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Gemütlichkeit

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di Valeria Ranieri

Si aggirava nel supermercato come se il carrello contenesse macigni, non scatole e barattoli. Nonostante l’aria prostrata, le orecchie erano sintonizzate sui discorsi degli altri. Faceva collezione mentale dei vari: “Che dici, stasera ci facciamo due spaghetti con le vongole surgelate?”, “Amore, non riempire il carrello di schifezze che ti fanno male”, “Le hai prese le merendine per Alessio?”. Desiderava immedesimarsi in chiunque sembrasse meno infelice, fosse solo per qualche secondo; e non poteva fare a meno di chiedersi se gli altri fossero consapevoli della fortuna di avere qualcuno con cui condividere frutti di mare sottocosto o una moglie preoccupata per il proprio colesterolo o ancora un genitore che non fa mai mancare nulla. Briciole di calore umano che le servivano a ricordare cosa si prova a essere importanti per un’altra persona; ricordi che avrebbero stemperato il freddo del ‘Polo Nord’, il monolocale che condivideva con il compagno. Mentre aspettava che un’altra cliente decidesse quali yogurt contenessero meno grassi, avvertì la gola restringersi; cercò di contenersi e mettere su una faccia normale. Fece un cenno amichevole alla signora per comunicarle che sì, stava aspettando, ma non aveva fretta; quella sembrò non averla vista e si allontanò lasciando lo sportello del frigorifero aperto. Lei si disse che non era il suo caso, ma poteva capire come mai tante persone arrivassero a commettere un gesto estremo senza che gli altri si rendessero conto del loro stato mentale.
Eppure, solo due mesi prima, qualcuno si era accorto del suo disagio. Era accaduto a dicembre: quel giorno aveva appuntamento dalla ginecologa e si sentiva così depressa che quasi sperava le diagnosticassero qualcosa; poi aveva varcato le porte a vetri dello studio medico e il suo stato d’animo aveva subito uno scossone. Forse era per via della musica natalizia in sottofondo oppure per le graziose candele ardesia accoccolate in nidi di fili d’argento, non avrebbe saputo dirlo, ma si era sentita addosso quell’abbraccio che le mancava da tanto, troppo tempo. Ecco perché in quell’occasione aveva rispolverato la parola ‘Gemütlichkeit’, termine tedesco appreso al liceo e sepolto nella memoria, sebbene in italiano non si potesse tradurre con un’unica voce perché conteneva concetti come ‘familiarità’ e ‘tranquillità’. Rimuginava proprio su questo quando la segretaria le aveva chiesto se volesse un caffè. Le aveva risposto di no, ma poteva essere lo spunto per una conversazione. Al di fuori dell’ufficio aveva quasi perso l’abitudine di esprimersi a parole e a casa ripeteva solo frasi come: “Lo trovi in frigo”, “domani passo a comprarlo”, “abbiamo finito la carta igienica”, “l’hai pagata poi quella bolletta?”. Questo accadeva nei giorni migliori perché nei ‘giorni no’ ammutoliva, mentre Andrea si sfogava alzando la voce e bestemmiando. Come certi animali, lei si fingeva morta: non si muoveva e non articolava nessun suono sperando che lui si stancasse di inveire contro una statua. Ma non funzionava mai.
– Avete fatto un bel lavoro qui. Con le decorazioni – aveva detto. La sua voglia di comunicare era più forte dell’imbarazzo.
– Ci ha pensato la dottoressa. Sa, i bambini rendono creativi – aveva risposto l’altra, riferendosi alla figlia neonata della ginecologa.
Ah, i bambini. Ormai quell’argomento era fuori discussione per lei.
– È già paziente? Non mi pare di averla vista.
– No, – aveva scosso la testa – mi ha mandato una collega – aveva spiegato, facendole il nome.
Quella curiosità aveva innescato una serie di risposte e domande altrettanto banali ma che le avevano fatto scordare il proprio isolamento per una decina di minuti. Quattro chiacchiere con un’altra donna sapevano di normalità; allora perché non frequentava più gli amici di una vita? “Ah sì… perché hanno messo su famiglia e giustamente non hanno tempo per me”, si era risposta. Esauriti gli argomenti era rimasta seduta con la schiena ricurva.
– Sta bene?
Se lo era sentito chiedere due volte perché non credeva che la domanda la riguardasse.
– Dice a me? Sì, grazie.
“Che carina”, aveva pensato, “anche se è difficile che vogliano sentire la verità”. Poi aveva rettificato: – Sì, insomma… Ho avuto periodi migliori ma fisicamente sto bene. Almeno quello.
La segretaria aveva ripreso buttando qualche luogo comune sullo stress che comportano le festività e i ritmi della vita quotidiana. Sebbene si fossero allontanate dalle questioni personali, lei aveva gradito quell’interessamento.
Perché Andrea non glielo chiedeva più, si domandò afferrando due confezioni di yogurt alla nocciola. Da Natale non c’erano stati cambiamenti significativi; se non altro avevano smesso di litigare e per quanto non ci sia nulla di più deleterio del silenzio, era un miglioramento. Quante volte aveva immaginato di dirgli “adesso basta, me ne vado” e poi non lo aveva fatto? Perché non riusciva a staccarsi da lui? Arrivata nella corsia dei dolci restò inebetita: porca miseria, era San Valentino! Soppesando una scatola di cioccolatini ripensò alla cena di tre anni prima, quando erano ancora due fidanzati leggeri per i quali ‘affitto’, ‘bollette’ e ‘spesa’ erano solo idee astratte. Possibile che la routine li avesse divisi? Posò i cioccolatini e spinse il carrello. Erano uova di Pasqua quelle? Notò un uomo e un bambino sostare proprio lì davanti.
– Dai, scegline una. Fallo per nonno, che pesi in braccio.
Abbassò il capo. Al pensiero del vuoto che la attendeva al ritorno, sperimentò i classici brividi di tristezza: cominciavano dal cuoio capelluto e si propagavano nel resto del corpo sollevando ogni singolo poro, per culminare con una scossa alla spina dorsale. Il nonno e il bambino la stavano fissando, allora si voltò e arraffò una confezione di cornetti fingendo di studiarne gli ingredienti. Rimasta sola, frullò il pacco sullo scaffale e respirò a fondo. A quanto pare non riusciva più a passare inosservata. No, non poteva rovinarsi pure la Pasqua come aveva fatto con il Natale. Basta, doveva tirarsi fuori da quel legame tossico! Attraversò le corsie già visitate e cominciò a rimettere a posto: via le uova, via le confezioni di pesce surgelato, via il vino (tanto era astemia). Al Polo Nord non ci sarebbe tornata, non quella sera. Forse era il caso di avvertire la madre prima di piombarle a casa. Estrasse il cellulare e trovò un messaggio di Andrea. Chiuse gli occhi e inspirò. Sbloccò lo schermo del telefono e lesse: “Per favore, mi prendi la melatonina? Che poi non dormo. Grazie”. Nel carrello, tra gli yogurt e i peperoni bio, avvistò la melatonina: prese la confezione e si avviò verso il ripiano degli integratori per riporla. Controllò l’orologio da polso: erano le 19:40 e se non gliel’avesse portata, Andrea avrebbe rischiato di restare sveglio tutta la notte. E lui aveva sempre assecondato le sue richieste, perfino nei ‘giorni no’. Guardò il soffitto con rassegnazione. Gettò la scatolina nel carrello e tornò al reparto surgelati. Per una trentina di secondi fissò il merluzzo che aveva appena posato, premendo le labbra l’una contro l’altra, verso l’interno e verso l’esterno. Soffiò. Tornò al messaggio e digitò: “Okay. Ti serve altro?”

 

Da “Il tempo che trova”

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di Pierluigi Lanfranchi

 

Didascalia per un quadro di Mark Rothko

 

Occhio che passi, fissa questa tela,

tuo autoritratto fedele, mia stele

tombale. Ascolta bene ciò che dice:

non c’è nient’altro, solo superficie.

*

 

Lucian Freud

 

Lucian Freud scruta a fondo la modella

stesa sul letto, nuda ed impudica:

le gambe aperte, i peli dell’ascella,

il buio vortice dell’ombelico.

 

E l’occhio, quasi fosse proprio quella

la prima, fissa il taglio della fica,

s’impiglia nei dettagli della pelle,

tra i ricci chiari, dentro il loro intrico.

 

La luce si inginocchia sul lenzuolo

così vicina al corpo da lasciarne

in ombra solo quanto non si svela.

 

Perfetta la modella nel suo ruolo

(quello di esistere) osserva la carne

che eternamente invecchia sulla tela.

*

 

Sacrificio

 

Giù nel cortile uccidono un coniglio

dal pelo bianco e l’iride vermiglia.

Terribilmente il suo grido assomiglia

al pianto di mio figlio.

 

Per penetrare attraverso le griglie

e le fessure del mio nascondiglio

il grido della bestia si assottiglia

fino a ridursi ad un muto sbadiglio.

 

Schizzano gocce di sangue sul foglio

tra le cui righe la penna s’impiglia

come un paio di corna nel groviglio

oscuro di un cespuglio.

*

 

Davanti allo specchio

 

La vita accelera ad un certo punto

forse perché presagisce la fine

come i giri dell’acqua che mulina

sempre più forte prima di sparire

giù per l’esofago del lavandino.

Capita che lo scarico si otturi

(grumi di peli, sapone, calcare)

e il tempo denso, torbido ristagni.

Così mentre ascoltavi stamattina

alla radio la meteo di un posto

dove non vivi da più d’un decennio

e il tuo doppio assonnato, spazzolino

in bocca, barba incolta, l’aria sfatta,

a corto di argomenti per convincerti

che siete un’unica e sola persona,

si arrampicava ormai penosamente

sullo specchio, qualcosa s’è inceppato.

Una battuta saltata, un singulto.

Sì, l’hai sentito, ma non sai decidere

quanto è durato. Hai trattenuto il fiato.

E l’universo ha fatto leva: il senso

del tempo è stato invertito. Un istante

brevissimo, un secondo, meno, niente.

Poi per riflesso si è chiusa la palpebra,

una goccia cadendo nel lavabo

ha sollevato sette perle d’acqua,

ha suonato una tromba dalla radio,

hai tolto il tappo, il vortice è ripreso.

*

 

Trame

 

Come siamo lontani, Betta, persi

ciascuno nella trama di uno stesso

libro però in capitoli diversi.

Ritrovarti è difficile anche ammesso

 

di poterlo sfogliare in senso inverso.

La vicenda non fa nessun progresso

né regredisce, sembra mantenersi

equidistante tra di noi. Adesso

 

dove sei? Solo un modo mi è concesso

di riaverti: costringere nei versi

se non la luce dove sono immerse

le tue pupille almeno il suo riflesso.

*

 

Ritorno dal Polo

 

Come la chiglia di una nave data

per dispersa, ibernata sotto strati

spessi di ghiaccio, incagliata in un fiordo

che si incunea nel continente, a bordo

 

della quale la ciurma ammutinata

ha messo a morte il capitano sordo

a tutte le richieste e l’ha gettato

sulla banchiglia dove vaga l’orda

 

dei lupi, quando poi non è restata

che un’aringa nel barile e la scorta

di alcool è ormai finita e lo sconforto

opprime l’equipaggio, inaspettata

 

sale la temperatura e la corda

ghiacciata inizia a sciogliersi e sciaborda

l’olio nel lume spento e liberato

dalla morsa lo scafo da ogni lato

 

scricchiola, tu così disancorata

ti liberi dal tempo e dal ricordo

e vieni a dirmi che ogni cosa è andata

come doveva andare. Sì, d’accordo,

 

ma è per questo che sei tornata in porto?

Solo per questo? Spirano da Nord

nuovi venti catabatici, mordono

le costole sferzandole a tribordo,

 

sulla prora all’infinito varata

si frantumano i flutti. Hanno salpato

l’ancora. La polena, ninfa alata,

fa rotta in direzione del passato.

*

 

L’isola

 

Se lo cercavi, questo è il Nord: un’isola

ventosa, lunga e stretta come un’asola,

che scorgi dal continente distesa

sulla linea d’orizzonte in attesa

che si alzi la marea e ricopra il fondo

e nasconda la melma nauseabonda,

che diano l’ordine e il traghetto salpi.

Sulla banchina del porto non scalpitano

le giumente, nessun asino raglia,

i cocchieri sistemano i bagagli

dei turisti venuti ad affittare

tempo e silenzio, entrambe merci care.

Si aggomitola un gatto su una sedia.

Non basta ad abbassare l’età media

degli isolani la frotta di bimbi

e neonati sbarcati in questo limbo

senile. Ronza nell’aria il motore

di un Cessna. Solo all’auto del dottore

è concesso circolare. Operai

polacchi riverniciano i telai

delle finestre sulle impalcature.

1:7 il rapporto tra futuro

e passato per la gente di qua,

e in prospettiva molta eternità.

È vero che se noi ci siamo allora

non c’è la morte, eppure verrà l’ora

in cui, foss’anche per un solo istante,

l’angelo nero ci starà davanti.

Controfigura perfetta del santo

spirito un falco di palude punta

la sua preda. Gabbiani falciformi

mietono il cielo. Passano gli stormi

lunghi delle oche su uno sfondo di eliche

a tre pale, di girandole eoliche

irte nel mare. Sulla terraferma

si intravedono tralicci a conferma

che non esiste un’isola abbastanza

lontana. Fuori dalla loro stanza

gli anziani sprofondati nelle sdraio

si aggiustano sul naso un vecchio paio

di occhiali con lo sguardo all’altra sponda.

Al bordo del villaggio si nasconde

l’ultima casa ai piedi della duna.

Raggi di sole infilano la cruna

del lucernario. La lepre in giardino

batte la zampa e fugge sotto il pino

tormentato dal vento. Sulla spiaggia

cammina un uomo solo. Al suo passaggio

corrieri e piovanelli fanno largo,

quando sulla battigia l’onda sparge

il carico di schiuma e si ritira

con la frequenza di un corto respiro,

gli uccelli seguono il margine. Restano

cose arenate. L’uomo le calpesta

avanzando: rasoi di cannolicchi,

pezzi di vetro, pietruzze che scricchiolano

sotto il passo. Rovescia la risacca

una carcassa da cui i corvi staccano

gli occhi coi loro becchi. Qui le foche

vengono solo per morire. Poche

ore e le ossa saranno ricoperte.

Quest’isola assomiglia ad una vertebra.

Ma lo sai quando ormai sei ripartito

e sull’atlante la punti col dito.

*

 

San Michele

 

Il cipresso è caduto sulle tombe

mandando in pezzi lapidi e colombe

di marmo. Tutt’attorno c’è silenzio.

L’iscrizione con versi di Properzio

dice: la morte non tutto finisce.

Si posa un pettirosso e starnutisce.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lo Spost

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Al posto dell’ombra

di

Lucio Saviani

 

 

Non poter essere mai in
due luoghi contemporaneamente è ben triste.
Ma dover essere sempre da qualche parte è una
condizione ancora più dura
Etienne Souriau

La lettura de Gli spostati di Carla Stroppa promuove, provoca e mette in movimento, pagina dopo pagina, una sorta di forza che attrae e allontana, tesa a produrre un effetto di dislocazione. È un punto che affascina, perché, proprio come ogni fascino, non è localizzabile. Questo effetto di déplacement non si localizza infatti in alcun luogo preciso del libro, (eppure posto, e molto bello, ne troverebbe in tanti dei suoi temi: lo sguardo rabdomantico, la memoria implicita, l’Asino, l’invidia…) o semplicemente in un capitolo, oppure già prefigurato nell’Introduzione. Ma la stessa introduzione, come ogni soglia, lascia entrare ed uscire, spostando e facendo posto. E proprio per questo un posto suo non ha. Si sposta di continuo, durante la lettura, questa zona indecisa. Come quei dolori per i quali non riusciamo a indicare il punto.

Ci sono poi punti sui quali non si riesce a restare, e ci si accorge di questo soltanto e ogni qualvolta ci viene detto, intimandoci di stare al nostro posto. Magari poterlo sapere, qual è il nostro posto. Ci si aggira allora tra le pagine di questo libro con la stessa circospezione e attenzione, con quel passo incerto – lo chiamiamo anche “esperienza”, scriveva Emily Dickinson – che abbiamo quando entriamo nella sala del teatro aggirandoci in platea per scoprire dove sia il posto che ci è stato assegnato. Il libro di Carla Stroppa ci parla di quando questa platea rappresenta la nostra esistenza, il nostro venire al mondo scoprendo il posto a noi assegnato. Perché noi, ci ricorda Jankélévitch, veniamo al mondo sempre quando il sipario è già alzato, a rappresentazione già cominciata. A che titolo quel posto è assegnato?

Chi sono gli spostati di Carla Stroppa? “Out of joint”, le parole di Amleto ci sembrano arrivare sia dal palcoscenico sia dalla platea di questo teatro che Carla Stroppa ha allestito per noi. Luci in sala che si abbassano, ombre che camminano, rumore di passi di chi si sposta dietro le quinte, le scene che si spostano a sipario sempre alzato.

Gli “spostati” di questo libro siamo proprio noi, i lettori. Carla Stroppa ci assegna il posto di lettori quando leggiamo tra le righe che il posto per noi è tra una pagina e l’altra, tra il piccolo pagus e il grande fondo da rivoltare, tra il seme nero dell’inchiostro e il chiostro bianco della campitura.

Di nuovo out of joint, dissesto, fuori-sesto. Gli spostati di Carla Stroppa sono “coloro che inciampano nei loro stessi passi perché non hanno potuto individuare il loro centro di energia e di autenticità, quel senso di sé senza il quale non si trova il proprio posto nel mondo e si finisce per inseguire mete che, prima o poi, rivelano il loro punto di collasso e la loro irrilevanza ai fini di una esistenza che si possa dire veramente umana e piena” (p. 9) ma anche quelli che “come l’Odisseo conoscono la tensione all’oltre e, per assecondarla, non temono di navigare in mare aperto e, quando le circostanze lo richiedono, non temono di invertire la rotta e di assumersene la responsabilità (p. 10) Ma proprio come effetto di quella forza dislocatrice Gli spostati ci porta, in uno stesso tempo, in due luoghi che sono al centro dei lavori di Carla Stroppa: il dissenso e l’ombra. Dissenso come postura esistenziale ed esperienza del pensiero: dis-sesto (esser fuori sesto, vivere un tempo disturbato, come una spalla che va fuori posto, disarticolata), dislocazione, deragliamento, dismissione della sicurezza. La presenza a se stessi è distrazione dall’inaudito, dall’incommensurabile, dalla morte. Come pericolo, anche mortale, spesso si combatte la distrazione. Il luogo comune secondo cui è pericoloso svegliare i sonnambuli non fa che rovesciare la pericolosità “ontologica” della distrazione.

“Distratto… come sdoppiato. Non so che cosa avessi. Mi confondo, a scrivere sotto dettatura…” (Atto secondo, scena seconda). È uno spostato il Principe di Homburg, la cui vicenda nell’opera di Kleist si svolge in un arco teso tra due episodi di sonnambulismo e svenimento, così come mette a repentaglio il suo “posto” Bartleby, lo scrivano.

L’individuazione, l’incontro con la propria ombra, ossia quel “centro di energia e di autenticità, quel senso di sé senza il quale non si trova il proprio posto nel mondo” prevede dunque quel déplacement che si esercita proprio dove la luce rischia di accecare.

Come in quella allucinata assenza di grigi, negli abbaglianti bianchi e neri della scena del sogno ne Il posto delle fragole, il capolavoro che Ingmar Bergman dedica al segreto “posto del cuore” o “dell’anima”.

https://www.youtube.com/watch?v=Mw6GsoufGq4

 

I poeti appartati: Nunzio Festa

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Calipso. Che cos’è la vita eterna se non questo accettare l’istante che viene e l’istante che va? Che cosa  è stato finora il tuo errare inquieto? Odisseo. Se lo sapessi avrei già   smesso… Quello che cerco l’ ho nel cuore come te. Dialoghi con Leucò, Cesare Pavese

Per il libro in uscita di Nunzio Festa ho scritto questa nota che riporto qui sperando possa indurre qualche lettore a seguire le strade storte dei poeti appartati. effeffe

Quando ho letto questo nuovo lavoro di Nunzio, è al mito che ho pensato e se il passo faceva risuonare in me i dialoghi pavesiani, al posto degli dei pagani ho ritrovato gli echi di certe sagre del Sud, scomposte e pagane seppure ammantate di cristianesimo ufficiale. Dalla Festa alla Sagra, dalla poesia di denunzia a quella dell’Annunziata. La silloge   una lettera d’amore al femminile, da uomo “marcio per l’otto marzo “, non alla maniera lirica dunque ma nel trambusto di quelle processioni che a Matera si fanno per la Madonna Bruna, nascondendo la santa donna per poi distruggere il carro e le suppellettili del voto nello Strazzo, per celebrare “in viso e alle gote dei santi sui pudori della madonna”, la salvezza delle genti. C’ è una grazia nuova in questi componimenti scritti con “l’inchiostro bianco che si scioglie in redenzione”. I numi tutelari, laici della poesia, Dino Campana, Rimbaud, i poeti russi, osservano l’amore bislacco, dichiarato e non dell’autore, alla terra madre, “un’isola piena d’isola”, come quelle abitate dalle maghe che incontra Ulisse nel suo viaggio. Mi sono sempre chiesto se un viaggio per essere tale dovesse per forza essere vero o bastava immaginarselo, un po’ come quando Pier Paolo Pasolini, mettendo in scena se stesso nel Decameron, nei panni con bandana di Giotto, si chiede:  Perché  realizzare un’opera quando è bello sognarla soltanto? . “Nei vicoli mentali” a trattenere dallo sconfinamento può  essere solo la paura delle altre terre, altre isole, un terrore che   possibile sconfiggere solo con il ritorno al punto di partenza, l’amore del grembo, la frase della poesia, un tema per  fatto “ di clamori minimi, essenziali, dunque amati come un sontuoso ritornello” di quelli che come scrivevano Deleuze e Guattari, si canta a voce alta il bambino per dominare il buio della stanza.

 

Benzina verde

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Immagine di Mote Oo Education da Pixabay

Immagine di Mote Oo Education da Pixabay

di Andrea Migliorini

Penso che la colpa fu di nostro padre.

Quando gli disse: «Prenditela con lei, con tua madre. Io non c’entro».

Nostro padre aveva ragione: la calvizie si trasmette con i geni materni. Mio fratello Matteo lo aveva scoperto da poco – erano appena usciti dallo studio della dermatologa Marta Ratti in Piazza Marconi, io li avevo aspettati in macchina – ma quando nostro padre gli disse di prendersela con nostra madre mio fratello Matteo lo guardò dritto negli occhi e gli rispose: «Tu lo sai».

Nostro padre si passò una mano fra i capelli neri e lunghi e pettinati all’indietro e disse: «Che cosa, che cosa so, io?».

Quando andammo dalla dermatologa Marta Ratti mio fratello Matteo aveva 16 anni. Io ne avevo tre meno di lui. A casa di nostra madre dormivamo nella stessa stanza. Fra il mio letto e quello di mio fratello Matteo c’era lo spazio della finestra. Avevamo le tende con lo stemma dell’Inter: era l’anno del Triplete. La mattina io mi svegliavo sempre presto e fissavo il soffitto. Ma quell’estate, quando il sole entrava dalla tenda della nostra camera e colpiva la testa di mio fratello Matteo, io potevo vedere il suo cuoio capelluto, e sembrava che avesse sudato tutta la notte perché tra i fili dei capelli chiari c’era una patina che pareva uno smalto vecchio, stanco, che me lo sentivo addosso anche io e mi veniva il prurito.

Il giorno che mio fratello Matteo compì 17 anni – avevamo festeggiato tra di noi, io, mamma, e la Fede, la tipa di mio fratello Matteo, che però adesso non è più la tipa di mio fratello Matteo ma del suo migliore amico Riccardo Brambilla, che ovviamente adesso non è più il suo migliore amico – quel giorno nostro padre non venne e mandò soltanto un messaggio di auguri perché aveva il turno alla pompa di benzina.

Scrisse: «Auguri figliolo». Ci chiamava sempre figlioli.

Mio fratello Matteo rispose: «Tu lo sai».

«Ma gli dici sempre così?» gli chiesi io.

«Così come?» mi chiese mio fratello Matteo. Quell’anno aveva cominciato a pettinarsi i capelli all’indietro perché aveva letto su un forum che gli avevo fatto conoscere io – si chiamava embraceyourbaldness.com – che con quel genere di pettinatura si poteva temporeggiare un po’. Non stava male. Sembrava più serio.

«Gli dici soltanto che lui lo sa» dissi io.

«Perché lui lo sa».

Con nostra madre ci parlavo poco. Mio fratello Matteo invece ci parlava molto, anche se nostro padre ogni tanto gli ricordava che: «figliolo, lo sai che io non c’entro niente. Devi prendertela con lei».

La mattina nostra madre entrava in camera mentre mio fratello Matteo si faceva la doccia. Io fissavo il soffitto. Il soffitto di camera nostra sembrava una mappa del mondo disegnata col ghiaccio spray.

«Che cosa fai?» le chiesi una volta.

Lei mi rispose che SHH dovevo tacere. Lei non era lì.

«Va bene – le dissi – tu non sei qui. Ma io sì. Io sono qui. Io devo guardare». Nostra madre entrava in camera e sbatteva il cuscino di mio fratello Matteo fuori dalla finestra prima che lui si facesse il letto. Penso fosse per via della quantità sempre maggiore di capelli che si incastravano sulla federa del cuscino. Nostro padre queste cose non le faceva, infatti quando dormivamo da lui ogni mattina mio fratello Matteo fissava la federa e si metteva a contare il numero dei capelli. Avevamo letto su embraceyourbaldness.com che fino a 100 capelli al giorno la situazione sarebbe stata ancora accettabile, quasi fisiologica.

Un sabato mattina ne contò 549.

Il giorno in cui la Fede – non so perché la chiamo ancora la Fede, dovrei chiamarla Federica Malerba, ma sento che devo essere sincero, comunque – il giorno in cui la Fede lasciò mio fratello Matteo ricordo che lui entrò in bagno. Io ero seduto sulla tazza del cesso e stavo pensando che dovevo chiedere al mio amico Mario Potenza il nome di quel sito che avevamo scoperto a casa sua, e mentre pensavo queste cose mi venivano in mente i video delle ragazze che avevo guardato insieme al mio amico Mario Potenza, così quando mio fratello Matteo entrò in bagno e prese in mano schiuma da barba e rasoio io non mi potevo alzare, e allora vidi tutta la scena: mio fratello Matteo che agita il barattolo di schiuma, la spalma sulla mano, se la passa sulla testa. Poi alza in alto il rasoio e con più rabbia che precisione comincia a radersi senza guardarsi allo specchio.

Quando riuscii ad alzarmi dalla tazza lui aveva quasi finito.

«Sanguini» gli dissi.

«Lo so» mi rispose lui, ma era contento. Gli chiesi di farlo anche a me.

Gli dissi: «Voglio farlo anch’io».

«No. Non sei tu» rispose lui.

«Non sono io, chi?»

«Non sei tu che lo sai».

Cercai di pensare a qualche attore cui paragonare il suo nuovo look. Ma in quel periodo guardavo pochi film e tanto calcio, e mi venne in mente soltanto Esteban Cambiasso, che tra l’altro era sempre stato uno dei miei giocatori preferiti, apprezzavo quel misto di grinta e ostinazione e zero tecnica. Ma quando guardavo le partite dell’Inter di quell’anno assieme a mio fratello Matteo, io lo capivo che non potevo dire nulla su Esteban Cambiasso. Preferiva parlare di Javier Zanetti.

«Ha dei capelli immobili – diceva –, sembra che non sudi mai».

Quando compì 18 anni mio fratello Matteo si iscrisse alla patente. A 17 aveva già preso quella per il 125, quindi gli bastò sostenere le guide obbligatorie e l’esame di pratica. Nostra madre gli comprò una Punto targata AZ. Il giorno in cui passò l’esame della patente mio fratello Matteo tornò a casa, chiese le chiave della Punto a nostra madre e le disse:

«Non è colpa tua».

Lei gli accarezzò la testa – adesso mio fratello Matteo si rasava con una macchinetta automatica impostata a 0,03 cm – e sentì i puntini ispidi dei follicoli ancora vivi. Ma non era colpa di nostra madre. No. E per dimostrarlo mio fratello Matteo tirò fuori dal portafogli una foto di nostro nonno – che ovviamente era pelato, ma di quei pelati con la testa dalla forma strana, che si alza in fondo al cranio e dà profondità al volto, tanto da sembrare la parte davanti di una locomotiva.

Poi mio fratello Matteo mi disse: «Vieni anche tu. Sali in macchina».

«Perché devo venire anche io?».

«Perché c’è sempre bisogno di qualcuno che guardi».

La guida di mio fratello Matteo era sicura e decisa. La macchina non si spense nemmeno una volta. Arrivammo al distributore di nostro padre – che stava appena prima della tangenziale est, all’uscita di Agrate – e ci mettemmo sotto la pompa 4, quella dove c’era scritto SERVITO.

La benzina verde costava 1.455.

Nostro padre arrivò e di primo acchito non ci riconobbe. Prese la pompa e chiese: «Quanto vi faccio?». E mio fratello Matteo gli disse: «Tu lo sai».

Nostro padre spalancò gli occhi e guardò mio fratello Matteo – che intanto era uscito dalla macchina e stava davanti a nostro padre con le braccia incrociate. Nostro padre indossava un berretto della Erg, una maglia rossa e un marsupio blu.

«Ti ho chiesto quanto volete» disse nostro padre.

«Tu lo sai» gli rispose mio fratello Matteo.

«Facciamo 20, 50?» nostro padre tentò di sorridere. «Il pieno, dai. Ve lo mando io, figlioli».

Nostro padre aveva già tolto il tappo dalla portiera della Punto. Il tappo per la benzina era dalla parte dove stavo seduto io.

«Tu lo sai».

Nostro padre disse: «No, Matteo. Cazzo. Non lo so. Non so un cazzo io, va bene? Te l’ho sempre detto che è colpa di tua madre, di quella puttana di tua madre. Va bene? Prenditela con lei, cazzo».

Mio fratello Matteo chiuse gli occhi. Li riaprì.

Nostro padre prese la pompa e la sollevò con fatica sopra la testa. Poi si tolse il cappellino della Erg e disse: «È questo che vuoi, Matteo? È questo?».

Mio fratello Matteo annuì e disse: «Tu lo sai».

Poi nostro padre aprì la pompa e si versò la benzina in testa. Aveva gli occhi rossi e gialli. I capelli erano lucidi e sotto le luci al neon del distributore risplendevano di macchie bianche.

L’accendino ce l’avevo io.

Diario della pandemia dall’Himachal Pradesh #6

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di R. Umamaheshwari 

R. Umamaheshwari è una storica e giornalista che vive in India. Ha pubblicato When Godavari Comes: People’s History of a River (Journeys in the Zone of the Dispossessed), Aakar Books, New Delhi, 2014; Reading History with the Tamil Jainas: A Study on Identity, Memory and Marginalisation, Springer, 2017 e From Possession to Freedom: The Journey of Nili-Nilakeci, Zubaan, New Delhi 2018. Un anno fa ha cominciato a scrivere un diario della pandemia dall’Himachal Pradesh che pubblichiamo a puntate. Qui la prima, qui la seconda, qui la terza, qui la quarta, qui la quinta.  Quella che segue è la sesta.

 

20 aprile 2020. La “Maskforce”, Instagram, il quoziente di simpatia.

 Ci sono sempre nuove campagne pubblicitarie ogni giorno in televisione, in competizione l’una con l’altra, non solo sulla copertura della pandemia in India, ma anche sull’idea dell’ “andrà tutto bene”, dell’apparire felici, e comunque intenti in occupazioni gradevoli anche di questi tempi, un po’ come se fossimo delle emoji sorridenti. Così ci sono campagne come il concorso “progetta la tua mascherina e posta la foto”. Alla miglior foto o alla miglior mascherina andrà un premio (in questo caso, l’onore di avere la propria immagine diffusa alla TV). Sembra che la cosa essenziale di questo periodo sia il quoziente di simpatia e di compatibilità social. Anche famosi attori del cinema postano immagini della loro felicità domestica, secondo la logica del mantra “Stai al sicuro, resta a casa”. Mostrano di vivere felici e cercano di essere fonte di ispirazione perché anche altri lo siano. Ogni cosa vende, o ogni cosa può vendere. Basta solo sapere come fare…

 

Ci sono anche altri problemi nel mondo.

Il Coronavirus ha aiutato molti governi in giro per il mondo a dimenticare per il momento ogni altra questione che avrebbe richiesto la loro attenzione. O almeno questioni che loro non volevano affrontare, seppur di vitale importanza per la gente. Il Coronavirus permette loro adesso di non curarsi di ogni altra questione entro parametri legali, poiché siamo in una pandemia, e persino l’Organizzazione Mondiale della Sanità lo ha dichiarato. La gente così rimane senza neanche una base legale per poter pretendere dai propri governi e dalle proprie amministrazioni la soluzione dei problemi. Quello che fanno, lo fanno esclusivamente in nome del Coronavirus.

Se mai ci sarà una futura pandemia la politica dovrà fissare parametri più chiari per distinguere “epidemia” e “pandemia”, atteso che al momento, paragonata ad altre malattie presenti nel globo, il tasso di mortalità associato al Coronavirus rimane ancora basso. Inoltre, l’Organizzazione Mondiale della Sanità e altre organizzazioni di livello planetario, come l’ONU o l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, le organizzazioni per la difesa dei diritti umani, le istituzioni che si occupano di ambiente e di cambiamento climatico, dovranno trovare risposte che bilancino gli sforzi di mitigazione con il rispetto dei diritti umani e non-umani (ecologici) e con l’idea di equità e giustizia.

Ci vorrà molto tempo per fronteggiare i problemi derivati dalla perdita di reddito durante i lockdown. Come anche per riscrivere delle linee-guida sul trattamento da riservare agli animali selvatici e alla natura, per prevenire gli abusi. Questo periodo può anche aiutarci a comprendere e a fronteggiare possibilità di abuso fisico, verbale o emozionale verso gli esseri più vulnerabili.

In caso di violenza domestica, in che modo un lockdown può dare forza e vigore a comportamenti abusivi da parte degli uomini? Benché in India il governo abbia messo in piedi un servizio telefonico gratuito per le donne vittime di violenza, non è chiaro chi si occuperà di questi problemi, e quanto qualificate saranno le persone che, all’altro capo del filo, saranno chiamate a rispondere a queste difficili questioni.

La gente ha anche mostrato comportamenti abusivi nei confronti degli animali. Il futuro dovrebbe preoccuparsi di quanto sia inclusiva la nostra comprensione della vita, delle varie forme di vita, e quale sia la nostra idea di giustizia e di equità quando una crisi globale ci pone una sfida così impegnativa. E inoltre, una crisi globale può essere evitata prima che raggiunga le proporzioni che ha toccato nel caso presente? Non è forse il momento di affrontare le preoccupazioni relative al consumo eccessivo e all’eccessivo sfruttamento delle risorse della Terra, ora o mai più?

 

Il bio-azzardo della gestione dei rifiuti.

Le città indiane non godono di buona stampa circa la loro capacità di gestione dei rifiuti. In alcune città, nel corso degli anni – con la veloce e totalmente incontrollata espansione urbana collegata alla speculazione edilizia – le discariche sono diventate grandi cumuli o anche colline. In alcune città come Delhi o Hyderabad la copertura di questi cumuli o colline è stato l’unico modo di affrontare il problema. Oppure le stesse discariche sono state spostate di volta in volta in zone dell’entroterra, nelle periferie che confinano con aree semi rurali e con fattorie, causando un notevole rischio non solo per la salute della gente che vive nelle vicinanze, ma anche per i corsi d’acqua, i campi coltivati, gli uccelli e gli animali di tutte queste aree.

Se questo è un problema già in tempi normali, cosa sappiamo adesso dell’impatto del Coronavirus sulla gestione dei rifiuti, specialmente di quelli provenienti dagli ospedali indiani? Non ne sappiamo molto al momento. Dov’è che gli ospedali scaricano i loro dispositivi di sicurezza non monouso, o come sanificano le località in cui questi ospedali si trovano? In alcune città, gli ospedali sono collocati in zone residenziali, e già questo è un problema, specialmente oggi. Anche se il presente lockdown, come assoluta priorità, può funzionare in termini di contenimento (e già si è visto che nonostante il lockdown alcune città come Delhi hanno mostrato una crescita del numero di casi di Covid – anche se bisogna considerare che l’amministrazione di Delhi ha aumentato gli screening sulla popolazione), bisogna capire che cosa succederà dopo il lockdown. Quanto saranno sicure le nostre città dopo? Quando le cose torneranno ad una vera normalità? C’è un eccesso di attenzione sulle mascherine, mentre tutte queste altre questioni cruciali non sono ancora mai state affrontate. Quanto saranno sicuri quei luoghi in cui adesso ci sono reparti di isolamento?

 

Storie di casi e dilemmi etici.

Quanto sono stati trasparenti i governi a proposito dei pazienti positivi al Coronavirus – quelli che sono morti e quelli che sono sopravvissuti? La questione, comunque, è un dilemma etico. Da una parte, l’indagine del profilo socio-economico nella diffusione della malattia può aiutare a capire chi è più vulnerabile, e le storie di viaggio dei pazienti possono aiutare ad analizzare perché e dove la gente viaggia e come le malattie si trasmettono localmente e globalmente; ma d’altro canto, considerando i pregiudizi razziali e culturali già così profondamente radicati nella società (che rialzano la testa ancor più oggi, vis-à-vis con il virus), questa indagine ha il potenziale per creare più problemi per le persone colpite.

È sicuramente un’arma a doppio taglio. Ma se fatta con la dovuta sensibilità, questa operazione può aiutare a capire se ci sono stati casi di discriminazione (da parte dello Stato o di altri attori) e ad approfondire altre questioni etiche in relazione ai casi di Coronavirus nel mondo. Alcune questioni molto difficili saranno sollevate nel prossimo futuro.

Ad un altro livello, guardando alle storie di viaggio, la dimensione etica, ecologica e sociologica del turismo stesso non è stata ancora indagata abbastanza, in giro per il mondo. L’estrema pressione che il turismo esercita su un determinato luogo, sulla gente e sull’ambiente intorno al mondo (dove la gente si affolla per “vedere”, per fare selfie che siano Instagram-compatibili, per realizzare gli innumerevoli blog di viaggio, per i tour di gruppo, etc.) è stata troppo a lungo ignorata. La consunzione e la definitiva spoliazione del Monte Everest è stata a lungo sui giornali. Ma ci sono alcuni altri luoghi, specialmente quelli di accesso più remoto, con una bassa popolazione, che hanno pagato il loro pedaggio al turismo di avventura. Mentre il viaggio ha una lunga storia e dovrebbe essere benvenuto perché connette persone e società, aiuta le idee a viaggiare e crea nuovi legami, fare questo in modo sostenibile e ecologicamente compatibile è una cosa della massima importanza. Specialmente lo è oggi, ora che ci viene concessa una pausa di riflessione per riconfigurare pratiche estremamente usuranti per l’ambiente, anche se questo significa perdere benefici economici.

L’attuale situazione condurrà alla moderazione nel progettare gli itinerari dei tour, a pratiche più sicure, ad un turismo etico in contatto con lo spazio e con i bisogni delle persone i cui spazi costituiscono una fonte d’attrazione per il mondo intero, ad una riduzione dello stress sugli ecosistemi e ad un totale bando del traffico degli animali selvatici e del consumo di specie esotiche di animali selvatici in alberghi esclusivi in tutto il mondo? L’industria alberghiera e del turismo ha subito un duro colpo. Ma bisogna vedere se questo settore, al momento del ritorno alla normalità, farà pressione per continuare a fare ciò che finora ha fatto, o comincerà ad agire più responsabilmente e con maggiore cautela, nei confronti dell’ambiente e delle persone, senza, al contempo (è questa la cosa più importante) cedere al razzismo e alle richieste dei viaggiatori. Rimane da vedere.

La fine dei viaggi non è, né dovrebbe essere, una risposta; la risposta è forse un’idea di viaggio più sostenibile e una reale sensibilità e rispetto le culture e per i popoli del mondo, quelli verso cui si viaggia, ma anche quelli che accolgono. Si tratta di un equilibrio delicato. Invece di domandare dal-chawal, chole-chawal, le differenti varietà di riso e lenticchie comuni nel Nord dell’India e acqua calda a volontà in un villaggio di montagna freddo e innevato, in inverno, in una regione come Spiti o Ladakh, bisogna chiedere ai viaggiatori di accettare l’idea di bagni a secco, uso minimale di acqua, disponibilità a mangiare con grazia e gratitudine il cibo tipico del luogo – thenduk, thukpa, e momos – con la famiglia ospitante. Ed accettare anche l’idea che il leopardo delle nevi potrebbe non aver voglia di essere sempre immortalato dalla macchina fotografica (con le buone o con le cattive). Va bene lasciare che sia e lasciarsi andare.

 

Futuro dei rituali comunitari.

In regioni dove comunemente la celebrazione dei rituali è parte della vita culturale della gente (indifferentemente dalle denominazioni religiose), che impatto avrà la pandemia? A sua volta, se continuerà più a lungo del previsto, influenzerà le relazioni sociali, in meglio o in peggio? Cambierà un’idea che ha un suo radicamento storico?

Parlo qui, essenzialmente, delle comunità di indigeni in giro per il mondo. Comuni assembramenti sono intrinseci all’idea di queste società, alla loro storia e alle relazioni reciproche. Ad un altro livello, alcune festività e rituali sono nati dall’idea di condivisione. Alcuni cibi e alcune bevande specifiche vennero originariamente preparati per queste occasioni, forse. Condividere o scambiare cibo e conversazioni, cantare, ballare, fare baldoria, sono tutte espressioni fondamentali delle civiltà umane in tutto il mondo.

Come l’idea del “distanziamento sociale” (specialmente se dovesse diventare progressivamente, in qualche tempo futuro, una questione di controllo di Stato e di polizia) impatterà su questi contesti della storia umana? E ancora dividerà le comunità e ci guiderà ad un mondo di automi retti dallo Stato in tutto il mondo? Dobbiamo stare attenti? O essere più ottimisti, considerando la lunga durata dell’evoluzione delle civilizzazioni umane a confronto con la breve durata dei regimi politici? Questa volta è stato il Ramadan ad essere stato colpito in tutto il mondo. In altri casi, ci possono essere fiere di villaggio più piccole associate con il ciclo dell’agricoltura o, dovunque, una celebrazione del rituale della semina o delle primizie del raccolto delle comunità indigene.

Discorso su conoscenza e istupidimento.

Alcune immagini e video che mostrano come lavarsi le mani sono diventati un luogo comune in questi ultimi due mesi. Ci hanno ricordato uno dei discorsi della conoscenza e della scienza che hanno accompagnato colonialismo e imperialismo. Era quasi come se la gente in India (qui io restringo l’osservazione all’India, in questo specifico caso) non si fosse mai lavata le mani prima. O non lo avesse mai fatto “correttamente” e “scientificamente”. Specialmente la gente delle aree rurali, alla quale viene quasi sempre insegnato a fare le cose correttamente,

inclusi i lavori agricoli, benché essi siano agricoltori da intere generazioni. Gli igienizzanti per le mani sono diventati un male necessario. Anche se è perfettamente sicuro e corretto lavarsi le mani con un semplice sapone e con acqua, dove l’acqua è disponibile. Ma cosa bisogna fare in contesti in cui ci sono scarse scorte di igienizzanti (come in molti negozi di sanitari a Shimla, in questo momento)? O dove c’è forte penuria di acqua (in città come Chennai, nel Tamil Nadu)? E quanto sono sicuri gli igienizzanti per le mani, se usati per un lungo periodo?

 

E-Learning.

Quanti bambini in India, specialmente nelle aree rurali, hanno accesso ad Internet e possono realmente fare uso delle piattaforme di e-learning messe a punto per le scuole durante il lockdown? Un esempio: una scuola a Tabo, nello Spiti, non ha computer né collegamento ad Internet. Il solo computer, nel monastero di Tabo, ha una connessione super lenta e molte volte persino mandare o ricevere email è un’impresa. Ci sono altre scuole nelle stesse condizioni in India, tagliate fuori dal più ampio discorso dell’uso delle tecnologie nell’istruzione. A dispetto dei proclami secondo i quali tutta l’India è connessa digitalmente.

 

Conti in banca.

Quante persone in India hanno un conto in banca? Tutte? Veramente no. Molti vivono ancora un’esistenza alla giornata, con salari giornalieri o del tutto senza salario. Questo discorso sulla pandemia è pesantemente incentrato sull’alfabetizzazione ad alta intensità di gadget o gadget–dipendente, e solleva molte questioni di equità sulla natura di un’alfabetizzazione guidata dalle élite e su una politica urbana di governance.

Per esempio, ogni due giorni la radio annuncia una nuova app per smartphone o una piattaforma internet. La domanda che nasce nella mia testa è se un governo può forzare un popolo a scaricare una app sugli smartphone e se a sua volta il popolo può reclamare il proprio diritto a non farlo. Quanto è esatta o assolutamente impeccabile la nuova app chiamata ‘arogya-setu’ che il governo sta chiedendo alla gente di scaricare, per sapere se la persona che ti sta accanto è positiva al Coronavirus? Quanti giorni è stata testata, prima di essere messa in uso? E qual è la garanzia che un’app (dopo tutto, un’app sviluppata con l’uso di algoritmi e parametri che non sempre resistono alla prova del tempo e che possono andare male) non faccia niente di sbagliato? Qual è l’utilità dei kit per i test sul virus, se un’app può rilevare chi ha il virus? È stato anche detto che qualcuno dei kit acquistati per lo screening ha fallito. Se un kit (pensato con una specifica finalità diagnostica in un laboratorio scientifico) può fallire, lo può senz’altro fare anche una app, che non ha capacità diagnostiche.

Le app, in generale, sono vulnerabili ai virus (informatici) e non c’è bisogno di dire quanti dispositivi mobili saranno vulnerabili ad attacchi cibernetici, se ognuno di noi sarà forzato a scaricare una app senza nessuna consapevolezza dei suoi limiti e dei suoi rischi. E che garanzia abbiamo, peraltro, che i governi usino le app solo per fini specifici e non con altri scopi? È giustificato in democrazia sviluppare tecnologie così intrusive senza la consultazione o il consenso informato del popolo? Può una pandemia avere il potere di trasformare una democrazia in una autocrazia?

Le news alla radio hanno annunciato che un treno che trasportava 950 soldati che avevano finito il loro addestramento è partito da Bengaluru (nello Stato del Karnataka) e ha raggiunto Jammu Tawi. Un secondo treno lo seguiva. Apparentemente il treno era stato sufficientemente sanificato e un macchinario per la sanificazione era stato usato anche per lo screening di tutti i bagagli. Ed io mi chiedevo se sarebbe stato possibile sottoporre ad un simile procedimento anche i lavoratori migranti, in modo da evitar loro di camminare a piedi per migliaia di chilometri, talora senza cibo o acqua. Non poteva esserci un analogo processo graduale per assicurare un graduale trasporto della gente alle loro case? Per inciso, negli ultimi giorni ho sentito di qualche governo di qualche Stato indiano che fa accordi con gli studenti che originariamente appartengono ai loro Stati, per essere ricondotti indietro a casa da altri Stati dove essi sono rimasti bloccati finora. Sono anche stati messi in quarantena per pochi giorni prima di essere rimandati a casa.

 

22 Aprile 2020. Giorno della Terra. Comunità indigene e disastri imminenti.

In che modo il virus ha aiutato la Terra? In miriadi di modi. Ha imposto uno stop a viaggi non necessari e non essenziali e ha prodotto forse anche una qualche moderazione nei consumi. I centri commerciali hanno chiuso, come anche le multisala cinematografiche. Si può anche pensare all’energia risparmiata che altrimenti sarebbe stata consumata in questi enormi edifici, sovvenzionati dal Governo, mentre essi imponevano il risparmio energetico e i tagli di corrente alla gente comune. Il traffico veicolare nelle piccole e grandi città non sta più appestando l’atmosfera e la qualità dell’aria è migliorata grandemente in questi ultimi due mesi. I monsoni arriveranno in India, come da programma, nelle prime settimane di Giugno, il che significa che c’è un deciso miglioramento nelle vie della natura, senza l’intervento umano.

L’inquinamento industriale e quello acustico sono stati minimizzati negli ultimi due mesi in molti Stati. Anche l’e-commerce di prodotti non essenziali è stato bloccato con una consistente riduzione di plastica e imballaggi. È da un po’ che non vedo una grande città. Ma a Shimla l’aria è più pulita e la natura sembra al suo meglio, con una lussureggiante crescita delle foreste, ed erbe rigogliose. Una festa per le scimmie, che possono tornare alla loro dieta naturale, piuttosto che consumare gli avanzi dei turisti nelle strade.

È possibile anche che il ciclo agricolo ne benefici a suo modo, con piogge e sole puntuali. Ma c’è anche qualcuno interessato alla Terra nel suo complesso, in questo intero discorso? Alcuni ci sono. Come Tenzin “Tulku” a Spiti, occupato nel suo piccolo frutteto di mele, e felice di fare quel che fa in questo periodo dell’anno. Altri, nel suo villaggio, sono felici della loro limitata produzione di orzo. Subodh è preoccupato però per le prospettive di coloro che a Spiti coltivano piselli a scopo commerciale: sarebbe un danno se il lockdown dovesse continuare fino al momento della raccolta dei piselli, quando ci sarà bisogno che vengano trasportati in Stati come il Punjab.

La maggior parte degli Indiani – specialmente quelli che vivono in città – consumano i raccolti di differenti regioni, e questo crea una cultura alimentare diversa che aiuta anche gli agricoltori a sopravvivere. Non tutta la coltivazione è rivolta al consumo domestico. Alcuni agricoltori seminano solo per il loro uso privato mentre altri per il mercato, ed è così che riescono ad andare in pari. Con il lockdown, a dispetto delle assicurazioni che i rifornimenti alimentari non saranno bloccati, se differenti governi dei vari Stati non allentano i loro rispettivi lockdown in linea con i trasporti stagionali e con lo scambio di prodotti agricoli, la vita degli agricoltori e il ciclo agricolo ne saranno pesantemente condizionati. Nel Giorno della Terra, quanti stanno pensando al futuro dei produttori di cibo?

La zona naturalmente “Green” e una diga.

Penso ad un bellissimo posto, fra molti altri: paesaggio, popolo e storia. I villaggi sulle rive est e ovest del distretto del Godavari, nello Stato dell’Andra Pradesh sono largamente popolati da Koya, Kondareddi, Konda Valmiki e altre comunità indigene. Il Kondamodalu è abitato dai Kondareddis, che sono segnalati come un gruppo tribale particolarmente vulnerabile. Abitano tra il bellissimo fiume Godavari e colline ricoperte di foreste per metà decidue e per metà sempreverdi (Papikonda), dove il virus non cambia niente. Fortunatamente, ha lasciato le persone e gli spazi intatti, dato che questo è un villaggio così remoto che richiede una volontà ben precisa per recarvisi (per esempio per i funzionari governativi, che non possono fare a meno di andarvi quando sono chiamati a farlo). Anche quelli che vi abitano lasciano il villaggio soltanto se c’è qualche urgente bisogno, dato che bisogna attraversare campi verdi, foreste e fiumi su una barca e nei pochi autobus.

Questo villaggio fa parte della zona di sommersione della diga del Polavaram, cominciata durante gli anni 2004-2005, un’imponente opera finanziata da investimenti americani multimilionari, non ancora completata. Se c’è qualcosa che non si ferma nemmeno durante una pandemia, sono questi progetti di grandi dighe che assorbono investimenti multimilionari. Apparentemente, l’attuale governo dell’Andhra Pradesh ha informato la gente che le opere progettate riprenderanno presto e che le persone dovrebbero lasciare le loro case entro giugno di quest’anno.

La maggior parte della gente di questo villaggio si è opposta con fermezza alle minacce di sgombero da parte del governo dello Stato, per un progetto che sommergerà complessivamente più di tremila ettari di foresta e trecento villaggi, la maggior parte dei quali collocati in aree classificate. Il virus, sfortunatamente, non ha potere, sembra, contro i grandi interessi commerciali dei “grandi” dell’ordine mondiale, sia in India che altrove. Il Coronavirus, che non ha colpito questa gente semplice, con una storia incredibilmente lunga, vissuta in sincronia con il mondo naturale, non riesce ancora a mettere uno stop a una ragnatela di Stati che entrano nella vita dei più poveri, e invece di festeggiare questa naturale “green zone” (contrapposta a quella che ufficialmente è considerata “green zone”), si impegnano a distruggere la ricchezza ecologica degli ultimi spazi superstiti.

 

Persone con Alzheimer e Dementia. Assistenza e definizione di “servizi essenziali”.

Ho contattato un’amica (Dr. Saadiya Hurzuk) che lavora per l’associazione Alzheimer’s and Related Disorders Society of India, con base a Hyderabad. Avevo sentito parlare di questa associazione nel 2016, quando un mio vicino di casa di lunga data era stato colpito da una forma acuta di Alzheimer e il sostegno per lui non arrivava da suo figlio o da sua figlia, che non vivevano con lui. Ma Saadiya ed io non eravamo potuti andare oltre, in quel caso, perché ci era stato chiesto di tenerci lontane da “una questione di famiglia”. Quel vecchio morì nel 2017 all’età di 86 anni, e io mi chiedo che cosa avrebbero sofferto le persone come lui durante uno scenario di lockdown.

Io mi chiedo anche come ci si possa aspettare da una persona che soffra di demenza o di Alzheimer che si confronti con l’idea di distanza sociale o fisica, quando lui o lei è necessariamente legato a una badante e richiede costantemente un supporto fisico, oltre che un supporto istituzionale, se la sua famiglia non ha la possibilità di provvedere a lui o lei a casa per ventiquattr’ore al giorno, sette giorni su sette. In una discussione alla radio con un esperto, una persona che si autodefiniva come non vedente condivideva le sue difficoltà nel fare una passeggiata fino al mercato locale senza la persona che abitualmente lo accompagnava; diceva che la polizia locale nel suo distretto gli aveva chiesto di non uscire mano nella mano con l’accompagnatore, poiché bisognava mantenere il distanziamento sociale! In alcuni casi, laddove la presa in carico da parte delle istituzioni e il supporto è quanto mai essenziale, i lockdown possono essere fortemente debilitanti, a meno che l’amministrazione locale non sia sensibile all’idea di bisogni differenziati e pronta alla loro valutazione, caso per caso[1].

Sfortunatamente queste istituzioni non rientrano tra i servizi essenziali; la gente la cui vita quotidiana dipende da queste istituzioni di cura sarà severamente colpita. E lo stesso accadrà per le organizzazioni coinvolte nella cura degli animali. Quante di queste sono capaci di continuare a fornire cure agli animali malati e abbandonati?

 

La donna a casa.

Con intere famiglie a casa nello stesso momento, che sta succedendo alle donne a casa? In India, benché molte donne si siano ormai unite alla forza lavoro fuori di casa, c’è ancora un numero sostanziale di donne che sta a casa e si identifica come “casalinga”. Nei tempi ordinari, esse possono avere qualche sollievo dal lavoro quando gli uomini di casa escono per andare a lavorare e i figli sono stati impacchettati, insieme con i loro pranzi a sacco, per andare a scuola.

Ma durante il lockdown sembra che esse lavorino non-stop, a tempo pieno. Mi ricordo di Jaya che era la donna più felice del mondo quando le scuole dei suoi figli riaprivano dopo le vacanze. Le cinque o sei ore di scuola significavano per lei l’occasione di acquisire una nuova competenza – nel suo caso, imparare a cucire vestiti – e un sonnellino nel pomeriggio, in una giornata altrimenti congestionata dal cucinare, pulire, lavare. Lei faceva anche la portinaia dell’intero complesso residenziale. E forse adesso non ha tempo per se stessa. Come madri, ci si aspetta da loro che facciano questo. Ma che cosa dovremmo dire delle donne che lavorano? In India ci sono anche quelle donne che lavorano nei loro uffici e, una volta tornate a casa, continuano a cucinare, pulire, prendersi cura dei figli, etc. Alcune di loro guardavano al loro ufficio come ad uno spazio in cui poter finalmente essere se stesse, felici di uscire dalle loro case e di passare del tempo con i colleghi al lavoro. Oggi anche queste donne, se non stanno “lavorando da casa” (dato che non tutti i lavori consentono questi benefici), sono confinate negli spazi domestici ventiquattr’ore su ventiquattro, sette giorni su sette. Bisognerà capire che impatto avrà tutto questo sulle dinamiche familiari, o se si siano stati solo effetti benefici sull’ambiente domestico, come si dice da più parti. E cioè che il lockdown sia servito a riunire la famiglia e a dare un nuovo senso al tempo in famiglia.

 

Muri e chiusura.

Il 22 Marzo speravo ancora che il virus potesse aiutare a rompere i muri e i legami e i confini in nuovi modi, ma oggi noi assistiamo al risorgere di nazionalismi isolati. Il presidente Trump, almeno stando a quanto riportato dai media, sarebbe intenzionato a mandare in Cina un team di scienziati per avere conferma del fatto che il virus sia stato veramente sviluppato in un laboratorio in Cina. E se ciò fosse confermato dal team americano, la Cina dovrebbe pagare per questo. E questo annuncio arriva mentre la gente in USA si confronta con un crescente numero di morti e con la più pesante crisi economica dal crac finanziario del 2008. Può essere utile, se invece di cadere nella retorica dei leader politici e nel conflitto geopolitico, noi potessimo chiedere che cosa è davvero in gioco qui, economicamente e politicamente, per gli accordi commerciali multilaterali e a lungo termine. Nessuno di noi comuni mortali negli Stati oggi, di fronte al lockdown, può vedere nell’immediato futuro della pandemia. Dovrebbe essere utile costruire solidarietà tra popoli e nazioni per far fronte comune contro la pandemia sul terreno, e anche per collaborare nella ricerca e in quelle attività che possano permetterci di capire che cosa sta veramente succedendo e, allo stesso tempo, di fornire supporto per la gente. Dovremmo essere consapevoli degli effetti di larga scala sull’ecosistema, a causa delle morti senza precedenti, dello scarico di rifiuti biologici pericolosi negli oceani e nei fiumi, dell’impatto sulle regioni più densamente popolate, quelle che hanno più probabilità di essere colpite negativamente rispetto ad altre. È anche triste che il presente discorso sia puramente antropocentrico.

La gente sta anche reagendo alle voci senza fondamento circa il ruolo di animali e uccelli nella diffusione dell’epidemia. In India alcune persone, per esempio, hanno abbandonato i loro cani a morire per strada. L’altro giorno un agricoltore ha informato, con agitazione, un responsabile della salute, durante un programma radiofonico, che il suo villaggio ha una lunga tradizione di visite di pipistrelli marroni in alcuni mesi dell’anno, provenienti dalla Cina (secondo lui). Ed era arrabbiato, temendo che questi “pipistrelli cinesi” avrebbero diffuso l’epidemia proprio come la Cina aveva fatto con altre nazioni del mondo. L’esperto medico non aveva dissipato le sue paure, ma anzi, al contrario, gli aveva chiesto di contattare la locale amministrazione.

Ci si chiede quanto andrà lontano questo discorso antropocentrico nel distruggere specie, senza un’adeguata comprensione della situazione. E che effetto avrà nel lungo periodo sulle specie non umane. Possiamo permetterci un disastro ecologico quando stiamo già fronteggiando una tremenda pandemia, causata di certo anche da alcuni disastrosi comportamenti di parte della popolazione umana, e mentre pochissimi sforzi vengono messi in campo per fronteggiare le ampie preoccupazioni sul cambiamento climatico e su quelle condotte spregiudicatamente consumistiche che hanno il solo scopo di produrre denaro?

L’espansione digitale avrà anche un impatto avverso sull’ecologia, anche se oggi i nostri governi sono tutti intenti a espandere le reti digitali, senza preoccuparsi affatto sugli effetti a lungo termine di queste azioni. Bisogna veramente chiedersi se “lavorare da casa” con un computer, alle dipendenze di qualcuno, sarà il solo futuro accettabile e universalmente applicabile. La tecnologia sarà il solo modo di risolvere questo problema, come sta succedendo adesso? Sarà una soluzione adeguata? E la classe media e le classi benestanti di tutto il mondo, incluse le ben finanziate élite universitarie, ben connesse tramite il web, saranno le sole a decidere l’agenda per i meno fortunati? In questo discorso digitale di alto livello, il venditore di curry, il fruttivendolo, il fioraio, il calzolaio, il fabbro, l’artista non esperto di tecnologia e di installazioni all’avanguardia, l’artigiano, il proprietario di uno street food, non hanno diritto di parola, e presto potrebbe persino non essere loro permesso di stare in piedi con dignità e guadagnarsi da vivere nelle nostre città. A meno che non siano connessi al mito di essere digitalmente connessi. È auspicabile tutto ciò? Quante persone in India, anche oggi, hanno connessioni internet attive nelle loro case?

Il Coronavirus, semmai, ha reintegrato o aiutato a facilitare gli stili di vita delle classi medie urbane e delle élite, che ordinano online ogni cosa, dal cibo ai vestiti, agli accessori, ai libri, ai gadget. Quante persone, in India, hanno connessioni Whatsapp sui loro telefonini? Ci sono ancora villaggi in questa nazione senza una rete mobile e senza neanche linee telefoniche o TV satellitare. Le classi medie e le élite (che sono oggi le icone che dicono alla gente di stare a casa, etc.) non hanno dovuto fare un cambiamento drastico (a parte il fatto di non poter uscire), poiché le loro case sono ben equipaggiate, in ogni caso.

Cosa dire invece delle persone senza risorse, letteralmente e virtualmente isolate e totalmente tagliate fuori? Per quanto tempo ancora, se la pandemia continua a colpire, il metodo del lockdown funzionerà? Ed è veramente il solo metodo o possono esserci modi migliori di affrontare la situazione, che tengano in considerazione anche quelli che non sono connessi neanche in tempi normali?

 

Intoccabilità, perdita di calore.

Nel complesso, in India, la nuova espressione “distanziamento sociale” sembra essere compresa bene dalla popolazione, nel più ampio contesto di interiorizzazione del sistema delle caste e della pratica – anche in tempi normali e fino ad oggi – dell’intoccabilità e dell’espressione fisica del distanziamento sociale fra caste in molti villaggi. Ma si spera che almeno in quelle culture (anche all’interno dell’India, specialmente in alcune regioni) dove l’espressione fisica del calore e dell’amicizia e della generale bonomia, o l’incoraggiamento, nei momenti di dolore e di perdita era normale e quotidiana, la pandemia di Coronavirus non cancelli totalmente questi gesti.

[1] A quanto pare “il numero di persone che vivono con la demenza in India è stimato a circa 5.29 milioni, secondo le proiezioni per il 2020 dell’Alzheimer’s and Related Disorders Society of India (ARDSI, 2010) [Jayeeta Rajagopalan, Saadiya Hurzuk, Narendra Ramaswamy, ‘Report: The impact of Covid – 19 pandemic on people with dementia in India’, April, 2020].

(traduzione di Rosario G. Scalia)

Lettere dall’assenza #5

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USA. New York City. 1980. Subway.

Bruce Davidson USA. New York City. 1980. Subway.

 

di Mariasole Ariot

Cara L. 

Seduta sulle ginocchia dell’alba ho il volto rivolto ad est, ho sempre capito i segni cardinali, li sento nell’esofago, ti scrivo mentre la casa è un temporale. Mi sono rinchiusa qui in una posizione d’attesa, come l’animale morto di fronte alla preda, irrigidito come i piccoli topi per fingersi invisibile: dire non prendermi, dire non ci sono. 

Mentre tu, L. ci sei da secoli e scalpiti nel mondo. Ti ho vista piegare le strade per aprirti un varco, bere boccette per la crescita e la disperazione, mangiare funghi e dispensare voglie, non posso dire che mi manchi. Mi manca la tua voce, l’animale che portavi in gola e che cantava al mattino, non mi hai mai portata sulle rotaie, ti sei distesa senza aspettarmi.  

Dal tuo letto al mio passano millenni, dove io accudisco l’immobilità tu hai il volto ceruleo e ti accontenti dei fiori, di quei piccoli oggetti appoggiati sul cemento, una candela rossa che smette di bruciare quando è notte – e chi l’ha accesa spera in un fuoco, e chi ha il fuoco spera in un incendio.
Là, dove tutti stanno, nei condomini apparecchiati dei morti, milioni di piccoli camei con la foto più bella, i parenti decidono il tuo ricordo, come ricordare, l’espressione di un giorno, quando il giorno non è che un giorno, e io sono troppo distante: ci separano continenti. Mi hanno detto delle tue ossicine mentre scrivevo il commiato alla mia lingua, ho dichiarato che non ci sarebbe stato più linguaggio. Anche in questo momento la lingua non mi sostiene, cede ad ogni passo, mi hanno chiesto: riconosci queste ossa? 

Non le ho mai viste, ho solo sentito scricchiolarti un plesso solare la notte in cui hai detto che la tua testa era una mandria, e che le mandrie sono piante, e che le piante vanno innaffiate. Mi hai detto – e scricchiolavi – che avevi smesso di innaffiarti la testa, le piante hanno un inizio e una fine, le tue foglie avevano finito di respirare. 

I petali sono caduti d’improvviso, come da una grondaia nel corpo. 

Ho chiesto di conservare solo questo. Un grammo della tua pianta è racchiuso in un vaso, un colore ruggine, i vagiti escono dal vaso, li sento ululare nella notte.  

Seduta sulle ginocchia del mattino il cielo mi penetra la gola, ho ingoiato l’umidità della nebbia, sono piena di umori nella bocca, lo sterno è un passaggio per arrivare al fondo dei fondi e non c’è fondo. Pensata dai pensieri, dicevi: hai deciso di eliminarne uno a uno.  

Qui gli oggetti hanno la forma di autunno, la necessità di percorrere le stagioni al rovescio, rovesciare i nomi, anagrammare i contenuti delle nostre percezioni. Non chiedermi di pregarti, non me lo hai mai chiesto.
E ancora, batte ancora questo tuonare delle cose nella stanza, dove io irrigidisco gli arti e tu non hai più arti, dove io ho osservato il passaggio veloce dalla banchina tu hai poggiato l’inappartenenza sui ferri battuti.
Forse abbiamo aspettato entrambe. Se morire significa aspettare, se aspettare significa morire.  

Mi hanno prelevato imbavagliata da ogni intento e portata nel labirinto dei corridoi, le stanze verdi, i soffitti sporchi, le donne senza madre gettate sulla cesta girevole dei disperati, l’uomo con la faccia di bottiglia, la vecchiaia con gli occhi dipinti, e mentre trascinavano le braccia, le gambe si stingevano sull’asfalto. Ho lasciato una bava di lumaca per chilometri, non hanno pulito niente: ci sono ancora le mie tracce.  

I prelievi del sangue, i prelievi di cuore dal bulbo degli occhi – e diceva la madre: prego, signorina, suturatele la bocca.  

Eri tu sulla banchina, ero io sulle rotaie. Abbiamo aspettato entrambe, i miei petali secchi sono i tuoi petali secchi, il mio vaso è il tuo vaso, dove io non sono io e sono la tua animella capovolta. Non portarmi la cera, non consumarmi. Svolta tre volte a destra, mi hanno incastrato tra la cassa del padre e quella di uno sconosciuto. Dove io non sono io e tu se rimasta dove non sono. Il silenzio merita attenzione, cammina piano, non svegliarci, mi troverai a sud, hanno scelto un volto che non avrei mai scelto – i ricordi non sono mai i nostri ricordi, siamo i ricordi degli altri, a volte siamo solo una dimenticanza.  

Dimentica le parole, dimentica le frasi, dimentica le piante della testa, dimentica i pianti, dimentica le ore passate a contemplare, dimentica che non avevo scelta, dimentica che ho confuso, dimentica la storia che ci siamo rammendate, dimentica la bava alla bocca, dimentica la scia, dimentica che avevo paura, dimentica che tu camminavi quando io non avevo gambe, dimentica gli arti, dimentica che i giorni erano contati, dimentica che li ho contati. 

Tua
S.

Amicizia, ricerca, trauma: leggere Elena Ferrante nel contesto globale

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L’opera dell’autrice che ha messo al centro l’amicizia femminile è stata anche veicolo di amicizia tra le studiose.
Tiziana de Rogatis, Stiliana Milkova e Kathrin Wehling-Giorgi, le curatrici del volume speciale Elena Ferrante in A Global Context della rivista MLN dedicano l’introduzione al significato di questi legami.
Tiziana de Rogatis, nel saggio in apertura del volume, mette poi in relazione la sua lettura della “global novel” di Ferrante con l’irrompere del trauma globale della pandemia. Grazie a “John Hopkins University Press” ne pubblichiamo un estratto. (hj)

Frantellanimello

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di Francesca Rossi Brunori

Illustrazione di Marco Filicio Marinangeli

 

FRANTELLANIMELLO

un racconto di un altro alfabetamondo

 

C’era un ramoscello che si perdeva nel lungo correre del ruscello

e insieme

nel loro andierivieni, quello del ramo insieme a quello del ruscello

raccoglievano tutto quello che c’era – intorno –

così da trasformare, quel ramoscello, da piccolo e magro che era

a una cosa senza nome

un animale forse, che voleva non solo nuotare ma

volare anche, volare

e allora questa creatura

prese a raccolta tutte le foglie

e loro, tutte insieme a gran voce:

“vogliamo fare anche noi questa cosa dell’andare in alto e sotto ci possiamo aggrappare?”

mentre camminavo ho sentito un eco dal ruscello

e otto otto otto sentivo

mi sono domandato staranno contando?

Fino a quando dal nulla spruzza all’improvviso qualcosa di strano

che canta la canzone che dice sotto sotto!

allora ho capito che non stavano contando

ma cantando, era una cosa così:

“sotto sotto sotto on the surface oh the river, it was a moon river

ci sarà quel momento in cui tuffi o non tuffi dall’alto del nostro guardare

facciamo un giro e una volta ed è girovagare

che spreme e spruzza di olio salato

vieni con noi e sarai gratificato!”

Potevo rispondere no e invece ho detto si.

Frantanto lontano in una fresca fresca e vivace vivace posizione lontano dal mondo

si stava formando un sentiero dal nulla

sassolini su sassolini si mettevano uno sopra l’altro per tracciarsi da soli

e vedere dove sarebbero arrivati e avevano deciso di cominciare dall’alto

anche se al principio sembrava essere un po’ difficile perché ogni volta che si mettevano agglomerati arrivava un fruscio di vento che li faceva ricominciare da capo

ma così non finiremo mai e poi mai, (dicevano si sassolini) significa che non ci vuoi guidare per la giusta strada

(dicevano al vento)

niente di più sbagliato, (il vento rispose) si vede che ve lo voglio fare trovare prima

il vostro sentiero selciato

allora tra un prima e un dopo, i sassolini si stancarono così tanto da addormentarsi e al risveglio si ritrovarono messi in un modo così strano che solo la risata del vento avrebbe potuto averci messo una mano.

Ed io

mi sono addormentato e risvegliato un’altra volta

ed ero in un luogo sospeso

dietro ad una marcia di pecore e mucche

oh oh oh, cadenzavano e poi a me,

fiato c’è bisogno di fiato

per non mettere in fila, tutto quello che vedi.

Mi sono sognato una grande nuvola grigia così grande che mi faceva paura

allora invece che aprire gli occhi

mi sono immaginato che mi venivano ad aiutare, chi?

erano piccioni e colombe

bianche e di tutte le sfumature

si sono messe tutte assieme e hanno coperto la nuvola – calore si calore

e io ho potuto continuare il mio sogno anche con gli occhi aperti

perché mi sono abbagliato e poi voltato da una parte diversa

dall’altra! E ho trovato,

Scintille scintille gioia faville se così fosse un po’ per sempre, io

di fronte al temporale salirei su un lampo e mi schianterei giù

gridando

tutto un io che precipita giù ma non mi sfracello

trasportato dalla voce di mio nonno che diceva

siete tutti così abituati al pensiero tragico

a rovelli e pomelli

a girare e cascare

sbucciare cadere ritornare a parlare

che basterebbe per lo più girare il naso in su e se proprio proprio

vuoi buttarlo a terra

mettiti a raccogliere le uova che poi ci facciamo quello sbattuto

lo zucchero ti solleva – sospesa sei sospesa!

se potessi contare quanti pensieri faccio in ogni istante sarebbero così tanti

che non sarei capace di ricordarmi i numeri

e in tutto questo tempo avrei potuto fare altro magari rincorrere le galline

salutare un cavallo, abbracciare un maialino, accarezzare un pettirosso

lanciare un sasso e contare quanto tempo ci mette a scendere giù.

Con dei numeri nuovi però. Perchè uno è troppo breve per essere un inizio

lo chiamerei franzanzanstillorossopomezio

e poi il due dopo una lunga pausa

maesteriodispersi, tanto va la gatta al largo

che si perde nel suo nuotare e si scorda che era una gatto

per questo continua a nuotare

veglia e aspetta che tra poco si va a mangiare

veglia e aspetta che andiamo a farci un bagno

veglia e aspetta che ci mettiamo a contare le stelle

veglia e aspetta che sento l’onda che arriva

veglia e aspetta che fischio il suono del lupo

un giorno mi metterò a contare il tempo al contrario

dalla fine al principio

per ricordarmi quanti battiti ha un minuto e poi me ne vorrei dimenticare

e poi ancora distrecciarlo in mille pezzetti

lascio che la signora che predice il futuro prende la scopa e se li porta via

così li prende e li lancia in aria, li disperde nel vento

violento credevo – senti come fischia – violento credevo

ma in mezzo al dormire dove tutto sembra fermo e nessuno si muove

nel vento butto i segni delle parole e loro si mischiano insieme ai pezzi del tempo

per fare, un altro modo mondo di dire e tempo tempo è temporale!

Se fosse un leone, una rosa, non la raccoglierei.

Farfalla lontana da qui

far era un la, di una canzone

far e le tue ali, io sono di grazie attraversata

toc toc … chi sei tu?

E chi lo sa e che ne so

infranto spaccato sta a terra e la terra lo ha preso lo travolge lo inghiotte e poi lo riporta su

io apro la bocca e con un respiro lo lascio fare

io non so cosa dico perché fa lui

il nuovo parlare dei parlanti è così fresco che mi fa venire piena di arruffamenti

serpenti io dico

il nuovo parlare dei parlanti si immerge – ad immersione si

rilassa fruscica sbilbilla slilla la la e il

la era una onda che si era alzata così tanto che non è più scesa ma è diventata

il cielo che guardo sopra di me

è forse un altro respiro. Così respiro. Così e ancora così, è.

Era un fantascientifico mangiatore di oggetti che venivano buttati alla discarica

lui ci passava e senza farsi vedere dal controllore dei controllori

sgusciava dentro e di nascosto

tuffava si!, lui si tuffava nei grandi ripieni contenitori di cose

che sembravano rotte e senza vita

così sembrava

fino a quando etabeta se le mangiava e poi le sputava fuori

con grande audacia e vigore

Ci si chiede perché il controllore dei controllori della discarica

debba fare davvero il controllore dei controllori di cose morte

che invece se lasciasse Etabeta entrare diventerebbero ancora

più vive di come erano in principio, e cioè, prima del

contenitore?

Allegro con Brio

1
di
Martino Scacciati
A distanza di anni, ormai, sento ancora, addosso, il disagio che provai quando mi invitarono a prendere il thé da loro – ovviamente alle 5. Fin da piccolo, avevo visto quella casa solo da fuori. La consideravo una sorta di enorme grammofono. Qualunque fosse l’ora del giorno o la stagione, le sue finestre spalancate rovesciavano di sotto scrosci di musica sinfonica o lirica. E quella forma di colta prevaricazione mi aveva sempre colpito. Non ero mai riuscito, tuttavia, a vedere il viso del melomane che rompeva con tanta perseveranza i coglioni all’intero paese.
Toccò ai miei, una sera d’estate, potergli finalmente dare un volto. Se l’erano trovato seduto accanto a tavola, durante una cena di amici comuni. Il giorno seguente mi raccontarono tutto. Si chiamava Domenico ed era un avvocato molto affermato. Me lo descrissero piccolo, quasi deforme, in età da pensione e verboso come riescono a essere verbosi solo certi notabili meridionali: persone indubbiamente raffinate e brillanti ma con un invincibile bisogno di protagonismo – e per questo tendenti a sequestrare la conversazione. Era accompagnato dalla moglie, una donna spigliata, anche se pure lei relegata al ruolo di spettatrice. Eppure, almeno a giudicare dallo sguardo estatico con cui assisteva all’assolo del marito, quel ruolo sembrava non dispiacerle. Anzi.
L’impressione che i miei si portarono a casa quella sera fu di due persone simpatiche, tutto sommato. Durante la cena c’era stata un’unica ombra. Abbandonato il fare sornione per una sorta di sordo furore, Domenico si era lanciato in una lunga tirata, violenta e circolare, contro quei maledetti che di notte battevano le viuzze del paese urlando “Brioooo! Brioooo!”. Aggiungendo che, se fosse stato per lui, Brio sarebbe stato già stato riempito di piombo. Ecco, davanti a quella specie di catilinaria anti-felina nessuno dei presenti, un po’ disorientati, aveva reagito. Ma Brio era, a dire il vero, il nostro gatto.
Non ho mai capito bene perché, attraverso i miei, mi fecero arrivare l’invito per quel thé. L’appuntamento cadde in un tiepido pomeriggio primaverile. Qualche minuto prima delle 5, mi avviai verso la casa-grammofono. Dalla strada si vedeva solo la finestra da cui fuoriusciva la musica. Il resto dell’edificio era nascosto dalla vegetazione. Arrivato davanti al cancelletto marrone di ferro, premetti, un po’ titubante, il pulsante del campanello. Dalla bocchetta del citofono un vocione primordiale non chiese chi fossi né disse semplicemente “entra” ma, con termini scelti, si dilungò sul piacere che gli procurava mia visita. Alla fine del cerimonioso prologo, sentii lo scatto metallico della serratura elettrica. Salii qualche scalino, voltai a sinistra lungo il vialetto, poi a destra ma per quanto camminassi della casa non si vedeva nemmeno l’ombra. Anche se di rosmarino, di euforbia, di mirto invece che di pietra, le due pareti in cui era incassato il vialetto mi fecero pensare all’astuta strategia difensiva delle città portuali arabe. Oltre a tradire la diffidenza degli abitanti, quel giro labirintico e pretestuoso attraverso scalette, pendii artificiali, vialetti costituiva il perfetto presupposto per un’aggressione dall’alto. Dopo l’ennesima svolta, arrivai finalmente al curatissimo prato in fondo al quale si stagliava la facciata della casa, un elegante terra-tetto le cui rifiniture dal gusto inglese erano incastonate in una struttura medievale.
Lui mi aspettava accanto alla porta. Era un omino basso, con la testa e le mani sproporzionate, vestito in modo molto elegante con un girocollo blu da proprietario di yacht e pantaloni bianchi. La prima cosa che notai fu il contrasto tra l’espressione solenne, simile a quella di certi presidenti durante le visite ufficiali, e i piedi nudi. Mi strinse la mano con una forza gratuita e mi disse di precederlo.
Una volta all’interno, mi invitò a sedermi su una delle poltroncine di vimini ricoperte con una candida tela di cotone. Alle mie spalle, spalancata sul golfo, c’era una grande finestra. Domenico prese possesso della sua poltrona, piazzata al centro della stanza. Intanto, dalla parete opposta alla finestra, arrivavano i rimasugli di una imperiosa ramanzina della moglie a una domestica occulta. Qualche secondo e la moglie sbucò da dietro il muro, impegnata nel visibile tentativo di ricomporre sulla faccia il sorriso da ospiti. In mano reggeva un vassoio argentato su cui fumavano delle raffinatissime tazze di porcellana inglesi, circondate da una porzione – a dire il vero un po’ micragnosa – di biscotti al burro. Mi salutò con calore e ci porse il thé.
Mentre riflettevo sul curioso contrasto tra lo sfarzo del servito e la povertà di dolciumi di contorno, anche lei si sistemò a sedere. Intanto, Domenico aveva attaccato un monologo identico a quello descritto dai miei genitori, iniziando dal tema che sapevo essere il suo prediletto: la politica. Si lanciò in un discorso che, per tempi, toni e accuratezza stilistica, sembrava rivolto non a due persone in un salotto ma a una moltitudine raccolta in una piazza o in un teatro. Lei, intanto, restava in silenzio, rigida. Il naso grifagno, gli occhi piccoli e inespressivi, i capelli corti sulla nuca ma rigonfi per il ciuffo bombato, la facevano sembrare una grossa civetta. Nella impertinente fissità di quello sguardo temevo di intuire come un’intenzione predatoria, quasi volesse ghermirmi con gli occhi. E non riuscivo a respingere fino in fondo l’impressione, fastidiosa, che la preda di quel pomeriggio, il topolino destinato a esser divorato, fossi io. Dubito che, preso con era a tornire le parole, se ne sia reso conto ma dentro di me sentivo crescere il disagio sia per la inevitabile noia suscitata dal monologo che per la nuvola severa sospesa sopra la mia testa e dalla quale, me lo sentivo, sarebbe presto saettato il giudizio della moglie. Non trovai di meglio che rifugiami nel sapore di quell’ottimo thé. Ogni tanto, però, muovevo la testa a caso come per gettare in quella bocca da cerbero, sempre aperta e famelica d’assenso, un pugnello di approvazione.
Forse avrei dovuto provare a mostrarmi entusiasta ma non ci riuscii. Seppur nascosta tra le volute barocche e gli arzigogoli del suo sermone, nei discorsi di Domenico spuntava una difesa sistematica di tutti i personaggi più stronzi dell’attualità e dell’intera storia umana.
Era chiaramente affascinato da figure che, non importava se con sperpero di vite umane, erano riusciti a raddrizzare una situazione di confusione e a riportare l’ordine. Nei momenti di particolare eccitazione oratoria, ricorreva sempre allo stesso gesto: si portava la mano vicino alla bocca e alzava il grosso indice, non si sa se per attirare l’attenzione, minacciare o imporre il suo potere virile. Come io assaporavo il thé, Domenico sorbiva, rapito, l’aroma distillato nelle sue stesse parole. Per meglio sentirne il sapore, faceva ruggire le erre, schiocchiare le ti, sciabordare le esse, allappare le pi e le emme, e insomma, indugiava con la lingua e tratteneva quanto più possibile i suoni di cui era produttore e gourmet.
La concione sembrava, tra l’altro, un’eco fisica del mobilio. Tutta quella eterogenea profusione di parole ricercate, citazioni, frasi fatte, espressioni latine faceva da pendant alla congerie di ninnoli, argenti rilucenti, piatti, piattini, statuine, porcellane, medaglie, orologi da tavolo, la cui unica caratteristica comune era un gusto facile e un po’ ostentato. Il vaso giallo cinese che torreggiava sul prezioso tavolo di rovere settecentesco nell’angolo opposto al mio, innalzandosi su un mare di aggeggi dalle fogge e materiali più disparati, equivaleva, per esempio, alla massima dantesca (“Vuolsi così colà dove si puote / ciò che si vuole, e più non dimandare”) che Domenico infilava qua e là appena possibile, spesso a sproposito. Per il mio disagio il disagio provocato dallo sguardo fisso della civetta, staccai gli occhi dalla tazza del thé per cercare dove fosse l’impianto che da chissà quanto tempo funestava la pace del paese. Mentre Domenico cercava di convincermi dei progressi compiuti dal Cile grazie a Pinochet, riuscii a voltarmi e perlustrare entrambi i lati della lunga parete alle mie spalle: lo stereo, però, non c’era. Con una certa delusione capii, così, che a meno che mi fossi intrufolato nelle altre stanze, quel mostro che vomitava fiumi di note sarebbe rimasto un mistero.
Quando, con lo sguardo, tornai sul mio ospite, fui colpito da una sorta di sinistra epifania. Ebbi, osservandolo, una rivelazione che accrebbe il mio imbarazzo: in quel viso sommario, nella bocca larga, nel naso grosso e schiacciato, negli occhi tiroidei mi parve di riconoscere la testa di uno di quegli spaventosi pesci abissali, dalle forme di un’inesplicabile bruttezza che, riemerso all’improvviso dalle profondità preistoriche del tempo, s’imbatte in un sub sfortunato e lo uccide di terrore. Fui salvato dallo stato di ansia e confusione in cui mi aveva precipitato quella visione dall’unico intervento della civetta. Approfittò che il marito avesse appena terminato la sua nuova, turpe apologia (il beneficiario questa volta era Nerone, considerato un modello di razionalizzazione urbanistica), per disserrare le labbra – fini e premute l’una contro l’altra in un’espressione di permanente raccapriccio – e rompere il suo occhiuto silenzio. Mi chiese, insinuante: “E dimmi un po’, che tipo di persone frequenti, a Roma?”. Dai nomi di commendatori, contesse e principi snocciolati e buttati lì di seguito per sondarmi, intuii l’aspettativa che facessi parte degli unici giri d’amicizie per lei frequentabili. Forse le ero simpatico e quello era il suo modo di dimostrarmelo. O forse voleva rendere più prezioso, illudendosi sull’eccezionalità delle mie conoscenze, il suo pomeriggio.
Non appena riportai lo sguardo su Domenico, che aveva riguadagnato la ribalta con una vibrante protesta sul prezzo della benzina, notai un barbaglio luciferino nei suoi occhi. All’improvviso, sciolse la postura ostentatamente composta, si alzò e si avvicinò al grande mobile in stile marinaro-razionalista alla mia destra. Ne aprì un cassetto, ci infilò la mano e la tirò fuori impugnando una pistola. Poi, abbassato il tono della voce, mi spiegò: “Questa la uso per accogliere nelle dovute maniere i gatti che osano venire in giardino. Mi pisciano sul prato e io non lo posso tollerare…”. E rise, gongolante, di un riso in cui sembravano mescolarsi orgoglio e sollievo. Lo guardai sgomento e mi domandai quali gatti, mammoni e non, soffiassero in quella testa perché avesse bisogno di zittirli con una pistola. Almeno a giudicare dal modo in cui aveva riso, ebbi la certezza che sarebbe stato benissimo capace di usarla – se non l’aveva già fatto. Dopo quella esibizione, non riuscii a trattenermi oltre. Improvvisai una scusa, ringraziai e mi congedai.
Il mistero della casa-grammofono è rimasto inviolato. Dopo quel pomeriggio, fatta eccezione per la musica dalla sua finestra, non ho più sentito Domenico. Quell’invito a prendere il thé è rimasto isolato – e forse è meglio così. Alcuni mesi più tardi, però, mi chiamò sua moglie. Dopo una lunga e contorta premessa sull’importanza della coppia, annunciò di volermi presentare la sua estetista. La descrisse come una ragazza bionda, carina e sola da tempo. Io non sapevo bene come svincolarmi e balbettai qualche scusa ma non mi lasciò scampo. “Devi conoscerla!”, mi ordinò con il tono di chi non lascia scelta. Poi ci mise in contatto e, prima dell’incontro, mi impartì anche una lezione sulle norme fondamentali da seguire per un felice esito della relazione: “Devi tenere sempre presente la regola delle tre Ci”, mi disse. “Le tre ci…?”, ripetei, incerto. “Sì, le tre ci: cuore, cervello e cazzo”, confermò scolpendo le parole. Nonostante il suo insegnamento, la relazione si consumò nel tempo di un aperitivo: la ragazza era insipida e poco interessata non solo alla regola delle tre ci ma, forse, persino agli uomini. Dopo poco fu chiaro che lei non era minimamente attratta da me né io da lei. Non ce lo dicemmo ma c’eravamo presentati all’appuntamento solo per far contenta la civetta. Dopo quell’aperitivo, la ragazza sparì. Né io feci più nulla per ricercarla. Ma che m’importa, mi dissi.
Mi importò e molto, invece, del fatto che, poche settimane dopo quel thé, anche Brio, il nostro gatto, sparì. Le ricerche, notturne e non, si moltiplicarono. Tutta la famiglia si sgolò per chiamarlo – ed ebbi anche l’impressione che dopo ogni nostra ‘battuta’ in giro per il paese, la musica dalla casa uscisse anche più alta e rabbiosa – ma ogni tentativo fu inutile. Tappezzammo le vie del borgo con la foto del gatto, promettemmo ricompense, fermammo chiunque incontrassimo per strada ma non servì a nulla. Con il passare dei giorni la nostra speranza si affievolì e non potemmo che arrenderci a una desolata certezza: Brio non c’era più. Nel frattempo anche Domenico era sparito. In diverse occasioni mi sembro di intravedere la sua macchina ma ogni volta, appena comparivo all’orizzonte, accelerava, come volesse evitarmi. I miei erano certi di averlo visto a una pompa di benzina nei pressi del paese mentre litigava furiosamente e quasi veniva alle mani con il gestore. E memore della sue rabbiose lamentele, ipotizzai che il motivo della lite fosse proprio il prezzo del carburante. Ma a parte queste fuggevoli tracce, di Domenico non sapemmo più nulla.
Quando mi ero ormai convinto che sua esistenza si fosse ridotta al flusso musicale della casa-grammofono, una mattina d’estate, sbucò da dietro la porta marmorea del paese, così all’improvviso che quasi ci sbattei contro. Né io né lui, date le condizioni, potevamo sottrarci all’obbligo di una conversazione. Gli chiesi, dunque, come stesse e detti fondo a tutte le logore formule che si usano in questo genere di occasioni. Poi mi ricordai di Brio. Chissà, magari, lui lo conosceva e poteva averlo visto. Gli chiesi se ne sapesse nulla. La sua. però, fu una strana reazione. Per un momento guardò altrove come per sfuggire al mio sguardo, poi, fatta una lunga pausa, sussurrò con un’espressione che non riuscii a decifrare: “Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole”. Poi mi guardò con aria di sfida e aggiunse: “E più non dimandare”.

Et tournoie…

0

 

di Sharon Vanoli

 

«Sotto quelle cupole vaghi, come apprendista di luce ti affanni»
Anna Maria Ortese – Il porto di Toledo

 

«And with my opened mouth I join the singing light»
Son Lux – Flickers

 

Torna a casa dopo cena, ogni sera, quando ormai è buio e non ha più niente da fare, fuori. Entra dalla finestra, che lascio socchiusa – non per lei: per la voce dei bambini, giù in cortile, che giocano fino a tardi; per l’odore di pomodoro e di aglio, che raggiunge il mio balcone quando le donne dei primi piani iniziano a cucinare, e io sto andando a letto. Afferro un libro; mentre sfoglio le pagine, gli occhi mi si chiudono. Sento un fruscio, accanto al mio corpo, allora li apro: è tornata.
La guardo appena: mi osserva. In silenzio e senza giudizio: con amore. Ma non è me che ama. Nemmeno mi odia. Forse ignora il nostro passato, o l’ha dimenticato: non ricorda che l’ho cacciata io. Oppure, forse, è incapace di odiare – di odiare qualunque cosa, eccetto il buio. La osservo, ora, mentre si rannicchia sul fianco sinistro – come facevo anch’io, una volta – e tutta la luce diafana della sua figura tremola, insieme al respiro, di paura, a un ritmo così veloce che quasi pare in preda a convulsioni, questa luce. Io lo so: non desidera altro che addormentarsi in fretta, e che subito sia mattino. Lo so, io ricordo. La notte è morte; dormire, una violenza. 

Il dissenso tra noi è sorto, in origine, per una questione sensibile. Prima che mi trasferissi a T., due anni fa, ho sofferto di un duraturo calo di sensazioni. Mi dispiaceva alzarmi dal letto, leggere, mangiare. Il dispiacere stesso mi disturbava, perché debole, privo di vero impatto sui miei pensieri – mi raggiungeva da lontano, come tutto. In due parole: non sentivo. A una condizione simile non ero abituata. Sono sempre stata fortemente influenzabile – dalla luce, dai colori, dai suoni –, e questo era per me vivere, il mio modo di frequentare il mondo.
Se fosse dipeso da me sola, avrei aspettato il ritorno delle sensazioni, senza fretta. La noia dell’attesa, come tutto, non faceva in tempo a indolenzirmi che già l’avevo scordata. Eppure c’era una zona, dentro di me, che languiva profondamente, e si intestardiva, contro la mia volontà, a considerare il calo di sensazioni e le sue conseguenze – quel profondo languore – come un fatto della massima serietà. C’era una voce, impaziente e febbrile, che qualche volta mi diceva: “Senti come pulsa, questo sentimento di urgenza”. Oppure: “Non posso sopravvivere a un altro giorno così, non-possiamo-più-aspettare”. 

Quando vidi la città di T. per la prima volta, una sera di marzo, il cielo era scuro, come nel luogo da cui venivo; era coperto, e quindi basso. Non dava spazio ai pensieri, e questo era bene, a detta del torpore: non voleva pensare. La zona di languore, invece, dentro di me, ebbe come un sussulto, per un attimo, mentre trascinavo le valigie lungo un ciottolato a dislivelli, in salita.
Il mio nuovo appartamento era nei toni del grigio: pareti grigio ardesia, piastrelle grigio antracite; persino la trapunta del grande letto al centro della stanza aveva uno sfondo grigio, sul quale spuntava un ricco motivo che a un primo sguardo, nell’ombra, mi era parso astratto. Poi accesi la luce, e per la poca confidenza con l’interruttore subito la spensi di nuovo, cosicché per un solo istante vidi apparire, sul tessuto del letto, i fiori e le foglie che lo rivestivano. Per un solo istante vidi, sotto la luce fredda e bianca del lampadario, quei fiori d’arancio salire, dallo sfondo grigio, come un assalto di colore – colore forse arrabbiato, perché sorpreso, nel buio, dal mio ingresso nella stanza, con quella luce gelida che veniva dal soffitto, e che aveva abbagliato anche me. Pensai a questo, immobile sulla soglia, ma fu un attimo prima che la scena tornasse nera e nascosta. A quel punto, ripresi a perlustrare la nuova casa.
Il giorno seguente mi svegliai, a T., con un cielo già chiaro alle sei del mattino. Avevo fretta di familiarizzare con le strade della città, che sapevo contorte, elusive; così mi preparai svelta e uscii. Non c’era ancora movimento, per le vie, salvo qualche lavoratore silenzioso. Eppure percepii – nei ciottoli, sulle facciate – un calore, una frenesia crescente, come se il mondo delle cose fosse invece sveglio, e quindi vivo. Mentre camminavo lungo i marciapiedi stretti e storti, in continua discesa, guardavo le pareti scrostate dei palazzi, già illuminate dal sole, e, non so perché, immaginai di sentirle chiacchierare, pigre ma allegre, soltanto tra loro, e darsi il buongiorno, noncuranti di noi passanti, giù in fondo, risucchiati dai vicoli. Portai con me questa fantasia per diversi chilometri; intanto cercavo, nella memoria, una frase di poche parole, che avevo letto in un romanzo molto tempo prima – in un periodo della mia vita anteriore al calo di sensazioni – e che ricordavo piena di suggestioni. “Disperdere, dispiegare…”, ripetevo tra me, senza mai riuscire a concludere. Intanto, sovrappensiero, avevo raggiunto il centro storico.
Lo attraversai più volte, incurante della direzione, e non badando al fatto che mi perdevo, a ogni passo, e non avevo idea di dove fossi. Una sola cosa seguivo che continuamente si spostava, saliva e scendeva tra i ciottoli, le finestre, le insegne sporgenti dei negozi, e le bancarelle di libri usati che i venditori cominciavano proprio allora a trasportare all’esterno dei locali – la luce. La seguivo, e non capivo – la mia gioia di seguirla, né lo spazio intorno a me: un vicolo era cupo, angusto, come avvolto in se stesso, e un attimo dopo, ecco che la luce vi si riversava dentro, come una piena, trasfigurandolo tutto; oppure lo tagliava in due, e io dal marciapiede in ombra vedevo le facciate, sull’altro lato della strada, improvvisamente dorarsi. Mi piacque, poi, durante tutta quella mattina, capitare per caso in una delle numerose piazzette che decorano il centro di T. Lì, la luce poteva creare potenti e maestosi abbagli gialli, che io osservavo, girando su me stessa, con gli occhi lucidi per il dolore del sole.
Tornando verso il mio appartamento, in capo a qualche ora, quasi correvo, lungo le scalinate che non finivano mai, nonostante la pesantezza alle gambe e il sudore sul viso. L’euforia mi bruciava nel sangue. O forse non era il sangue. Era un’altra zona, dentro di me, che gioiva profondamente. E rumorosamente, perché a un certo punto la sentii dire, molto scossa: “L’ho trovata.”
E io: “Che cosa?”
“La frase che cercavi.”
“Sentiamo.”
“Dispiegare in luce i muri.”
“Non era proprio così”, risposi, dopo averci un po’ riflettuto.
“Non importa. Così è più bella.” 

Molti mesi trascorsi a T. in quella smania di luce. Non c’era niente, per me, di più esaltante che scorgere, tra le fessure delle ante, l’infiltrazione dei raggi che annunciavano l’arrivo del mattino.
Non potevo soffrire l’obbligo del sonno, della notte. Così dormivo poco e male, irrequieta; continuamente rigirandomi sotto i fiori accesi della mia trapunta. Mi sembrava di sentirli ondeggiare, intorno al mio corpo, boccheggiare. Forse erano irrequieti, anche loro. Come me, aspettavano il mattino.
Per tutto il giorno camminavo ed era chiaro che avevo la febbre – lo avvertivo nello sfinimento delle gambe che, tuttavia, come isteriche, non si fermavano mai. Avevo la febbre: di sensazioni.
Camminavo, e nient’altro. Le vie del centro mi piacevano in modo speciale. Ormai le conoscevo a memoria, ma somigliandosi tutte – strette e storte come i marciapiedi – non mi era difficile perdermi, se avanzavo distrattamente, o perdere di vista l’orientamento che avevo dato ai miei passi. In ogni caso finivano per portarmi, che lo volessi o no, nel posto che più di ogni altro preferivo: la piazza – circolare, relativamente ampia – che si apriva accanto al più antico monastero di T. C’era un tale silenzio, sopra a quei ciottoli chiari – e che emanava, forse, da quegli stessi ciottoli chiari, raccolti in preghiera sotto lo sguardo solenne della luce.
Quando mi lasciavo alle spalle il centro storico e riprendevo la strada del grande viale che collega quello al mare, mi dispiaceva la massa di studenti e lavoratori che nel frattempo – era ormai, in genere, tarda mattinata – aveva invaso la città. Avrei voluto avere T. solo per me, poter sfogare i miei eccessi di esaltazione, liberamente, e dare una festa per le vie, tra me e le mie sensazioni soltanto. 

Le ho chiesto di andarsene circa un anno fa. Leggevo su un tronco di albero caduto, ormai secco, in fondo all’unica spiaggia balneabile di T. Dal mare mi ero sempre tenuta a una certa distanza. Se nel corso delle mie passeggiate lungo la costa mi fermavo a osservarlo, per prendere fiato, resistevo qualche minuto appena, poi le gambe mi incalzavano a proseguire. Non potevo sostenere il suo sguardo – placido, indagatore. Non so come, giudicante. Sembrava volermi ricordare, ogni volta, la mia incapacità di stare calma, e ferma, senza smanie né febbre. Non sopportavo che mi scrutasse in quel modo, così andavo oltre.
Quel pomeriggio in spiaggia, tuttavia, ho desiderato che mi parlasse.
“Dimmi, potrò mai guarire?”, ho chiesto al mare.
“Da che cosa?”, il mare a me.
“Da questa malattia. La malattia della luce.”
Per molte ore abbiamo discusso. Scuotendo via i granelli di sabbia dalle scarpe, mi sono infine risoluta. Ho esortato quella zona dentro di me a unirsi alla conversazione. Mi sono schiarita la gola, un paio di volte; poi, guardando in terra, e testimone il mare, con tono fermo ho detto: “Devi andartene.”
Lei ha esitato, prima di rispondere; l’ho sentita tremolare.
“Non sei più felice con me?”
“No. Tu mi fai male.”
Credevo stesse esitando, di nuovo, in cerca delle parole giuste con cui replicare. Attendevo una reazione violenta. Sbagliavo. Nessuna risposta è giunta dall’interno. Quando ormai ero pronta a lasciare la spiaggia, e già sollevavo la mano per salutare il mare, l’ho vista. Così era uscita, infine, dal mio corpo. L’ho vista allontanarsi piano piano, fluttuando goffamente, e con grande debolezza, appena sopra la superficie dell’acqua. Non credo avesse mai volato prima di allora, ma presto ha preso confidenza con la sua nuova forma. Quando ha raggiunto l’altezza dei tetti, sulle cime dei palazzi della costa, la scorgevo ormai a malapena. Poco dopo, l’ho persa di vista. Così se n’è andata, al modo di un’ombra – la mia ombra di luce. 

Da un anno vivo sola, senza smanie né febbre. Ogni tanto vado ancora nel centro storico di T., non inseguo niente a parte gli acquisti da fare. Se avanza un po’ di tempo, mi fermo a sfogliare qualche libro tra le bancarelle all’aperto. Capita a volte che ci incontriamo, io e l’ombra. La vedo salire e scendere lungo le vecchie facciate, insieme alla luce – entrambe inesauste, come torrenti. Ma è un attimo, e sono già oltre.
Dopo cena, ogni sera, torna a casa. Io sono già a letto. Finché gli occhi reggono, leggo. Poi mi volto su un fianco e cado velocemente in un dormiveglia senza immagini. Lei tremola, dietro di me, fino al mattino.

La prevalenza del curriculum

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di Giorgio Mascitelli

L’esame di stato dell’anno scolastico 2020/21, che comincia nei prossimi giorni, contempla la novità  del curriculum dello studente allegato al diploma, che, previsto già dalla legge della Buona Scuola, tuttavia è stato introdotto solo quest’anno. Si tratta di un documento compilato dallo stesso studente in cui ognuno potrà riportare le attività extrascolastiche e le certificazioni conseguite sia in corsi organizzati dalla scuola sia esterni e che potrà servire anche come fonte d’ispirazione del colloquio d’esame. Benché visto dall’esterno possa apparire solo un’ennesima trovata dell’iperattiva burocrazia scolastica italiana, questo documento merita un minimo di attenzione in più anche dai non addetti ai lavori per quello che significa oggi e soprattutto in prospettiva.
In effetti la sua introduzione è stata accompagnata da una serie di interventi critici e risposte culminate con le dichiarazioni del presidente della Corte Costituzionale che, durante la conferenza stampa di presentazione dell’attività di quell’istituzione, ha espresso il timore che tale provvedimento possa minare il principio di uguaglianza, perché per esempio non tutti possono permettersi di mandare i figli all’estero a fare corsi di lingua, ma ha nel contempo  espresso anche la fiducia che il ministro Bianchi saprà provvedere ai necessari emendamenti. Anch’io nutro la medesima fiducia nel ministro sia perché, come potrebbe capire perfino uno studente dal curriculum desolatamente vuoto,  seguire il consiglio di un autorevole costituzionalista oggi significa risparmiarsi magari un ricorso alla corte domani sia perché, a mio avviso, questo provvedimento non ha come finalità principale la promozione della diseguaglianza, la quale oggi è più efficacemente affidata a un sistema di governance misto pubblico privato mediatico e non legislativo, e quindi fuori dall’ambito di pertinenza della Corte Costituzionale, comprendente prove INVALSI, rapporti di autovalutazione delle scuole e le cosiddette classifiche di qualità della fondazione Agnelli. Inoltre finalità e modalità della selezione oggi, essendo strutturalmente cambiato il capitale culturale, sono diverse da quelle dell’epoca, diciamo, di don Milani, ma questo è un discorso diverso e lungo che non si può affrontare qui.
Tra i più energici sostenitori del provvedimento troviamo Giorgio Vittadini e questo per gli addetti dei lavori non è certo una sorpresa, essendo egli uno degli estensori del documento d’indirizzo per introdurre le prove INVALSI, che appartengono allo stesso filone di innovazioni didattiche neoliberiste. Le più importanti argomentazioni portate dal fondatore della Compagnia delle Opere a favore del curriculum dello studente sono la necessità di una valutazione più moderna che superi le secche di una valutazione disciplinare a vantaggio di una visione complessiva dell’alunno e il fatto che in Europa si ritiene sempre di più che il futuro della valutazione sarà basato sui cosiddetti character skills. Essi sono quei tratti caratteriali, per esempio l’estroversione, l’amicalità, la coscienziosità, la stabilità emotiva e l’apertura all’esperienza, che concorrono in maniera significativa a formare un capitale umano efficiente e performante, accanto ad abilità e competenze e più specifiche, e che pertanto dovrebbero far parte della valutazione scolastica in maniera aperta e autonoma, sostituendo parzialmente o del tutto quella del profitto scolastico.
Che un uomo come Vittadini, la cui storia pubblica è legata alla scuola privata, veda con favore un simile tipo di valutazione, di cui il curriculum dello studente con ogni evidenza è un primo passo, è assolutamente comprensibile. La scuola privata, infatti, vive spesso una contraddizione tra l’adesione, per necessità di comunicazione sociale, al principio della meritocrazia negli studi e nel contempo a quello commerciale del cliente che ha sempre ragione; è chiaro che una valutazione basata sulle competenze caratteriali consentirebbe di riformulare il principio meritocratico in modo utile per superare questa dolorosa contraddizione in quanto la certezza di avere gli studenti con i caratteri migliori, perché se non fossero tali mai avrebbero scelto una delle scuole migliori, ne farebbe meritocraticamente una delle scuole migliori.
Se tuttavia si prova a considerarne in generale gli effetti sul sistema scolastico, è probabile che una valutazione basata in prevalenza su competenze caratteriali, specie in un clima competitivo come quello che disegnano nella scuola le prove INVALSI, tenda a uniformare la partecipazione degli studenti su determinati standard comportamentali e alla lunga a favorire la costruzione di un tipo di identità scolastica e personale particolarmente funzionale alla formazione di capitale umano. Se nell’immediato questo significa indicare alla nostra gioventù come valori positivi il conformismo e il servilismo, alla lunga implica una dimensione biopolitica della scuola che non avrebbe più come scopo quello di fornire gli strumenti culturali per una crescita autonoma di individui liberi, ma di creare soggettività funzionali o quanto meno resilienti a una determinata visione ideologica delle risorse umane in senso aziendale.
Esagero? Stabilisco legami indebiti tra un singolo provvedimento e le opinioni di un singolo operatore, per quanto autorevole? L’esame di alcuni dettagli può fornire qualche risposta utile. Innanzi tutto questo curriculum verrà allegato al diploma di maturità quasi a correggere e limitare il voto finale, basato essenzialmente sul profitto scolastico, come si faceva con gli esiti delle prove INVALSI ( quest’anno è impossibile allegarle solo perché a causa del covid non sono obbligatorie). Questa relativizzazione del diploma di maturità è legata al tentativo di abolizione del valore legale del titolo di studio che sarebbe fondamentale per introdurre queste nuove forme di valutazione. In secondo luogo da alcuni anni in qua, contrariamente a quanto si faceva prima, il voto di condotta fa media con i normali voti di profitto e nel triennio delle superiori sulla base della media dei voti si attribuiscono i punti di credito scolastico che entrano a far parte del punteggio di maturità attribuito dalla scuola. Nel passato il voto di condotta veniva attribuito come indicatore di un atteggiamento, ma non poteva in alcun modo determinare il profitto dell’alunno: certo il comportamento dell’alunno influenzava indirettamente il profitto ( è ovvio che chi è spesso disattento o assente alle lezioni verosimilmente avrà qualche difficoltà scolastica), ma non vi era la pretesa di giudicare la persona in quanto tale, ma solo le sue prestazioni scolastiche. L’inserimento del voto di comportamento nelle voci di profitto è evidentemente già un passo verso la direzione della valutazione della persona che Vittadini e altri auspicano. In terzo luogo anche il PCTO ( il nome assunto di recente dall’alternanza scuola lavoro) presuppone forme di valutazione comportamentale e  caratteriale dell’alunno negli stage che possono confluire nella valutazione scolastica. Insomma ci troviamo di fronte a un’effervescenza normativa in questi ultimi anni che indica abbastanza eloquentemente l’obiettivo di una valutazione della persona con tutti i comprensibili rischi di una scuola che valuta gli individui in quanto tali e non le cose che hanno imparato.
Nel romanzo Il professor Unrat, dal quale venne tratto il celebre film L’angelo azzurro, Heinrich Mann ci offre un’acre satira della scuola ( e della società) della Germania guglielmina: un solerte docente di latino e greco, il professor Rath, è così immedesimato nella sua funzione di controllore della moralità degli studenti da non tormentarli solo a lezione, ma da seguirli anche nelle ore libere allorché si recano in teatrini di varietà; sarà così che incontrerà e si innamorerà della bella Lola Lola, interpretata da Marlene Dietrich nel film, perdendo la sua onorabilità e tradendo fortunatamente la sua missione sociale. Oggi la scuola è agli antipodi di quel modello repressivo e concentrazionario, eppure provvedimenti come il curriculum dello studente, sotto l’interfaccia amichevole e l’enfasi postmoderna sulla valorizzazione delle caratteristiche individuali, lasciano intravvedere la medesima volontà di controllo sociale.

 

Lo sa il Cielo quanto sono triste

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[Nel 2019, un anno dopo la sua uscita per Bompiani, ho letto La vita riflessa, il romanzo di Ernesto Aloia, autore già noto e affermato, ma che io non conoscevo. Ho trovato La vita riflessa uno dei romanzi italiani più ambiziosi e riusciti che mi sia capitato di leggere da diversi anni. Da allora lo consiglio a tutti. Oggi ho il privilegio di presentare su NI un suo racconto inedito. A. I.]

di Ernesto Aloia

Il temporale le era corso incontro. Paola aveva fatto in tempo a distinguere alla luce dei fari la polvere sollevata dalle prime gocce sull’asfalto, poi un velo d’acqua corrente aveva preso a scrosciare sul parabrezza. Tutti i veicoli sull’autostrada avevano rallentato; si accendevano le prime luci di sosta; i tergicristalli si agitavano frenetici. Scalciò sul pedale del freno e accostò in una piazzola. Guidare di notte la disorientava e l’impauriva, quasi le toglieva il respiro. E ora c’era quella pioggia che riduceva la visibilità e moltiplicava i riflessi. Svegliò Fede scuotendole la spalla. Si era addormentata con la testa appoggiata al finestrino quando erano ancora in coda per uscire dal parcheggio del Forum. La ragazza, assonnata, domandò se fossero già arrivate a casa. Poi udì il frastuono della pioggia, si guardò intorno e si stirò come se avesse dormito un’intera nottata.

“Per una volta che usciamo insieme”, si lamentò Paola. Aveva lasciato il motore acceso e aveva mantenuto la sua posizione di guida con la fronte troppo vicina al parabrezza, la schiena rigida, le mani serrate sul volante.

“Mamma, è solo un temporale. Ora passa.”

“Non è stagione di temporali.”

“Potrebbe andare peggio.”

Paola sorrise, lasciò la presa sul volante, si appoggiò allo schienale e cercò la mano di Fede. Niente la rassicurava quanto quei momenti in cui la figlia varcava il confine dei suoi quindici anni: sembrava capace di aprirsi a fasi di inattesa consapevolezza ma non aveva ancora imparato a temere la propria sensibilità: l’esperienza non la offuscava, e non sapeva ancora schermarla con il sarcasmo. Allo stesso tempo, la faceva sentire colpevole. Non aveva il diritto di chiedere a Fede di farle da madre. Temeva il contagio dell’ansia. Spiava sua figlia per cercare di coglierne i sintomi precoci, e talvolta la interrogava apertamente. Quello stesso giorno Federica si era presentata a pranzo con un’aria stravolta. Lei aveva riconosciuto subito il pallore, la fame d’aria, l’accenno di balbuzie.

“Hanno quasi investito una mia compagna proprio davanti a scuola. C’è mancato tanto così. Un miracolo.”

Poi, fermandosi spesso per riprendere fiato, le aveva descritto l’episodio. L’urlo della frenata, la ragazza che si faceva di lato all’ultimo istante, lo zainetto che in quel momento teneva in mano che volava per aria, i libri i fogli e il portapenne che ricadevano sparsi sull’asfalto.

E il tizio del SUV cos’ha fatto, è scappato?”

“No, è sceso. Si è appoggiato alla macchina e ha vomitato.”

“Chi è questa tua compagna?”

Fede le aveva detto il nome, ma lei non era riuscita a collegarvi una faccia, o una voce. Le aveva chiesto se fosse andata al Pronto Soccorso.

“E’ a casa adesso. Non si è fatta niente.”

Lo zainetto di Fede le era scivolato dalla spalla ed era caduto sul pavimento con un tonfo e loro due si erano abbracciate. Paola aveva avvertito un tremito nascosto in profondità nel corpo di sua figlia. Era ancora terrorizzata. Ma la paura, le aveva spiegato più volte Roberto, era la reazione sana a un pericolo reale e imminente. Era vitale e primaria, poteva salvarti.

Roberto, il suo barbuto fratello maggiore, era uno psicologo cognitivo-comportamentale specializzato nelle consulenze online. Più volte nel corso delle loro telefonate serali aveva cercato di parlargli dell’ansia, dell’apprensione, dell’angoscia – non sapeva più come chiamarla – che da qualche tempo la prendeva al momento di mettersi alla guida dopo il tramonto; ma lui come ogni terapeuta detestava i pareri informali, e questo lo rendeva sbrigativo e incline al sarcasmo.

“Non è colpa della notte, la notte è sempre la stessa, il buio è lo stesso, casomai ce n’è sempre meno, e fino a qualche tempo fa guidare di notte non ti causava problemi. Sei cambiata tu, è cambiata la tua testa.”

“Vuoi dire che sono vecchia?” Lo sentì ridacchiare.

“Ti chiami Paola no?”

“E allora?”

“Quante donne sotto i cinquanta conosci che si chiamano Paola? Paola, Roberto… se tornassimo a scuola con questi nomi i compagni ci sfotterebbero come noi facevamo con le Giuditte e gli Alfonsi.”

“E’ bello avere qualcuno accanto nei momenti difficili.”

“Scusami. Quello che volevo dire è che c’è molta polvere sotto il tuo tappeto”, riprese, “Sarebbe ora di dare una ripulita.”

Lei aveva alzato gli occhi al cielo, aveva sbuffato. La polvere. Un altro modo per riferirsi al suo divorzio. All’epoca, tre anni prima, Roberto le aveva consigliato un ciclo di sedute con un suo collega; ma Paola gli aveva risposto che, in tutta onestà, non si era mai sentita bene come dopo la separazione. Aveva sua figlia accanto, insegnare inglese nella nuova sezione linguistica del suo liceo le piaceva – anzi, aveva ritrovato l’entusiasmo e la voglia di sperimentare dei primi tempi – aveva ricominciato a dormire tutta la notte e ad andare a correre tre volte la settimana ed era sempre la prima a offrirsi di accompagnare le ragazze nei loro soggiorni di studio all’estero. Liberarsi da suo marito l’aveva alleggerita di dieci anni. Era stato Vittorio – il Vittorio degli ultimi tempi – a portare nella sua casa la solitudine, l’ansia, il silenzio desolato.

Quando ne parlava sceglieva sempre la strada più semplice: ricorreva alla storia che le aveva raccontato una sua collega la cui la nonna, figlia diciottenne di una misera famiglia dell’Aspromonte, era andata in sposa per procura a un compaesano arricchitosi in Australia. Nella piccola fotografia che le aveva spedito l’uomo appariva come un giovane bruno e baffuto, alto e pieno di baldanza; ma sbarcando dal piroscafo a Melbourne dopo un mese di navigazione la ragazza aveva trovato ad attenderla un sessantenne calvo con una grossa pancia tonda e tesa, due gambette stecchite che lo costringevano a servirsi di un bastone e una guancia deturpata da qualche misteriosa malattia della pelle. Disperata, era scoppiata a piangere; aveva persino cercato di risalire sulla nave, da cui i marinai l’avevano ricacciata a spintoni. Non aveva soldi, non sapeva una parola d’inglese. Aveva dovuto cedere.

La navigazione di Paola non era durata un mese, ma quindici anni. In compenso, aveva avuto la possibilità di scegliere. Da una parte c’erano sua figlia, la sua famiglia, l’insegnamento, gli amici; dall’altra Vittorio, gli ammanchi sul conto, i tagliandi delle sale scommesse dimenticate nelle tasche dei pantaloni. Di giorno ciondolava in pigiama e pantofole. Usciva la sera per rientrare a tarda notte, quando lei fingeva di dormire e lo sentiva aggirarsi per casa furtivo e famelico. Ora, nei suoi pensieri, lei lo chiamava il fantasma. Tutti le consigliavano di concedergli un po’ di tempo, dopotutto aveva perso il lavoro – secondo Roberto stava affrontando una difficile fase di ricostruzione dell’identità – ma Paola si era decisa a rivolgersi a un avvocato. In lei convivevano, prevalendo a fasi alterne, conclusioni e sentimenti contraddittori: c’era quel senso rabbioso dell’inganno subito, ma anche la constatazione che solo le circostanze rivelano l’uomo e che Vittorio forse – dopo tutto quel tempo – si era svelato, era diventato quello che era e non sarebbe mai tornato quello di prima: dunque, che cosa aspettare, e perché?

La cosa più difficile, nei mesi che seguirono, era stata convincere il fratello, gli amici, i genitori che non era mai stata meglio, che le tornavano giorno dopo giorno forze prima bloccate in uno stallo vano. Non volevano crederci. Sostenevano che la sua fosse una serenità contraffatta, un espediente del corpo e della mente per proteggerla dal dolore immediato e darle il tempo di apprestare, in segreto, una difesa per quando sarebbe arrivata la crisi. Ma non era arrivata nessuna crisi.

Il frastuono diminuiva. Ora nella pioggia si riusciva a distinguere una cadenza. Era come un esercito in marcia nella pianura. Le auto che si erano ammassate sotto un cavalcavia in cerca di un riparo stavano ripartendo e formavano una lunga fila. Anche Paola, con cautela, si rimise in carreggiata. Si mantenne per qualche minuto nella corsia di destra ben distanziata dalla colonna di fanali rossi. Prese un gran respiro sforzandosi di flettere il diaframma e di riempirsi a fondo i polmoni, poi si spostò al centro e accelerò. La pioggia cessò dopo pochi chilometri. Ai bordi dell’autostrada, tra i campi fradici, apparvero i primi capannoni e più lontano si riuscivano a scorgere gli abituali punti di riferimento: Superga, le torri della Falchera con qualche rara finestra illuminata, le montagne gravate dalla massa delle nubi gonfie di bagliori. Al casello Paola abbassò il finestrino e inserì la carta di credito. Scelse di non prendere la tangenziale e, quando finalmente le luci si addensarono e la città le si strinse intorno, e vide che sull’asfalto non c’era traccia di pioggia, si sentì al sicuro. Fede se ne accorse e le posò una mano sulla spalla.

“Non era così male il tuo Morrissey.”

Tre mesi prima Fede aveva ricevuto in regalo un piccolo giradischi, un discendente cinese della fonovaligia con amplificatore e casse integrate che Paola ricordava in casa dei suoi genitori, abbandonata a favore di un impianto stereo ad alta fedeltà. L’epoca dell’alta fedeltà era finita da un pezzo, e la fonovaligia si era presa la sua rivincita. L’entusiasmo di sua figlia per quel giradischi, che rappresentava il ritorno dell’antica materialità analogica dell’ascolto musicale, l’aveva colta alla sprovvista. In tutta la casa non c’era neanche un vinile. Erano scese in cantina dove, in uno scatolone etichettato da una ditta di traslochi, avevano ripescato i suoi vecchi album degli Smiths.

Orgogliosa, aveva mostrato alla figlia la gestualità rituale – estrarre il disco dalla busta, posarlo sul piatto, posizionare la puntina con precisione e mano ferma proprio sullo spazio non inciso prima di ogni traccia. Erano rimaste in silenzio, ipnotizzate, per tutta la durata della prima facciata.

“E’ come se la musica diventasse più importante”, aveva commentato Fede. Parole che avevano lasciato Paola a bocca aperta: era esattamente quello che aveva sempre pensato lei, che il digitale avesse in qualche modo inspiegabile sottratto intensità e splendore alla musica, così come insinuandosi dappertutto nel tempo e nello spazio sembrava aver rubato qualcosa, difficile dire cosa, a molti dei suoi gesti quotidiani. Era un pensiero, però, a cui non dava mai voce, perché conosceva la scontata obiezione – che non fosse stata la semplificazione digitale a impoverire quei momenti ma più banalmente il tempo, l’usura, il succedersi delle stagioni: in una parola, la vita.

Fede, comunque, era entusiasta del disco e del gruppo. Così, quando aveva ricevuto una mail da Songkick che l’avvisava della data di Morrissey al Forum, Paola aveva comprato due biglietti senza stare troppo a pensarci su, salvo poi accorgersi che gli orari dei treni erano impossibili e che di conseguenza le sarebbe toccato guidare di notte per trecento chilometri.

Il semaforo lampeggiava e Paola rallentò all’incrocio per controllare a destra e a sinistra.

“Bravo è bravo, niente da dire. Ma l’ultima volta che l’ho visto aveva iniziato con tre quarti d’ora di ritardo ed era partito con una tirata contro la polizia italiana. Forse il giorno prima l’avevano arrestato, non ricordo, e lui ce l’aveva fatta pagare. A noi, il pubblico. Aveva cantato da cani. Insomma mi era sembrato un po’ stronzo.”

Fede rise. “Ma se era il tuo idolo, se eri innamorata di lui.”

“Ma quando mai.”

“Quando ti vestivi di nero e tu e papà andavate a quella discoteca in centro, come si chiamava.”

“Il Tuxedo. No che non ero innamorata.”

“Perché era gay?”

“Perché era una lagna.”

Morrissey si era presentato sul palco in perfetto orario, massiccio, ingombrante in una sorta di pigiama rosso rubino, inaspettatamente sorridente. Aveva regalato fiori agli spettatori delle prime file, si era chinato a stringergli la mano dopo ogni canzone. Ma a metà del primo bis a Paola era sembrato partecipe fino alla commozione. La voce gli si era spezzata e aveva saltato un verso facendo cenno con la mano alla band di continuare. Si era voltata verso Fede per farglielo notare e si era accorta che lei sì, stava piangendo. Dapprima aveva pensato a una banale immedesimazione, ma le era bastata una seconda occhiata per notare che sua figlia non aveva solo gli occhi lucidi: singhiozzava, e le lacrime le rigavano le guance. Non poteva essere colpa del testo lamentoso della canzone o della voce di Morrissey che si spezzava, e allora di cosa? Stava per domandarglielo quando era partito un pezzo frenetico, rumoroso e distorto. Poi le luci si erano accese. Erano uscite dal Forum incanalate nella folla e appena salite in macchina Fede si era addormentata di schianto.

Paola svoltò in una stretta via alberata, parcheggiò e spense il motore. Si lasciò andare contro il sedile e chiuse gli occhi. La strada e la notte erano alle sue spalle. Il momento che aveva temuto fino alla fine – le vertigini, la perdita dell’orientamento, la fitta al petto – non era mai arrivato. Domani avrebbe chiamato Roberto per raccontarglielo.

“Quindi eri innamorata solo di papà?”

Era distratta, stava ancora cercando di figurarsi quella telefonata esultante con il fratello, e Fede aveva dovuto insistere.

“Sei mai stata innamorata di papà?”

“Certo che lo sono stata.”

“Quando?”

“Ai tempi in cui non ero innamorata di Morrissey.”

“E dopo?”

Paola fece un gesto brusco con la mano che poteva significare chi lo sa, non ho voglia di parlarne, tanto tempo fa.

“Anche dopo”, disse, “Ma parliamone domani, con calma.”

“Potremmo non averne il tempo, ti rendi conto?”

Che sciocchezza, pensò, abbiamo tutto il tempo del mondo. Era sfinita, sentiva di non meritarselo, l’interrogatorio. Scese dalla macchina e andò ad aprire il cancello d’ingresso. Mentre frugava nella borsa alla ricerca delle chiavi il brontolìo di un tuono le fece sollevare la testa e una sventagliata di gocce si sparse sul marciapiede. Spinse il cancello appoggiandosi con la spalla.

Abitavano uno degli otto appartamenti di una palazzina costruita negli anni Trenta – un tipo di edificio piuttosto raro in città, con ampie vetrature, interni di marmo, balconi d’angolo ricurvi affacciati sulle magnolie del giardino. C’era anche un ciliegio, ma quell’anno una gelata gli aveva bruciato le gemme, così non avrebbe dato fiori. Paola tenne aperto il cancello dietro di sé. Fede rimase immobile, rigida, a braccia conserte.

“Io non vengo.”

“Per favore, ho freddo. E sta per piovere.”

“Non mi muovo di qui.”

Si avviò da sola lungo il vialetto, poi salì le scale fermandosi dopo ogni rampa ad ascoltare. Fede aveva le sue chiavi, e sperava che l’avrebbe raggiunta presto, ma allo stesso tempo era furiosa con lei, così piena di rabbia da sentirsi un nodo in gola. Aveva creduto di avercela fatta, finché sua figlia non l’aveva tradita. Il tempo. Cosa ne sapeva lei del tempo? Entrò in casa senza fiato, con le lacrime agli occhi. Si premette la mano sulla bocca come un bavaglio. Non voleva che Fede si accorgesse che la stava aspettando, così spense le luci: avrebbe pensato che se ne fosse andata a dormire e sarebbe salita anche lei. Ora si muoveva per le stanze al buio, di tanto in tanto si avvicinava a una finestra e arrischiava un’occhiata in strada. Sua figlia era sempre lì, davanti al cancello, sotto una pioggia rada. Si ritrasse in fretta dal chiarore che i lampioni della via proiettavano in casa attraverso le vetrate e inciampò in qualcosa di pesante, duro e cedevole al tempo stesso. Perse l’equilibrio e si ritrovò seduta sul pavimento. Tastò alla cieca davanti a sé e trovò lo zaino di Fede. Era rimasto dove l’aveva lasciato cadere rientrando da scuola. Sembrava davvero sconvolta. Era accaduto soltanto poche ora prima e Paola se n’era quasi dimenticata. Lo raccolse e lo portò nell’ingresso, l’unico punto della casa in cui la luce accesa non sarebbe stata visibile dall’esterno. La spessa tela era strappata, raschiata e annerita in più punti, i libri squinternati, i quaderni erano ridotti a fogli accartocciati e ficcati dentro alla rinfusa. Le penne erano spezzate, gli occhiali da sole in frantumi. Lasciò cadere lo zaino, vi si inginocchiò accanto, lo sollevò e se lo strinse al petto. Un tuono distrusse il silenzio della casa, che le era sembrato inespugnabile.

Poi ci fu la pioggia che scrosciava sul tetto, sui balconi, sulle foglie dure delle magnolie, che gorgogliava nelle grondaie e scorreva sopra e sotto il piano della strada, scendeva con furia a rodere le fondamenta, a minare la città intera.

 

L’Anno del Fuoco Segreto: Il Drago delle Rane

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La descrizione del progetto L’Anno del Fuoco Segretosi può leggere QUI.

di Dario Valentini

Ci sono storie che non hai mai vissuto, eppure le hai vissute. Mi aveva detto Lorca un pomeriggio, dopo avermi fatto riprovare per la millesima volta un passaggio che non mi veniva delle Variazioni Goldberg. Eh già. Gli avevo risposto distrattamente. Poi mi aveva appoggiato una mano sulla spalla e lanciato uno sguardo con gli occhi lucidi. Tutto ok?

«Non so cosa sia peggio» ridacchiò Madeira. «Il fatto che stiamo preparando un concerto per delle piante, o che gli facciamo ascoltare musica fatta con strumenti di legno!»

«Sei proprio una testa di cazzo» Lorca succhiava il fondo della sigaretta, appoggiato con la schiena all’angolo di muro tra il teatro e l’hotel España per proteggersi dal vento. Si era già fatta sera.
«Prova a pensarci vecchio, immagina se a te facessero ascoltare musica fatta con pezzi di carne umana, ti disgusterebbe no?»
«Tipo il canto?» Lorca scoppiò a ridere. «Ne ho sentito parlare! Dicono non sia malaccio.»
«Non intendevo quello» Madeira sistemò l’elastico che teneva faticosamente i capelli, sbuffò. Si ricordava ancora la lezione della Plath sui Kangling tibetani cavati dalle tibie.
«Dai non te la prendere!» Lorca gli diede una bella pacca. «Cosa proponi?»
«Che magari non gli facciamo sentire il solito Beethoven a queste foglioline.»
Lorca lo guardò storto.
«Non fraintendere, Beethoven è…» Madeira guardò in alto aprendo le mani come in segno di resa.
«Ecco» Lorca si accarezzò la barba folta «e su questo forse la storia non stava aspettando col fiato sospeso il tuo augusto giudizio, stella.»
«Ma dico forse…»
«Forse cosa?»
«Forse potremmo fare qualcosa di più…Moderno.»
«Eh si, d’altronde sono qui solo da milioni di anni! Chissà quante volte l’avranno sentito il Chiaro di Luna. E chissà che versioni di merda si saranno dovute sorbire nei salotti o nei reparti dove pensano di curarti la schizofrenia facendoti sentire Einaudi dalla mattina alla sera» Lorca scosse la testa «vuoi fare qualcosa di Satie o magari…Gershwin?»
«Per me si potrebbe osare anche di più.»
«Allora Rutavaara o…Penderecki?»
«Di più, di più.»
«Ho capito. Ti è andato il sangue alla testa e vuoi fare una di quelle cose contemporanee che provi a propinarmi da quando sei tornato.»
«Si ecco, qualcosa del genere.»
«E allora sai che ti dico?» Lorca si arricciò i baffi. Madeira sentì una morsa allo stomaco, gli tremarono le gambe, si aggrappò al maniglione dell’entrata sul retro. «Vuoi fare l’avanguardia? E allora facciamola! Per una volta ti do carta bianca, e ti lascio chiamare anche i tuoi amichetti della Berkley.»
«Mi prendi in giro?»
«Niente affatto! Sei fortunato che il pubblico di queste serate non può scappare» gli fece una linguaccia «e per di più non paga.»
«Oh grazie Lorca grazie! Non te ne pentirai» Madeira si mise a saltellare.
«Basta che poi non mi rompi le palle quando torniamo alla programmazione normale.»
«Ehm…Certamente.»
«Niente lamentele.»
«Nessuna.»
«Niente esperimenti, niente idee strane sussurrate di nascosto agli altri musicisti tra le vie di palazzo, mi sono spiegato?»
«Sissignore.» Se è strano proporre un Windman ogni morte di papa, tanto vale che ci trasferiamo all’Egizio e tanti saluti, pensò. Quand’è che abbiamo smesso di andare in cerca di guai?
Lorca restò un secondo in silenzio, poi disse «Considerati responsabile creativo del progetto.»
«E mi fai anche dirigere l’orchestra?»
«Forse. Ora torniamo dentro che ho freddo.» Lanciò il mozzicone su Carrer San Pau. A destra si sentivano i soliti schiamazzi della Rambla. A sinistra l’odore del ristorante indiano in cui si era sempre rifiutato di andare a mangiare, e dire che gli altri insistevano tanto. Per Lorca il Gran Teatro Liceu era un posto speciale, ci aveva suonato per la prima volta negli anni settanta e proprio lì aveva esordito come direttore. Vederlo così, tutti i sedili tenuti abbassati dai vasi e occupati da fiori e piante varie, gli faceva un effetto strano. Sorrise e abbozzò un inchino. Calici e corolle dai colori vertiginosi si alternavano a germogli più comuni e ad escrescenze smeraldine, lussuriose. I primi posti erano occupati da rose impettite. Altri da piccoli ciclamini montani. Gerani dall’aspetto dignitoso e ginestre indifferenti. Gelsomini rampicanti dai fiori bianchissimi e profumati. Orchidee di colori ibridi (che sebbene si dicesse molto facili da tenere lui era sempre riuscito a far morire nel suo appartamento a Muntañer). Calle funebri (le preferite di Marta, la numero due). Ma anche girasoli smargiassi e oleandri dalle intenzioni chiaramente malefiche. Piu avanti c’erano arbusti e alberelli. Melie e magnolie imperscrutabili. Limoni, olivi e altri piccoli alberi da frutto. In fondo in fondo si vedevano persino alcuni ortaggi. Pomodori, zucchine fiorite e radicchi. Un po’ fuori posto forse, ma perché escluderli? Di molte altre specie non avrebbe saputo dire neanche il nome. Pareva il giardino diffuso di qualche maharaja eccentrico. Erano spettatori strani di certo, ma silenziosi, e nei brevi intervalli tra un pezzo e l’altro non avrebbero applaudito in maniera incongrua rovinando l’atmosfera: quella tensione che si creava poco prima che iniziasse il passaggio successivo, e che era uno dei suoi momenti preferiti in assoluto, quasi sempre guastata da qualche stronzo che non sapeva stare zitto e qualche altro ancora più stronzo che gli diceva di stare zitto. E poi, di sicuro, non potevano aver portato con loro i cellulari. Eppure non riusciva a scrollarsi di dosso la sensazione che li osservassero, con occhi verdi come i raggi del sole tra le foglie. Proprio lì vicino, alla Filmoteca de Catalunya ci aveva conosciuto la numero uno. Rocìo. Un’andalusa bruna e testarda con le tette perfette che aveva amato spietatamente. Questi avverbi alla “Siglo de Oro” saranno i chiodi della tua bara, lo perculava Madeira. Era una donna all’antica che per chiedere il divorzio ci aveva messo parecchio, quando le sue scappatelle erano diventate proprio impossibili da ignorare. Cornuta sontuosamente, sghignazzava Madeira alzando il bicchierino dell’amaro. Si era risposato altre due volte con scarsi risultati e non aveva avuto figli, dedicandosi da un certo momento in poi completamente alla musica. Tra gli studenti che aveva amato di più c’erano state un paio di ragazze particolarmente dotate e il suo pupillo. Esecutore eccellente seppur non straordinario, ma dal tocco e dalla sensibilità singolari, cui aveva perdonato nel corso degli anni troppe mattine in ritardo, visibilmente in hangover e certe scelte estetiche estremamente discutibili (in ordine di gravità crescente i capelli lunghi, i vestiti stravaganti, gli orecchini e per ultimo il rossetto. Il rossetto, Dei abbiate pietà di noi). Infine aveva pure dovuto ingoiarsi la bile per la fuga oltreoceano. Motivi di studio un paio di palle. Avrebbe dovuto essere arrabbiato con lui, ma in tutta onestà, quando ce l’aveva avuto davanti di nuovo, si era scoperto solo contento di rivederlo.

Madeira invece, che aveva suonato a Boston, Chicago e New York, lo odiava il Liceu. Diceva che era pieno soltanto di vecchi Catalani bavosi e che in America invece sì che la grande classica si apriva a tutti, e sul velluto rosso ci trovavi gente di ogni tipo. Dalla band di metallari ai fanatici dell’hip-hop all’appassionato di soul. C’era il nonno che Shostakovich praticamente l’aveva conosciuto e accompagnava il nipotino al primo concerto in assoluto. C’erano gli sconti per i ragazzi del college che arrivavano a piccoli branchi e cercavano di portarsi in teatro qualche schifezza da mangiare infilandola nelle felpone dell’NYU. E le serate più sperimentali, dove andavano principalmente gli addetti ai lavori, compositori di elettronica da tutto il mondo in cerca di suggestioni, e anche rocker famosi. E via raccontava a Lorca di quella volta che ci aveva incontrato il Boss. Sì, intendo proprio Bruce Springsteen. Ah, non ti facevo un fan di quella roba, gli aveva risposto il suo maestro. E di quella musicista Blues di Tampa (Florida) che al tempo non era famosa ma gli aveva fatto un pompino tutt’ora imbattuto. A questo punto della storia di solito si metteva la mano sulla bocca e gli occhi gli si inumidivano. Era davvero incredibile. Ma dici il pompino? No vecchio porco! La scena era incredibile, era così…viva! E allora perché diavolo sei tornato? Perché sono un coglione, ho messo incinta una violoncellista di Badalona quand’era in trasferta e non me la sono sentita di far crescere il fagiolo senza un padre, gli aveva raccontato al primo whiskey insieme dopo tanto tempo. Erano al Bar Jardin, un terrazzo allestito a café a cui si poteva accedere solo passando per un bazar di cianfrusaglie cinesi e salendo una scaletta. Beh congratulazioni! E non sapevo che fossi sposato. Ma che dici, sono il papà del bambino mica un martire, pago gli alimenti e vado a trovarlo il weekend. Quella era una matta, e pure chiatta. Eh si. Aveva detto Lorca poggiandogli una mano sul polso. Le violoncelliste sono spesso così. Però decisamente più facili da portarsi a letto delle violiniste. Decisamente. Madeira non aveva indagato oltre, si era limitato ad annuire.

Il giorno dopo la loro discussione Madeira si era presentato in teatro con pantaloni comodi, capelli sciolti e una giacca sportiva con le maniche tirate su, mettendo in bella mostra i tatuaggi di Sinatra e Miles Davis sull’avambraccio sinistro. Lorca si era sbrodolato il caffè addosso. Il giovane si era avvicinato al palco con falcate che parevano salti e il mento alto.
«Mettiamoci a lavoro.» Aveva estratto dalla valigetta un plico di spartiti e appunti «Guarda qua.»
Lorca aveva sbarrato gli occhi «E questa cos’è?»
Madeira si era limitato a sorridere.
«E il primo movimento lo vuoi tutto fatto così?» aveva rincarato la dose il maestro
«Per non offenderle…Lo capisci?»
«Veramente no! Ma poi chi te la suona? E chi ce li ha questi strumenti?»
«John Ashbery e i suoi»
«Da Londra?»
«No no sono in tour per l’Europa, ha detto che ci raggiungono e portano tutto, non vedono l’ora»
«Contenti loro» Lorca si era messo una mano sulle tempie. «E poi prosegue con tutta l’orchestra?»
«Esatto, e in più ho invitato Ghiannis Ritsos, Jordan Dreyer e Anne Sexton dei Sexton Trio. Saresti sorpreso di sapere quanti di loro si trovano qui in Spagna»
«Mi hai preso seriamente cazzo, e quelli ti hanno pure risposto»
«Non solo mi hanno risposto Lorca, sono entusiasti

Questa iniziativa “Plantastica” del comune non aveva scosso particolarmente Madeira, preso com’era dai cazzi suoi. E onestamente della flora non gli era mai interessato molto. Non che fosse uno di quelli che odiano stare nella natura o cose del genere, semplicemente non ci aveva mai pensato. Inizialmente aveva trattato le piante con indifferenza, attraversando su e giù il teatro come se non ci fossero. Erano state una buona scusa per fare la musica che voleva lui e basta. Poi, i giorni che era più nervoso, aveva iniziato a scostare con irritazione le fronde delle acacie più impertinenti e i rametti dei ciliegi. A volte, per scaricarsi, rivolgeva pernacchie ai pitosfori e battutine alle zinie che gli parevano sempre più vapide. E un momento che si era sentito particolarmente giù di corda aveva deciso di raccontare le sue disgrazie allo spelacchiato cedro libanese nell’angolo a destra, ricevendo in cambio solo un ovvio e apprezzabile silenzio. S’era ritrovato ad abbracciare il tronco esile, con un sogghigno e uno sbuffo. Aveva letto da qualche parte che era terapeutico (Forest Bathing: indicazioni pratiche per abbracciare con profitto gli alberi: camminare in un parco o in un bosco, accarezzare la corteccia, sentire il profumo del legno, guardare verso l’alto la cima e, alla fine, scegliere la pianta giusta, cingerla con delicatezza e intensità, fino a sentirsene parte. Abbracciando un albero il suo peculiare “schema vibrazionale” interferirà positivamente con i meccanismi biologici del nostro corpo…) e si era sentito ancora più idiota. Ritraendosi però aveva avuto l’impressione che le maonie educate a siepe li intorno lo accarezzassero con le loro fogliette obovate o gli battessero sulle spalle con tante piccole manine. Ciao poverino ciao. Bah, tutte cazzate forse, ma doveva ammettere che i fiori rossissimi del melograno e quelli di rosa e perla del pesco in terza fila erano davvero uno spettacolo. Una mattina prima delle prove Lorca l’aveva trovato ad accarezzare la rafflesia del posto 7B.
«Ci ho ripensato sai, questo esperimento vegetale tutto sommato mi piace. È una trovata interessante, molto Americana. Bravo sindaco! Ricordami di fargli i complimenti» Aveva detto.
«Allora forse Barcellona non è senza speranza come pensi» l’aveva sfottuto il vecchio.
«Chissà.»
«E comunque farle i complimenti. Il sindaco è una donna adesso»

***

Ashbery tocca la piccola tastiera in mezzo al palco, illuminato da un singolo faretto. I tasti non oppongono alcuna resistenza, non hanno peso, come fossero immersi in un lago formatosi su un cratere lunare. Il sequenziatore proietta un riflesso granulare della composizione. Quattro voci processate da un cervello modulare si intrecciano in una polifonia delicata ed elegante. Alzo i palmi a piccoli scatti. Al mio segnale dal buio entrano altri due sintetizzatori. Cesàr e Salvatore immergono le mani nel liquido scuro e generano piccole onde che si espandono e si moltiplicano. Unisco pollici e indici e li tengo sospesi. Bene così. Ho la fronte umida, chiudo gli occhi.

Tra le fiamme verdi vedo una creatura. Emette versi che non ho mai sentito. Vibrazioni che mi attraversano in ogni punto contemporaneamente. Sono come semi che scivolano e ogni volta che colpiscono qualcosa tintinnano, o come rugiada che gocciola dalle foglie…con un intento preciso? E i suoni si trattengono nell’aria e slittano l’uno nell’altro. Non sono nostri, mi spiega una delle Tre Madri. Tentano una canzone che addormenti l’acqua? Chiedo. Perché si muove così? Se mi muovessi anche io potrebbe aver paura di me e scappare? In quel caso forse i rumori smetterebbero, e non voglio che finiscano. Forse se fossi fatta a sua immagine. Prego che il latte scorra e la polpa stringa, e quando mi stacco da tutti gli altri mi rimane una ferita sulla schiena. Se mai decidessi di tornare. Le Tre Madri mi sorridono e in quel momento rinuncio alle loro voci. Per un secondo il silenzio mi investe e mi fa sentire terribilmente sola. Ma quando ascolto la creatura e quando la guardo, penso che non vorrò tornare. E quando mi sfiora ne sono sicura. Quando mi bacia con quelle labbra calde e pitturate d’orchidea. Mi vergogno delle mie che sono bianche e verdi e fredde. Mi prende in giro mentre mi accarezza, e non smette mai di parlare. Questa è una chiesa, quello è un cane, quella è la luna. Lo so cos’è quella. E quando camminiamo per il quartiere gotico mi prende sotto braccio per spiegarmi come si fa, e io faccio finta di non aver ancora imparato. Quando piove ripete: mettiti il cappotto. Non mi serve il cappotto.

Le note alte rimbalzano, colpiscono prismi di vetro. Piccole crepe li attraversano. I medi sono nuvole di sale che scorrono sotto il ghiaccio e lo graffiano. Soffiano e montano. Poi si inserisce una linea di basso magnetica e ruvida. Alzo un braccio. Le luci si distendono. Ci siamo.

Tra le fiamme verdi vedo una creatura. Ha la chioma d’oro rosso, e un mantello asimmetrico che le cade su una spalla, un arazzo ocra e arancione. Il tessuto denso si dirada in fazzoletti, simili alle foglie bilobate del ginkgo, che si allungano a coprire il braccio sinistro, quello più lungo. Gli occhi sono sogni d’ambra. E l’aria che ha intorno è come se brillasse e si muovesse ripiegandosi piano come velluto sull’acqua. Ha lo stesso odore che hanno i cuccioli, misto a quello della buccia dell’uva. A volte mi fissa come se non ci fosse altro da guardare, altre mi guarda attraverso. Le prime notti stava tutto il tempo con il viso attaccato all’abatjour vicino al letto. E come mi spingeva la testa fra le cosce! Dentro lamine cribrose, colorate con la densità degli anemoni, mentre spazzate di blu stellare mi inondavano i pensieri. Certi giorni ho la sensazione che morirebbe se la lasciassi sola. O che morirei io. Quando esagero col vino mi tiene su e mi gira le sigarette. Lo vuoi un gelato? Basta che non mi fai ridere se no mi esce tutto dal naso. Questa cosa del respirare non ti riesce ancora bene.
Vladimir attacca il secondo movimento. Leggerissimo sui piattini. Poi ci inserisce i tamburi e un filo di cassa. Sciolto. Gabrièl entra con il contrabbasso. Fa una faccia come se annusasse qualcosa di strano, e al tempo stesso pare estremamente soddisfatto. Gli faccio un gesto con la mano. Piano. Con la sinistra evoco la melodia: appaiono gli archi, trattengo gli ottoni per un soffio. Non ancora. Lancio uno sguardo al batterista, mi sorride. Tienila esattamente così. Con una manata spazzo via gli acuti per un quarto. Con l’altra faccio entrare le trombe. Ora tutti insieme. Cristina è uno spettacolo con quel suo staccatissimo. Respiro, mi giro.

Tra le fiamme verdi vedo un dio. Il cappello piumato, il vestito bianco e dorato. I piedi nudi. Quando mi vede triste si inventa certe stupidaggini solo per strapparmi un sorriso. Toglimi una curiosità, mi chiede, le farfalle erano petali una volta? Si sono staccate dal gambo e adesso volano? A volte rido solo per dargli soddisfazione, ma quella era proprio divertente. Oppure guarda i vasetti sul terrazzo ed esclama: i fiori sono stati a fare festa stanotte! Per questo hanno la testa che ciondola. Ti va se usciamo anche noi domani? Ci sarebbe il concerto di alcuni amici. E quando tocca il pianoforte mi si stringe lo stomaco. Vorrei attaccare l’orecchio a quella carcassa e urlare ti prego ancora, ti prego basta. Come fa ad essere così bella questa musica che viene dalle ossa dei miei morti, che mi fa ballare sul tappeto dell’appartamento come se le setole fossero fili d’erba umida e arrabbiare così tanto da lanciare per aria gli spartiti e scagliare via i vinili dalle mensole. Mentre singhiozzo mi tiene stretta fino a farmi mancare il respiro. Lo so, ripete. Lo so.

Dreyer succhia sull’ancia. Il sax esplode. Per un secondo pare fuori scala ma poi si piega di un semitono e rientra. Mi fa l’occhiolino. L’assolo ruota su sé stesso e sfreccia, salta come un funambolo tra le ottave, senza rete di protezione. Trattengo il fiato.

Tra le fiamme verdi vedo una dea. La pelle iridescente e salmastra. La voce come il drago delle rane. Raccontami ancora quella storia, chiedo. E va bene. Scopre i denti, mandorle ancora acerbe. Appoggio la testa sulla sua pancia, mi infila una mano tra i capelli e tasta le ciocche come se quella consistenza ancora la sorprendesse. Chiudo gli occhi. Bolle bianche e rosse mi inondano il campo visivo, cerchi come di vetro soffiato che si espandono. Nel crepuscolo gli alberi si baciano? Vedo ortensie in fiore che delimitano un giardino per bambini zoppi. Sento come uno sfrigolio, identico in tutti i punti del mio corpo. Poi si interrompe. È sudata fradicia e ansima. Anche tua madre era una strega? Mi chiede d’un tratto. Si, rido. Alziamoci, ti prendo un bicchier d’acqua. Come ti sta bene questo vestito. Lei alza le spalle. A-B, A-B canticchia, cos’è un pentametro? Alcuni giorni sembrano sfilate, altri la fisso e non le importa. Possiamo rimanere a casa stasera? Decidiamo dove mettere la libreria? Ti va se cuciniamo la zuppa? Certo le ricette senza verdure non sono semplici. Senti a Tatiana per la spesa le scrivo così: piante no, frutta no, erbe di qualsiasi tipo no, carne si specialmente rossa, pesce ok.

Anne l’ho conosciuta in un appartamento ad Harlem dove ogni domenica fanno una jam session free jazz. La gente si porta le sedie da casa e quando finisce il posto dentro si piazza in corridoio o sta in piedi pur di rimanere ad ascoltare. Si sente odore di fumo e trench coats umidi. A una certa ora l’edificio è pieno e la musica si sente fino alle lavanderie al piano terra. Le sue dita spintonano l’armonia ai limiti estremi. Poi allargano le grate e la liberano. Fuori dal perno tonale dominante. Seguono secondi di scale spaventose e arpeggi al vetriolo. Stringo i denti. Guardo il pubblico.

Tra le fiamme verdi vedo una furia. Si infila una mano in gola ed estrae una spina bianca. Una lama mutaforma che urla, strappa e scioglie. Parole che si appiccicano addosso e ustionano a lungo. Tu non sei come me. Non sai neanche cosa vuol dire. Non ci provi abbastanza. Torniamo indietro senza parlarci. Le luci dell’autostrada rimbalzano sulla vernice dell’auto e i fari mi bruciano le pupille. Ma se chiudo le palpebre è ancora peggio. La casa pare un castello che ci tiene lontani. E se ci incontriamo è per caso, nel buio e al freddo.
Ritsos non so come faccia, martella su tasti lontanissimi con forza terroristica. Animato da una specie di febbre. Ogni terzo e quinto battito pungola il ritmo con un bastone elettrico e lo stordisce.

Tra le fiamme verdi vedo una furia. Il corpo corazzato da boccioli ossei. Gli occhi fasciati da garofani sanguinanti. Grappoli di bacche e amarene le infestano i capelli. Le orecchie sono protette da licheni appuntiti che si allungavo verso l’alto a formare palchi fioriti. Dalla piaga sulla schiena escono steli, zampe sottili come scheletri di farfalle, spruzzi di aghi di abete rosso, liane spettrali e asparagi dentati. Si sente un odore come di carne in decomposizione. Tu non fai che bere, dire stramberie e spaventarmi. E non ascolti, o non capisci. Non avrei mai dovuto venire qui. Si morde la lingua. Sei tu che non sai cosa vuol dire. Stringe i denti fino a vomitarsi in bocca dalla rabbia. La bava gocciola sul parquet. Penetra le doghe e le macchia di gigli.

Infine si calma, e non è meno pauroso. Le note diventano un vago tremolio di stelle. Fuggono e si nascondono dietro all’arpa labirintica. Ordino all’orchestra di accompagnarle come se le prendessero per mano. Quando capisco che sta per finire ho i brividi.

Tra le fiamme verdi vedo un bambino. Steso sul divano come se avesse la febbre. Non ti avvicinare. Si infila il cappotto e non torna a dormire a casa. Quella notte giro per il quartiere. Il giardino dove giocano a scacchi è chiuso. Mi siedo su una panchina di piazza San Jaume con il viso fra le mani. Un signore anziano mi si avvicina e inizia a bestemmiare contro il palazzo del comune. Questa città non è più come una volta, non c’è spazio per voi giovani. I miei figli sono dovuti andare a lavorare in Germania, dove fa sempre pioggia, e non li vedo mai. Tu di dove sei? Mi limito a scuotere la testa. Mi saluta battendomi delicatamente la mano sulla schiena. Forza dice. Alcuni ragazzi mi lanciano addosso delle lattine e sghignazzano. Un tipo con la barba mi chiede se voglio erba. Quando tiro su la faccia non mi ripete la domanda. A una certa ora ripiego in piazza San Miguel che è più tranquilla. Alle quattro mangio un gatto in un vicolo. Alle cinque torniamo verso casa insieme. Fa un po’ fatica a camminare, ma adesso profuma di arancia.

La nostalgia mi artiglia lo stomaco. Mi aggrappo a quell’ultima pagina. Gli strumenti abbandonano la scena uno dopo l’altro. E vorrei gridare fermi! Stop! Avete sbagliato, la dobbiamo rifare da capo! E invece è perfetta.

Tra le fiamme vedo una bambina. Oggi fissa la strada dalla finestra, c’è un’aria come di campagna. Cosa vuoi per colazione? Guarda quel tipo che strano, con quella maglia lunga e tutta colorata. Indica un passante. Mi rispondi? È uguale, fai tu. Esco dall’appartamento e fumo due sigarette di fila. Poi un’altra, finchè il sapore in bocca non è schifoso come il mio umore. Cammino fino alla spiaggia e guardo il mare. Penso all’immensa tristezza vegetale. Alla figa. Alla sismica indifferenza della terra. Siamo troppi, siamo pochi. Ogni secondo pare un’eternità. Ficco la mano nella sabbia. Le cose sono così fredde. Alcuni ragazzi giocano a pallone. Ehi amico che ti prende? Mi chiede uno studente erasmus in uno spagnolo stentato. Non lo so, dico io. Stasera c’è una festa al Razzmatazz, pieno di belle ragazze, dovresti venire. La vuoi una birretta? Sono le dieci di mattina. Gli sorrido, e lui pare ancora più preoccupato. A quel punto scatto in piedi e mi metto a correre. Arrivo sotto al portone di casa e quasi rompo la chiave dalla foga. Salto le scale a due a due. Infine entro, ma le rose sono già cresciute. Bianche come la mia pena.

Silenzio. Rimango immobile con le braccia ancora alzate. Stanchissimo e con la nausea.
Lorca si avvicina e mi sussurra all’orecchio «Tutto bene?»

Nelle fiamme verdi vedo tutto questo. Questi momenti sono solo miei e tuoi. Piccoli punti su una linea infinita. Oh ti prego, non dire così.
A volte mi sembra di vedere il tuo viso in posti improbabili, nelle fioriere al mercato o al parco della Cittadella. Anche solo un mezzo sorriso.

Sono passato davanti al mio appartamento dei tempi del conservatorio in Calle Escudellers e seduta lì davanti, su una sedia di plastica ingiallita, c’era la signora grassa del quarto piano. Mi ha allungato un volantino come a tutti gli altri passanti. Ma io mi ricordo di lei! Ho detto ad alta voce. Anch’io mi ricordo di te, tesoro. Mi ha risposto come fosse ovvio, sostenendo il mio sguardo.

Anche tu rivivi quegli istanti? All’improvviso sono lì e non riesco ad andarmene. Sei seduta in soggiorno, è pomeriggio. Stai leggendo Il Pescatore e la sua Anima di Oscar Wilde. O qualche altra raccolta di fiabe. Il sole filtra tra le finestre. E si vede che te lo stai godendo tutto. Metti giù il libro e alzi gli occhi, come per cercarmi.

Non diciamo niente ad alta voce, eppure ci diciamo tutto. L’universo trema sul suo stelo.

**

Immagine di Francesco D’Isa.

Dario Valentini (1993) ha pubblicato racconti per L’Indiscreto, Nazione Indiana, Minima&Moralia, Sugarpulp e altre riviste letterarie.

Ritorno al fascismo

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Sull’ultima pagina del Manifesto di oggi compare un bel pezzo, dal titolo “Una mano di calce”, di Marinella Salvi sull’unico campo di sterminio nazista in Italia, la risiera di San Sabba, a Trieste, nella quale, fino alla disfatta tedesca, molte centinaia di antifascisti, ebrei, comunisti e altri sono stati gasati e bruciati come nei più noti campi di Austria, Germania e Polonia. Ho visitato questo luogo vari anni fa e assicuro che l’aria che vi si respira e le cose e le attrezzature che ancora vi si vedono fanno rabbrividire come quelle che si vedono a Dachau o negli altri tristemente famosi campi di sterminio. Questo articolo della Salvi fa capire come gli scarni tentativi postbellici di “punire” i responsabili ben si inquadrino in quella che è stata, dal 45 in poi, la politica italiana di “epurazione”, così veniva detta, contro chi si era macchiato anche dei peggiori crimini fascisti e/o filonazisti. Politica e prassi a mio parere molto ben descritte nel libro recente di Francesco Filippi “Ma perché siamo ancora fascisti? Un conto rimasto aperto”, Bollati Boringhieri, recentemente venduto per una settimana con Repubblica. Nel 45 io avevo tre anni e da allora in poi ho vissuto in una famiglia sostanzialmente fascista, mio padre anzitutto, fascista fino alla morte, e mi ricordo il timore di allora di queste famigerate epurazioni, in realtà rivelatesi alla prova dei fatti quasi inesistenti, soprattutto dopo la imperdonabile amnistia decretata da Togliatti quando era ministro di grazia e giustizia nel primo governo De Gasperi.
Il tema della permanenza e dei pericoli della destra in Italia è stato anche trattato in un vecchio libro del mio indimenticato amico Franco Ferraresi, già ordinario di sociologia politica a Torino, purtroppo da tempo scomparso, “Minacce alla democrazia – la Destra radicale e la strategia della tensione in Italia nel dopoguerra”, Feltrinelli 1995.
I tempi che stiamo attraversando certo, da questo punto di vista, non ci consolano e temo molto fortemente che le prossime elezioni ci consoleranno ancora meno, salvo che la sinistra che pur ancora rimane in questo paese non smetta di continuare a litigare e a dividersi, come del resto è stato troppo spesso suo costume, ma si decida a mettere insieme un grande partito che riesca a comporne organicamente le varie componenti.

Dalla parte del maiale

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Foto di David Landgraf -Praga

di

Effeffe

 

 

In parte ispirato dalle magnifiche lezioni di Giancarlo Mazzacurati sul romanzo di Laurence Sterne, La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo
Per niente al mondo il farcimen myrtatum, potendo esso stesso pensare e dunque rendere conto dell’appropriazione indebita per quanto stabilita ad un prezzo più o meno negoziabile da altri, avrebbe permesso che dalla tradizione il suo preparato sostanziale si discostasse a tal punto. Perché, se è giusto che nel corso del tempo le cose possano trasformarsi attraverso riti e consuetudini arricchiti o impoveriti secondo circostanze senza per questo abiurare il censo del monimento, è pur vero che ciò debba avvenire entro certi limiti e non alla cazzo di cane, metodo foriero generalmente di sventura, soprattutto per il maiale.

La pietra dello scandalo

L’histoire de su porceddu que nous proposons c’est donc notre contribution à une histoire de longue durée du cochon en Sardaigne. En même temps, elle aimerait contribuer à une histoire européenne du cochon, bien synthétisée dans le travail de Michel Pastoureau, Le Cochon, Histoire d’un cousin mal aimé(2009), et par d’autres côtés reprise dans le volume de Roberto Finzi, L’Onesto porco (Le Cochon Honnête) (2014).
Diavolo rosso
Art. 4 bis I comunisti dandy e il fuoco di Sant’Antonio
I comunisti dandy sono immuni talvolta sì altre volte no, dipende.
Se è vero che assecondano il passo e il pasto con le stagioni, possono inciampare nella selva dei piccoli grandi dolori dell’esistenza inavvertitamente e controvoglia, ma non per questo scorgere nella caduta, mai di stile, un qualche fallimento che non sia salutare. Scrive il gran maestro comunista dandy irlandese Samuel Beckett:
Ho sempre tentato. Ho sempre fallito. Non discutere. Prova ancora. Fallisci ancora. Fallisci meglio.
Non si deve allora cogliere nella malattia altro che il valore intrinseco della convalescenza e assaporare, in quello sciopero dei sensi tutti, la gioia segreta di una sospensione a oltranza delle ostilità. I comunisti dandy sono contro l’immunità parlamentare perché muniti di parlamento autonomo e operaio, anarco-trafficanti di una disciplina della vita che non articoli reclama né sindacati, ma una convinta e generosa partecipazione al diritto di non fare un cazzo anche quando la cosa è mal vista, o percepita come fallimento. Quando la frusta del santo colpisce allora i fianchi o lascia tra capo e collo la sua impronta, la
preghiera da sussurrare nel bel mezzo del bombardamento a pioggia di b12 e antivirali non è al detto Santo Antonio Abate, ma al porcello che lo accompagna. Potente fustigatore del male, temuto avversario dei peggiori integralismi, l’animale, puro e memore della sua Odissea e della Troia sconfitta, salverà ogni comunista dandy dal bruciore arrecando bene e grazia con il lardo. I comunisti dandy si sa che da sempre preferiscono l’Hard al Soft, essendo nemici ancestrali delle socialdemocrazie liberali e dei centristi, più Penthouse che Pentapartito. Pantagruele di Rabelais, del resto, ripercorre proprio la sacralità del carnem valere, magnifica cuccagna del Porco e delle regole stravolte delle gerarchie come l’eccellente Michail Bachtin, non il medicinale, aveva provato.
Dal campo bruciato dal fuoco sorge allora una nuova consapevolezza delle cose, terra fertile di florilegi, uno sguardo sul mondo affrancato dal bene e dal male, una coscienza critica e galeotta capace di percorrere senza subire il colpo al corpo, gli sbalzi di temperatura degli inferi ardenti e dei glaciali paradisi. La storia, ma è forse leggenda,
vuole infatti che il santo per riscaldare i suoi avesse deciso di prendere il fuoco proprio dai diavoli che vedendolo arrivare con il porcello assai si inquietarono e a loro sbarrarono il cammino. Il porcello però all’intrasatta si era infilato tra i diavoli e creò un tale scompiglio nell’inferno che quasi implorarono il santo di portarselo via. E prendi l’uno, guarda l’altro, e mò dov’è?, maledetto puorche, il Santo riuscì a trafugare con il bastone una fiamma e a portarsela fuori.
Ecco perché i comunisti dandy accordano alla cucina grassa delle vere province, alla coteca, lo statuto di guaritrice dei malanni, forza che è insieme volontà di potenza e riposo, malattia e convalescenza, sapendo in cuor loro che ogni bagliore notturno nelle boscaglie e tra le colline è segno di bivacco e focolai di festa e rivolta.
Meglio maiale che fascista (Porcorosso)

Lettera n° 15 : 15 gennaio 1927 : a Tatiana

Carissima Tania,
l’ultima lettera da te inviatami ha la data del 4 gennaio. Mi hai lasciato 11 giorni senza tue notizie. Nelle condizioni in cui mi trovo, ciò mi preoccupa molto. Credo sia possibile mettere d’accordo le esigenze reciproche, con lo impegno da parte tua di inviarmi almeno una cartolina ogni tre giorni. Io ho già incominciato a seguire questo sistema. Quando non ho argomento per una lettera, e per me ciò è il caso piú comune, ti invierò almeno una cartolina, in modo da non tralasciare nessuna corsa postale: la vita trascorre qui monotona, uniforme, senza sbalzi. Dovrei forse descriverti qualche scenetta di vita paesana, se avessi del buon umore a sufficienza. Per esempio, potrei descriverti l’arresto di un maiale, trovato a pascolare illegittimamente per le strade del paese e condotto regolarmente in prigione: il fatto mi ha divertito enormemente, ma sono sicuro che né tu né Giulia vorrete credermi; forse mi crederà Delka quando avrà qualche anno in piú e sentirà raccontarsi la storiella insieme alle altre dello stesso tipo (quella degli occhiali verdi, ecc.)
ugualmente vere e da credersi senza sorrisi. Anche il modo di arrestare il maiale mi ha divertito: lo si prende per le zampe di dietro e lo si spinge avanti come una carriola, mentre urla come un indemoniato. Non ho avuto modo di avere precise informazioni sul come sia possibile identificare l’abusività del pascolo e del transito: penso che i sorveglianti all’igiene conoscano tutto il bestiame minuto del paese. Un’altra particolarità di cui non ti ho mai fatto cenno è che non ho ancora visto in tutta l’isola nessun mezzo di locomozione all’infuori dell’asino, magnifico animale invero, di grande statura e di una domesticità notevole, che indica l’indole buona degli abitanti: al mio paese gli asini sono mezzo selvaggi e non si lasciano avvicinare che dai padroni immediati. Ancora, in linea animalesca: ho sentito ieri una magnifica storia di cavalli, raccontata da un arabo qui confinato.
L’arabo parlava l’italiano in modo alquanto bislacco e con molte oscurità: ma nell’insieme il suo racconto era pieno di colore e di forza descrittiva. Ciò mi fa ricordare, per una associazione molto strana, che ho saputo essere possibilissimo trovare in Italia il famoso grano saraceno: degli amici veneti mi dicono che esso è abbastanza comune nel Veneto per fare la polenta.
Ho cosí esaurito un certo stok di argomenti trattabili. Spero di averti fatto un po’ sorridere: mi pare che il tuo lungo silenzio debba essere interpretato come una conseguenza di melanconia e di stanchezza e che fosse proprio necessario farti sorridere. Cara Tania, devi scrivermi, perché solo da te io ricevo lettere: quando mi manca la tua corrispondenza cosí a lungo, mi pare di essere ancora più isolato, che tutti i miei rapporti col mondo siano spezzati. Ti abbraccio affettuosamente.
Antonio

Porgi l’altro guanciale

Le lard de Colonnata c’est les esclaves d’une colonie romaine qui se sont inventé ça pour tenir début dans les carrières de Carrare et au Moyen Age c’est cela qui a sauvé la peau des travailleurs du marbre pendant le coup d’arrêt dans l’extraction de la pierre causé par la crise. Quoi ? Vous ne me croyez pas ? Comment vous dites ? Je n’ai pas entendu. Une légende, ah oui comme celle que chacun de propriétaires de la région propagande à propos de ces gisements, en disant que c’était précisément là que Michel-Ange allait récupérer ses pierres. Ah, non, la vous vous trompez grave, messieurs, ce n’est pas comme l’histoire de Garibaldi – oui vous savez ça que en Italie il n’y a pratiquement pas de région, ville, village, un hameau que n’ait pas sur sa façade une plaque en laiton comme quoi le générale à la chemise rouge c’est bien là qui avait passé la nuit, et que si l’on croyait vrai, et bah, Garibaldi aurait du vivre minimum mille ans si on sommait toutes les nuits déclarées. Ici ce n’est pas le cas, c’est la vérité sculptée dans le marbre, Michel Ange se procurait à Colonnata son marbre à lui, et moi je m’appelle Michelangelo, Michelangelo Cocchinone de Colonnata, à cause de ça. Je parle de mon prénom, là, et oui je suis le petit-fils de Michelangelo. Le prénom on se le passe de grand père en petit fils depuis des siècles. L’autre prénom ? Comment ? Ah j’ai compris vous voulez dire et mon père ? Ah bon mon père lui s’appelait Leonardo. Pourquoi il s’appelait ? Parce qu’il est mort et d’ailleurs je suis descendu à Rome pour le venger. Comment  vous dites ? Qui l’a tué ? C’est la poussière qui l’a tué. C‘est l’art et ses caïds, ses assassins. Tous exterminés, mon père, tout comme mon grand père et ainsi de suite jusqu’à la nuit des temps, jusqu’aux esclaves portés par les romains peut- être, par l’antica piaga phtisie des mineurs. Vous savez, la silicose, ça concernait tous, autant ceux qui étaient sous terre, autant ceux qui comme nous étaient en plein air. Les gueules jaunes c’étaient ceux qui travaillaient l’argent, noires étaient les gueules des ouvriers du charbon et nous, bah nous les gueules blanches non ?

 Le Cartel Contre MichelAngeFrancesco Forlani : Le Décalogue d’un carriériste

Meglio maiale che pesce ( à suivre )

Gioco a rate

2

di Andrea Guano

Sapevo benissimo che nella tabaccheria di Gino non avrei dovuto metter piede, le sigarette avrei dovuto prenderle all’apposita macchinetta, tenermi insomma lontano da quel negozio come dalla peste, invece, benché immaginassi che avrei dovuto sorbirmi una discreta coda, e che quella coda, con indosso la mascherina che mi intrappolava il volto, mi sarebbe costata cara, inducendomi a pentirmi di non essermi diretto alla macchinetta, di lì a poco  avrei sicuramente inveito contro di me e contro il Governo, anzi più contro il Governo che contro di me, perché il Governo quella mascherina ce l’aveva imposta a forza per salvaguardare la nostra salute, quando invece della nostra salute non gliene importava un fico. Abbiamo dei governanti indecenti, mi dissi guardando quante persone c’erano in fila. Ne contai otto affrettando il passo per collocarmi al nono posto. Guardai piazza Guicciardini, nella quale passavano diverse macchine e due bus, due 37, uno a salire fino al capolinea, l’altro a scendere, ma soprattutto guardavo i passanti per individuare chi stava dirigendosi verso la tabaccheria di Gino. Gli ultimi passi li feci di corsa anticipando una vecchietta di un paio di metri. La guardai di sguincio, vergognandomi per il mio comportamento: lei, per tutta risposta, anziché fulminarmi con gli occhi mi rivolse uno sguardo luminoso, pieno di comprensione. Abbozzai un sorriso, lottando contro la tentazione di defilarmi in tutta fretta per la pessima figura. Quanti minuti avrei dovuto attendere? Dieci? Un quarto d’ora? Sperai il minor tempo possibile, perché se per disgrazia avessi dovuto attendere un quarto d’ora o, peggio, venti minuti mi sarei ritrovato col volto inondato di sudore. Tutta colpa della mascherina, accidenti! Quando diavolo ci avrebbero permesso di girare col volto libero da museruole, senza correre il rischio di beccarci tre o quattrocento euro di multa? Forse mai, mi diceva la zia Lina, che la mascherina se la portava anche a letto. Ma come, mai, dicevo io angosciato. Il nostro Governo vuole così, mi diceva lei, mesta. Già, pensai contando quattro persone davanti a me. Mi tirai giù la mascherina di due dita, liberando il naso e asciugandomi con un fazzoletto il sudore che colava copioso sulla fronte. Ebbi la tentazione di togliermela, quella dannata museruola, e di respirare a pieni polmoni, ma desistetti per il timore che un poliziotto in borghese si accorgesse del mio gesto ribelle e mi punisse senza alcuno scrupolo. Due persone. Ancora due persone e poi ci siamo, Thomas, mi dissi. Mi voltai e vidi altre quattro persone che aspettavano con maggiore pazienza di me. Cercai di pensare alla squadra del mio cuore, il Genoa, e ai giocatori che erano costretti a stare nelle loro case perché colpiti dal Covid. Speriamo che ne vengano fuori alla svelta, altrimenti rischiamo di perdere quattro o cinque partite, pregiudicando il nostro campionato. Stetti a pensare a questa sciagurata ipotesi, ed ero talmente assorbito dalla preoccupazione che non mi accorsi che era il mio turno di entrare nella tabaccheria. Fu la vecchietta alle mie spalle a spronarmi dicendomi, giovanotto, è il suo turno. Entrai nella tabaccheria, andai al banco, ordinai un pacchetto di Diana, Gino mi salutò con un gioviale salve Thomas. Io risposi al saluto, presi le sigarette e il resto, guardai i soldi che mi erano rimasti nel portafogli, sì e no cinquanta euro, ma quei cinquanta euro erano i soldi della rata della friggitrice che avevo appena acquistato da Amazon, e quindi si può dire che non erano più soldi miei. Ormai non avevo quasi più niente di mio, non la casa, non uno straccio di macchina, anche se il pensiero di comprarne una, a rate, continuava a rimbalzarmi in testa, quando non avrebbe dovuto neppure passarmi nell’anticamera del cervello. Soprattutto negli ultimi mesi ne avevo fatto un sacco, di rate, al punto che potevo dire di esserne sommerso. Rate su rate. Avevo preso il frigorifero, uno stereo, un notebook, e altri mobili, roba piuttosto scadente, ma che mi restituiva la balzana idea che l’appartamentino in cui abitavo fosse più accogliente. Non so se quest’idea la dava anche ad altri, ma questo m’importava di meno, visto oltretutto che frequentavo pochissime persone. Metà del mio stipendio se ne andava in rate, e tirare avanti diventava sempre più difficile. Se non cambia qualcosa, non arriverò a fine mese, pensai. Mentre mi infilavo in tasca le sigarette, occhieggiai una delle tre slot-machine presenti nel locale. Una di esse era libera; le altre due erano occupate: una, la più malandata, da una donna in là con gli anni; l’altra, la più nuova e smagliante, da un uomo sulla cinquantina. Imbavagliati nelle loro mascherine entrambi i giocatori giocavano con grande attenzione. Tirai fuori i cinquanta euro dal portafogli e me li feci cambiare in monete. Avresti dovuto andartene a casa, e liberarti da questa orrenda museruola. Non avresti dovuto farti cambiare i cinquanta euro in monete, mi dissi, mentre mi avvicinavo all’unica slot machine libera, una slot che aveva già fatto il suo tempo ma che avrebbe potuto riservarmi gradevoli sorprese. Stai qui, prigioniero di questa mascherina, per ottenere un diverso tipo di aria, forse più necessaria di quella che sei costretto a respirare.  Senza pensarci su un attimo inserii dentro  la feritoia la prima moneta da un euro. Premetti il pulsante e subito la ruota cominciò a girare vorticosamente. Pregai che si allineassero tre re, il che avrebbe voluto dire che avrei udito un tintinnio sorprendente, e sarebbero uscite una montagna di monete da uno o due euro, pari a cinquecento euro, il che avrebbe voluto dire che l’indomani sarei corso da Unieuro e mi sarei comprato un TV Samsung da quarantadue pollici, 4K, che avevo visto qualche giorno prima su un volantino che mi ero ritrovato nella sgangherata cassetta della posta. Questo televisore me lo comprerò, mi ero detto appena l’occhio mi ci era caduto sopra. Era un televisore magnifico, con due prese USB e quattro prese HDMI, mentre in casa avevo ancora una baracca da ventotto pollici, di quelli antidiluviani, con il tubo catodico che non esistevano più nemmeno negli istituti per anziani. Quel vecchio televisore lo avevo in casa da quasi sedici anni, e ancora non avevo potuto comprarmene uno nuovo. Forza, forza, mi esortai asciugandomi la fronte con il braccio e subito battendo un pugno sulla slot machine, come se avessi il privilegio di  bloccare i simboli o, viceversa, accelerarne il percorso per poi inchiodarli al momento giusto. Ecco che la ruota rallentava e no, non si allinearono tre re, ma tre simboli che non avevano niente a che fare uno con l’altro. Ma perché non ho avuto un po’ di fortuna, accidenti a me, perché se non si sono affiancati, se non tre re, almeno tre fate, il che voleva dire che sarebbero scese molte meno monete, ma avrei raggranellato duecentocinquanta euro, che è pur sempre una discreta sommetta. Cacciai rabbiosamente un’altra moneta nella feritoia, e di nuovo picchiai sul pulsante e di nuovo, ancora e ancora, i simboli girarono all’impazzata. C’erano almeno dieci tipi di simboli, dai re alle fate, dai bastoni alle fragole, e dovevano allinearsene almeno un paio per vincere da uno a dieci euro. Solo coi tre simboli allineati si vinceva, non con due, tre simboli allineati equivalevano, a seconda dei simboli, da cinquanta a cinquecento euro. Con cinquanta euro non risolvo nulla, mi dissi, ma se le vincessi per cinque o sei volte il discorso potrebbe cambiare. Con trecento euro non compreresti il Samsung che sogni da qualche mese, ma risolleverebbero la tua situazione. Hai debiti con Adolfo, un tuo vicino di casa, e ventidue euro li devi al fruttivendolo. Ma basterebbe che per una volta, una sola volta si allineassero tutti e tre i re col loro sorriso beffardo e l’armatura lucente e potresti comprarti il Samsung, e finalmente vedresti la TV come si deve, non più immagini ridotte e sbiadite con i colori sfuocati, no, il telegiornale lo vedresti in modo magnifico, e del volto di Mentana vedresti persino le borse sotto gli occhi e le rughe, e la domenica i campi di calcio risalterebbero in modo magnifico, l’erba sarebbe verdissima, l’hai già vista alla TV del bar dove vado spesso, la domenica, quando il Genoa gioca in trasferta, a vedere la partita. Insomma, la vita ti sembrerebbe sicuramente meno grigia e non avresti più il morale sotto ai piedi, o meglio il morale si fermerebbe alle caviglie, e non scenderebbe inesorabilmente. I tre rulli rallentarono la loro corsa, prima quello di sinistra dove, alleluia, si fermò un re, e poi il secondo re si allineò al suo compagno, e già esultavo dentro di me,  già stavo per fare un salto col pugno chiuso, e il terzo rullo girava ancora, ed ecco il terzo re, e io assestai un pugno poderoso alla slot come per bloccare quel re, per inchiodarlo all’istante. Lui non aveva la mascherina, mentre io sì. E Gino, il tabaccaio, disse a voce alta, ehi, calmi, lì alle slot. E tu, Thomas, metti a posto la mascherina, mica voglio prendere una multa per colpa tua. Ma io quasi non lo sentivo, un mormorio incessante smorzava persino i pensieri, del resto il locale non era zeppo di clienti come una volta, ma nemmeno si poteva dire che fosse vuoto. Sistemai la mascherina sopra al naso, e fissai lo sguardo sul display, e solo quando vidi il terzo re scendere di una posizione sotto ai suoi simili assestai un calcio alla slot machine. Avevo speso tre euro, poca roba, ma avevo avuto modo di vedere che aria tirava. Tira una brutta aria, Thomas, pensai. Ogni sera i telegiornali lanciano notizie sempre più allarmanti, aumentano le terapie intensive e aumentano i morti. Epperò persone note come Briatore o come Berlusconi sono guarite nel giro di quindici giorni, e qualche giocatore del Genoa dei venti contagiati iniziali, può per fortuna tornare a giocare dopo neppure dieci giorni di isolamento. Sbattitene i coglioni e togli questa dannata mascherina che ti ammorba, pensai e subito mi tolsi la mascherina, o meglio la posizionai fra la gola e il mento. Dovresti smettere finché sei in tempo, sei pieno di debiti, ricordati, mi dissi. In genere capisci subito quando non è giornata, un mesetto fa quaranta euro le hai guadagnate, anche se le volte successive ce le hai lasciate abbondantemente con gli interessi, mi dissi mentre inserivo la quarta, poi la quinta e la dodicesima moneta. Mai che due simboli si allineassero. D’accordo che col gioco non si può mai dire, questo lo hai capito, basta solo un attimo, un pizzico di fortuna, e potresti vincere, e magari ti troverai ad aggiungere circa cinquanta euro ma alla fine il Samsung te lo porterai a casa. Devi sperare, pregare e sperare, mi dissi mentre infilavo nella feritoia prima la diciottesima, poi la diciannovesima moneta, ma nulla, i simboli parevano avercela uno con l’altro, per cui a un bastone si affiancava una fragola ma mai due bastoni insieme, mai due fragole che mi avrebbero permesso di incassare quattro euro, quattro euro che sarebbero stati una manna per risalire la china. Ormai era circa una mezz’ora che ero nella tabaccheria di Gino, nella quale ero tornato a comprare le sigarette e anche buste e francobolli e caramelle, avevo già perduto trentacinque euro, una rata della TV l’avevo perduta, pestavo la destra sul pulsante e i simboli vorticavano e non c’era nulla da fare, ancora una volta mi resi conto che avevo la stessa sfortuna di mio padre, per non dire quella di mio zio, entrambi giocatori incalliti sia pure di infimo livello, ed entrambi con le mani tragicamente bucate. Io non sono come loro, mi ero detto più volte, ma altrettante volte, dopo una pausa di riflessione, avevo dovuto riconoscere che non solo ero come loro, ma anche peggio, visto che loro un lavoro fisso lo avevano, mentre io no, io un lavoro fisso non l’avrei avuto mai, solo dieci anni prima, ossia prima che venisse introdotto l’euro, rovinandoci completamente, ma erano altri tempi. Allora c’era la lira che non sarà stata una moneta magnifica ma consentiva un livello di vita dignitoso, mentre adesso, di lavoro non se ne trovava quasi se non d’estate, come stagionale, nelle località di villeggiatura, tipo Rimini o Riccione. Ma quest’anno, per via del Covid, sono stato lasciato a casa e la zia Lina s’è fatta pure un pianterello. L’anno prima invece, prima che il Covid ci rovinasse misteriosamente l’esistenza, avevo tentato l’avventura, ma era stata un’esperienza terribile, devastante, che mi aveva lasciato prostrato in modo indicibile nel fisico e nel morale. La mia sola fortuna era l’esistenza di mia zia Lina, pensai mentre pestavo sui tasti della slot. Mia zia Lina mi allungava duecento trecento euro al mese che io, regolarmente, spendevo perlopiù al gioco, nella vana e illusoria speranza di moltiplicarli. Ma buona parte di quei soldi li spendevo in cose futili. Se avessi fatto una lista degli oggetti o elettrodomestici spesso inutili che avevo comprato sarebbe venuta fuori una lista lunghissima, che forse non sarebbe rimasta dentro un foglio A4. Perché non ti dai una regolata, Thomas, mi dissi mentre premevo e premevo il tasto, vincendo solo dieci euro e facendomi quasi esultare. Dovresti smetterla di spendere tutti questi soldi, mi dissi dando un’occhiata all’orologio da polso, un magnifico Sector No Limits, che mi era costato la bellezza di duecentotrenta euro. Premetto che io ho sempre giocato, ma da quando si era diffuso il Covid, da quando tutti i giorni il Presidente del Consiglio, il Ministro della Salute, i tecnici della Task Force davano voce a un bollettino di guerra segnalando i positivi, i guariti, i ricoverati in terapia intensiva e i morti, sentivo il bisogno di gratificarmi con svariati acquisti. Ma, onestamente, faceva effetto la cura? A essere sincero direi di no, il pensiero del Covid, di un virus che o prima o poi avrebbe potuto infettarmi, continuava a attanagliarmi la testa, anche se in modo più lieve rispetto ai mesi di Marzo, Aprile, Maggio quando il Covid si era scatenato e sembrava voler ghermire le nostre vite. L’obbligo di restare chiuso in casa mi aveva messo in ginocchio, ero vuoto, spaventato, indifeso, tanto più che non potevo entrare in un bar o in una sala giochi, come ero solito fare. In quel periodo orrendo ricordo di essermi sentito come se fossi in una camera di ospedale, mi mancava l’aria, come se i miei polmoni fossero in difficoltà,  avevo persino pensato di sottopormi a un tampone. Però me l’ero sgamata, anche grazie a svariati giochi: il solitario, monopoli, gli scacchi. Accendevo il portatile e giocavo contro un avversario immaginario. E perdevo, perdevo, inesorabilmente perdevo. Sicché riuscivo a respingere la tentazione di giocare a poker o alla roulette, cosa parecchio dura visto che quel periodo mi era parso interminabile. Poi, un bel giorno ci era stata concessa la libertà di uscire, i negozi avevano riaperto, idem i ristoranti e i mercati. Non so voi, ma a me era parso tornare a rivivere, anche se gli altri problemi, la mancanza di un  lavoro fisso e, con esso, la mancanza di una ragazza, continuavano a esistere e rovinarmi la vita. Dovresti avere più soldi, Thomas, mi dicevo ogni giorno. Solo i soldi potrebbero trarti  fuori dall’abisso in cui sei caduto. Ma anziché guadagnarli,  i soldi, li spendevo nel più bieco dei modi. Un giorno compravo una pianta per abbellire il mio poggiolo deserto, l’altro compravo una sciarpa del Genoa, il terzo un paio di forbici. I lavoretti che di tanto in tanto mi capitava di svolgere, come ad esempio il portiere di notte in sordidi alberghi nei vicoli, oppure lo scaricatore di frutta e verdura ai mercati generali, o ancora il fattorino per aziende che erano ben lontane dall’idea di assumere in pianta stabile del personale e si avvalevano di personale precario e variegato, non mi avrebbero mai consentito di soddisfare i miei bisogni. Quindi, in attesa che si compisse il miracolo e che qualcuno mi offrisse un posto di lavoro che mi permettesse di guadagnare uno stipendio decente, avevo bisogno di un colpo di fortuna e capivo, eccome se lo capivo, che per guadagnare una somma ingente avrei dovuto tentare altre strade, come il gioco del Totocalcio a cui, il Giovedì, mi dedicavo anima e corpo, o, ancor meglio, tentare la fortuna con la lotteria dell’Epifania. Compravo puntualmente biglietti su biglietti di gratta e vinci, ma non avevo mai vinto più di cinquanta euro. Chiaramente le mie risorse economiche, nonostante il generoso aiuto di zia Lina, non erano sufficienti a raggiungere i miei obiettivi, per cui avevo dovuto più volte ricorrere a quei santi della Agos, i quali, nonostante non avessi un lavoro fisso, mi avevano generosamente concesso prestiti su prestiti, grazie ai quali, momentaneamente, riuscivo a barcamenarmi. La voce delle operatrici della Agos mi era più familiare di quella di mia zia Lina. Capivo bene mio zio che era un noto scialacquatore, tanto che finì la sua esistenza in un ospizio per poveri dove aveva sì trovato un piatto di minestra da mangiare e un letto nel quale dormire, contentandosi di giocare cifre risibili con altri spiantati come lui. Alla fine, però, era morto solo come un cane, non assistito da nessuno, neppure da un prete, che pure lui odiava. Più o meno identica sorte aveva avuto mio padre che, è vero, aveva un lavoro fisso, ma il desiderio di un tenore di vita superiore alle sue possibilità, avevano indotto a cercare prestiti su prestiti. Capivo anche mia madre che, dopo anni di sofferenza, aveva letteralmente cacciato di casa suo marito, ossia mio padre, rinunciando al suo stipendio, costringendosi a svolgere lavori nelle case e ad assistere donne e uomini sì acciaccati e invalidi ma alla fin fine più in forma di lei. La nostra è sempre stata una famiglia che ha desiderato vivere al di sopra delle proprie possibilità, e alla fine si è irrimediabilmente rovinata, pensai pestando sui tasti della slot. Presto esaurii i cinquanta euro destinati a pagare una rata alla Agos, e allora fui costretto a chinare la testa, a umiliarmi chiedendo un prestito al tabaccaio che, sia pure con qualche perplessità e reticenza, mi concesse. Te li do al più presto, Gino, fidati, gli dissi. D’accordo, Thomas, però mi raccomando: non tirarmi il pacco. Tornai alla slot e di nuovo ingaggiai una lotta senza esclusione di colpi. Di tanto in tanto vincevo cinque o dieci euro, ma mai avevo la soddisfazione di vincerne cinquecento o mille, che era il massimo della cifra che quelle slot potessero elargire. Mi stavo accorgendo che il mio sogno di acquistare il Samsung quarantadue pollici grazie alla slot stava diventando una vera e propria chimera. Non ce la farai mai, Thomas, la sorte come al solito ti è avversa, mi dissi sistemando la mascherina sul naso. Dopo neppure mezz’ora fui di nuovo costretto a ricorrere alla generosità di Gino, il quale mi elargì altri cinquanta euro in monetine che riempirono  un bicchierone di plastica. Mi battevo come un leone contro quella macchinetta mangiasoldi, ma lei non era generosa e altruista come Gino, lei era egoista e avidissima, ingurgitava i miei euro senza nessuno scrupolo di coscienza e senza neppure ringraziarmi, io a volte perdevo la pazienza e diventavo aspro, addirittura cattivo arrivando ad assestarle dei pugni ai fianchi per indurla a più miti consigli, mica chiedevo la luna, chiedevo solo cinquecento euro, non di più, neppure mille euro, solo cinquecento santa madonna, ma la slot era testarda, direi persino ottusa in questo diniego assoluto a voler elargirmi ciò che chiedevo. Ancora una volta ricorsi a Gino, e il buon Gino, pur non essendo entusiasta, mi riempì il solito bicchierone di monetine da uno o due euro, che io arraffai senza ritegno. Ma la slot era implacabile, era più forte di me e dei miei due compagni di gioco che mi erano a fianco, uno a destra l’altra a sinistra. Anche loro credo che non fossero molto fortunati, ma di tanto in tanto qualche loro urletto di gioia mi capitava di sentirlo, mentre io no, io mi inabissavo come mi ero sempre inabissato, il fondo è sempre stato il mio habitat, non il sole, la luce, la felicità, ma il buio, il fondo, l’oscurità. Mi sentivo come se fossi in croce, mentre la tabaccheria pullulava di clienti i quali parlavano a voce alta, scoppiando in qualche risata, compravano sigarette, gratta e vinci, buste e francobolli, caramelle, dimentichi di me, della situazione tragica in cui mi trovavo. Ti comporti proprio come si sono sempre comportati papà e lo zio Stefano, anzi, forse sei anche peggio, meno male che c’è zia Lina, l’unica mosca bianca in famiglia, visto che lei è costruttiva, positiva, risparmiatrice e generosa. Se non ci fosse lei sarei già in mezzo a una strada a chiedere l’elemosina, sarei a un angolo di strada a sperare nel buon cuore dei passanti, invece grazie a lei sono qui, ostinato, stupidamente ostinato, anche se ormai ho capito benissimo che la TV Samsung dovrò scordarmela e rimandarne l’acquisto ancora una volta. Ero talmente assorto nella lotta contro la slot che non sentivo più niente: sparì il brusio dei clienti, non vedevo più i compagni di gioco al mio fianco. Vedevo solo i simboli che ruotavano e ruotavano ma mai, dico mai, si allineavano. Eravamo soltanto io e la slot in una sorta di lotta all’arma bianca. Avevo già le ginocchia per terra, e forse mi sarei abbattuto sul pavimento se non avessi sentito un colpetto sulla spalla. Thomas, adesso devo chiudere, mi disse Gino con benevolenza. Mi staccai dalla slot con sofferenza. Mi raccomando, Thomas, ricordati i soldi che mi devi. Certo, dissi come in trance. Ero in uno stato di avvilimento che conoscevo, ma che ogni volta che mi piombava addosso faceva danni. Uscii dalla tabaccheria dicendomi: sei proprio come tuo padre e tuo zio, Thomas, forse anche peggio. Sei inguaribile. Se zia Lina sapesse cosa combini con i suoi soldi, ne avrebbe un dolore indicibile. Mi accesi una sigaretta, indeciso sul da farsi. Andarmene a casa o… Non volevo rinunciare al Samsung. Mi venne in mente il bar in fondo a via Bertuccioni. Anche quel bar, lo ricordavo bene, aveva le slot. Non esitai un attimo e, tirandomi giù la mascherina,  imboccai la discesa.

Fabio Orecchini: Malbianco

1

 

«piccola orazione / che nessuno abita»

Malbianco di Fabio Orecchini è il quarto titolo della nuova serie dei Cervi Volanti, la collana di scritture poetiche che curo insieme a Giuditta Chiaraluce all’interno del progetto Edizioni Volatili.

«Libri come laboratori, primi confronti, materie pensanti, montaggi e scavi attraverso la carta; libri senza profitto, in tiratura limitata, consegnati interamente agli autori e alle autrici, che ne gestiscono liberamente il transito (esoeditoria); libri evidenti nella loro invisibilità, indirizzati a chi saprà ospitarne l’implicita consegna; libri col solo intento di essere vigilie per una geografia del dopo-diluvio.»

Pubblico qui alcune pagine in anteprima. Le partiture visive sono di Fabio Orecchini. La copertina è di Giuditta Chiaraluce.

«Malbianco è sinopia d’Alcesti al vetrino,  grafi in sanguigna, unione in fasci di ife, per un teatro della micosi.»

Diario della pandemia dall’Himachal Pradesh #5

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di R. Umamaheshwari 

R. Umamaheshwari è una storica e giornalista che vive in India. Ha pubblicato When Godavari Comes: People’s History of a River (Journeys in the Zone of the Dispossessed), Aakar Books, New Delhi, 2014; Reading History with the Tamil Jainas: A Study on Identity, Memory and Marginalisation, Springer, 2017 e From Possession to Freedom: The Journey of Nili-Nilakeci, Zubaan, New Delhi 2018. Un anno fa ha cominciato a scrivere un diario della pandemia dall’Himachal Pradesh che pubblichiamo a puntate. Qui la prima, qui la seconda, qui la terza, qui la quarta. Quella che segue è la quinta.

 

Raccoglitori di immondizia in una Metropoli

Lakshmi e Gopal, che appartengono alla comunità dei Madiga (il rango più basso del sistema delle caste) lavorano come raccoglitori di immondizia a Hyderabad, il posto in cui stavo. Sono venuti in città da Perivili, un villaggio a circa cento chilometri da Kurnul (nella regione Rayalaseema dell’Andhra Pradesh), più o meno quindici anni fa.

Inizialmente lavoravano come lavoratori occasionali, disposti a fare ogni tipo di lavoro (portare carichi di sabbia, ghiaia, etc. per siti di costruzione, o altri singolari lavori), ma il lavoro non arrivava ogni giorno. Così circa dieci anni fa hanno deciso di diventare raccoglitori di immondizia, perché pensavano che questo lavoro avrebbe dato loro un reddito più sostenibile.

Hanno cominciato con un risciò spinto a mano, e poi hanno comprato un pick-up di seconda mano. Il padre di Gopal è un contadino senza terra tornato al suo villaggio. I figli della coppia, tre di loro, sono nati a Hyderabad. Nessuno di loro va a scuola. Non c’è un commento che non suoni retorico: povertà nera, nonostante le scuole pubbliche che offrono istruzione gratuita. Ci sono infatti altre spese, correlate al mandare i figli a scuola. E questo non riguarda i loro figli.

Questa coppia, come molte altre, non ha un conto in banca e, per qualche ragione, neanche una carta di razionamento (nella città…ce l’hanno invece nel loro villaggio). Così i dodici chili di riso forniti ai poveri dal governo dello Stato (del Telangana, poiché Hyderabad è la capitale del Telangana) non li ha raggiunti.

Vivono in una baraccopoli, in una località chiamata Moulali, dove la maggior parte della gente è impegnata nella stessa attività: pulire le strade e raccogliere l’immondizia o gli stracci. Per inciso, questo particolare posto è stato identificato come una zona rossa del Covid, ed è stato isolato. Una località con una popolazione per lo più musulmana, che era stata blindata dopo che, a quanto pare, pochi residenti del luogo, che avevano partecipato a un raduno di Musulmani a New Delhi a metà marzo (il Tablighi Jamaat) erano stati trovati positivi ai controlli. Questa località ha così idealmente seguito lo stesso destino di altre località ovunque in India, con relativa popolazione musulmana, nell’essere dichiarata zona rossa, man mano che i partecipanti al meeting di Delhi venivano testati e trovati positivi ai tamponi.

Una delle caratteristiche delle zone rosse è che il coprifuoco è totale. Alle persone non è consentito di uscire di casa per nessuna ragione al mondo. Ma questo non vale per Lakshmi e Gopal, perché senza di loro, dopotutto, la spazzatura della middle class si accumulerebbe in alte pile e causerebbe problemi igienici per gli abitanti della zona. Il fatto che Lakshmi e Gopal rischino di contrarre così il Coronavirus non disturba il governo o le persone di cui sono al servizio.

L’unica apparente precauzione è che seguono un percorso “alternativo” molto presto al mattino (partono circa alle cinque per il loro giro). Raccolgono la spazzatura dalle case singole, la vuotano nel loro pick-up, a giorni alterni, e vengono pagati appena cento rupie al mese. Non molto tempo fa, la paga era addirittura ottanta rupie. E molte volte la gente non li paga neanche regolarmente. Lakshmi mi dice che in questi giorni alcuni dei suoi clienti (gente della middle class che vive in case di proprietà) le dicono di non aver ricevuto il proprio salario, e perciò di non potersi permettere di pagarla. La coppia raccoglie spazzatura indifferenziata da circa duecento abitazioni al giorno in questa località e la scarica nella località pattuita. In un’altra località operava Rajesh, insieme a sua madre e a un fratello maggiore immancabilmente ubriaco, che faceva lo stesso lavoro, anche per meno: cinquanta reali al mese che, anche qui, molti rifiutavano di pagare se loro saltavano un giorno.

Rajesh amava Malli, che lui per qualche ragione chiamava Bunny, e allo stesso modo lei amava lui e aspettava una veloce carezza di Rajesh sulla testa, dato che la nostra passeggiata coincideva di solito con i suoi turni di lavoro.

Ispirato da Malli, anche Rajesh si era preso un cagnolino, se ne curava teneramente e lo amava senza confini. Molte volte, Rajesh mi raccontava che cosa significava per lui arrivare alla discarica e tirare fuori la spazzatura da pile maleodoranti (in un posto chiamato Keesara, che ha due poggi o alture: uno di spazzatura, e un altro che è un antico tempio per Siva). Rajesh e sua madre dopo un po’ avevano preso in affitto un pick-up da un contractor. Metà dei soldi che guadagnavano servivano a pagare il noleggio mensile.

Anche in tempi normali, questi raccoglitori di spazzatura non ricevevano le protezioni pattuite: guanti, uniformi, un paio di stivali dignitosi e mascherine. Non avevano neanche posti per lavare le mani e i piedi dopo lo scarico della spazzatura in discarica. Pochi anni fa, la municipalità ha distribuito dei contenitori per l’immondizia grigi e blu ai proprietari per differenziare in casa i rifiuti biodegradabili, l’umido e quelli non biodegradabili prima di darli ai raccoglitori. Ma in verità pochissimi lo facevano. Così tutta la spazzatura finiva nello stesso contenitore. E così Rajesh e la gente come lui finivano per differenziarla di volta in volta all’arrivo in discarica. Interpellato, lo staff della municipalità se l’era presa con quelli come Rajesh o Gopal e gli altri, colpevoli di non usare le protezioni, anche se erano state loro distribuite.

Ma oggi, con il Covid 19 in corso, molti di questi raccoglitori di spazzatura non hanno ancora ricevuto le protezioni di cui necessitano non meno degli operatori sanitari. Lakshmi mi racconta che alcuni di loro avevano anche scioperato per ottenere protezioni, ma erano subito stati avvisati che, se non avessero raccolto la spazzatura (che è considerato uno dei Servizi Essenziali), i loro “lavori” sarebbero stati dati a qualcun altro. Potevano scegliere. Finalmente alcuni di loro si erano dovuti comprare maschere e guanti (equipaggiamento minimo, da prendere nei negozi vicino casa loro) dopo una lunga attesa, e avevano dovuto usare quelli.

Lakshmi mi racconta anche che alcune donne rifiutano di toccare i bidoni della spazzatura e aspettano che sia lei ad andare a prenderli dalle loro case, a vuotarli e a riportarli indietro. Mi chiede: “Qual è il senso di ‘tenere le distanze’? A casa non c’è spazio; e la gente di cui raccolgo la spazzatura non ci aiuta quando diciamo che abbiamo paura di entrare nelle loro case. Ma cosa possiamo fare? Questo è il nostro destino. A nessuno importa di noi. In alcune colonie ho visto gente che dava cibo e mance ai raccoglitori di spazzatura. Ma noi non siamo fortunati”.

Questi sono i più poveri dei poveri della città. E il loro lavoro durante la pandemia è esemplare e dovrebbe essere rispettato. Ma non sono neanche annoverati tra i “Guerrieri del Coronavirus”. Semplicemente non appartengono alla narrazione sul Covid, e il loro lavoro è un lavoro nascosto ai margini, e persino la loro salute sembra essere meno preoccupante per la locale municipalità. In netto contrasto col resto: ho notato ad esempio che il personale che si occupa della pulizia delle strade a Shimla lavora con guanti, stivali e mascherine, forniti loro dal dipartimento della municipalità per cui lavorano.

Per inciso, già da molti anni Shimla (e lo stato dell’Himachal) avevano bandito l’uso della plastica, ed erano stati previsti dei bidoni coperti per smaltire l’immondizia (progettati così anche per evitare che scimmie e cani frughino tra i rifiuti). Bidoni che sono svuotati regolarmente, quando addirittura non quotidianamente. Durante il lockdown, pochissimi di questi operatori ecologici sono stati lasciati al lavoro (con mascherine) e essi probabilmente lavorano a rotazione.

Jagganadham, un uomo di circa cinquant’anni, è venuto a Hyderabad come molti dal suo villaggio vicino Palasa, nella parte settentrionale della regione dell’Andhra Pradesh, a cercare lavoro, quando l’agricoltura di quella regione, molti anni fa, è stata messa in ginocchio da lunghi periodi di siccità. Lui fa lavori manuali, quelli che gli capitano di tanto in tanto, di solito nei cantieri, quando qualche contractor lo ingaggia. Talora c’è lavoro disponibile ogni giorno, come quando è stato assunto in un cantiere che rinnovava un tempio. Un lavoro di alcuni anni. Con l’edilizia ormai praticamente ferma, non può far altro che stare seduto ad un angolo di strada ad aspettare la chiamata di qualcuno.

Il lockdown significa niente lavoro, ovviamente. Comunque, sua moglie lavora come guardiana in uno degli appartamenti di questo quartiere di Secunderabad, che è per lo più abitato da gente della middle class, o anche di classi inferiori. Hanno una minuscola stanza nel complesso. Lui vive con sua figlia e suo genero, che lavora come lavoratore giornaliero. Suo genero (Koti) lavora anche per suo fratello (Tirupati) che ha cominciato a fare il pittore, e a poco a poco negli anni è diventato un semi-contractor, e quindi ha cominciato a salire la scala sociale.

Jagannadham dice che il lockdown ha significato per lui zero entrate negli ultimi due mesi. Per quanto riguarda i dodici chili di riso che il governo del Telangana ha promesso per i poveri e i lavoratori giornalieri, questa famiglia, che viene dall’Andhra del nord, non ne ha diritto. E questo benché essi posseggano la cosiddetta Aadhar card, iniziativa del precedente governo del Congresso, volta a dare un numero unico ad ogni cittadino, apparentemente al fine di facilitare l’accesso alle iniziative governative, come anche di scoraggiare comportamenti scorretti. Un provvedimento sottilmente imposto alla gente durante il secondo governo dell’ UPA (United Progressive Alliance), poi consolidato dall’attuale governo.

Molti come Jagannadham erano felici di possedere la Aadhar card. Ma, quando era andato a procurarsi i dodici chili di riso dal negozio addetto alla distribuzione pubblica, era stato rimandato indietro a mani vuote, perché gli avevano chiesto di presentare la sua carta di razionamento PDS (un sistema di differenti colori per identificare la soglia di povertà e gli altri livelli, e offrire una porzione fissa di riso, olio, zucchero e lenticchie come sussidio); e la sua carta di razionamento era ancora nel suo villaggio nel nord Andhra, dove sua madre ne fa tuttora uso per il suo bisogno mensile.

Quando un bel giorno il Chief Minister dell’Andhra Pradesh, che vive a Hyderabad, ha annunciato che avrebbe fornito cinque chili di riso ai poveri dal suo Stato (Andhra), Jagannadham è rimasto per ore in fila nella sua località. Ma quando è venuto il suo turno, lo hanno rimandato indietro senza riso, poiché la sua Aadhar card aveva l’indirizzo locale di Hyderabad e poiché lui era uno di Telangana, e questo riso era destinato soltanto ai poveri dello Stato dell’Andhra, la sua richiesta era contraria allo spirito del provvedimento.

Bisogna ricordare che lo Stato del Telangana è stato creato nel 2013, dopo un lungo ed estenuante conflitto. Prima era uno Stato unito all’Andhra Pradesh[1]. Anche la povertà e la natura della distribuzione della carità, perciò, è politicamente motivata e governata, durante il Covid, o durante altre crisi come le calamità naturali, le inondazioni, etc.

 

Una diversa osservazione sui lavoratori migranti nell’Himachal.

 

Essendo una regione montagnosa, per lungo tempo questo Stato doveva importare il lavoro manuale da fuori. Già le storiche strutture coloniali di Shimla testimoniano l’uso del lavoro manuale importato. La città di Shimla, per inciso, ha un gran numero di persone provenienti dal Nepal e anche dal Kashmir, che lavorano come uomini di fatica. Molti lavorano in negozi dove i titolari forniscono loro un minimo di cibo e alloggio.

Qualche anno fa, nel 2015, ho incontrato lavoratori provenienti dal Jharkhand che costruivano un monastero buddista a Tabo in Spiti. I lavoratori dello Jharkhand lavorano anche per committenti privati che devono costruire case a Tabo e in altri villaggi dello Spiti. Nel villaggio di Kibber si trovano molti ragazzi dello Jharkhand che vivono con le famiglie, pascolando il loro bestiame o costruendo case, o aiutando nell’agricoltura.

Anche nei villaggi più remoti, ai lavoratori edili è offerto cibo e alloggio dal contractor o dal padrone di casa che gli commissiona il lavoro. Molti di questi lavoratori tornano nei loro Stati di origine solo per pochi mesi, mentre rimangono in questo Stato per la maggior parte del loro tempo. In città come Shimla, alcuni vivono in affitto in piccoli appartamenti che condividono. Ma nei villaggi, essi vivono nelle famiglie o vengono loro fornite delle stanze nei dintorni. Un gran numero di lavoratori impegnati nei progetti stradali del governo vengono dallo Jharkhand e dal Rajasthan, e si possono vedere abitualmente baracche lungo le autostrade regionali e nazionali, dove i cantieri stradali sono aperti. Attualmente molti di questi lavori sono bloccati. Alcuni sono forse ripresi, ma la fornitura di cibo e di un riparo sembra essere ridotta al minimo per i lavoratori immigrati in questo Stato.

Ecco perché il livello di ansia e l’esodo di massa cui abbiamo assistito, di lavoratori migranti che lasciano le città di Delhi, Mumbai e Bengaluru, talvolta con viaggi di migliaia di chilometri, per raggiungere casa, da queste parti non si sono visti. Eppure, ci sono sicuramente casi di alcuni contractor che hanno lasciato che i loro lavoratori se la cavassero da soli, poco prima che il lockdown fosse annunciato.

E questo anche se è difficile trovare un lavoratore manuale senza riparo da queste parti, sia perché il lavoro è molto richiesto, sia perché trovare lavoratori per lavori estenuanti, che ti rompono la schiena, come costruire edifici in terreni collinari, richiede l’instaurazione di relazioni reciproche. Relazioni che talora sono a lungo termine, considerando che ci vuole molto tempo per completare progetti qui, piuttosto che nelle aree urbane pianeggianti, a causa delle condizioni atmosferiche ostili (neve, pioggia, frane, blocchi stradali, etc.).

Perdere un lavoratore non è un’opzione, come nelle grandi città, dove il lavoro è inflazionato a causa del largo numero di persone disponibili per prestazioni occasionali, e dove perdere una persona non ha particolare importanza. I contractor di Hyderabad o di Delhi, per esempio, solitamente non si prendono la responsabilità di alloggiare e nutrire i lavoratori manuali che essi ingaggiano per i loro progetti. E neanche pagano i loro affitti. Molti che lavorano come facchini nelle stazioni di Delhi vivono in condizioni davvero disagiate, e potremmo dire drammatiche. È stato sempre così, almeno finché il virus non ha costretto i media e i governi a prendere atto di questa situazione.

 

 

18 Aprile 2020. Morire di lavoro versus morire di virus versus morire di fame.

 

Ricardo Laussman scrive “Anche se le nazioni sviluppate vogliono appiattire la curva, non avranno la capacità di farlo. Se la gente deve scegliere fra un rischio di morte del dieci per cento, quando va a lavorare, ed una sicura morte di fame, se invece resta a casa, sarà costretta a scegliere il lavoro” [www.behaviouralscientist.org – ultimo accesso: April 18].

Quando la gente è partita per tornare a casa, camminando per migliaia di chilometri (specialmente uomini, o famiglie), forse pensava di avere più speranze di sopravvivenza nei propri villaggi piuttosto che nelle città dove era andata a lavorare fino ad allora. E non temeva di morire in viaggio; voleva semplicemente scappare dalle città dove forse pensava che sarebbe morta di fame.

In secondo luogo, come ho detto prima, questo particolare momento storico gira intorno al lavoro (soprattutto quello agricolo) che la gente pensava di trovare nei villaggi piuttosto che nelle città, colpite dal lockdown, in base al sistema nazionale dell’impiego rurale garantito, del Mahatma Gandhi. Un sistema che era stato messo in atto durante la precedente legislatura dall’United Progressive Alliance, e che prevedeva lavoro garantito per cento giorni a persone con una carta di lavoro nei villaggi. Così era forse pratico raggiungere a piedi non solo la casa base nel villaggio, ma anche trovare un possibile lavoro da fare, piuttosto che patire la fame, senza lavoro, in città.

 

 

19 aprile 2020. Osservazioni a casaccio.

 

In questo intero periodo di crisi, il settore pubblico e i servizi nazionali sono stati di grande aiuto in tutto. Non molto tempo fa, alla fine dell’anno scorso, il governo indiano aveva provato ad accelerare il processo di privatizzazione della compagnia di bandiera, Air India. Ma in questo intero periodo di pandemia, è stata proprio questa compagnia a trasportare medicine, dispositivi di protezione e beni essenziali, ed anche a riportare indietro gli Indiani dalle altre nazioni in cui erano rimasti bloccati.

Le ferrovie indiane[2] (che sembravano avviate allo stesso destino) sono state ugualmente di grande aiuto nell’assicurare servizi essenziali, tra cui la fornitura di dispositivi di protezione e di vagoni ferroviari, utilizzati come spazi per l’isolamento dei malati. Le ferrovie hanno persino assicurato il trasporto di un intero plotone di reclute dell’esercito nel bel mezzo del lockdown.

Ed è il servizio postale pubblico e i dipartimenti delle poste, che hanno pagato le pensioni agli anziani (nello stato dell’Himachal i postini portano le pensioni porta a porta nei villaggi) e fornito il servizio giornaliero di consegna per medicine, trasferimenti di denaro tra Stati e territori. In alcune aree rurali, gli uffici postali sono persino serviti da banche. Il sistema postale indiano (messo in piedi durante l’epoca coloniale britannica) continua a servire anche i più remoti villaggi sulle più alte montagne.

Ho assistito inorridita, su un canale televisivo di news, a gente (lavoratori migranti che entravano in città) che veniva irrorata, come misura di “sanificazione”. Fortunatamente, le news della radio riportano che il governo ha emesso un severo divieto di farlo, ed è stato interessante che questo divieto ufficiale aggiungeva che questa pratica di spruzzare i corpi era nocivo sia da un punto di vista fisico che psicologico. Notevole per un provvedimento governativo! In ogni caso, le raccomandazioni sono realmente seguite sul campo? Forse dipende da chi è al timone in ogni Stato e consiglio locale.

 

Il virus ha una religione, una razza, una casta, un genere, una classe?

 

Osservo il tenore dei discorsi sui canali televisivi, dopo un raduno di uomini musulmani (il Tablighi Jamaat) tenuto a Dehli, nel quartiere di Nizamuddin, nel mese di marzo. Secondo le fonti governative, circa 8000 stranieri sono intervenuti all’evento, e ci si chiede come il Governo abbia permesso loro di assistervi, benché provenissero da Stati in cui il Covid era già molto diffuso, come Malaysia e Indonesia.

È stata anche sollevata la questione degli screening aeroportuali, in questo caso come in altri. Si è detto infatti che il Covid si è esteso ad altre parti del Paese, non appena le persone hanno cominciato a tornare nei loro Stati di provenienza. Mentre il governo ha iniziato a tracciare la gente che ha partecipato all’evento, e a mettere alcuni di loro in quarantena nei loro rispettivi Stati, alcune persone, sui social network, hanno cominciato a gridare alla corona jihad e ad insinuare che alcuni musulmani volessero diffondere il virus di proposito. E per finire, sono stati supposti collegamenti bizzarri tra l’intero episodio e la Cina o il Pakistan.

Nello stato dell’Himachal Pradesh, inoltre, dove la popolazione musulmana è davvero minima, se paragonata al resto degli Stati dell’India, i villaggi che ospitano qualche famiglia musulmana sono stati costantemente sul chi vive, per scoprire chi avesse partecipato all’evento religioso e per metterlo in relazione con i casi di Covid. Ma le news regionali sulla radio sono state abbastanza accurate nel dare i numeri delle persone risultate positive o negative al test.

Nello stesso periodo, per i distretti dai quali la gente era partita per assistere all’evento è stato proclamato l’ “allarme rosso”, e alcuni dei villaggi sono stati blindati, in base all’emergere di alcuni casi di coronavirus. Per inciso, molti dei distretti dichiarati “zona rossa” (Covid hotspot) hanno poche famiglie musulmane che vi risiedono.

È difficile avere un quadro complessivo della realtà di questo discorso senza avere un’informazione “sul campo”, che sia a contatto diretto con il territorio. Comunque, per i media che hanno abbondanti risorse e reporter, potrebbe valere la pena fare un esame più approfondito sul perché sembrerebbe esserci una strana corrispondenza tra zone rosse e aree residenziali musulmane in città come Hyderabad o Delhi, o ancora in certe città del Tamil Nadu e altrove. Nell’Himachal Pradesh il discorso religioso si è comunque estinto relativamente prima che in altre parti del Paese, a causa della minore incidenza del Coronavirus.

È stato però intrigante sentire il Primo Ministro commentare, in uno dei suoi discorsi, che il Coronavirus non guarda religione o casta. Probabilmente, se questa dichiarazione fosse stata fatta prima, nei giorni in cui è uscita la notizia dell’evento di Delhi, forse sarebbe stato risparmiato ad un’intera comunità il sordido pregiudizio con cui ha dovuto confrontarsi, per un evento al quale molti di loro non erano neanche andati o per il quale avevano persino potuto provare fastidio.

Si sarebbe peraltro dovuto indagare su altri simili eventi organizzati da altri gruppi religiosi, quando fossero stati trovati in difetto rispetto alle regole. Come ad esempio un incontro religioso Sikh tenutosi in Punjab, e del quale la radio nazionale ha dato notizia, dove era stata trovata una persona che aveva contratto il virus. Anche in questo caso la località era stata messa in quarantena dal governo del Punjab. Ma il fatto non aveva avuto la stessa copertura mediatica costante e massiccia dell’evento di Delhi.

È una prova della possibilità di usare il Coronavirus come un pretesto per prendere di mira particolari gruppi di persone, o particolari comunità, in tutto il mondo. E per accrescere il pregiudizio razziale e gli attacchi alle persone.

È la logica del “colpevole fino a prova contraria”, e i numerosi meccanismi di intelligenza artificiale messi in opera al giorno d’oggi possono essere usati per colpire allo stesso modo qualunque stato nel mondo che venga scelto come bersaglio in quel particolare momento. E questo è un modo di colpire le persone non direttamente, in termini di disagio, ma anche indirettamente, in termini di lockdown o di zone rosse imposte a caso in giro per il mondo, in periodi successivi e per differenti ragioni.

[1] Lo stesso Andra Pradesh fu creato nel 1956, dopo una lotta che aveva come obiettivo la separazione da Madras. L’Andra Pradesh è governato dalla maggioranza di governo del partito denominato Y.S.R. Congress. Il suo primo ministro è Y.S. Jaganmohan Reddy. Il Telangana, invece, è governato dal leader del Telangana Rashtra Samiti, il cui nome è K. Chandrasekhara Rao.

[2] La parziale privatizzazione delle Ferrovie Indiane, a causa della nuova politica di aumento dei prezzi, ha reso progressivamente inaccessibile la rete ferroviaria alla gente comune, la maggior parte della quale usa le ferrovie indiane per viaggiare nel Paese, e anche per trasportare beni attraverso questa rete.

(traduzione di Rosario G. Scalia; foto di R. Umamaheshwari)

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Fuori
di Elisa Ghia

America, A Horse With No Name -> play

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Da Remo Rapino, Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio, Roma, minimum fax, 2019, pp. 173-174.

Mentre lui parlava io guardavo fuori dalla vetrata dello studio suo e mi sono accorto che stavo a piangere dopo tanto tempo e che non mi ricordavo più se avevo pianto qualche volta nella vita mia, però allora era sicuro che stavo a piangere perché per me quello era stato il segno nero più nero di tutti i segni neri del mondo e dell’universo. Guardavo fuori alla spianata degli orti e degli alberi mentre la guazza se ne calava alla terra e confondeva le cose e pure i pensieri mi si confondevano. E poi mi ricordo che il giorno dopo cominciò a nevicare, anche se non era ancora stagione che doveva fare la neve. Che al manicomio chi ci si trova, se ci si pensa bene, sta sempre solo anche se ci sono gli altri, ma non era questo che mi pesava tanto al cuore, era che quella breve storia mi aveva scoraggiato troppo come se ero afflitto da un destino che qualcuno mi voleva male e io non potevo farci niente, là rinchiuso come dentro a un canile con il tempo che non passava mai, anche se per fortuna mia il dottore Mattolini Alvise mi riceveva ogni volta che lo chiedevo di farmi andare nel suo studio, ma non tanto per parlare perché alla fine ci dicevamo sempre le stesse fregnarie, lui però mi osservava, io me ne accorgevo, e scriveva qualcosa su un foglio, non mi faceva vedere più le macchie tanto lo sapevo che erano macchie e basta, mi faceva domande, io parlavo e lui scriveva, che a me la cosa mi cominciava pure a puzzare, che io pure gli facevo domande, ma, a volte, lui si inventava le risposte, ma poi a me non me ne importava tanto, che mi piaceva guardare dalle vetrate i campi e gli orti e gli alberi e per questo ci andavo appena potevo in quello studio, per guardare i campi e gli orti e gli alberi, e con quelli io parlavo per davvero, mica con Mattolini, ma questo non glielo dicevo se no mi si poteva pure dispiacere e allora addio camice bianco.

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

Ringo

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di Walter Nardon

«Che cosa vuoi che ti dica?» fece Erin, «è stato come trovarsi in un hangar, davanti a una tenda di velluto nero. Ho spostato appena la tenda con la mano ed è apparsa un’aula colossale, scura e vuota, dove mi sembrava di sentir risuonare il respiro di mio padre sempre più fioco. L’impressione è stata quella di restare chiusa per giorni e giorni in questa sala, anche quando il respiro di mio padre ormai non c’era più, senza la possibilità di potermi spostare o uscire per tornare all’aperto».

Erano sedute su una panchina del parco. Vicino a Sandra, la borsa di carta che conteneva gli stivali comprati da poco all’Outlet.

«Sono rimasta quasi due mesi in quelle condizioni, perciò so cosa sta passando per la testa di Rita». La madre di Rita era morta dieci giorni prima. Erin aveva potuto osservare l’amica nella fragile esibizione di una calma forzata, che certo non aveva mantenuto quando sua madre era viva, poiché le affinità caratteriali, espresse in punti di vista tanto divergenti, avevano fatto lievitare fra loro un’asprezza che aveva disseminato di imprevisti emotivi parecchi incontri familiari.

«Deve reagire,» proseguì Erin, «è inutile che si affanni intorno alla memoria di sua madre. Sta sempre in casa. Ne ha fatto un culto che tra poco troverà incomprensibile».

«Sì, avrebbe fatto meglio a venire con noi, tanto Enrico sa arrangiarsi da solo: si è arrangiato quando era piccolo, vuoi che non lo faccia adesso?»

Per Erin la concretezza era una delle doti migliori di Sandra. Negli anni relativamente recenti della loro conoscenza aveva acquistato un’affidabilità che non necessitava di troppi argomenti: possedeva una certa capacità intuitiva, che si accompagnava a un’inattesa predisposizione per la frivolezza, determinante per contrastare la regolarità del suo impiego amministrativo.

«Forse è il caso che insista anche Fabrizio», disse Erin.

«Sicuro, e Fabrizio sa benissimo di cosa si tratta»

«In che senso?»

«Intendo, per la sua storia»

Erin si girò.

«L’ho saputo per caso da una sua ex-compagna di classe», disse Sandra, «Fabrizio aveva finito da poco l’istituto per geometri quando è rimasto orfano di padre. Non ha potuto proseguire gli studi perché ha dovuto prendere in mano l’azienda di famiglia, forniture idrauliche. Te la faccio breve. Suo padre aveva due soci e tre dipendenti, tutti esperti di faccende pratiche. Così ci si è messo d’impegno e per due anni le cose sono andate avanti in modo accettabile. Poi uno dei soci ha litigato e ha sbattuto la porta, tirandosi dietro due dipendenti. Così Fabrizio ha dovuto cercare di affiancarsi agli altri, con scarsi risultati. Soldi per assumere almeno un altro dipendente non ne aveva e così si sono trovati in ritardo su tutto, cercando di subappaltare vari lavori, e naturalmente facendolo di nascosto, perché i committenti non venissero a saperlo (sperando poi di evitare i controlli). Insomma, per finirla, ha tirato avanti un altro anno e mezzo, poi ha dovuto chiudere. E si è trovato nei casini, con gli anni della sua vita in cui avrebbe potuto studiare spesi per una buona causa, aiutando la famiglia, ma spesi male, se dobbiamo guardare a come è andata a finire».

«Sapevo che aveva passato qualche difficoltà, ma non i dettagli».

«Beh, io ho saputo solo questo, non so se ci sia dell’altro».

«Certo ora alcune cose si fanno più chiare,» fece Erin, «però per lo studio mi sembra che abbia proseguito».

«Sì, con fatica,» riprese Sandra «ormai era un po’ fuori dal giro, i compagni lo avevano lasciato indietro. Si è iscritto a Economia e Commercio dove ha fatto, credo, tre anni da studente lavoratore. La laurea breve, insomma, quella che non serve a niente. Poi è arrivato in Coltelleria e si è fermato, nel senso che con Tebaldi si è trovato bene. Ha aspettato un altro anno e poi ha ripreso. Ora credo stia per finire».

«Sì, del resto Tebaldi è uno che di fatto non dirige neanche più il negozio, ma si dedica ai suoi investimenti».

«Credo che sia per questo che è rimasto. Tutta quella cortesia eccessiva che ti squaderna quando fa il commesso, in fondo è solo un mezzo per coprire altri interessi. Sta prendendo lezioni da Tebaldi, è chiaro. D’altra parte, vuoi dargli torto? Nella vita ne ha già passate tante. Comunque, dicevo, questo potrebbe anche essere un vantaggio per Rita».

«Sì, se si dà da fare. Ovviamente non è che non capisca quello che sta passando, ma questo è una cosa, un’altra è invece il modo in cui decide di reagire. E dipende da lei».

«Completamente d’accordo, te l’ho già detto. Ma dobbiamo sbrigarci», disse Sandra, «sono quasi le quattro. Non vorrei arrivare tardi all’appuntamento».

Si alzarono e presero la via più breve per gli Uffici comunali.

Sandra doveva risolvere una seccatura. Doveva andare a registrare il cane di sua madre in Municipio, un volpino che, anche in un confronto fra i pari della sua specie, a Erin era sempre sembrato un idiota: Ringo, infatti, dallo sguardo esultante, abbaiava con la stessa partecipazione emotiva davanti a una sorpresa, al passo incerto di Rosario – il pensionato vicino di casa di Sandra che lo avvicinava per accarezzarlo – oppure di fronte al più insidioso dei pericoli. Abbaiava infaticabilmente davanti alle varie manifestazioni del creato emettendo un suono secco, breve, nel quale non era dato farsi largo con un’interpretazione, come avviene invece nella maggior parte dei casi, con i cani. Così, nel suo modo di stare al mondo aveva preso forma un’espressione pigramente elementare del pensiero binario: o taceva, oppure abbaiava nell’unico modo che conosceva. E il fatto è che, come detto, taceva poco. La povera Carmen, la madre di Sandra, trascinata dall’entusiasmo canino per le vie del centro doveva ogni volta cercare di giustificarlo, in particolare di fronte alle sue amiche, di cui Ringo in ogni occasione trovava ingegnosamente modo di mettere alla prova la pazienza in circostanze delle quali, se non altro, si poteva apprezzare la varietà. C’è da dire che, osservandolo sfiancato al termine di queste imprese intorno alle caviglie delle amiche, Ringo sembrava sempre davvero orgoglioso.

Naturalmente i conflitti non gli mancavano. Fra i suoi tanti nemici giurati, il peggiore era un pupazzo di plastica con le sembianze di giovane cow-boy posto di fronte al Bar Avalle, che peraltro svolgeva con umile efficienza le sue funzioni di distributore a gettoni di caramelle per la gioia dei più piccoli e l’accondiscendenza un po’ affaticata delle madri. A Ringo però, chissà perché, tutta quella concordia dispiaceva. E così le sue migliaia di rauche proteste quotidiane sembravano incrinare perfino l’espressione perennemente serena del pupazzo il cui sguardo, secondo Erin, negli ultimi tempi si era rabbuiato.

Sandra non apprezzava poi troppo il cane, ma visto che sua madre era sola e che ormai gli si era affezionata, dopo un periodo di prova aveva deciso di farlo registrare all’anagrafe canina per ottenere la targhetta da attaccargli al collo.

«Sono contenta per tua madre,» disse Erin, mentre affrettavano il passo, «ma per me quel cane rimane un deficiente».

«Sì, il fatto è che non c’è niente da fare, né con lui – non a caso la padrona precedente lo aveva riportato al canile – né con mia madre, che dice che è solo e che tutto sommato al mondo ci vuole pure qualcuno che se ne occupi. Dico, adesso che poteva un po’ tirare il fiato si prende in casa uno scemo come questo? Ma te l’ho già detto, è inutile. Ho detto a mia madre che va bene, purché me lo tenga fuori dalle palle».

«Rita ieri proponeva di fargli conoscere il cane di Frankie».

«Ah, ecco, questa sarebbe un’idea», disse Sandra aprendo la porta degli Uffici Comunali.

«È stato l’unico momento in cui si è un po’ ripresa» disse Erin, «che poi, se pensi ad Ada, non è che con Rita ci sia mai andata proprio leggera. Non aveva legato neanche con Enrico, tranne che negli ultimi tempi. I bambini in fondo non le piacevano. Non ha mai perdonato a Rita di averne avuto uno tanto presto».

Anche Ada aveva avuto il suo cane, Blacky, un barboncino più antracite che nero, perennemente allegro e sudicio, sereno come pochi. Era durato dodici anni. Enrico gli voleva bene. Rita raccontava che, quando lui da bambino andava timoroso dalla nonna, urlava il suo nome a gran voce perché lei lo richiamasse a sé – era sempre libero nel piccolo cortile interno – ma poi quando il cane gli correva incontro, esultava senza riguardo.

In ufficio c’era la coda, Sandra aveva due persone davanti, anche se la badante robusta appoggiata allo sportello sembrava aver quasi finito.

Erin non aveva mai visto un temperamento tanto refrattario alle abitudini come quello di Ringo; anche in questo, fra i cani, faceva eccezione: sovreccitato, con uno stupore che la scoperta non placava rinnovandolo invece in una nuova attesa, viveva per così dire di meraviglia, incantato davanti a quello che al suo sguardo umido doveva apparire uno spettacolo appassionante: e così, poiché per lui le cose erano sempre nuove, poco abituato a metterle da parte, non se ne curava e imparava poco. Ma se questa era la sua attitudine per l’istante, non sembrava dotato di un’espressione altrettanto efficace per comunicarla. La sua vita scorreva perciò in mezzo agli altri senza profondità, né durata: come se avesse inteso, a modo suo, che i più si concentrano solo sul presente.

«A cosa pensi?» chiese Sandra.

«Niente, sciocchezze».

Erin tornò a pensare a Rita. Non poteva andare avanti nel modo in cui era andata avanti la propria madre, che di fronte a ogni disgrazia di fatto si annullava pensando solo agli altri, senza farsi un’idea dell’accaduto, completamente stordita nell’azione come se la vita operosa fosse l’unico modo per essere all’altezza di ciò che era successo: in fin dei conti, per quanto comprensibile, questo non era reagire, era girare la testa da un’altra parte e infatti una settimana dopo, venute meno le più urgenti esigenze concrete, la madre restava inebetita davanti a qualcosa di enorme, che non riusciva a passare. No, Rita doveva fare qualcosa. Prese il telefono e le scrisse un messaggio: Tutto dipende da te. Devi deciderti. Fatti viva.

Nel frattempo, per fortuna, l’anziana col cappotto verde acido davanti a Sandra se ne era andata più in fretta del previsto, lasciando a lei lo spazio di imporsi, con tutti i moduli scaricati e precompilati per fare concedere a Ringo la cittadinanza.

L’impiegata comunale, una ragazza bruna dai grandi occhiali con la montatura rossa, si mostrava quasi euforica nel veder crescere l’anagrafe canina, come se in questa estensione si  esprimesse l’inarrestabile progresso della civiltà a cui era finalmente un po’ più contenta di appartenere: era uno di quei rari casi in cui nei ruoli della Pubblica Amministrazione si erano incontrati un inquadramento funzionale e una più remota e insopprimibile vocazione per I nostri bebè a quattro zampe, come recitava in modo allarmante il titolo di un dépliant sparso in più copie a lato del bancone: un connubio fecondo, senza dubbio. Naturalmente, la cittadinanza di Ringo comportava anche i suoi bravi doveri di vaccinazione, a cui Carmen aveva già provveduto.

«Senti,» disse Sandra rimettendo le carte nella borsa, «togliamoci in fretta da questo posto».

Il fatto è che Sandra doveva ancora presentare il tema principale della discussione pomeridiana, quello su cui aveva già cercato più volte esplicitamente di chiedere a Erin di pronunciarsi per ricevere un consiglio, senza tuttavia trovare un momento di calma per discuterne a dovere come l’evento, data la sua natura, avrebbe richiesto. Il fatto era tutto qui: doveva andare a cena dalla madre di Franco, il suo compagno. Progetto impegnativo pensando a Clelia, ma per numerosi aspetti affrontabile, anzi alla portata, con precedenti altalenanti ma sostanzialmente positivi; la questione però lievitava leggermente verso sviluppi inattesi considerando la già annunciata e quindi inevitabile presenza a cena del fratello di Franco, Giulio: “don Giulio”, perché il fratello lavorava in Curia e aveva vari incarichi in enti ecclesiastici. Recentemente aveva svolto un incarico importante in Messico per conto di una congregazione non chiaramente specificata, o forse non specificabile. Nessuno sapeva dire con precisione se per caso in segreto avesse in qualche modo preso i voti.

«Ma cosa te ne frega?» le aveva detto Erin «ci vai come amica di Franco, tanto la madre avrà già spifferato tutto al figlio; e lo stai ad ascoltare. Scusa, con tutto quello che può raccontarti del Messico stai a pensare che è un mezzo prete? Che poi, questi mezzi preti, non sai mica dove vadano a parare. Non sarebbe il primo, infatti, per non dire altro. E secondo te, visto che resterà da sua madre solo un paio di giorni, vorrebbe passare l’unica cena con suo fratello a cercare di catechizzarti?»

«No, ma mi squadrerà in un attimo e perderò il mio carico di punti».

«Beh, non vedo il problema. Sarebbe peggio se si mettesse a parlare di liturgia; ma credimi, sotto sotto – e proprio per il lavoro che fa – è stufo di parlare di queste cose».

«Non sopporto la supponenza che si nasconde dietro quelle vesti così umili, il fatto di sentirsi sempre dalla parte giusta. Per me poi è un assurdo. Com’è possibile fare un lavoro come il suo senza farsi prete? Cioè, stare con i preti, fare in fondo un lavoro da prete, ma senza diventarlo veramente. Tu mi dirai: perché così può trovarsi una donna, farsi una famiglia. Infatti. Ma è scapolo e secondo Franco non ci ha mai pensato, neanche lontanamente. Che abbia un compagno?»

«Se lo avesse, avresti ben pochi timori da mettere in campo».

«No, perché magari, visto il suo lavoro, ce l’ha modo clandestino, perciò in pubblico deve fingersi ancora più ligio al dovere».

Erin lo conosceva di vista. Come molti che svolgevano incarichi in un ente ecclesiastico si sentiva in dovere di assumere un’aria invariabilmente compassata, tesa a raggiungere il più silenzioso traguardo dell’anonimato, dove il grigio perla e i celeste dei pullover (i due colori potevano addirittura trovarsi combinati insieme nello stesso capo d’abbigliamento) sottraevano alla persona buona parte del suo peso corporeo, arrivando a fare del più rotondo collega di Giulio, molto più pesante di lui, un esilissimo emissario dello Spirito. «Si muove con l’agilità di un ballerino», era il commento dei dirigenti. Ma cosa passasse nella testa di Giulio era un mistero incomprensibile. «Che strano,» si disse Erin, «non solo Fabrizio, ma anche lui e Franco hanno perso il padre molto presto». Quanto al suo orientamento sessuale, come già in altre circostanze, Erin era convinta in pieno che fosse interessato alle donne e che, anzi, a modo suo, clandestinamente, si desse da fare «con nubili e forse perfino con meno nubili».

«Comunque,» riprese Erin, «mi sembra che tu sia già andata molto lontano nel ricamarci sopra».

«Sì, ma la rottura di coglioni resta».

Restava infatti la dignità religiosa che Clelia in silenzio avrebbe dato mostra di lodare, ponendosi subito a fianco il figlio giusto per schierare a tavola la sua squadra al completo (col marito che li guardava dalla foto incorniciata sulla parete), una squadra a cui Sandra, almeno nelle intenzioni di Clelia, avrebbe dovuto guardare dal basso in alto come un’anima penitente invoca i santi, mentre invece agli occhi di Sandra questa pretesa rimaneva ridicola nelle sue esigenze di un decoro rovinosamente impresentabile. «Ma dove crede di vivere?» Solo il breve cerchio che Clelia aveva aperto alle sue poche conoscenze (parenti e amici del gruppo parrocchiale) pareva ancora in grado di sostenere il suo quadro di devozione e di giustizia – di giustizia, si intende, a suo favore – che Clelia considerava il minimo risarcimento che tanti anni di vita difficile avrebbero dovuto riconoscerle. Suo figlio, invece, l’altro, aveva lasciato da troppo tempo le mura domestiche e ora frequentava una donna che non aveva nulla da promettere in quel senso. Una donna troppo lontana a cui lei – ecco il vero tormento – aveva poco o nulla da insegnare.

«Sarà anche vero che la vita è fatta di stagioni diverse,» riprese Sandra, «ma di questa io ne ho davvero già piene le palle. Di queste che a settant’anni continuano a raccontarti la storia della loro vita, come se solo loro ne avessero avuta una. E non c’entrano niente l’istruzione, il successo, il cazzo di stipendio che ti porti a casa a fine mese. Loro ne sanno sempre di più».

Erin sorrise davanti al lamento dell’amica:

«Non ti farai mica mettere in crisi da una cosa del genere? Ma cosa stai a sentirla. Tu ci vai solo per fare un favore a Franco. Per tutta la cena pensa a lui e alla prossima camera dove fuggirete nel fine settimana».

Erano intanto arrivate più o meno all’altezza del parco Giulio Cesare Croce da cui erano partite poco prima.

«Scusa, ma ora dove stiamo andando?» chiese Erin.

«Niente, io farei un salto a casa per lasciare le tre cose che ho preso. Poi possiamo provare a tirar fuori Rita. Che dici?».

«D’accordo».

Così presero l’Opel Corsa di Sandra per passare a casa. Sandra aveva la fissa per la black music: Stevie Wonder, Prince, Alicia Keys, Bruno Mars: sempre gli stessi pezzi, fra l’altro. Ma a Erin non dispiaceva, era parte dell’atmosfera confortante del mondo di Sandra: «Mi hanno passato molta musica americana, mi sono messa ad ascoltare anche Kendrick Lamar: non ne capisco niente, devo dirti, ma è un po’ una sfida. Chissà cosa ne potrebbe pensare uno come Giulio».

Mentre prendevano la via per la casa di Sandra in mezzo al traffico, Erin pensava alla Route 66 o a viaggi più lontani; pensava allo stato d’animo con cui il cliente prenota un viaggio in un altro continente. Nei suoi gesti sembra un investimento preparato con cura, sostenuto dall’amor proprio che lo spinge a dire – e di norma nell’agenzia di Rita lo diceva chiaramente – che lo doveva a sé stesso, che in fondo se lo meritava. «Chi non se lo meriterebbe?» pensò Erin; ma la questione era un’altra. Il cliente travestiva di giustificazioni qualcosa che, a ben vedere, avrebbe dovuto formulare in maniera più semplice: «me lo posso permettere». E fra le sue amiche non erano più molte a potersi illudere in questo modo. Quel pomeriggio alternativo la stava spingendo impercettibilmente verso il fatalismo, da cui in genere riusciva a guardarsi come pochi.

«Cristo, hai visto quanto traffico?»

«Beh, siamo verso l’ora di punta».

«Sì, pensavo di evitarla di un soffio, invece ci siamo finite dentro in pieno».

«Ma si tratta di un semaforo».

«Sì, sì, il fatto è che sono proprio stufa».

Sandra riuscì a passare d’un soffio col giallo. In due minuti furono a casa.

Abitava al piano terra di un condominio giallo di cinque piani: a dire il vero il suo era leggermente rialzato, giusto quei tre gradini che il progettista aveva pensato bastassero per conferire all’edificio un tocco di nobiltà, gradini che poi scendevano uscendo nel piccolo giardino tenuto discretamente e soprattutto circondato da una siepe alta due metri, «per la privacy» come diceva sempre Sandra.

Davanti all’ingresso, compunti come se stessero aspettando l’arrivo di una delegazione diplomatica sostavano Carmen con al guinzaglio il fido Ringo. Immobili e silenziosi, si fa per dire. In effetti, bastò che Sandra ed Erin parcheggiassero lungo la strada di fronte alla casa perché Ringo manifestasse il suo affetto o semplicemente la voglia di celebrare l’istante irripetibile. Carmen lo redarguì con veemenza, al che il cane, quasi accovacciandosi, si fece più docile, con lo sguardo dispiaciuto per quell’esibizione troncata a metà a cui, in apparenza, sembrava tenere molto.

Erin salutò con la mano.

«Come mai sei venuta così presto?», chiese Sandra.

«Ero in giro col cane, pensavo di portarti il vestito che ti ho raccomodato: a dir la verità neanch’io pensavo di trovarti» così dicendo allungò a Sandra una borsa di plastica bianca.

«Vuoi entrare? Ci fermiamo poco, perché dobbiamo andare da Rita, ma se ti fermi almeno un caffè lo prendiamo».

«Oh, no», rispose Carmen, «sono qui davvero di passaggio perché volevo finire di preparare il coniglio, che ho già messo sul fuoco. Sono uscita perché questo qui è sempre contento di andare a spasso».

Ringo non aveva ancora recuperato in pieno il suo ardire, perciò guardando verso Erin e Sandra il suo visibile entusiasmo sembrava smorzato dalla prudenza che, evidentemente, alla fine doveva aver appreso anche lui, sia pure solo in parte.

«Anzi, già che ci sei», disse Sandra, «ti do subito la targhetta che mi hanno dato poco fa in Comune». Aprì la borsetta e ne tolse la piccola busta trasparente che conteneva la medaglia col numero di riconoscimento del cane.

Certo che si parlasse di lui, Ringo aveva già la lingua di fuori in attesa di ciò che il suo desiderio forse si figurava come un riconoscimento materiale, auspicabilmente commestibile; vide invece Carmen prendere in mano la targhetta e accovacciarsi davanti a lui per appenderla all’anello del collare, un ornamento di promozione simbolica verso il quale non mostrava alcun apprezzamento. Anzi, guardando verso Erin, subito dopo essere stato decorato, cominciò a stendere le zampe anteriori abbaiando tre o quattro volte come se il tutto, più che un premio, non si rivelasse altro che una mancanza di rispetto nei confronti della sua autonomia che per quanto parziale e barcollante sopravviveva ai margini del consorzio umano. Poi, d’improvviso tacque – evento inatteso –, forse umiliato da quella distinzione. A Erin sembrò che la guardasse con un’espressione in cui la rivendicazione per il suo contegno animale alludeva al tempo che gli era rimasto da vivere, non diversamente da quello che era rimasto a loro. Così lei si ricordò d’un tratto che ogni istante, più che un’occasione per riflettere sui contenuti della coscienza, le era sempre parso il frutto di un’intuizione su ciò che il presente aveva da offrire e sulle possibilità da scegliere e da seguire. Un presente disteso, un orizzonte di risorse. Insomma, si rese conto che il povero Ringo, con i suoi limiti, l’aveva riportata al suo umore abituale e pur senza cambiare del tutto il giudizio su di lui gliene fu grata.

«Signora Carmen,» disse, «è ora che tentiamo di tirare Rita fuori di casa, visto che da una settimana si rifiuta di uscire».

«Capisco, capisco» rispose Carmen, «è tutta carità».