato dall’ombra di Nessun Dio».

Orco nel bosco di Bomarzo

Mi ritrovo nella stessa casa e nella stessa stanza nelle quali vivo già da quasi due anni, da quando la pandemia ha avuto inizio. Mi ritrovo costretto a vedermi divorare dal tempo, come il legno dei mobili che mi circondano. Timidi peli bianchi cominciano a farsi strada su tutto il mio busto. Guardo la mia pancia irsuta fare su e giù lentamente come qualcosa che non ho mai visto prima, una bestia aliena che studio da lontano, nascosto nell’intricata vegetazione cannibale che invade ogni mio pensiero. La puzza di fumo penetra le mie narici e mi corrompe, corrompe anche il mio corpo nudo, avvolgendolo. Un altro corpo anonimo in una stanza empia. Il portacenere è un’orgia di sigari deformi e mutilati. Presto sarò come quella cenere, come  la polvere che si nasconde negli angoli, sui muri, sotto questo divano, sarò l’intera stanza, sarò ovunque. Mi ritrovo costretto a meditare sul senso della fine. Lo faccio ogni notte, ormai, ogni notte brucio. Vado a caccia della luce, una luce qualsiasi, come una falena impazzita, prima che il buio del sonno o una fiamma affamata mi rapiscano nuovamente per riportarmi ancora una volta qui, esattamente in questo stesso corpo, in questa stessa stanza. L’isolamento prolungato ha esteso a questa stanza i margini del mio corpo. Anche quando esco da qui, continuo ad essere soltanto in questa carne ed in questa stanza, o nei libri che leggo. Accumulo libri su libri, li consumo come la merce che in fondo essi sono, loro consumano me, costruiscono precarie realtà al posto mio, realtà che abito solo io, per un paio d’ore, sempre da solo. Sono un consumatore. Non so perché mi trovo qui. Non so cosa voglio, so soltanto cosa gli altri vogliono da me e per me. Là fuori gli organismi più primitivi continuano la loro esistenza, incuranti, divorandosi l’un l’altro. Apro di nuovo il libro. Leggo. «Io non esisto singolarmente: sono composto da milioni di creature viventi che si mangiano fra loro, si decompongono e tornano a mangiarsi fra di loro». Là sopra il cielo è una cappa di afa infernale che minaccia il respiro, appollaiata come un avvoltoio che osserva il suo pasto, è la cupola di una cattedrale in rovina, potrebbe crollare da un momento all’altro.  L’oscurità è ancora  lì, infinita, muta come sempre, da miliardi di anni, non ha mai risposto ad alcuna domanda, né a quelle più  antiche, né alle mie. Come una bocca spalancata su tutti gli emisferi, la bocca dell’Orco di Bomarzo, la bocca di Francis Bacon, il Grande Annientatore mi risucchia nel suo abisso di miliardi di watt, dove intere galassie di chitarre elettriche intonano la sinfonia del vuoto. Le stelle vorticano su se stesse come dervisci all’apice della visione. Visione che a me non sarà concessa, neanche questa volta. Quod est superius, est sicut quod est inferius. Qui sotto questo pavimento un tempo ci fu il mare, poi un bosco, ma nel profondo animali e vegetali continuano a riprodursi, incessantemente, crescono come l’umidità e la muffa sulle pareti, aspettando il momento in cui non ci sarà più la casa, che è effimera, come il mio corpo. Qual è il significato della mia presenza? Cosa ho di diverso dalle formiche che escono dalle loro tane per circondare le briciole che ho lasciato? Anch’io non sarò che briciole. La terra sotto questa casa non è  mai ferma, qui sotto si trovano gallerie, grotte, si muovono gas, fiumi, il magma, l’intera placca continentale può emettere un debole peto ed io non posso prevederlo, lo sentirei tuttavia, scosso e buttato giù come una pedina di poco conto sulla scacchiera. La terra prima o poi mi inghiottirà, o mi sputerà altrove.  Posso sentire i cani abbaiare, i loro ululati riecheggiano per tutta la contrada, sono litanie e profezie di epoche lontane, come quelle della civetta, segnali monotoni di un mondo che presto o tardi non vedrò più. I mormorii dei veicoli nelle strade si confondono con quelli del vento che accarezza le palme. Suoni, lingue millenarie che attestano il ritorno, la permanenza  e la potenza di un universo indifferente, ostinato e ostile, disinteressato alla presenza del mio corpo, eppur partecipe della mia nascita e della mia lenta rovina, per accompagnarmi fino alla morte. Quando sparirò, non cambierà nulla. Ma c’è ancora qualche possibilità. «L’insieme delle esperienze della mia vita fino al momento della morte e le prove accumulate dei miei pensieri e della mia consapevolezza sopravvivranno sotto forma di un altro linguaggio nei corpi del mondo vivente che mi consuma». Esistono altri corpi là fuori, corpi anonimi rinchiusi come me in stanze empie. Anche loro sono svegli, stanno pensando, scrivendo. Sanno che fuori dalle loro stanze sono esposti alla furia degli elementi impazziti, al deserto che continua a crescere ed avanzare su ogni oasi rimasta, alle imprevedibili mutazioni virali della loro carne da macello, separata da tutto, da loro stessi, carne da sorvegliare, da marchiare con la sottile lama rovente del pensiero. Ma non è la ragione a muoverli.   Chissà cos’è che li spinge a muoversi ancora. Sono solo delle macchine? Sono solo una macchina? La macchina mi salverà? Possiamo ancora esser salvati? è davvero giunta la fine? Quanto ci rimane ancora? Il cellulare ha la batteria scarica, ma emette dei deboli stregoneschi brontolii. Qualcuno mi chiama, mi scrive, qualche notifica sui socials, qualche notizia dall’esterno, che è poi l’interno, narrazioni interne ed esterne che si scontrano a vicenda, rubate e racchiuse in un talismano di rame, ferro, cobalto, un vero gioiello alchemico, luminoso e misterioso. In girum imus nocte et consumimur igni. Questa formula magica mi ossessiona da notti, me la ripeto in testa all’infinito, ma non ho trovato ancora la Pietra Filosofale. Sono solo, soltanto io, la notte e il fuoco. Ascolto di nuovo gli Swans, mi aiutano a dormire, mi accompagnano nell’oblìo, che è l’unica cosa che cerco adesso. Ho pensato di scrivere questa recensione, se così si può chiamare, perché volevo invitarti a leggere questo libro, ma con un avvertimento: armati dello stesso coraggio del marinaio Marlow nelle profondità della giungla africana, non distogliere lo sguardo dall’orrore, accoglilo, ti è vicino, ti è amico. Oppure, se il mio consiglio non ti rassicura, segui quello di Bataille:

«Se hai paura di tutto, leggi questo libro, ma prima ascoltami: se ridi, è perché hai paura. Un libro, ti sembra, è cosa inerte. Può darsi. E tuttavia se, come accade, tu non sai leggere? Dovresti temere…? Sei solo? Hai freddo? Sai fino a che punto l’uomo è “te stesso”? imbecille? e nudo?» 

La violenza di genere in e oltre Amore, Rabbia e Follia

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di Benedetta Faedi

Marie Vieux Chauvet, scrittrice haitiana, scriveva a Simone de Beauvoir il 16 Aprile 1967 durante il suo esilio a New York: 

Madame,
Dalle informazioni che sono riuscita ad ottenere, la si può raggiungere scrivendo direttamente a Gallimard. Questa lettera – l’aiuto che cerco da lei – inizialmente la sorprenderà. Ma avendo letto i suoi libri, so che dopo questa prima reazione, la curiosità la obbligherà ad aprire i miei manoscritti e leggerli… 

L’anno successivo, mentre il fervore rivoluzionario dilagava per le strade di Parigi, Martin Luther King Jr. e Robert F. Kennedy venivano assassinati, e le fiamme bruciavano le foreste del Vietnam, la trilogia di Marie Vieux Chauvet, Amour, Colère et Folie (Amore, Rabbia e Follia), destinata a diventare la sua opera più famosa, fu pubblicata da Les Editions Gallimard grazie all’intercessione della nota filosofa e scrittrice francese. Il romanzo aveva provocato l’ira di Francois Duvalier e delle sue milizie Tonton Macoutes che regnavano con terrore su Haiti dalla fine degli anni ‘50.  

Figlia di Constant Vieux, senatore e ambasciatore Haitiano, e di madre ebrea originaria delle isole Vergini, Marie Vieux Chauvet esordì nel 1947 con l’opera teatrale La Légende des Fleurs, pubblicata sotto lo pseudonimo di Colibri. Il suo primo romanzo Fille d’Haïti del 1954 dette inizio al suo impegno politico per il cambiamento sociale, che si sviluppò ulteriormente in La Danse sur le Volcan del 1957, ambientato durante il periodo rivoluzionario Haitiano, e in Fonds des Nègres del 1960 che racconta le disperate condizioni degli abitanti delle campagne e il loro asservimento al potere politico. Influenzata da altri scrittori Haitiani, come Seymour Pradel e Jacques Stephen Alexis, Marie Vieux Chauvet fu una fervente sostenitrice dei diritti delle donne, dei più i poveri e i più fragili, deplorando tutte le forme di disuguaglianza e gli abusi perpetrati contro di loro nella società Haitiana e invocando cambiamenti concreti. Le sue opere esplorano i temi cardine della corruzione, della cultura voodoo, della dolorosa eredità del colonialismo, delle pratiche di schiavitù, della povertà diffusa e della violenza sessuale contro le donne. 

All’inizio degli anni ’60, Marie Vieux Chauvet cominciò a ricevere regolarmente scrittori e intellettuali contemporanei nella sua casa di Bourdon a Port-au-Prince, diventando una figura primaria sulla scena letteraria Haitiana. Poco dopo, tuttavia, la crescente repressione del regime di Francois Duvalier, che acquisì ulteriore potere nel 1964 quando l’Assemblea Nazionale Haitiana gli conferì l’incarico di presidente a vita, precluse qualsiasi dissenso libertario e opposizione democratica. Costretta a sospendere i suoi salotti letterari, Marie Vieux Chauvet denunciò la corruzione e gli abusi commessi da Tonton Macoutes contro la popolazione e, in particolare, contro le donne in Amour, Colère et Folie. Una delle protagoniste del romanzo protesta contro la società patriarcale e il sessismo: “Secondo padre Paul, l’istruzione mi ha rovinato la vita. La mia intelligenza sonnecchiava e l’ho risvegliata, ecco la verità. Per questo motivo ho deciso di tenere un diario. Ho scoperto in me doti insospettate. Credo di saper scrivere. Credo di saper pensare. Sono diventata arrogante. Ho preso coscienza di me”. Parimenti alla sua eroina, Marie Vieux Chauvet non si arrese all’oppressione del potere dispotico e, malgrado il timore di rappresaglie, decise di inviare il suo manoscritto a Simone de Beauvoir in Francia per pubblicarlo. 

La prima volta che lessi Amour, Colère et Folie ero in volo verso Port-au-Prince per fare ricerca ai fini del mio dottorato. Mio padre me ne aveva regalato una vecchia copia in lingua originale prima della partenza. Era l’inizio dell’estate del 2007, anno in cui apparve la prima traduzione italiana della trilogia. Durante il mio soggiorno ad Haiti, che durò più di un anno, investigai l’incidenza della violenza contro le donne e le bambine. Il contesto attuale era sicuramente molto diverso da quello vissuto da Marie Vieux Chauvet durante il regime di Duvalier, ma la diffusa violenza di genere, la discriminazione e la stigmatizzazione che donne e bambine ancora subivano richiamava le vicende delle sue eroine. Una sera, condivisi tali similitudini con il mio coinquilino. Lui ricollegò che Chauvet era anche il cognome del proprietario di una agenzia di viaggi nel centro di Port-au-Prince. La mattina seguente, mi presentai in agenzia e scoprii, con mio grande stupore, che la giovane donna dietro il banco, che mi aveva aiutato a prenotare i voli in passato, era la nipote di Marie Vieux Chauvet. Le raccontai della mia ricerca e la convinsi ad organizzare un incontro tra me e suo padre. 

Una domenica mattina tempestata da un acquazzone estivo arrivai alla residenza Chauvet, una dimora signorile in stile coloniale. Fui accolta nel soggiorno grande e luminoso, con i dipinti ingenui e colorati alle pareti e le finestre aperte sulla pioggia battente e il giardino tropicale. Pierre Chauvet, figlio di Marie Vieux Chauvet e di omonimo padre, che era stato a sua volta un agente di viaggio, mi strinse la mano con slancio. Interrotto a tratti dal rumore di porte sbattute dal vento dietro le sue spalle, mi raccontò che la pubblicazione di Amour, Colère et Folie nel 1968 scatenò la rabbia di Francois Duvalier. Temendo ritorsioni, la famiglia Chauvet decise di acquistare tutte le copie del libro in circolazione e di contattare Gallimard per interromperne la distribuzione. Dopo la criminalizzazione della trilogia e il suo ritiro dal mercato, Marie Vieux Chauvet fu costretta a lasciare Haiti sotto le minacce dei Tonton Macoutes. Fuggì in esilio negli Stati Uniti, divorziò da Pierre Chauvet e si risposò con l’americano Ted Proudfoot. Morì a New York il 19 giugno 1973, solo due anni dopo la morte di Duvalier. Pierre Chauvet ricordò quanto fosse stato difficile per la sua famiglia vivere sotto le costanti minacce del regime e quanto fosse stato doloroso per lui crescere senza sua madre. Percepii un velo di rimprovero per il fatto che Marie Vieux Chauvet scelse di privilegiare il suo impegno politico e sociale attraverso i suoi libri rispetto alla sua famiglia. 

D’altro canto sappiamo, attraverso altre testimonianze e ricostruzioni storiche, che l’espulsione da Haiti che seguì la pubblicazione e la soppressione di Amour, Colère et Folie rappresentò per Marie Vieux Chauvet, scrittrice affermata dall’inizio degli anni 50’, un’espulsione profonda sia a livello personale che professionale. Nella sua corrispondenza con Simone de Beauvoir, infatti, rivela:  

Come scrittrice, mi confronto con enormi difficoltà: perseguitati, terrorizzati da un orribile regime dittatoriale, ci troviamo costretti a ricorrere a stratagemmi per gridare la verità! Sono 10 anni che aspettiamo, che siamo soffocati. Sono 10 anni che gli scrittori e i poeti Haitiani sono messi a tacere.  

Sappiamo anche che non fu il regime di Duvalier a censurare la trilogia e reprimerne la pubblicazione: la pressione per sospenderne la distribuzione venne dalla famiglia dell’autrice. Pochi mesi prima della pubblicazione anticipata del romanzo due membri della famiglia Chauvet scomparvero. Considerato il contesto violento e pericoloso per la sua famiglia, Marie Vieux Chauvet stessa acconsentì a interrompere la vendita della sua opera e, in pratica, alla sua censura per diversi decenni. Nel 1970, scrisse, infatti, a Simone de Beauvoir: 

Credo che la perdita della mia casa, l’esilio, la separazione da mio marito causati dal mio ultimo libro abbiano distrutto una certa spontaneità dentro di me. Il sacro fuoco è spento, almeno per ora. 

Malgrado i costi personali e professionali sopportati dall’autrice e dalla sua famiglia, quel fuoco sacro si è rivelato necessario non solo per testimoniare e ricordare le violenze e gli abusi di quel periodo storico. L’opera di Marie Vieux Chauvet e il suo messaggio sociale e politico, infatti, oltrepassano le vicende e il contesto Haitiano. La violenza di genere denunciata e raccontata in particolare nella sua trilogia rimane di incredibile attualità ovunque nel mondo. Le Nazioni Unite stimano che globalmente 1 donna su 3 è vittima di violenza fisica o sessuale; e che annualmente 243 milioni di bambine e donne dai 15 ai 49 anni subiscono violenza fisica e/o sessuale nel contesto domestico. La pandemia di COVID-19 ha intensificato ulteriormente questa incidenza. La drammaticità di tale diffusione rivela che purtroppo la violenza di genere rimane un problema senza epoca e confini.  

Il valore dell’opera di Marie Vieux Chauvet sta anche nell’avere esplicitato la dimensione politica della violenza contro le donne: utilizzata come mezzo di oppressione della popolazione e dell’opposizione in un regime totalitario come quello di Duvalier, ma anche come fonte di co-responsabilità da parte degli attuali governi democratici. Ai sensi del diritto internazionale, infatti, gli Stati hanno un obbligo positivo di salvaguardare i diritti delle donne e di proteggerle da qualsiasi forma da violenza. In altre parole, esiste una co-responsabilità dei governi in caso di omissione o mancanza di adeguata investigazione, prosecuzione, e attribuzione della pena nei confronti dei colpevoli. Malgrado la violenza di genere sia legalmente riconosciuta come violazione dei diritti delle donne, la sua dilagante incidenza suggerisce che narrazioni personali più o meno romanzate, come quelle raccontate in Amour, Colère et Folie, siano sempre più necessarie per accrescerne la consapevolezza e combattere la stigmatizzazione delle vittime. 

Qualche tempo dopo il mio incontro con il figlio di Marie Vieux Chauvet, ero al volante, bloccata nel traffico, durante l’ora più calda della giornata. Un senzatetto a torso nudo, cotto dal sole, camminava sul ciglio della strada, portando sulle spalle un sacco traboccante di cose legato tutt’intorno da una corda. Quando mi passò accanto, mi affacciai al finestrino per porgergli una maglietta che avevo sul sedile posteriore. “Madame, apportez-moi plutôt un bon livre demain (Madame, portatemi piuttosto un buon libro domani)”, rifiutò cortesemente. Il giorno dopo gli regalai la mia copia di Amour, Colère et Folie. “Merci Madame”, sorrise a denti radi, continuando la discesa con la sua casa sul dorso.

I disertori di Magliani

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Confesso che quello che adoro più di tutto negli scritti di Magliani sono quelle sue frasi veloci e lapidarie di bellezza che spuntano qua e là. Sono sciabolate che mi mozzano il fiato,  inaspettate e piene di verità, spesso anche troppo semplici, o all’opposto non perfettamente trasparenti, come si deve a ciò che ci abbaglia, scacciando il senso pedissequo in secondo piano. Si ha l’impressione che gli vengano fuori da sole, come dei rutti, senza traccia di fatica o artifici, che anche nel migliore dei casi lasciano la loro impronta. Amo la scrittura di altri autori italiani contemporanei, ma raramente ricevo da loro simili scrollate. Devo tornare alle pagine di Parise, o di Pasolini (spesso anche nei saggi), per trovare questa potenza innata e impudicamente consapevole di sé, quasi sfacciata, offensiva, e nello stesso tempo innocente e pura. Devo ammettere che mi aggiro nelle sue pagine come in bosco si cercano i funghi, trepidante, provando un’emozione anche fisica quando senza preavviso inciampo in una gemma. Gli sono riconoscente per questo suo regalo, che tra il resto mi fa rendere conto a che punto amo la lingua che in genere inghiotto senza pensarci, di che piaceri può darmi con i suoi poteri nascosti. E che mi insegna, mi rende più esigente nei confronti di quello che scrivo io.
E anche con questo suo romanzo Il cannocchiale del tenente Dumont (L’Orma, 2021) ho avuto un ottimo bottino. Il telo non ricopre interamente la finestrella, una fessura di tramonto incide pietra e calce. O anche, alla pagina dopo: Il cielo, quando passano nelle vicinanze le rondini, sembra cigolare, e sale dal vicolo un vociare di donne e bambini. O anche: Quando tra le nuvole si rifà chiaro è tardi per distinguere qualcosa e il crepuscolo crolla tra costa e mare. O: Appaiono pietraie saldate al cielo, fin su a mezza costa, dove si alzano cinture di muraglie, resti di torri di avvistamento. O: I rumori a una cert’ora si fanno gemiti, una specie di magone, il rospo della notte non aspettava altro che passassi tu per inghiottire la valle. O: La valle si è spenta nella polvere e non ha piovuto. Il caldo nell’aria apre le pigne, gli scogli lichenosi e l’erba mutilata dallo sfalcio trattengono un’incandescenza celeste. O: Un richiamo di uccelli, poi scende la sera. O: La valle si scuoia come una biscia. Ma sono solo esempi un po’ a caso che cito per dare un’idea, e certo estratti dal ritmo vibrante di tensione trattenuta del testo, perdono turgidità e freschezza, come un fungo tristemente costretto sul bancone di un mercato, senza la vita che aveva nel bosco, dove aveva casa.
Veniamo alle cose serie. Con i romanzi di Magliani, e questo non fa eccezione, vivo sempre un disagio, perché sono molto preso, o meglio sommosso negli organi interni, ma non capisco bene da cosa. Mi ritrovo sempre a domandarmelo, e trovo delle risposte che non mi soddisfano. Anche qui la vicenda è nitida – tre disertori dell’esercito napoleonico scappano a piedi verso la Liguria dopo la battaglia di Marengo – ma non succede niente di eclatante. O quando succede noi non lo vediamo, lo intuiamo dopo. E anzi viene ripetutamente detto in modo esplicito, che non succede nulla: Il giorno è attesa …. C’è tempo, solo quello… Non succede mai nulla (varie volte)…. Non si dicono nulla (varie volte) … Da quando sono giunti dalle parti di Porto Maurizio non è successo più nulla, e non è  avvenuto il minimo avvicinamento alla meta.
I tre ex-soldati si muovono di notte e riposano di giorno, tra i muretti e i pianelli con i quali ci ha familiarizzato con la sua opera l’autore, e anzi guarda caso finiscono per arrivare proprio in Val Prino e a Dolcedo, che conosciamo ancor meglio (prima di leggere Magliani non sapevamo nemmeno che esistessero), ma quello che  vediamo sono soprattutto le pause, i momenti vuoti. La fuga dei tre si fa sempre più dura, mano a mano che l’estate avanza e finisce, e loro mangiano solo erbe e bacche, quindi si presume che siano sempre più affamati e infreddoliti, e uno di loro è sempre più malato, ma non ci è detto cosa provano, non possiamo sapere cosa pensano, e se pensano, a parte qualche sprazzo qua e là, quasi dato per scontato, senza una continuità narrativa. Del resto di loro non sappiamo praticamente nulla, a parte qualche tratto fisico (piccolo, scuro,un vero basco). Anche le parole che si dicono ci aiutano poco, sono poche e scontate, sottintendono quello che è più importante, se c’è (Che succede, basco? Cosa dovrebbe succedere?), anche se qui c’è qualche isolato affondo filosofico. Certo ci sono dei solidi cavi narrativi, che sembrano trainarci da qualche parte, una primordiale dipendenza dall’hashish, un progetto di imbarcarsi per una meta lontana, una epidemia, ma si sfilacciano, si rivelano non poi così importanti. Come non è essenziale che la vicenda sia narrata da una voce terza, anch’essa presa in una sua peripezia che perde via via consistenza.
Il problema è che i tre sono dei disertori, e quindi il loro posizionamento non è il nostro (Perché disertore non significa mica sbandato, uno sbanda e bene o male si risolve, ma disertare e qualcosa che non finisce, diventa una missione, una carriera), loro ragionano da disertori (Il disertore, senza saperlo, lavora fino alla fine a qualcosa di impossibile, non c’e in effetti un sogno, niente potrebbe avverarsi, se non che si sta già facendo il possibile per allungare il tempo, tutto lì), non hanno ambizioni (Lui detesta le ossessioni, di ogni tipo, vivrebbe sempre cosi, nello stordimento), non hanno emozioni, o non le lasciano trasparire, vanno avanti per inerzia (L’istinto, cos’altro governa un disertore?), per fedeltà a sé stessi (ma anche agli altri, inaspettatamente), non hanno attaccamenti geografici (E’ che da nessuna parte un disertore sarà più un indigeno…), sembra quasi che non abbiano ricordi, anche se poi si vedrà che non è sempre vero. Non hanno nemmeno paura della morte, sembra: quello malato, il capitano acculturato, la prende come viene, il soldato la cerca volontariamente, il tenente l’accetta senza battere ciglio, quando gliela propongono (e invece per lui ci sarà un destino diverso). La diserzione è in realtà una condizione metafisica, apprendiamo (la tua diserzione è, e da quel momento in poi è sempre, non finirà mai, neanche con te).
Come in molti scritti di Magliani il personaggio principale, quello comunque più pregnante e profondo, e che appunto fa imballare la scrittura, lo si è visto dalle citazioni, è però il paesaggio, e non a caso il cannocchiale del titolo inquadra principalmente lui. Perché è lui che respira e parla, che detta legge, che decide, gli uomini si adattano alle sue forme e ai suoi respiri. Non si tratta di una natura incontaminata, sono anzi sempre valloni e versanti modellati dall’uomo, sempre coltivati o pascolati fino all’ultima zolla di terra, o insomma percorsi, anche quando appaiono vuoti. Sono scoscendimenti che dalle creste delle montagne in alto scivolano al mare giù in basso, e che pullulano di segni umani, e anzi chi li osserva viene a sua volta osservato (E’ come se te lo sentissi addosso che ti stanno tenendo d’occhio), anche quando non se ne rende conto, e più aderisce a quelle superfici vive, meglio lo capisce. Visti da lontano gli abitanti-contadini sono minuscole silhouette, come quegli sgorbietti colorati nei quadri del Guardi, visti da vicino sono poveracci distrutti dal lavoro, sporchi e laceri. In ogni caso uomini e oliveti e animali e uccelli sono legati, fanno un tutt’uno. Ai disertori, privati di tutto il resto, rimane questo legame con la terra e le pietre e i cespi d’erba (Per tutto il resto del giorno, le rocce, gli alberi, i prati tornano a rilasciare brusii di insetti, fin quando la terra non riassorbe ogni voce e si sente solo qualche rana). Lo vivono anzi in tutta la sua pienezza, senza gli schermi concettuali e pratici che abbiamo noi, quei filtri magici che ci danno l’illusione che le nostre ore e giornate abbiano un senso e una direzione, quelle droghe egotiche (sempre volte al futuro e al passato) che ci nascondono che siamo prima di tutto dei corpi alla deriva nello spazio che ci circonda, uno spazio abitato ma che vive anche e soprattutto di vita propria (C’era un odore di alga e capelvenere sotto gli olmi).  Loro guardano, sanno guardare (Guardare e un compito che non si esaurisce, trasforma le cose, come in un delirio, un picco di pietra scura diventa subito un guardiano gigante, e domina, divide il cielo, crolla e si rialza).
Mi colpisce sempre come le inattualità che Magliani ci mostra nelle sue narrazioni, che non sembrano avere molte risonanze con quello che viviamo, risultino tanto conturbanti, e insomma attuali. E forse proprio in questo romanzo c’è la risposta. Quasi tutti i suoi personaggi sono dei disertori, percorrono i paesaggi (anche urbani) con la loro precarietà e difetto di senso, sembrano sempre lì per caso, e nel contempo sono in inestricabile contatto con il loro intorno naturale-antropico (siamo nell’Antropocene), con il presente. La loro condizione evacua il troppo pieno di riflessioni e di sensazioni, e di riflessione sulle sensazioni, di parole, tante parole, di compulsive zavorre nevrotiche, ci fa apparire una dimensione dell’esistenza che abbiamo rimosso, per restare nel campo nevrotico. Anche noi siamo come loro, e nella loro situazione, anche se facciamo di tutto per nascondercelo, è questo che ci disturba. Il tempo che forse esiste solo da disertori, non è il pieno giorno o la piena notte, l’alba o il tramonto, ma qualcosa di pieno lo stesso, un tempo di cui non si parla mai, in qualche modo sconosciuto.

 

 

Pausa merda

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di Dario Meneghetti

È una settimana che non scrivo. Non posso. Sono stato rapito dalla merda. Circa sei giorni fa mi è venuta la brillante idea di cagarmi addosso quindici volte, così, è stata pura intuizione, poi, visto che mi son trovato bene, gli altri giorni ho deciso di replicare. Come ho fatto? Beh, ho seguito l’istinto prima di tutto, ho ascoltato le “Good vibrations”, sono stato “Tuned” come si dice adesso, in ascolto delle sensazioni positive, poi, al momento giusto, Tacc! mi son cagato addosso. In realtà è tutta questione di tempismo, di saper stare sul pezzo e approfittare di quei rari momenti di grazia un po’ alla Isacco Newton, solo che al posto della gravità si postula il secondo principio del pannolone stracolmo di Merdagora da Efeso. È il 9/10/2020, esattamente venticinque anni dopo quel servizio totalmente inventato su Igor Stravizi. È ottobre, lo so perché c’è la data in piccolo in basso a destra del computer e perché fa buio prima. Fuori c’è di nuovo il Covid che imperversa, tra terrapiattisti del virus coi complotti di sterminio di massa e le loro immancabili scie chimiche e politici perennemente inadeguati. Ma a me non cambia nulla, tanto non vado da nessuna parte, sto bene qui, a covare la mia merda al calduccio inchiodato al letto mentre scrivo poesie della e sulla merda, interrotto ogni tanto dai badanti premurosi ma insensibili al momento creativo, che non capiscono e vogliono a tutti i costi pulirmi. No! Rispondo deciso attraverso il sintetizzatore vocale del computer – we clean later – gracchia baritonale la voce di Vittorio, quello che vive dietro la tastiera oculare. Javed, il badante pakistano scatta sull’attenti divertito – Yes sir Dario – e rincula in cucina con tre inchini. Adesso gli faccio uno scherzo e imposto la voce di Claudia penso, ma non faccio in tempo che la seconda ondata mi travolge, sono ricolmo, la merda deborda, abbandonare la nave, ma non posso, la nave sono io e sto per affondare in un mare marrone. Ormai dignità, pudore, imbarazzo, vergogna, sono tutte prerogative umane che da tempo ho abbandonato, trascendo me stesso la maggior parte del tempo rifugiandomi nel mondo delle idee, l’immanenza non mi riguarda più. Non sono qui, tranne quando, costretto dal dolore o dal fastidio di dover interagire con l’esterno, mi tocca tornare alla realtà. Per il resto sono altrove, abito altri mondi da dove nessuno mi può sfrattare, nemmeno la morte. Se penso che Javed c’è venuto a piedi dal Pakistan per finire a pulire sto disastro merdizzato di relitto umano, provo più pena per lui che per me stesso. Ma lui non fa una piega, sembra non fargli schifo niente, è impermeabile all’orrore lui, perché c’è venuto a piedi dal Pakistan, e per uno così, la merda è solo un dettaglio. “Javed, call Jacob, it’s time to clean, sorry”, per fortuna parliamo entrambi un discreto inglese, così almeno comunichiamo, e sempre grazie al cielo e alla mia pensione sono in due e collaborano benché provenienti da paesi reciprocamente ostili, perché da quando mi hanno operato per mettermi la RIG (Radiologically Inserted Gastromy Feeding Tube) tutto si è complicato e certe manovre meglio farle in due. Javed e Jacob, strana coincidenza, mi dico mentre vengo rotolato sul fianco per essere pulito – singolare davvero l’allitterazione della Ja, come davvero bizzarro è il cluster culturale di tre persone così diverse, io veneziano ateo, Jacob indiano del Kerala cristiano, e Javed pakistano pashtun mussulmano, tre destini aggregati da una malattia orribile in una piccola città del nordest. Finita la giostra, il casino è recuperare la posizione corretta da seduto nel letto ortopedico, un’infinità di piccoli aggiustamenti affinati pazientemente nell’arco di mesi, tanto che ora le frasi suggerite dalla tastiera oculare sono perlopiù sho l che sta per shoulder left, o lpdl che sta per little pillow down left, o turnedr che invece sta per turn head right, e cose così, che mi permettono di ottimizzare il laborioso recupero ad una quindicina di minuti, mentre le prime volte era una punizione da oltre un’ora. Tutte questioni noiosissime ma necessarie, d’altronde con me è peggio di cercar di capire un dromedario paralizzato, anzi almeno lui qualche verso lo farebbe, mentre io no, io mi devo affidare agli occhi confidando nell’empatia degli altri, o nei cartelli che ho fatto disseminare per la stanza per farmi capire guardandoli. Recuperata la posizione – Mask down left, garters down – un’ultima aggiustatina alla maschera (12/25 min.) per respirare (NIV) poi, in fretta mi dimentico di coabitare con l’ammasso macilento sessanta per cento ossa e il resto frattaglie immobili del mio corpo, e mi rituffo nella realtà parallela dei pixel, dove in qualche maniera posso esistere anch’io come gli altri ora che, più che visto, preferisco essere immaginato. Salto sulla chat dove con la conventicola di omoaffettivi dei miei amici abbiamo formato un gruppo, oggi la chat si chiama Capitani Contagiosi, in onore al periodo e al romanzo, lì è il mio rifugio senza problemi, lì continuiamo ad essere Imbranauti, creando e sparando mucchi di cazzate come e meglio di trent’anni fa. Poi, per sdrammatizzare il momento ed esorcizzare il letamaio, posto questa su Facebook.

La merda.

 

Ci vuole impegno,

concentrazione,

la strada è in salita,

per mollare un merdone,

poi è tutta discesa

c’è lo stronzo a sorpresa

un`altra questione,

cagarsi addosso

è per professione

lo devo dire, è un’ottima idea

riempirsi le braghe

con tre chili di diarrea,

personalmente, mi son trovato bene

son stato soddisfatto,

di aver cagato un rene

d’altronde come ieri

lo spettacolo replica,

con la merda tra i pensieri.

L’ode alla merda riscuote un discreto successo soprattutto tra gli intellettuali più raffinati. Visualizzazioni 69854712, like postati 85478547, commenti uno, ma pregnante: “Bea merda!”.

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NOTA. Pausa merda è stata pubblicata sul primo numero della rivista on line “Licheni” (http://www.harrr.org/licheni/). Licheni è una rivista dodicennale. Il prossimo numero uscirà il 15 luglio 2033.

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DARIO MENEGHETTI. Nato a San Donà di Piave nel 1970, ha cantato come tenore nel coro della Fenice di Venezia. Dai primi anni Novanta ha fatto parte della redazione della fanzine “Limbranauta”. Ha pubblicato due raccolte di poesia, Poesie Slatenti (Zona, 2019) e Anima parvula (dei Merangoli, 2020) e un’antologia delle sue poesie è stata curata da Marco Berisso e Guido Caserza (Poesie scelte, Zona, 2021). Suoi scritti prevalentemente in prosa si trovano nei volumi collettivi Limbranauta è stato qui (Youcanprint, 2018) e Limbranauta. Il lato D (Youcanprint, 2020). Affetto da sclerosi laterale amiotrofica, scrive con l’ausilio di una videotastiera comandata dallo sguardo.

Overbooking: Omar Viel

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Nota

di

Massimo Rizzante

“Il romanzo breve di Omar Viel è un’eccezione nel panorama italiano. Anzi, non sembra proprio un romanzo italiano. Non ci sono morti ammazzati, né commissari, né il tipico colore locale a tinte forti delle nostre faide, né quello a tinte pastello delle nostre genealogie famigliari tanto Kitsch quanto amate dall’import-export editoriale. Il cosmopolitismo non è un valore, ma lo diventa se, in un certo momento storico, il provincialismo letterario di una nazione si vanta di avere l’esclusiva su quella che di solito viene definita “la rappresentazione della realtà”. Come se la realtà fosse l’oggetto esclusivo del romanzo, e non invece l’esistenza dei singoli personaggi che di quella realtà cercano di sperimentare le molteplici possibilità.“


I poeti appartati: Francesca Canobbio

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Muta per amore

 

 

 

Gianni De Martino: «noi ci incamminiamo attraverso il mondo»

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Ospito qui un atlante di frammenti tratti dall’ultimo libro di Gianni De Martino, Addio a Mogador.

***

Marrakech, la città rossa, era percorsa da una folla di giovani viaggiatori di tutte le nazioni, o forse di nessuna. Erano nati nella prima metà del Novecento, tra gli anni quaranta e cinquanta, all’ombra di Hiroshima, dello sterminio degli Ebrei in Europa e della paura della guerra fredda e della Bomba.

Inalberavano sacchi a pelo, pantaloni a zampa d’elefante e lunghe gonne stampate a fiori enormi, tremendi. Dicevano di essere la generazione che finalmente avrebbe messo fine alla guerra, all’ingiustizia e alla miseria. Erano animati da un costante interesse per sogni e visioni, e un certo timore per il sesso. Da reinventare, dicevano, esplorandolo, non senza momenti di disperazione e angoscia, in tutte le sue possibilità.

Eccoci in mezzo una piccola banda più o meno segreta di giovani mutanti. Proprio come diceva l’amico hippie Steven Arnold: «Apparteniamo a uno speciale ordine segreto di creature angeliche e la nostra tribù è una compagnia magica, circondata da un velo. Siamo animali delicati, creature di bellezza ed eleganza, facilmente feribili, quindi dobbiamo unire le forze per ricordarci a vicenda, per stimolare, creare insieme perché nella creazione siamo la luce più felice e più alta del mondo. Prendiamo i doni che ci vengono dati e stupiamo il mondo con la mera-viglia della nostra creatività. È il nostro ruolo».

Pervasa da un desiderio dissidente di accomunamento e in opposizione all’ordine morale esistente, la nostra banda di giovani viaggiatori vive nell’underground, secondo un codice primordiale basato sull’inviolabilità dell’amicizia.

Era quando nei nostri corpi si covava l’embrione dell’Angelo. Una creatura instabile, ma davvero onnilaterale e gentile, fluida, intrepida e virile, perché avrebbe avuto il coraggio di essere tenera e d’ignorare sia gli insiemi e le leggi che le strutture fisse e contratte. Ecco l’Uomo del Futuro, che qualcuno poi dirà di aver pisciato fuori di sé, mentre l’acido resterà nel sale delle nostre ossa, per sempre.

Era quando eravamo tutti belli come te, Äissa, fieri e dritti come lance. Pieni di fiducia e di entusiasmo, credevamo nell’ibou, nella civetta, nell’erba e nei funghi magici. Pensavamo che le utopie si realizzassero, prendevamo per realtà la scintilla dei nostri desideri e superavamo per magia la barriera delle razze, dei sessi, delle lingue e delle classi.

Niente tetti intimi o il calore di un focolare. Non avevamo una garçonnière, non ancora, come quella di Yassine. Né una vera casa solida e sicura come quella di tutti gli altri. Eravamo viaggiatori, tra arrivi e partenze da cui erano esclusi pianti e rimorsi. Volevamo sentirci innocenti. “C’est l’espansion des choses infinies”.

Niente muri, se non piuttosto un cerchio di tenebre dove le nostre anime pestavano i piedi per andare PIÙ OLTRO di tutto quello che ha la disgrazia di formare attorno a noi spazi ristretti. PIÙ OLTRO, così aveva scritto qualcuno con una bomboletta spray dallo spruzzo fosforescente su un pulmino psichedelico posteggiato davanti all’Hotel Nirvana.

Era lì che Äissa e io avevamo preso alloggio. In un riad marocchino di derb Sidi Boulukate, pieno di cimici e scarafaggi, che ai tempi del Protettorato aveva ospitato con maggior decoro ufficiali francesi. Ora era abitato dai figli dei fiori. E gli Aissaoua, gli incantatori di serpenti di piazza Jamaa el Fna, avevano una camera dove depositavano i loro strumenti musicali e ceste di vimini con dentro vipere sdentate e piccoli cobra.

 

***

 

Zina, la moglie del poeta psichedelico Georges Andrews – che in quei giorni era a Tangeri, in carcere – aveva un viso dalla pelle di porcellana, liscia e luminosa.

Era la più grande del gruppo, doveva avere sui ventinove-trent’anni, e quindi era considerata già vecchia e naviga-ta. Usava spesso l’espressione “flusso di coscienza”, affermava che la passione è il nostro motore, aveva scritto diversi libri ed era la teorica del gruppo e nostro mentore.

Quando ci si ritrovava in cortile distesi sui sacchi a pelo, ci diceva che non si tratta più di reprimere le passioni, ri-durle per renderle inoffensive, ma intensificarle in modo da farle servire da legame sociale. Insomma «Fate l’amore, non la guerra!». Uno slogan che bisogna continuamente riattivare e vivere in prima persona, per non farlo decadere nel ridicolo.

Parlare d’amore, nell’era dello scatenamento della vio-lenza universale, è una fraseologia, un voto pio, se non vi si vede, attraverso le parole, profilarsi l’orizzonte aurorale di un’altra società, di una nuova concezione dell’esercizio passionale da esplorare in tutte le sue virtualità e la sua molteplicità. Non un sentimento legato al dominio maschile della donna, all’individuo e al suo piccolo io empirico, ma portare il proprio corpo oltre i limiti dell’individualismo e della morale comune per ricollegarlo orgiasticamente e in “stato di possessione” all’universo, perché la nostra natura è cosmica e gli hippie sono cittadini del Cosmo.

Diceva anche – con accenni a Fourier, a quell’immoralista di Nietzsche, a René Schèrer e a Pasolini – che c’è una sessualità degli astri, che si ripercuote su quella degli umani, e che la magia dell’universo da ogni parte ci compenetra, solo che è limitata dai nostri cervellini.

 

***

 

Siamo usciti di casa poco prima l’alba e camminiamo a testa alta nell’aurora dei vent’anni, animati da un sentimento di novità e di freschezza, di strana innocenza e di conquista.

Monkrim si è messo il suo berretto sulle ventitré, un cappellino di quelli d’importazione, targato Hong Kong come quello che portava al caffè moro; e Äissa porta una gellaba e un sacco leggero in punta di spalla, e dondola le braccia.

Fuori delle mura della kasba

camminiamo nel bosco e nel bled, la campagna;

chi vuole vada alla malora –

noi ci incamminiamo attraverso il mondo.

Il muezzin non ha ancora annunciato dall’alto del minareto la preghiera dell’aurora. Perché? Forse perché siamo noi l’aurora, dove per tanti passi falsi…

 

***

Sarebbe stupido da parte dell’autore cercare di convincere il lettore che Äissa sia realmente morto. Nato non da un grembo materno, ma dal ritratto di Juba II, la sua immagine è immortale, come lo è l’immagine della rosa, del giglio o del mandorlo che ogni primavera fiorisce sulle montagne.

 

Cassini

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Image by David Mark from Pixabay

di Filippo Polenchi

La sonda Cassini, per dieci anni, ha attraversato fasce di asteroidi, la radiazione di
sincrotrone di Giove, la notte galattica intorno a Metone, Pallene, Febe, Giopeto,
Titano, Encelado. Il suo occhio infante ha visto noi che la guardavamo mentre
scattava immagini dentro il folle ondeggiare degli anelli di Saturno, nella violenta
quiete dei dischi immani che, dalle fotografie, sembravano così tenui, così euclidei. Ha
verificato la teoria della relatività con più accuratezza di chiunque altro e quando si è
lanciata nell’atmosfera di Saturno, anziché bruciare, è atterrata nel silenzio ghiacciato
che già l’attendeva. Lì ha potuto conoscere il responsabile ancora senza nome degli
omicidi attribuiti a quello che è stato chiamato “il mostro” e che, per trent’anni, si
sono rincorsi nella provincia di Firenze.

Qua, invece, ci sono le piazzole di sosta aggredite dalla proliferazione vegetale delle
erbe infestanti; i sassi macchiati dai preservativi usati, dalle stratificazioni di siringhe
ipodermiche. Lo spavento dell’estate, l’esondazione delle anomalie termo-cromatiche.
Ci sono i tessuti strappati, l’accozzaglia di glifi non-interpretati, la segnaletica della
disgrazia, l’erosione isotopica della civiltà agreste, le emersioni dei relitti industriali,
abbandonati in foreste di acacie e altre piante aggressive che li perimetrano con i
corsivi delle loro spine. Ci sono i residui dei gas di scarico delle auto in sosta sotto
lune glaciali; la nozione dei corpi in attrito, la madreperla dei vetri, il frusciare degli
esseri minimi nella boscaglia. L’immenso crepitare delle luci a bassa frequenza; la
distesa errante delle braci stellari. Un tiglio scuote le sue fronde in uno spasmodico
sortilegio. Una ebbrezza clorofilliana accende la taranta delle foglie. Per tutto il resto
della piana non ci sono altri alberi così alti e rigogliosi, solo terra d’alopecia,
cespugliame osceno e pietre rossastre, ormai nere nella tenebra completa.

Al suono di Lolli e Rovelli

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di Gianni D’Elia

Pur essendo uno dei testimoni di questo libro Siamo noi a far ricca la terra, vorrei aggiungere come atto di stima che la lettura totale dell’opera colpisce per la struttura dinamica e la composizione di tutte le voci familiari ed amicali ed artistiche, che restituiscono la figura intera di Claudio Lolli come la parte per il tutto di una generazione e di un tempo lungo, che attraverso due ventenni ci ha portato dalla contestazione del 1977 al riflusso politico e alla resistenza sentimentale, passando dalla manipolazione del terrorismo al bonapartismo berlusconiano fino alla restaurazione attuale…

Se il partito della morte ha imposto il nuovo potere, ora si vede da questa lunga cantica dantesca come la prosa di Marco Rovelli ci riempia di nuovo il cuore e le orecchie di quelle tante voci ancora vive di quell’altro partito della gioia che fu cancellato, con la sua angoscia e la sua malinconia, o per dirla con Pasolini e col suo disamore anche verso di noi, con la nostra “disperata vitalità”…

Questa cantica del nostro Purgatorio, con nomi e cognomi (da Benni a Piersanti, da Guccini a Capodacqua a Bertoni e molti altri), attraverso un montaggio serrato di didascalie da sceneggiatura cinematografica e di campi sonori e diretti, ricrea una intensa scarica di effetti e di emozioni storiche ed esistenziali, e questo proprio per mezzo dell’arte della viva scrittura, che si nutre di tutti i discorsi diretti e fa parlare lo stesso Lolli, per mimesi dell’autore che ne veste il doppio, e risolve in un lunghissimo discorso libero indiretto il grande ritmo parlato di questa formidabile transbiografia della voce plurale e rivoluzionaria, che questa Italia malata di covidismo e di divismo vorrebbe da sempre dimenticare…

Un libro che sarebbe piaciuto tanto a Roversi, che amava il dissenso ardente di Campanella e dei nuovi trovatori come Lolli e Rovelli…

A questa radio del tempo e di un’epoca, che continua a mandare la sua voce musicale sconfitta ma mai battuta del tutto, nel segno e nel sogno leopardiano dell’infinito “suon di lei”, e che si rivolge ai giovani verdi di rabbia del presente, non si possono che dedicare dei versi a caldo, per chiudere la nostra piccola apologia socratica con l’omaggio a una fraterna ed invincibile Canzone

 

 Nuova ed efficacissima Commedia

 Di testimoni voci purgatoriali

 In cui riprende vita il sound d’intesa

 Del canto di rivolta agli anni bravi

 Nel gran romanzo dei mondi lolliani

 Che schiara il tempo in dolce fiamma tesa

 Facendo del diretto un indiretto

 Libero detto tra il detto e il non detto…

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Il differenziale

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Immagine di Bru-nO /Germany da Pixabay

di Giorgia Giuliano

Avevo passato così tanti mesi steso, che quando ho ripreso a camminare assomigliavo a un paio di forbici. Ogni mio passo faceva zac-zac come se avanzare volesse dire tagliare a caso un foglio di carta. Spennellavo l’asfalto con le spalle completamente flosce e ciondolavo in diagonale, perché tutto quello che potevo fare in diagonale era senza dubbio la mia specialità. In diagonale ero riuscito a prendermi Teresa. Ero sicuro che senza intermediari l’avrei convinta, ma non avevo considerato il fatto che questa strategia potesse presentarmi a Teresa come un tizio che avesse fretta. Infatti dopoun mese mi disse che voleva un figlio. Neanche sposarsi. Teresa voleva direttamente esagerare.

Il vino mi andò di traverso e glielo sputai in faccia come se avessi innaffiato un giglio. Teresa non si arrabbiò, ma dovevo succhiarle il viso fino a che non sarei stato ubriaco. Qualcuno si girò a guardarci: gli uomini si scambiavano gomitate, con gli occhi mi dicevano che ero fortunato. Le donne erano certe di voler espellere Teresa dal decoro femminile. Notai che le sue guance si erano fermate all’adolescenza, mentre collo e fronte assomigliavano a un fazzoletto spiegazzato che le era servito a dire addio a qualcuno. Non si era vista mai, sul volto di una donna, così tanta indecisione. Rughe sottili le si arrestavano sulle tempie come a volersi impedire di scendere più in basso: sembravano tante piccole spade infilzate nella roccia, suggestionato com’ero dalle vicende di Re Artù. Non ho saputo mai l’età, di Teresa. Ma senza questa informazione l’ho sposata lo stesso. Gliel’ho proposto un pomeriggio che piangeva sconsolata. Il matrimonio fu l’unica lacrima che riuscii a tamponarle.

Teresa figli non ne poteva avere. Il suo vuoto era quello di un parto sforzato, vedevo davanti ai miei occhi Teresa urlare senza mai partorire. Grida sterili da cui non sarebbe mai potuto uscire alcunché, neanche il fantasma di un piccolo angelo figlio, se non nostro, almeno del suo desiderio. Io ero fertile, tanto è vero che Teresa diceva che la madre, tra noi due, dovevo essere io. Io le presi la mano e le sedetti accanto come se fosse stesa su un letto di ospedale, estenuata senza aver ottenuto nulla.

«Teresa, dì la verità. T’hanno fatta sentire vecchia?»

«Dovevo comprarmi un orologio».

«Un orologio, Terè?»

«A quanto pare i figli vanno a ore. Così ho capito.»

«Sposami, Teresa. Che questa è una buona medicina.»

«Se non ci vuole il dottore allora sì, ti sposo.»

«Non ti porto più da nessun dottore, Teresa. Promesso.»

Il mio primo pensiero andò alla tristezza che viene dopo un matrimonio: si passa da una grande festa piena di persone a ritrovarsi in due da soli. Il sacramento è un cane che scodinzola dietro la porta e che quando si scoccia, scompare in qualche altra stanza. Io e Teresa ci eravamo sposati in un grosso casolare in mezzo al grano, io ero allergico e prima del feci uno starnuto aggrappandomi al suo velo. Lei sorrise al sacerdote quasi a confessargli che con il vino avevo fatto peggio, ma già lo sapevo che Teresa era una che se la intendeva indistintamente con tutti. In quel frangente avrebbe piazzato un tavolino tra me, lei e il prete e avrebbe preso a far salotto dando le spalle agli invitati. Si vedeva che durante il rito aveva voglia di chiacchierare. Il sacerdote liquidò la messa in quattro e quattr’otto con l’imbarazzo di chi non ne aveva mai celebrata una.

La mia famiglia compensava anche quella di Teresa a cui era rimasto soltanto un fratello sposato con figli. Dalla mia parte avevo tutto ciò che un orfano potesse scrivere in una letterina di Natale: genitori e nonni, zii e cugini, tre fratelli e rispettive fidanzate e mogli. Li avevo supplicati di rivolgere a Teresa tutte le attenzioni, di non essere prevenuti. Mia madre restò seduta al tavolo ad annacquare il vino. Aveva delle evidenti difficoltà a trattare una sua coetanea come una figlia, e per non darmi dispiaceri preferì sentirsi lei una di troppo al mio matrimonio. Trattenne l’imbarazzo a metà della gola, proprio sotto la carne appesa. Io, che sapevo che quello era il suo nascondiglio, le stuzzicai il collo con un legnetto poco appuntito. Mia madre mi sorrise piena di dolore e siccome non me lo chiese, glielo chiesi io. Dove hai sbagliato con me? Fu così che finalmente capì la difficoltà di quella domanda. Io erano anni che non sapevo risponderle. La lasciai da sola a scervellarsi. Le volevo un bene dell’anima. Quando i bambini del fratello di Teresa si misero a giocare nel grano, il nostro matrimonio annunciò il funerale. Teresa si bloccò. D’improvviso la vidi vecchia. Cercai disperatamente un bastone da darle perché lo affondasse nella terra. I piccoletti imbiondivano il grano con tutta la loro allegria. Districavano le spighe come pimpanti trebbiatrici in una mattina di straordinari. Ci accerchiammo tutti intorno a Teresa, lasciandole un piccolo spazio perché potesse proseguire. E lei si alzò il vestito alle caviglie come se stesse entrando nell’acqua alta. Lo zampillio dei grilli mi faceva pensare alle code dei delfini quando per ultime perforano il mare. Teresa ci dava le spalle, perciò non potei capire se avessimo pensato la stessa cosa. I suoi nipoti la accolsero nel grano, felici di aver attirato la nostra attenzione. Capirono quanto più potere avessero rispetto agli adulti. Convinsero Teresa ad acciuffarli e lei iniziò a rincorrerli con foga, come se quello fosse l’unico modo che le restasse per far figli. Corse con tutte le sue forze, fu come una madre paziente. Voleva dimostrare ai dottori che la maternità ce l’aveva nel sangue. Li aveva presi così in antipatia che se li vedeva ovunque, pure tra me e i nostri invitati. Per tutto il tempo corse risentita perché si sentiva le catene ai piedi, ma purtroppo i figli erano inafferrabili per Teresa che, non avendo niente a cui aggrapparsi, cadde di sbieco nel frumento e non si alzò più. Mia moglie morì di crepacuore. Sperai che almeno fosse morta di gioia per aver bastonato un po’ quei dottori, ma non me ne sono mai convinto.

Sono rimasto mesi steso a letto cercando di capire come potesse sentirsi Teresa a starsene sdraiata sotto un coperchio. Avevo scelto per lei una cassa di ciliegio, avevo pensato che potesse profumare. Mi sono mosso poco, ho pensato fosse l’unico modo per riprodurre i suoi spazi. Sono riuscito a adeguarmi, ma non a impedirmi di respirare. Mi è mancato il fiato soltanto una notte che ho sentito Teresa dirmi all’orecchio che per me era ancora presto e che invece a lei sarebbe successo. Disse che invece di perdere tutto quel tempo, avrei fatto meglio a portarle un fiore. Ho insistito un altro po’, ma poi le gambe mi si sono mosse da sole, sforbiciando senza tagliare veramente qualcosa.

Adesso che mi muovo meglio, sto facendo due calcoli perchè voglio capire quanti anni avesse Teresa. Ha lasciato per sempre la sua età in mezzo al grano e credo l’abbia fatto apposta perché io sono allergico e perciò non la posso trovare. Sento i suoi anni dispersi tra le spighe che si divertono e giocano e saltano perché sono liberi da tutto, da me e dal vecchio corpo di Teresa che a oggi si riposa ancora controvoglia. Fare i calcoli non mi riesce, ma a occhio e croce giuro di essere più piccolo di Teresa almeno tre volte. Comunque ho ottenuto un altro risultato perché alla fine, alla domanda di mia madre, mi sono risposto. Mia madre ha sbagliato quella volta in cui mi ha detto che non si chiede mai l’età alle signore.

Rabelais e il paradigma progressista

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di Andrea Inglese

I misteri del romanzo. Da Kundera a Rabelais, uscito per Mimesis nella collana diretta da Massimo Rizzante e per la cura di Simona Carretta, come già il titolo preannuncia è un saggio, non uno studio accademico, una monografia, o il frutto di una più o meno sistematica scienza della letteratura. Il suo autore, Lakis Proguidis, non è uno specialista del Rinascimento, né un francesista o un comparatista; è innanzitutto un amico del romanzo e dei romanzieri. La prova di questa fedele amicizia è L’atelier du roman, rivista trimestrale che dirige dal 1993 con intatto entusiasmo. L’esule greco Proguidis (già incarcerato durante il regime dei colonnelli per la sua militanza comunista) ha fatto tesoro della lezione dell’esule ceco Milan Kundera (espulso ripetutamente – lui – dal partito comunista) incontrato a Parigi all’inizio degli anni Ottanta, quando quest’ultimo teneva all’EHESS il seminario sul romanzo centro-europeo. L’impresa dell’Atelier du roman è quindi caratterizzata fin dall’inizio da una triplice diserzione – nei confronti delle identità nazionali, delle dottrine politiche e dei gerghi accademici. Questo è il presupposto che ha reso possibile negli anni il consolidamento di una comunità cosmopolita che utilizza il saggio e il dialogo come metodo privilegiato d’indagine sul romanzo. L’atelier non è ovviamente precluso agli studiosi universitari. Ad essere bandita è solo la postura spassionata e la pretesa di ridurre l’opera a un aggregato di concetti. Il romanzo è un’arte e come ogni arte è indissociabile da una peculiare esperienza estetica. L’atto della lettura di un concreto individuo, situato culturalmente e storicamente, è il terreno privilegiato di questa esperienza, e qualsiasi esplorazione abbia l’obbiettivo di addentrarsi negli enigmi dell’arte romanzesca, non può permettersi di abbandonarlo. Questo principio sancisce un’alleanza tra saggio e romanzo, tra discorso non sistematico, dialogico, e complessità romanzesca. E, come Proguidis scrive nel suo libro, si tratta di un’alleanza storica, nata da una sorta di reciproco “posizionamento”: “Penso […] che i Saggi di Montaigne siano inconcepibili senza l’esistenza dell’arte di Rabelais e che tra la forma saggistica e quella romanzesca esistano profonde affinità estetiche”. I misteri del romanzo vuole anche essere un’illustrazione esemplare di questa affinità. Si può partire da Kundera e giungere a Rabelais (passando per Gombrowicz e Papadiamantis) solo se il risultato della ricerca non neutralizza come irrilevante il percorso che l’ha prodotto. E questo non per qualche malinteso bisogno dell’autore di mettersi in scena assieme al suo oggetto di studio o di venerare l’infinito moto dell’interrogazione rispetto al prosaico definirsi di qualche risposta. La dimensione erratica della ricerca è inerente a una comprensione che si sviluppa soprattutto nella lettura dei romanzi e nel dialogo che le opere romanzesche instaurano spontaneamente tra di esse. In altri termini, nulla illumina meglio un romanzo che un altro romanzo, a patto di dimenticare gli angusti raggruppamenti delle letterature nazionali o delle periodizzazioni manualistiche.

Veniamo ora all’argomento specifico del libro di Proguidis. Il titolo italiano gioca su un doppio significato, che chiariremo subito. Ma il titolo francese è del tutto esplicito: Rabelais. Que le roman commence! I cinque libri di Gargantua e Pantagruele, pubblicati tra gli anni Trenta e Sessanta del XVI secolo, costituiscono per Proguidis l’opera inaugurale non di un semplice genere letterario “moderno”, ma di un inedito regime estetico, ossia di un modo collettivo e globale di rapportarsi al mondo e di situare l’esistenza umana all’interno di esso. Con Rabelais è la civiltà del romanzo che prende forma, rompendo con la civiltà della mimesis, che dalla Grecia antica in poi ha costituito la “grammatica elementare” delle forme artistiche in Europa. L’identificazione di questa discontinuità profonda implica però un lavoro genealogico, ossia quello che Bachtin ha chiamato “preistoria del romanzo”. Se Rabelais è stato davvero il primo romanziere, egli deve aver prodotto con la propria opera anche la fisionomia di un nuovo lettore e di una nuova esperienza di lettura, ma perché ciò fosse possibile doveva esistere un sostrato favorevole comune, una costellazione di forme germinali che attendevano una creativa riconfigurazione. È su questo punto che Proguidis si separa da Bachtin, affidando ai Misteri – gli spettacoli popolari e itineranti del Basso Medioevo nati in seno al dramma liturgico – il ruolo di fecondatori del nuovo paradigma estetico. I “misteri” del titolo, allora, non sono solo gli enigmi inerenti ai tratti distintivi e alle soglie storiche del romanzo, ma anche i Misteri medievali, nel significato originario di ministerium, “funzione”, “ufficio”, e in quello più tardo di “cerimonia”, ossia di aspetto materiale e scenico di una “funzione” sacra. Insomma, non vi è romanzo senza l’incarnazione cristiana e senza il suo processo di teatralizzazione. È su questo sfondo che la farsa, gioco di riempimento di elementi triviali nel corpo della rappresentazione sacra, trasmette al romanzo il suo fondamentale codice genetico: la concatenazione e la digressione. Proguidis lo chiama “binomio romanzesco”, ed esso definisce una relazione costitutiva “– ossia non fusionale, non armonica, e non dialettica – tra la necessità e il caso, tra l’imperativo della forma e l’imperativo del caos, tra il logos e l’irrazionale, tra la narrazione che è sempre mimetica e la digressione arbitraria”. Tocchiamo qui il nucleo dei Misteri del romanzo, che ci rivela pagine straordinarie sul rapporto che il romanzo intrattiene con i Tempi Moderni e con l’avvento dell’uomo progressista, ossessionato dal futuro e dalle “magnifiche sorti e progressive”. Il romanzo, a partire da Gargantua e Pantagruele, è coestensivo al carattere dell’uomo progressista, in quanto di esso fa il proprio terreno prediletto d’esplorazione, e nello stesso tempo costituisce una risposta, anzi un’alternativa alla sua volontà di controllo e ordinamento. “L’uomo progressista è sempre di passaggio, sempre chiuso in una stanza priva di finestre. (…) Il suo presente è un buco nero dove il tempo sparisce”. Il romanzo, allora, gli ricorda che “il presente è farcito di presente”. “Attraverso divagazioni, deviazioni, biforcazioni senza fine, irruzioni del caso, situazioni umane che si incastrano l’una nell’altra.”

Se Proguidis ha ragione, se il romanzo da Rabelais a oggi, è un commutatore temporale, in grado d’iniettare l’inesauribilità del presente dentro la vita perennemente in fuga dal presente dell’uomo progressista, allora difficilmente possiamo convincerci che il romanzo è morto. La sua vitalità non può essere dissociata da quella dell’uomo progressista, che nonostante l’addensamento di nuvoloni sempre più bui all’orizzonte, non vuole rinunciare in alcun modo alla sua forsennata marcia in avanti.

[Questo articolo è uscito il 06.06.2021 su “Alias”]

Cedere a “Yoga” di Carrère

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di Valerio Paolo Mosco

Ha una caratteristica Carrère che probabilmente gli viene dalla sua esperienza come sceneggiatore, quella di fissare in alcuni dettagli visivi la narrazione. Quando narra ad esempio della sua esperienza nella clinica psichiatrica fissa il tutto su un particolare: il risveglio dopo gli elettroshock con la presenza sopra di lui di una misera stampa di un quadro di Dufy. Un quadro calligrafico, di stanco impressionismo, con la sua marina e le signore di fine secolo infiocchettate e gli immancabili bambini vestiti alla marinara. Personalmente ricordo da giovane una stampa simile, chissà forse la stessa, era a casa di un mio amico con cui studiavo in maniera stentorea e le tante volte che alzavo lo sguardo dai libri verso la misera stampa provavo una certa misteriosa irritazione. Carrère ha dato forma con la sua scrittura alla desolazione che questa stampa mi ispirava. Sta qui la sua magia: quella di essere tutto sé stesso, tutto dentro il suo ipertrofico io e allo stesso tempo cogliere un fatto, un frammento, un’inezia che lo rende confidenziale con il lettore. Tutto in lui è io, ma io siete voi che sono io: sembrerebbe questa la formula.

Il modello del suo ultimo libro è ancora una volta le “Confessioni” di Agostino, l’inventore del canone autobiografico occidentale e questa volta Carrère segue il modello senza quei filtri che avevano caratterizzato le altre opere. È abile Carrère, si sa, e la sua abilità alle volte irrita. Ci si chiede, catturati dallo scorrere delle pagine, se quella spontaneità torrenziale non sia artefatta, se, da buon bipolare come egli stesso ammette di essere, il sincero non sia unito all’artefatto in una crasi inestricabile. Un altro esempio. Il libro come si sa è dedicato allo yoga, ma nello scorrere delle pagine lo yoga scivola via lasciando il posto al duro racconto della sua depressione, del bipolarismo, dei ricoveri e all’ancor più duro racconto della sua tendenza nevrotica, manipolatrice dell’altro. Poi, poiché si rende conto che ha esagerato, che rischia di scioccare con la sua anima nera noi lettori e allora inizia a raccontare della sua esperienza nell’isola di Lesbo con i ragazzi migranti e anche qui la sceneggiatura non può mancare del particolare significativo. Questa volta è un Samsung Galaxy che avrebbe dovuto regalare ad uno dei ragazzi del centro di accoglienza che però di notte scappa. A questo punto, emulando il ragazzo, l’inquieto Carrère decide anche lui di scappare lasciando il Samsung Galaxy non solo nel cassetto della stanza, ma anche nella nostra memoria.

La narrazione di questa e di altre vicende è torrenziale, egocentrica ma incredibilmente non scivola nel patetico, nel cattivo gusto dell’esagerazione. Carrère, da bravo alto borghese progressista, ha infatti un innato senso del buon gusto: sa che il kitsch e il ridicolo sono crimini intollerabili, a confronto tutti gli altri sono veniali. Lo yoga dunque, i problemi psichiatrici, i centri accoglienza e descrizioni di amici, amanti, moglie, figli e quant’altro. Ma non sono questi i veri soggetti di un racconto rapsodico, catturante, ma lo scrivere, l’ossessione di scrivere che prende il posto della vita, che riduce il mondo e le persone a null’altro che strumenti, a vittime sacrificali, di quella che Henry Miller definiva la “deliziosa tortura”. Gli scrittori hanno da sempre scritto della scrittura: Baudelaire, Flaubert, Proust, Virginia Woolf, Hemingway, Flannery O’Connor…possiamo continuare. Carrère lo fa trascinandoci con lui e lo fa senza remore, senza pudore. La sua è una confessione per l’appunto spudorata, come spesso è spudorato il comportamento di una certa sinistra intellettuale da ZTL, di vacanze nelle isole con yoga e nenie buddiste e trousse con zuccherini omeopatici dentro e quant’altro. Eppure ciò non irrita in Carrère e non irrita perché lui, a noi che lo leggiamo, sa ripetere l’ultimo verso di una famosa poesia di Baudelaire: “…ipocrita lettore, mio simile, mio fratello”. La tonalità con cui per tutte le 300 pagine del libro ce lo ripete è seducente e noi, lettori lusingati, cediamo alle avances.

 

“Il diavolo in corpo” di Radiguet: il caso letterario degli anni ’20 in una nuova traduzione

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di Ornella Tajani

[Questa recensione è apparsa su L’Indice dei libri del mese di maggio 2021]

Miope, selvatico, taciturno ai limiti della scostumatezza, annunciato dalle cameriere degli amici come «un bambino con un bastone da passeggio», l’andatura così saltellante da far pensare che i marciapiedi gli diventassero elastici sotto i piedi, e per giunta con un taglio di capelli perennemente sbagliato: Jean Cocteau descrive con alcuni di questi tratti l’amico Raymond Radiguet, giovanissimo autore da lui supportato, ammirato e amato al punto da dedicargli un articolo dal titolo «Cet élève qui devint mon maître». Radiguet possiede la qualità che Cocteau apprezza più di tutte: «Non somigliare a nulla. Non somigliare a nessuno. Non c’è lode che mi colpisca di più». La battuta è dell’eccentrica regina protagonista della pièce cocteauiana L’aigle à deux têtes, ma è l’autore a esprimere il proprio gusto attraverso le parole del personaggio: nel capitoletto dedicato a Radiguet in La Difficulté d’être, Cocteau scrive infatti che le poesie di questo enfant prodige non somigliano a nulla, nulla le sostiene; l’opera di Radiguet possiede «le tact suprême, la solitude des mots, l’épaisseur du vide, l’aération de l’ensemble», dove per aération si intende specificamente la capacità di instillare una fantasia libera e personalissima in un testo letterario.

Esiste un’aura mitologica intorno a Radiguet piuttosto simile a quella del precedente e più celebre prodigio Rimbaud: entrambi alla ribalta della scena parigina da adolescenti, protagonisti di una parabola letteraria luminosissima, esauritasi, in termini produttivi, nel giro di pochi anni. Sebbene il lascito poetico ed estetico del poète voyant non sia paragonabile a quello dell’étrange éphèbe autore di Le Diable au corps, va rilevato che entrambi sono stati, in maniera diversa, anime foriere di cambiamento. Come nota André Guyaux, il «catalyseur d’identité» che era Rimbaud per Jean Cocteau, primigenia immagine di angelo maledetto inseguito e rappresentato per tutta la vita, trova in Radiguet la sua prima incarnazione. Questa fusione di realtà e ideale si cristallizza in modo paradigmatico in un testo del 1920, pubblicato sul Coq parisien, dal titolo Une soirée mémorable, in cui Cocteau e Radiguet si divertono a distruggere e reinventare il componimento Entends comme brame di Rimbaud: la riscrittura pastichée diventa qui un esercizio cannibalistico di appropriazione, una pratica dal gusto goliardico che ricorda non poco i giochi della coppia Rimbaud-Verlaine.

Che cosa, in Radiguet, seduce tanto Cocteau? Sicuramente la sua libertà assoluta, la refrattarietà a seguire le mode letterarie o a farsi imbrigliare in qualche schema: ringiovanendo e dando nuovo smalto a vecchie formule, Radiguet gli insegna che non bisogna opporsi alle abitudini o allo spirito borghese, ma andare oltre e opporsi all’avanguardia; che bisogna copiare, perché copiando ci si dà la base che consentirà lo sbocciare di un’originalità autentica, non voluta, non ostentata né manierata. Ciò che gli sta a cuore è un rinnovato classicismo, di portata scandalosa rispetto alle effervescenze dadaiste e surrealiste, perché soltanto «une attitude d’apparence conformiste pourrait (…) dérouter les esthètes et devenir la véritable anarchie». Per Radiguet, «le mécanisme d’un chef-d’œuvre est invisible».

Una simile affermazione trova conferma nel suo titolo più celebre, Il diavolo in corpo, appena riedito da Bompiani nella nuova e bella traduzione di Yasmina Melaouah. Di questo libro Cocteau scrive che è il romanzo della promessa, mentre solo il successivo Le bal du comte d’Orgel sarà l’opera delle promesse mantenute. I due testi escono a breve distanza l’uno dall’altro: il primo nel 1923, lo stesso anno in cui l’autore muore a soli vent’anni; il secondo, postumo, nel 1924. È in occasione dell’uscita del Bal che Cocteau stabilisce un simile paragone, nel momento in cui, probabilmente ancora sconvolto dal dolore del lutto, sta cercando di promuoverlo; non è però convinto di tale superiorità letteraria, poiché, nelle numerose volte in cui tornerà sull’opera dell’amico, sarà del Diable che dirà meraviglie. «Ses romans, surtout, à mon estime, Le Diable au corps, phénomènes aussi extraordinaires dans leur genre que les poèmes de Rimbaud», scrive ancora nei saggi critici raccolti in La Difficulté d’être.

Se è vero che il meccanismo di un capolavoro opera in maniera invisibile, nel Diavolo in corpo Radiguet riesce a muovere i fili dell’intreccio con straordinaria delicatezza: l’io narrante offre il proprio essere in tutta la peculiarità dell’adolescenza, quasi che sia questa la reale protagonista della vicenda, e lui soltanto un agente del dio della letteratura; lo conferma il fatto ch’egli resta senza nome per l’intero romanzo, e sembra dunque incarnare la personificazione di un’idea piuttosto che un individuo completamente definito (si chiamerà invece François nella versione cinematografica del ’47 firmata da Autant-Lara; un ulteriore adattamento, decisamente molto libero, sarà il Diavolo in corpo di Bellocchio dell’86). I suoi moti d’animo, le pulsioni sensuali, le gelosie e gli egoismi prorompono sulla pagina nella maniera meravigliosamente inconsapevole di questa età della vita, in cui si è pronti ad afferrare tutto ciò di cui si ha voglia e in cui si scopre solo con considerevole ritardo che si ama o che si sta soffrendo.

L’amore per Marthe, una ragazza più grande di lui, fidanzata e poi sposa di un militare in servizio durante la prima guerra mondiale, era ispirato a un’esperienza realmente vissuta da Radiguet – e stimolerà poi Cocteau, che scrive Le Grand écart nel 1922, mentre i due soggiornano al Grand Hôtel di Lavandou, in Provenza. Il protagonista sente da subito di essere trascinato in un’avventura «in cui un uomo fatto avrebbe provato imbarazzo», in qualcosa che è quindi en avant rispetto a sé e ai suoi anni: la grazia di questo romanzo sta nella maniera limpida, «classica», in cui Radiguet è riuscito a raccontare il vortice della vita che travolge un quindicenne alle prese con la passione – a descriverne l’inconsapevolezza, l’apertura a ciò che accade, il modo in cui il ragazzo osserva il suo cuore inesperto «come un parvenu osserva i propri gesti a tavola», e quella lucidità adolescenziale che è «solo una forma più insidiosa dell’ingenuità». È a questo che Cocteau si riferisce quando scrive che, nel Diavolo, sembra di leggere la storia di un animale o di una pianta che si raccontino; l’immagine gli piace così tanto che la riutilizzerà nel Grand écart.
Oltre che per la sbrigliata sensualità, nominata sin dalla prima pagina, il testo destò scandalo perché, all’indomani della guerra, quando ancora si contavano le vittime, descrive quegli anni come una serie di «ininterrotte vacanze» per chi era molto giovane, uno strano periodo in cui il narratore è colpito dalla «poesia delle cose» e si muove tra i paesaggi descritti come se il conflitto non esistesse: i paesini di provincia sulla Marna (quel fiume «talmente nostro che le mie sorelle parlando della Senna dicevano “una Marna”»), le campagne, Parigi sono appena sfiorati dalla vicende belliche, poiché il loro scopo sta innanzitutto nel far da sfondo all’intreccio amoroso; la Storia è messa da parte.

Le Diable au corps conta almeno una decina di versioni in italiano, un numero davvero elevato per un romanzo del genere, già indice dell’interesse costante verso l’opera più nota del «plus jeune romancier de France», nelle parole usate dall’editore Grasset all’epoca del lancio pubblicitario; il libro vendette più di cinquantamila copie in un mese. La traduzione di Yasmina Melaouah ha il merito di trasferire nella prosa italiana la limpidezza così fortemente voluta dall’autore, che nasce dalla sintassi, dalla concatenazione di frasi brevi e sapientemente congegnate: «efforcez-vous d’être banal» era uno degli imperativi più noti di Radiguet, laddove per banalità bisogna intendere l’«invisibilità» di cui sopra. Da un lato, rispetto ad altre edizioni che pure hanno avuto grande diffusione, come quella Garzanti a cura di Gian Piero Bona (1987), questa ritraduzione offre nuovamente al lessico la modernità che lo aveva caratterizzato alla sua uscita editoriale, modernità fatta dell’assenza di uno stile artefatto («avoir du style au lieu d’avoir un style», scriveva Cocteau in D’un ordre considéré comme une anarchie), restituendo naturalezza a espressioni della lingua parlata che si erano complicate nel passaggio all’italiano, o cancellando qualche svista di registro (come «dupe» tradotto con il popolare «minchione»); dall’altro, riconsegna  al testo la struttura spesso articolata in paragrafi brevi all’interno di già brevi capitoli, talvolta costituiti da un’unica frase, come l’interrogativo «Dove dormire?» che il protagonista si pone durante la fuga notturna con Marthe, quasi una mise en abyme della «solitude des mots» già menzionata. Questa nuova edizione Bompiani costituisce dunque un’ottima occasione per leggere o rileggere Il diavolo in corpo godendo di tutta la sua «spontaneità» – una spontaneità forse accuratamente orchestrata, come rilevava Giovanni Macchia nel saggio che chiude Il paradiso della ragione, ma che ancora Cocteau non esitava a paragonare alle musiche di Georges Auric e Francis Poulenc.

Movimento e stasi. Conversazione con Massimo Palma

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di Adriano Ercolani

 

Massimo Palma è uno degli intellettuali più interessanti del panorama italiano contemporaneo.

Nelle sue, ormai, numerose pubblicazioni ha mostrato una rara dote: saper conciliare un approccio filosoficamente rigoroso, di alto livello accademico, con uno sguardo anticonformista, radicale, aperto alle contaminazioni del presente, pur lontano dai tipici vezzi postmoderni che spesso riducono i contributi di certa intellighenzia a sterili elucubrazioni autoreferenziali.

Doti che emergono dai tempi di Berlino Zoo Station (appassionata guida culturale della capitale tedesca, da Hegel a Bowie, pubblicata per Cooper nel 2012) fino al più recente Nico e le maree (reinterpretazione libera e commossa delle molte vite della cantante tedesca, uscita per Castelvecchi nel 2019), per tacere di un’opera peculiare quanto preziosa come Foto di gruppo con servo e signore. Mitologie hegeliane in Koyré, Strauss, Kojève, Bataille, Weil, Queneau (Castelvecchi, 2017); non possiamo non ricordaretuoi occhi come pietre: Trauma e memoria in W.G. Sebald, Paul Celan, Charlotte Salomon, bellissimo saggio sulla trasfigurazione della memoria tragica (Castelvecchi, 2020); eppure, probabilmente, l’opera più importante dal punto di vista del dibattito pubblico è stata la sua riflessione originale e coraggiosa dei fatti vergognosi di Genova 2001, Happy Diaz (pubblicata da Arcana  per 2015 e ora ripubblicata da Castelvecchi in occasione del tragico ventennale).

Proprio la ricorrenza della “più grave sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale”, come sancì Amnesty International in una formula destinata a essere ripetuta instancabilmente come un mantra alle sorde orecchie delle istituzioni, ha ispirato all’autore (saggista e filosofo) una riflessione poetica.

Movimento e stasi, ecco il titolo della silloge, è stata pubblicata da Industria & Letteratura, casa editrice diretta da Filippo Davoli, degna di particolare attenzione per la cura e lo sguardo consapevole, ben espresso dalle parole con cui si presenta sul proprio sito: “Come in una paziente, ostinata apocalisse – una rivelazione – questa piccola casa editrice intende pubblicare poche opere, con cura artigianale, connesse col tempo presente e con la nostra alta tradizione letteraria. Il suo scopo – facendo risuonare l’etimo del termine – è una modalità dell’esplorare, del provare a vedere lontano, radicati in un passato, che non si declina in nostalgia, e consapevoli dell’oggi, senza farsi sopraffare dalle sue (nostre) miopie, che confondono troppo spesso la spinta continua delle emergenze con la radicalità lenta delle urgenze, individuali e collettive.”.

Nelle poesie di Movimento e stasi Palma, che conosce la Fenomenologia dello Spirito quanto i testi di Ian Curtis, riesce ancora una volta a conciliare una spietata analisi razionale delle cause politiche della “macelleria messicana” con la capacità di restituire la rabbia della protesta e l’orrore della violenza.

Ecco la nostra conversazione.

Come mai, dopo aver dedicato racconto letterario ai fatti di Genova, hai deciso di affrontarli in poesia?

Volevo trovare delle forme diverse per narrare questo episodio-chiave della nostra storia recente, ora che la fase processuale relativa ai fatti di Genova si è conclusa (non certo le sue conseguenze, che restano con tratti a volte grotteschi). Qualche anno fa, con Happy Diaz (Castelvecchi), un saggio che è anche un racconto, ho provato a dire Genova cercandone le radici generazionali, la complicata politicizzazione di una generazione secondo vie lontane da quelle tipiche del Novecento.

Con i testi in versi di Movimento e stasi ho tentato una strada diversa: non tanto riportare alla memoria quei fatti, quelle scene. Ma intrecciare il conflitto che abbiamo ingaggiato con quella memoria, coi suoi buchi neri. Ho cercato di ricostruire un percorso non lineare, non solo logico, attraverso i fatti, che fosse capace di sfidarne la consistenza: di sospenderli, aggredirli, trasformarli.

In questi venti anni c’è stata una notevole produzione di “narrazioni genovesi”, perlopiù tese a mostrare quel che era successo a chi si rifiutava di vedere. A documentare, per individuare responsabilità, linee di comando e di imputazione, dire la verità su persone e reati che restavano nell’ombra. Lo scopo era prevenire quello che era il rischio più grave per vittime, testimoni, osservatori: non essere creduti. Tutte queste narrazioni sono state utili a dire e ribadire ciò che in democrazia è “indicibile”. Ovvero uno Stato che si fa boia dei propri cittadini, e dei cittadini di tanti Stati esteri. Assassino e carnefice, torturatore di migliaia di persone, a diversi livelli. Che è tale per tre giorni consecutivi. Bisognava raccontare i fatti: affiancare un iter giudiziario complicato, combattuto da ampie fette di politica e di Stato. Oggi l’approccio può e deve essere diverso. Non univoco, certo. Ma non occorre più solo ridire i fatti. Si possono usare i versi – è quello che provo a fare in Movimento e stasi – per interrogare le forme di quella memoria, il suo peso. Ci sono immagini che mi hanno ossessionato per anni, che nascono da lì, dalle immagini che ho visto pur senza esserci stato: un corpo sotto un lenzuolo bianco, spalle di donne abbracciate nella festa, poi nel dolore, cespugli mossi dai manganelli a Punta Vagno con l’audio di urla, di preghiere. In questo libro ho voluto costruire una costellazione diversa, in poesia, di questi ricordi, di questi fermo-immagine. Ricomporre frammenti scomposti, vent’anni dopo, per dare una visione ulteriore di Genova 2001. Quando si ha a che fare con la materia di quei giorni del luglio 2001 i versi possono essere un contributo a dire – a far venire a espressione – proprio il rapporto conflittuale col passato, a elaborare e approfondire cesure, non a ricucire, non a risolvere. I versi stanno lì, sono aperti – alle interpretazioni, le diversioni, ad altri racconti. In questo senso, sono immediatamente politici.

Quali sono le differenze che hai incontrato nel diverso approccio, saggistico, narrativo e poetico?

Quando scrivo in prosa – raccontando, argomentando, anche associando, come ho fatto in Happy Diaz, due generazioni diverse, separate nel tempo e nello spazio, quella punk e post-punk inglese e quella ‘genovese’ –, ho la sensazione di disporre di tempo. Di avere agio a spiegare, di poter tornare sui miei passi, chiarire le opacità. Di poter in qualche modo superare possibili equivoci, malintesi, incomprensioni di chi legge. Nella forma saggistica, anche se ‘spuria’, mentre scrivo mi accorgo di cedere a questa speranza – di poter dire dopo, di avere una seconda possibilità, un Nachleben, una vita posteriore. Con i versi, questo velo auto-illusorio è pregiudicato dall’inizio. Lo statuto di verità del verso è insieme ambizioso e fragile, tanto più quando sfiora memorie collettive, divise, divisive. I versi giocano con la propria insufficienza, cambiano i ricordi mentre tornano in superficie. A volte dicono esattamente questa trasformazione – a volte l’elusione – dei ‘fatti’ dettata dagli ingranaggi della memoria. È un po’ di tempo che mi occupo di questo tema, anche in altri ambiti. In un saggio dell’anno scorso, I tuoi occhi come pietre (Castelvecchi, 2020), ho messo su un confronto tra Celan, Sebald e Charlotte Salomon. Tre prese di parola eterogenee, ma tutte atte a mostrare come ci sono tanti modi per fare spazio ai traumi, oltre l’artificio retorico del ricordo volontario. E altrettanti modi per ricordare come, perché dimentichiamo.

 

Qual è il rapporto tra il movimento e la stasi del titolo?

È un rapporto di coesistenza. E un rapporto temporale. Che vi sia un tempo nel movimento è apparentemente un’ovvietà. Pare ovvio che il movimento fisico, corporeo, spaziale – e politico, sociale, culturale: siamo corpo, materia – abbia una storia. È meno ovvio che ci sia anche un tempo della stasi. Un tempo dell’arresto del movimento, di chiusura delle sue possibilità dinamiche. Di astenia. Ed è quello che, con mille sfumature, si è percepito dopo Genova. Ma i versi di questo libro nascono anche da un rapporto con ‘stasi’ ulteriori, che si potrebbero definire stasi in immagine. Di, su Genova abbiamo tanti video visibili ovunque, documentari scaricabili o reperibili. Abbiamo film – in realtà pochi. Ho l’impressione che abbiamo faticato, in questi ultimi anni, a montare i fermo-immagine, a comporre i nomi in un racconto, in tanti racconti. Forse col tempo abbiamo, per riproporre la famosa espressione di Benjamin nel saggio sull’opera d’arte, estetizzato le immagini che avevamo – alcune atroci, oscene, altre più agevoli, seriali, tutte simili – per starci dentro più comodi. In lutto eppure comodi. Invece quando accadono le sconfitte c’è un’enorme necessità di montaggio delle immagini ‘ferme’. C’è bisogno di provare nuove associazioni, costruire nuove logiche.

Il libro è strutturato in tre fasi dialettiche, ma la sintesi è ben lontana da venire…

È vero, le sezioni del libro – movement, still, stasis – sono tre. Ma non creano una dialettica produttiva. Non si ottiene nessuna sintesi con la ‘stasis’. Stasis, nel pensiero, nella grande storiografia greca, è una parola che dice il dissidio, il disaccordo totale dentro uno stesso corpo politico. Dice la sedizione, la guerra civile. Dunque stasis, semmai, è il termine dell’antitesi. Della non-composizione. Ad Atene, lo ha chiarito Nicole Loraux con qualche articolo bellissimo di oltre trent’anni fa, c’era tutta una strategia giuridica e politica per dimenticarla, la stasis. Ecco, con l’episodio di Genova e con la rielaborazione solo parziale cui assistiamo – personale, e politica – abbiamo capito quanto siamo lontani da questa consapevolezza. Che siamo ancora nel bel mezzo della stasis, anche se si è integralmente spostata – e anche questo i Greci lo sapevano bene, quando si promettevano ‘amnesie’ con forza di legge – nel ricordo. Ricordare Genova vuol dire sapere che c’è un’inimicizia totale a fondare il rapporto che una generazione ha con la politica – che ha preso il nome di polizia, e non in senso hegeliano. Dire questo rapporto coi ricordi, con le immagini mentali, con la vita postuma di nomi, parole, icone legate a Genova, è una delle tracce che ho seguito in questi versi.

Come spiegare alle nuove generazioni l’orrore, la vergogna, la vigliaccheria del Potere?

Potrei dire che non si spiega, si mostra. Ma il tema dell’emergere di nuove generazioni è centrale. Gli anniversari non servono a molto, se non a comprendere la distanza che aumenta rispetto ai fatti. E vent’anni, vent’anni da Genova, segnano l’entrata in una dimensione politica di persone che a Genova non c’erano perché erano adolescenti, bambini, o neanche nati. Per questo i fatti di Genova vanno storicizzati. Bisogna comprendere, e far comprendere a chi non ha avuto resoconti, narrazioni, i fattori storici, italiani e non, che hanno reso possibile quella violenza di Stato generalizzata, estrema. Che hanno a che fare non solo con dinamiche di comando tipiche di quegli anni, e con una diffusa assenza di cultura democratica e di tutela dei diritti fondamentali, ma con una generale acquiescenza istituzionale, e sociale, per l’uso di quella violenza da parte di chi ne detiene il monopolio. Eppure: i saggi storici sono necessari ma non bastano. Credo che costruire narrazioni altre, in prosa e in poesia, usando immagini dinamiche o statiche, e suoni, e musica, possa aiutare a ‘comporre’ ancora meglio quel momento, ad aprire nuove faglie. A non stare a proprio agio in una dimensione luttuosa di fronte al ‘potere’.

Quando si potrà superare il trauma collettivo del 2001?

Con una provocazione si potrebbe dire: quando non ci rivedremo in Renzi o Macron. Non perché ci somigliano, ma perché hanno i nostri anni, ostentano, con nostro fastidio, un bagaglio di esperienze, di riferimenti, analogo al nostro. Più seriamente: lo supereremo quando la generazione che c’era o che è stata solidale con quel movimento avrà dato una prova politica di sé sia dentro i tessuti sociali, micro e macro (cosa che perlopiù ha continuato a fare), sia dentro tessuti più ampi, politici e istituzionali (cosa assai più rara), veicolando contenuti che a Genova già c’erano. Quando la ‘nostra’ generazione smetterà di contemplare con orrore sugli schermi quei leader politici che le ricordano come il nemico “non abbia mai smesso di vincere” (ancora Benjamin), ma volgerà lo sguardo altrove. Magari chiudendo gli occhi sul passato per riscriverlo. Accettando di dirne le potenzialità inespresse, e non ripetendo ancora e ancora i fatti che sanciscono il trauma.

Perché si fa fatica ancora a fare i conti con ciò che è stato?

Dalla parte politica la risposta è semplice. Tranne eccezioni perlopiù isolate, allora il quadro politico non promosse nessuna riflessione seria sull’accaduto. E ovviamente non prese provvedimenti. Negli anni successivi, le cose sono andate peggio. Dalla parte del movimento invece i fatti di Genova 2001 hanno fondato per molte e molti – anche se lentamente, magari a scoppio ritardato – un’impossibilità di agire, e di farlo a livello di massa. A livello repressivo, infatti, Genova è stata terribilmente efficace. Ha estromesso una serie di soggetti politici dalla visibilità. Ha bollato qualsiasi espressione di conflittualità come attentato alla democrazia. Ha tagliato i rami tra i movimenti e i partiti, infine annichilendo anche forze che avevano quantità e qualche qualità. Questi esiti ‘sistemici’ hanno creato spaesamento, stasi, e affezione alla stasi.

Una preghiera

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di Christian di Furia

 

Il desiderio 

Vorrei un fischietto per i mostri, pensa: un fischietto per i mostri, dice a bassa voce. Un fischietto per i mostri.
Il bambino è in piedi, al centro del campo da calcio, ha gli occhi chiusi; al centro del cielo, è buio, al centro della notte. Bisbiglia. Bisogna ripetere tre volte il desiderio; aprire gli occhi e camminare; raggiungere il primo angolo del campo e baciare il palo di ferro; raggiungere il secondo angolo e baciare il secondo palo, baciare il terzo e poi il quarto. Baciati i quattro angoli bisogna tornare al centro del campo – al centro della paura, è buio, al centro del desiderio – e chiudere gli occhi.
Se lo spirito vuole ti accontenta e a terra trovi quanto hai chiesto.
Altrimenti ti uccide. Apri gli occhi e lo spirito ti strappa via la vita con uno strillo; altrimenti apri gli occhi e sei morto.
Il bambino è in piedi, al centro del campo da calcio, ha gli occhi chiusi. Apre gli occhi.
Ed è vivo. Ai suoi piedi, tra la ghiaia smossa, c’è un fischietto, e non un fischietto normale, ma uno per i mostri, proprio come aveva desiderato, un fischietto per i mostri: ci soffi dentro e i mostri si rivelano. Quando hai paura, soffi nel fischietto, e se c’è un mostro si accende una luce, nel punto esatto in cui quello si nasconde.
Il bambino può correre a casa, ora, entrare di soppiatto. In silenzio, senza fare rumore, è tardi.
Sono cinque giorni che non dorme. Nella sua cameretta c’è un mostro, ne è certo, si nasconde sotto il letto o nell’armadio: non ha mai avuto il coraggio di controllare. Ma adesso ha il fischietto e vestito si ficca sotto le lenzuola, lascia giusto un occhio, mezzo sguardo a spiare il buio della stanza sopra il bordo di cotone profumato.
La mano che non tiene il lenzuolo tiene il fischietto e ancora lo stringe quando il fischietto è alle labbra.
Il bambino prende un respiro – soffia.
Soffia, ma la stanza buia, buia rimane – non una luce.
Nella cameretta però c’è qualcuno.
Che comincia a urlare. Sotto le lenzuola.
Il bambino strilla. 

Un sogno
 

Apro gli occhi di scatto. Devo chiamare mio figlio, un brutto sogno, devo chiamare mio figlio, un incubo, allungo la mano, il comodino, il telefono, il numero, non c’è l’acqua, e il bicchiere?, l’avrò dimenticato, l’avrò lasciato, ieri, in cucina, sul tavolo, in cucina, il telefono squilla, il primo squillo, il secondo, mamma, sono qui, che c’è, stai bene?, sì, ho fatto un sogno, mamma è tardi, come l’altro ieri, un incubo, ti ricordi?, l’altro ieri?, che ho sognato che cadevi dalla bicicletta, mi ricordo, e ti ho vietato di uscire, non era l’altro ieri, mamma, ero piccolo, non era l’altro ieri, ma se uscivi in bici saresti caduto e ti saresti fatto male, era solo un sogno, non è mai solo un sogno, come tre giorni fa, ti ricordi?, tre giorni fa?, che ho sognato che piangevi, mi ricordo, e ti ho chiamato e infatti stavi piangendo, era tre giorni fa, e non mi hai voluto dire perché piangevi, ma l’avevo sognato e tu piangevi, e stavi male anche se non vuoi dirmi per cosa, e adesso di nuovo, adesso, ho sognato, di nuovo, mi sono svegliata, di scatto, e ti ho chiamato.
Come stai?, dove stai?, io ho sete, ma ho lasciato il bicchiere sul tavolo, l’acqua, ieri, in cucina, e non mi va di alzarmi, tu hai fame?, hai sete?, ce l’hai un po’ d’acqua, te la porto?, posso portarti un po’ d’acqua, dove sei stato?, sei appena tornato?, perché nel sogno eri appena tornato, e non è mai solo un sogno, lo sai, nel sogno rientravi a casa.
Nel sogno tu rientravi a casa, piano piano, per non farti sentire, ma io ti ho sentito.
Passavi per il corridoio ed entravi in camera, nel sogno, al buio, chiudevi la porta e cominciavi a fare le tue preghierine prima di andare a nanna. Nel sogno io mi alzavo dal letto e venivo dietro la tua porta, nel sogno, io, origliavo.
Nel sogno allora aprivo la porta. E nel sogno, tu, eri ancora vivo. 

Una preghiera 

Il vecchio sgrana il rosario stringendo gli occhi già serrati, e il solo movimento sensibile della bocca si intuisce quando le sue labbra si sfiorano per articolare le consonanti bilabiali dell’Ave Maria.
Tiene le ginocchia a terra, i gomiti sul letto intonso. Era sera quando ha cominciato, adesso è quasi l’alba.
Cinque giorni fa si è raccolto per recitare la solita preghiera prima di andare a dormire. Una preghiera è poi diventata due preghiere, quindi tre, e infine la notte intera: interminate ore sillabate in un febbrile sussurro. Con il mattino si era finalmente rilassato, in uno sbuffo di sollievo aveva aperto gli occhi e spalancato la porta della sua piccola stanza aveva sorriso alla casa vuota – da anni, vedovo, il vecchio viveva ormai solo – e in cucina aveva preparato la colazione.
Da cinque giorni il vecchio prega di non dormire.
Da cinque giorni, prega per non dormire.
Il sonno, durante il giorno, gli gratta gli occhi. Lui si veste ed esce di casa. Di sera, prega: non può stare in giro per tutta la notte.
Sul letto stanno adesso affastellati decine e decine di rosari, centinaia di Ave Maria giacciono riverse sul piumino, in cerchi e spirali di invocazioni scandite e da scandire ancora. Ma fuori dalla finestra è quasi l’alba – Dio disse: «Sia la luce!». E luce fu – e il vecchio vede l’aurora dentro le sue palpebre ancora abbassate. Fosfeni del mattino.
Allora respira. Sorride.
Sul punto di aprire gli occhi, recita anche l’ultima preghiera, e qualcuno bussa alla porta della sua stanza.
Qualcuno bussa alla porta della sua stanza.
Il vecchio apre gli occhi di scatto.
Si accorge che fuori è ancora buio.

Esercizio di memoria – Genova 2001

5

di Marco Mancassola

Non pensavo di avere tanti ricordi di quei giorni a Genova. Un pomeriggio mi sono seduto e ho iniziato a scriverli. Venti anni di distanza sembrerebbero sufficienti per sbiadire la memoria, ma i ricordi erano lì e uno a uno sono affiorati quasi docilmente.

All’inizio è riemerso il rumore delle bottiglie di plastica che i manifestanti grattavano contro le reti di metallo della zona rossa. Era un rumore simile a un enorme concerto di cicale, un modo per farsi sentire dall’altra parte e protestare contro le recinzioni che spaccavano in due la città. Poi nella memoria sono comparsi i violenti idranti con cui dall’altro lato la polizia iniziò a respingerci. E poi l’acqua (molto più benevola) che i genovesi ci lanciavano dalle finestre, per rinfrescarci e dissetarci, mentre noi sudavamo nelle strade assolate. Una signora dal balcone ci innaffiava con una canna da giardino e intanto teneva d’occhio le strade vicine, per avvertirci se arrivavano camionette della polizia.

Quindi nella memoria è comparsa la segatura, asciutta, polverosa, usata per coprire la macchia lasciata sull’asfalto dal sangue di Carlo Giuliani. La gente deponeva biglietti e lumini accesi. La calma desolata in quella piazza, il giorno dopo la sua morte, anche mentre intorno si scatenava l’inferno.

Ai corsi di scrittura propongo spesso questo esercizio: scegliete un luogo, un periodo, una situazione del vostro passato. Chiudete gli occhi, respirate a fondo, e tornate là. Iniziate a scrivere quel che ricordate. Le immagini, le voci, gli odori, i dettagli sensoriali, le percezioni del corpo, gli episodi importanti o minimi, tutto ciò che ha lasciato un graffio sulla tavola della memoria. Continuate a scrivere finché avete ricordi. È un esercizio in apparenza innocuo ma che a volte diventa un’indagine profonda, creando associazioni e catene impreviste di ricordi.

La rievocazione acquista allora un’intensità inattesa. Come qualcosa che pensavamo di guardare attraverso un vetro protettivo e che invece, a un tratto, ci colpisce duramente in faccia.

I ricordi di chi era a Genova nei giorni di quel G8 (da giovedì 19 luglio a domenica 22 luglio 2001 – un micromondo di quattro giorni, ognuno con le sue specifiche memorie) compongono di solito una scala di gradazioni del trauma. Da chi scampò alle violenze peggiori ma dovette nascondersi dai picchiatori in divisa nei vicoli e fra i cassonetti, ai ricordi di chi fu pestato, sequestrato e torturato.

In mezzo, in realtà, ci sono anche schegge di memorie luminose: il grande corteo dei migranti del giovedì, festoso, rumoroso, i suoi cori ingigantiti dall’eco dei sottopassaggi. La serata di musica con cui si concluse al campo del Social Forum. Al tendone-ristoro c’erano cesti di mele gratuite, e nella mia testa resta l’immagine di gente euforica che mangia mele, senza sospettare quel che avrebbe vissuto dal giorno dopo.

Oppure, la telefonata orecchiata il mattino dopo in un negozio di alimentari: il gestore aveva tenuto aperto nonostante gli allarmi dei media, e ora al telefono raccontava stupito che questi no-global non erano come dicevano i giornali, erano pacifici e amichevoli e gli stavano facendo fare buoni affari.

Persino la città rimodellata da reti e sbarramenti di container Evergreen, pur avendo un ovvio aspetto distopico, offriva delle apparenti oasi. In certi angoli, che sembravano quasi offrire un riparo, comparivano i membri del Living Theatre e improvvisavano performance.

La sera del giovedì si concluse con un temporale. Mentre camminavo fradicio verso la casa dove sarei stato ospite mi persi. Era notte e le strade adesso erano deserte, spazzate dal diluvio; qualunque via prendessi mi conduceva contro le inferriate della zona rossa, dove guardie imbacuccate e armate di mitra mi guardavano con gli occhi socchiusi, chiedendomi mutamente che ci facevo lì.

Che ci facevo lì? Una cosa notata negli anni è che chi racconta di essere stato a Genova sembra sentire anzitutto l’urgenza di spiegare perché ci andò, come servisse una giustificazione. Ero lì da simpatizzante dei movimenti e da osservatore; avevo un vago progetto di scrivere un pezzo e di riprendere i cortei con una videocamera avuta in prestito (le mie videoriprese le avrei poi lasciate a Radio Sherwood, che nei giorni successivi fece un appello per raccogliere materiali video sui fatti di Genova, ma non credo servirono a molto: mostravano soprattutto nuvole di lacrimogeni, immagini mosse prese scappando dalle cariche, registrazioni di grida concitate).

A Genova confluirono persone diverse, gruppi diversi, gradi di politicizzazione diversi, la famosa moltitudine di cui si parlava allora: ecologisti, sindacalisti, centri sociali, cattolici, pacifisti… Membri di associazioni e cani sciolti come me. A tenerci insieme era lo slogan che tutti urlavamo, un altro mondo è possibile. E in realtà, non serviva altra giustificazione per la nostra presenza oltre al bisogno di gridare insieme quella frase. Soltanto negli anni, credo, mi sarei reso conto di quanto quello slogan fosse impellente, utopico, necessario, e sovversivo alle orecchie dei poteri economici e politici di quell’inizio di millennio.

Del venerdì, ricordo che il cielo era tornato di un sereno accecante. Ricordo il gruppo di Socialist Workers inglesi cui mi unii la mattina, re-sist, re-volt, fuck-Ber-lusconi. Il momento in cui procedendo sulla strada intrecciammo le braccia e la pelle degli altri scottava di sole; poi quello in cui tutti si tirarono la bandana sul naso, intuendo l’arrivo dei lacrimogeni.

La prima carica di manganellatori (avevo visto altre cariche della polizia nella mia vita, ma non sembravano così furiose e avevo sempre pensato, ingenuamente, che bastasse tenersi lontani dagli scontri per essere al sicuro), il rumore di passo militare, i tonfi sui corpi colpiti come sacchi, i versi senza controllo provenienti da picchiati e picchiatori.

L’istinto puro e animale di fuggire, i poliziotti bardati come androidi neri che ci inseguivano gridando comunisti di merda, vi facciamo il culo vi facciamo il culo. E la parte ottimista di me che ancora cercava di razionalizzare, pensando che ci avevano caricati e inseguiti per sbaglio, ci avevano scambiati per manifestanti violenti.

Poi il ragazzo e la ragazza insanguinati (lui sembrava avere il naso spaccato) in cui incappai più tardi, le voci rotte con cui raccontavano di essere stati fatti salire a forza su una camionetta della polizia mentre camminavano tranquilli per strada, malmenati e minacciati di morte e poi sbattuti fuori dalla camionetta che era sgommata via. Io e gli altri che si erano fermati ad ascoltare ci guardavamo, dapprima increduli. In quel momento, fra la tarda mattinata e il primo pomeriggio del venerdì, credo che in punti diversi della città molti stessero realizzando che era in corso qualcosa di anormale, di enorme, di mostruoso; che le strade di Genova erano diventate un terreno di caccia con licenza libera, un parco a tema del tipo “pesta la zecca”.

Un altro esercizio classico di scrittura e memoria è quello di descrivere una personale madeleine proustiana. Come nell’episodio della madeleine di Proust: un’esperienza o sensazione che ci trasporta indietro nel tempo, a quando nel passato incontrammo quella stessa sensazione o una di simile. La madeleine apre una specie di tunnel temporale, attraverso il quale andiamo a visitare il ricordo e il ricordo, implacabile, visita noi.

Rispetto ai giorni di Genova, la mia madeleine più implacabile rimane il rumore di elicottero. Da vent’anni, il suono casuale di qualsiasi elicottero mi fa tornare ai giorni di quel G8, un’associazione così immediata che sembra diventata parte del mio sistema nervoso.

Gli elicotteri a bassa quota che incombevano sulla testa, senza sosta, giorno e notte, il rumore ossessivo che batteva nello stomaco; gli agenti che da là sopra a volte ci riprendevano con videocamere, altre volte ci facevano il dito (un’immagine che sarebbe quasi ridicola se non si affiancasse, nella mente, a quello che i loro colleghi stavano facendo in quel momento nelle strade e alla caserma di Bolzaneto); l’elicottero che si piazzò sopra di noi, il venerdì sera, mentre nello spiazzo del Social Forum si teneva un’assemblea d’emergenza, con l’ovvio intento di impedirci di parlare.

C’è anche una “anti-madeleine”, in verità: una sensazione che non capita di ritrovare nella vita quotidiana, non può essere ricordata da sensazioni somiglianti, ma la cui traccia riaffiora talvolta dal nulla. È il sapore alieno del CS, l’arma chimica dagli effetti mutageni (provoca cambiamenti genetici) di cui furono sparate oltre seimila cartucce addosso alla gente. (Assieme al CS fu usato il CN, dagli effetti co-cancerogeni.)

Il sapore-odore di quel gas ha qualcosa di indefinibile, non può essere ricordato a comando, ma a volte il cervello lo risputa dagli archivi olfattivi della memoria e allora sembra impregnare ancora, per un attimo, le mucose del naso e della gola.

Ora le immagini si fanno più sporadiche, confuse, e riguardano soprattutto la giornata del sabato, che nella mente resta un’allucinazione tossica e bianca: la prima volta che un candelotto mi atterrò fra le gambe e lo guardai quasi affascinato, come fosse un piccolo UFO ferito. Il rantolo metallico con cui i candelotti colpivano l’asfalto, la pioggia incessante in cui arrivavano, i bozzoli di alluminio che brillavano al sole. Quello che afferrai per allontanarlo, lanciandolo verso il lungomare, ustionandomi stupidamente la mano. La patina bianca che il gas lasciava a terra. La testa che pulsava, le schiene che tossivano, la gente che si reggeva ai muri in preda a nausea e vertigini. E le allergie e le dermatiti misteriose degli anni successivi, la “sindrome di Genova” segnalata anche da tanti altri. (Edoardo Magnone, chimico dell’Università di Genova, scrisse della “più grande operazione di guerra chimica in tempo di pace che si sia mai verificata in Europa”.)

Mentre scrivo, certi ricordi tornano netti, sempre più a fuoco. Altri hanno i contorni e la logica di un sogno strano, assurdo, disordinato:

i tamburi, che parevano usciti da un negozio di giocattoli, con cui i presunti anarchici vestiti di nero facevano le loro marcette, mentre i manifestanti si tenevano a distanza. Non ricordo molto altro di quei tipi vestiti di nero, soltanto i loro ridicoli tamburi. E le carcasse fumanti delle auto incendiate.

I pacifisti che avanzavano con le mani cosparse di gesso bianco; quelli che si scrivevano addosso con i pennarelli la parola “FRAGILE”, sulle magliette, sulle braccia nude, sulle gambe; i manifestanti accerchiati con le braccia alzate che ripetevano “pace, pace”, i poliziotti che sputavano loro addosso. L’uomo di mezza età (avrà avuto l’età che ho io adesso) che camminava in stato confusionale, la faccia lavata di sangue, implorando “basta”.

E i telefoni che non prendevano a causa del grande assembramento (altri tempi, le reti mobili andavano in tilt), i messaggi che arrivavano con ore di ritardo, rendendo impossibile ritrovare gli amici persi nel caos; la paranoia di pensare che fossero feriti, che fossero morti; il continuo ritrovarsi e perdersi, il riunirsi e disperdersi della folla sotto la pioggia di lacrimogeni, l’alternarsi di un potente senso di comunità e di uno di solitudine gelida, terrorizzante.

A cosa serve un esercizio di memoria?

Negli anni subito dopo i fatti di Genova, la memorialistica di chi era stato là diventò quasi un genere: alcuni ricordi tornavano nei resoconti di molti, altri sembravano più personali. Tutti i racconti si ponevano come testimonianza, un contributo all’inchiesta collettiva su ciò che era successo. E il lato di inchiesta era la priorità. Si ponevano ovviamente anche come polizza anti-oblio; in un messaggio a un gruppo teatrale Haidi Giuliani citò Milan Kundera: “La lotta dell’uomo contro il potere è la lotta della memoria contro l’oblio”.

In anni più recenti si è aperto infine uno spazio ulteriore, quello per fare dei conti più interiori, psichici, generazionali, per incastonare i ricordi non solo nel necessario sforzo di ricostruzione e conservazione dei fatti, ma nella storia di ciò che siamo diventati.

L’esercizio di memoria serve anche, per alcuni, banalmente ad aprire il cancello della memoria, darsi il permesso di ricordare. Sembra strano, ma nonostante i fatti di Genova siano stati per anni un tema così discusso, molti di coloro che erano là – anche questa una cosa osservata nel tempo – sono rimasti reticenti a parlarne. Non ne ho quasi più parlato con le persone che conosco e che erano là. Forse una reticenza dovuta al trauma, o forse al contrario alla mancanza di trauma estremo (in fondo fummo abbastanza fortunati da non subire le atrocità di Bolzaneto, da non finire in coma o con le ossa fratturate come chi si trovava alla Diaz).

Forse era dovuta a un misto di amarezza, di rabbia, di timore di scadere in facili retoriche, o all’impressione che altri avessero già raccontato le cose più importanti.

Io provavo anche una forma di imbarazzo, credo, nel ripensare al me stesso che si aggirava stranito per quelle strade, in quei giorni, e al fatto che solo nelle ore successive, nei giorni, negli anni, avrei realizzato in pieno cosa mi era successo intorno. Ero tornato a casa, come molti, sentendomi segnato, come invecchiato di anni nel giro di pochi giorni, e questo si portava dietro un peso tutto suo. Inoltre, c’era un imbarazzo ulteriore, che definirei un imbarazzo storico, nel chiedermi cosa ne avevo fatto infine di un’esperienza del genere, e cosa ne aveva fatto la mia generazione.

L’anno dopo ci ritrovammo al Social Forum Europeo di Firenze. Quello dopo ancora, alle marce contro la guerra in Iraq. Qualcosa però si era perso. La narrazione tipica di quegli anni ci dice che il doppio colpo della repressione poliziesca a Genova e dello shock globale delle Torri Gemelle spezzò lo slancio dei cosiddetti movimenti no-global. Dopo l’11 settembre, a un tratto sembrò più difficile affermare che un altro mondo era possibile; l’opinione pubblica che aveva ascoltato con interesse i movimenti si ritirò in una nuova fase di paura.

Eppure, quello che fu gridato a Genova era un messaggio di forza eclatante. Al di là della moltitudine delle esperienze, delle analisi e delle controversie che sarebbero seguite a quei giorni, a Genova si riunì una generazione che osava mettere in discussione il principio supremo del neoliberismo: l’idea che non esistevano altre opzioni, nessun altro mondo possibile, una dogmatica mancanza di alternative che Mark Fisher, anni dopo, avrebbe chiamato realismo capitalista.

Era un movimento che non credeva al feticcio della crescita infinita né alla presunta “fine della storia”. Un altro mondo è possibile. Non fu certo l’ultimo movimento di protesta, ma fu l’ultimo con un messaggio compiutamente utopico, almeno secondo le categorie novecentesche con cui eravamo cresciuti; prima che il concetto stesso di futuro entrasse collettivamente in crisi, e quello di catastrofe diventasse una realtà concreta a cui adattarsi.

La cultura poliziesca più sadica e fascista che trovò espressione a Genova di sicuro non agiva sulla scorta di queste considerazioni, ma il crudo simbolismo di quello che accadde fu chiaro.

Nella mia storia di persona cresciuta negli anni Ottanta e Novanta, l’utopia e la distopia non si erano mai affrontate in modo così diretto, sotto i miei occhi, come su quelle strade. Ma l’utopia si mostrò e la distopia la massacrò. La distopia aveva i manganelli tonfa, le cartucce di gas sparate ad altezza uomo, il potere di sospendere i diritti democratici e umani; aveva licenza di fare quel che voleva, poteva spezzare le costole e i denti alla gente, arrestarla e farla sparire nel nulla per giorni, costringere le persone trattenute nelle caserme a inneggiare a Pinochet.

Negli anni successivi il mondo diventò quello che i movimenti di allora avevano temuto: tragicamente, fu dimostrato quanto avessero avuto ragione. Le disuguaglianze spinte a livelli grotteschi, le crisi planetarie sfruttate a proprio vantaggio da un capitalismo rapace, le nuove tecnologie usate per concentrare sempre di più il valore e riorganizzare in modi disumani il lavoro. L’irreversibile catastrofe climatica e ambientale che esplodeva sotto i nostri occhi.

È attraverso questi eventi degli ultimi vent’anni che ci volgiamo indietro e, come attraverso un vetro annebbiato e crepato, rivediamo quella generazione, quei giorni di un luglio assolato, quelle ore di protesta e massacro.

Per questo continuo a setacciare in quel grumo di ricordi. C’è un giovane uomo con gli occhi arrossati dal gas, una videocamera in mano che non sapevo nemmeno usare, la maglietta che odorava di sudore e CS. La cosa più difficile da ricordare, ora, attraverso il vetro crepato, è la sensazione che provavo nel credere in quel messaggio. La possibilità di un altro mondo. Poi il vetro si fa nitido fino a scomparire: è il potere degli anniversari, e di certi esercizi di memoria. Farci dire qualcosa da quello che siamo stati. E allora ricordare, sentire che credevo davvero in quel messaggio. E ricordare che venti anni dopo l’unica possibilità di salvezza, nonostante gli strati di cinismo accumulati, nonostante sembri troppo tardi, nonostante sembri impossibile, è crederci ancora.

Immagine di copertina: Genova, 20 luglio 2001. Di Ares Ferrari, da: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Genova-G8_2001-Scudi_disobbedienti.jpg