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Su «Campi d’ostinato amore» di Umberto Piersanti

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di Alberto Bertoni

Capita, nella storia d’un poeta di alto profilo, che un unico libro – mentre la sua carriera compositiva viene compiendosi – ne condensi temi, implicazioni storico-letterarie e Leitmotive formali. È ciò che accade all’urbinate Umberto Piersanti col suo recente Campi d’ostinato amore (La nave di Teseo, 2020), ove egli riesce nel delicato e difficile compito di coordinare e integrare il paesaggio per lui consueto delle Cesane che circondano Urbino (e che sono sfondo a suo tempo prescelto anche da un poeta davvero universale come Giovanni Pascoli) con la figura dominante degli anni più recenti della sua opera, il figlio gravemente autistico Jacopo: al di là della sua concreta biografia, uno dei personaggi più potenti e struggenti, rappresentato nel dialogo ininterrotto e drammatico con l’Io/Padre che con lui interloquisce, della poesia italiana ed europea di XXI secolo.

Entro la fisionomia profonda del libro agiscono in sintonia e sincronia due elementi davvero centrali. Tale interazione e integrazione assicura al dettato poetico una coesione che non è solo frutto di un’espertissima tecnica letteraria, ma che si spinge piuttosto fino a valicare il crinale antropologico di un’esperienza vissuta a nome e per conto di tutti noi. Infatti, non è per nulla automatico creare un rapporto davvero integro – proprio a livello narrativo, poiché Piersanti non dimentica mai di essere anche un narratore di classe – fra l’archeologia sentimentale e conoscitiva di un territorio; e il caso umano troppo umano di una sregolatezza dei sensi e degli atteggiamenti che svela di continuo l’energia del reciproco, inesausto e per l’appunto ostinato amore che intercorre fra le due personaeattorno alle quali si dipana la struttura profondamente drammaturgica (prima ancora che dialogica) del testo. Questi due elementi coinvolgono da un lato il Tempo e dall’altro l’andamento metrico-prosodico che costituisce il basso continuo dell’intero libro.

Il Tempo che diventa Luogo in Campi d’ostinato amore, ove agisce sistematicamente quell’immaginazione acustica tanto cara al Leopardi, corregionale dall’autore amatissimo, rimanda a una longue durée che la poesia italiana contemporanea ha troppo spesso trascurato. In troppe circostanze, le ha infatti preferito un’aneddotica dell’istantaneo, fosse questa l’epifania di ermetica o “religiosa” memoria (da me personalmente mai rimpianta); oppure la cronaca polverizzata di un’autobiografia frammentaria del quotidiano indifferentemente proprio o altrui. Piersanti, invece, fin dal primo, serratissimo capitolo, Il passato è una terra remota, gioca sull’involontarietà proustiana di una memoria fin che si vuole intermittente, ma che qui si salda costantemente al destino bellico di una famiglia e di una gens innocenti e a fatica sopravviventi, delle quali il Narratore  bambino è assieme la sensibile antenna percettiva e il cronista minuzioso, nell’intreccio quotidiano di faticata vita vissuta (lineare) e di avvicendarsi delle stagioni (circolare).

In questa chiave, la novità del libro, rispetto a prove precedenti dello stesso autore, è la collocazione della figura di Jacopo, centrale nel secondo capitolo a lui stesso intitolato, in un quadro appunto antropologico di gens, molto al di fuori e al di là di una vicenda intimamente personale. Questo trasferimento (o metamorfosi) ne estende la funzione “umana” da accidente esperienziale a paradigma cognitivo, introducendo nel dettato il magico e il favoloso, il terribile e l’alieno, nonché restituendo all’idea stessa di comunità un principio attivo di solidarietà e di comprensione al di fuori della norma, oltre che di “santità” dell’esistenza quotidiana, di coralità e di sortilegio. Senza mai dimenticare, e piuttosto riconoscendoli come fatti di natura, il doloroso e il negativo di una simile oltranza, secondo quanto afferma la bellissima poesia eponima: “ma il tuo male/ figlio delicato,/ quel pianto che non sai/ se riso, stridulo/ che la gola t’afferra/ più d’ogni artiglio,/ questa bella famiglia/ d’erbe e animali/ fa cupa/ e senza senso/ e dolorosa”.

Dalla citazione affiora già quello che è l’altro perno, di natura formale, che – assieme alla concezione di quel Tempo Grande pluridimensionale e multidirezionale cui s’è appena cercato di far riferimento – conferisce solidità d’insieme e compattezza intonativa ai Campi d’ostinato amore. Mi riferisco alla conversione di Piersanti a una metrica breve, incentrata su una dominante di quinari e settenari. Si sa che il verso libero breve è componente essenziale (giustapponendosi a quello “lungo” che tende all’esametro greco-latino o al versetto biblico) della liberazione formale novecentesca: qui funziona tanto da strumento di drammatizzazione del ritmo, che in certe parti diventa singulto e traccia viva di apnea; quanto da suddivisione sincopata del recitativo, come se il ritmo della scrittura faticasse a tenere il passo di quello del pensiero. Un punto eccellente di sintesi fra le due pulsioni lo esprime la poesia – per molti altri versi esemplare – che s’intitola L’età breve: “[…] come il tuo sguardo/ l’età breve/ trascorre/ in un cielo chiaro/ e senza tempo”.

Manuel Maria Perrone: “To Ben Lerner”

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To Ben Lerner

di Manuel Maria Perrone

Vorrei che tutte le poesie difficili fossero profonde.

Suonate il clacson se anche voi vorreste che tutte le poesie difficili fossero profonde.

Ben Lerner

 

Caro Ben,

Da dove iniziare?

Forse dovrei iniziare dal fatto che questa è una vera lettera anche se ha meno valore di una finta?

Forse dovrei iniziare dall’assurdità di scrivere a una delle promesse della letteratura americana senza neanche parlare inglese? (mi farò tradurre, forse dal fruttivendolo indiano, all’angolo).

Potrei iniziare scrivendoti in modo allegorico, citando un episodio in cui si mischiano in modo trovo perfetto realtà e finzione, episodio che forse conosci, tra Cortazar (che lo cita nel suo Sentimiento de lo fantastico) e John Howell: Cortazar scrive un racconto, anche molto bello, in cui un personaggio, l’immaginario John Howell, si scopre protagonista di uno spettacolo che era andato a vedere annoiato; anni dopo uno studente della Columbia, che si chiama anche lui John Howell e che è un fervido ammiratore di Cortazar, vola a Parigi, lo vuole contattare, poi desiste, scrive un racconto con Cortazar protagonista, in omaggio alla Parigi che ha scoperto, senza però sapere che anche l’autore l’ha già trasformato, tempo prima, in personaggio.

Forse anch’io, che sono rimasto sconvolto per la sincronicità tra i tuoi scritti ed episodi della mia biografia, dovrei solo vendicarmi creando un fittizio Ben Lerner, a cui far vivere cose mie che diventino sue, magari le più scabrose e imbarazzanti.

Forse l’inizio di questa lettera dovrebbe invece cercare radici biografiche, appunto, per dare il giusto Pathos alle mie parole. Mio padre è morto a 33 anni – Eh si aveva barba e capelli lunghi– 3 anni prima, quando gli hanno dato la sentenza di pochi mesi da vivere, ha avuto voglia di viaggiare con noi, ma avevamo pochi soldi. Ha scritto a molti autori che gli piacevano: Ivan Illich, Eduardo Galeano, Jean Paul Sartre. Alcuni hanno risposto. Non era sorpreso perché in cuor suo sapeva che gli autori, anche affermati, vivono e lavorano nella solitudine delle proprie parole. Abbiamo approfittato della risposta entusiasta di Illich per viaggiare in Messico tutta la famiglia e istallarci a Cuernavaca. Non ti sto chiedendo un posto sul tuo divano, non preoccuparti, ma anche adesso, che sono ormai più vecchio di mio padre, mi è rimasto il vizio di osare lettere improbabili. Ho scritto a David Lynch e Jean Luc Godard per proporgli un ruolo (non lo stesso, né per lo stesso film), mi sono presentato in un bar a far vedere un mio cortometraggio a Jean Claude Carrière, lo sceneggiatore tra gli altri di Bunuel.

E proprio Jean Claude Carrière, intrigato, mi ha risposto di fargli vedere il lavoro finito e fargli leggere le mie sceneggiature. Cosa che ho fatto, arrivando, purtroppo, con una mail il giorno dopo un’operazione a cuore aperto che gli aveva tolto la definitiva voglia di scrivere e pensare cinema. Più o meno come se fossi riuscito ad avere un appuntamento privato con Kennedy per i primi di dicembre del ’63. E ammetto che a lungo ho rigirato quella mail tra le mani pensando di mettere per iscritto quello che aveva solo detto a parole, soprattutto da quando è morto ed entra nella biblioteca degli antenati, con cui invece non ho nessun problema a dialogare.

Potrei iniziare questa lettera dicendoti giusto che l’estate scorsa, in piena pandemia, dopo una dura rottura di cuore, mia madre ha trovato un rimedio offrendomi Topeka school.

Potrei dirti che i libri sono il feticcio rituale della mia famiglia, a metà strada tra una cura e una malattia: sono cresciuto condividendo la stanza con mio fratello maggiore perché ce n’era un’altra in cui le pile di libri salivano fino al soffitto, mio fratello nelle sue prime emancipazioni onanistiche si è trasferito li in mezzo, sfidando la polvere, ricavandone un problema alle adenoidi che durano fino ad oggi; 4 anni fa ci siamo ritrovati all’aeroporto di Napoli, con mia mamma dalla svizzera, mio fratello dalla spagna e io dalla Francia , per riportare a casa mio padre sotto forma liofilizzata in un’urna, e il nostro primo gesto rituale è stato entrare insieme nella libreria dell’aeroporto (lo scambio bilanciato tra peso dell’urna all’andata e peso dei libri al ritorno mi è apparso più evidente quando ho visto poi mia madre richiudere la valigia, prima di ripartire ) .Potrei anche dirti che quest’estate mio fratello mi ha rubato il mio libro (cioè il tuo, non fraintendermi) e se l’è letto ridendomi in faccia, quando in diretta in quei giorni mi è venuta a trovare la donna che mi aveva fatto piangere a vent’anni e cambiare continente, Nathalie, e che non rivedevo da quindici anni.

Potrei dirti che ho capito molto di più sulla mia emicrania (che mi ha bloccato a lungo e mi ha fatto scampare l’esercito) con te più che con Oliver Sacks.

Potrei dirti che forse non c’è nulla di strano e a questo servono i grandi autori, che riassumono meglio di altri tutto quello che viviamo.

Forse giusto un po’ di affetto in più, perché il tuo Kansas (con i suoi provincialismi di bulli e intellighenzia al riposo) sta alla mia Svizzera, come Buenos Aires alla tua New York.

Potrei parlarti del polipo, filo rosso in diversi miei lavori, raccontarti anch’io una storia divertente che mi è appena successa sul lavarmi le mani, chiederti se anche tu pensi che Caroline – anche se l’ho chiamata Giselle in un racconto – ha finto un tumore per farmi affezionare, oppure sottolineare punto per punto le nostre similitudini e attaccarti in tribunale.

Ma le tue storie non sono né tue né mie, sono forse solo la testimonianza acuta di una generazione che è confusa perché il manuale di istruzioni che gli avevano consegnato gli è subito scivolato via di mano e lo inseguono come un Buster Keaton impassibile lungo cascate e incroci ferroviari.

O forse potrei scriverti come si scrive a un Panda o a un Koala, stupito che esistano ancora i poeti, anche li, in mezzo ai grattacieli… .

 

Con affetto

Manuel Maria Perrone

La poesia e la stanza

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di Daniele Barbieri 

Entri in una stanza. Riconosci oggetti e ricorrenze: un tavolo, varie sedie, due finestre, una poltrona, le pareti, con quadri appesi e uno specchio, un mobile basso con alcuni soprammobili. Quello che vedi ha un senso: le forme che vedi ti trasmettono il senso delle cose cui appartengono, cose per sedersi, per guardare fuori, per appoggiare degli altri oggetti… La disposizione delle cose, con la sua ricorrenza, fa parte di ciò che trasmette il senso complessivo di familiarità, di poter essere a proprio agio nella situazione. Anche quando entri in un luogo sconosciuto, le ricorrenze ti aiutano a capire, a diminuire la complessità: le relazioni tra gli elementi che ricorrono permettono di definire meglio quelle con gli altri elementi. Resti abbastanza sperduto, certo, ma molto meno di quello che saresti in un luogo in cui fosse impossibile stabilire delle ricorrenze, e quindi un luogo apparentemente del tutto caotico, del tutto ingestibile. La sensazione della presenza di un ordine nelle cose, di un’organizzazione, ne facilita la comprensione, ne diminuisce la complessità, ci rende più facile capire come eventualmente comportarci.

Entri in un testo verbale, come quello che hai in questo momento sotto gli occhi. Riconosci parole allineate a formare sintagmi, proposizioni e periodi. C’è evidentemente un ordine, ma sai benissimo che si tratta di un ordine finalizzato a trasmettere un pensiero, ed è su quello che ti concentri, naturalmente. Quegli oggetti che sono le parole diventano perciò trasparenti, a vantaggio del loro significato. L’ordine sintattico rimane percepito ma smette di essere pertinentizzato, visto che la nostra attenzione è interamente rivolta a quello che le parole significano, e a trovare lì un ordine, e non una semplice giustapposizione di elementi irrelati: insomma, un discorso, magari la descrizione di una stanza, con gli oggetti che essa contiene.

C’è una stanza riprodotta in un dipinto. Riconosci un letto, due sedie impagliate, un tavolino/scrivania, una finestra chiusa, qualche quadro alle pareti e uno specchio, appesi al muro un asciugamano e degli abiti. La situazione non sarebbe diversa da quella che si verifica quando entri nella stanza reale: le forme rimandano alle cose e ai loro usi, esibendo tranquillamente il loro senso di base. Eppure da questo ordine facile, riconoscibile, emerge anche un secondo senso, un indefinibile senso di vaga oppressione, di banalità del quotidiano. Di fatto, è entrato in gioco un altro ordine, quello delle forme sul piano della tela, compreso l’andamento delle pennellate. Non lo noto al primo sguardo, perché la prima attenzione è naturalmente destinata a ricostruire il mondo rappresentato; ma siccome insieme percepisco che si tratta di una rappresentazione pittorica, mi aspetto che l’immagine voglia trasmettere anche del senso ulteriore, non limitandosi a semplicemente documentare quel frammento di mondo. Mi aspetto insomma che l’immagine non sia trasparente in quanto tale – come potrebbe voler essere, per esempio, una fotografia a scopo documentario, dove quello che conta davvero è l’oggetto fotografato. Così, la riorganizzazione plastica mi costringe a rivalorizzare quella dello spazio della stanza e dei suoi oggetti, alla ricerca di un surplus di significato. Diventa in questo modo rilevante, per esempio, anche il fatto che uno spazio così banale come quello di una stanza possa essere fatto oggetto di un discorso artistico (in un’epoca in cui dominavano i templi classici e i paesaggi fioriti). E, nella misura in cui si manifesta il senso vago di oppressione, entra a far parte dell’apprezzamento estetico anche il fatto che un discorso che sentiamo come profondo possa emergere dall’ostentazione di cose così banali come quelle che stanno nella stanza. La riconfigurazione le trasformerà poi per sempre: la prossima volta che vedremo delle sedie fatte così e così o un letto fatto così e così, qualcosa di questa indefinibile oppressione sarà entrato a far parte di loro. Il mondo si sarà arricchito; sedie e letto non saranno più semplici strumenti per sedersi o dormire.

Quando il testo verbale in cui entri è un testo poetico, riconosci come è normale le parole allineate a formare sintagmi, proposizioni e periodo. Procederesti anche qui, fondamentalmente ignorandole in quanto tali, se non fosse che in questa situazione le parole manifestano un ordine inconsueto, esibendo ricorrenze e configurazioni sintatticamente un po’ anomale. Questo ordine richiama la tua attenzione, invitandoti a dargli un senso, proprio come quando entri in un luogo non perfettamente conosciuto. Riconosci le parole, ma esse esibiscono rapporti con altre parole diversi dal solito, e rivestono perciò funzioni almeno in parte differenti, come cose note ritrovate in un contesto che non è quello in cui è normale vederle. Le parole sono ridiventate cose, oggetti-strumento, come una sedia o un letto che la diversa situazione ci costringe a reinterpretare. L’aspetto percepibile del testo diventa una rete di relazioni sonore (o visive). Ma non dobbiamo semplificare troppo: che “vita” faccia rima con “smarrita” non ci costringe di per sé a metterle necessariamente in relazione anche semantica (come vorrebbe il principio del parallelismo, suggerito a suo tempo da Roman Jakobson). Piuttosto, come l’andamento delle pennellate nel dipinto, ci invita a dedicare la nostra attenzione non solo a quello che le parole significano, ma anche all’ambiente sonoro (o visivo) che costruiscono.

In musica c’è solo questo: un universo dotato di un’organizzazione, senza alcun rimando esplicito di senso (né di funzione quindi), che arriva comunque a costruire un’evocazione di senso in virtù della propria stessa organizzazione. Kandinsky inventerà l’astrattismo pittorico proprio riflettendo su questa potenzialità della (inevitabile) astrazione musicale.

Ma anche in musica, quando una certa organizzazione arriva a caricarsi di un senso sufficientemente definito, finisce per portarselo dietro; e quando, occasionalmente, ritroveremo quella stessa organizzazione o una sufficientemente simile, pure quel senso farà la sua parte – proprio come quando rivediamo sedie impagliate e letti con testata di legno dopo l’esperienza del dipinto.

In poesia, l’organizzazione formale del livello percettivo lavora nel medesimo modo, ma si confronta, poi – inevitabilmente – con gli esiti del significato, e con le eventuali ulteriori organizzazioni che anche a questo livello possono emergere. Non c’è, insomma, un suono contrapposto a un senso, perché il suono stesso ha un senso in sé e il senso può avere un altro senso, e il rapporto tra il suono e questi sensi può avere un senso ancora. È il gioco che la poesia fa con le parole a sollecitare l’attenzione necessaria per rendersi conto di questa complessità.

Una complessità che anche la prosa potrebbe avere, ma che di solito essa non tende a sottolineare, autorizzandoci a fermarci alla dimensione più semplice, quella strumentale, funzionale, del linguaggio, che rende trasparenti le parole.

Diminuire la complessità di base (neutralizzando ritmo e metro, per esempio, o le deviazioni sintattiche) rende semioticamente più povera la poesia. Questo non è necessariamente una condanna dal punto di vista estetico, perché la prosa ci insegna che si possono creare effetti interessanti anche giocando soltanto sul livello del senso. In certi casi, poi, l’assenza di ciò che è atteso (p.e. il verso) è presenza di un’assenza, e quindi in sé significativa: la poesia si traveste da prosa, ma continua a dichiarare di essere tale, continuando così a richiedere un surplus di attenzione che la prosa non richiederebbe. In tutti i casi in cui non è nemmeno così, direi che siamo fuori dal campo della poesia.

Lo stretto di Dublino

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di Barry McCrea

 

Gennaio 2021

In Irlanda la temperatura, di solito moderata, è scesa a meno sette; la caldaia – manco a farlo apposta – si ferma, lasciandomi senza riscaldamento.

È sabato, le vie ghiacciate rendono pericoloso spostarsi in macchina e l’idraulico non può o non vuole venire. Siamo in piena pandemia e quindi non posso andare né dai miei né da un amico. Il mio simpatico vicino di casa s’intende di caldaie e si offre di aiutarmi. È un uomo ben radicato nel quartiere, anche se meno della moglie, figlia di una stirpe millenaria di pescivendoli ambulanti, donna vivace e fascinosissima che dimostra solo quaranta dei suoi settant’anni e che si mostra al vicinato un’unica volta all’anno quando viene alla mia festa di Natale – conquistando tutti i nostri ospiti con la sua eleganza, la straordinaria voce da soprano e le battute spiritose in dialetto dublinese – per poi scomparire di nuovo fino al Natale successivo. In lockdown, ovviamente, non c’è stata nessuna festa e quindi non la vedo da più di un anno. Anzi, siccome ha problemi di salute, bisogna evitare anche i contatti indiretti e quindi mi devo assentare da casa mentre il marito si dà da fare con la caldaia.

Fa un freddo boia. La pandemia ha chiuso tutti i rifugi – bar, caffè, biblioteche, cinema – dove in altri tempi mi sarei recato. Finora ho scrupolosamente onorato il motto di Dublino, Obedientia Civium Urbis Felicitas, ma ora mi concedo una deroga al regolamento che ci impone di non allontanarci più di cinque chilometri dal focolare domestico.

Sono tornato a Dublino da un paio d’anni dopo più di due decenni passati tra Italia e Stati Uniti. È un ritorno che suscita dei dubbi sull’età che ho: alcune parti della città, immutate dai tempi della mia giovinezza, mi riportano all’infanzia; in altre zone esistono non solo edifici nuovi ma nuovi luoghi, nuovi tipi di vita a me totalmente sconosciuti; provvisto di una mappa mentale rimasta a prati e piccoli sobborghi in pieno disaccordo con la attuale realtà topografica, sento accumularsi il peso dei vent’anni in cui sono stato via.

Dove andare mentre il vicino cerca di far ripartire il mio riscaldamento? Assurdamente, mi metto a pensare a come sia stato il ghiaccio a permettere agli antichi popoli dell’Asia di passare lo stretto di Bering e di scoprire terreni strani e meravigliosi. Quando i ghiacci si sciolsero a loro non restò che rimanere dall’altra parte per diventare col tempo gli “indiani” che Colombo incontrerà una ventina di millenni dopo. È in questo spirito che decido di sfruttare la mattinata di gelo per andare, per quanto posso, fuori città, a vedere un’altra realtà. Voglio visitare la famosa campagna della mia isola di smeraldo. Salgo sulla mia bicicletta e prendo il sentiero del Grand Canal in direzione ovest.

L’ovest è per me, e nell’immaginario culturale irlandese in generale, un luogo di fascino e mistero. Tutti i miei antenati nacquero, vissero e morirono nelle contee atlantiche di Connacht, là dove, secondo la mitologia nazionalista, si conserva l’anima del popolo irlandese nel suo stato più puro e autentico. Oggi non si tratta di mettersi “in viaggio verso occidente” come sogna Gabriel Conroy nelle ultime righe dei Dubliners di Joyce. Non intendo andare fino alla selvaggia costa atlantica, ma solo attraversare la nuova periferia di Dublino per vedere l’inizio della pianura di Leinster, ma, forse a causa della pandemia e del fatto che da mesi non mi sono allontanato più di 5 km da casa, la gita illecita mi sembra un’odissea piena di pericoli e promesse.

Il canale è completamente ghiacciato. È la prima volta che lo vedo così. Gli oggetti che di solito galleggiano gioiosamente prima di sprofondare o raggiungere il mare aperto – bottiglie di birra vuote, bicchieri di carta, una piccola carriola di plastica – sembrano stupiti, quasi vergognosi di trovarsi esposti ed immobilizzati sulla superficie del canale, un po’ come me, che, dopo aver girato il mondo per vent’anni mi ritrovo ingabbiato in un quartiere di Dublino.

Il primo tratto lungo il canale fa parte del quartiere in cui abito e che non lascio da nove mesi. Mentre procedo mi saluta qualche conoscente in giro a passeggio. Dopo giorni in cui non vedo un’anima, essere riconosciuto mi riempie di soddisfazione e di autostima. Di nuovo mi sento a metà tra un giovane e un vecchio: un po’ il figlio del macellaio che gira fischiettando per il paesino con un cestino pieno di salsicce e bistecche, e un po’ l’anziano vedovo del quartiere che fa a tutti un po’ pena e che accoglie con slancio eccessivo i saluti che raccoglie per strada.

Una volta superato l’incrocio dei binari del tram, finito il quartiere, non riconosco più nessuno. Costeggiando il canale, il paesaggio immediato rimane lo stesso, ma si capisce il carattere dei quartieri circostanti dai (pochi) passanti che affrontano la gelida mattinata. Per un po’ vedo soprattutto giovani maschi cinesi, sempre soli, sempre occhialuti, e tutti con l’aria di chi sta smaltendo una preoccupazione o una beffa, grave ma non gravissima. Poi, per molti chilometri, la riva è occupata da piccoli nuclei famigliari polacchi e russi. Nel mio quartiere, ormai lontano, sono loro, gli immigrati dei paesi dell’est, che sfruttano di più gli spazi pubblici, pur rimanendo sempre segregati: da un lato grandi assembramenti femminili che fanno picnic sui prati o nei cimiteri; dall’altro maschi che, da soli o in coppie, lanciano con grande destrezza la canna da pesca anche nelle acque più improbabili e poco promettenti. Oggi lungo il canale, però, sono in famiglia, sembrano particolarmente sorridenti e a loro agio. Un padre russo, ad esempio, indica un carrello pietrificato nel ghiaccio del canale e dice qualcosa che provoca una folle risata nella moglie e nel figlio di tre anni. Mi chiedo se la loro felicità non sia dovuta al gelo: magari il sole freddo, la brina per terra, il canale ghiacciato ricordano loro passeggiate mattiniere dell’infanzia a Cracovia o Ekaterinburg, forse con nonni o zii, a cui erano allora affezionati, ma che non ci sono più o che, ora che si sono trasferiti in Irlanda, non avranno modo di veder invecchiare. Oppure, invece, la pandemia impedisce ai genitori di andare al lavoro e di vedere gli amici, e così le famiglie semplicemente si godono questa tregua dagli obblighi sociali e professionali.

Per un breve tratto il canale è tagliato da una strada trafficata e per un momento rientro nel mondo abitato. Mi ritrovo così nel quartiere popolare di Clondalkin. Un cartello mi indica la torre, che risale al VII secolo. Non sapevo, o non mi ricordavo, che Clondalkin è nato intorno ad un monastero medievale. Spuntando assurdamente tra il supermercato “Moldavia”, un takeaway pakistano e un negozio di sigarette elettroniche, l’antica torre mi ricorda le bottiglie buttate nel canale e rese inopinatamente visibili dal gelo che le ha immobilizzate. Decido di andare a vederla da vicino ma intravedo con la coda dell’occhio un posto di blocco della polizia. Sono ormai a più di nove chilometri da casa, quasi il doppio della distanza consentita per legge, quindi rinuncio alla torre e continuo a costeggiare il canale.

Man mano che mi allontano dal centro il paesaggio si trasforma in una miscela di vegetazione e cemento. Sono quartieri talmente nuovi che non hanno ancora dei veri nomi, luoghi che io non conosco per nulla ma che per una gran parte della popolazione costituiscono la realtà quotidiana che loro identificano con “Dublino”.

Il ponticello di Ballymakaily, nel villaggio di Lucan, è il vero confine tra città e campagna. Da lì in poi, l’argine diventa fango ghiacciato. Le povere ruote della bici urtano in continuazione contro solchi induriti; scendo per continuare a piedi. Tra i rovi fittissimi intravedo campi distesi, qualche quercia che spunta qua e là, e, sull’orizzonte, le colline coperte di neve.

Più vado avanti e più mi trovo avvolto dalla serenità vetusta della campagna. Sembra tutto lontano: la pandemia, il mio quartiere, la caldaia rotta. Il freddo non dà tregua ma il sole è bello e brillante. È più di un’ora che pedalo senza sosta. Ho allo stesso tempo freddo e caldo.

I passanti che incontro sono pochissimi: qualche russo con cane, ma soprattutto pensionati irlandesi che passeggiano da soli. Non gli basta il saluto consueto. Sarà perché stiamo ormai entrando in campagna, o forse perché non sto più andando in bicicletta, oppure la monotonia di questi mesi di lockdown, ma ognuno vuole fermarsi a scambiare due chiacchiere. Fanno commenti enfatici sul grande gelo, felici finalmente di avere un argomento alternativo alla peste infinita.

Attraversato un bel ponte settecentesco, alquanto malconcio, non vedo più nessuno e spingo la mia bicicletta in solitudine. È una solitudine talmente diversa da quella che vivo a casa che colui che vive nella casetta del mio quartiere a cui si è rotta la caldaia nel giorno più freddo dell’anno sembra essere un personaggio da romanzo con cui io non ho niente a che fare.

Il canale comincia a curvare impedendomi di vedere dove porta la strada davanti a me. Il sentiero prende una salita e gli alberi si fanno più fitti, quasi fossimo in un bosco. A quest’atmosfera d’avventura s’aggiunge il fatto che so per certo che la fine della contea di Dublino non può essere lontana. Nello spirito di chi fa un grande viaggio importante, mi sento spronato ad andare all’estero e mettere piede nella contea di Kildare. Mi aspetto che il confine sia subito dopo la curva e accelero il passo.

A cinquanta metri da dove mi trovo vedo una persona che, come se ci trovassimo in una calda giornata di luglio, è per metà sdraiata e per metà seduta tra i cespugli. È un uomo brizzolato con accanto una bicicletta e uno zaino. Mi guarda mentre mi avvicino con un’aria più stupefatta che diffidente. Forse si aspettava di trascorrere una mattinata solitaria sull’argine, forse non è abituato ad accogliere intrusi in questo tratto di terreno.

Come che sia, dal suo atteggiamento risulta chiaro che bisognerà scambiare qualche parola con lui prima di procedere oltre la curva fino a Kildare e inoltrarsi per la campagna. Ci salutiamo. Lui mi chiede con l’aria ufficiale del doganiere che ci sono venuto a fare fin qui. Gli spiego che mi si è rotta la caldaia. Mi viene il dubbio che sia un clochard e che sia indelicato da parte mia, se non crudele, parlargli di case riscaldate. Lui mi ascolta con un’aria tra l’annoiato e l’incredulo quasi fossi Marco Polo e stessi raccontando con troppi dettagli a un gondoliere veneziano la mia visita alla corte del Kublai Khan, un interlocutore non necessariamente scettico ma certo con ben altro da fare.

Gli chiedo che cosa si trova dietro la curva e mi dà una risposta ambigua. Gli chiedo se Kildare sia vicino e lui sembra annuire. Mi dice che tiene dei cavalli nei campi lungo il canale. Non capisco se sia un contadino allevatore di Kildare (le cui pianure erano rinomate per l’allevamento dei cavalli già ai tempi delle antiche epopee gaeliche) oppure un senza-tetto dublinese. Comunque sia, ho la forte sensazione che il significato che dà al termine “tenere” non sia strettamente giuridico.

Gli chiedo di nuovo che cosa mi aspetta dopo la curva. Mi dice che il sentiero va avanti. Quanto? Fa un gesto che significa qualcosa come “infinito” e poi aggiunge “almeno fino a Celbridge.” Quindi il confine della contea non è lontano? Risponde che la scelta ovviamente è mia, ma che lui mi sconsiglia vivamente di proseguire. Il sentiero è pericoloso, il disgelo è imminente e il terriccio si disgregherà con il rischio che mi trovi con la bicicletta incastrata nel fango. Più insiste e più ho l’impressione che il vero motivo per cui mi scoraggia non sia il timore per una mia eventuale disavventura in un sentiero paludoso ma un’altra ragione tutta sua. Forse si sente il proprietario del terreno circostante e non vuole che sia disturbato da estranei? O forse il movente è tutto diverso, magari multiplo e complicato.

Mi appare come una divinità celtica travestita, messa qui apposta per avvertirmi, per sfidarmi o per proteggere un suo favorito che si nasconde dietro la curva. Dopo un ultimo sussulto e un’ultima esitazione se proseguire o no, lo saluto e torno indietro, verso est.

Squilla il telefono. Il vicino mi rassicura che la caldaia è riparata e mi aspetta una casa calda. Poco dopo il ponte di Ballymakailey, appena rientrato in città, mi fermo per fotografare una capanna abbandonata. La firma di un tagger sull’architrave è di un mio omonimo. Dalle case popolari alle spalle spunta un ragazzino di circa 13 anni, il cappuccio della felpa annodato stretto contro il freddo.

“Buongiorno.”

Siamo già nella periferia urbana ma, come spesso fanno i bambini di campagna, egli si comporta come un vecchio signore, mi fa l’occhiolino con un’aria d’intesa “tra uomini di mondo”. Fa un riferimento al canale ghiacciato come uno che d’inverni ne ha visti innumerevoli. Poi mi fa una domanda infantile, se ci si può camminare sopra, se secondo me il ghiaccio resisterebbe. In un primo momento sono scioccato dall’idiozia della domanda, ma presto mi rendo conto che vuole soltanto trattenermi per fare un po’ di conversazione. Con le scuole chiuse e i genitori che lavorano a casa, gli è venuta forse la voglia di fare due chiacchiere con un adulto che non sia un parente.

Prima di ripartire, dunque, mi fermo qualche minuto per ascoltare questo bambino mentre discorre, con un tono di grande e antica saggezza, del freddo, dei tempi che corrono, di cavalli selvaggi, di acque che si gelano e che poi si sciolgono.

*

Barry McCrea (1974) è uno scrittore irlandese. Ha pubblicato il romanzo The First Verse (2005) e due libri di saggistica, In the Company of Strangers (2011) e Languages of the Night (2015). Insegna letterature comparate nelle sedi di Dublino e Roma della University of Notre Dame.

 

Farsi o meno vaccinare. La riappropriazione del corpo avverrà collettivamente oppure non avverrà

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di Andrea Inglese

1. Il rifiuto di vaccinarsi, oggi, riposa su di una grande speranza: quella di mantenere individualmente un controllo sul nostro corpo, quella di controllare, attraverso scelte individuali, ciò che determina o influisce in modo rilevante sul nostro metabolismo, sulla nostra salute, sull’intero equilibrio psicofisico. Penso che questa speranza sia del tutto legittima, ma illusoria. Una notevole quantità di fatti dimostrano che un controllo individuale sulla salute del proprio corpo è da tempo impossibile. Non solo sappiamo sempre troppo tardi, e non solo per ragioni scientifiche, ma soprattutto economiche e politiche, ciò che è nocivo nell’aria che respiriamo, nei materiali con i quali lavoriamo o che costituiscono il nostro ambiente architettonico, nei cibi o nelle bevande che ingurgitiamo. Evidentemente sogniamo che il nostro corpo sia sottoposto a un destino naturale, che degli agenti esteriori, da noi in gran parte controllabili, possano venire eventualmente a perturbare. Non è solo la stessa pandemia, ovviamente, a mostrare che questo non è possibile. Anche la semplice scelta di attuare dei comportamenti individuali protettivi di sé e degli altri non è lasciata alla sovrana deliberazione del singolo. Se qualcuno, da qualche parte del mondo, non produce un certo numero di maschere, noi non avremo maschere per proteggerci. Succede con la salute quello che accade con il lavoro: alla fine non ci si salva individualmente. La salute del corpo, come l’attività professionale che realizziamo, su scala sociale, ossia al di fuori della circostanza singola, dipendono dalla divisione mondiale del lavoro e dai rapporti di produzione, che riguardano anche l’esercizio della medicina e la ricerca scientifica. Ora, non si tratta semplicemente di constatare che il nostro corpo (la sua presunta “naturalità”) non ci appartiene più, ma di rendersi conto che la lotta per la sua riappropriazione passerà per l’azione collettiva (per la politica) oppure non avverrà.

2. Ho avuto il covid a fine settembre, senza conseguenze gravi. Per quanto tempo avrei potuto essere immune dal virus? Quattro, sei, otto mesi? Per un po’ di tempo ancora, certo, ma dati incontrovertibili non ne circolavano. A maggio, mi sono reso conto che avevo voglia di viaggiare, che se le frontiere venivano aperte, avevo voglia di attraversale senza sottopormi allo stillicidio di esami continui. Alla fine ero pronto a prendermi persino il rischio di farmi iniettare Astrazeneca, che nel frattempo, non senza qualche buona ragione, era diventato il Baubau dei vaccini. Quando ho avuto, poi, l’occasione di vaccinarmi con Pfizer, ne ho approfittato subito. Per un certo tempo anch’io, in virtù della momentanea immunità da ex-contaminato, mi ero detto: “Ma che fretta c’è? Aspettiamo un po’. Vediamo come vanno questi vaccini.” Poi ho capito che gli effetti negativi a breve termine, se c’erano, venivano a galla rapidamente (caso Astrazeneca), mentre per quelli a lungo termine, ammesso che ci fossero, non si sarebbero valutati sull’arco di cinque o sei mesi, e nemmeno di un anno. La pandemia, invece, aveva tempi molto più stretti. Confinamenti e ritorni alla vita normale si decidevano in pochi mesi, così come possibili nuove ondate, legate o meno a varianti. C’era, insomma, una scommessa da fare, ed essa si basava sulla maggiore fiducia assegnata a una strategia collettiva piuttosto che a una individuale. Quest’ultima confidava che, da solo, senza l’aiuto della medicina e senza alcuna fiducia nelle istituzioni, avrei garantito meglio la mia salute. Il problema è che sia a monte della pandemia (le cause umane che hanno contribuito al suo scatenamento – e qui poco importa che siano identificabili nell’eccessiva deforestazione o persino nell’incidente di laboratorio – ) sia a valle, (l’indebolimento delle istituzioni sanitarie, per politiche di riduzione della spesa pubblica), tutto si gioca sul piano del funzionamento globale della società, sul quale non sarà possibile agire che in modo collettivo e coordinato, ossia uscendo da strategie individuali che non saranno mai in grado di essere all’altezza dei problemi. Questa visione delle cose è a sua volta frutto di una scommessa, e questa però non è fondata su alcun dato. Nonostante cioè sia chiaro che la riappropriazione del corpo non potrà avere senso e avvenire che in termini collettivi (e quindi mediati), nulla garantisce che un tale obiettivo politico sarà realizzato in misura rilevante nel futuro. Qui si parla di mutamenti eccezionali, di carattere rivoluzionario. Nessuna sciagura storica di per sé li produrrà necessariamente, se le persone non decidono di produrli, o non vogliono tentare almeno di farlo.

Il libro della follia

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di Rosaria Lo Russo

Il libro della follia è la prima traduzione integrale in italiano della prima edizione di The Book of Folly, che Anne Sexton diede alle stampe nel 1972. Qui lo stile confessional, che aveva reso celebre l’autrice, fruttandole alla fine degli anni sessanta il prestigiosissimo Pulitzer Prize, giunge alla piena maturità, trasformando il teatro confessionale dell’io lirico nel Gran Teatro psichedelico delle allegorie transpersonali. La Signora Benestante che scrive occasionalmente versi rispettando le forme metriche lascia il posto, definitivamente e consapevolmente, al personaggio della Poetessa Martire della società benpensante, e all’aspirante suicida, ma non prima di aver effettuato il rovesciamento parodico dei valori patriarcali, accostando l’alto senso del tragico all’ironia e alla caricatura, la metafora lirica al sarcasmo più candidamente blasfemo. Nell’unico libro in cui Anne Sexton, diversamente femminista e profeta di tempi peggiori, sperimenta con la prosa, inscenando in tre “storie” l’anoressia, il femminicidio e il suicidio-della-poetessa, assistiamo al crollo delle fondamenta dei luoghi comuni e dei riti borghesi e religiosi del puritanesimo statunitense. Con una scrittura più vicina a quella delle canzoni rock che alla poesia sua contemporanea, la lingua inconfondibile della Follia di Anne Sexton ha influenzato, per stile e tematiche, non solo la poesia successiva americana e poi internazionale, ma anche la scrittura di divi del pop rock come Peter Gabriel e Kate Bush.

di Anne Sexton (traduzione di Rosaria Lo Russo)

L’Accumulatrice seriale

L’ozioso è come un pugno di sterco; chi lo raccoglie se lo scrolla di mano

Siracide

C’è qualcosa laggiù
che devo afferrare e scavo
e la gente schiatta e i topi
muschiati vengono a galla a pancia all’aria
e si aprono al mio tocco come
fiocchi di cereali eppure devo
scavare perché c’è
qualcosa laggiù dentro l’oro-
logio di Nana l’ho rotto sba-
gliando scavavo anche allora
dovevo scoprire e snàppete
e cràcchete la mano si ruppe come
uno stuzzicadenti ma non l’ho imparato
continuo a scavare qualcosa
laggiù è la banconota da cinque
dollari di mia sorella che ho strappato perché
non era mia erano soldi di scena
non era mio qualcosa laggiù
scava scava vincerò
qualcosa come la mia prima bici
al primo traballante tentativo di equilibrio
una cavalletta che vola lei
del corridoio puzzolente di muffa
era molto prima molto prima era
la mia prima bambola che l’acqua
ci entrava e l’acqua ci usciva molto
prima era il pannolino che avevo
addosso sporco e mia
madre mi odiava per questo e io
mi amavo per questo ma l’odio
vinceva, no?, certo, e il disprezzo
vinceva e il disgusto vinceva e per
questo io sono un’accumulatrice di parole
le tengo dentro anche se sono
sterco oh Dio sono una che scava
non sono un’oziosa
vero?

*

Ammazzare la primavera

Quando le piogge fredde insistenti ammazzarono la primavera, fu come se una persona giovane fosse morta senza alcun motivo.

Ernest Hemingway, Festa mobile

La primavera fu sepolta da una ruspa.
Lei non voleva, non voleva, non voleva.
Tardo aprile, tardo maggio
e le piogge metalliche insistevano.
Dalla finestra grigio pistola guardavo
i tulipani atterriti sgangherare
abbattuti come piccioni.

Allora ignorai la primavera.
Mi misi i paraocchi e cavalcai un ciuco
in cerchio, un tiepido cerchio.
Ho cercato di cavalcare in eterno
ma sono ritornata.
Ho ingoiato la mia carne acerba
ma è ritornata.
Ho messo una croce sopra alla memoria
ma è ritornata.
Ho messo il tempo alla catena
ma è ritornato.

Allora ho infilato la testa in una ciotola di morte
e gli occhi si sono chiusi come vongole.
Non sono ritornati.
Fui dichiarata legalmente cieca
dai miei libri, dalle carte.
I miei occhi celestiali
non sono voluti ritornare.
I miei occhi, quelle due zoccole troie,
non volevano più giocare.

Allora mi sono inchiodata le mani
su una scatola di legno di pino.
Ho seguito le vene blu
come una carta stradale al neon.
Le mani, un paio di orsi, le due toccatrici,
non si dilungavano più a parlare.
Non tentavano più di mettersi in gioco.
Trafitte all’oblio,
non sono ritornate.
Dismesse le loro abominevoli abitudini,
si allenavano alla crocifissione.
Non potevano rispondere.

Allora ho preso le mie orecchie,
un paio di lune fredde,
e le ho fatte annegare nell’Atlantico.
Non portavano maschere.
Non si facevano ingannare dalle risate.
Non erano luminose come l’orologio.
Affogarono come uccelli ricoperti di petrolio.
Non sono ritornate.
Con le mie ossa addosso sulla scogliera
le ho aspettate, se gallassero a macchia d’olio.
Ma non sono ritornate.

Non ho potuto vedere la primavera.
Ascoltare la primavera.
Toccare la primavera.
C’era una volta una persona giovane
che morì senza alcun motivo.
Come me.

***

The hoarder

An idler is like a lump of dung; whoever picks it up shakes it off his hand.

Ecclesiasticus

There is something there
I’ve got to get and I dig
down and people pop off and
muskrats float up backward
and open at my touch like
cereal flakes and still I’ve
got to dig because there is
something down there in my
Nana’s clock I broke it I was
wrong I was digging even then
I had to find out and snap
and crack the hand broke like
a toothpick and I didn’t learn
I keep digging for something
down there is my sister’s five
dollar bill that I tore because
it wasn’t mine was stage money
wasn’t mine something down there
I am digging I am digging I will
win something like my first bike
teetering my first balancing act
a grasshopper who can fly she
of the damp smelling passageway
it was earlier much earlier it
was my first doll that water went
into and water came out of much
earlier it was the diaper I wore
and the dirt thereof and my
mother hating me for it and me
loving me for it but the hate
won didn’t it yes the distaste
won the disgust won and because
of this I am a hoarder of words
I hold them in though they are
dung oh God I am a digger
I am not an idler
am I?

*

Killing the spring

When the cold rains kept on and killed the spring, it was as though a young person had died for no reason.

Ernest Hemingway, A Moveable Feast

Spring had been bulldozed under.
She would not, would not, would not.
Late April, late May
and the metallic rains kept on.
From my gun-metal window I watched
how the dreadful tulips
swung on their gs,
beaten down like pigeons.
Then I ignored spring.
I put on blinders and rode on a donkey
in a circle, a warm circle.
I tried to ride for eternity
but I came back.
I swallowed my sour meat
but it came back.
I struck out memory with an X
but it came back.
I tied down time with a rope
but it came back.

Then
I put my head in a death bowl
and my eyes shut up like clams.
They didn’t come back.
I was declared legally blind
by my books and papers.
My eyes, those two blue gods,
would not come back.
My eyes, those sluts, those whores,
would play no more.

Next I nailed my hands
onto a pine box.
I followed the blue veins
like a neon road map.
My hands, those touchers, those bears,
would not reach out and speak.
They could no longer get in the act.
They were fastened down to oblivion.
They did not come back.
They were through with their abominable habits.
They were in training for a crucifixion.
They could not reply.

Next I took my ears,
those two cold moons,
and drowned them in the Atlantic.
They were not wearing a mask.
They were not deceived by laughter.
They were not luminous like the clock.
They sank like oiled birds.
They did not come back.
I waited with my bones on the cliff
to see if they’d float in like slick
but they did not come back.

I could not see the spring.
I could not hear the spring.
I could not touch the spring.
Once upon a time a young person
died for no reason.
I was the same.

***

Testi tratti da Anne Sexton, Il libro della follia (La Nave di Teseo, 2021)

Rossana Rossanda e gli altri rabdomanti

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di Velio Abati

La poesia di Tommaso Di Francesco nasce e vive in una controscena. Uomo pubblico dalla sua militanza nella “nuova sinistra” del Sessantotto, politico-giornalista di quella particolare forma della politica, che il quotidiano “Il Manifesto” è, nel quale ricopre la carica di codirettore e di responsabile della pagina degli esteri, ha da sempre derivato da quella passione intellettuale e morale una non minore necessità poetica. I “foglietti in tasca” che il poeta si porta dietro registrano sì i fatti con i quali è alle prese il politico, ma costretti alle fratture, allo scarto delle vite proprie e altrui, che l’azione politica non riesce, ancora o mai, a ricomporre.

Invece la nuova raccolta I rabdomanti. Quattro poemetti, quattro poesie colloquiali e una favola (Manifestolibri, 2021, pp.83, €.8,00), dedicato ai fondatori del “quotidiano comunista”, di cui quest’anno ricorre il cinquantenario, incrina e forza la separazione tra le due scene. Non che Di Francesco non avesse già scritto sui suoi compagni di redazione, ma con il distanziamento dello scherzo epigrammatico, in consonanza con i ben noti titoli del “Manifesto”.

Otto sono i fondatori “rabdomanti” alla cui scomparsa il poeta volge la pietas della pagina: Aldo Natoli, Luigi Pintor, Lucio Magri, Eliseo Milani, K.S. Karol, Rossana Rossanda, Valentino Parlato e Lidia Menapace; un componimento ciascuno, eccetto Rossanda cui è dedicata anche la prosa della favola in chiusura del prosimetro. Il cortocircuito tra le due scene produce sommovimenti, tensioni divergenti e persino eterogenee, già palesati dal sottotitolo composito. L’andamento lieve della favola Mefis è tornata – registro da Di Francesco già sperimentato in un libretto per bambini illustrato, come questa volta la copertina, da Mauro Biani – è solo il fenomeno più vistoso: le divaricazioni operano in profondità nel tessuto stesso dei testi poetici, sottoposti a una doppia polarizzazione. Ora, le alchimie oscure della germinazione poetica, che attengono, credo, al differente vissuto nella redazione e nella militanza, sbocciano in testi brevi di una lingua sorprendentemente piana, ricca persino di rime baciate, non aliena da tenerezze: “Sopra il destino dell’uomo soffiava / il vento Eliseo, né zefiro né burrasca / ma tramontana irriducibile, costante” (La forza in disparte, per Eliseo Milani), “Sei l’unico impermeabile di Bogart / rimasto, che dentro protegga / l’infanzia d’una guardia rossa” (K.S. Karol, il leggendario Solik); aperta addirittura alla giocosità in Il zunzuncito, dedicata a Lidia Menapace.

Ora, invece, e sono i testi più lunghi, le tensioni intellettuali e politiche, le ambivalenze esasperano i caratteri propri della poesia di Di Francesco, mai di facile lettura, perché il dolore delle sconfitte, gli smarrimenti esistenziali della mente e dell’animo di cui essa si fa carico (e tutti i rabdomanti cantati ne sono stati segnati con l’autore, testimone e parte vivente) hanno accesso alla pagina solo fortemente mentalizzati, mentre gli eventi, le circostanze che ne sono stati cauterizzati vengono drammaticamente sfrondati, quasi divelti dal tessuto della cronaca e restituiti come bronconi irriconoscibili eppure sanguinanti, una forza dislocatrice e abrasiva che deforma lo stesso andamento ritmico-sintattico. La poesia che ne sorge non è, com’è stato detto, allegorica, ma violentemente sineddotica e, in modo più intermittente, analogica. Da questa controscena e dalle sue dinamiche nascono la difficoltà, le asperità, il rifiuto della confidenza e insieme l’affidamento costante alla poesia.

Il nuovo Decamerone

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di Antonella Falco

Aa.Vv. Nuovo Decameron, HarperCollins 2021, pp. 217.

«Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire», e ancora: «È classico ciò che tende a relegare l’attualità al rango di rumore di fondo, ma nello stesso tempo di questo rumore di fondo non può fare a meno», ed «è classico ciò che persiste come rumore di fondo anche là dove l’attualità più incompatibile fa da padrona».

Vengono in mente le celebri definizioni elencate da Italo Calvino in Perché leggere i classici, prendendo in mano il Nuovo Decameron pubblicato a inizio febbraio da HarperCollins, che, dopo il buon riscontro di critica e pubblico ottenuto con la pubblicazione de Le nuove Eroidi (otto rivisitazioni delle eroine del mito cantate da Ovidio, affidate alla penna di otto autrici contemporanee, in occasione dei duemila anni dalla morte del grande poeta latino), torna a scommettere su «la forza eversiva e l’attualità perenne dei classici, testi senza tempo, che da un passato più o meno lontano sembrano essere in grado di alludere sempre a un futuro che si deve ancora compiere».

In quest’anno drammaticamente dominato dalla pandemia e dalle conseguenti misure di contenimento, la scelta del classico da omaggiare è per forza di cose caduta sul Decameron di Giovanni Boccaccio, opera basilare della letteratura italiana ed europea, nella quale, com’è noto, un gruppo di giovani aristocratici, sette donne e tre uomini, per trovare scampo alla peste che imperversa nella Firenze del 1348, si reca a dimorare in campagna, autoimponendosi quello che oggi chiameremmo un “lockdown” e allietandolo con il vicendevole racconto di storie. Così la casa editrice ha chiesto a sette scrittrici e tre scrittori dei nostri giorni di sostituirsi ai dieci novellatori boccacceschi e di fornire una personale reinterpretazione di una novella del Decameron, secondo due possibili modalità: riscrivere alla propria maniera e con estrema libertà una delle novelle originali, oppure riscrivere ex novo un racconto che fosse però incentrato su uno dei “temi di giornata” del libro, assegnati ogni volta dalla regina o dal re di turno. Il risultato è una raccolta variegata e piacevolmente sorprendente, che dialoga con il testo originale con intelligenza e ironia, e, alternando fedeltà e tradimenti, ci consegna dieci racconti, ognuno caratterizzato da una sagace intuizione narrativa e/o linguistica che lo rendono appassionante e godibile anche agli occhi del lettore più purista, il quale potrebbe, di primo acchito, storcere il naso di fronte a un simile esperimento di attualizzazione del capolavoro boccaccesco.

Fra i vari racconti è certamente degno di menzione quello di Michele Mari che riprende la IX novella della V Giornata, ossia quella di Federigo Degli Alberighi. Secondo la novella boccaccesca, narrata da Fiammetta, Federigo è un giovane e cortese nobiluomo fiorentino innamorato di monna Giovanna, per conquistare la quale consuma le sue ricchezze tra doni e feste, che lo riducono in povertà senza che riesca a farsi amare dalla donna. Si ritira allora a vivere in campagna, con pochi mezzi e la sola compagnia di un falcone da caccia, ultimo vestigio dell’antica nobiltà. Rimasta vedova e ricca, Giovanna si trasferisce, col figlio, per le vacanze estive, in campagna, in una casa non lontana da quella di Federigo. Tra l’uomo e il ragazzo nasce un’amicizia e, quando il giovane si ammala, chiede alla madre di farsi dare da Federigo il falcone, convinto che tale dono potrebbe guarirlo. Giovanna, pur riluttante, cede, per la salute del figlio, e si reca a pranzo da Federigo. L’uomo, colto di sorpresa, non avendo cibo a lei adatto, decide, in ossequio alle leggi cortesi, di imbandire per la donna amata la vivanda più preziosa che possieda: il suo adorato falcone. Quando, a fine pasto, Giovanna avanza la propria richiesta, Federigo, disperato, le rivela il motivo per il quale non può soddisfare il desiderio del giovane. Giovanna lo rimprovera di aver sacrificato il suo falcone solo per farlo mangiare a una donna, ma rimane colpita da tanta magnanima generosità. Morto il figlio, e rimasta sola, i fratelli fanno pressione su Giovanna affinché si risposi, e lei, pur non sentendone il bisogno, sceglie, se proprio deve rimaritarsi, di prendere come sposo Federigo. Così dopo tante peripezie i due si uniscono in matrimonio e vivono felici. Questo, almeno, nella versione originale. Mari, invece, si mantiene fedele al testo boccaccesco solo nella prima parte, per poi trasformare la novella in un racconto gotico con tanto di apparizioni fantasmatiche che si susseguono in un crescendo di tensione non privo, come nella migliore tradizione marista, di colte citazioni  (la «libbra di carne» di shakespeariana memoria) e di risvolti metanarrativi (come quando ad apparire al febbricitante Federigo è lo stesso «Giovanni Boccacci da Certaldo», il quale vaticina di un altro misterioso scrittore, «di me assai più oscuro», che «passati da sei a sette secoli verrà» e narrerà la vicenda di Federigo in termini ben diversi da quelli tramandati dall’autore del Decameron. Profetico annuncio dietro cui si cela un riferimento allo stesso Mari e alla presente rilettura della IX novella della V Giornata). A rendere il tutto ancora più coinvolgente e realistico è la ben nota capacità mimetica dell’autore milanese che, come già in altre occasioni – basti pensare, per fare solo un esempio, all’italiano sette-ottocentesco del giovane Leopardi, in Io venia pien d’angoscia a rimirarti – riesce a ricreare mirabilmente la lingua del Trecento e consegnare al lettore un altro magistrale apocrifo letterario.

Costruito su piani temporali diversi, quasi come in un montaggio cinematografico, il racconto di Antonella Lattanzi, che ha un incipit in medias res, si ispira, attualizzandola, alla VII novella della VIII Giornata: quella di Elena e Ranieri. Com’è noto, nella novella boccaccesca, Ranieri è un giovane che torna a Firenze dopo aver trascorso vari anni di studio a Parigi e che si innamora di una bellissima giovane vedova, Elena, la quale però ha già un amante e solo per gioco mostra di ricambiare il suo amore. Una sera d’inverno lo invita a casa sua per poi fingere di non poterlo ricevere a causa dell’improvvisa visita di un fratello e lo costringe ad aspettarla al freddo, nel cortile, mentre lei trascorre la notte in compagnia dell’amante. Ranieri, avendo passato la notte al gelo, si ammala, rischiando non solo di perdere l’uso di braccia e gambe, ma anche di morire, tuttavia si salva e continua a fingersi innamorato di Elena solo per poter cogliere il momento propizio per vendicarsi. L’occasione si presenta quando, qualche mese dopo, la donna viene lasciata dall’amante per un’altra. Dietro suggerimento della sua fantesca, Elena si reca da Ranieri, uomo di studio che, nella sua vasta cultura, potrebbe conoscere qualche sortilegio per riaccendere l’amore del compagno perduto, e lo prega di aiutarla. Allora Ranieri finge di conoscere una malia che faccia al caso suo e convince Elena a salire, nuda, sul tetto di una torretta disabitata, in aperta campagna. Elena segue le indicazioni di Ranieri, ma quando, con il passare delle ore, non riceve la visita pronosticatale dall’uomo, capisce di essere stata ingannata. Tuttavia si consola pensando che la beffa di Ranieri è in fondo più lieve dell’originale, perché è una notte d’estate, piacevole e fresca. Ma Ranieri la lascia sulla torre anche tutto il giorno successivo, sotto il sole cocente che le brucia la pelle, mentre la testa sembra scoppiarle per la forte calura, la gola è riarsa dalla sete, e mosche e tafani la tormentano. Solo col giungere della sera Elena viene liberata e da quel giorno si terrà lontano tanto dagli uomini e dall’amore quanto dalle beffe.

Nella rielaborazione operata dalla Lattanzi la novella ha un epilogo drammatico che viene preparato attraverso un crescendo di tensione erotica e pathos. Tutto il racconto è costellato di frasi che alludono e preannunciano la tragica vendetta messa in atto da Ranieri:

 «[Elena] Aveva caldo. Un caldo bellissimo. Non aveva idea, allora, di quanto si potesse avere caldo davvero. Di come ci si potesse sentire dentro il sole, rinchiusi in quella palla di fuoco. Di come si potesse morire».

Frasi che nella prima parte della storia sottolineano anche la bellezza conturbante di Elena e il suo carattere passionale. Una sensualità che troverà il suo contraltare nell’esito mortale della vendetta di Ranieri, secondo il consolidato binomio di Eros e Thanatos:

«Elena era nuda, sudata nel caldo della casa – ma non sapeva, al tempo, cosa voleva dire caldo per davvero – sul corpo giovane di Alessandro».

La nudità di Elena, nella notte della beffa a Ranieri, che rischia di morire assiderato, mentre lei fa l’amore più e più volte col suo Alessandro, è «tutta da succhiare»: un’immagine che contrasta con quella che sarà la nudità di Elena sulla torretta, con le carni esposte non soltanto al sole, ma anche agli insetti – mosche e tafani – pronti a succhiarle il sangue.

In quella notte di sesso sfrenato e di crudeltà gratuita, i due amanti spiano Ranieri, che cerca come può di scaldarsi sotto l’infuriare della tempesta di neve:

«Loro vedevano perfino le smorfie che faceva Ranieri, sotto il lampione che lo illuminava come un sole, però gelido» (corsivo mio)

Qui, l’immagine del sole – il finto sole che è il lampione – è gelida, in contrasto al sole cocente di agosto che brucerà la pelle di Elena.

Quando Ranieri mette a punto il suo stratagemma per vendicarsi, i segni della progressiva disidratazione e delle ustioni solari sul corpo nudo di Elena sono descritti con raccapricciante precisione:

«Aveva avuto fame e sete fino a un certo punto, ma da qualche tempo aveva solo sete. Una sete pazzesca – mai provata una cosa del genere in vita sua. […] E già da ore la pelle prima si era arrossata, poi si era punteggiata di rosso – un prurito da impazzire, dappertutto – e adesso erano comparse delle bolle che si gonfiavano sotto le sue dita, si gonfiavano come fossero vive, come stesse nascendo qualcosa di orribile da dentro di lei, e poi, quando erano turgide come bozzoli, si spaccavano. La sete la faceva delirare, non riusciva a deglutire, aveva in bocca qualcosa di spugnoso, ruvido, che diventava sempre più duro, come un corpo estraneo. […] Il calore infernale le sfocava i pensieri, l’allucinava, e un mal di testa che non rimaneva solo sulla testa ma si spandeva in tutto il corpo, era come se avesse mille teste, e ognuna di loro stesse esplodendo. […] E non poteva piangere, perché l’acqua che aveva dentro le serviva. E non sentiva già quasi più le piaghe da ustione che le si erano aperte sotto i piedi, e su tutto il corpo. […] Dalle labbra le usciva del sangue. Da tutto il corpo le usciva del sangue. Si stava seccando e spaccando tutta. Rinsecchiva sotto il sole. Ma era ancora piena di bolle, sempre di più, quando si rompevano la irradiavano di spilli. […] Quella che si affacciò alla balaustra non era Elena. Era un essere mostruoso che stava ardendo vivo. […] E poi qualcosa si affacciò alla balaustra. Non era una donna. Era un serpente senza pelle. Era un ceppo di legno bruciato. Era stato, forse, un essere umano. Ma adesso era morto».

Mentre si consuma la lenta e terribile agonia di Elena, Ranieri è «dilaniato» fra gli opposti sentimenti della compassione e della vendetta. A nulla servirà la decisione, presa in extremis, di salvare la giovane donna: un epilogo tragico incombe su entrambi, suggellando con la morte una storia di passioni forti ed esasperate, raccontata con maestria dalla scrittrice barese che riesce a intrecciare sapientemente le pulsioni che muovono i due protagonisti: la passione carnale, l’amore non corrisposto e crudelmente sbeffeggiato che si tramuta in odio e, da questo, in sordo e cieco desiderio di vendetta, ma che non può prescindere, alla fine, e vale sia per lei che per lui, dal senso di colpa e dalla postrema e ormai vana pietà. Una storia macabra eppure vitale – perché l’orrore nasce tutto da un eccesso di vitalità e passione – che mostra una volta di più la banalità del male, il mostro che si annida dentro ognuno di noi, quel lato oscuro, latente ma pur sempre in agguato, pronto a palesarsi in tutta la sua efferatezza e a prevaricare travolgendo la vita altrui e la propria. Simile a un sole dardeggiante e «rossissimo» che ci precipita addosso e ci inghiotte: come nel potente e indimenticabile finale di questo racconto.

Struggente e delicato è invece il testo che Michela Marzano scrive prendendo le mosse dalla VII novella della IV Giornata, quella di Simona e Pasquino. Nella storia boccaccesca Pasquino muore dopo essersi sfregato sui denti una foglia di salvia, e Simona, la sua amata, che era insieme a lui al momento della morte, viene accusata di averlo avvelenato. Nel tentativo di mostrare al giudice come si sono svolti i fatti, anche Simona, riproducendo i gesti di Pasquino, si strofina i denti con la medesima salvia, e anche lei muore subito dopo. La novella si conclude con la scoperta che il cespuglio di salvia da cui erano state strappate le foglie fatali ai due giovani era in realtà la tana di un rospo velenoso, a cui si darà fuoco assieme al cespuglio.

Michela Marzano, attualizzando il testo medievale, ci racconta la storia di Saymuna, giovane immigrata somala, che lavora come bracciante nelle vigne e sogna di diventare, un giorno, infermiera. Saymuna, a cui tutti storpiano il nome in Simona, vorrebbe tanto imparare l’italiano, lingua di cui conosce solo poche parole, ma gli orari di lavoro – un lavoro precario e malpagato — e altre difficoltà oggettive le impediscono di seguire le lezioni. Unica consolazione è il tenero rapporto che nasce fra lei e Pasquino, un giovane bracciante del luogo, il solo che la chiami Saymuna e che sembri capirla malgrado l’ostacolo della lingua. Una sera Pasquino la conduce a casa propria, vuole mostrarle la fattoria dove vive insieme alla sorella, presentargliela, e farle vedere «una cosa bella che lui fa da quand’era piccolo, e continua a fare anche adesso, quando torna a casa dai campi»; si tratta di lavori di falegnameria: sistemati nel fienile, fanno bella mostra di sé armadi, tavoli, librerie, cassapanche, cassettiere… Quello che Pasquino le mostra sembra essere il preludio di una vita insieme, felice, con una bella casa arredata con quei mobili e tanti bambini festanti. Ma la tragedia è in agguato. Nello spostare un cavo elettrico, Pasquino rimane fulminato all’istante e, la sorella del ragazzo, entrata nel fienile proprio in quel momento, assieme al suo compagno, crede Saymuna responsabile di quanto accaduto. Impossibilitata a farsi capire a parole, Saymuna mostra l’incidente afferrando lei stessa il cavo e rimanendone fulminata a sua volta. Il lieto fine può, per questi due sfortunati giovani, realizzarsi solo nella dimensione onirica dell’aldilà:

«Sorride Saymuna, quando la corrente arriva e se la porta via. Sorride Saymuna, mentre chiude gli occhi, vede Pasquino che le porge la mano, e lei l’afferra e lo segue. Adesso capisce tutto quello che Pasquino le sta sussurrando all’orecchio, adesso riesce persino a parlare perfettamente in italiano, oppure è Pasquino che le parla in somalo? ‘nabad iyo caano, sì, amore mio,’nabad iyo caano».

Si è dato conto fin qui di tre racconti, tra i meglio riusciti, del libro, ma bellissimi e di godibile lettura sono tutti i testi che compongono la raccolta, fra i quali ci sembra giusto menzionare, sia pur en passant quelli di Barbara Alberti, Jonathan Bazzi e Stefano Massini, quest’ultimo con una storia che funge da prologo e fa da raccordo per le narrazioni successive.

A confermare l’eterna attualità del Decameron concorre anche il cinema. Al Ferrara Film Festival, lo scorso 29 maggio-6 giugno (primo festival cinematografico in presenza, e ovviamente nel pieno rispetto dei protocolli di sicurezza, di questo 2021), è stato presentato, nella categoria Short World, il cortometraggio The Heptameron, che altro non è se non un libero adattamento del capolavoro di Boccaccio. Scritto e diretto da Nicholas Hulbert, il corto, di produzione inglese, segue le avventure di Fiammetta, nobildonna dai liberi costumi e con qualche scheletro nell’armadio, che deve districarsi fra la peste che dilaga in tutta Firenze e al contempo fare i conti con i propri sentimenti e le proprie azioni.

Tornando al volume edito da HarperCollins, se uno dei compiti della letteratura, e dell’arte in generale, è quello di elevare il particolare all’universale, allora questi dieci racconti sono altrettante storie che, ciascuna nella sua specificità, riescono ad assurgere a una universalità di temi e sentimenti che non possono lasciare indifferente il lettore, ma operano nel suo animo uno spostamento e una riflessione. Oggi, come nell’originale di sette secoli fa, le storie del Decameron parlano alle nostre menti e ai nostri cuori, interrogandoci e emozionandoci. Un’operazione come questa, di riscrittura di un classico immortale quale il Decameron, è anche la dimostrazione che leggere è un atto creativo, esattamente come scrivere, e non è un caso che la prima sia attività necessaria e propedeutica alla seconda.

Poesia e militanza nel Misantropocene. Una conversazione con Lorenzo Mari

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di Isabella Bignozzi

Cristina Campo, in una delle sue Lettere a Mita (Adelphi, 1999), dice: «Ed io penso che non si debba più aspettare, ormai, ciò che il mondo, forse, non può più darci. Il silenzio, lo spazio, non è da lui che lo avremo». C’è qualcosa di questo, di questa consapevolezza, benché declinata con portamento lontanissimo dalla ricercatezza eterea di Cristina, nell’opera poetica di Lorenzo Mari. La percezione di una mancanza di asilo, di accoglienza, che rende inefficace la parola, ridondante a prescindere; parola che, in ogni caso, chiede di essere detta e, ancor prima, meditata, recuperata, riesumata da fondali nascosti, oltrepassando l’alienante superficie che ci ospita e ci ottunde, come una nutrice tossica e allucinatoria:

«Scendere, guardando / il mobilio – finto esercito allineato – / fino alle tubature, scalfendo; / raschiando oro in pellicola; cercando acqua / come rabdomanti ignoranti, avidi. Si troverà / l’acqua che di regola ci portano, con il suo prezzo / e con l’ordine del flusso. Più sotto / i maiali: liberi, sozzi, grufolanti. Bisognerà allora / riscrivere ciò che non esce, per un barlume / di vita, occorrerà ripresentare / il possibile, per un momento allibito / di nascita […] e credersi, in ultimo, per il sogno, / innestati su terra e speranza, / in qualche modo.»[1]

Quello che in Campo, inevitabilmente, assumeva le tinte di una disciplina della grazia, dell’essenza, di un solitario cammino di ascesi, in Mari prende un’attitudine rivoluzionaria, apparentemente strascicata, indolente, perché fiaccata dal disincanto, ma che porta in sé un’indocile perseveranza politica, una recondita ambizione di partecipata collettività:

«Chiaro rifugio / l’ansa della parola / la casetta dispersa / il grande fiume che va lento /verso casa – / non si capisce senza l’ardire / di appiccare il fuoco / in questa golena / (e poi fuoco, /e poi acqua) // l’impossibilità di dire con secchezza / il momento, di vivere // il disastro completo / con poco, eppure / contestare – amare // e a tempo presente.»1

Ma l’espressione del percepito e dell’essenziale, in Mari, è tutt’altro che agevole, e nasce da profondità ustionate, che giungendo in superficie si ammantano di pudore, nel gesto dell’ironia:

«sulla pelle / più profonda, sulla lingua riscossa / e bruciata – se è arrivata / sino a questo santuario di fuoco e acqua / in forma di risma bianca // ora lo lascia / con qualche grido, / con qualche piegolina.»1

La parola è infida, spesso insufficiente a esprimere un presente inospitale, e dunque, se inadeguata, è provvisoria; presenta una continua «necessità di riconsiderazione», rifiutando «l’inganno del punto fermo»; bisogna piuttosto trattenere a sé la «spezzatura», «la riserva di voce», la fonte inesaurita di «ciò che non è stato / ancora detto».1

Rimane il fatto che dire qualcosa, che abbia peso e valore, essendo immersi in quest’epoca svuotata, da eredi di una tradizione che tutto ha già detto e tentato, sia impossibile:

«A cosa potrà servire – / non alla mano del padre, / non all’etimo del nonno: / casomai potrà addurre motivo / soltanto al taglio // e all’abrasione. E con il vuoto / dell’incavo nudo, dei nudi semi, / contribuire, infine, a / piovere il niente – oppure / a colmare la terra.»[2]

E comunque lo stesso destino di insolvenza e disfatta colpì chi tentò prima di noi: «Non restano che le spoglie / di chi salì alla linea gotica cantando», ogni singolo essendo «punto» isolato, «mancato alla linea, alla storia».2

La conseguenza è una resa, lirica ma desolata, che è ricerca di sollievo, e ritorno al sé come soggetto pavido, ferito, chiuso, assetato di un personale, sterile conforto:

«La fatica di smettere i panni di guerra / si misura al tramonto, con una luce / sempre di taglio, implacabile / sul corpo. Orecchio proteso, in fondo, / che cerca musiche, come sempre: / una consolazione, per le beatitudini sole».2

Certo, il reale è inenarrabile, a volte sfugge alle categorie mentali disponibili per rappresentarlo (come l’ornitorinco di kantiana memoria); in questo la radice prima di ogni afasia, inasprita da strutture sociali asfittiche, che obnubilano e blandiscono, allontanandoci dalla riflessione unica e nucleare, facendo perdere all’individuo contezza di sé stesso e dell’altro:

«Eseguo, come càpitano, / gli ordini: ascolto il mio corpo, // mi faccio tutto ipocondriaco / fino al rantolo, fino al broncospasmo – // non rifletto nulla dall’esterno, / poi mi tuffo. Qui dentro è la storia, // dicono, se fuori nevica: / è sotto la coltre – in albo vitro – // che lottano le classi (oppure, poco oltre, / nell’angolo cieco, che proprio non vedi)».[3]

Ma abdicare non è la strada, né la noncuranza o il distacco possono essere percorsi dal poeta, che richiama sé stesso duramente a una parola che, benché franta e spuntata dalla cattività, tenti di narrare l’immedicabile, di riportare i crimini inversi (del carceriere), le contrite mancanze:

«Passano sempre carta e penna, / tra le grate, a ogni ora. Affinché / tu dica, io dica: nessuno si fermi / tra le quattro mura – senza pane // se c’è fame è una fame da poco / che non spacca il ghiaccio: / né con l’ascia, né di stura – / raggruma il sangue, nel cemento // creato alla bisogna. La parola è ispirata, / in corpo, a sanare il debito, alla cura. / Passano sempre carta e penna, per qualcuno: / una dose, come credono; poi portano altro // o se ne vanno».

e il grido muto del trascurato, dell’inconsapevole, dell’apolide:

«Loro non sono, in quanto loro, / però chiedono con forza / che anche questo sia scritto: / un luogo – supplicano – /una forma di tempo».3

In Querencia[4] si sviluppa e prende piena forma la dialettica, presentissima nella poiesis di Mari, tra movimento di inesausta ricerca (quaero) e inazione difensiva; la sospensione avviene in un recesso che consenta il riposo, il riparo, utilizzando come allegoria la corrida (quaerencia), ma anche – in minor misura – altri impensati luoghi, come il campo da tennis o la grotta di Chauvet: territori abitati da riti collettivi contraddistinti da fatale urgenza, affollamento, e tensione alla rappresentazione, dove sono inesauribili la contesa e il confronto con un avversario inafferrabile, che non permette vittorie univoche o definitive conquiste. Ancora una volta la parola è inabitabile, se non per un ritorno al gesto primordiale, all’unità fondamentale della comunicazione e dell’esistenza – ammesso che esista – che è lallazione e resa; costante diviene allora il tentativo di non ricadere in una mistica illusoria, inattendibile, che pertiene forse unicamente all’immenso esistere in sé stesso, allegorizzato nella massa primordiale e illimitata del mare:

«smettendo gli occhiali e la posa intellettuale: / non era una caverna ma più ancora, al fondo / né arena né chiesa né un libro di poesia / a dire il vero: rinascendo prete tennista / torero scendendo al mare dove non c’è nulla / da dire se non fosse per quel genere, detto / implacabilmente, di sconfitta: in ginocchio / – in ginocchio! – allo scopo di evitare in tutto / e per tutto la mistica: lallà, dice, poi lallà // risponde il mare».

E infine, in Tarsia/Coro[5], Mari ribadisce il tema dell’ineffabilità, ponendo in risalto mezzi e inadeguatezze della scrittura, non trascurandone le possibili derive autoritarie, allargando poi la riflessione (mediante l’archetipo di Malco il servo di Caifa cui, al momento dell’arresto di Cristo, Pietro recise l’orecchio destro) alla matrice coercitiva del rapporto tra padre e figlio, tra potere e individuo, e mettendo in dialettica unità e scissione, sia sul piano fisico (interna all’individuo), sia sul piano sociale (tra un l’individuo e l’altro), e su quello epistemologico (tra l’individuo e il reale):

«Temo di uscire là sulla soglia / dove l’osservazione e chi osserva / si separano in fretta».5

Ma se la prima parte è percorsa da una separazione non riparabile: «non si compone», la seconda – racchiusa in apertura e chiusura dai versi di Wallace Stevens – recupera la perizia tutta femminile del riunire, dell’allacciare e del ricomporre, evocando l’opera di Maria Lai (Legarsi alla montagna commissionata dal comune di Ulassai quale monumento ai caduti):

«Cercata sirene tanto forte e a tal punto che sono / janas […] e quella musica, Maria, se non sono / sirene ma janas – quei telai?».5

Al gesto rituale del legare, del tessere, si unisce quello della danza: «Non è per la nostra fame la danza» e al suono essenziale dello [schwa], che riporta alle radici della nostra civiltà indoeuropea e del nostro esprimere e rappresentare, come accadeva in Querencia, nei riferimenti alla lallazione e alla Grotta di Chauvet:

«e parlare una lingua / che al fondo della terra / nelle viscere forse / non è diversa / da una lallazione da / un finissimo ossesso da / una ninna nanna».5

Una ritirata del poeta, una lingua a ritroso, che tenta di liberarsi dalle prescrizioni patriarcali, dalle ipocrisie borghesi, dal ricatto della società del consumo. Una scrittura che si protende in uno sfibrante tentativo, spesso inane, di messaggio politico: «Né avrà fine la parola che nella maglia / del verso come caduta perfetta / non s’è mai peritata di dire/ più di nulla. Meno di / tutto», ma lanciando comunque il proprio grido libertario, che rivendica la creatività come mezzo di insubordinazione: «Quale blu resta possibile / oltre marx oltre vertigine»; se pur consapevole dell’inesauribile contraddittorio tra unità e frantumazione individuale, riproposta in chiusura da un coro che enuncia, egli stesso, la scissione come matrice costitutiva del reale:

«(coro, più che tarsia)

perché qui, qui c’è, c’è che è uno e uno: e non noi non»5

Una poiesis che coniuga riserbo e ricerca implacabile del vero, dove abbiamo l’immagine di un poeta profondamente tragico, che dissimula e irride sé stesso, e a tratti si ferma, cerca riparo dalla tauromachia, per poi eternamente riaffacciarsi con un verseggiare contratto, connubi lessico-sintattici criptati, e asserzioni in levare, fino al ritorno al gesto linguistico primordiale, all’unità fondamentale della comunicazione e dell’esistenza, un lallà che riluce di possibilità ultima perché chiude il cerchio con quella iniziale.

Ma se il non allineamento esistenziale di Mari è intimamente gentile, e prende, nei suoi versi, la forma di una pacata manifestazione di dissenso, che esita in un’afasia improntata al rigore, la traduzione di #Misantropocene, 24 tesi[6] si pone agli antipodi di tutto questo. Per questo la curiosità ci induce a fargli alcune domande, nel tentativo di comprendere il significato più esteso e profondo di questo gesto di scelta e traduzione:

 

Lorenzo, la prima domanda parte da lontano, dalla poetica che hai espresso in questi anni, che sembra attraversata da una forma di sfiducia nell’altrui ricezione. Questa sfiducia è nella compliance dell’interlocutore oppure nello spazio che ci unisce e separa dagli altri? Si tratta di un ambiente dove la parola può ancora risuonare dei suoi significati e meta significati, oppure essa trova un tutto pieno, opaco ed estinto, che la rende afona?

Credo che si tratti più di una sfiducia nella possibilità di uno spazio comune che non in quella della ricezione tout court. In fondo, è dai tempi di Baudelaire, e poi di T.S. Eliot, che il lettore moderno è individuato come “mon semblable, mon frère!”: né migliore né peggiore, nel mio intendimento, rispetto a chi scrive. Resta certamente la possibilità dell’afonia e della mancanza di comunicazione – come de-formazione radicale della forma, nella sua accoglienza – ma questo esito non può derivare unicamente da una dinamica di potere così evidente e univoca come quella che esigerebbe, ad esempio, la compliance dell’interlocutore.

In ogni caso, cogli nel segno sottolineando una sfiducia che è, effettivamente, andata maturando nel tempo, fino ad emergere in quella ricerca di e sullo spazio che è alla base di Querencia (termine della tauromachia che, non per caso, identifica uno “spazio” preciso dell’arena, nel quale il toro si rifugia, durante la corrida: uno spazio difensivo, in origine, che si rivela, per me, spazio dell’apertura) e che in Tarsia/Coro diventa disamina di una possibile soggettività collettiva, forse già sconfitta e disgregata, e al tempo stesso sempre capace di dire, di dirsi, almeno per via residuale o negativa.

Come ho cercato di scrivere nel mio contributo per la collettanea La radice dell’inchiostro[7], si tratta, più che altro, di una sfiducia storica, nella possibilità di uno spazio non soltanto per la poesia del singolo autore, o di un gruppo di autori – di una generazione, ad esempio – ma nella mancanza degli spazi da aprire in una sorta di compattezza più generale. Permane sempre una residuale possibilità di farlo, però: basta accettare la sfida dell’aperto, della poesia come esposizione, non come imposizione di parola.

 

Il poeta che, per definizione dà forma al mondo, quali doveri ha verso la sua epoca e verso chi lo legge? Il suo compito è soltanto quello di abitare un estetico splendore della parola oppure deve avere, secondo te, un ruolo attivo di testimonianza sociale e/o politica?

Quanto ci si può avvicinare con la poesia all’essenza del reale? Lo si fa più con le parole o con i silenzi?

Non credo che si tratti di un’alternativa dicotomica, né che sia possibile una qualche forma di sintesi: quest’ultima era forse possibile in passato, ma ora apparirebbe come un esito eccessivamente pacificato, se non anche consolatorio. Silenzio e parola, bianco e nero della pagina, concetto e ritmo, battere e levare si danno, per me, in una sorta di compresenza sempre dinamica… Del resto, anche Celan è generalmente riconosciuto oggi come “poeta dell’inesprimibile”, ma bisogna anche ricordare come sia stato uno dei poeti che con più costanza, quasi ossessività, ha scritto testi indirizzati a un “tu”, per quanto un “tu” non più lirico in senso tradizionale…

 

E ora veniamo al pamphlet. Che cosa significa per te #Misantropocene? Perché hai scelto di tradurlo? È un’opera che ti rappresenta?

Tradurre è sempre – in partenza, durante il percorso e anche una volta che questo è finito, provvisoriamente, con una pubblicazione – un confronto con l’alterità: spesso chi traduce i propri simili, o anche i propri antecedenti letterari, procede a una forma di auto-legittimazione particolarmente sterile, se non anche irritante.

Per me, #Misantropocene. 24 Tesi dei poeti, saggisti e militanti statunitensi Joshua Clover e Juliana Spahr rappresenta certamente la prosecuzione di una riflessione e di una produzione creativa nell’ambito “post-antropocenico” del progetto collettivo TINA. Storie della grande estinzione[8], alla quale aggiunge, forse, alcune componenti più spiccatamente politiche e immediatamente disponibili come tali.

Il “misantropocene” di Clover e Spahr, infatti, non è soltanto la constatazione di una misantropia diffusa – così come si potrebbe intendere, in prima battuta, il loro neologismo – quale esito nichilista di certe sconfitte politiche, nella storia recente, ma anche una particolare declinazione del Misantropocene come Capitalocene. In questo, il testo di Clover e Spahr mi sembra affine, ad esempio, alle posizioni – nonché a certe immagini, come quella dell’attacco alle infrastrutture, vedi alla voce How to Blow Up a Pipeline[9] – di Andreas Malm, ecologista svedese appena pubblicato in Italia da Ponte alle Grazie…

Allo stesso tempo, però, #Misantropocene, per la sua qualità poetica ma anche panflettaria, come sottolinei giustamente tu, rimane un testo certamente lontano dai miei strumenti e dai miei orizzonti creativi: mi interessava, e continua a interessarmi, proprio per questo!

 

In effetti, la modalità dell’invettiva a monologo si può dire che sia la postura opposta a quella che hai mantenuto negli anni in poesia: un preparare il campo semantico per poi non dire, un sincopare e sottintendere. Questa andatura lieve, accennata, in #Misantropocene è rovesciata: nel pamphlet l’affermazione è costantemente oltre, uno sviscerare furioso, un esagerare liberatorio simile all’invettiva. Tu stesso, nella breve introduzione al libretto, sconsigli come colonna sonora l’universo onirico galleggiante e benevolo di Grimes (che pure ha usato Miss Anthropocene come titolo del suo album del 2020) e indichi piuttosto un brano come Nazi Punks Fuck Off dei Dead Kennedys, gesto musicale a suo modo dall’enunciato etico ma ammantato di un format concitato, nichilista, appena edulcorato dalla versione banjo di Eugene Chadbourne.

Dunque, un immaginario molto diverso da quello cui ci hai abituati. Tradurre è catartico a volte? È riuscire a dire con la parola d’altri cose per le quali non abbiamo una forza propulsiva sufficientemente irosa e ineducata? Infine, il gesto politico, evidente nel testo, è presente anche nella forma?

Sicuramente l’understatement fa parte della mia attitudine personale e anche della mia formazione, con la frequentazione delle letterature di lingua inglese, nelle quali l’understatement è spesso un tratto culturale decisivo. In questo senso, l’incontro con l’invettiva di Clover e Spahr non mi è sembrato utile in quanto momento catartico, né come l’opportunità di poter dire qualcosa che di solito non posso o non voglio dire, bensì come l’instaurazione, ancora una volta, di un campo di tensioni all’interno dell’operazione traduttiva, un campo di tensioni dalle risultanti talvolta imprevedibili… In fondo, lo stesso riferimento al banjo che citi nella domanda è, ad esempio, il frutto di una precisa strategia umoristica di “alleggerimento” già all’interno del testo originale di Clover e Spahr – un testo, per altri versi, che è spesso cupo e ricco di affondi, alle volte violenti, o apparentemente tali, su molti livelli. Uno di questi affondi riguarda sicuramente il rapporto delle avanguardie artistiche con la militanza politica; a quel punto, ricordando l’esperienza musicale avanguardistica di Eugene Chadbourne, noto anche come anarchico suonatore di banjo, non potevo perdere l’opportunità di citarlo, nella mia breve introduzione!

 

Questo piccolo grande J’accuse si inscrive in un ambito ormai nutrito di pubblicazioni e suggestioni culturali, ma a un tempo se ne distacca. Tu citi il blog La Grande Estinzione e ribadisci l’importanza di «mettere a disposizione un arsenale non solo critico, ma anche immaginativo e creativo» che sia «un esercizio» che travalichi «il senso di ogni singola tesi e del loro insieme», riportando il senso pieno della «misantropia individualista» che stiamo vivendo, insieme a tutti gli imperativi che essa induce, nel tentativo di acquisire prospettive multiple, ma soprattutto di riacquisire una prospettiva di classe – anzi, osi dire coscienza di classe – o semplicemente provarci, facendo di questo pamphlet e dei suoi echi nelle coscienze una sperimentazione collettiva.

Citando il testo: «Il ritmo del misantropocene ha ricevuto la sua misurazione esatta dal declino del movimento operaio. Un andirivieni di ore zero. Sempre più melancolia occidentale».

Manca l’unità di classe? Ci stiamo spegnendo in un’agonia di smunte false solidarietà, false ripartenze? È ancora possibile superare la separazione e l’avversione, come dimensioni interumane costitutive della nostra attuale società, o si tratta di una nostalgia fuori tempo massimo?

Nell’introduzione di #Misantropocene ho voluto sottolineare la capacità maieutica del testo: credo che nell’intendere l’Antropocene come Capitalocene – come Clover e Spahr, del resto, sembrano fare – la prassi dell’autocoscienza come base di una nuova coscienza di classe sia, se non necessaria, perlomeno ancora disponibile come tale. Certamente, un tuffo nostalgico in un passato che non può tornare, così com’è designato già nel testo come “melancolia occidentale”, è un rischio da tenere ben presente, per il suo portato idealizzante, utopico e deresponsabilizzante. Allo stesso modo, lo scarto tra individuale (e per “individuale” intendo anche: la prassi politica ecologista come atto individuale, spesso autoriferito e autolegittimante) e collettivo (come militanza non solo ecologista, ma orientata anche su tanti altri temi che definiscono il conflitto politico così com’è attualmente, a partire dal “declino del movimento operaio” da te citato) è un passaggio altrettanto necessario.

 

Quando la voce narrante inizia a prendere distacco («Fanculo Robert Berger Mounir Haidar e Scott Hutchinson») da soggetti di natura culturale, imprenditoriale, istituzionale che considera veri nemici, scivola poi nello stesso atteggiamento verso i finti o parziali amici (gli attivisti) per arrivare fino alla auto condanna. C’è un lungo elenco di elementi sociali o culturali o abitativi o creativi che hanno una patina buonista ma rivelano un nucleo tossico di ipocrisia.

L’uomo ha voluto gestire tutto, ma ora è soffocato dalle strutture che si è auto imposto e che ha velenosamente somministrato a tutto il regno animale, ed è a tal punto plasmato da ciò che si è costruito attorno, dal sistema coercitivo della società del consumo, da capire che nessun pensiero che non trascenda ora i confini del logico, del lecito e del consueto potrà mai essere autentico o rivoluzionario. Il momento più alto della riflessione personalmente l’ho avvertito laddove si nomina una specie anfibia in via di estinzione, ponendo l’accento su ciò che ci accomuna a essa, la carne e il corpo, «la vulnerabilità della loro pelle la vulnerabilità della nostra pelle». Forse qui abita il senso più profondo del pamphlet? Un invito a ritrovare una comunanza sentita, fisica, viscerale, con l’altro da sé?

Il passaggio che citi – «la vulnerabilità della loro pelle la vulnerabilità della nostra pelle» – è una delle chiavi di volta del testo, poiché mostra la stratificazione delle “24 tesi” al di là della loro superficiale carica di invettiva. La coscienza di una vulnerabilità comune a tutta la specie, e a più specie, è un primo passo nello scarto dall’individuale al collettivo del quale parlavamo poco fa. È un momento epifanico al quale troppo spesso si reagisce facendo unicamente ricorso al proprio istinto di sopravvivenza, come abbiamo scoperto a nostre spese durante questa crisi pandemica. Crisi, tra l’altro, che è incredibilmente – ma, in fin dei conti, non così tanto incredibilmente – anticipata in #Misanthropocene, che è del 2014, da un passaggio come questo: «non sei in grado di immaginare che gli amici che ti vanno a genio stiano tutti insieme nella galleria e poi ricordi che non sei in grado di immaginare gli amici che ti stanno a genio tutti insieme in una stanza qualunque e che l’ultimo anno o due sono stati caratterizzati dall’impossibilità delle persone di stare insieme nella stessa stanza che ti andassero a genio oppure no». Nel testo, si tratta di una misantropia da ricollegarsi all’abuso dei social network (Twitter è menzionato immediatamente prima, e proprio per la sua capacità di sostituirsi alle relazioni sociali e plasmarle), ma a rileggerlo oggi sembra un passaggio quasi profetico. Ecco, l’istinto di sopravvivenza può risolversi in una misantropia egocentrata ed aggressiva – fomentata dalla trasformazione della comunità in community – ma non fornisce soluzioni, sul lungo periodo. Tra le righe, Clover e Spahr ci invitano a continuare a cercare queste ultime.

 

Se la riflessione è difficile, la scrittura lo è ancora di più: un cammino in salita nel già detto, negli agguati dell’ipocrisia, nei limiti dell’individuo. Ma scavando e riportando, cercando il rigore e l’autenticità, si arriva a capire che è l’odio il perno cui tutto ruota attorno. Un odio nucleare, che ha accanto come protoni il debito, il salario, il caldo, «forze oggettive» e gravitazionali, che creano orbitali attorno polarizzati in modo da creare repulsione e respingimento per l’altro; e dunque isolamento, fragilità, opacità di pensiero, personalismo. È questa l’oggettività del misantropocene?

Certo! Clover e Spahr lo dicono apertamente: «il tuo odio è reale il tuo odio è una forza oggettiva come anche il debito è una forza oggettiva e il salario e il caldo e la fine del mondo sono forze oggettive e le crepe sono oggettive e in questo senso e puoi chiamare questa oggettività misantropocene». Il processo di autocoscienza di cui parlavamo non si può avviare senza il riconoscimento di queste forze oggettive; in generale, poi, anch’io ritengo che, nei momenti di confusione e di disorientamento culturale e politico, il fatto stesso di chiederci se permangono “forze oggettive” con le quali dobbiamo misurarci quotidianamente resta sempre un’esperienza illuminante, dal punto di vista analitico.

 

#Misantropocene termina con un trionfo dionisiaco, coronato dall’immagine polivalente di Saffo, che da cantrice eterea e privilegiata dell’hotel a cinque stelle (com’era in apertura) diviene furia primordiale: simbolo di chi grida e incendia e taglia ma con il proprio corpo, in un duello biologico in cui persino le odiose creature artificiali e colossali sono fatte di lacerti di carne e organi senzienti (la membrana pleurica dei fusibili, la cloaca – organo riproduttivo femminile di alcuni pesci – attribuita alle navi container) in un incitamento alla rovina e alla dissoluzione di evidente matrice simbolica, in cui tutto tornerà alla carne, mescolandosi di nuovo nel caos di creazione e distruzione, ripudiando l’artificiale e il tossico, riaffermando l’epidermico, il corporeo, l’essere animale; ritorna, qui, come un pensiero fuggevole, Tarsia/Coro:

«[per quanto uno si sia letto deleuze e il suo divenire/diventare altro, con guattari che si limita – come félix – a rimare]»

Ma è davvero questo il significato della parte finale? Ritieni che un immaginario nichilista possa portare in sé invece un germe di fattività, un impulso non a demolire ma a mutare la realtà attuale in un avanzamento di civiltà?

La tua interpretazione della conclusione di #Misantropocene come “trionfo dionisiaco” e implicita possibilità palingenetica o pseudo-tale (tramite il ritorno all’epidermico, al corporeo, all’animale, etc., ma anche verso nuove configurazioni sociali ed ecologiche) mi piace molto ed è probabile che gli autori, come molti altri che si sono interrogati sull’Antropocene e la sua decadenza, abbiano operato all’interno di quest’orizzonte. Per quanto mi riguarda, lo stesso divenire-animale teorizzato da Deleuze e Guattari (e richiamato ironicamente nei versi che hai citato) non è proiettato nel futuro, né all’orizzonte di una particolare costruzione poetico-filosofica di stampo antropocenico o post-antropocenico, ma è in aperta contraddizione con la materialità del presente, rispetto al quale quella del “divenire-animale” è un’opzione che mi sembra talvolta appartenere a un passato irrecuperabile. Oppure recuperabile solo in chiave nostalgica, o melancolica: come già per Clover e Spahr, insomma, la “melancolia occidentale” si colloca al polo opposto del campo da gioco. Per poter affrontare a tutto campo questo gioco, è dunque necessario un movimento dialettico del pensiero e della scrittura che – è sempre questo il mio auspicio, sia come autore che come traduttore – occorre mantenere sempre attivo.

 

***

 

 

Estratto da Joshua Clover e Juliana Spahr, #Misantropocene. 24 tesi:

 

Decima. Fanculo chi pompa la sabbia dai fondali dell’oceano sparandola in un grande arco per costruire nuove isole. Fanculo il fatto che questo lo chiamino fare arcobaleni. Fanculo qualsiasi tipo di draga. Fanculo il fatto che i cavalli da corsa non riescano più a montarsi l’un l’altro ma allo stesso tempo si insegni allo stallone a montare un manichino di compensato e a scoparsi una vagina di plastica riscaldata. Fanculo i prìncipi da sempre e in qualsiasi nazione fanculo Palm Jumeirah e Palm Jebel Ali e l’atrazina. Fanculo chiunque abbia mai comprato un grande sacco di veleno per le formiche perché le formiche hanno uno stomaco sociale e bisogna essere degli egoisti figli di puttana se non si vuole che si spartiscano equamente le loro minuscole porzioni di cibo […].

Numero quindici. Incapaci di far fronte ai loro debiti gli studenti universitari e gli emarginati vanno alla deriva fuori dall’economia formale verso favelas studentesche gomito a gomito con le nuove leve della migrazione economica e noi fingiamo che questo processo di trasformazione nell’economia informale non abbia nulla a che vedere con il misantropocene e invece è esattamente questo il punto.

Numero sedici. E la nostra nostalgia per il tempo in cui gli studenti erano studenti e i lavoratori erano lavoratori in questa poesia equivale a livello formale alla pioggia. Fanculo la vostra melancolia occidentale.

Numero diciotto. […] e quindi te ne resti lì a sedere e a guardare nel vuoto a prendere freddo a pensare alle zampe corte e tozze e alle orecchie minute e agli occhi dei geomidi di yelm come si richiudono le loro labbra dietro i loro incisivi anteriori come usano i loro incisivi anteriori per scavare le tane al modo in cui la soffice penzolante pelliccia consente loro mentre scavano le tane di muoversi facilmente avanti e indietro nelle gallerie […] e a come il sito web della University of California Davis sottolinei il fatto che i geomidi di yelm sono mammiferi la cui caccia è vietata il che significa che chiunque li può controllare in ogni momento e in ogni modo che sia legale e quindi si raccomandano trappole ed esche ad esclusione delle esche tossiche a fumigazione cani chewing gum lassativi serpenti che vibrano e strumenti dotati di gas esplosivo e pensi a queste cose con la disperazione e con la rabbia di Saffo perché non riesci a sopportare il pensiero che si può realizzare qualcosa una qualunque cosa soltanto se la famiglia il debito il gatto e il pensiero delle tasche guanciali ricoperte di soffice pelliccia e quasi estinte te lo lasciano perlomeno intuire. Fanculo soprattutto quel momento.

 

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Isabella Bignozzi è medico odontoiatra, autore di pubblicazioni scientifiche internazionali. È presente con racconti, contributi critici, prose liriche e poesie su varie riviste letterarie. Ha pubblicato Il segreto di Ippocrate, romanzo storico a memoriale, per La Lepre edizioni e la silloge Le stelle sopra Rabbah per Transeuropa.

 

Lorenzo Mari ha pubblicato alcuni libri di poesia, tra i quali i più recenti sono Ornitorinco in cinque passi (Prufrock Spa, 2016), Querencia (Oèdipus, 2019), Tarsia/Coro (Zacinto, 2021). Traduce dall’inglese e dallo spagnolo; ha recentemente curato l’edizione di Zurita. Quattro poemi di Raúl Zurita nella traduzione di Alberto Masala (Valigie Rosse, 2019) e la traduzione di #Misantropocene. 24 tesi (2020) di Joshua Clover e Juliana Spahr per le autoproduzioni della Libreria Modo Infoshop di Bologna.

 

[1] Lorenzo Mari, Minuta di silenzio, L’arcolaio, 2009

[2] Lorenzo Mari, Nel debito di affiliazione, L’arcolaio, 2013

[3] Lorenzo Mari, Ornitorinco in cinque passi, Prufrock Spa, 2016

[4] Lorenzo Mari, Querencia, Oèdipus, 2019

[5] Lorenzo Mari, Tarsia/Coro, Zacinto, 2021

[6] Joshua Clover & Juliana Spahr, #Misantropocene. 24 tesi, traduzione di Lorenzo Mari, Modo Infoshop, 2020

[7] La radice dell’inchiostro. Dialoghi sulla poesia a cura di Giorgiomaria Cornelio, Argo, 2021.

[8] Tina. Storie della grande estinzione, a cura di Matteo Meschiari e Antonio Vena, Aguaplano, 2020

[9] Andreas Malm, How to Blow Up a Pipeline, Verso, 2021.

Mots-clés__Allucinazioni

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Allucinazioni
di Davide Orecchio

Charles Mingus, Better Get It In Your Soul -> play

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Da: Oliver Sacks, Allucinazioni, Adelphi 2013 (ebook, posizioni 252, 322), traduzione di Isabella C. Blum.

#1 «Sono una donna di 77 anni; gran parte della metà inferiore del mio campo visivo è compromessa a causa del glaucoma. Circa due mesi fa, ho cominciato a vedere partiture, linee, spazi, note e chiavi musicali: in pratica, vedevo musica scritta su tutto quello che guardavo, solo però nelle aree dove sono cieca. Per un po’ ho ignorato la cosa, ma quando un giorno, mentre visitavo l’Art Museum di Seattle, le righe delle note esplicative mi sono apparse come righe musicali, ho capito di avere un qualche tipo di allucinazione».

#2 Una delle sue nuove allucinazioni, mi disse, «è difficilissima da descrivere. È una performance! Il sipario si alza e gli “artisti” ballano sul palco – ma non si tratta di esseri umani. Io vedo lettere dell’alfabeto ebraico, nere, che indossano tutù bianchi. Ballano seguendo una musica molto bella, che però non so da dove provenga. Le loro parti superiori si muovono come fossero braccia, e le lettere ballano con grande eleganza usando le parti inferiori. Entrano sul palco da destra e si muovono verso sinistra».

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan

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Così si presenta Arnaut Daniel in Purgatorio XXVI, 142. Arnaut fu un trovatore (trobadour) provenzale vissuto circa un secolo prima di Dante e per il quale il poeta ha una grande ammirazione: è l’unico personaggio della Commedia che fa parlare nella sua lingua, la lingua d’oc, pur con qualche italianismo, ed è l’unico che Dante confessa – in De Vulgari Eloquentia II, 10, 2-3 – di aver cercato di imitare: “et huiusmodi stantia usus est fere in omnibus cantionibus suis Arnaldus Danielis, et nos eum secuti sumus cum diximus al poco iorno e al gran cerchio d’ombra”, ovvero “e siffatte stanze adoperò Arnaldo Daniello in ciascuna sua canzone e noi lo imitammo quando dicemmo al poco iorno e al gran cerchio d’ombra” (trad. di G. Lando Passerini in Dante Alighieri, Tutte le opere, Newton Compton 2007). La propria canzone cui allude Dante, citandone il primo verso è una delle affascinanti rime petrose, di cui parleremo la prossima volta. Il canto XXVI del Purgatorio descrive la punizione dei lussuriosi, e il primo che incontra Dante tra questi è Guido Guinizelli (talvolta Guinizzelli, 1237-1276, muore quando Dante ha 11 anni) dall’Alighieri considerato un vero suo maestro e che tratta dunque con molto affetto (del resto Dante, data la sua burrascosa giovinezza fiorentina, doveva conoscere bene questo vizio; ricordiamo che Paolo e Francesca, nel V° dell’Inferno sono puniti proprio per questo peccato e il bravo Dante li fa stare, pur nella bufera infernal che mai non resta, sempre abbracciati, non si capisce bene dove stia in questo caso il famoso contrappasso) ed è proprio Guinizelli che indica Arnaut a Dante dicendo di lui “fu miglior fabbro del parlar materno” (Purg., XXVI, 117).
Vale la pena di conoscere un po’ meglio questo illustre esponente della primissima lirica provenzale.

Non molto sappiamo della sua vita, il documento più antico comincia così:
“Arnautz Daniels si fo d’aquella encontrada don fo Arnautz de Maroill, de l’evescat de Peiregos, d’un chastel que a nom Ribairac, et fo gentils hom”; il testo completo di questa scarna biografia, tradotto, suona così: “Arnaut Daniel fu della stessa contrada di Arnaut de Mareuil, del vescovato di Peiregos, di un castello che ha nome Ribairac [oggi Ribérac, Dordogna, Francia], e fu uomo gentile. E imparò bene letteratura e si dilettò a comporre e a far rime preziose, per cui le sue canzoni non sono né facili da comprendere né da imparare. E amò una nobildonna di Guascogna, moglie di Guillem de Buonvila, Ma non venne mai creduto che la donna gli facesse piacere ricambiando questo suo fine amore. Per cui egli dice: «io sono Arnaut che ama l’aura e caccia la lepre con il bue e nuota controcorrente»”.
Il “trobar” dei trovatori provenzali si distingue in “trobar clus” e “trobar leu”, grosso modo traducibile come difficile il primo e facile il secondo. Ma qui difficile sta a significare una serie di caratteristiche ben precise, quali la ricerca di parole rare e preziose, di forme di poesia particolari, tipicamente la “sestina”, e di rime preziose intrecciate secondo vari schemi e estese anche a metà verso. Tutte cose che Dante appunto riprenderà soprattutto nelle rime petrose. Arnaut è un campione del trobar clus, tanto che fu accusato da alcuni, anche moderni, di dare importanza praticamente soltanto alla forma senza un contenuto veramente poetico. Egli scrisse 17 canzoni e un sirventese. Qualche altra notizia circa la sua biografia, può venire desunta a partire da alcuni riferimenti storici presenti nelle sue liriche (ad esempio, sappiamo che assistette all’incoronazione del re di Francia avvenuta nel 1170) o da altri manoscritti (in una parodia su alcuni trovatori scritta da Monge De Montaudon nel 1195 compare anche Daniel).
Secondo Gianfranco Contini Dante si identifica appieno nelle figure di Francesca (V canto) e di Arnaut Daniel; entrambi infatti fanno riferimento alla sua vicenda letteraria. Quando Francesca racconta di come la lettura delle storie di Ginevra e Lancillotto l’abbia spinta al peccato, Dante si sta infatti distanziando da una concezione di amore profano e terreno; tramite l’episodio di Daniel, invece, Dante ripercorre l’esperienza giovanile delle rime “petrose”, da cui ora ha preso le distanze. Anche Francesco Petrarca riconosce nella poesia di Daniel “il dir strano e bello”, vedendo come componenti principali delle sue liriche il fattore estetico e la difficoltà retorica.
Vi riporto qui il testo della canzone “Sols sui” che prendo da una bellissima dispensa di Salvatore Battaglia (lo straordinario fondatore nel 1961 del Grande Dizionario della Lingua Italiana in 21 volumi completato nel 2002 sotto la direzione di Giorgio Barberi Squarotti) intitolata “Le rime «petrose» e la sestina (Arnaldo Daniello – Dante – Petrarca)”, Liguori 1964, la traduzione dello stesso Battaglia e il suo commento.
La canzone « Sols sui »
La canzone che qui segue, Sols sui, è forse la più limpida e la più serena del canzoniere di Arnaldo Da¬niello. Qui c’è un contemperamento della tecnica e della meditazione poetica che si risolvono entrambe in una discrezione stilistica e ritmica. Anche il pensiero amoroso (solitudine – fissità e pena – fedeltà) risulta ora svolto con sicura e riposata maturità. Adesso la contemplazione lirica pare raggiunta senza più fatica.

I. Sols sui qui sai lo sobrafan que*m sortz
Al cor, d’amor sofren per sobramar,
Car mos volers es tant ferms et entiers
C’anc no s’esduis de celliei ni s’estors
Cui encubic al prim vezer e puois ;
Qu’ades ses lieis dic a lieis cochos motz,
Pois quan la vei non sai (tan l’ai) que dire.

II. D’autras vezer sui secs e d’auzir sortz,
Qu’en sola lieis vei et aug et esgar ;
E jes d’aisse no-ill sui fals plazentiers
Que mais la vol (non ditz la boca) *1 cors:
Qu’eu no vau tan chams, vanz ni plans ni puois
Qu’en un sol cors trob aissi bos aips totz:
Qu’en lieis los volc Dieus triar et assire.

III. Ben ai estat a maintas bonas cortz,
Mas sai ab lieis trob prò mais que lauzar:
Mesura e sen et autres bos mestiers,
beautat, joven, bos faitz e bels demors.
Gen l’enseignet Cortesia e la duois,
Tant a de si totz faitz desplazens rotz,
De lieis no cre rens de ben sia a dire.

IV. Nuils jauzimens no-m fora breus ni cortz
De lieis, cui prec qu’o vuoilla devinar,
Que ja per mi non o sabra estiers
Si-1 cors, ses digz, no-s presenta de fors;
Que jes Rozers, per aiga que l’engrois,
Non a tal briu c’al cor plus larga dotz
No’m fassa estanc d’amor quand la remire.

V. Jois e solatz d’autra-m per fals e bortz,
C’una de pretz ab lieis no-is pot egar,
Que-1 sieus solatz es dels autres sobriers.
Ai! si no l’ai, las ! tant mal m’a comorz !
Pero l’afans m’es deportz, ris e jois,
Car en pensan sui de lieis locs e glotz:
Ai Dieus, si ja-n serai estiers jauzire !

VI. Anc mais, so-us pliu, no-m plac tant treps ni bortz
Ni res al cor tant de joi no-m poc dar
Cum fetz aquel, don anc feinz lausengiers
No s’esbrugio, qu’a mi sol so-s tresors.
Dic trop? Eu non, sol lieis e la votz
Vuoil perdre enans que diga ren que’us tire.

VII. Ma chansos prec que no-us sia enois,
Car si voletz grazir lo son e-ls motz
Pauc preza Arnautz cui que plassa o que tire.

I – Solo io so l’immensa pena che mi sorge – nel cuore d’un amore rassegnato ad amare ad oltranza – chè la mia volontà è tanto ferma e integra – che mai si allontana e si distoglie da lei – che ho desiderato fin dal primo sguardo e poi sempre: – chè sempre nella sua assenza dico a lei parole appassionate – e poi quando la vedo non so più cosa dire, e tante ne avrei !
II – Di rimirare altre sono cieco e d’udirle sordo – che lei sola io vedo e sento e intendo: – e di ciò non le sono affatto falso adulatore – che più l’ambisce il cuore di quanto la bocca non sappia dire. – Chè io non percorro tanti campi e valli e pianure e colli – che in un solo corpo possa trovare tutte le sue bellezze: – che in lei le volle Iddio trascegliere e affidare.
III – Io ho dimorato in molte magnifiche corti – ma soltanto qui da lei io mi trovo tanto di più a lodare: – misura e senno e altre belle doti, – bellezza, giovinezza, bei gesti e belle maniere. – Ben l’ha educata Cortesia e l’ha formata: – ed ella ha respinto da sé tutte le cose sgradevoli – sicché penso che di lei nulla si possa dire se non di bene.
IV – Nessuna gioia mi sarebbe breve o insufficiente – che mi venga da lei, che io supplico la voglia divinare – perché da me stesso non la conoscerà altrimenti – dato che il cuore, senza parole, non sa esternarsi. – E mai il Rodano, per quanto sia l’acqua che l’ingrossa – ha tale impeto che nel mio cuore non sia più ricca la corrente – che mi porta la vena d’amore quando io la contemplo.
V – Gioia e piacere d’altra mi pare cosa falsa e vana – che nessuna si può paragonare al suo valore – poiché il suo fascino è superiore a ogni altro. – Ah, se non l’avrò mai, che infelice! così crudelmente m’ha soggiogato! – E tuttavia la pena m’è piacere e riso e gaudio – ché della sua nostalgia sono avido e ghiotto: – Ah Dio, se mai potessi altrimenti esserne felice!
VI – Giammai, ve lo giuro, non mi piacque danza o torneo – né altra cosa mi ha potuto dare al cuore tanta gioia – come l’ha fatto quest’amore che mai i falsi maldicenti – hanno potuto intaccare: che per me solo essa è un tesoro! – Dico troppo? Non credo, solo che a lei non rechi fastidio. – Bella, per Dio, le parole e la voce – vorrei perdere prima di dire qualcosa che vi sia sgradita.
VII – La mia canzone spero non v’incresca – ché se vi degnate di gradire la melodia e i versi – poco importa ad Arnaldo se ad altri piaccia o no.

All’inizio della canzone quel solo in posizione tonica ha valore di parola-chiave, che i tre monosillabi seguenti contribuiscono a isolare e ribadire (sols sui qui sai). Una solitudine consapevole e memore, che nella sua stessa coscienza ritrova le ragioni d’una pena d’eccezione (sobr-afan) e d’un amore d’eccezione (sobr-amar) – entrambi sentiti ad «oltranza» – che si tramutano in un vincolo d’integrità e d’immobilità (car mos volers es tant ferms et entiers), come affidati ad un’ancora inamovibile (c’anc no s’esduis de celliei ni s’estors). E il verso che sembra introdotto come una breve didascalia (cui encubic al prim vezer e puois) dilata invece i confini della condizione spirituale nel tempo e nello spazio dell’intimità, con una improvvisa rivelazione e una perenne attesa. Cosicché gli ultimi due versi di questa prima strofe, che nel loro immediato significato esprimono la timidezza dell’amante incapace di tradurre la verità che gli si affolla nel cuore (tan l’ai) se non con parole precipitose (cochos motz), riportano la passione amorosa, per la stessa ineffabilità dei suoi sensi, a una più chiusa solitudine. Posto in questi termini il «tema» del canto, le strofe successive ne sono uno sviluppo e una precisazione: e se qualche volta il poeta non riesce a superare il tono didascalico, assai spesso giunge ad ampliare l’arco lirico e a cogliere una più intima e più pura motivazione. La terza e la sesta strofa scivolano verso il modo discorsivo e apologetico (che è il tributo al costume contemporaneo), ma la seconda, la quarta e la quinta strofa aprono le zone più liriche della solitaria meditazione del poeta fino a fargli trovare parole e immagini e sogni di singolare vigore e di dolce bellezza. Proprio nella seconda strofa c’è un’immagine che sembra anticipare un certo tono petrarchesco: « Ch’io non percorro tanti campi, valli e pianure e colli…». Ma l’accento più lirico è contenuto nella quarta strofa, dove paragona l’impetuosità della sua passione alla violenza delle acque del Rodano, con uno scatto della fantasia che, subito frenato in un atteggiamento contemplativo (quan la remire) sembra simboleggiare veramente la sostanza spirituale del poeta, che ha pudore a confessare lo slancio dei propri desideri, sicché i suoi versi oscillano sempre fra una volontà di misura e discrezione e un impulso a spezzare gli argini del ritegno lirico. E perciò le immagini e le parole realistiche e forti come secs d’autras vezer (cieco di vedere altre) e sortz d’auzir (sordo d’udirle) oppure lecs e glotz (avido e ghiotto) della nostalgia amorosa ecc. rivelano la fatica e la pena poetica di sciogliere la tensione sentimentale nella parola concreta, sensibile, quasi fisica. Gli esempi in questo senso si potrebbero moltiplicare. C’è un realismo espressivo che conferma e quasi materializza una situazione assolutamente morale; il mezzo verbale e tecnico diventa per Arnaldo tramite d’una oggettività visiva e concreta di cose che sono immateriali e vivono nella sfera del puro sentimento. Per esempio: la volontà «ferma» e «intera» che mai «s’esduis» e mai «s’estors» dal suo amore; la stessa cecità e sordità della sua vita interiore che respinge ogni richiamo estraneo perché assorbita nell’unica passione; l’avidità e la brama con cui ripensa a lei; la gioia «breve» e «corta» ecc. riconducono il tormento passionale all’evidenza reale e sensibile.

Le colpe, proprie e altrui : su Heautontimorumenos XXI di Alessandro Seri

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di Viola Amarelli

Nella produzione poetica contemporanea non è raro imbattersi in materiali e moduli della tragedia classica o, quanto meno in suoi echi. Si pensi,  esemplificativamente, al Tiresia di Giuliano Mesa in area italiana o, al di là dell’Atlantico, all’Autobiografia del Rosso, romanzo in versi di Anne Carson. Ma è sicuramente molto meno frequente il riuso delle formule della commedia antica che caratterizza invece l’ultimo lavoro di Alessandro Seri:  Heautontimorumenos XXI (Arcipelago Itaca, 2021). Sin dal titolo è palese infatti il richiamo all’omonima commedia del latino Terenzio (a sua volta calco di un precedente lavoro di Menandro),  nota soprattutto per una celeberrima battuta diventata un brand delle correnti umanistiche a partire dai tempi del circolo degli Scipioni: Homo sum: /  umani nihil a me / alienum puto, qui posta in esergo alla raccolta. La stessa  struttura di quest’ultima – articolata in cinque sezioni, ognuna delle quali costituisce di fatto quasi un poemetto auto conclusivo – rispetta i canonici cinque atti della commedia antica ed una delle sezioni si presenta come “Parodio”, parola giocata, secondo un’intervista dell’autore che del resto è, tra l’altro, autore teatrale, sulla commistione tra  parodia e io dei poeti, ma che richiama anche il parodos, l’atto che segnava l’ingresso del coro sulla scena.

L’alternanza tragico-comica permea tutta la tessitura del libro, che riunisce testi scritti negli ultimi tre lustri, considerato che l’ultimo libro di poesia di Seri risale al 2006, pur se lontano dalla poesia in questi anni l’autore in realtà mai è stato, sia come organizzatore di festival e premi, sia come direttore editoriale e ora fondatore di una casa editrice in proprio. A voler trovare un filo conduttore delle cinque sezioni si potrebbe forse richiamare la “commedia umana” di Balzac, specie nel suo obiettivo di “studio del cuore umano”, qui focalizzato soprattutto sull’elaborazione di un senso di colpa non solo individuale e privato, ma anche collettivo e pubblico, senso di colpa pienamente coerente col significato di heautontimorumenos: punitore di se stesso.

Così  in “Lo scorrere del traffico”  (titolo che sembra quasi una metafora della vita)  compariamo come  …esseri speciali / belli e lucenti, multioriginali,  in realtà Sempre troppo pronti a cogliere la norma / come un bene per poi abbandonarla / quando si richiede di essere normali, mentre in “Inevitabile” l’inadeguatezza di un sé  paterno si traveste da ironica elegia. Il doppio binario di un senso di fallimento  personale e generazionale trapela in molti dei testi (La colpa è mia compagna e non si placa; un cumulo di giuramenti al vento; Coltivi l’enigma di mia generazione / smantellata di coraggio e di reazione) quasi  a redigere un bilancio in controluce dove anche la poesia si palesa  soccombente (A non emanciparsi è stata la poesia / minuta e chiusa in scatola di morte; siamo plurali più del necessario noi / che ci castriamo nei miti del linguaggio; Gli inadeguati stormi dei poetoni / murati tra l’elegia e il cerchio degli occhiali).

In questo contesto si delineano  e sono indagati una pluralità di temi: dagli affetti familiari all’imbarbarimento delle dinamiche sociali, dalle sconfitte e delusioni  politiche all’inevitabile lato oscuro della fine propria ed altrui, sino a una sacralità che affiora dal balenare, non solo in funzione satirica, di riti ed oggetti religiosi   (candele; prete; panche, messa; processione; calice; madonna;  neocatecumeni). La ricchezza polifonica della raccolta trova un suo riuscito equilbrio nella struttura delle sezioni e nell’attenzione costante a una prosodia che riusa forme della tradizione metrica in una chiave estremamente personale, dove  il ‘canto’ elegiaco e l’espressionismo parodico si bilanciano aderendo con estrema misura  alle  esigenze non solo contenutistiche dell’autore. In tale ottica l’ordine, l’ardore, richiamato da Sotirios Pastakas nella sua incisiva prefazione, dà giustamente risalto alla capacità di Seri di coniugare  passioni  e perizia artigianale del labor limae, quasi seguendo una preziosa indicazione di Mandel’štam:  “In poesia, dove tutto è misura, tutto parte dalla misura, ruota intorno alla misura e grazie alla misura gli strumenti di misurazione hanno facoltà particolari, sono portatori di una speciale funzione attiva”. Non a caso, del resto, una delle sezioni del libro si intitola “Musiche”, e tende a sperimentare la possibilità di riprodurre in poesia  tracce di partiture, in una sorta di mimesi sonora di tempi, danze e componimenti musicali. Più in particolare l’andamento strofico di gran parte dei testi, la presenza di versi ipermetri, l’uso frequente di  settenari, ottonari e novenari, l’emersione, specie nelle poesie satiriche,  di lemmi in lingua ‘locale’ (si veda ad esempio “Sirvio” nella sezione “Parodio”) contribuiscono a rivitalizzare una tradizione che risente dell’influenza delle laudi e dei cantari della poesia medievale (si veda ad esempio la citazione da Jacopone da Todi: Ioanni figlio novello / morto s’è ‘l tuo fratello) innovandola con le odierne tensioni performative.

Il tema della trasmissione, della consegna – che è l’etimo di tradizione – si dispiega  inoltre chiaramente nell’ultima sezione del libro, “L’albero”, una galleria genealogica che parte dalla figura del trisavolo per arrivare sino ai figli, saltando volutamente l’autore, peraltro ritratto di sbieco nelle risonanze di posture e di caratteri che animano tutti questi padri, contadini, emigrati di ritorno, sarti, in gran parte schivi e solitari, in una ricostruzione anche territoriale di un paese che muta da un risorgimento contadino a un …fazzoletto bianco / lavato giù la fonte / dal sapone fatto col maiale, da una carrozza bianca sino alla scocca rossa di un centoventiquattro. Non che manchino le tensioni bene o male presenti in ogni rapporto genitoriale: restano alcune piaghe, storiche ferite / una competizione amara che rifuggo / la tua non linea dritta, il tuo superfluo. Pure, trasmettere, consegnare implica un vaglio valoriale di ciò che si ritiene significativo e ciò che invece andrebbe abbandonato: il coraggio che è cosa rara, l’idolo del dimostrarsi fermi e, soprattutto,  richiede la capacità di  tramandarlo (io non vorrei pesarti ma esserti d’aiuto / di lato affianco parecchio defilato / con gli occhi suggerirti, suggeritore muto) in una relazione che implica sempre una reciprocità di scambio, anche di fronte a una neonata ultimogenita che insegna come gestire la sconfitta, semplicemente riflettendosi nei suoi occhi neri e nel richiamo e sunto dei sorrisi.

 

 

* * *

 

 

Mmuort (nei pressi della crisi)

Mi sei di fianco e mi circondi
se corro avanti la testa ti nascondi
volgo lo sguardo all’anno già passato
urli vorace a fiato olezzo ormai perduto
moderno specchio, misura del reale
il peso che mmuortifica il corpo innaturale.

Coltivi l’enigma di mia generazione
smantellata di coraggio e di reazione
è dunque un alibi pesto, cieco luogo comune
sfumata rappresentanza laica, alterne fortune.

Estinto l’esistente, ridotta la carriera
si abbassano le ombre sulla sera,

s’abbassano i regimi
disoccupo il mio tempo,
si stringono i cordoni.

 

 

 

*

 

 

Trillo

Il mio vèllo è liscio,
inneggiato, orfico e mutante

esigua cometa filante, annuncio
debole cenno di assenzio

verde di pelle e straccio
per lacrime assenti, dolenti

musicale e negante arpeggio
dileggio troppo il caduco ponte

stormo tempesta coro di pioggia
angolo trino occhio mio lino.

 

 

 

*

 

 

Perché di me conservi gli occhi
la cordigliera della schiena
e tutto il corpo ed il respiro

il battito di ciglia, la proiezione al nuovo
c’è assai destino nei disegni

sotto le piante, nei giochi del giardino
cercami pure quando entri
per lo spettacolo, senza timore alcuno
nel fondo della sala tra i presenti
e troverai uno specchio ove specchiarti

perché il coraggio è cosa rara
non è merce, non si vende

quando non piangi dopo una caduta
e per assicurarti la mia reazione osservi
sappi che lo conosco bene
l’idolo del dimostrarsi fermi

non c’è capitolo di soluzione bensì
rincorrersi di crocevia, somma di eventi

nel compito che gli anni m’hanno regalato
io non vorrei pesarti ma esserti d’aiuto
di lato affianco parecchio defilato
con gli occhi suggerirti, suggeritore muto.

 

I segni dell’inguaribile ferita. Giovanni Giudici e Roma

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di Lorenzo Pompeo

La parentesi “romana” della biografia umana e intellettuale del poeta scomparso dieci anni fa, una tappa fondamentale nella sua formazione, venne mirabilmente rappresentata in due liriche, Tornando a Roma e Roma, in quel niente  tratte da La vita in versi, la silloge del 1965 pubblicata dalla Mondadori con la quale il poeta si affermò definitivamente nel panorama della poesia italiana di quegli anni.

Nel 1933 Gino Giudici, il padre del poeta ligure, ottenne un impiego all’Istat e così si trasferì a Roma con tutta la famiglia. In attesa di trovare un alloggio, collocò Giovanni, che allora aveva nove anni, al Pontificio Collegio Pio X retto dai padri Giuseppini preso il quartiere San Lorenzo, dove rimarrà per due anni. Comincia così il lungo soggiorno nella capitale. Vi trascorrerà gli anni della guerra e del dopoguerra, fino a  quando, a trentadue anni, nel 1956, si trasferì a Milano. Ma fu nel corso di questi ventitré anni trascorsi a Roma che maturò quelle scelte che orientarono il suo successivo percorso: nel 1941 si diplomò al Liceo Classico Giulio Cesare presso la sezione distaccata di Montesacro, il quartiere dove abitava con la famiglia. Fu proprio qui che strinse i primi contatti con i militanti dell’antifascismo, legati al Partito Comunista e a Giustizia e Libertà. Nello stesso anno si iscrisse a Medicina, ma l’anno successivo decise di passare alla facoltà di Lettere. Risalgono a questo periodo i primi versi e alcuni racconti. Renitente alla leva, si nascose presso un amico e dopo l’8 settembre militò nel Partito d’Azione. Nel 1944 per sei mesi si impiega alla Guardia di Finanza, successivamente, per un breve periodo, lavorò prima come garzone di cucina presso una caserma della Royal Air force e poi, nel ‘45, all’ufficio stampa della Questura di Roma. In quello stesso anno si laureò con una tesi in Letteratura francese e aderì al PSIUP (Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria). Nel 1947 lasciò il lavoro alla questura ed entrò nella redazione del quotidiano «L’Umanità», organo del PSDI, divenendo l’anno successivo giornalista professionista. Nel 1949 si impiegò presso l’USIS (United States Information Center), un ufficio dell’Ambasciata statunitense, con la mansione di redattore del bollettino che l’ambasciata inviava quotidianamente ai giornali (con l’occasione imparò l’inglese). Continuava a scrivere poesie (ne pubblicò un paio nel 1949 sulla rivista «Accademia»). L’anno successivo conobbe su un treno tra Roma e La Spezia Marina Bernardi, che sarebbe diventata la compagna della sua vita. Nel 1952 nacque il figlio Corrado e, l’anno successivo, pubblicò Fiori d’improvviso, la sua raccolta d’esordio, che vide la luce grazie al sostegno di Elio Filippo Accrocca. Negli ambienti romani conobbe Amelia Rosselli, ma sarà Giorgio Caproni la figura a cui Giudici si sentì più affine. Le sue poesie apparivano sempre più frequentemente sulle pagine de «La fiera letteraria». Nel 1953 conobbe Umberto Saba, ricoverato a Roma. Seguì una corrispondenza tra i due poeti che per il giovane ligure sarà di fondamentale importanza. Il triestino lo incoraggerà (“rare volte mi è capitato di leggere, nei giovani, versi così ben costruiti” – scriverà all’amico esordiente nel 1954). Nel 1955 pubblicò la silloge La stazione di Pisa, che raccolse qualche consenso da parte di personalità del mondo letterario (Luciano Erba e Vittorio Sereni), maturava tuttavia in lui una crescente insofferenza sia nei confronti dell’ambiente letterario romano che verso quello dell’Ambasciata americana. E così nel 1956 lasciò definitivamente la capitale per approdare prima a Ivrea, alla corte di Adriano Olivetti e, dal 1958, a Milano.

 

La prima delle due liriche in questione è Tornando a Roma

 

Molte case nuove, i mattoni divorano l’aria:

qui erano villini impiegatizi, maltenuti

perché un giardiniere costa e l’impiegato

non ha soldi, disdegna la zappa del paria.

 

Un tempo conoscevo dagli alberi queste strade:

una la gloria di un pino, un’altra la sontuosa magnolia,

un’altra verso maggio il profumo dei tigli,

un’altra il prato di fianco e le case rade

 

Qui era la sezione, ma c’è un negozio

di tessuti, le mie compagne di scuola

s’incontrano alla spesa e non si salutano

si nascondono per vergogna i giovani in ozio.

 

Se fossi rimasto qui dove il pianto mi stringe,

sarei chiuso, stroncato come gli alberi:

ma ospite d’un giorno devo fare coraggio

al compagno che per orgoglio di resistere finge1.

 

Quando uscì La vita in versi erano trascorsi solo nove anni dal distacco con la capitale (anche se la poesia in questione in verità era uscita nel 1961 su «Il menabò» in origine intitolata Montesacro e datata in calce al 1960), ma si tratta di un periodo cruciale dal punto di vista socio-economico per l’urbe, cosa che il poeta coglie perfettamente in questa descrizione assolutamente realistica e quasi tangibile del quartiere romano dove il poeta aveva trascorso gli anni della sua adolescenza. Non c’è molto da aggiungere o da spiegare perché Tornando a Roma può essere considerata una perfetta riproduzione fotografica di un luogo. Molto più interessante è la successiva Roma, in quel niente2, che risale al 1964-653.

 

Non mi faceva più male. Improvvisamente all’aperto

mi trovai di una strada, di una piazza – ma

era forse una stanza tanto era tiepida l’aria

e silenziosa la mia solitaria

calma. Non mi faceva più male – un tempo io

a tagli di rasoi aduso, a manrovesci

sul muso, agli urli di chi

mi faceva paura… io li sapevo

i luoghi da evitare, quegli stessi

dove altri in eletti colloqui, a mezza

voce, suadenti squisiti amplessi

tranquilla gastronomia seduceva – Oh questa

città deliziosa, impagabile, inimi-

tabile, dicevano essi.

Ma per me appunto luoghi pericolosi

dove chiunque – è lui! – potevano riconoscermi,

dove ero io, o così

in quel tempo credevo – la vittima designata.

Per questo avevo paura di questa città.

 

Non io, ma probabilmente (se esiste) il mio

essere trascendentale anima che mi precorre

in qualche luogo buio ma al riparo era entrata,

poiché sulle guance sentii la carezza di una

nobile quiete tempesta da poco placata.

Ero in una piccola piazza?

Piazza Febo, ad esempio, dove un antico libraio

incazzato col mondo intero e magari

un po’ strano che tu, malignamente, Mario…

 

Ero in una stanza dall’alto soffitto?

Certo che questo so: improvvisamente

non mi fece più male – e le mie mani

un poco tremanti come sarò

inevitabilmente da vecchio sollevai annaspando

e niente, niente, trovando

se non l’odore che direttamente

ai pori della pelle percepisci, l’odore

della tua casa vuota dopo una lunga assenza.

 

Era un letto, e col dorso della mano una cosa

in quel niente incontrai che respirava:

era una coscia collina a pan di zucchero?

Né so se da un cielo o finestra l’illuminava la luna:

ma certo non senza timore ritrassi la mano,

subito strisciando più lontano

sulle lise lenzuola per alcuni

centimetri che erano miglia – tepore

qui supponendo dell’anca, un meno di calore

l’incavo della vita e l’ascella un odore di schiuma.

Boccio conchiglia fontana in alto sul grembo s’apriva.

Era donna di pelle un poco bruna

dai capelli unti e lisci – o città che dormiva

di tanta ignara materna dolcezza?

Poi per un colpo di tosse si torse supina,

alzò la testa, si mosse:

e io fui come il ladro sorpreso in pieno giorno

al punto del non ritorno

fui Gulliver minuscolo sul corpo della regina.

 

Ma non avere paura, mi disse la voce enorme

eppure senza suono impensabile idioma

da quali sensi non so

captato – eppure con tutta la forza

d’un sisma che pigramente

si sveglia ma inesorabile dal suo sonno – anni

d’angoscia liberando – orrore

d’incontrare lei loro – casa, ragazza, annosa

mignotta, spietato trafficante,

verme dai conti in regola, compagno, ruffiano,

vecchio maestro, prete, nazista, americano,

politico dai nobili sdegni, disfatto padre

– tutto che al mondo è romano.

Non avere paura, non puoi rifiutare la morte,

sei qui, ti conosco – la voce mi ripeté.

Stammi vicino, toccami, cammina sopra di me.

Dalla sua mano guidato per tutte le sue strade

salivo in lei lentamente.

Baciai la bocca che sa di biscotto e di niente.

 

Di quell’amore aspettando la fine.

 

Lo stesso autore la considerò una delle sue migliori creazioni («Terminata la poesia su Roma: forse uno dei miei risultati migliori negli ultimi tempi. Non è oscura, credo: ma certo è misteriosa»4 – scriveva a proposito lo stesso Giovanni Giudici in una annotazione datata al 4 febbraio 1965) e a buon diritto, anche perché rappresenta forse una delle migliori liriche dedicate all’urbe nella poesia del secondo novecento. Rodolfo Zucco, il curatore del volume de «I Meridiani» dedicato al poeta ligure parla di una «origine onirica del testo»5. Ciò forse è vero in relazione alla descrizione di un luogo indefinito nei primi versi della prima strofa («Non mi faceva più male. Improvvisamente all’aperto / mi trovai di una strada, di una piazza – ma / era forse una stanza tanto era tiepida l’aria / e silenziosa la mia solitaria / calma. (..)»). Ma già nel corso della stessa strofa i riferimenti si fanno più concreti: si parla di una città «deliziosa, impagabile inimi / tabile, dicevano essi». Ma il rapporto dell’io lirico con la città è segnato da una angoscioso senso di persecuzione («dove ero io – o così in quel tempo credevo –  la vittima designata. / Per questo avevo paura di questa città» – sono i versi che chiudono la strofa). In questa lirica Giudici ci offre un’immagine dell’urbe agli antipodi rispetto a quella cartolina che aveva affascinato tanti poeti stranieri che tra la seconda metà degli anni ‘50 e i ‘60 soggiornarono nella Città eterna, da Ingeborg Bachman (che vi morì nel 1973) a Rafael Alberti, da Rodolfo Wilcock (sepolto nel cimiero acattolico di Testaccio) a Murilo Mendes. Quella del poeta ligure è una città angosciante, deformata da una fortissima carica erotica impura, che schiaccia l’io lirico («fui Gulliver minuscolo sul corpo della regina» – dichiara il poeta nella citata lirica).

La posizione della lirica in questione, la penultima della raccolta, a cui segue il breve componimento Finis fabulae6 a cui la poesia in questione sembra ricollegarsi, è un elemento a cui occorre prestare attenzione.  Roma, in quel niente appare quindi come il riepilogo di una raccolta, il suo climax, a cui segue l’anticlimax  finale. Infatti nella citata lirica c’è un elemento dionisiaco, legato alla sfera erotica, che irrompe prepotentemente nella terza strofa (Era un letto, e col dorso della mano una cosa / in quel niente incontrai che respirava: / era una coscia collina a pan di zucchero? / Né so se da un cielo o finestra l’illuminava la luna: / ma certo non senza timore ritrassi la mano, / subito strisciando più lontano / sulle lise lenzuola per alcuni / centimetri che erano miglia  – tepore / qui supponendo dell’anca, un meno di calore / l’incavo della vita e un’ascella un odore di schiuma. / Boccio conchiglia fontana in alto sul grembo s’apriva/../). Ma nel corso della stessa strofa l’immagine della donna si trasfigura in quella della città stessa (/../ Era donna di pelle un poco bruna / dai capelli unti e lisci – o città che dormiva / di tanta ignara materna dolcezza?/../). Ma il vero e proprio climax della lirica è nella strofa successiva, quando l’esperienza erotica dell’io lirico abbraccia l’intera città in un angoscioso e concitato elenco senza l’articolo (asindeto): «/../ casa, ragazza, annosa / mignotta, spietato trafficante, / verme dai conti in regola, compagno, ruffiano, / vecchio maestro, prete, nazista, americano, / politico dai nobili sdegni, disfatto padre / – tutto ciò che al mondo è romano./../». La lirica si chiude con un verso («di quell’amore aspettando la fine.») che si ricollega alla successiva Finis fabulae già a partire dal titolo. In quest’ultimo breve e mirabile componimento che chiude la raccolta si spegne il furioso climax della lirica precedente in un composto anticlimax già nei primi due versi («Come una scia si richiude la favola / sugli sbuffi dell’elica lussureggiante di schiuma /../»).

Quando uscì La vita in versi, la lunga parentesi romana rappresenta una tappa umana ed esistenziale che l’autore si era lasciato alle spalle.  Quella che compie il poeta in questa lirica è una resa dei conti dolorosa ma necessaria. «Se fossi rimasto qui dove il pianto mi stringe, / sarei chiuso, stroncato come gli alberi» aveva scritto in Tornando a Roma. E in effetti la creazione poetica legata alla fase “romana” appare forse ancora poco incisiva e un po’ acerba (anche se è già possibile scorgere una buona padronanza del verso). Fu necessaria una cesura, una separazione anche fisica, dall’ambiente della capitale per trovare quella linfa vitale necessaria per nutrire il suo verso. Sotto questo punto di vista Roma, in quel niente e Finis fabulae rappresentano forse l’apice raggiunto dall’autore in questi anni: chiudendo La vita in versi, riassumono il senso intero di un’esperienza umana e intellettuale in un passaggio cruciale verso una compiuta maturità artistica e, nello stesso tempo, tracciano un inedito ritratto di una città che il cinema del neorealismo aveva già portato sotto i riflettori proprio in quegli anni.

 

1Giovanni Giudici, I versi della vita, a cura di Rodolfo Zucco, I meridiani, Mondadori, Milano 2000, p. 41.

2Le citazioni sono tratte da: Giovanni Giudici, Op. cit., p. 122-124.

3Datazione tratta da: Giovanni Giudici, Op. cit., p. 1409.

4Ibidem.

5Ibidem

6Giovanni Giudici, Op. cit., p. 125.

L’orso di Calarsi

0

di Claudio Conti

«Da una parte l’Impero ottomano, dall’altra la Valacchia. In mezzo il Danubio, nero e immenso».
Lara è sul fianco e ruota la testa all’indietro, verso Adrian. Rimane così per un po’, con la reminiscenza del suo profilo a sfumare sul cuscino.
«Fai sul serio?» gli chiede alla fine, assonnata.
Adrian accende l’abat-jour e si tira su puntando i gomiti. «Non dormire», le dice mentre si sistema il cuscino dietro alla schiena, «devi ascoltare».
Allunga una mano per prendere le sigarette dal comodino e si sofferma sul libro su cui era poggiato il pacchetto.
Lara gli lancia un’occhiata. «Non vorrai fumare?»
Adrian solleva il libro e se lo rigira tra le mani. Lei ruota il corpo verso di lui e il movimento troppo brusco manda all’aria la stanza, che inizia a girare.
«Sono sottosopra», mugugna.
Lui sfoglia pagine come schiaffi.
«Fa’ attenzione con quello».
«Sembra antico».
«Lo è».
«Cosa hai detto che studi?»
«Non me l’hai chiesto. Storia dell’arte».
Adrian si blocca e centra una pagina con l’indice. «Sono disegni arabi?»
«Miniature. Cinesi, persiane e turche».
Lui prende una sigaretta dal pacchetto usando i denti, senza distogliere lo sguardo dal libro. «Miniature
Lara chiude gli occhi nel tentativo di rallentare la rotazione del letto. «Si chiamano così».
«È curioso perché la storia che ti stavo raccontando», richiude il libro e lo lancia sul comodino, «parla proprio di turchi».
Lara sobbalza per il rumore. Cerca con lo sguardo il libro, per metà oltre il bordo del mobile, quindi scivola su di lui, sul suo fisico curato, i pettorali, i tatuaggi. «E della Valacchia», aggiunge con un mezzo sorriso annoiato.
«È il posto da cui vengo».
Lara torna a rivolgergli la schiena, tirandosi il lenzuolo fin sopra la spalla. «Senti, per me vieni dal Blu Line», gli risponde sbadigliando, «può bastare?»
«Tra poco me ne vado».
«Non ho mica detto che devi andartene, sono solo stanca, e poi ho bevuto troppo».
Adrian fa scattare l’accendino e fissa il cuore blu della fiamma fremere sulla brace dalla sigaretta.
«Mi sei sembrata una che l’alcol lo regge bene».
«Se sono qui con uno che in piena notte si mette a parlare dell’Impero ottomano», fa lei in mezzo a un altro sbadiglio, «direi che non lo reggo poi così bene».
«Non ho neanche iniziato».
«È una minaccia?»
«Studi Storia dell’arte, il passato dovrebbe interessarti».
«Sì», gli fa con un filo di voce, «ma il passato è lì, stanotte non andrà da nessuna parte».
«Il passato si muove eccome», risponde lui con una sfumatura nervosa che la sorprende. «È un cacciatore instancabile», aggiunge soffiando fumo.
«Ti avevo chiesto di non fumare».
Adrian le sfiora il collo con l’indice e lei si ritrae come una chiocciola.
«Facciamo così», gli propone, «racconta la tua storia, non badare a me», la voce sembra spegnersi, «ma se mi addormento non prendertela».
Lui le scopre la schiena nuda e ne segue l’armonia della sinusoide. Lara si tira su il lenzuolo, con un gesto rapido. «Lo fai sempre?» Gli chiede quasi infastidita.
Adrian tira dalla sigaretta e lancia il pacchetto verso il comodino, mancandolo.
«Faccio sempre cosa?»
«Tormentare, lo fai con tutte?»
«In effetti no».
«È il mio giorno fortunato, allora».
«È la storia di un destino. Un deochi vecchio di duecento anni», le dice poggiando la testa sul muro e osservando le decorazioni sul soffitto, «una condanna nata ai tempi degli orsi ballerini».
Lara sbuffa divertita e scettica. «Gli orsi ballerini, ovvio, come ho fatto a non pensarci».
«Erano Ursari», fa Adrian, serio. «Andavano avanti e indietro lungo la sponda del Danubio, nei pressi di Calarsi, di villaggio in villaggio. Gli orsi ballavano al ritmo del tamburello alzandosi sulle zampe posteriori, sai, acrobazie e giochi. I contadini, quei poveracci, ci andavano matti. Pensavano fosse magia».
Lara sente un sapore terribile in bocca. «Mica volevo offenderti», gli fa infilando una mano sotto al cuscino per sorreggere meglio la testa.
«Quella gente campava così, d’elemosina, accampandosi dove capitava, era una vita misera», si prende una pausa e tira dalla sigaretta.
Lara ci pensa su. «Tu hai una vita misera, Adrian?»
«Che vuoi dire?»
«Non ho visto orsi al Blue Line, stasera. Ho visto un ragazzo ben vestito che striscia la sua carta».
Adrian getta la cenere sul pavimento e si rivolge alla sua nuca. «E con questo?»
Lara si aggiusta ancora il cuscino, il sonno sembra aver abbandonato la sua voce. «Il passato è morto. Muore ogni minuto».
«Non dovresti fidarti delle apparenze».
Lei sente salire un po’ di nausea. «L’apparenza è tutto quello che abbiamo».
Adrian fissa i colori che animano gli inserti della porta di legno. «Le apparenze, già», ripete sovrappensiero. «Dalle apparenze direi che hai una bella casa».
«È di mio padre», taglia corto lei.
«Cioè tua», ribatte Adrian.
Lara si gira lenta e incrocia il suo sguardo impassibile.
«È meglio amministrare capitali che ammaestrare orsi», le fa.
Lei sembra irrigidirsi, rimane a scrutarlo con una vaga sensazione di disagio che non sa interpretare.
«E tu che ne sai di come campa mio padre?»
Adrian accenna un sorriso. «Il tuo è un cognome noto in città», le risponde con ovvietà.
Lara ha la testa pesante e crolla ancora sul cuscino. È stanca, non le piacciono le serate che si trascinano. Vorrebbe restare sola. «Be’, sappi che non ti sposerò», gli fa scherzando, cercando di spazzare via quella sensazione che le si è appiccicata addosso.
«Il gruppo di Ursari venne sterminato durante la notte della mattanza turca», continua lui, «tutta la maledetta tribù».
Lara si sistema con la schiena sul materasso e le mani sulle lenzuola, attenta a non scoprirsi il seno. Fa un paio di profondi respiri col naso. Le manca l’aria e c’è quel puzzo di fumo.
«La mattanza turca?»
Adrian sposta il peso su un gomito, inclinandosi verso di lei. Le sfiora un seno da sopra il lenzuolo indugiando sul capezzolo.
«Gli ottomani risalgono il Danubio, entrano dal Mar Nero con la loro flotta e invadono la Valacchia. Avanzano sulla terra con gli azab, i tagliatori di teste; sul fiume con le galee davanti al Mahmudiye, il più grande vascello turco, centoventisette cannoni puntati sulla costa, ottanta metri di legno, mille marinai d’equipaggio». Quasi bisbiglia, ora. «Sono spietati e sanguinari, i turchi, uccidono qualsiasi cosa abbia vita. Florina ne sente il puzzo e sbuca dalle tende quando è notte fonda. Sente il fiume ribollire, sente la loro musica: il ritmo ossessivo dei tamburi, il sibilo delle canne di ney e le armonie orientali dei tanbûr. Capisce che gli sono addosso».
Lara sente lo stomaco indurirsi e chiudersi.
«Florina era una tua…».
Adrian si ritrae e si appoggia di nuovo sul cuscino.
«La mia quadrisavola. Lei non dorme mai, lei è il loro angelo. Dalla riva, coi piedi dentro al fango, sente l’odore del sangue che scivola sopra al fiume; vede il cielo farsi porpora per gli incendi e capisce che non c’è tempo: prende suo figlio Victor, di dodici anni, e lo infila in un siluro». La fissa. «Nel Danubio ci sono pesci siluro lunghi fino a quindici metri».
Lara cerca di sistemarsi meglio, ma si agita senza trovare la posizione. Sente che sta per vomitare. «Sei rumeno, quindi».
Adrian fissa la sigaretta facendola ruotare tra pollice e indice.
«Florina ne cattura uno e lo tramortisce con una delle sue misture calmanti per orsi; ci infila dentro il piccolo Victor, che respira grazie a una canna di bambù, e lo affida al Danubio. Quindi libera tutti gli orsi della tribù che si gettano nelle acque e seguono il siluro dritti fino all’isola degli orsi».
Lara ha voglia di infilarsi la maglietta, la cerca, è in fondo al letto. «Devo andare in bagno».
Fa per alzarsi ma Adrian la blocca afferrandole un braccio.
Lara guarda quella mano, guarda lui, stupita.
«Ho bisogno di vomitare».
«Ho quasi finito», la rassicura allentando la presa.
«Fai presto, allora», gli fa decisa, mentre posa lo sguardo sulla tenda tirata, sulla porta chiusa, sulle mutande sul pavimento, sul suo cellulare, che ha lasciato sul comò, dall’altra parte della stanza.
«L’isola degli orsi è ancora lì, è un isolotto in mezzo al Danubio. Lì ha vissuto Victor con la sua comunità di orsi ammaestrati. Lì ha fatto scendere sulla mia famiglia il deochi».
Strizza il filtro e spegne la sigaretta con tre colpi pieni di scintille sulla copertina del libro che si sbilancia e cade dal comodino.
Lara spalanca gli occhi incredula. «Ma che cazzo fai».
Adrian spegne l’abat-jour e scivola verso di lei.
«Quando l’eco dei turchi si allontana», riprende con voce bassa, «Victor fa ritorno al campo e vede i suoi amici, i suoi genitori, Florina; tutti fatti a pezzi. Le teste infilzate sui ceppi, fisse in espressioni innaturali. I corpi bruciati e rattrappiti, lasciati ai ratti».
Lara vede gli occhi di Adrian guizzare nel buio, piccoli e vuoti. Allunga un braccio verso il paralume ma Adrian le afferra ancora il polso. Tenta di divincolarsi, lui lo stringe con forza.
«Lasciami».
«Nella testa di Victor accade qualcosa di terribile. Il ragazzino perde la sua parte umana, diviene un mito. L’Orso di Calarsi, così lo chiameranno per il resto della sua vita. Tutta la stramaledetta Turchia aveva terrore dell’Orso di Calarsi. Dal più disperato dei contadini su fino al grande sultano. L’Orso di Calarsi addestra i suoi orsi ad uccidere; di più, gli insegna a sventrare e mangiare i nemici: gli ottomani prima e gli zaristi poi. E Victor uccide con loro, mangia i nemici con loro».
«Mi stai spaventando».
Adrian la fissa nel buio. «Ecco da dove vengo io. Ecco il mio deochi». La tira a sé. «Ecco chi sono», sibila.
Lara fa una smorfia di dolore. Cerca di liberarsi usando l’altro braccio ma Adrian lo blocca.
«Lasciami andare».
Adrian risponde con una specie di risucchio, un verso di rifiuto sordo e osceno.
Lara si sente debole. Non capisce cosa le sta succedendo. Lo fissa atterrita. È capace solo di un sommesso lamento.
«Io e te siamo la nostra storia»
«Cosa ne sai di chi sono?» gli chiede, quasi implorandolo.
«Lo so da duecento anni chi sei, Lara».
Adrian le sorride d’un sorriso freddo e impuro, la tira sotto di sé con forza, le incrocia le braccia e la schiaccia puntandole un ginocchio sulla pancia.
Lara soffoca un urlo di dolore, non riesce a respirare e nel buio vede solo i suoi denti.

Claudio Conti è stato finalista al Premio Italo Calvino 2021.

La casa è nera

1

di Nadia Agustoni

venivano con il colore uno per volta
e un fiato di bambini
un’ala di cotone ogni sera
teneva insieme la sabbia

con la fatica dei pedali vanno
come un mondo
niente sfigura le strade
e pensano panchine porti.

*

a volte leggono nelle stelle la casa
pensano per un sorriso
con l’ombra dei fiori falciati
guardano il perdono

viene un colore di sere
quel toccare appena del sereno —
bisogna amare il poco
per capire.

*

non portano il prato
ma l’erba di queste notti
cura il piangere e il prato
li raggiunge lontano.

il cielo degli azzurri imprime
un cuore alto
e corrono i conigli allo scoperto
si respirano da soli.

case senza tetto piene di luce
i figli nel fuoco di fotografie
con la loro storia
avranno le domande del viso.

*

nella terra non arata
l’asse di legno a chiudere la casa
ricorda il mancare dei vivi
i lavandini bianchi —

la luce di questi giorni
per conoscere le ossa
scava dove la talpa
è il suo ricordo

e un tempo di polvere
va nel cielo, perché parli
qualunque voce
qualunque io.

*

luccica sull’acqua un riflesso e in quel bere della sete pensa al vero, a dire cosa sono i torrenti, le case e il crescere del buio sulle montagne.

nel fulgore dei muri la durezza di alveari parla congedo.

*

Testi tratti da: Nadia Agustoni, La casa è nera. (Prefazione di Giovanna Frene, Vydia, 2021)

Le letture tendenziose di Franco Antonicelli

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Proponiamo un estratto, per gentile concessione dell’editore, da Franco Antonicelli, “Le letture tendenziose”, E/O 2021.

Il discorso sulle “letture tendenziose” pronunciato dall’intellettuale antifascista Franco Antonicelli a Livorno, il 15 ottobre 1967 per l’inaugurazione della Biblioteca dei Portuali, e  ancora oggi una appassionata difesa di un modo di leggere per capire e per cambiare. Antonicelli (1902-1974) subì un primo periodo di carcere per aver firmato un documento di solidarietà  con Benedetto Croce, e nel 1935 venne confinato alcuni mesi ad Agropoli. Ripreso l’insegnamento a Torino, ne venne allontanato per motivi politici. Alla vigilia dell’insurrezione Antonicelli divenne presidente del Cln, Comitato di liberazione nazionale, e fu tra i dirigenti prima del Partito d’azione e poi del Partito repubblicano. Diresse negli anni trenta a Torino la casa editrice Frassinelli, introducendo in Italia, tra gli altri, scrittori come Kafka e Faulkner, e nel dopoguerra la Da Silva pubblicandovi tra l’altro “Se questo è un uomo” di Primo Levi (1947). Consulente della Rai, collaboratore della Stampa e di molte riviste, è stato tra i protagonisti nel 1953 della battaglia contro la “legge truffa” ed è stato eletto senatore nel 1968 nelle liste del Pci e poi del Psiup per due legislature.

***

Ah, sì, certamente. Quello che ha detto il mio amico Terni è la verità: non dico che non sarei venuto. Sono venuto con un più vivo piacere proprio per il fatto che erano i lavoratori portuali che mi avevano invitato; proprio per l’amore che ho, e che credo di aver dimostrato, per il popolo e specialmente per il popolo che non rimane popolo, che non rimane massa e che si costruisce i suoi strumenti per diventare come tutti desideriamo: la classe dirigente di un paese. Non è un pensiero politico quello che dico: dico la classe dirigente, cioè la classe responsabile dell’avvenire di un paese.

(…)

Vi è un altro libro che vorrei che ci fosse, ed è Lettere dall’America di Gaetano Salvemini. Voi sapete chi era Salvemini. Era un grande uomo e affettuosamente, ricordandolo, dico che era politicamente uno sconclusionato, e dico sconclusionato con molto affetto, con l’affetto di chi ama gli uomini sconclusionati, cioè gli uomini che non predicano niente, che non fanno profezie e che sbagliano sempre, ma che hanno un meraviglioso vigore. Hanno un meraviglioso vigore. È stata, questa, la coscienza di italiano di Gaetano Salvemini. Gaetano Salvemini uomo era così; era un vecchio socialista, poi persino abbandonò il Partito Socialista più che altro per ragioni di indipendenza. Ebbene, ha educato l’Italia. Ha educato l’Italia a credere alle cose concrete, a credere ai problemi concreti, e a credere anche al sospetto delle proprie verità. Credo di aver ricordato, tutte le volte che l’ho incontrato, che Salvemini aveva quel meraviglioso coraggio, che gli uomini politici non hanno, di dire: mi sono sbagliato.

Perché voglio che leggiate le Lettere dall’America? Sapete cosa sono le Lettere dall’America? Sono le lettere che lui ha scritto tra il 1944 ed il 1949. Nel 1949 poi rientrò in Italia, come saprete, ed è risalito sulla cattedra dalla quale era stato cacciato nel ’25, la cattedra di Storia a Firenze. Degli anni ’44-46 sono le lettere del primo volume. A chi Salvemini scriveva? A gente che voi certamente sapete chi era: a Riccardo Bauer, Ernesto Rossi, Piero Calamandrei, Egidio Reale, cioè a gente, come chiamarla?, di mezza forza, mi spiego?, politicamente, cioè, di terza forza: non socialisti di origine, ma liberal-socialisti, secondo la lezione di Rosselli, Partito d’Azione, Giustizia e Libertà. Poi si divisero, parte socialisti, parte radicali, parte repubblicani.

Perché vi dico di leggere questo libro, queste lettere bellissime, ricche, piene di interesse, di entusiasmo e, da parte di Salvemini, di consigli? E le risposte degli altri: – Ma tu non vedi bene…, ma tu non sai la situazione…, ma tu vivi in America… – È un libro drammaticissimo e bello. Perché? Perché la storia è la storia della caduta d’un grande entusiasmo, d’un grande ideale, che si configurò politicamente nella storia del Partito d’Azione. Questo nobile partito, il partito della tormentata coscienza degli intellettuali italiani (intellettuali italiani che credettero di poter fondare un partito sulla crisi della loro coscienza, di fondarlo sulla speranza di una via che non poteva essere tradotta in realtà, che non corrispondeva alla realtà, che non corrispondeva neanche a un ceto vero e proprio, perché corrispondeva soltanto alla classe degli intellettuali), fu lo specchio del più glorioso fallimento politico che ci sia stato in Italia, ma glorioso e nobile. Perciò è un libro che voi dovete conoscere perché un portuale, un lavorato- re deve conoscere quali sono state le ansie degli intellettuali con cui ha e deve trovare alleanza naturale.

Ma cosa c’è di bello in questo libro? Sono queste battute di Salvemini, questa continua lezione di Salvemini che vi posso citare in tre punti. Uno è questo: «il mondo sarà rinnovato se ciascuno lavorerà nel proprio paese a rinnovarlo», cioè la fede nel lavoro personale.

– Non dire: che cosa fanno gli altri?, non dire: sono un isolato, non dire: non ce la posso fare da solo. Ogni paese sarà rinnovato se ciascuno lavorerà per rinnovarlo –.

E poi vi è quella che è sempre stata la sua lezione: l’ho sentito dire tante volte, in modo molto bello: – Bisogna che in Italia si crei una classe che per dieci anni lavori, studi, studi, stia da parte, abbia il coraggio di rinunziare alle posizioni ufficiali, si prepari e poi venga alla ribalta. Debbo dire che sono passati dieci anni, vent’anni, ma questa classe non è venuta. Avrebbe detto Salvemini: mi sono sbagliato. No! E l’errore più fecondo, il seme più fecondo che egli abbia gettato è un ammonimento che conta ancora adesso.

E poi vi è un’altra battuta, lo dico a tutti quelli che vivono nei partiti (io non vivo nei partiti, ma la lezione viene anche a me da tutti quelli che lasciano i loro partiti per insofferenza, perché non sanno che si deve combattere fino alla fine). Salvemini disse queste famose parole, riprese da una cronaca medievale che narrava di monaci, di fraticelli molto inquieti nei loro conventi. Diceva: – Sì, ribellatevi ai vostri vescovi, ma rimanete nei vostri conventi –. La più grande delle lezioni: – State nei vostri conventi; abbiate fede nelle vostre organizzazioni; migliorate le vostre organizzazioni; combattete i vostri vescovi… –

Erano queste le lezioni. Il libro di un fallimento, vedete?, è ricco di cose positive. Può mancare questo nella vostra biblioteca?

L’Anno del Fuoco Segreto: Iniziativa di Ordine Superiore

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La descrizione del progetto L’Anno del Fuoco Segretosi può leggere QUI.

di Edoardo Rialti

Bisogna pure cominciare da qualche parte, tanto vale farlo dalla Pawa.

Ce n’erano almeno tre migliori, in zona. Alla Runner ci stava pure la spa, a Skoda e Azzurra giravano le ragazzine, con tutti quei corsi coi nomi inglesi, la Pawa invece non cambiava pesi e macchinari da dieci anni, persino la musica pareva più vecchia. Un po’ come certe palestre delle città di mare, che in qualche modo sembrano ferme sempre agli anni ’90. Un’unica sala grande, più altra mezza ricavata da un garage, luci al neon per gli zompi di qualche vecchia la mattina e la boxe alla sera. Il proprietario adesso era un filippino che non spicciava parola, e pareva infastidito a ogni nuova iscrizione. Roba per chi non vuol spendere, barbe bianche in canotta col ventre gonfio e tony, altri filippini, ragazzi che in posti così si sentono più cazzuti ancora. Il Bomba li aveva conosciuti lì, Massimo a tirare di sacco pure lui e quell’altro, Lele, sempre in sala, invece. Massimo si attaccava con un braccio solo alla sbarra, raccoglieva le gambe al petto e guardava Lele alle trazioni. Perché non fa boxe pure lui, gli aveva chiesto il Bomba mentre correvano in cerchio, sembra fatto apposta, quanto cazzo sta sollevando laggiù, cento-centoventi? Quanto è alto, due metri? Che massello porcodio. L’altro, secco e olivastro che pareva uno zingaro, aveva sbuffato un sorriso e scosso indietro i capelli neri, lunghi e sottili pure loro, tastandosi il lobo e accorgendosi che non s’era tolto l’orecchino di brillante. Non ne ha bisogno.

Il sole è già alto ma la nebbia fuma ancora dall’acqua dei canali, lo vela e ne fa una macchia bianca, pulsante. Presto la luce si farà strada, squarcerà ogni velo e i colori diventeranno accesi e belli. Il rosso dei castagni nel boschetto del palazzo sotto di me. Il verde e il giallo dei templi e delle case. Il blu chiazzato di scuro dell’acqua sporca. Chiudo gli occhi sul balcone, inspiro a fondo. Sono nudo, eccetto la corona e i gioielli. Il pettorale di smeraldo è freddo sulla curva piena del petto, lo copre fino ai capezzoli. Ancora ieri sera, al banchetto, gli ospiti lo sfioravano e lodavano, lucido d’olio rosso alla luce delle fiaccole. Ancora ieri notte, le tre dee lo strizzavano e percorrevano con la bocca. Nonostante fosse l’ultima notte, non me n’è venuta alcuna tristezza. Dormono ancora, sul grande letto bianco. Da qui posso vedere le gambe snelle, intrecciate. Ho dato il seme a ciascuna, e adesso il mio pene e i testicoli riposano al tepore della pietra della balaustra, che si scalda. Come tutto è giusto e bello. Sopra di me, Nanauatl stende le braccia in cielo, diffonde il suo calore su tutta la terra. Sotto di me, Tonantzin respira piano sotto e dentro la pietra, adorna di case alberi acque che le gocciolano tra i seni e nelle pieghe del ventre immenso, smagliato da innumerevoli parti. Maishi mi soffia gentile su schiena e natiche. Xochipilli e Xochiquetzal stanno alla mia destra e alla mia sinistra, adorni di fiori bianchi e neri, mi tengono per mano prima di lasciarmi per sempre. Il mio corpo è un libro, le parole frusciano e fremono su cosce e braccia, su fianchi e collo, sulle mie palpebre chiuse.

Per un po’ li si vide spesso insieme, il Bomba e Massimo e Lele, si davano appuntamento alla Pawa e poi uscivano tutti e tre. Di sicuro il Bomba e Massimo, che chiacchieravano entrambi a manetta, Lele non lo si sentiva parlare quasi mai. Il Bomba era magro pure lui, più basso di Massimo, trentacinque anni, napoletano, capelli corti che già mostravano la pelata, tratti minuti che lo facevano sembrare più giovane, occhi tondi. Poi il Bomba non lo si vide per qualche settimana, e quando tornò lo fece a orari diversi, e qualche tempo dopo Massimo e Lele non vennero proprio più. Gli si chiese che facevano. Lui disse che non lo sapeva, non li sentiva. Sembrava volesse cambiare argomento. Si mise pure a parlare con quella coppia di finocchi, uno giovane e l’altro che pareva il babbo. E dire che di solito non se li sarebbe filati di striscio. Lo spogliatoio puzzava di vernice e legno umido. Meglio così, fece chi aveva domandato, con quella pertica d’omo in sala la panca te la scordavi. Oh non si schiodava.

Il Bomba lo chiamavano così perché le sparava sempre altissime e poi faceva Boom agitando il pugno chiuso. Anche l’ultima volta ch’erano usciti insieme, per incontrare una di cui gli aveva scritto Massimo, entrando in macchina aveva appena detto ciao che era già partito. Oh, stasera cazzi durissimi. Boom. Era novembre, faceva freddo, le luci gialle del viale tra gli edifici grigi erano fasci sformati nella nebbia.

Il mio corpo è un libro, strumento di profezia, proclama le imprese di vento e luce del futuro. Il sole adesso brilla in cielo, la foschia sfavilla, l’esercito degli spettri è imperlato di rugiada. Allungano le braccia al cielo, benedicono e si fanno benedire. Le stelle sono gocce di sangue. Non le vedo più, ma premono sulla pelle come spilli, oltre il velo azzurro. Anche loro sono un libro. C’è una canzone, dentro la mia nuca, che si lamenta piano, lontana. Avanza su un corridoio lunghissimo. Presto mi arriverà alla bocca, prenderò a scandirla senza suono, come i bambini che imparano a parlare. Per tutta la settimana ho fatto piovere sulla città, tranne ieri che è stato limpido e fresco. I preti dicono che è una buona cosa, come la pausa per il balzo del guerriero e del leone di montagna, come Mextli che flette le braccia prima di lanciare il giavellotto. Un atto commendevole e gradito a tutti. Sono stato un buon dio, mi dicono. È strano fare qualcosa, e non sapere come. Faccio piovere, sostengo il sole, massaggio le giunture legnose di Omechiuathl, eppure non so ancora come. È legge comune, mi dicono i preti, per bestie uomini e dei. Nessuno controlla davvero il respiro, o il fluire del sangue, le combustioni interne e il sudore sotto le ascelle. Adesso non so come eppure lo faccio. Presto lo saprò, confronterò libro con libro, alto come l’inimitabile falco e continuerò a farlo.

Ohi, spero questa sia troia per davvero, l’altra volta mi son fatto leccare solo le palle mentre ve la giravate, manco in culo se l’è fatto mettere. Il Bomba si accese una sigaretta. Dietro Massimo succhiò l’aria, chiese a Lele se avesse del deodorante nel borsone, perché puzzava. Forse, guarda un po’, disse Lele. Teneva spesso gli occhi socchiusi, come fissasse il sole.

C’era stato anche un altro, qualche mese prima, che chiacchierava meno ma sapeva comunque far da sponda alle cazzate di Massimo, l’alfabeto minimo dei porno guardati da entrambi, tipo darsi il cinque e sogghignare con tutta la lingua di fuori mentre si spartivano bocca e figa. Ma dopo che si erano visti con due tipe e tornavano in macchina e quello sorrideva ancora beato, s’era improvvisamente fatto serio, la fronte appoggiata al finestrino, e aveva cominciato a raccontare che aveva cambiato lavoro da poco perché al negozio di scarpe di prima ci stava ancora la sua ex, e che quella lui non riusciva a schiodarsela e faceva troppo male. Quello nuovo era un posto di merda, il capo stronzo, ma vallo a spiegare a sua mamma che ogni settimana gli scassava i coglioni perché lo stipendio era da meno. Eh eh. Massimo tendeva il gomito del chiodo sotto la luce dei lampioni. Lele prese l’uscita al cavalcavia che portava verso una piazzetta con una chiesa abbandonata, le case basse a ricordare che trent’anni prima qui era ancora mezza campagna. La chiesa aveva una facciata bianca con un affresco sbiadito e arrossato sulla parte inferiore, le figure ridotte a una fila di gambe e sottane. Scendi, disse al tipo, poi gli mise una mano sulla nuca e gli sbatte la faccia a terra, una due tre volte.

Cinque ore dopo il Bomba tornò a casa che aveva la febbre. Non accese neppure una luce, si buttò a letto a faccia in giù, senza dormire senza pisciare, senza mai girare la faccia per paura di guardare la luna. Passò gran parte del giorno dopo seduto sul divano, con le mani sulle ginocchia e la testa in avanti, come se dovesse alzarsi da un secondo all’altro per il suono di un fischio invisibile. Aveva finito le sigarette.

Quando avevano portato l’americana al casolare per una spaghettata di mezzanotte, lei era già sbronza persa. Ridacchiava. Avrà avuto sui trentacinque, ma il bere la appesantiva parecchio. Orecchini pesanti, quasi un anello per dito. Parlava poco l’italiano. Era venuta a trovare una cugina più giovane che studiava a Milano, e aveva fatto sosta a Firenze perché era appassionata di cucina e seconda guerra mondiale. Il Bomba aveva in camera dei bussolotti ritrovati col nonno in Appennino, dove passava la Gotica. Comunque gli ebrei stavano dietro a tutte le guerre, eh. Forse era l’unico che la ascoltava davvero, anche solo per le tette. Massimo annuiva al ritmo della cagate lounge che rifilavano, e intanto buttava occhiate intorno, valutava le altre, si rigirava l’anello all’indice. Il barista aveva il viso arancione per la camicia a quadri e il riflesso del bancone. Lele guardava l’americana. Non sei brava a dire le bugie, lui sorrise appena. Lei si rimise una ciocca bionda dietro l’orecchio in modo così banale da risultare improvvisamente più piccola e vecchia.

La mia nave è carica di fiori, li getteremo sul fiume man mano che procediamo, assieme alle mie vesti e alla corona di piume, mentre dondolo e lamento che il tempo ci spoglia come un’amante impaziente. Ho le narici bagnate di resina, mi aiuta a piangere. Ho le braccia spalancate, sento tendersi tutta le ossa del mondo. Ecco, i miei amici son tutti spariti, e qualcuno sa dirmi dove sono andati? Se lo chiedi al grano, quello scuote al capo, se alzi la testa al cielo, tace.

Vabbè è una figa all’olio di palma, il Bomba mormorava in italiano, guardando avanti, ma quella non avrebbe capito comunque. E che ti frega? Massimo stava sul sedile posteriore che le toccava le tette, mentre con l’altra mano la massaggiava tra le cosce. Tranquillo, il pisello non c’è più. Il casolare era stato dei suoi nonni, ma adesso lo si sistemava solo d’estate per affittarlo. Agli americani, appunto. Sborsavano qualcosa al vicino perché ogni tanto girasse a controllare le staccionate buttate giù dai cinghiali, poca roba. Il viale che scendeva dal cancello era fiancheggiato da pioppi e castagni. Era piovuto parecchio, come sempre a novembre, ma adesso faceva così freddo che pareva quasi di sentire sulla pelle le vibrazioni emanate da una neve che non era neppure caduta. La città era a venti minuti, dal cancello bastava svoltare un angolo e si vedevano le luci di Rifredi. Massimo era passato la mattina per il riscaldamento. Quando furono tutti dentro e la porta si chiuse, l’americana incrociò le gambe, oscillando un po’, le mani dietro la schiena per appoggiarsi al bordo del tavolo. Me lo potete mettere dove vi pare, disse, non si sa bene per rassicurare chi. Lele si tolse la maglietta. A differenza di Massimo che aveva tatuaggi su petto e braccia, era così bianco e liscio che pareva luccicare.

Quando si menava il cazzo alla mattina, poi Massimo se ne restava rannicchiato sul fianco intorno alla chiazza di sborra sulle lenzuola, come un ferito accanto a una pozza di sangue che si allarga. Conosceva musica troppo comune per avere un nome per il basso ronzio di archi che gli si prolungava nella testa. Poi si alzava e faceva colazione. Se sua madre era venuta il giorno prima pulirgli casa, trovava nel posacenere le Marlboro succhiate fino al filtro. Fermati prima, che ti fa male, le diceva sempre, ma lei sorrideva e tirava apposta facendogli l’occhiolino. Oh cazzi tua, nana.

Tutta la terra è un’urna e ogni cosa corre al proprio funerale. Però non temete, ho preso tutto il vostro dolore con me, con me. Il legno della barca è caldo sotto i piedi.  L’aria odora di umidità e dolci delle feste. Adesso abbiamo gettato via anche i tappeti. Sulle rive uomini donne bambini mi tendono le dita come tanti occhi. Il mio sorriso è una falce bianca a incontrare le lacrime sulla faccia.  Va bene così. Guardate, ciò che avete dato me lo premo sul petto, ogni mano tesa è il mio cuore, con me. Porto il sole sotto l’ascella. Adesso piangete, ma poi riderete, e nessuno potrà rubarvi la vostra gioia.

Nessuno parlava da un po’. L’americana biasciava e premeva la fronte sulla spalla del Bomba sotto di lei, che ogni tanto le prendeva la faccia tra le dita e le faceva Che c’è, eh, eh? e la scopava. Massimo la inculava da dietro, a colpi secchi e affannosi, alzando bene le chiappe, la bocca storta come per una battuta che continuasse a farlo sorridere. Poi si sfilò e fece entrare Lele, che si mise a spingere più piano e a fondo. La tizia rabbrividì. Ah ah. Occhio che mi stritoli, fece il Bomba. Poi sentì che Lele premeva con l’indice accanto al suo cazzo, appena fuori della fica. Te ne apro un’altra, disse Lele. L’americana sbavava sulla spalla del Bomba, ma quando Lele continuò a scavare col dito mormorò I dont like it e guardò il Bomba, stringendolo. Basta, squittì lei. Il Bomba sentì qualcosa di caldo colargli sulle palle e senza guardare capì che era sangue. Lele non diceva nulla, neppure respirava più veloce. Li schiacciava entrambi. L’americana si agitava e urlava. Ma che cazzo, il Bomba la guardava con tanto d’occhi, il pisello smoscio di colpo. Lele adesso le mordeva l’orecchio e lei sanguinava pure da lì. Lei aveva la bocca spalancata e strillava così forte che quasi non si sentiva. Massimo stava in piedi sul letto e si segava, sbuffando quasi fosse incredulo. Quando lui schizzò e Lele finì in culo, si scostarono entrambi e lasciarono la tipa a singhiozzare addosso al Bomba immobile. Lele fumava una sigaretta al tavolo. Massimo riscaldava il caffè. Poi lei si pulì come una bambina che l’abbia fatta grossa, obbedendo senza fiatare, lucida. Ma la fecero bere ancora, e il ritorno se le fece tutto piangendo. Il Bomba pensava che da un momento all’altro le avrebbero detto di stare zitta, ma non lo fecero. La fecero scendere quando furono al Warner Village. Appena fuori della macchina, lei si mise a urlare e sembrò raccogliere qualcosa che voleva tiragli addosso. Loro si allontanarono. I travelli fan sempre casino, disse Massimo, guardando verso lo specchietto di lato. Adesso sedeva lui accanto a Lele.  Portarono il Bomba a casa. Quando ripartirono, lui rimase lì, quasi dondolando sulle punte, e una parte del cervello che fischiava si mise a contare le macchine che passarono in quei cinque minuti alle quattro circa di mattina. Comunque trentasette.

Questa non è morte, è più sicura e più calda. È un abbraccio che mi culla, un panno fresco sulla fronte, un ventaglio che tiene lontani uccelli e mosche.

Ne uccisero due, un’altra ancora sbagliò coi denti mentre succhiava in ginocchio e Massimo cacciò un urlo e si scostò come per un dito schiacciato mollandole un ceffone secco dall’alto. Guardò Lele seduto sul divano a giocare alla play, che però non si mosse. La lasciarono andare. Una la strozzarono con una cintura. Era una filippina bassa e lucida, che si era fatta combinare di tutto, incassando i pugni su costole e coccige storcendo appena la mascella sudata. Guaiva banalità. Daddy, daddy, qualunque cosa le facessero. Però ogni tanto, quando non vedeva uno di loro, i suoi occhi guizzavano, come per cercarlo ed ecco, come un messaggero subito scomparso, la paura. Mentre Massimo le stava addosso da dietro e la teneva per i fianchi, fissandosi il cazzo bagnato che entrava e usciva dalla fica, Lele le passò la cintura intorno al collo, e si mise a stringere mentre l’altro le schiacciava la testa sul cuscino. Quando lei finì di sussultare, Massimò prese a spingere più forte ancora, gridando come spaventato che le spinte andassero avanti per conto loro. Poi si buttò di lato e alzò le braccia verso il soffitto, soffiando forte, girando appena i pugni come fosse al volante. Suo nonno lo faceva sempre quando si sdraiava per la pennica. Era morto due anni prima. Aprirono le finestre per rinfrescare, tanto c’erano le zanzariere. Gli alberi frusciavano, a luci spente la luna sarebbe stata un faro.

Lele lavorava all’Ikea di Campi. Tecnicamente era caporeparto ma di fatto agiva perlopiù da libero battitore, gestendo quasi da solo alcuni settori. Nessuno gli stava troppo intorno, e comunque il suo lo faceva. Alle donne piaceva proprio perché sentivano che non gliene importava niente di loro, ogni scambio o battuta una concessione che confondeva e faceva vergognare, come se il flusso costante di una cascata nella sua indifferenza improvvisamente scandisse il tuo nome, e resti sempre il dubbio che sia stato tu a sentircelo. La tabaccaia vicino al magazzino si sorprese una volta ad addentarsi appena una mano e appoggiare la fronte sul bancone, dopo che lui sorrise e fu uscito.
Aveva lineamenti piccoli nel viso grande, che però non lo facevano apparire brutto. Capelli biondi a punte minute, magliette e tony bianchi e grigi, cosce e braccia enormi, dita tozze. A fine turno andava direttamente in palestra per un paio d’ore, e poi a casa. Era un bilocale in una palazzina piuttosto grande. Le stanze bianche e vuote, un paio di mobili degli inquilini precedenti, un grosso schermo per la tv e i videogiochi, le uniche confezioni a riempire gli scaffali subito sotto. Aveva solo ingrandito la doccia a vetri, e quando ne usciva a volte si buttava sul divano e guardava le strisce di luce sulla parete bianca che, percorse dal calore che usciva dal riscaldamento sotto la finestra, sembravano dei rivoli d’acqua. Guarda i documentari di storia, le famiglie mafiose, catastrofi naturali, gli animali. È aggiornato sui tentativi di costruire una città su Marte. Gioca a Rainbow Six, Ace Combat. Nessuna giostra di foto e ricordi a girargli intorno, niente sguardi diretti, e i vicini ignoravano che un simile sole si aggirasse sotto o accanto a loro, a irradiare la sua pigra luce pallida.

Questa non è morte, è più sicura e più calda. È un abbraccio che mi culla, una mano che spiega le grinze del rotolo. Tra indice e pollice reggo un fiore nero di vaniglia, gentile e fermo come le fauci del leopardo sul collo spezzato della capra. Lo vedo riflesso nell’acqua, come il mio braccio e il mio volto. Tra poco mi specchierò nel cielo, come un grande lago rovesciato sulla testa, rintraccerò lo stesso fiore che mi viene offerto con dita di nuvole bianche e carnose.

Un paio non salirono neppure in macchina, inventarono qualche scusa. Una andò in bagno e non tornò più. La seconda, forse la più bella, sicuramente la più giovane, gambe lunghe, davanzale che ci potevi appoggiare un bicchiere, aveva trent’anni. Rossa, con un tatuaggio a farfalla sul collo e un gran sorriso che non arrivava agli occhi grigi. Troppo fard a ringiovanire la faccia. Era arrivata al chiosco già ubriaca. Doveva essersi appena sfilata da un appuntamento deludente, o qualcosa di più triste ancora. Leggings neri, felpa bianca con un negativo di Rigoberta Menchù che nessuno dei due conosceva. Non c’entrava niente con quel posto. Gli si gettò praticamente addosso. Li fece ridere quando chiese alla barista brasiliana come avesse trovato lavoro lì, e quella strinse le spalle e disse che il proprietario voleva scoparsela ma lei non gliela aveva mai data. A non dargliela, scandì lei alzando il gin tonic. Chiacchierava di libri e film a manetta. Son tutta sudata, odio sudare, è colpa di sto piumino. Più tardi le tagliarono la faccia mentre la tenevano premuta contro il tavolo di cucina. Massimo voleva farle la svastica come in quel film di Tarantino, ma non si ricordava da che verso fosse. Lele stava appoggiato con la guancia sul piano accanto a lei, e la guardava fisso. L’ultima cosa che disse, mentre soffiava una bolla di sangue, fu una sequenza di numeri.

Ogni gradino della piramide è di un colore diverso. Grigio mare, rosso pomodoro, giallo senape. Una ghirlanda stesa ai miei piedi, il ponte dell’arcobaleno. A ogni gradino piango, rido. Serro la faccia come una tomba, la schiudo nella promessa della primavera. Giglio, corolla, danza, morte, stella. A ogni passo mi offrono i bambini, le sterili sporgono i ventri secchi. Com’è bello, com’è bello, lamentano le vergini. Non piangete per me, rispondo loro. Ogni tre gradini suono il flauto. In alto il sole pulsa calmo dietro le nubi che passeggiano lente come capre.

Le seppellirono tutte sul fianco d’una collina troppo ripida e smossa e che non si poteva mettere a coltura, poco sopra il ruscello. Confinava con un vicino piantaiolo che vendeva pure statuette da giardino e usava la sua parte di pendio per ammassare copie o pezzi rotti, ma ci veniva solo d’estate. Se avesse avuto più senso dell’umorismo, Massimo avrebbe potuto agitare una mano verso quei nani e cani e Veneri sporchi e silenziosi.

Massimo aveva lavorato al bancone di un forno vicino casa, ma una volta aveva litigato col ragazzo che faceva pratica di notte e il tipo gli aveva dato uno spintone davanti a tutti. Adesso faceva i pomeriggi alla rosticceria dello zio, un ex-pugile coi capelli tinti color ruggine, e nei fine settimana pure ci veniva pure suo fratello, che stava finendo il Tecnico e giochicchiava a calcio. Aveva una smart per cui lo zio lo prendeva sempre per il culo. Quando faceva un passaggio lungo accompagnava la parabola strascicando un Belloooo. Ogni tanto pure Massimo tirava un po’ con lui, nel giardino vicino al negozio. A un canestro da basket giocavano un ragazzo e quella che pareva la sorella, molto più brava di lui. Massimo li guardava. Lei aveva la coda e due macchie di sudore sotto le ascelle della maglietta verde, con le maniche arrotolate. Lui quando faceva centro chinava la testa come per un applauso, e allargava le braccia quando scazzava. Oh, sei sempre tu, gli avrebbe voluto dire Massimo. Agli amici del fratello Massimo piaceva. Commentavano le tipe su tinder o instagram, sotto le macchie d’alberi intorno allo spiazzo giallastro delimitato da zaini e cappotti, gliele facevano vedere e lui succhiava la sigaretta elettrnoica, socchiudeva gli occhi e sentenziava figa, figa.

È possibile vivere senza danzare mai. È questo che disse lei allungandosi tra loro col braccio steso per prendere il whisky. Ci credereste? Era un po’ che non tornavano a questo pub, e quella sera era pieno. Fuori faceva freddo e c’era odore di cappotti umidi. Lei indossava una camicia rossa a scacchi, aveva un capellino bianco a visiera e i capelli lunghi e crespi, tinti di nero. Jeans e stivali. Culo e tette reggevano. Naso grosso, zigomi alti, pelle scura e rugosa di chi passa tutta l’estate ad abbronzarsi, labbro inferiore pieno e sporgente, forse rifatto. il khol sotto l’occhio sinistro e basta. Orecchini d’oro a cerchio ampio. Un anello a fiore nero che le copriva indice e medio. Cinquant’anni o giù di lì. Con la mano del bicchiere indicò verso il piano rialzato dove c’erano una decina di tipe con cappellini come il suo, sotto dei festoni. L’addio al celibato della grassona al centro. Una lì mi ha appena detto che non ha mai ballato in vita sua. Un po’ tardi per cominciare, fece Lele. Quel che dico anch’io, perciò ora mi finisco questo e taglio la corda. Perché hai truccato un occhio solo? Chiese Massimo. Perché, stella stellina, e lei si batté sul khol, con questo non ci vedo. Quindi è il mio lato artistico, guarda carino. E sì scostò i capelli dall’orecchio sinistro, e in cima alla mascella c’era quella che pareva una B tatuata. Che tu sei, una che dipinge? Lei fece una mezza linguaccia e rovesciò gli occhi. Scherzi? Sono agente immobiliare, però faccio anche un po’ di radio. Figo, allora una volta mi ci inviti. Massimo teneva gli occhi socchiusi come fosse nella nebbia, un sorriso blando che gli penzolava in faccia.  S’era già fatto due canne. E sei sposata? Lele stava sullo sgabello col gomito poggiato sul bancone, la guardava a sua volta con un accenno di sorriso. Ho sposato la miseria, che vuoi che ti dica. Lei si passò un indice dal collo al seno, dove correva una cicatrice che proseguiva sotto. M’hanno tolto uno stronzo grosso come un pugno. Aperta dalla testa ai piedi, due volte. Ce l’ho uguale sul retro manco fosse una zip. Lele aggrottò appena la fronte bianca. Non sei di qui. Lei alzò il bicchiere e inclinò la testa, con un gesto che non voleva dire niente. Ho viaggiato. Tipo? Lisbona, Nairobi, Bangharth, parecchia Turchia, posti così. A ogni nome, Massimo annuiva come ci fosse stato. E voi chi siete, miei cari? Avete niente per salvarmi la serata? Qualcosa ci si inventa, Massimo la fissava occhi socchiusi, la mano sulla fronte. Lei sbuffò. Nella mia esperienza, quando mi si dice così è probabile non si cavi gran che, ma magari voi due qui, pupazzetti segnatempo, col sole in tasca mi fate cambiare idea. Ti va del fumo? C’ho della roba che in due tiri ti fa vedere Bob Marley. Non che Massimo l’avesse mai ascoltato, ma ripeteva quel che gli diceva il suo pusher, un peruviano che spostava le macchine dei calciatori. Ah, tesoro, se non mi fa sudare rugiada azzurra non è che mi interessi. Oh ma come parla questa? Massimo guardò Lele con un sorriso incredulo. Riempio i vuoti, stella stellina. A volte dietro il nulla c’è il nulla e basta. Anche tu lì, gigante biondo, pesca e nocciolo, non è che siccome stai zitto ci acquisti in fascino. Lele la fissò più attentamente. Ecco spiegato il trucco, proseguì lei, magari ti credi un oracolo, portavoce di chissà che dio. Però diamo un’occhiata a quello che nascondi sotto tutto quel gilet di carne. Massimo si ficcò le mani sotto le ascelle e arricciò le labbra per un lento fischio senza suono, eccitato e spaventato come un bambino cui insultino il babbo per strada.

Non sono mai stato su questa cima prima d’ora. Per un anno il tetto squadrato è stato coperto da panni bianchi che adesso sono arrotolati ai bordi come grossi tronchi umidi. L’altare di pietra è stato bagnato con acqua calda più volte, persino adesso. Fuma ancora. Intorno stanno i preti, così ridicoli e bravi coi loro mascheroni. Le zanne, le lingue penzoloni, gli occhi cavi dovrebbero farmi paura, invece ho un groppo in gola, come la madre che senta recitare il proprio bambino nel coro. Stendo una mano a benedirli, per l’ultima volta sento il calore sui polpastrelli. Poi sulla cima soffia il vento e anch’io sono freddo e vuoto. Raggrinzisco come un verme mentre mi spogliano, mi stendono sulla pietra, mi legano i piedi e le mani sopra la testa. È giusto che abbia paura, è amore anche questo.

Nel bagno degli uomini, i bordi dello specchio quadrato sono percorsi da citazioni scritte col bianchetto. Vasco Rossi, Irene Grandi, Negramaro, Muse e Green Day. Altri hanno aggiunto sticker e frasi a pennarello subito sotto. Dino cisi. Maria ha le gambe di iuta. Viva España. Un tizio piscia ingobbito nell’orinatoio mentre Massimo si lava le mani, sciacqua la faccia. La musica e il vocio fuori sono uno sciabordio come di risacca. Si guarda nello specchio, osserva la fossetta sul naso per la cicatrice della varicella. Pensa se farsi un secondo buco all’orecchio. Il vetro non si accartoccia in un grappolo scuro. Non c’è alcun messaggio tra le strofe e le iniziali, nessun accordo in minore nella pausa tra due respiri. Ci siamo così abituati che la terra sia tonda e ogni passo avanti ha il conforto di riportarci comunque indietro. Per un attimo semmai il fumo gli dà l’impressione che il tipo stia curvo e dondoli manco trattenesse una risata. Che appena fuori della porta l’intero pub lo aspetti in silenzio per vociargli sul muso. Si fissa con un sorriso immobile. Sbuffa. Madonna puttana. In strada la tipa e Lele lo aspettano davanti alla loro macchina. Lei fuma col gomito della destra poggiato sul dorso della sinistra, lo guarda col naso sollevato, gli occhi accesi d’una lucina divertita, come due ciliegie lucide. Lui tiene le mani tasca, la supera di tutta la testa.

Le paludi lontane rilucono come un mare. Le barche nei canali sono foglioline vizze. L’aria è percorsa da uccelli trasparenti, preghiere, fili tenui e invincibili. Li colgo con la coda dell’occhio, mentre cielo e terra si capovolgono e mi stendono come un panno teso. Ora tutto l’azzurro è un grande occhio spalancato a incontrare i miei. Sento delle mani a coppa sulla nuca. Questa non è morte, è più sicura e più calda, un fiume vasto, profondo.

In macchina lei puzzava di profumo troppo forte e sigarette. Chiese di sedere davanti, abbassò il finestrino e continuò a fumare fino alla villa. A quella distanza da Massimo e con Lele che guidava, lei faceva loro qualche domanda, parlava di scarpe, delle api che sparivano, un’estate passata in un theyyam, il Tibet che è come l’Abetone ma con le scimmie, guardava le luci gialle e arancioni, il cielo d’inchiostro, gonfio. Mi piace fumare insieme al vento, diceva, pare che te la succhi via pure lui.

Questa non è morte, è più sicura e più calda. È un abbraccio che mi culla, una mano che spiega le grinze del rotolo. Conosce tutte le mie ossa, le numera nel segreto. Già la stipa per il salto nel sole.

Quando furono nel vialetto e scesero di macchina, lei si mise a guardare il bosco e il pendio, le mani sui fianchi, pensosa. Faceva meno freddo, sarebbe potuto essere ottobre, aprile. Lele la osservava con un sorrisino incuriosito. allora, chiese, entriamo o ti riportiamo a casa? Massimo si arrestò sulla soglia e lo fissò incredulo. Lei si girò. Scherzi, dopo tutta questa strada? Si tolse le scarpe e immerse i piedi nel ghiaino. Sospirò come li stesse lavando nel bidè. Allargò le braccia, una scarpa per mano e si diresse verso la porta, un piede davanti all’altro quasi fosse una sfilata. Fai strada, nottolo.

Gli astri sono mosche, i pianeti sono ragni. Premono invisibili oltre la corte azzurra. Ripenso a quando bambino facevo torte di terra, vicino al fiume. Non sapevo allora che  zanzare e tafani mi parlassero già di oggi e che il brivido per quel coccio nel piede e il sangue che arrossava il fiume freddo, mi sarebbero rimasti compagni silenziosi, sempre accanto, solo la prima lettera del discorso a venire, infinito, avanti e indietro lungo tutta la danza, gli occhi sbarrati come quelli dei cavalli, il calcagno che batte, le mani a intrecciare volute di fumo. Ho un singhiozzo per tutto ciò che non conosco e non avrò mai.

Quando furono in casa, lei tirò il fuori il cellulare per fargli sentire Andy Scott. Massimo le scoccò uno sguardo. Lascia stare, qui il telefono non prende. Lei lo appoggiò al tavolo e il pezzo partì. Un ronzio che faceva avanti e indietro, il beat in 4/4. Abracadabra, lei gli fece l’occhiolino. Lei diede loro le spalle e prese a girare piano per la stanza, ondeggiando spalle e culo, i gomiti stretti al fianco. Guardava le foto accanto al camino. La prima comunione d’una bambina, un matrimonio. Un pranzo con parecchia gente sotto un gazebo in estate, cocomeri, probabilmente ferragosto. Sapete che ai bambini si dilatano le costole quando si eccitano? Lei guardava le foto, sempre ondeggiando le anche. Ricordo una figlia di mia cugina, come se ne stava a cavalcioni del babbo e si strusciava contro la testa, aveva già afferrato il concetto. Lui ovviamente non aveva capito nulla, ma io sì. Puttanella, Massimo la fissava sorridendo a bocca schiusa, Me la presenti? Nah, non sei il tipo, troppo sbatti, colle bimbe ci vuole tatto. Pozzangherine delicate. Hai visto troppi porno scadenti, le faresti scappare a gambe levate. Oh ma che sei una sbirro? Massimo tornò a fissare il cellulare. Ora mi offendi. Massimo guardò Lele. Se lui ci aveva pensato, non pareva preoccupato. Lei adesso aveva proseguito lungo la stanza, esaminava il vecchio poster stinto della Forestale coi vari tipi di funghi. Mi piace fargli il solletico, ai bambini, improvvisamente siete da tutta un’altra parte, solo tu e loro. Porte che danno su altre porte. Massimo dondolava sul posto, quasi in punta di piedi, gli occhi guizzavano verso Lele. Lui aveva una sigaretta accesa in bocca, e aveva aperto il frigo e tirato fuori una birra. Non la guardava. Vi siete fatti proprio un bell’ambientino qui, sì sì. Invulnerabile, compiuto, diceva lei, studiando il tetto a travi, la cesta della legna. Bello pieno, bello sodo. Lele poggiò la lattina sul lavandino, spense la sigaretta. La gente segue il ritmo delle canzoni, proseguì lei, ma dovrebbe essere il contrario. Ne dici di stronzate. Lele le diede un calcio sulla schiena che la buttò a terra con uno sbuffo. Massimo sussultò. Lele continuava a prenderla a calci, facendola strisciare intorno al tavolo, le chiedeva piattamente Hai viaggiato, sì? E dove? E giù un altro calcio. Lei a ogni colpo singhiozzava un gemito. Una mano salì su per  una gamba di legno, come fosse cieca. La tirò su senza sforzo e schiacciò sul tavolo. Lei respirava forte, l’occhio sano fissava l’incerata bianca con la frutta. Massimo si era calato i pantaloni e si toccava nei boxer. Lele le tirò giù jeans e  mutande. Aveva un sedere grosso è un po’ sformato, abbronzato pure quello. Lele prese a sbatterla da dietro, e quando lei gli rivolse il lato cieco lui disse Che cazzo guardi? e le abbatté un pugno sulla faccia. Da allora lei tenne faccia sprofondata nel tavolo come bevesse da superficie d’acqua. Massimo s’era tolto la maglietta e le scarpe e si menava, tenendosi un po’ lontano. Aveva i piedi venosi come le mani. Non gli veniva particolarmente duro e continuava a sorridere scialbo, quasi imbarazzato. La musica andava avanti, Ulvo, Sombre Lux, roba così. Sotto pareva fischiasse un bollitore. Lele spingeva meccanicamente, la fronte lievemente corrugata, come fissasse un’equazione o un intaso nel traffico. Improvvisamente lei taceva, ma dopo un po’, sempre nascosta dai capelli, la voce di lei rimbalzò impastata su dal legno. Io sarò una pollastra vecchio stile, ma qua sotto comincio a far la lista della spesa. Chiudi quella roba, disse Lele a Massimo e come le due cose fossero collegate le diede un altro pugno sulla nuca. Ci fu un verso acquoso. Quando la tirò su lei aveva il nasso rosso e c’era una macchia scura sul tavolo. Massimo stava sul divano e Lele gliela buttò addosso. Lei soffiò una risatina. Pavana e rigodone, proprio, biascicò sulla sua spalla. In culo, fece Lele. Massimo armeggiò, eseguì e lei cacciò uno strillo che pareva quasi un nitrito allegro e raddoppiò quando Lele da dietro aggiunse pure il suo e le si buttò addosso. I due cazzi sfregavano a ritmi diseguali, la testa di Lele era una palla scura. C’era un odore acre, di sudore, un filo di merda. Semilasciateoradimenticotutto, urlò lei tutto di fila, a scossoni. Nonètroppotardipertornareindietro. Lele la strinse più forte e Massimo la tenne per i polsi. Lei espirò manco quella reazione l’avesse sollevata. Massimo ebbe un tremito, le fissava le tette sulla maglietta alzata, i capezzoli grossi e scuri come acini, come occhi di vacca. Premuta sulla pancia, sentiva la fica pulsare, come una boccuccia che scandisse muta qualcos’altro. Poi lei si raddrizzò di scatto tra loro e prese a ondeggiare con la testa e la faccia tutta rossa, le mani che sbattevano sui polsi, come una bambola pazza. Pure Lele si scostò un poco. Bello sodo, bello pieno! Urlò lei. Dio maiale, a Massimo faceva male l’uccello, la guardava tenendo indietro la testa. Cavale l’occhio, disse Lele. Eh? Massimo faticava a restare dentro. Il cazzo gli pizzicava, quello più tozzo e grosso di Lele gli premeva sotto il glande. Cavalo. Un po’ incerto Massimo alzò una mano in faccia a lei e spinse con l’indice. Lei urlò e provò a scuotere la testa, ma Lele le bloccava il collo col gomito. Lei si pisciò addosso. Urlava come le si schiudessero i polmoni dopo un’immersione. Il sangue le scorreva sulla faccia, gocciolava sui tatuaggi di Massimo. Lele le morse il collo e di riflesso Massimo il naso. Adesso lei respirava forte, con voce più bassa. Si sentì uno schiocco quando Lele le spezzò il collo. Un lampo bianco. Cazzo! In risposta schizzarono entrambi, o qualcosa di simile, perché Massimo urlò portandosi le mani in faccia e Lele si sfilò di scatto sbuffando come si fosse scottato. Dondolava la testa bassa, gli occhi chiusi. Per qualche istante nessuno dei due ci vide più. Ma porco dio. Massimo la rovesciò di lato sul divano e si alzò barcollando, tirandosi su i pantaloni. La stanza puzzava di zucchero e sangue. Senza neppure guardare Lele, trovò la porta quasi a tentoni e uscì.

L’altare è ruvido sulla mia schiena, il cielo in parte è schiarito. Stracci tenui lo percorrono come strascichi bianchi. Tutti gli odori spiccano, le pitture sui corpi e le maschere di legno, la pietra bagnata. Sento le voci più in basso, come un mormorio confuso, uno sciabordio di lodi e cordoglio. C’è una canzone, dentro la mia nuca, non mi sforzo più di contenerla, non posso. La mugolo senza parole, mentre mi tendono braccia e gambe. Sento delle nocche corrermi sulla coscia, l’inguine, il ventre, si ficcano sull’ombelico, risalgono, si staccano, una mano verde e avvizzita mi fa ombra sulla faccia, scorgo una maschera di drago piumato, un braccio verde e rattrappito e ho una scarica di panico, perché niente dovrebbe essere storto, qui, nessuno spazio per brutture e imperfezioni. Il sudore mi cola lungo le ascelle. Le costole sobbalzano. La mano ritorta mi struscia sulla guancia, fredda, e mi ci abbandono. È tutto giusto, anche la paura e l’orrore, come potremmo sennò saltare in alto senza questo vuoto nella pancia, questo sasso nella gola che si spacchi all’ultimo singhiozzo del cuore?

Fuori pioveva appena. Gocce grosse e rade. Il bosco oltre ghiaino e staccionata frusciava tutto nel buio azzurro. Massimo stava piegato con le mani sulle ginocchia, fisava la trama dei sassolini bianchi. In qualche momento doveva aver afferrato il chiodo, perché adesso lo indossava sul torso nudo. I rami si scostavano e poi si riunivano di nuovo, come quando uno è contento e fa così con le mani. Era tutto sudato. Gli girava la testa. Troia, troia, diceva. Sputò quello che aveva in bocca. Oplà, ehi. Alzò la testa verso la voce. Appena oltre la staccionata, dove il pendio scendeva verso una conca sotto gli alberi, suo nonno spuntava con la testa, e gli faceva cenno con la mano. Oh nonno, che tu ci fai lì? Massimo era infastidito. Shhh, shhh, vieni giù, shhh. Massimo barcollò fino alla staccionata, la scavalcò e scivolò accanto al nonno. Shh, ecco, stiamo qui, buoni. Il nonno gli spazzolava il chiodo. Aveva cappello e giacca chiara, tutta zuppa di foglie. Le ombre gli mangiavano il nasone, come avesse una pallina scura da pagliaccio. T’ho chiesto che ci fai qui. Stai giù, ti ho detto. Ce la tua mamma dall’altra parte che tira i sassi alle compagne. In effetti ogni tanto si udiva un tonfo. La pigliano per il culo a scuola, perché è nana. Se ne sta lì, mezza nella merda, e tira. Massimo provava a sbirciare oltre il bordo. Ma il problema tanto non è quello, disse il nonno. È che lo sanno. Sanno cosa? Cosa tu combini là dentro. Massimo si sentiva le gambe molli, aveva freddo alla pancia. Chi lo sa? Tutti. Tuo zio, il tuo fratello. Come lo sanno? Il perticone, quello lì, spiegava il nonno, si è messo d’accordo con la donna di plastica, là dentro. A casa non puoi tornare. Troia, disse Massimo e vide la camera del fratello, come fosse dall’angolo, in alto, i poster degli zombie, i rapper tatuati, Atzori, la foto con Pulgar sul Viale Fanti, e suo fratello nudo e con gli occhiali su una biondina tutta bianca, mentre le sfrega e picchiettava il cazzo sulla fica rasata. Non lo vedeva in faccia, solo la nuca e i capelli ricci e biondi pure loro, ma lei faceva la linguaccia sogghignando e Massimo sapeva che pure suo fratello aveva la bocca storta e la lingua fuori, e mentre lei tremava come per il solletico e gli appoggiava i piedi sul petto e lui le tirava le tette tutto soddisfatto, ridevano di lui. Si sentiva accartocciare la pelle della faccia. Tremava pure lui, incazzato e chissà che altro. Negli occhi del nonno c’era un luccichio divertito. Sai com’è, quando si inizia con la stregoneria non si sa dove si finisce, gli diceva quasi scusandosi. Eh? Fece Massimo. Guarda qui, guarda, e il nonno si apriva giacca e camicia e su tutto il petto bianco e floscio aveva una grossa bolla lucida coi bordi rosati, che oscillava come dentro ci si spostasse del liquido.  Se la premeva coi pollici. Oh non si apre, via. Ma Massimo ora non lo guardava quasi più. Sapeva in qualche modo che Lele stava per tagliare la corda, lasciandolo qui nella merda, e una rabbia spaventata lo scuoteva tutto. Stronzo. A me bastava scoparmele, stronzo, ripeteva lamentoso. Teneva le dita ficcate nella terra scura e umida, prese a risalire. Sentiva le formiche zampettargli sul dorso. Scrollò le mani prima che gli si infilassero nelle maniche. Senti – gli disse il nonno alle spalle, mentre si appoggiava di traverso un indice sull’unghia dell’altro – giacché vai dentro, non è che puoi portarmi mezzo sigarino? Ma shh, eh.
Le luci nella casa brillavano alle finestre come un fuoco che non ha sfogo.

Questa non è morte, è più sicura e più calda. Oh la punta di selce che affonda è una luce bianca, oh la mano che scava è un’onda rossa sugli occhi. Oh io mi torco, mi sollevo e mi tormento. Oscillo sulla barca del mondo. Brucio. Il sole non mi acceca più. Oh. C’è sangue sulla mia bocca. Sangue nel naso e gli occhi. La luce se ne va, succhiata via. La luce ritorna, mi avvolge come un velo spesso. I mondi sono punti neri. Leoni e gazzelle si inseguono nella scia delle comete. Le mani mi tengono giù, le nocche storte mi strusciano sulle labbra, un’altra mano è dentro, mi fruga sotto le costole. La testa è una nuvola leggera, il corpo trema come le montagne e i mari, il culo trabocca limo fecondo. Mi sciolgo. Chi è che grida con tanto dolore. Io no di certo. Sbuffo e soffio, sì. Soffoco. Tutto si tinge di rosa. Sento le mie ossa. Guarisco. Capisco. Mi rannicchio intorno al cuore come la mano che lo stringe. Sbatto le palpebre come il colibrì. Gliela bacio a ogni battito. E il mio primo ordine è di tirarlo via.

Lele sedeva accanto al tavolo, la testa bassa, come chi si rannicchi e avanzi contro un vento forte. Assorbiva il fragore come di cascata lungo le pareti, il suolo instabile. Registrava con curiosità imparziale la sensazione che la sua macchina fuori fosse in fiamme, e pulsasse scarlatta attraverso il muro, il khol sotto l’occhio socchiuso della donna, adesso a destra, che si spostava a intervalli ora sotto il mento, ora sulla fronte, come delle lancette. Lei stava sul divano con la testa rovesciata, i capelli che ricadevano a terra, la bocca aperta che vomitava un arcobaleno che si stendeva sul pavimento come una nebbiolina. Sentiva scalpicciare al piano di sopra, armeggiare nel salottino accanto, quello col camino. Inalava cauto quella che pareva lacca, mentre il respiro si regolava. Una volta aveva preso della DPT e gli effetti erano stati più o meno questi. In quel caso la pioggia pareva risalire. Voleva alzarsi a prendere del latte in frigo, ma aspettò ancora un po’. Si annusò il collo che profumava come la tipa. Dovevano essere le tre, le quattro. Qualche uccello rovesciava delle scariche di versi, a metà tra una risata e un trapano. Si alzò. In piedi, quel velo colorato sul pavimento si notava meno, in compenso gli alberi fuori si muovevano senza suono e sui vetri delle finestre parevano scorrere come navi scure e fracassate. L’unica cosa a dargli veramente fastidio era il pensiero di essersi beccato qualcosa al cazzo. Guardava la donna sul divano a occhi socchiusi e un abbozzo di piega sulla bocca, il che era quasi un cenno di assenso, per lui. La porta si aprì di colpo e Massimo rimase sulla soglia, battendo col pugno sullo stipite. Merda lì, oh merda che sei. Lo fissava a occhi sbarrati, scalzo e nudo sotto il giubbotto, e batté ancora una volta come per dirgli di farsi sotto. Lele sbuffò una risata incredula. Massimò gli corse contro, agitando i pugni come una scimmia, urlava. Lele gli diede un pugno che lo buttò a terra. Si sarebbe fermato lì, forse, ma Massimo si agitava manco andasse a fuoco, scalciava che pareva lottasse ancora con lui, invisibile e addosso. Vomitava bestemmie una attaccata all’altra. Ti ammazzo ti inculo. Lele lo guardava con la testa un po’ inclinata. Alzò il piede e glielo calò sulla bocca. L’altro fece per prendergli la gamba, aveva l’orecchio tutto rosso. Lele liberò il piede e lo abbatté ancora, più volte. La testa di Massimo scattò all’indietro. Lele gli sfracellò una mano col tallone, e Massimo si chiuse a bozzolo, sbuffando a occhi strabuzzati, come fissasse qualcosa sotto la credenza. Gli sfuggì un singhiozzo. Lele riprese a colpirlo sulla faccia.  L’altro si sgolava, quasi di sollievo, come inalasse aria buona. Tossì una risata. Cazzo. Rattrappiva nella nebbiolina arcobaleno, un vecchio verme bianco con la testa tutta rossa, i lunghi capelli zuppi, il sangue nero sui denti. I tonfi parevano spari che esplodessero di luce bianca nel silenzio. Lele colpì ancora, e l’altro si fermò e il corpo della donna scivolò giù dal divano.

Questa non è morte.

È in piedi su Massimo. La nebbia adesso è sparita. Gli odori risucchiati via. La sneaker sinistra è un pugno rosso di polpa. Un clacson lontano annuncia i camion diretti alla variante di valico. Sta per chinarsi a slacciarsi la scarpa per non gocciolare altrove e dover pulire di più. Non avrà problemi a reggerli entrambi, uno dopo l’altro, Massimo e la tipa, ma vuole comunque usare i divani di salotto e camera da letto. Sta per chinarsi quando nel silenzio, distinte, nella testa gli risuonano le parole miele di vipera. Si ferma mezzo curvo, in ascolto, come guardandole scritte davanti agli occhi. Le smonta e rigira tra le mani, perplesso. Alza la testa verso la donna morta e quella ha la fronte sul pavimento e la bocca storta, chiusa. Tutto tace, e lui sa che nessuno verrà, che li getterà entrambi in una buca vicino alle altre, e poi si guarderà entrare in macchina e partire. Non ci saranno problemi. Magari andasse solo così, non succedesse niente. Il silenzio e il vuoto e lui al centro come un muro bianco di calcina, al sole. Meglio se avessero fatto a cambio, lui e la tipa, e adesso fosse lui a guardarla seppellirlo in quel corpo rotto. La terra gli premerebbe sugli occhi e lui se ne resterebbe lì sotto, a pulsare piano. Meglio se il cadavere sorridesse con la bocca storta. Però ci sono quelle parole, e lui sa che uscire e partire è solo una delle cose che farà. Un’altra è restarsene lì, a succhiarsi le mani, vergognandosi di doversi nutrire di quella crema bianca e spumosa che gli cola fuori da ditoni sbucciati come banane scarlatte. Un’altra è girare per le stanze, e ritrovarsi vecchio e muto in una casa di cura col cazzo ritto che brucia sulla sedia a rotelle e un diospero mezzo mangiato, mentre le infermiere passano e arrovesciano gli occhi. Si guarda i pantaloni. I vetri delle finestre sono pannelli scuri. Vede i corridoi e le voci che si rincorrono, le porte non aperte, già tutte aperte, come un gioco al pc che si allarga e basta e non procede mai. Stanze su altre stanze. C’è un guaito, dentro la sua testa, e sa che talvolta monterà fino a stendergli un velo, rallentare le azioni, e sarà una bambina scopata con una stecca da golf, o una bottiglia, e il vecchio di prima a sputargli sugli occhi improvvisamente troppo duri. Bello pieno, bello sodo. Da qualche parte c’è l’ingresso per una scuola in cui farsi strada col fucile, svuotandolo sulle teste di ragazzi e insegnanti. Pow pow pow. Basterebbe varcala, sfondarla, cavalcare la marea, tutte le urla, i cani sfracellati e i barboni che si agitano bruciati vivi, farsi travolgere, la testa bassa come a incontrare un’onda, integro. Si aprirebbe un varco a testate silenziose. Stringerebbe le vite che strillano in ogni sigaretta che si accende e spegne tra le dita. Invece rivede certi sorrisi sghembi del lampredottaio che pareva nervoso e forse non lo era, una macchia sul soffitto delle docce di palestra, la zingara fuori dell’Ikea la domenica, la voglia pelosa sulla scapola di Massimo. Geometrie insignificanti, trappole, goccioline di sudore sul sorriso che si schiude in discoteca sotto le luci viola e arancio. Cosa credevi, che il sole e mare lavorino tanto per una merda come te? Si vede accennare dei passetti di danza. Bello vuoto, bello pieno. Magari si trovasse quella tintura scura sotto l’occhio, glielo sbarrasse come lo sguardo d’un uccello di pietra. Da qualche parte lui va dalla polizia ancora con la scarpa sporca di sangue, dichiara tutto e finisce in cella, a crogiolarsi sulla branda come fosse su un’amaca. Invece sa che si guarderà uscire e partire, uccidere oppure no, fare cose che detesta o non capisce o crede di capire, mentre il suo corpo si guasta e deperisce oppure no. Si umilierà davanti a dei coglioni, risulterà ridicolo. Tornerà dai suoi a Rovigo. Si beccherà apposta l’aids, lo passerà. Questa non è la morte. Dimagrirà. Sulla panca arriverà a duecento chili, non gliene fregherà nulla. Le donne gli diranno sì o no per un ticchettio che sente nella testa, una specie di secondo squillo nel telefono che non dovrebbe esserci e invece c’è. Avrà il vento gonfio come avesse inghiottito un pallone, pieno di tutte le urla. Le cagherà di corsa quando meno se lo aspetta, ridacchiando tra le lacrime. Finirà alle poste. Stiperà le torture a sciaguattare in secchio di plastica, per recapitarle obbediente dove devono essere posate. Compirà prodigi cui non aveva mai pensato, verrà riposto nel taschino con un buffetto. Perché lo scherzo è bello quando dura sempre.

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Immagine di Francesco D’Isa.

Edoardo Rialti è editor de L’Indiscreto e scrive per Il Foglio e Minima e Moralia. Per Mondadori traduce J. Abercrombie, R. Morgan, GRR Martin.

La casa delle madri

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di Romano A. Fiocchi

Daniele Petruccioli, La casa delle madri, 2020, TerraRossa Edizioni

Ho letto La casa delle madri molto prima di scoprirlo nella dozzina finalista del Premio Strega. Questo l’incipit:

“La casa è vuota. Le camere sono spoglie, le porte aperte, le finestre spalancate. I mobili non ci sono più, sono stati portati via da tempo. Due piccioni si posano sul davanzale della stanza che all’epoca era chiamata pomposamente biblioteca, ma l’odore forte di cemento fresco li scaccia quasi subito. Le ombre cominciano a risvegliarsi nei minuti di chiarore incerto che precedono l’alba prima dell’arrivo degli operai: si allungano, si rincorrono sui pavimenti grigi e polverosi che si susseguono identici di stanza in stanza, con i loro buchi sfondati, le spaccature grossolane delle tracce per gli impianti ancora da montare, le impronte lasciate sulla polvere dagli scarponi, il senso di sventramento generale. È una casa grande. Deve essere stata una casa sfarzosa, si capisce dalle voragini delle doppie porte in infilata, in un rincorrersi di promesse da boudoir, unioni e separazioni di altri tempi. Questi tramezzi stanno tutti per essere buttati giù. Lasceranno spazio a divisori asimmetrici, a un senso delle forme meno prospettico e più articolato, ambivalente, che si vuole più moderno. La nuova padrona di casa ne ha parlato a lungo con l’architetto, insieme si sono confrontati con l’arredatrice e tutti hanno convenuto che è molto più funzionale così. Perciò questa è l’ultima volta che l’infilata di stanze osserva se stessa, che si rispecchia nelle sue estremità gemelle, mentre il ricordo dei passi che l’hanno percorsa si raccoglie negli angoli sotto il massetto, per farsi murare tra una tubatura e un fascio di fili elettrici perfettamente a norma”.

L’incipit è privo di azione, privo di dialoghi, privo di personaggi (i personaggi entreranno in scena più avanti, per piccoli gradi). È piuttosto un quadro vivente. Penso allo Studio del pittore di Courbet, con quella trentina di personaggi – alcuni realissimi, altri evanescenti, altri allegorici – che si raccontano e intrecciano le loro storie di fronte all’osservatore. Perché il romanzo di Petruccioli continua così, attraverso quadri viventi che si susseguono, con l’azione sostituita dall’evocazione: tutto è già avvenuto, è ricordo, è narrazione già ferma nel tempo. Testimoni delle vicende restano le cose, i muri, gli infissi, le porte, le stanze, i corridoi, gli atri: spettatori intimi e partecipi di quella specifica umanità che li ha vissuti, e di cui si fanno ricordi solidificati. Sotto la superficie descrittiva, corre allora un brivido di nostalgia dolorosa, che ti accompagna sino alla fine del libro. Mentre ritmo e linguaggio, davvero speciali, fanno il resto, generando una prosa compatta e densa come la corrente di un grande fiume, indizio di un lavoro di limatura e di concentrazione del testo perseguito con costanza artigianale.

Difficile dire chi sia il protagonista de La casa delle madri, a chi appartenga la voce narrante, quale sia il soggetto di questa storia che attraversa tre generazioni. Di sicuro, però, il nome più suggestivo del libro è quello di Sarabanda. Sarà perché la sua etimologia echeggia una danza sfrenata, un caos di cose in movimento, chiassose e scomposte. Sarà perché il nome in sé fa l’effetto della Pisana di Nievo (e la grande cucina, con la lunga infilata di fornelli, evoca l’atmosfera della cucina di Fratta). Oppure sarà perché Sarabanda è la madre dei gemelli, Elia ed Ernesto, la moglie di Speedy, la figlia di Nina e del notaio, la nuora di Ilide, la proprietaria della casa delle madri e della casa delle onde. O semplicemente perché, come dice Petruccioli, “Sarabanda era un’esibizionista”. In un modo o nell’altro, Sarabanda è al centro di tutto. Entra in scena in punta di piedi: attraverso un nome di bambina mimetizzato tra i fili d’erba dipinti sulla porta scorrevole del salone grande. Quindi, mentre la storia incomincia a muoversi con la festa di compleanno dei due figli, ecco che riappare dietro la formula antonomastica “la madre dei gemelli”. Infine, solo qualche pagina più avanti, con il suo musicale nome di battesimo: Sarabanda. Petruccioli è così, introduce i personaggi poco alla volta, finché si stagliano netti sullo sfondo delle descrizioni minuziose delle loro abitazioni. Alcuni sembrano farsi protagonisti, poi sfumano, tornano solo come ricordi e fantasmi. Tranne tre di loro, che hanno la solidità dei ripiani di marmo di Carrara della cucina: Sarabanda, Elia ed Ernesto. Speedy – già la stranezza del nome ne è un indizio – è fuggevole, quasi anonimo. Concorre però a costruire il tragico “labirinto fondante di questa famiglia”, ossia la malattia. Malattia nell’accezione più ampia, anche psichica, di cui Ernesto, proprio in contrapposizione con il gemello sano, rappresenta l’incarnazione più inquietante. Un piccolo esempio:

“Non sapeva che tra il suo corpo e gli altri solidi di casa si era ingaggiata una battaglia feroce per la perdita o la conservazione della memoria. Bestemmiava. Si incarogniva. Spostava armadi e comodini, levava libri e li ammucchiava in stanze dove non entrava più, buttava foto rotte, foulard strappati, cocci”.

Il romanzo, da queste battute lo si deduce, è intriso di situazioni umane drammatiche che solo un punto di osservazione oggettivo permette di contemplare dal di fuori, così come fa la vera letteratura.

Il libro si compone di una Parte prima e di una Parte seconda, separate da un Intermezzo dal titolo La casa dei bambini, che è in realtà un cambio di visuale ma non di narrazione e permette di fare luce su altri aspetti – psicologici e comportamentali – del carattere dei due gemelli, che sin dalla nascita sono “due parallele, condannate a non incontrarsi mai”. Ciascuna delle due parti, a sua volta, è suddivisa in due sezioni simmetriche che si ripetono: La casa delle madri e La casa delle onde. Questo per dire della struttura del romanzo, quasi studiata a tavolino da uno scrittore-architetto (Petruccioli, in verità, di professione è un traduttore). La casa, dunque, e le case come contenitori di vite umane, come esseri inanimati che mutano e si adattano alla vita di esseri animati che mutano a loro volta, che nascono, vivono, muoiono. E spesso tornano come spiriti intenti a vagare per stanze che non sono più, che sono altre case, case mutate che hanno spostato muri e porte. Quello che Petruccioli cerca di costruire è un macro-organismo composto di manufatti edilizi che vivono in simbiosi con i loro proprietari e con loro evolvono. Il filo della narrazione si compone e scompone, cambia tempo, ambientazione, personaggi, indaga rapporti, scava nell’inconscio e nel conscio aiutato da Freud, tutto sempre dentro le case: la casa delle madri, la casa delle onde, la casa dei bambini. Sono le case a mantenere saldi i riferimenti. Aiutate dalla prosa stessa: elegante, viva, al tempo stessa composta e sperimentale. Petruccioli inserisce incisi e proposizioni parentetiche attraverso un uso personalissimo delle parentesi. Basti dire che su 298 pagine si contano 791 periodi collocati, con funzionalità diverse, tra parentesi tonde. Qui di seguito, ad esempio, lo strumento della parentesi serve per mettere in risalto gli aspetti psicofisici del personaggio della cuoca:

“Guardandola in faccia, si vede quanto sia nera. Non di pelle (l’Italia è un Paese ancora troppo povero per attirare forze nuove da altri continenti: gli spostamenti sono ancora soprattutto interni) ma in tutto il resto: occhi (grandi, tondi, ridenti, curiosi), capelli (folti, spessi, aggrovigliati, rigogliosi) e sorriso (Annalucia ha un sorriso scuro: forse per i ricordi duri d’infanzia incistati nello sguardo, forse per la nostalgia della sua terra che ha dovuto lasciare troppo presto, forse per l’ingiustizia della vita di chi parte e viaggia per dare da mangiare a sé e alla famiglia; Annalucia sorride sempre nero)”.

Altrove, come in quest’altro esempio, le parentesi vengono utilizzate per mettere in risalto ciò che circoscrivono piuttosto che ciò che lasciano all’esterno:

“Queste stanze e stanzette sono state ristrutturate anni prima (quando Sarabanda era ormai morta da almeno un paio d’anni e i suoi ultimi gatti si erano suicidati o erano stati dati via) rimpicciolendole ancora di più e allargandole molto, in un’impossibile gara a ricavare qui una doccia, lì un lavandino o un bidet, altrove uno spazio grande tutto da riempire”.

Quello che Petruccioli vuole evitare – e che più un lettore come il sottoscritto apprezza – è la banalizzazione del linguaggio. All’utilizzo per così dire intensivo delle parentesi, abbina la totale abolizione dei dialoghi, forse nauseato dal proliferare dei cicalecci televisivi, dai dibattiti sui social network, da tutto l’eccesso di dialoghi che caratterizza la comunicazione di oggi. Rarissime le eccezioni, e proprio per confermare la regola che si è dato, risultano incastonate nel testo quasi da evocare certe battute da teatro dell’assurdo:

“«E perché non mi hai mai detto niente?» «E che ti dovevo dire?» «Come, una cosa del genere…» «Ma quale cosa? Nessuno sa se è vero o se sono solo quelle invidiose delle zie, che lo sai benissimo quanto odiano mamma. E poi, pure se fosse? Che ti frega?» «Come, che mi frega?» «Ma sì. Papà è papà, e fa quello che gli pare»”.

La casa delle madri è dunque un romanzo intenso, ricco di sfaccettature, stimoli, visioni, intrecci di storie, molteplici chiavi di lettura, una di quelle rare letture di prosa contemporanea che restano piacevolmente impresse.

 

Spirdu

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Un estratto dal libro Spirdu di Orazio Labbate uscito il 20 maggio 2021 – Italo Svevo edizioni 

di Orazio Labbate

 

In sogno, si vedeva banchettare al centro di un grande soggiorno. L’oscurità era semiddumàta da un gruppetto di candeline incucchiàte su una torta. Dietro a un tavolo da cerimonia Kathrine sventolava, al cospetto dei presenti, un coltello dalla punta piatta e larga. Poi, con la mano destra soffusa, chidda propria per affilare chiodi e aghi, serviva la torta e con l’altra allattava asprigna le tenebre che l’arto vi riposava. Il dolce, nìvuru, ammuffito e parzialmente divorato, stava esposto attraverso un’alzata di cristallo assumendo la sacralità lurida di una Santa Comunione dentro il calice, erosa da chissà quale diavulìnu dispettoso. Tre infanti, in piedi, i principali invitati, erano appoggiati dall’altro lato dello stesso tavolo, senza badare alle buone maniere. Kathrine li imboccava a uno a uno con fare calmo e deciso. Essi masticavano con la logica curiosa dei denti d’un cunìgghiu e la fissavano sconvolgendo le orbite come fanno i piccioni.Nessuna pace e disciplina nei sogni. Siamo prelevati da un Dio incosciente pure adduocussùtta. Siamo uomini-uccello tutti o cuntràriu. Coi loro visi soavi da Bambinelli, i piccìddi si sbrodolavano e la panna nera cadìva lungo i vestitini gonfi a petto palummìnu. Poi acquetati ruttavano fino a raccogliere da sé, con la minuscola lingua repentina, il brodo di torta che si fermava sui loro grembiuli da cucina. Dietro i bambini si ammonticchiava un buio ammalato dove il calore delle persone mancu c’era mai stato. La carusa con una smorfia nostalgica talvolta taliàva in direzione di esso e si sporgeva di poco come a metterci la bocca. In lutto per la tenebra, tornava a offrire pezzi di torta decrepita. Rimaneva da civàri l’ultimo invitato. Non era un carusièddu. Era un signore all’antica di cui la ragazza non riusciva a decifrare la faccia. Nessuna luce di candeline attorno a iddu. Quasi timorosa Kathrine protendeva un pezzetto di dolce verso le sue labbra imperscrutabili. Si intravedevano le unghie di manovale, ben tagliate. La ragazza studiava meravigliata quel signore nefando sentendosi in uno stato di ebetudine. L’uomo, però, aveva principiato a tossire addolorato. Per liberarsi vomitava frettoloso sul tavolo. Quarchi cosa l’aveva punto. Kathrine abbandonava allora il coltello per capìri. Percepiva l’uomo guardarla con rammarico. I bambini invece ridevano compiaciuti come se ci facìssiru le mamme la grazia di infornare altri biscotti. La ragazza, indifferente alla nostalgia di prima, raccoglieva dalla torta una manciata di candeline per spiare nell’oscurità l’oggetto. Si era messa a cercarlo con la rozza teda che reggeva a pugno chiuso. Da sinistra a destra, mentre la torta appassiva sulla tavola a mo’ di un alberello di glassa e il buio diventava rosso per poco tempo. L’oggetto era adagiato vicino all’alzata di cristallo: una spilletta d’oro a forma di mani giunte stimmàte. L’esaminava senza capirne il senso, sedotta solo dal suo succu luminoso. Pulendo il tesoretto pungente con uno sputo inodore, lo teneva tra i palmi e con gran vergogna si capiva immeritevole. Poi se la ficcava ripetutamente sul petto ma la carne non accettava la spilla. Un tentativo che aveva richiamato l’ansito corale dei piccirìddi i quali con un soffio malvagiamente vivo spogliavano, tutti insieme, grande colomba scellerata, le candeline della loro luce. Un buio sfrenato aveva nnurbàto Kathrine. Insieme a lei anche il vetusto invitato erano scomparso.

Diario della pandemia dall’Himachal Pradesh #7

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di R. Umamaheshwari 

R. Umamaheshwari è una storica e giornalista che vive in India. Ha pubblicato When Godavari Comes: People’s History of a River (Journeys in the Zone of the Dispossessed), Aakar Books, New Delhi, 2014; Reading History with the Tamil Jainas: A Study on Identity, Memory and Marginalisation, Springer, 2017 e From Possession to Freedom: The Journey of Nili-Nilakeci, Zubaan, New Delhi 2018. Un anno fa ha cominciato a scrivere un diario della pandemia dall’Himachal Pradesh che pubblichiamo a puntate. Qui la prima, qui la seconda, qui la terza, qui la quarta, qui la quinta, qui la sesta. Quella che segue è la settima.

Ritorno al futuro…

 Lo stigma che incombe sui malati di Coronavirus, o sugli operatori sanitari che lavorano con pazienti affetti dal virus, è simile alla natura dello stigma che un tempo in India incombeva sui lebbrosi e sulle persone affette da tubercolosi. Gli operatori sanitari in alcune città sono diventati il bersaglio di cittadini spaventati. A infermiere e dottori che avevano curato malati di Coronavirus è stato chiesto di lasciare le case che affittavano. E questo a dispetto delle retoriche manifestazioni di solidarietà di tutte quelle persone che accendono quotidianamente candele per i “Guerrieri del Coronavirus”.

Il governo indiano ha modificato la legge coloniale del 1897 sulle malattie epidemiche per rendere qualunque tipo di attacco agli operatori sanitari in prima linea un reato non estinguibile su cauzione e passibile anche di una multa. A loro volta, però, sfortunatamente gli aggressori di medici e infermiere sono stati talvolta attaccati solo per il fatto di appartenere ad una certa comunità minoritaria. Frattanto, la violenza o la natura dell’avversione ci danno la misura di ciò che è generalmente considerato “impuro”: in questo caso la persona affetta dal virus è considerata “impura” anche grazie alla generale propaganda della paura, che ha accompagnato la campagna precedente il lockdown. Una campagna che è riuscita ad instillare molte paure infondate. E non sembra che si sia fatto molto per placarle.

Nella città di Chennai c’è stato un caso davvero patetico di un eminente neurochirurgo, Dr. Simon Hercules, che è morto di Coronavirus in un esclusivo ospedale privato (Apollo). Non è stato consentito che il suo corpo venisse seppellito in un cimitero cristiano (dove la sua famiglia solitamente seppelliva i suoi morti), a Kilpauk. Una folla aveva attaccato il veicolo che trasportava il suo corpo. Il corpo era poi stato trasportato con la protezione della polizia e seppellito da un amico del defunto con l’aiuto di due infermieri, in un altro posto. Il dottore aveva contratto il virus da un suo paziente.

Negare i diritti di sepoltura alla gente è una nuova bassezza; mostra l’assoluta mancanza di compassione nella gente, specialmente in tempi che ne richiederebbero una maggior quantità. Non è sicuro se questo sia successo anche perché il corpo apparteneva a qualcuno proveniente da una comunità di minoranza. Nel caso del Covid, a dispetto dei messaggi che ogni giorno la radio e gli altri media diffondono, molte persone non hanno nessuna voglia di dare spazio alla ragione e preferiscono rifugiarsi in credenze superstiziose e paure infondate, esacerbate dai messaggi dei social disinformati e impulsivi.

Ci sono molti esempi di come la ragione e il senso della misura vengano buttati a mare in questo periodo. Un aspetto positivo, nel caso del Dr. Simon, è stato il compassionevole esborso da parte della compagnia assicurativa del pubblico settore, la Life Insurance Corporation of India, al centro dell’attenzione per i recenti tentativi di una parziale privatizzazione. La compagnia ha liquidato un generoso premio al parente più prossimo del Dr. Simon entro tre giorni dalla sua morte. Mr. Ravi Kumar, agente della Life Insurance a Chennai, colui che ha pagato questo premio, assicura che di solito ci vuole un po’ prima che il denaro arrivi nelle mani della famiglia, in tempi normali. Si perde tempo, infatti, nell’attesa del certificato di morte. Ma, in questo specifico caso gli assicuratori hanno agito prontamente. Ma Kumar ha detto che, nel caso di morti connesse al Covid, la Life Insurance ha fatto un’eccezione per versare il premio assicurativo in forma prioritaria.

In un certo senso, tener viva la paura condurrà forse (se non si prendono misure severe, e a meno che, ovviamente, la politica non desideri, surrettiziamente, questo risultato) a isolare ogni distretto o città. Ne potrebbe seguire un nuovo discorso a proposito di chi è interno (cioè libero dal virus) e esterno (cioè colpevole, in quanto affetto dal virus). Una distinzione capace di portare il discorso politico a nuovi minimi. Si spera che questo non accada, dato che ogni regione del Paese dipende da scambi di molti tipi, e transazioni tra regioni su base giornaliera.

Non possiamo permetterci di isolare delle unità negli Stati (isolamento di distretti e chiusura di confini) e all’interno del Paese (chiusura dei confini tra Stato e Stato). Di recente, diversi governi di Stati dell’India stanno mandando veicoli per riportare indietro la “loro” gente da un altro Stato. In particolare studenti e lavoratori. Ci si chiede se questo sia effettivamente auspicabile durante un lockdown che ha come scopo il contenimento del virus. Ma inerente a questo sforzo è la nozione della “nostra” gente. I leader politici stanno forse guardando a ciò come a un’opportunità per pubbliche relazioni più che altro. E il governo di ogni Stato è in competizione con gli altri nel gioco dei numeri, di gente “riportata indietro”. In effetti, questo va contro l’appello del governo centrale, nel periodo iniziale del lockdown, alla gente: “rimani dove ti trovi”.

Oggi ho incontrato Jeetender Singh, un lavoratore migrante che viene dal Rajasthan. Mi ha informato che il governo del Rajasthan sta progettando di richiamare la “sua gente” dall’Himachal. Jeetender lavora come lavoratore a giornata a Shimla per pochi mesi l’anno. Torna poi a casa per pochi mesi durante la stagione del raccolto (che è appena passata, per lui) e per preparare i campi per la successiva coltura (operazione che dovrà iniziare presto per essere completata entro giugno), dopo che sarà tornato a Shimla per lavorare. Comunque, se il suo governo adesso, insieme con altri, lo riporta indietro, lui non sarà sicuro di poter tornare a lavorare qui presto. E neanche sarà sicuro di poter tornare indietro a lavorare nel suo Stato di origine, per l’aratura e la semina. Lui mi dice che questa crisi ha lasciato lui e la sua famiglia in un totale sconvolgimento, e che la migrazione per lavoro è destinata a diventare qualcosa di diverso. Essa può accrescere la povertà in posti dove la gente come Jeetender si barcamenava tra diverse occupazioni, teneva viva la sua piccola fattoria e compiva il ciclo agricolo.

In un certo senso, il lavoro nelle città e nei paesi ha indirettamente contribuito allo sviluppo dell’economia agricola rurale. Ironicamente, il tempismo dei governi dei vari Stati nel riportare indietro la “loro” gente, stavolta, può essere controproducente per questi lavoratori. Se lo avessero fatto prima, avrebbero sollevato molti di loro dallo stress di tornare di corsa ai loro villaggi per il raccolto e altre opere, e avrebbero aiutato anche le loro famiglie. Ma facendolo adesso, molti dei lavoratori non ritorneranno presto ai loro mezzi di sostentamento urbano e potrebbero andare incontro a un desolante futuro a lungo termine. Questo avrà sicuramente il suo impatto sulle aree rurali, aggiungendo ulteriore stress a quello cui sono già sottoposti.

 

27 Aprile 2020, “Resta a casa, stai al sicuro” versus “Fa la fila, aspetta il tuo turno”: sulla discriminazione e la carità.

 

Durante le crisi, incluso le pandemie, il bisogno di quei servizi necessari a coprire l’ultimo miglio non dovrebbe essere sottovalutato. Contemporaneamente, ci si chiede in che modo ci sia presi cura di postini e postine, e in generale di tutto lo staff del servizio postale, in termini di assicurazioni mediche o dispositivi di protezione, accesso a mezzi di trasporto sicuri, nel caso di servizi di consegna, etc. E se l’intero dipartimento delle poste, anche nei più remoti angoli della nazione, sia stato protetto adeguatamente, benché in questo periodo, a dipartimenti come quello postale siano state conferite responsabilità aggiuntive, che hanno aggiunto nuovi problemi a quelli già presenti.

Ho sentito per esempio che il governo dello Stato del Telangana ha annunciato un incentivo in contanti di 1.500 rupie per i possessori di carta bianca (carta di razionamento per persone sotto la soglia di povertà) da ritirare presso gli uffici postali; questo significa anche che decine di persone fanno lunghe code adesso, e devono anche sopportare i mugugni del personale di polizia arrabbiato, che ricorre anche al pestaggio. In molti casi gli uffici postali sono collocati in località remote, così non c’è modo di stare “a distanza di un metro” in una fila. Questo significa anche che per i poveri la dignità e il rispetto sono le prime vittime, in tempo di crisi, poiché il denaro è dato alla maniera di un despota benevolo che fa la carità a una larga massa di esseri umani, che devono deporre la loro quieta dignità e accalcarsi per ottenere dei soldi attraverso meccanismi non sempre vantaggiosi. Mentre per la middle class e per i ricchi esiste lo “stai a casa, stai al sicuro”, per le migliaia di poveri che vivono tra noi, non c’è scampo dallo stare in fila, per ore, per ricevere una misera carità.

 

Sullo spostamento imminente, nonostante il Coronavirus.

 

Domande su test e sperimentazioni.

Dopo alcune novità su test anticorpali e sperimentazioni, la terapia del plasma è in sperimentazione, in alcuni Stati indiani, come l’ultima frontiera per la cura dei malati di Covid nel nostro Paese. Il plasma di un paziente curato dal Coronavirus è iniettato nel corpo del paziente sotto trattamento per Covid. Il consenso informato del paziente che riceve questo trattamento è obbligatorio per iniziare. Non che io possa esprimere opinioni su esperimenti scientifici, ma mi chiedo se questo possa, ancora una volta, invertire i pregiudizi culturali e l’odio verso certe comunità, nel caso in cui il donatore e colui che riceve il plasma siano di differenti comunità o caste.

Anni di trasfusioni di sangue (per le quali non sappiamo religione, casta o genere del donatore di sangue o di colui che riceve la trasfusione) non hanno ridotto odi e ostilità. Forse potrebbe andare diversamente per la terapia del plasma? Si sente dire che non c’è conferma circa la sperimentazione su larga scala della terapia del plasma. Essa non ha raggiunto la necessaria approvazione per essere usata in ogni situazione.

Qualcuno sta pensando alle attività di generazione di reddito nel bel mezzo della pandemia? Guardo ai dati relativi alle vendite di medicine, di dispositivi di protezione, di igienizzanti, etc. Un canale televisivo di informazione ha detto che il governo ha come piano l’uso del riso in eccesso nei magazzini per produrre igienizzanti a base di etanolo. Questi sono programmi economici più vasti. Nei negozietti di articoli sanitari, nelle città, nei paesi e nei villaggi, le lozioni disinfettanti di base (come anche gli igienizzanti) sono stati presenti in scorte limitate. I negozianti qui mi informano che il lockdown ha impattato sulla produzione e sul rifornimento di questi prodotti, giacché le fabbriche si trovano nelle zone rosse del Covid, in questo Stato.

 

28 aprile 2020, il mercato rionale e un assembramento modello.

 

Boileauganj market è un piccolo e pittoresco mercato di Shimla, con negozi di tutti i tipi su entrambi i lati di una stretta strada. In un giorno normale, in tempi normali, brulica di gente e di traffico. Alcuni anni fa, questa strada era chiusa al traffico e solo qualche veicolo governativo ed altri veicoli dotati di uno speciale permesso avevano l’autorizzazione di attraversarla. C’era così un ampio spazio per la gente che voleva camminare e acquistare beni di prima necessità.

Più tardi, tutti i tipi di veicoli cominciarono ad essere autorizzati e questo significò caos a tutte le ore del giorno, con appena lo spazio per la gente di camminare, specialmente durante la stagione di punta del turismo. Questo mercato è tornato adesso alla sua quiete, ma non ad una quiete felice.

I negozi di dolciumi e di tè sono chiusi come molti altri durante il lockdown. La gente non discute più di politica di fronte ad una tazza di tè e samosa bollente e jalebi. Inoltre, questo piccolo mercatino mostra un raro spaccato di folla che si comporta alla perfezione, stando in piedi in piccoli cerchi (disegnati con il gesso) sulla strada, aspettando pazientemente il proprio turno fuori da ogni negozio (di frutta e verdura, di altre merci) anche se i negozianti si assicurano che nessuna singola persona compri materiale all’ingrosso (e quindi l’accaparramento è frenato a livello del negoziante, che conosce la persona che viene a comprare roba, anche perché questo è un quartiere piccolo e tutti si conoscono) e tutto è fatto entro le quattro ore di allentamento del coprifuoco.

Il coprifuoco ha comunque ha reso la vita difficile per i negozianti (i cui profitti si sono ridotti abbastanza negli ultimi due mesi), per il fatto di dover mantenere l’intera transazione e ogni singolo cliente all’interno del tempo concesso per legge. C’è un altro spazio speciale in questo mercato, che è la filiale locale di una banca nazionale (la più grande dell’India). Essa ha continuato ad avere il personale più gentile e disponibile che io abbia conosciuto da anni. Anche in questi tempi caotici, il personale della banca saluta i propri clienti, giovani e vecchi, con cortesia e offre un sorriso che tiene vivo il fascino un po’ rétro di una banca che conosce i suoi clienti per nome e di persona, e fa quel miglio in più necessario ad aiutare il cliente nei suoi bisogni. Per molti anziani abitanti del paese, che non hanno accesso alla banca online, sono le filiali nazionali delle banche nelle piccole città, come questa, che mantengono viva la fede delle persone nel sistema, anche se il sistema li delude di tanto in tanto e li costringe ad “andare al passo con i tempi”, anche se “i tempi” sono inumani, distanti e apatici.

 

29 Aprile 2020. Il conto delle perdite

 Tek Chand Bansal è il presidente di uno dei più importanti sindacati di taxi a Shimla. Il turismo è stato uno dei settori di maggior profitto nello Stato dell’Himachal Pradesh. Specialmente durante questo tempo, in cui le scuole e i college sono usualmente chiusi e il turismo raggiunge il suo picco (diventando intensivo specialmente da marzo a giugno, e dopo, durante i mesi di settembre – ottobre, e un po’ meno durante la stagione natalizia), il lockdown ha colpito in maniera terribile questo settore.

Tek Chand è uno dei principali fornitori del servizio di taxi, settore che ha subito un durissimo colpo, in questo periodo che di solito era di alta stagione per il turismo. Mi ha detto che “nei mesi di Aprile, Maggio e Giugno, l’Himachal riceve approssimativamente diecimila turisti. Molti di loro vengono da Delhi, dal Punjab e dall’Haryana (che sono molto più vicini in termini di prossimità, e quindi relativamente più semplici da raggiungere per un weekend turistico). Alcuni gruppi anche da Bengal, Kerala e altri Stati. Molti vengono per “vedere la neve” sulle cime più alte. Tek Chand dice che “questi mesi sono l’alta stagione, l’unica in cui si può ottenere un decente introito per hotel e taxi. Da luglio a ottobre è bassa stagione, e i soldi che facciamo durante l’alta stagione servono a sostenerci durante il resto dell’anno. L’Himachal è quasi totalmente dipendente dai ricavi del turismo. Quelli agricoli infatti sono relativamente piccoli se paragonati a altri Stati, dato che i proprietari terrieri sono di meno e più piccoli, tranne che per pochi proprietari più grandi o per i meleti. Anche le strade dei centri commerciali, qui a Shimla come anche a Manali, sono tracciate in vista dello shopping dei turisti. Molte delle cose fatte nell’Himachal, come artigianato e tessitura della lana, per esempio gli scialli Kullu, e la frutta secca sono principalmente acquistate dai turisti. La popolazione locale di solito non compra questi prodotti su base giornaliera. Così questo lockdown ha colpito con molta violenza”.

Mi informa anche che la maggior parte dei tassisti sono per lo più diplomati di scuola superiore, qualcuno anche laureato (e c’è anche il caso di due laureati in ingegneria che hanno scelto la professione di autisti). Il cinquanta per cento sono dalits e il resto proviene da altre comunità. Perché quindi hanno scelto di fare i tassisti?

“Dopo essermi laureato in Storia dell’Arte nel 2003, ho fatto molte domande di lavoro. Ho avuto una volta un lavoro per un misero salario di 3.500 rupie al mese. Non era sostenibile. Tu non sai che nell’Himachal è difficile trovare lavoro. Nel 2005 ho cominciato a guidare il taxi; il vantaggio era che prendevo uno stipendio di operatore di taxi e anche un extra come autista. Così arrivavo a guadagnare da dieci a undicimila rupie. Era di gran lunga la cosa migliore e più sostenibile da fare”.

In media, in alta stagione – mi dice – “noi guadagnavamo circa duemila rupie al giorno di media. E raggiungevamo fino a cinquanta/sessantamila rupie al mese. I servizi di taxi erano quasi interamente correlati all’industria del turismo, poiché difficilmente gli abitanti dell’Himachal usano il taxi per fare i pendolari”.

Un’ulteriore area che sarà colpita più di altre in relazione ai suoi tassisti, è quella delle strade Kullu-Manali e Kaza-Manali. Nawang, venti anni, viene da un villaggio nella regione di Spiti e lavora con il sindacato dei taxi di Kaza. Molti autisti qui sono molto giovani, specialmente quelli che vengono da Spiti. Benché Lahaul-Spiti è un distretto amministrativo dell’Himachal Pradesh, entrambe le regioni sono molto distanti l’una dall’altra e totalmente differenti in termini di territorio, cultura e economia. Se qualcosa le unisce sono i quattro-cinque mesi di neve intensa, nei quali esse restano relativamente tagliate fuori dal resto del loro Stato e dell’intera nazione.

La vita a Spiti è di gran lunga più dura e alcuni dei villaggi qui sono tagliati fuori per un numero di mesi maggiore rispetto a Lahaul. Spiti è al cento per cento buddista, mentre Lahaul ha una popolazione mista, benché il buddismo sia ancora la religione più ampiamente praticata. Anche Lahaul ha un ecosistema relativamente differente e più diversificato, e macchie relativamente più grandi di verde, se comparate specialmente alla più dura e fredda natura desertica di Spiti. Più gente, a Lahaul, lavora fuori dalla regione, rispetto a Spiti, soprattutto a causa della miglior alfabetizzazione esistente qui tra la gente. Nella regione di Spiti c’è un’agricoltura povera, di sussistenza, con mele e piselli che sono emerse come culture commerciali non molto tempo fa.

Questa agricoltura di base e su piccola scala (a parte pochissimi meleti) è implementata, a livello di rendite, dall’attività di ospitalità che alcune famiglie hanno avviato, in anni recenti. Accade così che ci siano più college nella regione di Lahaul a paragone di Spiti, che in verità non ha college, finora. Come risultato della povertà, non molte famiglie qui possono permettersi di mandare i loro bambini al college così lontano, a Shimla o a Rampur (collegate da una strada), mentre molte famiglie a Lahaul mandano i loro bambini in città lontane, come ad esempio Chandigarh e Delhi, per far loro completare i gradi più alti dell’istruzione.

Nawang, sottolineando questo particolare aspetto, mi aveva detto che, come risultato, la maggior parte dei giovani uomini preferiscono fare gli autisti di taxi. È infatti più semplice sbarcare il lunario così, specialmente nell’alta stagione, piuttosto che andare lontano per avere un percorso formativo che di fatto non possono permettersi. Ci sono alcune questioni correlate alla sostenibilità della loro attività commerciali, di carattere squisitamente economico, dato che la maggior parte degli autisti di taxi acquistano la loro auto con un prestito. In che modo lo scenario presente impatta sull’economia del tassista medio?

Tek Chand dice: “Ci sono alcune spese inevitabili per mantenere l’auto. C’è l’assicurazione, il pagamento delle tasse di circolazione al governo dello Stato, la manutenzione, etc. Tutte cose che costano ovunque tra le ottantamila e le centomila rupie, a seconda del veicolo (auto piccole, grandi, private e commerciali). Su quasi tutti i taxi grava qualche prestito o altro. Chi ha una tale disponibilità economica da poter comprare una macchina con il proprio denaro? Così noi tutti ricorriamo a prestiti. Io stesso ho preso in prestito e comprato auto e le ho usate per servizi di taxi. Benché il governo avesse annunciato che durante il lockdown non sarebbero state riscosse EMI (rate mensili equiparate), non ci sarà un’esenzione dall’EMI per i mesi di aprile e maggio. Molte compagnie di noleggio auto, in India, stanno continuando a riscuotere le loro rate. Perché il governo non si prende cura di persone come noi, mentre assicura concessioni ad altri? Senza neanche un turista, e durante il coprifuoco, come ci guadagneremo una rendita che ci permetta di pagare queste rate? Il governatore della Banca Centrale Indiana (RBI – Reserve Bank of India) aveva fatto un annuncio il 28 marzo circa la riduzione degli interessi sulle rate dei prestiti. Ma entro il quindici marzo noi abbiamo già dovuto pagare la nostra rata con l’interesse. Anche se il lockdown è stato allentato e tutto riapre dopo il tre di maggio (come annunciato finora), pensi che sia possibile che venga qualche turista? Ci vorranno almeno quattro mesi perché le cose tornino a una qualche parvenza di normalità. Come potrà la gente continuare a pagare le rate in questa situazione? Penso che l’industria degli hotel e del turismo nell’Himachal sia morta per il momento. Molti camerieri e lavoratori degli hotel hanno già perso il loro lavoro. Molti dei lavoratori vivono in affitto, così come molti dei nostri tassisti di Shimla. Gli alberghi sono chiusi e loro devono comunque pagare le bollette elettriche e la tassa dell’acqua secondo le tariffe commerciali. Piccoli e medi alberghi e pensioni sono quelli che hanno sofferto di più. Il governo dice che il salario del lavoratore deve continuare ad essere erogato in questo periodo. Ma come può il proprietario di un piccolo albergo continuare a pagare stipendi con zero introiti? E anche se lo staff ha perso il lavoro, chi sta lì a controllare, oggi? Un piccolo alloggio con una sola stanza a Shimla costa almeno 6.000 rupie. Il governo chiede ai proprietari di casa di non riscuotere affitti per questo periodo. Ma per coloro che hanno l’affitto come loro unica entrata, nelle piccole città e nei paesi, che ricaduta avrà questo provvedimento? Pensi che i proprietari ubbidiranno nel non riscuotere affitti in una tale situazione? Poi ci sono le rate della macchina, da pagare ogni mese (senza riguardo al fatto che tu abbia o no savaari, clienti) e poi ci sono altre spese della famiglia che noi dobbiamo mantenere, come le spese per l’elettricità, per il cibo, e così via. Avevamo fatto una richiesta da parte del sindacato dei tassisti per ottenere una proroga di almeno sei mesi, in modo da poter ripagare le rate della nostra macchina, così da poterci prendere cura delle nostre famiglie o semplicemente sopravvivere con i risparmi accumulati finora. Neanche sappiamo se ritorneremo a metterci in piedi e che cosa accadrà da qui a pochi mesi, visto il modo in cui stanno andando le cose; non sarò sorpreso se alcuni di noi e quelli che hanno perso il loro lavoro nell’industria del turismo possano persino arrivare a pensare al suicidio. È un grosso colpo da assorbire. Mio fratello lavorava come imbianchino nell’edilizia e come muratore part time. Ma adesso non c’è lavoro. Nessuno è venuto nel nostro villaggio a incontrare gente come noi, per scoprire come stiamo vivendo adesso. Anche se stanno distribuendo dodici chili di farina di grano e cinque chili di riso alle famiglie sopra la soglia di povertà e bombole di gas gratuite, e 35 chili di farina e riso alle famiglie al di sotto della soglia di povertà, nelle aree rurali molte famiglie hanno chiesto di essere considerate sotto il livello di povertà, anche se in realtà esse sono proprietarie di vasti terreni. Molte cose accadono qui di nascosto e non c’è nessuno a controllare se l’aiuto destinato ai veri poveri senza terra arriva realmente a quelle persone o è preso con falsi pretesti da altri. Un governante deve conoscere e capire i problemi della gente comune, non dei grandi uomini d’affari. Oggi migliaia di alberghi nell’Himachal sono chiuse. In media si può dire che per mille alberghi, almeno ottocento hanno perso il loro lavoro. Ci sono anche molti tassisti nell’Himachal, nel Punjab e nell’Haryana, il cui sostentamento è diventato oggi un grande punto interrogativo. Alcuni di noi pagano rate di 17.000 rupie al mese. La percentuale di interesse è alta. Il mio amico mi ha detto di questa banca privata che lo molesta e lo pressa, sollecitando ogni giorno il pagamento della sua rata. Lui ha dovuto prendere in prestito il denaro da qualcuno e farsi tutta la strada da Solan a Shimla (in pieno lockdown) per pagare. In questo periodo, il rating della mia affidabilità come debitore è crollato come mai prima. Avevo sempre pagato in tempo le mie rate. Ma la banca non lo considera. Penso che ormai nessuno viaggerà, perché anche coloro che prima lo facevano saranno occupati a raccogliere i pezzi della propria vita e a provare a guadagnare denaro nei prossimi mesi. E loro saranno sempre spaventati. Perché il governo non sta pensando a gente come noi tassisti?”.

Il 30 aprile, il Primo Ministro dello Stato dell’Himachal Pradesh, Mr. Jairam Thakur, ha informato alla radio che questo Stato è in una situazione relativamente migliore rispetto ad altri. Su un totale di quaranta positivi al Coronavirus, dieci per il momento sono in isolamento; gli altri sono stati curati e sono tornati a casa. Quanto ai lavoratori migranti presenti nello Stato, ha detto che la loro situazione non è critica come in altri Stati. Vengono riforniti di pasti caldi e razioni alimentari, e ricevono un’indennità di duemila rupie. Considerando gli speciali bisogni dello Stato, Thakur spera che, se non ci saranno nuovi casi, ci possano essere alcuni allentamenti delle restrizioni già dopo il quattro maggio, per ridare il via ad attività di economia e sviluppo. Cinque centri per il testing del Coronavirus saranno presto operativi nello Stato.

 

Primo maggio. La lunga strada verso casa durante il lockdown.

Kunzum, che viene da Teling, studia a Chandigarth. Lei è tornata a casa sua, insieme con altri ventisette studenti dell’Himachal Pradesh. Ha raccontato che c’erano quattro bus e che ogni bus aveva soltanto ventisette studenti, in modo da assicurare il distanziamento sociale. Ma il viaggio è stato stancante, ed è durato quasi quattro giorni, con quattro stop: Parwanoo, Solan, Sumdo e Kaza.

Ad ogni tappa un test; ed una sosta ogni due tappe. A quanto pare controllavano la temperatura e chiunque venisse trovato con una temperatura alta veniva ulteriormente testato e mandato su un’ambulanza per altri test. Agli altri veniva permesso di spostarsi alla tappa successiva. Ora a casa le è stato raccomandato di osservare strettamente le regole di quarantena, e di stare in una stanza separata all’interno di casa sua, per quattordici giorni, con una provvista di cibo e acqua. Per quelli che hanno sintomi febbrili, mi ha detto, la quarantena non può avvenire in casa, ma in strutture separate. Mi dice che ci sono alcuni alloggi a pagamento a Chandigarh, nel Punjab, che continuano a prendersi cura di ragazze e ragazzi che vengono dall’Himachal, con uno staff ridottissimo. Ma la situazione del Coronavirus ha causato molta paura e panico, e pare che alcuni dei cuochi abbiano lasciato le strutture. Ma in alcuni posti, gli operatori di questi alloggi a pagamento seguono severe regole e non permettono ai più giovani di andarsene. La città di Chandigarh, peraltro, è diventata zona rossa. La questione rimane: in caso di qualsiasi difetto nell’attrezzatura per i test o nella natura del test (o anche qualunque altro tipo di errore nel corso della procedura), quale sarebbe il risultato di un tale esercizio di trasporto di gente da uno Stato a un altro?

 

2 Maggio 2020. Mappatura

 L’India adesso è stata divista in zone rosse, arancioni e verdi, in base all’intensità di casi di Coronavirus, mentre il lockdown è stato esteso fino al 17 Maggio 2020. La natura delle attività in ognuna di queste zone è anche stata stabilita. Frattanto, molti Stati indiani hanno cominciato a mandare lavoratori migranti ai loro stati di origine con treni speciali. Il Telangana è stato il primo Stato a mettere in campo un treno speciale di lavoratori migranti fino al Jharkhand, con sanificazione delle vetture e adeguati protocolli. Molti Stati stanno seguendo l’esempio. Alcuni hanno riportato indietro la gente su autobus, mentre treni autorizzati sono stati messi in campo per questo specifico obiettivo, come anche per trasportare turisti o altre persone bloccate altrove.

Il solo problema è che ci sono solamente certe stazioni ferroviarie connesse e non tutti possono raggiungere queste stazioni, a meno che ovviamente non siano lavoratori di quelle città che sono punti di origine di questi treni. Altri dovranno fare un viaggio più complicato tra gli Stati (dove i movimenti tra Stati non sono ancora una possibilità) per raggiungere le stazioni ferroviarie e imbarcarsi sui treni. Questo significherebbe fare domanda per speciali permessi a livello locale. Rimane da vedere come questo servizio sarà razionalizzato ai vari livelli locali, per aiutare non solo i lavoratori delle città da cui questi treni speciali cominceranno i loro viaggi, ma anche le altre persone bloccate.

Permane il problema su quanto sicuro o rischioso questo programma sia, mentre i casi di Coronavirus sono ancora attivi in molte città. Maggiori allentamenti nelle restrizioni sono stati consentiti nel caso delle zone verdi (dove nessun caso di Coronavirus è stato riportato nelle ultime due settimane), incluse alcune attività economiche, vendita di liquori, circolazione degli autobus pieni al cinquanta per cento, etc.

Shimla nell’Himachal Pradesh è stata dichiarata zona verde. La gente qui si aspettava la revoca del lockdown, ma sembra che non ci sia via d’uscita fino al diciassette maggio. La mitigazione del coprifuoco quotidiano è stata estesa per cinque ore al giorno. Il governo di questo Stato ha anche annunciato un sussidio di disoccupazione di centoventi giorni per quelle persone (non si sa se tassisti, lavoratori informali, e coloro che recentemente hanno perso il loro lavoro con la chiusura degli hotel, etc. ne beneficeranno), ed inoltre la cancellazione delle bollette elettriche e del pagamento dei costi di licenza per i proprietari d’albergo, e anche qualche sussidio per lo staff degli hotel turistici gestiti dal governo statale. Pure i negozi di dolci e alcuni negozi di tè hanno avuto il permesso per riaprire, anche se con qualche restrizione, dal 4 maggio.

Ma la vera sfida, nei mesi a venire, sarà nelle zone verdi, specialmente in base alla natura degli allentamenti e alla probabile ripresa delle varie attività.

(traduzione di Rosario G. Scalia; foto di R. Umamaheshwari )

Salvo Prestifilippo / A me – moria

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Estratti dal nuovo romanzo di Salvo Prestifilippo

Incipit

Il Papa era morto. Alla televisione le immagini dei funerali facevano il giro del mondo. Il particolare della bibbia sul feretro, sfogliata magicamente da un vento leggero, faceva credere al miracolo. Ancora non sapevo cosa realmente significasse per me quella morte. Come avrei potuto saperlo. Ero chiuso dentro un ospedale psichiatrico, il mio primo ricovero al manicomio, e i miei pensieri erano completamente assorbiti dal gioco. Mi ero fatto portare decine di riviste. Di tutti i tipi. Scientifiche, patinate, programmi tv. Trascorrevo ore a sfogliarle alla ricerca dei messaggi subliminali che ritenevo fossero rivolti esclusivamente a me. Tutto, ma soprattutto le pubblicità, mi parlava di come fossi stato notato da qualcuno, qualcuno di estremamente potente, e di come questo qualcuno avesse iniziato a spargere sul mio cammino segnali che solo io potevo cogliere. Il fine? Semplice. Una sorta di percorso iniziatico, che io stavo inconsapevolmente intraprendendo, fatto di prove e ostacoli volti a valutare le mie capacità. Mentali e fisiche. Parigi giocava un ruolo importante. Per me era un enorme parco giochi tutto da esplorare. Luoghi e persone sconosciuti potevano essere qualunque cosa. Potevano assurgere a qualunque significato, lontano da una logica razionale ma perfettamente congruo con quello che stavo vivendo. Il gioco. Ripeterò spesso questa parola. Perché è questo quello che mi sembrava. Ma torniamo un passo indietro…

Capitolo 9

Comprare da fumare in India, sulla scorta di quanto mi è capitato in prima persona, è facile. Non è legale, beninteso. Ma vige un clima di splendida tolleranza. Un venditore mi restò particolarmente. Ero in non so quale sperduto paesino. Ed ero rimasto a secco come al solito. Io e Clara, che voleva anche lei fumare, ci facciamo un giro. Era sera e, anche se di solito nessuno si scandalizzava quando chiedevo in merito alla charas, non potevo mica fermare il primo passante per avere informazioni utili a tal proposito. Mi viene un’idea. E se chiedessimo a un autista di rickshaw? Chi meglio di uno di loro. Ci indirizziamo al crocicchio del paese dove sostavano gli apini carrozzati. Un gruppo di tre/quattro autisti ci viene incontro, ognuno con la speranza di farci salire a bordo per un giro turistico. Si stupirono piacevolmente alla mia richiesta di portarmi da un dealer. Conosco io il posto che fa per te, mi fa uno di loro. Senza farcelo ripetere due volte montiamo sul sedile e ci incamminiamo. Il paesino era veramente piccolo, immerso fra sconfinati campi di coltivazione di riso e giungla. Per raggiungere la nostra meta dobbiamo attraversare il ponte sul fiume e raggiungere il paesino limitrofo, ancora più piccolo del primo. Non è nemmeno un centro abitato ma una landa con casette minuscole sparpagliate qua e là. Nel buio della campagna raggiungiamo una di queste. Il tassista butta una voce e dall’uscio appare un uomo. Si parlano e quello ci dice di entrare. Una volta dentro ci ritroviamo in una stanzetta che non sarà stata più grande di due metri per due, con due porte. Una l’ingresso, una sul lato opposto. Noi tre ci sediamo a terra con le spalle rivolte fuori. L’uomo, sulla quarantina, di fronte a noi. Al centro c’è un tavolino basso. Solo una volta seduti, alla luce di una lanterna, mi accorgo che il tipo è cieco. Aveva gli occhi ricoperti da una spessa patina biancastra che solo un poco lasciava intravedere una pupilla e un’iride nere. Nessun convenevole. Il pusher parla. L’autista mi traduce che ci sta chiedendo cosa vogliamo. Eravamo piuttosto a sud, la charas da quelle parti è rara. Ganja, dico. L’uomo si alza ed entra, scostando una tendina, nella porta di fronte a noi. Possiamo chiaramente vedere che nell’altra stanza non c’è luce. Torna e dispone sul tavolino tre buste diverse contenenti la solita tola di erba. Le indica una alla volta mentre dice qualche parola. L’autista ci traduce imitando i suoi gesti. La prima è 700 rupie al pezzo. La seconda è 1000. La terza 1500. Cazzo l’amico sa il fatto suo, dico fra me e me. Cerco di fare due rapidi calcoli per ottenere il massimo profitto. Neanche a dirlo, a me interessava quella da 1500 l’una. Prendo 6000 rupie dal marsupio e gliele metto di fronte. Indico il pezzo più caro e gli mostro la mano con le cinque dita aperte. Il tipo traduce. Così fu. Caricati i pacchetti usciamo da quell’antro. Ne rullo subito una per capire se il tizio ci aveva fregato. Che bomba. La migliore erba che avevo preso sino a quel punto. Rullo un altro joint da un’altra busta, giusto per essere sicuri, e ci rimettiamo in marcia per rientrare. Lungo il ritorno, dalla strada sulla riva, si vedeva il paese di fronte tutto illuminato a festa con delle lucine appese ai fili tirati sulle case e fra gli alberi. Lo stereo dell’ape pompava a un volume strepitoso una concitata musica pop indiana dal ritmo forsennato e conturbante. Io sono inebriato da quell’aria di magia e da quella potente ganja. Clara mi prende la mano. Mi giro e la guardo negli occhi. Lei sussurra una parola ma col chiaro scopo di non volersi fare realmente sentire. Io penso che sono veramente fortunato a essere lì con lei in quel preciso istante.


 

Salvo Prestifilippo nasce a Palermo nel 1978. Giornalista di formazione, fotografo per passione, scrittore per azzardo.Vive a Bologna, Venezia, Parigi, Londra, Roma. Ora è tornato nella sua città dove ha messo su casa con una compagna e due figli.