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Libanais. Lignes de vie d’un peuple svela contraddizioni, impegno e fragilità di un popolo in continua crisi

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di Giuseppe Acconcia

Libanais. Lignes de vie d’un peuple (Ateliers Henry Dougier, 2020, pp. 155) è il primo libro della giornalista francese che vive a Beirut, Laure Stephan, firma del quotidiano Le Monde. L’autrice era partita nel 2007 per una parentesi di viaggio in Libano che è poi diventata una scelta di vita. Molto suggestivo è il suo primo arrivo a Beirut mentre avvenivano gli attacchi al campo profughi palestinese del Nord del Libano di Nahr al-Bared. Abitare in Libano, per la giornalista cresciuta in Senegal, negli anni che hanno sconvolto il Nord Africa e il Medio Oriente ha significato principalmente vivere nel cuore della cronaca, in una terra complessa, in una società polarizzata e in un contesto politico disordinato. Il libro che raccoglie originali e approfondite interviste a testimoni privilegiati racconta storie umane di coraggio, impegno, passione, solidarietà e vulnerabilità, talvolta anche di disperazione tra i continui tagli all’acqua e all’elettricità di cui tutti i libanesi fanno quotidianamente esperienza. Stephan rimanda continuamente alla forza dell’umanità, dell’oralità, della discussione che rendono la società libanese di grande interesse tra cinismo e perseveranza. Il libro è quindi un’istantanea di un paese che ha attraversato la guerra civile (1975-1990) ed è di nuovo in crisi economica e finanziaria dopo l’esplosione al porto di Beirut dell’agosto 2020. Il racconto polifonico che si svolge a Beirut e nei suoi quartieri periferici parte da un quadro storico del Libano alla fine dell’impero Ottomano e fino alla guerra civile, per poi entrare nel vivo delle testimonianze. Carmen Hassoun Abou Jaoudé, da giovane reporter de l’Orient-Express, mensile arabo in francese, ora guida del Centro internazionale per la giustizia transnazionale (CIJT) parla, da militante per la verità, del rifiuto dei giovani libanesi di vivere nell’eredità della guerra civile. Secondo l’intervistata, dopo l’indipendenza non c’è stato un processo di deconfessionalizzazione politica, mentre una volta finiti i bombardamenti non è finito il conflitto civile, con l’occupazione siriana e fino all’assassinio dell’ex premier, Rafiq Hariri, nel 2005. Nel volume, non mancano neppure incontri con le nuove generazioni, come i tatuatori Elie Rahmé e Khalil Abdallah. Trentenni, hanno uno studio a Jounieh, quartiere cristiano del Nord di Beirut. Secondo gli intervistati, il tatuaggio non è più un’etichetta di “cattivi ragazzi” per i giovani libanesi. Alcuni vogliono invece esprimere la loro devozione chiedendo tatuaggi del volto della Vergine Maria o calligrafie di figure dell’Islam sciita, come Hussein e Zeinab. La guerra civile ha lasciato segni indelebili, c’è chi coltiva dentro di sé la sua cultura confessionale e chi preferisce la mixité in base alla propria storia familiare. Di rilievo anche la testimonianza di Robin Richa che, dopo aver lasciato il suo lavoro in banca, è diventato direttore di una tra le associazioni più vivaci della società civile libanese, Arcenciel. La storia personale di Robin è di ispirazione, ha preferito un’attività da quasi volontario per sentirsi realizzato pienamente. Arcenciel, nata nel 1985 per aiutare i feriti della guerra (circa 14mila), nel 2000 ha sostenuto una legge contro la discriminazione dei disabili. Oggi, si occupa anche di riciclaggio dei rifiuti e sostegno a giovani svantaggiati, ex tossicodipendenti e detenuti. Il libro si conclude con le interviste tra gli altri con Ziad Abdel Samad, direttore della Rete delle ong arabe per lo sviluppo (ANND), e Rana Idriss, direttrice della casa editrice, Dar al-Adab per estendere lo sguardo dal Libano al contesto regionale.

Adriano Spatola o “La smania del corpo”

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di Bianca Battilocchi

«Scarta il pacco, veloce … Spatolaaaaaaaaa!»

2020 –  L’anno della contaminazione globale da Covid19 ha visto apparire un volume atteso da molti e che ha a che fare da vicino con il contagio, anche se un contagio di natura diversa da quello che stiamo vivendo oggi nostro malgrado.

Opera, a cura di Giovanni Fontana, artista e sodale del qui protagonista Adriano Spatola, è l’ultima creazione proposta dalla fucina esoeditoriale [dia•foria, realtà culturale underground intenta (da 10 anni) a premere sul canone letterario – per abitudine piuttosto a digiuno di ricerca sperimentale – illividendolo, in risposta, di chiazze che erano state cancellate nel panorama letterario italiano. Tra loro vi è senz’altro AS il quale, pur avendo intessuto numerosissime reti con artisti di ogni tipo, critici ed editori, italiani e non solo, non ha purtroppo raggiunto ancora la meritata fama, rimanendo per decenni dopo la sua scomparsa (1988) ghiotto bottino per collezionisti, corpo disperso in digitale o in copie limitate e dispendiose, talvolta lampeggiante su ebay in forma di ectoplasma.

Fortunatamente, oltre alla generosa condivisione dell’archivio di Maurizio Spatola e della Fondazione Bonotto, a giocare con le tessere lasciate da AS, qualcuno ci si è messo, dedicando anni al lavoro di ricostruzione e commento delle diverse attività del nostro, che dalla scrittura poetica lineare, visiva e sonora, intermediale e performativa, si sono estese anche alla creazione di manifesti, riviste, festival, incontri sulle nuove possibilità nel campo letterario e artistico. Un’eredità enorme e preziosissima di ricerca sperimentale che ci auguriamo possa ora agevolare l’accesso al formidabile laboratorio spatoliano tramite l’operazione editoriale viareggina.

Per una maggiore aderenza informativa, il volume in questione antologizza per la prima volta tutte le raccolte poetiche lineari, concrete e visuali di AS e offre inoltre un CD con 15 tracce, testimoni delle sperimentazioni sonoro-performative dell’autore; un vero tesoro per le generazioni che non hanno potuto partecipare alle sue ormai leggendarie azioni di «Poesia totale», ovvero di una poesia incessantemente confrontata e sovrapposta alle novità delle arti e dei media, per dilatarne il potenziale e sondarne gli esiti. I testi recuperati dalla vicenda spatoliana sono introdotti da un corposo saggio di Giovanni Fontana, intitolato Guarda come il testo si serve del corpo e assai utile a presentare le varie fasi di produzione artistica del compagno di strada. Nel complesso, Opera si presenta come oggetto accattivante per l’originalità del formato – più vicino a quello di un catalogo d’arte – e per la creatività grafica, che mira a una sintonia con la contaminazione sperimentata dal poeta e cerca di evitare un’esperienza «normalizzata» e univoca di fruizione, naturalmente per quanto possibile all’interno di un libro.

“Il gioco è l’unica speranza della poesia”

Parole d’ordine, quando ci si avvicina al Gigante del Mulino di Bazzano, possono essere tante, poesia totale, metapoesia, sperimentazione, esoeditoria, ecc., ma qui ci si soffermerà su quelle di «gioco» e «gesto».

Il territorio emiliano, dove per lo più si muoveva il poeta, divenne teatro di investigazioni e acrobazie nel tessuto della lingua, esplorazioni, come si diceva, su più versanti e attraverso strumenti differenti, tutte originatesi dalla spinta propulsiva delle avanguardie storiche la cui lezione venne dilatata, passando attraverso composizioni di gusto surrealista e formulazioni grafiche sempre più provocatorie, tramite anche i nuovi «attrezzi» a disposizione nel mondo della comunicazione. Si parla di attrezzi in quanto l’approccio di ricerca poetica sposato dall’autore mostra un’abilità e volontà «artigianale», lontano dalla verticalità aulica e sfuggente della poesia precedente così come dalla piatta orizzontalità offerta dal mercato dell’arte.

Lo studio stimolato anche dalle lezioni bolognesi di Luciano Anceschi e quindi la riflessione sul cosa fare della poesia odierna, viene affrontato da Spatola con una radicale critica a questa e alle sue risorse, interrogando da vicino la meccanica poetica come un accordatore a tu per tu con lo strumento. Sull’argomento, molti suoi lettori hanno usato l’espressione «corpo a corpo» per descrivere la relazione (o agone) intessuta tra questo e la Poesia (“il testo è un oggetto vivente”), messa da lui continuamente sotto accusa e analizzata in ogni sua singola parte. AS dichiarò di aver palpato, bevuto e mangiato di quella – forse come Corpo e Sangue di … –  per sfidare l’intelligenza a “giocare a rifare il mondo”. Scorgerei in questo gioco ascendenze con l’antica arte alchemica, una tensione quindi a scomporre il tessuto poetico per creare un’“opera cosmica biologica” – quella dell’Uomo totale – in una “ascesa operosa nell’ambito della fusione”.

[Capsula]

Il seme del verso alligna e matura nel caos

è incognita o gergo o semplice atteggiamento

di ascesa operosa nell’ambito della fusione

di lava e lebbra contratte nell’omonimia

che ritorce ed asciuga il lessico della materia

il miele la mina subacquea le infiltrazioni.

(Adriano Spatola, “Un po’ di rigore”, Diversi accorgimenti, 1975. Ora in Opera, p. 284)

In quest’affaccendarsi a ri-creare, l’alchimista di Bazzano trita e dissolve segmenti poetici nel bianco stranito della pagina, gioca a rinnovare radicalmente l’arte e quindi il mondo che essa rappresenta, aprendola a infiltrazioni dalla musica, alle arti visive e al teatro, sovrapponendo più piani e manifestando quella «continuità» tra differenti forme culturali di cui parlava Dick Higgins nella sua teoria dell’«intermedialità». La cancellazione del concetto di «categoria» esposta da quest’ultimo, e quindi l’apertura alla fluidità disciplinare, avvicinava ancora una volta Spatola all’amatissimo Emilio Villa, un altro poeta sperimentale ignorato dalla grande editoria ma estremamente prolifico su più livelli (poesia, traduzioni, scritti sull’arte, collaborazioni con artisti) nel proporre un’idea di arte come occasione di ricostruzione continua della realtà (“libertà dal mondo”) attraverso una pronuncia sempre nuova della lingua, una riscrittura permanente. Sul rapporto tra poesia ed extraletterarietà ripropongo un estratto da Verso la poesia totale, volume imprescindibile per chi si occupa di poesia sperimentale:

“Possiamo infatti affermare che «modelli» di poesia totale sono riscontrabili nelle culture preistoriche e, oggi, presso i popoli cosiddetti «primitivi»: esiste in effetti una tradizione extraletteraria, che interessa anche l’antropologia culturale, contrapposta alla tradizione specificamente letteraria, anche se ormai potremmo parlare di integrazione piuttosto che di contrapposizione, visti soprattutto i recenti sviluppi delle ricerche antropologiche… Oltre agli ideogrammi e ai geroglifici, appartengono al repertorio extraletterario gli alfabeti runici, i graffiti murali contemporanei, la grafia infantile, le formule alchemiche, i fumetti, e così via.”

(Adriano, Spatola, Verso la poesia totale, p. 43.)

Il rapporto tra AS e la sua Musa si mantiene vitale (e sicuramente mai tedioso) proprio in virtù di un continuo dissenso con la realtà e un dialogo aperto con l’extraletterario, mezzo prescelto in nome di una Poesia Totale. L’officina poetica propone così vari «oggetti» poetici che si rifiutano di essere letti e compresi nel modo tradizionale e invece invitano l’interlocutore a un rapporto diverso, fatto di incomprensioni e gioco. Tra gli «esercizi» esplicitamente in forma di ludus, come è il caso di Poesia da montare (1965), la linearità dei contenuti e della forma viene frammentata per essere dissipata e riorganizzata liberamente all’interno delle pagine, chiedendo al lettore di “comporre e scomporre, nelle varie possibilità espressive, un numero x di schede” (Opera, 139). L’autore avverte in chiosa che non si tratta di divertissement, quanto piuttosto dell’“offerta di un modello ambiguo di comportamento, una mimesi volontariamente esplicita del processo di ricerca in vitro” dello scrittore che oscilla “tra la purezza dell’assoluto nulla e il gioco fine a se stesso”. Poesia come “plastilina da modellare […] allucinazione del mai finito […] l’hobby del fatevi tutto da voi” (Opera, 139). Si impone così un rifiuto netto per l’abuso di potere imposto da quelle scritture che intendono proporsi forzieri di conoscenza. Sempre in Verso la poesia totale (p. 31) Spatola affermò: “la poesia totale sembra offrire oggi al lettore non un prodotto definitivo, da accettare o subire nella sua chiusa perfezione, ma gli strumenti della creazione poetica, nella loro strutturale rimaneggiabilità”.

Il procedere inesausto per combinazioni inedite (variazioni e varianti) si rinnovella costantemente nella vita artistica di Spatola per mezzo di una predisposizione alla materialità segnica, alla manipol-Azione dei testi. Un elemento che infatti continua ad affascinare nei racconti difficilmente non mitizzabili delle gesta spatoliane è la sua seduttiva teatralità, fatta di rituali serio-giocosi che in ultima analisi lo definivano nei ruoli interscambiabili di sciamano e clown. Già, perché la poesia-magia di AS si giocava soprattutto sui gesti e sui segni, ad esempio quelli guidati dalla sua poesia sonora, dove la parola incantatoria (di “Seduction” e “seducteur”) creava uno spazio nuovo totalizzante e alternativo a quello fisico, “suono che corrisponde alla trama della distanza” (p. 281). Come riscontrabile nelle sue performances registrate, abbonda l’uso dell’onomatopea e la modulazione della voce come canali per uscire dal discorso quotidiano, a farsi rumore, eco, a sovrapporsi alle altre immagine del sé attraverso riverberi, microfoni e tamburi. Altri segni praticati, questa volta sulla pagina, sono gli Zeroglifici, una serie di poesie concrete composte tra gli anni Sessanta e Ottanta, ispirate dalla passione per i geroglifici egizi e in dialogo, probabilmente, con i “trous hyerogliphes” di Emilio Villa. Le incisioni dall’antico Egitto vengono trasportate dal Spatola collagista nell’oggetto libro amplificandone la portata enigmatica qui esposta in un tessuto linguistico che si apre e si chiude a fisarmonica oscurando volutamente i significati, tutto a favore della frammentazione e destrutturazione semantica. I caratteri a stampa vengono così combinati con infiniti assemblaggi di gusto principalmente segnico-figurale e manifestanti un’inesauribile “smania del corpo” di farsi gesto.

Z di Zeroglifico, 1981, Opera, p. 327.

Concludendo questa parziale ricognizione, vorrei ricordare che il poeta operava (o anche, gesticolava) spesso e fertilmente in collaborazione, ed è proprio grazie a questo suo assemblage continuo e coinvolgente che molti progetti di indubbio valore prendono il via. Si vedano ad esempio la creazione di riviste come «Tam Tam» o «Baobab» (prima audiorivista italiana), la mitica rassegna di poesia sperimentale Parole sui muri (1966) dove si omaggiò il cerchio «magico» di Piero Manzoni all’interno del quale ciascuno poteva tramutarsi in “opera d’arte permanente”, o il progetto Maison poètique, votato a una collaborazione fra le arti nella ricerca di un’Opera Totale comune. In quest’ultima realtà di lavoro collettivo e “gioco poietico”, è sintomatica, sottolinea Fontana, l’ispirazione seminale al kiva, ovvero alla struttura ipogea dei pueblos americani costruita per la comunità in uno spazio circolare con apertura verso l’alto da cui entrare con una scala e da cui far uscire il fumo del fuoco, posizionato al centro della costruzione. Le finalità sacrali designate a questo, l’alto valore simbolico, catturano Spatola e lo spingono a sfruttarne l’alone magico per i propri esperimenti con l’intenzione di fare del pensiero e quindi dell’arte un’azione collettiva.

Il far fluire più fonti all’interno dello stesso fiume (vd. anche Fluxus) costituisce il cuore del gesto spatoliano, ovvero è metafora assoluta della Poesia Totale che lo stesso si adoperò in tutti i modi di vivere. Ogni emanazione di Spatola è dislocazione di un pensiero univoco ma multiforme, che cerca nell’alterità il quid ulteriore della possibilità, del divenire.

Questo furore travolgente, questo trasportare materialmente la poesia e l’arte nella vita di tutti i giorni è forse una necessità da evidenziare e rivendicare nel nostro così limitato e limitante presente. Che questa pubblicazione, dunque, fuoriuscita al mondo in un anno così simbolico, sia un invito a sfidare le contingenze, attraversarle con immaginazione e gioco, per creare nuovi rituali e ritrovare un senso di creazione collettiva, “deformare la nozione di poesia fino a farle raggiungere e distruggere i confini mentali con la vita” (p. 39).

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Volume di 508 pagg., cm 19×19
saggio introduttivo e curatela di Giovanni Fontana
appendice fotografica (con molti scatti inediti)
cd audio con quindici tracce
euro 38.00

per acquisti scrivere a: info@diaforia.org o info@dreambookedizioni.it

Overbooking: A tempo perso suonavo ogni giorno

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di

Franco Bergoglio

Magazzino Jazz

Campagnaaaaa…quant’è bella campagna! Il brano Campagna a distanza di decenni fa ancora l’effetto di uno shock emotivo-energetico su chi non l’ha mai ascoltato. L’ho verificato prima del lockdown, in occasione di un tour dell’instancabile folletto James Senese alle prese con l’ennesima incarnazione del suo gruppo, i Napoli Centrale: un treno musicale con destinazione ignota (ma si sa da quale stazione è partito). Dietro la batteria del nucleo originario dei Napoli Centrale e insieme artefice dei testi di molti brani, tra i quali proprio Campagna, stava Franco Del Prete. Questo libro rapsodico, che si muove per flash (come stacchi di batteria?), racconta la sua vita, al centro della prima ondata di quel sound napoletano che poi avrebbe fatto faville. Anche Franco Del Prete stava in quell’onda lunga che lo avrebbe portato a suonare e registrare con tanti da Peppino Di Capri a Enzo Gragnaniello. Si parte dall’infanzia a Frattamaggiore: provincia campana profonda, condizioni difficili e personaggi caratteristici. Le parti più belle del libro sono quelle che raccontano la filosofia dietro la vita del musicista. Lo immaginiamo tra un tiro e l’altro di sigaretta raccontarsi allo scrittore Mario Schiavone: “Lavorare: perdere il tempo, accumulare soldi. Suonare: afferrare il tempo, cercare un ritmo. Raccogliere sogni”.

Tante le comparse che fanno capolino: Tony Esposito con la sua worldmusic, l’esplosivo Tullio De Piscopo, un Alan Sorrenti prima maniera, Mario Musella ed Elio D’Anna, alfieri del pop anni Sessanta con gli Showmen, e ancora gli Osanna, Pino Daniele, Enzo Avitabile, Rino Zurzolo, Joe Amoruso. Un’esplosione di talenti creativi dell’hinterland napoletano che con ondate successive arriva fino ai Centri Sociali anni Novanta con 99 Posse, Bisca, Almamegretta e le cui schegge tardive brillano ancora oggi (i Nu Guinea). E, rimanendo alla metafora bellica: il primo botto lo fece proprio Campagna dei Napoli Centrale.

Un mix inedito di musica e parole che danno voce “alle grida di dolore provenienti dai braccianti delle campagne e dal sottoproletariato urbano”. I Napoli Centrale come i Weather Report italiani: spesso l’accostamento è quello, ma così si resta in superficie. Il background è diverso: negli italiani l’impasto fame/rabbia produce un cazzotto sonoro che trascende gli stili: “E James Senese che cantando gridava “Campagnaaaaaa” non era altro che un pupo fatto ad arte da quella mano invisibile e agitato dal vento della vita che reggeva le braccia in grado di dare anima a ogni componente della band”.

Il calendario è quello degli anni Settanta, però qui c’è uno scarto tra l’immaginario rock mondiale e la provincia dell’impero. Franco Del Prete sintetizza questa sfasatura: “I nostri anni Settanta, in cui non eravamo i Pink Floyd con il loro enorme maiale di gomma che svettava sulle teste della gente. I nostri maiali erano veri, di sangue e carne e ossa e pelle bianca e pelosa. Teste di maiali di campagna comprate per quattro soldi dai capifamiglia contadini, con cui potevano sfamare i loro figli. Mentre noi, per alimentare i nostri piccoli immensi sogni, desideravamo lo spazio sulla scena napoletana per una musica tutta da rifare. Il nostro treno partiva proprio da Napoli Centrale”. Un treno musicale che ha imbarcato viaggiatori diversi, ciascuno con il proprio bagaglio: la spiritualità di Senese, la parabola tragica di Larry Nocella, indimenticato eroe del jazz che “Mangiava alcol, beveva alcol, vomitava alcol”.

Del Prete riflette sull’esistenza in pagine intense dove la penna dell’autore, Mario Schiavone, si mimetizza, lasciando emergere la voce del protagonista, nuda, in alcuni passaggi toccanti, come questo: “Poteva essere una vita a perdere, la mia. Avrei dovuto fare ben altro. Avevo tutte le carte in regola, fin dalla nascita, per essere un perdente. Il mio sogno era andare via, lasciare la mia terra, partire in ogni modo. A 16 anni si andava in marina, così mi ritrovai a fare i miei tre giorni di marina militare a Taranto. Odiai subito quel mondo e me ne tornai a casa”. Altro tempo, altra Italia, altra vita, altra musica.

Le Inghilterre di «Ragazza, donna, altro»

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Foto di Federica Martellini
Foto di Federica Martellini

di Petra VoXo

A febbraio è nata la collana “Black Britain: Writing Back” della Penguin Books curata dalla scrittrice britannico-nigeriana Bernardine Evaristo. Lei è la prima donna di origine africana ad aver raggiunto con “Ragazza, donna, altro” il primo posto in classifica per narrativa nel Regno Unito, anche in seguito alla proteste del movimento Black Lives Matter della scorsa estate. Il suo libro ha vinto il Man Booker Prize nel 2019, ex aequo con “I testamenti” di Margaret Atwood.

Bernardine Evaristo insegna scrittura creativa alla Brunel University di Londra ed è autrice di diverse opere tra le quali “The Emperor’s Babe” (2001) ambientato a Londinium, la Londra romana. Per la nuova collana della Penguin Books l’autrice ha selezionato romanzi diversi di autori Black British pubblicati tempo fa e scomparsi per disinteresse di pubblico, marketing sbagliato, mancanza di consapevolezza collettiva. Il suo intento è correggere il bias che esiste nell’industria letteraria britannica. Un qualche tipo di attenzione, a suo dire, è infatti esistito per autori afroamericani ma meno per autori Black British.

“Ragazza, donna, altro”, edito in italiano da Sur, è la narrazione corale delle storie di dodici personaggi, soprattutto ragazze e donne differenti per classe, orientamento sessuale ed età. Incontriamo anche, nel capitolo Megan/Morgan, un personaggio che si identifica come non binary. La struttura del libro si articola in capitoli e sottocapitoli. Ogni sottocapitolo racconta un personaggio, ha per titolo il suo nome e un simbolo Adinkra, sistema di emblemi ghanesi che rappresenta concetti e aforismi.

Un veloce flusso di coscienza ripercorre i momenti cruciali dall’infanzia al presente della vita di ciascun personaggio, e leggendo si ha la percezione di essere nella mente di ciascuno. Le storie ci rivelano poi i legami tra i personaggi principali attraverso relazioni matrilineari – nonna, madre, figlia – e amicali.

L’opera è in versi, senza punti, stile considerato dai critici vicino ai versi liberi e ai poemi in prosa. L’autrice lo chiama fusion fiction e spiega che le ha permesso di muoversi fluidamente nel tempo e nello spazio, in maniera più libera della prosa tradizionale.

La qualità del tenere insieme più tempi e spazi è gestita in maniera speciale nella letteratura della diaspora africana. Le storie del libro sono prevalentemente ambientate a Londra dagli anni Ottanta a oggi ma si muovono fino ad arrivare alla fine del XIX secolo, alle Barbados e in Northumberland, area al confine tra Inghilterra e Scozia.

L’Impero britannico nella sua forma classica ha avuto fine gradualmente, dopo la Seconda guerra mondiale. É seguito il Commonwealth ma anche i paradisi fiscali che si trovano oggi in molte ex-colonie, perfino nelle isole Pitcairn dove si stabilirono gli ammutinati del Bounty. L’impero Britannico ha dominato metà mondo attraverso le violenze della colonizzazione modificando in maniera traumatica la vita di tante comunità, causandone la mobilità sia attraverso il traffico di esseri umani che tramite la generazione di condizioni che hanno portato alla necessità di emigrazione. Per mappare le dimensioni e i luoghi che le Inghilterre, nome coniato da uno dei personaggi per descriverne la qualità multietnica, contengono e dai quali sono contenute, sono necessarie voci in grado di restituire autentica complessità ai gruppi che hanno fortemente contribuito alla costruzione e identità di questi spazi.

Possiamo quindi leggere il libro anche come una mappattura di luoghi inglesi attraverso storie di personaggi legati ai fili di una Storia meno raccontata. La vita di Bummi parte dal Delta del Niger negli anni Sessanta, area fortemente sfruttata per il petrolio e dalla quale sua madre la porta via in cerca di un futuro migliore. Bummi tra diverse vicissitudini finisce per emigrare nel Regno Unito; qui inizia un’altra sua storia e la storia di sua figlia. Storie che a loro volta influenzano il contesto a loro circostante.

Tra le zone di Londra presenti nel libro troviamo Brixton e Peckham, entrambe a sud del Tamigi e certamente scelte dall’autrice perché storicamente povere e dalla forte presenza afro-caraibica.

Brixton era un quartiere medio-borghese in epoca vittoriana; dopo un periodo di impoverimento venne ravvivato dall’arrivo di migranti da molte regioni dell’impero, specialmente dalle Indie Occidentali. A detta di Bernardine Evaristo negli anni Ottanta si potevano qui acquistare, nel famoso mercato, le lumache giganti nigeriane. Nel 1981 il cinquantacinque per cento della gioventù Black British del quartiere era disoccupata (1) ed ebbe luogo una rivolta. Nel libro di Bernardine Evaristo, Yazz prende in giro sua madre Amma che non ammetterebbe facilmente di aver partecipato alla gentrificazione del quartiere frequentando i nuovi locali.

Insieme a Brixton, anche Peckham sta vivendo oggi una rilevante gentrificazione. Tra i personaggi del libro incontriamo Shirley, che insegna in una scuola superiore nel quartiere. Lei sperimenta gli effetti dell’era Thatcher sul sistema educativo, trasformato a impronta del libero mercato: da una scuola in cui i professori potevano, se volevano, aiutare i tanti studenti svantaggiati a una istituzione nella quale i perni sono il compito, la performance e la competizione.

Nel libro compare anche il centro di Londra con King’s Cross e il National Theatre. King’s Cross è la grande stazione dei treni, gentrificata potentemente a partire dal 2000. L’ho conosciuta nella sua forma attuale e ho faticato a immaginarla negli anni Ottanta come area che ospitasse uno squat, senza la connessione ferroviaria con l’Europa. Secondo la leggenda quest’area fu il luogo di battaglia tra la tribù degli Iceni, capitanati dalla regina Boudicca, e gli invasori romani.

Il personaggio di Amma approda al National Theatre, il teatro nazionale, dopo decenni di teatro indipendente, portando in scena con una compagnia di donne di origine africana una pièce sulle amazzoni del Dahomey, che combatterono contro i francesi nell’attuale Repubblica del Benin.

In “Ragazza, donna, altro” l’autrice ha utilizzato in maniera generativa e complessa il concetto di intersezionalità. Creato da Kimberlé Williams Crenshaw nel 1989 all’interno degli studi legali e del black feminism, questo concetto teorizza l’oppressione come insieme di molteplici sistemi sociali che interagiscono continuamente tra loro. La condizione di una persona è influenzata quindi da classe, genere, origine, “colore” della pelle e altri fattori che insieme costituiscono un aggregato specifico di barriere sociali.

Il termine proviene da una visione strutturale della società nella quale le diseguaglianze sono teorizzate come oggettive, concrete e istituzionali. Bernardine Evaristo conferisce sostanza umana alla teoria politica, raccontandone la componente esperienziale e soggettiva. Leggendo entriamo a far parte di più contesti comunitari, delle relazioni che li costituiscono e ne vediamo incomprensioni e impasse. L’autrice narra con rara maestria i gap e blind spot, i divari e i punti ciechi dei rapporti e la loro natura politica.

Ad esempio, LaTisha e Carole frequentano la scuola dove insegna Shirley, sono amiche inseparabili, fin quando Carole comincia a comportarsi distaccatamente, va a studiare matematica a Oxford e le due si perdono di vista. LaTisha, cassiera e poi manager in un supermercato, anni dopo questa separazione vorrebbe mostrare a Carole di meritare la sua amicizia, pensando che l’amica l’abbia snobbata in cerca di una vita più agiata. In realtà Carole non era riuscita a condividere con nessuno che, durante la festa a casa di LaTisha, aveva subito una violenza sessuale. La sua reazione allo shock e al trauma era stata di ritirarsi dai rapporti sociali, puntando tutte le energie sullo studio della matematica per “diventare qualcuno”.

In questo caso l’autrice mostra come LaTisha, data anche la diversità di classe sociale creatasi nel tempo tra le due e diventata una barriera, non legga nei comportamenti dell’amica un disagio dovuto a un trauma, ma interpreti questa separazione come l’esclusione dalla vita dell’amica, impegnata a lasciarsi alle spalle il contesto di provenienza.

Questa è solo una delle articolate trame poste dalla profonda consapevolezza della scrittrice, abile nel mostrare come le dimensioni politiche e affettive si combinino sempre tra loro. Bernardine Evaristo mostra le ragioni delle diverse parti, individuali certo, ma illuminando anche l’elefante nella stanza, ovvero le motivazioni storiche, sociali, politiche che costituiscono le radici di potenziali incomprensioni tra persone profondamente legate. La dimensione politica diventa così un’entità dinamica che mostra il proprio peso nella Storia ma anche in momenti intimi del rapporto con sé stessi e gli altri.

Seppur con prospettiva politica e bagaglio culturale differenti, questo lavoro attento nello scandagliare le divisioni tra donne e nelle comunità mi ha fatto venire in mente la saga de “L’amica geniale” di Elena Ferrante. Due autrici che hanno, al di fuori di previsioni, avuto un grande successo di pubblico.

Bernardine Evaristo in questo libro, di cui ho apprezzato l’onestà e il non adagiarsi su posizioni rigide e ideali, narra tanto le divisioni e perdite di reciprocità tra persone quanto il bisogno di venire a patti con la Storia e con la propria storia per ritrovare rapporti e significati. Il cambiamento personale e relazionale che sa coinvolgere anche una ricodificazione dell’elemento sociale e politico risulta allora trasformativo nel senso più positivo del termine.

(1) Come riportato anche nel libro “The London Dream: Migration and the Mythology of the City” (2020) di Chris McMillan. Un interessante film dell’epoca ambientato a Brixton è Babylon (1980) del regista italiano Franco Rosso; narra le vicissitudini di un gruppo di ragazzi della zona interessati alla musica reggae.

Petra VoXo è una scrittrice e lavora a Londra. Ha pubblicato Fantascienza da Bar (2020), una raccolta di racconti di fantascienza, omaggio al genere, che si muove tra ironia e nostalgia, mondi passati e futuri possibili. Al momento sta scrivendo il suo secondo libro.

Da “Esercizi d’addio” di Piera Oppezzo

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[Di Piera Oppezzo, Luciano Martinengo avevo curato Una lucida disperazione, per Interlinea nel 2016. Il volume raccoglieva una parte importante dell’opera poetica edita dell’autrice, opera ormai difficilmente reperibile, ed era corredata da un’introduzione di Giancarlo Majorino. Quest’anno, sempre grazie alla sua curatela, è uscito per Interno poesia Esercizi d’addio. Poesie inedite 1952-1965, con prefazione di Giovanna Rosadini. Ne presentiamo alcuni testi. A. I.]

Torino

Non mi spiego ancora

Chi sia colui

Che va tranquillo al lavoro

E torna tranquillo

E passa tranquillamente

La domenica.

Poi senti che dice:

“Ma, è la vita

Bè, arrivederci”

Scendendo dalla vettura

Con quel profilo pacato

La camicia tanto bianca

Il quotidiano in tasca.

*

Ritorni

“Né giovani né vecchi”

I giorni ritornano.

È tornato quel giorno

In cui l’auto saettante

Si sfasciò sulla pista

Fra il cinguettio accanito degli uccelli.

Si sono rivisti i barconi dei pescatori

Le reti scure in scuri tramonti

Le cabine aperte e abbandonate

Gli ombrelloni fieri e battuti dal vento

E qualche ragazzetto, più forte di tutti,

Senza freddo o paura

Saltare sulle onde come in altra estate.

*

Vento

Il vento rivelò la perfezione

Delle luci e delle ombre

Fra segni particolari della realtà.

Rivelò che i rami degli alberi

Sono il miglior disegno

E i cartelloni pubblicitari

La più spasmodica attività.

Odor di polvere sul corso

Dove corrono le foglie

E odor di fritto guizzò dalla trattoria.

Di questi segni

Arricchì la sua giornata

E provo la spinta della contentezza.

*

Quando un tale morì

Quando un tale morì

Io non ero presente.

Non per questo

La cronaca sarebbe stata confusa

Ma perché i fatti

Si dimenticano presto

E assimilano ai fatti precedenti

Finché gli incidenti mortali

Diventano: questa morte.

Naturalmente non soffro

Non l’ho mai conosciuto.

Mi passa appena sulla pelle

Il piacere di sopravvivergli;

Una pretesa

Padronanza della vita

Perché stavolta non sono ancora io

A soccombere

In questo avvenimento naturale.

*

Presente o assente

Presente o assente

La nostra sofferenza

È qualcosa di intatto

Per sempre.

Mai consumata

Fino al suo esaurirsi

Non arriva nuova

Ma semplicemente torna

Come una stagione

Torna a compiere

I suoi atti naturali.

Nociva e violenta

Per una cosa tenera

Quale la nostra debolezza

La sofferenza ci assorbe.

*

Stremato dallo spazio

Stremato dallo spazio

Cancellato dal tempo

Irradiato da una luce fissa

Articolato da un solo pensiero

Applicato con idiozia folgorante;

Allucinato nella propria indifferenza

Assediato nel suo isolamento

Incontrollato nella propria rigidezza

Bloccato nel suo smanioso

Apparato di banalità concentrata.

*

La più stretta intimità

La più stretta intimità. Intimamente

il più possibile un rapporto estremo

col tempo, in disaccordo.

Lo spazio ridotto ad una carrellata vorticosa:

solo vortice e non luoghi.

Voci al galoppo, superfici senza attrito.

Solo ore che si sbloccano a piccoli scrolli.

Alcune filano lisce nel sonno:

migliori ma perdute: il meglio inutile.

*

La giornata lavorativa

Lo scomodo andamento del tempo

avallato sulle panchine andandoci a consegnare

uno strato di mezz’ora, tra l’una e le due,

seduti al contrario con la fronte appoggiata allo schienale

il mattino del tutto stroncato,

una combustione nello stomaco

segnala l’insediamento del pomeriggio

ecc., ecc., ecc., ecc., la sera.

Tracce per una playlist (tre frammenti sottocomuni e una postilla)

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di Lorenzo Mari

Ci sono molti libri che fanno problema: scriverne è, tutto sommato, un esercizio facile e piacevole; talvolta, poi, la recensione può portare a un aumento, per quanto limitato ed effimero, del capitale simbolico dell’autore o dell’autrice, e anche di chi ne ha scritto. Ci sono poi alcuni libri che sono problema: nominandolo e agendolo, mettono in crisi le dinamiche stesse dell’accumulazione e dello scambio del capitale simbolico, liberando, così, energie che si possono dirigere altrove.

Undercommons. Pianificazione fuggitiva e studio nero (Tamu/Archive Books ed., 2021) di Fred Moten e Stefano Harney entra di diritto nella seconda categoria: questa raccolta di saggi e interventi – che trae origine da un articolo apparso nel 2004 su Social Text[1] e che testimonia un lavoro collaborativo e cooperativo più che decennale, e non ancora terminato, per quanto infine approdato alla forma-libro, in inglese, nel 2013 – espone un programma culturale e politico che si estende a tutto campo, partendo dall’incontro-scontro tra la tradizione radicale nera e l’operaismo/post-operaismo/neo-operaismo italiano e giungendo a ridefinire alcune questioni fondamentali tanto per la produzione culturale – in ambito accademico, in particolar modo – quanto per la militanza.

Questioni che potrebbero forse essere riassunte sommariamente così: “non solo e non tanto dentro e contro l’università, bensì anche con e per gli undercommons”. La prima parte rinvia direttamente alle famose parole di Mario Tronti, con la sostituzione dell’“università” alla “società” presente nella formulazione originaria (e questo, secondo Moten e Harney, non tanto perché l’università sia il prodotto diretto di più ampi processi socio-economici, quanto perché la stessa divisione del lavoro accademico può anticipare e prefigurare quei processi). La seconda parte, invece, porta al cuore dello specifico dei contributi di Moten e Harney, ovvero a quegli undercommons[2] che offrono ulteriore articolazione all’ormai lunga tradizione di analisi e lavoro sui commons[3], evidenziando come nel processo di costruzione di questi ultimi siano sempre all’opera dinamiche di esclusione che sono riconducibili, in prima istanza, a una divisione del lavoro intimamente classista, fortemente razzializzata e rigidamente assestata secondo linee di genere.

Allo stesso tempo, però, Moten e Harney non si concentrano sui possibili sviluppi di quell’approccio intersezionale che potrebbe derivare in modo piuttosto immediato e coerente da quanto appena affermato, passando, invece, più direttamente, a delineare una possibile localizzazione culturale e politica degli undercommons (una localizzazione costitutivamente provvisoria, peraltro).

Rifacendosi en passant alla figura del “ladro di idee” e proto-hacker promossa da Félix Guattari[4], infatti, il saggio non mira alla sistematizzazione del concetto di undercommons, perché quest’ultima porterebbe unicamente a una sua legittimazione, politicamente ambivalente, entro i confini ambivalenti della “critica”: rielaborando alcune annotazioni sparse di Fredric Jameson e di Gayatri Chakravorty Spivak, Moten e Harney sottolineano come una critica, apparentemente progressista, che nasca in ambito accademico avrà sempre una serie di determinazioni di classe (di razza, di genere, etc.), nonché un rapporto con l’istituzione e la divisione del lavoro che ne limiteranno la portata e l’intervento politico.

Oltre a preferire l’utilizzo strumentale, militante e non di rado ludico – come ribadito nelle prime pagine del dialogo degli autori con Stevphen Shukaitis[5] – degli undercommons, se ne dà, piuttosto, una provvisoria localizzazione sociale: «Comunità maroon di insegnanti di scrittura, dottorande senza supervisore, storici marxisti a contratto, docenti di management dichiaratamente queer e omosessuali, dipartimenti di studi etnici di università statali, programmi di cinema rimossi, case editrici di riviste di studenti yemeniti con visto scaduto, sociologhe di università storicamente “nere” e ingegneri femministi»[6]. Con questo, Moten e Harney non intendono individuare una sorta di lumpenproletariat accademico che possa provare a emanciparsi dal punto di vista culturale e materiale, bensì presentare una rapida ricognizione sociologica dei luoghi degli undercommons: luoghi che esistono già ora – nonostante l’elenco possa funzionare soltanto da rapida e magari immaginifica esemplificazione – e che già ora complicano le dinamiche stesse di produzione della teoria[7].

In altre parole, all’interno di una scrittura che non disdegna e anzi pratica a pieni mani il linguaggio (uno dei possibili linguaggi) del post-strutturalismo – intersezione, questa, mai negata, da Moten e Harney, nella loro proposta teorica, più volte ribadita, di un incontro-scontro fra la tradizione radicale nera e l’operaismo/post-operaismo/neo-operaismo italiano – sono frequenti le “fotografie di realtà”, delle quali non si può dare conto qui in modo esaustivo, ma che di certo confermano e arricchiscono il percorso teorico del saggio. Sono, inoltre, la spia di una dimensione materiale che può ancora irrompere fortemente nella teoria, configurando lo snodo tra teoria e prassi in un modo già parzialmente diverso da quello della teoria che si auto-legittima (in attesa di una verifica storica, sempre lungi dall’arrivare nel momento in cui la teoria, nei luoghi stessi della sua produzione, si svincola dall’implicazione con le proprie strutture materiali) o, ancora, di quella divulgazione che, già nella propria strutturazione retorica, si vuole immediata traduzione “nella realtà delle cose”.

Di fronte a questo procedere magmatico e insieme per lampi e frammenti (simile all’improvvisazione musicale, nel jazz e oltre i confini del jazz), sembra qui inopportuno, inutile, forse impossibile, tentare di pervenire a considerazioni “critiche” di fondo – esse stesse sono problema, per Moten e Harney – ma, aderendo alla sostanza della loro proposta (pur nell’abbondanza delle note a piè di pagina, contrariamente a quanto proposto nel libro), si cercherà di proporre tre ulteriori frammenti che riprendano e rielaborino le energie che si disperdono a partire dal libro. Riguardano tre direttive fondamentali del libro: il general intellect e lo “studio nero”, la “pianificazione fuggitiva” e l’approccio culturalista (al rapporto tra musica, produzione teorica e militanza, in particolar modo).

 

1) Frammento sulle macchine (e sulle intellettuali sovversive).

 

Cosa intendono Moten e Harney per Black Study o “studio nero”? Non si tratta dei più comunemente noti Black Studies – sintomo, pur nella loro legittimità e importanza, di una compartimentalizzazione disciplinare che ha poco a che vedere con gli undercommons – bensì dello “studio” vero e proprio. Si rifugge così l’attuazione di quelle politiche identitarie così spesso imputate agli Studies: la blackness è intesa non come immodificabile attributo ontologico; al contrario, “studio nero” e “pianificazione fuggitiva” «sono rivolti al fare causa comune con la rottura dell’essere, una rottura […] che è anche nerezza, rimane nerezza, e che nonostante tutto rimarrà rotta e in rovina, perché questo libro non è una prescrizione per alcuna riparazione o risarcimento»[8]. In questo, non c’è apologia di quello che è stato storicamente rifiutato, ma “rifiuto del rifiuto”[9]: contro le aporie delle politiche identitarie, costitutivamente essenzialiste, ma anche contro quelle dell’anti-fondazionalismo, ad esempio anti-razzista, implicato nelle aporie di certo relativismo[10]. Tornando alla “carne” – già punto focale della riflessione teorica afroamericana[11] – si può sottolineare, invece, la permanenza di un «punto fisso di nessun punto fisso»[12] che sovverte l’intero discorso della logistica (dell’economia della logistica), ora diventato dominante, in quanto suo margine irriducibile, o “logisticalità”: «La logistica, in qualche modo, sa che non è vero che non sappiamo ancora cosa possa fare la carne. Esiste una capacità sociale di istanziare più e più volte l’esaustione del punto fisso come terreno sottocomune, che la logistica conosce come inconoscibile […] La logistica percepisce il senso di questa capacità come non mai – questo lascito storico inseorgente, questa storicità, questa logisticalità, delle vite rubate»[13].

Questo punto – definito da Christoph Brunner e Gerald Raunig come una forza che rifugge ogni mossa essenzializzante, anche strategica, mantenendo un certo appiglio (hold) perché il potenziale di radicalità sia ancora percepito e agito attraverso i corpi e gli spazi[14] – può forse costituire l’anticipazione, peraltro anch’essa sempre già presente, di un posizionamento. Oltre al posizionamento, tuttavia, è opportuno segnalare anche quello che implica, più concretamente, la promozione dello studio: né acquisizione di competenze professionalizzanti, né lavoro propedeutico all’esercizio della critica, lo studio è ciò che si ritrova ad eccedere continuamente i limiti dell’università neoliberale. Per quanto sia definito come «poco professionale» dalla stessa università – perché collocabile ai margini della divisione del lavoro accademico, essendo stato espulso dai suoi meccanismi di valutazione e selezione, che valgono tanto per le “studentesse” quanto per le “lavoratrici dell’università” – lo studio è un’attività già «più che professionale»[15], alla base della stessa definizione di Universitas e al tempo stesso suo continuo eccesso, mai del tutto normalizzabile.

Si tratta di un’apologia della studentessa fuori corso? Anche. Della ricercatrice incompetente? Anche. Se si dimentica per un attimo la celebrazione dello studio – della produzione e riproduzione delle comunità universitarie, ad esempio, come comunità interne, ai margini o anche esterne all’ambito accademico – che è stata contrapposta alle restrizioni imposte con la didattica a distanza, questa presa di posizione resta scandalosa, soprattutto se rapportata al dibattito italiano, dove da tempo si guarda con un certo disprezzo classista alle studentesse universitarie (come prodotto di una più generale “lotta di classe dall’alto” alla scuola[16]); può sembrare, in altre parole, una provocazione dai toni inutilmente massimalisti, tesi ad autolegittimare la mancanza di competenze e di professionalizzazione in nome di una sterile critica dell’«affermazione dell’individualismo borghese»[17].

Se si ammette invece la correttezza dell’argomento – con ogni probabilità, basta analizzare in modo approfondito i sistemi di valutazione dell’istruzione e della ricerca per concordare, almeno in parte – nasce un ulteriore interrogativo: il luogo di elezione per questa dialettica non resta forse l’università stessa? Se lo chiedono anche Moten e Harney, rispondendo: «essere un accademico critico all’interno dell’università significa essere contro l’università; ed essere contro l’università significa sempre riconoscerla e trarne riconoscimento; istituire la negligenza di quel fuori interiore, quel sottoterreno non assimilato, una negligenza di quello che è esattamente, dobbiamo insistere, la base delle professioni. […] L’università non riconoscerà questa indecisione e, di conseguenza, la professionalizzazione sarà formata esattamente da quello che non può riconoscere, il suo antagonismo interno, il suo lavoro imprevedibile, il suo surplus»[18]. La più alta professionalizzazione corrisponde alla più grande negligenza degli undercommons, nonché delle forze sociali che lo agitano e lo agiscono: di nuovo, l’intellettualità sovversiva non può essere ricompresa entro i limiti della produzione e riproduzione del sapere accademico, senza esserne neutralizzata; l’intellettualità sovversiva, come insistono sia Moten e Harney sia Jack Halberstam, nella sua prefazione, deve restatre prerogativa del general intellect.

Questo non è, però, un general intellect che discenda in linea diretta dal Frammento sulle macchine dei Grundrisse di Karl Marx, riferendosi piuttosto alla tradizione post-operaista/neo-operaista italiana, con la sua ricerca di un’automazione progressiva che sostenga il rifiuto del lavoro e con i suoi frequenti intrecci del general intellect marxiano con la concezione spinoziana del social brain[19]. Tuttavia, nel suo “rifiuto del rifiuto”, la componente principale di questo intelletto generale resta paradossalmente assimilabile a quel pensiero astratto e “senza portatore” che già per Marx era il «pilastro generale della produzione della ricchezza» in quanto parte del «processo vitale stesso della società»[20]. L’intelletto generale resta slegato da una prospettiva antagonista o emancipazionista; continua invece a “pianificare”, in modo incessante e “non competente”, in eccesso rispetto a ogni tentativo di policy – sempre estremamente “competente”, pur nella sua inefficienza, o nel suo autoritarismo normalizzante – ma anche in alternativa a ogni prospettiva rivoluzionaria, considerata, nelle parole introduttive di Jack Halberstam, nient’altro che un «impeto mascolino o uno scontro armato»[21].

Si pianifica, in altre parole, restando esclusivamente all’interno di una dimensione eminentement6e culturale e cercando di praticarvi quella distinzione tra “generazione di conoscenza” e “generazione di comportamenti” già evidenziata da Andrea Fumagalli, dove la prima può, forse, perpetuarsi felicemente nello studio, mentre la seconda rischia sempre di «diventare veicolo e opportunità di nuovo profitto privato, nel momento stesso in cui i nuovi comportamenti, inizialmente e necessariamente alternativi, vengono incapsulati nel fenomeno della moda intesa come ulteriore (e potenziato) feticismo della merce»[22]. Come sia possibile distinguere attivamente la “generazione di conoscenza” dalla “generazione di comportamenti” resta imprecisato, nel testo di Moten e Harney, così come la sottrazione della “generazione di conoscenza” da un processo di semplice messa a valore capitalistica degli undercommons.

Se questo resta “lavoro da fare” – o meglio, un’opzione che resta, ancora, radicalmente aperta – allo scopo di evitare una culturalizzazione dell’intelletto generale che ne sopprima ancora una volta la dimensione antagonista, appropriata dal capitale[23], vi è anche un’altra possibile complicazione materiale dello studio: come si può, sostenere quel debito che contraggono gli studenti – specialmente, ma non solo, nel sistema universitario statunitense – mantenendolo nei termini paradossali e sempre eccedenti del “debito illimitato”, che non può essere “riparato” né “risarcito”? Come segnalano Moten e Harney, la giustizia riparativa ha certamente i suoi limiti, in quanto non cancella l’impronta del credito, ma, davanti alla stretta materiale e coercitiva di un “debito illimitato”, come si può garantire la riproduzione stessa dello “studio”?

 

2) Frammento di Pistola (o della manager in fuga)

 

La risposta di Moten e Harney è che lo studio si riproduce soltanto nella “pianificazione fuggitiva”. «Tornerò all’università e lì vivrò di furto» è la soluzione proposta da Moten e Harney, con un’opportuna misquotation e dislocazione dell’originario monologo di Pistola nell’Enrico V di Shakespeare[24]: «Questa è oggi l’unica relazione possibile con l’università statunitense e potrebbe valere per ogni università, in ogni parte del mondo. Potrebbe essere vero per l’università in generale. Ma, certamente, è tanto più vero negli Stati Uniti: non si può negare che l’università sia un luogo di rifugio e non si può accettare che sia un luogo di rivelazione illuminista. Alla luce di tali condizioni, non si può entrare nell’università se non furtivamente e, una volta dentro, rubare tutto il possibile. Abusare della sua ospitalità, ostacolare la sua missione per unirsi alla colonia di profughi, di rifugiate, al suo campo nomade, per essere nell’università ma non dell’università – questo è il percorso dell’intellettuale sovversiva nell’università moderna»[25].

La relazione con l’università, dunque, può essere soltanto “furtiva” e, di conseguenza, “fuggitiva”: non si tratta soltanto di un “esproprio proletario” in una sua nuova, ed estremamente problematica, versione culturale[26], ma della rivendicazione di un’intera dimensione politica sottratta alle dinamiche del possesso e dello spossessamento con la quale Moten e Harney – prescindendo, di nuovo, dalla più classica prospettiva emancipazionista, basata sui processi di autocoscienza e di lotta di classe all’interno di una specifica divisione del lavoro, e ricorrendo invece alla memoria della “conquista”, e cioè di quel lungo dominio a carattere schiavista che ha segnato, in modo particolare ma non esclusivo, la storia degli Stati Uniti – identificano più volte la politica stessa[27].

Davanti alla mancanza di alternative propalata dal realismo capitalista – Fisher continua a tornare, in controluce – si potrebbe parafrasare che “la pianificazione del cambiamento è già essa stessa cambiamento”. Continuare a pianificare, con e per gli undercommons, consente di continuare la fuga, che è ancora, mutatis mutandis, quella delle schiave e degli schiavi in fuga dalle piantagioni; non si ricerca una strategia controegemonica, che si segnala già in partenza come fallimentare, ma si mantiene la memoria della “conquista” e della stiva della nave del Middle Passage per uno scopo che è, innanzitutto, di «preservazione militante»[28].

Se questa posizione può sembrare eccessivamente difensiva, o anche auto-legittimante, ciò non lo si deve, tuttavia, a un giudizio morale, “critico” e nemmeno “politico” – nelle due accezioni, almeno, rifiutate da Moten e Harney – ma alle conseguenze stesse della posizione che assume la “pianificazione fuggitiva” rispetto alla questione manageriale della policy, cui Moten e Harney dedicano una sostanziale operazione decostruttiva[29], ma che resterebbe, in ultima istanza, immodificata da una strategia di “preservazione militante”.

Se è senz’altro vero, come scrivono Moten e Harney, che «ci sono persone che vogliono gestire le cose, e ci sono cose che vogliono scappare»[30], ancora una volta, però, all’opzione della fuga è utile contrapporre un’altra strategia, sempre suggerita da Mark Fisher – il quale torna ad essere, ancora una volta, utile cartina da tornasole, per la lettura di Undercommons – in uno dei suoi ultimi scritti, che è quella di “accelerare il management”[31]. Resta possibile, infatti, un tentativo di accelerare il management fino a svincolarlo dalla sua appropriazione neoliberale – «What is a communist society if not a managed society?»[32], si chiede Fisher (non senza una punta di candore, che Moten e Harney, potrebbero fiutare e rifiutare) – e rimetterlo, così al servizio di un’agency collettiva.

Ora, mentre l’articolo di Fisher si chiude con un paio di richieste a una nuova managerialità del lavoro culturale che sembrano limitare di molto la portata della sua proposta – manager che non portino a paradigma la loro dipendenza tossica dal lavoro, imponendo carichi di lavoro eccessivi ai loro dipendenti; manager che non soverchino i dipendenti di tante micro-mansioni (non di rado, di natura burocratica e burocratizzante), ma di uno “spazio per pensare”, ecc.[33] – è qui utile osservare come l’accelerazione del management invocata da Fisher sia, in realtà, permeata dal desiderio di ritorno a quei corpi intermedi, dal partito al sindacato, che la folk politics di sinistra – così com’è stata esemplificata, nel mondo anglosassone, da un movimento come Occupy (riferimento che, in certo modo, oscura esperienze simili e precedenti) – ha inteso abbandonare in favore di una logica neo-orizzontalista[34].

Com’è noto, Fisher è molto attento a non lasciarsi invischiare nelle forme melancoliche di una politica della nostalgia: anche per lui, si tratta di re-immaginare un mondo. Anche per lui, si tratta di guardare a un’altra citazione shakespeariana proposta da Moten e Harney – « Pazzo, amante, poeta: tutti e tre sono composti sol di fantasia», da Un sogno di una notte di mezza estate (Atto V, Scena 1) – dove, se Moten e Harney suggeriscono di sostituire al poeta (un’elisione bizzarra, ma, in fondo, non troppo, in un testo, come Undercommons, che non di rado sconfina, di fatto, nei territori della poesia) la «guerriglia anticoloniale»[35], Fisher potrebbe chiedere di aggiungervi il “militante del desiderio post-capitalista”, se non, addirittura, un “sindacalista” (una nuova forma di sindacalismo, almeno).

 

3) Frammento dell’eschaton discacciato e cantato a ritmo di scat (o del party clandestino)

 

Re-immaginare il mondo non vuol dire accelerarne la fine all’insegna del “tanto peggio tanto meglio” – su questo punto, anche l’accelerazionismo, nell’accezione datagli da Mark Fisher, sembra piuttosto chiaro[36]. Moten e Harney si mantengono al di là delle interpretazioni escatologiche (e anche anti-escatologiche, intendendo rifuggire anche questo ulteriore binarismo) che sono rifiorite, su altri versanti, in tempi di pandemia. Una delle loro formule più riuscite, ricordate anche da Jack Halberstam nella sua introduzione, è la celebrazione del «gioioso rumore dell’eschaton discacciato e cantato a ritmo di scat»[37], rifuggito e al tempo stesso portato altrove da una pratica musicale coerente con la storia culturale e politica della nerezza che permea il libro. Musica soul (Curtis Mayfield e Marvin Gaye su tutti) e jazz (Joe McPhee e Don Cherry, tra gli altri) restituiscono un percorso che flirta con le metodologie degli studi culturali, per poi portare a nuovi approdi. Si prenda, ad esempio, l’ascolto della struttura antifonale di Nation Time (1970) di Joe McPhee: «In un certo senso, sembra davvero che McPhee stia richiamando all’ordine, stia facendo la paternale al pubblico in una serie di domande e risposte: “What time is it?” “Nation Time”. Ma per altri versi, qualsiasi ordine impostato secondo quel richiamo all’ordine, se lo è, allora si spezza rapidamente o muta in qualcos’altro attraverso l’improvvisazione collettiva […] mi chiedevo come si possa allo stesso tempo richiamare all’ordine e richiamare al mutamento, o a una rottura, o forse a un genere diverso di ordine»[38]. Al che Fred Moten incalza: «Ho sempre pensato che l’enunciazione di Nation Time […] è davvero una sorta di annuncio dal tono internazionale e, oltre e attraverso di esso, anti-nazionale. A me sembra che il nazionalismo nero, come estensione del panafricanismo – che è resistenza a una data Africa all’interno dell’Africa, vista esattamente come una combinazione venale, amministrativa e accumulativa di accaparramento e spartizione – interrompa la nazione. […] Non solo è facile sbagliare l’origine, ma sbagliare proprio tutto, quando si pensa in termini di un’origine. Ma non penso che McPhee fosse o volesse essere originario. Forse c’è un modo segreto, rivelato da qualche parola unica e segreta, per muoversi attraverso queste organizzazioni e disorganizzazioni costanti della domanda, che prende la forma in deformazione di una sola voce che acconsente e richiede la sua moltiplicazione e divisione»[39]. Questa “forma in deformazione” data dall’“organizzazione e disorganizzazione della domanda” è presente anche nel brano “Trini To The Bone” (2003) di David Rudder – apparentemente una celebrazione nazionalista di Trinidad a ritmo di calypso e, in realtà, una disarticolazione e ri-articolazione di quel discorso attraverso la citazione puntualmente riportata da Moten e Harney: «How we vote is not how we party»[40].

Nella loro dimensione collettiva e ludica, gli undercommons sono, soprattutto, una festa, nella quale si esplica il “rifiuto del rifiuto” della tradizionale azione politica basata sui processi di autocoscienza attraverso una liberazione, già ora, dei corpi. Perché, allora, non aggiungere alla playlist, soprattutto soul e calypso, di Moten e Harney quella proposta da Matt Colquhun, in appendice a The Postcapitalist Desire (2020) di Mark Fisher, da lui curato[41], e che spazia da “Jobseeker” (2008) degli Sleaford Mods a “At Last I am Free” (1978) di Chic, passando per i Jam, gli Specials, ma anche “Can’t Stop Playing (Makes Me High)” (2015) di Dr Kucho! & Gregor Salt?

 

[La playlist per una festa futura è disponibile già ora. In fondo, come ha scritto Paolo Do in una recensione del libro, «che sia la stiva di una nave negriera, la sala caffè delle infermiere o degli insegnanti di un liceo, una qualsiasi cucina, portico, cantina, corridoio, panchina di un parco poco importa. È durante una qualsiasi “festa improvvisata di notte” che ci si incontra per decifrare la musicalità di questo testo e comprendere il ritmo dove tutti possono mettersi a insegnare e a imparare da tutti». Perché, una volta delineata una proposta di playlist, non re-immaginare già ora un luogo per questa festa, che sia anche un luogo di traduzione degli undercommons? Ha forse a che fare con la re-immaginazione di quei centri senza affiliazione, o ancora quei “centri sociali” che, nella tradizione italiana, hanno già da sempre costituito un luogo di espropriazione e riappropriazione dei saperi dall’università e di pianificazione fuggitiva? C’è ancora, ai margini della policy che riguarda la “didattica a distanza”, ma ogni “distanziamento”, in genere – finché ne perdura la qualità prettamente ideologica del “distanziamento sociale” – un modo per re-immaginare quei luoghi dove gli undercommons erano già all’opera, prima della pubblicazione di questo libro?]

 

 

 

 

[1] Cfr. F. Moten, S. Harney, “The University and the Undercommons: Seven Theses”, Social Text, 79, 2004, pp. 101–115.

[2] Nella traduzione italiana, “undercommons” è scritto in tondo, mentre qui si manterrà la grafia in corsivo, come scelta maggiormente straniante e più coerente con un dibattito culturale e politico che, fino almeno alla traduzione del libro da parte della casa editrice Tamu, in collaborazione con Archive Books, non aveva ancora accolto appieno la proposta teorico-politica di Moten e Harney. Si accolgono, invece, le altre scelte linguistiche adottate nel libro da Emanuela Maltese e spiegate nella nota all’introduzione firmata dalla Technoculture Research Unit, il collettivo che ha curato l’edizione italiana: «Traducendo dall’inglese, i limiti imposti dall’uso del maschile sovraesteso nella norma linguistica italiana generano un conflitto con la volontà degli autori e delle case editrici di rivolgersi a una comunità accogliente per le esperienze di dissidenza dei generi, come quelle trans e non binarie. Da tale esigenza viene la scelta editoriale di declinare il genere grammaticale utilizzando alternativamente sia il maschile che il femminile, e di introdurre in questo libro la schwa, vocale centrale dell’Alfabeto fonetico internazionale, presente in inglese ma anche in molti dialetti italiani» (Technoculture Research Unit, “La comunità fuggitiva dello studio nero”, in F. Moten, S. Harney, Undercommons. Pianificazione fuggitiva e studio nero, Tamu/Archive Books ed., Napoli, 2021, p. 11)

[3] Per una prospettiva divergente, ma di tutt’altro tipo, sui commons, si veda il lavoro di Angela Mitropoulos sul concetto di un/common nella genealogia dei commons, cfr. A. Mitropoulos, “The Commons” in Gender: Nature, a cura di Iris van der Tuin, Macmillan, Farmington, 2016, pp. 165–81.

[4] Cfr. F. Guattari, R. Maggiori, “Petites et grandes machines à inventer la vie”, Libération, 28-29 giugno, 1980, in F. Guattari, Les années d’hiver (1980-1985), Les Prairies ordinaires, Parigi, 2009, pp. 165-179.

[5] F. Moten, S. Harney, Undercommons. Pianificazione fuggitiva e studio nero, cit., pp. 171 e passim.

[6] Id., pp. 66-67.

[7] Il già ora si contrappone decisamente anche a ogni teorizzazione politica “a venire”, come quelle che costellano, ad esempio, il pensiero di Jacques Derrida: «La falsa immaginazione e la sua critica minacciano il comune con la democrazia, che è sempre solo a venire, così che un giorno, che non avverrà mai, saremo più di quello che siamo. Ma lo siamo già. Siamo già qui, in movimento. Siamo stati nei dintorni. Siamo più della politica, più che insediati, più che democratiche» (F. Moten, S. Harney, Undercommons, cit., p. 52).

[8] J. Halberstam, “L’oltre selvaggio: con e per gli undercommons” in F. Moten, S. Harney, Undercommons, cit., p. 33.

[9] Id, p. 69: «…non […] un antifondazionalismo o un fondazionalismo in quanto entrambi sono usati l’uno contro l’altro per evitare il contatto con gli undercommons».

[10] Id, p. 95.

[11] Cfr. ad esempio H. Spillers, “Mama’s Baby, Papa’s Maybe: An American Grammar Book”, Diacritics, 17.2, pp. 64-81: https://people.ucsc.edu/~nmitchel/hortense_spillers_-_mamas_baby_papas_maybe.pdf

[12] F. Moten, S. Harney, Undercommons, cit., p. 157.

[13] Ibidem.

[14] Cfr. C. Brunner, G. Rauning, “From Community to the Undercommons. Preindividual – Transindividual – Dividual – Condividual”, Commonist Aestethics, 2015: https://onlineopen.org/from-community-to-the-undercommons

[15] F. Moten, S. Harney, Undercommons, cit., p. 67.

[16] Cfr. R. Mordenti, “La scuola, ovvero il luogo della lotta di classe “dall’alto’” (2018): http://raulmordenti.it/la-scuola-ovvero-il-luogo-della-lotta-di-classe-dallalto/

[17] F. Moten, S. Harney, Undercommons, cit., p. 69.

[18] Id., pp. 68-69.

[19] Id,, Undercommons, cit., p. 175.

[20] K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, Giulio Einaudi, Torino, 1977, p. 719.

[21] J. Halberstam, “L’oltre selvaggio, cit., p. 42. Il rifiuto della strategia rivoluzionaria ritorna con frequenza, all’interno di Undercommons, passando anche attraverso alcune ambigue equiparazioni tra fascismo e comunismo (p. 78), per approdare poi, sinteticamente, alla necessità di essere «comunistə nei confronti del comunismo» (p. 142).

[22] A. Fumagalli, Bioeconomia e capitalismo cognitivo. Verso un nuovo paradigma di accumulazione, Carocci, Roma, 2007, p. 198.

[23] Cfr. a questo proposito D. Mariscalco, “Sul divenire culturale del general intellect”, in Vita, politica, rappresentazione. A partire dall’Italian Theory, a cura di P. Maltese e D. Mariscalco, Ombre Corte, Verona, 2016, pp. 179-190.

[24] F. Moten, S. Harney, Undercommons, cit., p. 69. Il riferimento è agli ultimi versi della prima scena del quinto atto dell’Enrico V, con i quali Pistola termina il suo monologo più importante (dai toni originariamente comici, ma che assume tutt’altra valenza per Moten e Harney): «Tornerò in Inghilterra furtivamente, per darmi al furto / mi applicherò delle bende sui segni delle legnate/ e giurerò che nelle guerre galliche me le son procurate».

[25] Ibidem.

[26] La problematicità di questo “esproprio proletario” di piccolo cabotaggio si rende già evidente sulla pagina di Moten e Harney, nella quale, alla descrizione di un possibile caso di esproprio – «Ma se l’accademico critico è semplicemente un professionista, perché perdere così tanto tempo con lui? Perché non rubare semplicemente i suoi libri, un mattino, e donarli a quelle studentesse non immatricolate e rinchiuse in un bar studentesco, stipato e fetido di birra – dove ha luogo il seminario su come squattare e scroccare?» – segue immediatamente una risposta che, inevitabilmente, allarga i confini della questione, chiamando indirettamente in causa strategie a più ampio spettro: «Eppure, dobbiamo parlare di questi accademici critici, perché si è scoperto che la negligenza è un grave crimine di stato» (F. Moten, S. Harney, Undercommons, cit., p. 82).

[27] Id., pp. 50 e passim.

[28] Id., p. 132.

[29] Id., pp. 125-144.

[30] Id., p. 98.

[31] Cfr. M. Fisher, “Accelerate Management”, PARSE, n. 5, 2017: https://parsejournal.com/article/accelerate-management/

[32] Ibidem.

[33] Ibidem.

[34] Cfr. ad esempio: «The dominant mood of folk politics is neo-anarchist: it declares the age of the political party and the trade union to be over, embracing the self-organising and horizontal dynamics of the network against what it characterises as oppressive (and obsolete) hierarchical structures» (ibidem).

[35] F. Moten, S. Harney, Undercommons, cit., p. 225.

[36] Per una definizione sintetica della differenza tra l’approccio all’accelerazionismo di Mark Fisher e quello – assimilabile, per semplificazione, allo slogan “tanto-peggio-tanto-meglio” – di Benjamin Noys (in B. Noys, The Persistence of the Negative: A Critique of Contemporary Continental Theory, Edinburgh University Press, Edinburgh, 2010), cfr. M. Colquhoun, “Introduction: No More Miserable Monday Mornings”, in M. Fisher, Post-Capitalist Desire. The Final Lectures, a cura di M. Colquhoun, Repeater, Londra, 2021, pp. 22-25.

[37] J. Halberstam, “L’oltre selvaggio”, cit., p. 40.

[38] F. Moten, S. Harney, Undercommons, cit., p. 214.

[39] Id., pp. 215-216.

[40] Id., p. 164.

[41] M. Fisher, Post-Capitalist Desire, cit., pp. 219-220.

Discorso intorno a un sentimento

1

di Quelli della V E

Intendiamoci, non voglio stare qui a raccontarvi per filo e per segno tutto quello che accadde quel giorno, perché altrimenti non potrei smettere di pensare a quanto fossi stupido e a tutte le battute cretine che feci su di lui. Sono cose di cui oggi mi vergogno profondamente, ma che in quel tempo mi sembravano normali. Mi limiterò dunque alle cose essenziali.
Tanto per cominciare i miei genitori erano appena tornati a casa dall’ospedale con un fagotto stretto fra le braccia. Era nata mia sorella. La sua voce era un gorgoglio simile a una risatina, mi sembrava un miracolo, così restai sveglio tutta la notte a contemplarne il viso nella culla. La mattina dopo non mi reggevo in piedi. Mi trascinai in strada a fatica, arrivai a scuola in ritardo e una volta in classe fui costretto a occupare l’unico posto rimasto libero. Naturalmente nessuno aveva voluto sedersi accanto a Leonardo, di conseguenza mi ritrovai al suo fianco senza potermi opporre in alcun modo. Mamma mia, che spavento! Sembrava uno zombie. La sua faccia era un ammasso informe di carne bruciata. Gli occhi, mangiati dalle infezioni, vagavano timidi alla ricerca di uno sguardo amico che non c’era. Il naso era piatto come quello dei serpenti. In aggiunta a questo gli mancava la mano destra; al suo posto aveva una specie di palloncino rosso, di cuoio duro.
Il cuore mi si fermò in gola. Rimasi immobile, come imbalsamato, senza la forza di muovere un solo muscolo. Pensai: “È stato investito? È caduto dalla cima dell’Everest? È stato usato come cavia per esperimenti atomici?”
Il ragazzo che mi sedeva davanti sembrò leggermi nel pensiero. Si chiamava Alessio, ma questo l’avrei scoperto più tardi. Si girò lentamente verso di me, mi dedicò un sorriso da dentifricio e sussurrò:
«Gli è successo allo zoo. È caduto nella vasca dei piranha e quando l’hanno tirato su gli mancava mezza faccia.»
Cercate di capirmi, non potevo farcela. Per quanto i miei genitori mi avessero sempre raccomandato di rispettare gli altri, non riuscivo ad accettare che il caso mi avesse riservato un destino tanto crudele: passare tutto il giorno vicino a quella specie di mostro. Mi faceva star male solo a pensarci. Era una sensazione davvero sgradevole, simile a quando da bambino sognavo di camminare per una strada buia, rincorso da ombre scure e minacciose. Così cercai di distogliere lo sguardo da quella maschera, provando pian piano a staccare il mio banco dal suo. L’operazione durò una decina di minuti. Alla fine riuscii a guadagnare quel metro di distanza che mi diede l’opportunità d’immaginare un mondo nuovamente meraviglioso, in cui avrei potuto vivere per sempre libero, lontano dalla malattia più orribile di tutte: l’infelicità. Naturalmente stavo solo cercando una via d’uscita a una situazione che rischiava di farsi ogni giorno più disperata.
Sennonché il professore di matematica, un uomo dalla faccia quadrata, con folti baffi neri e un’espressione austera che lasciava trasparire un carattere di fuoco, alzò a un tratto lo sguardo su di me, interrompendo la lezione e fissandomi con una tale intensità che mi sentii mancare. Per un istante ebbi la sensazione che volesse trasmettermi la stessa impavida e ferrea determinazione con cui per una buona mezz’ora aveva cercato di instillare nei suoi nuovi alunni il senso di responsabilità.
«È il senso di responsabilità» aveva detto «che ci consente di comprendere e condividere i sentimenti altrui. Pensate alla sofferenza, pensate al dolore e alla tristezza.»
Beh, doveva essere pazzo. Io non volevo pensarci nemmeno per un momento, alla tristezza. Al contrario, la mia aspirazione era vivere spensierato e felice.
«Come ti chiami?» mi chiese.
«Emanuele Alfieri.»
«Le grandi utopie avanzano sempre a piccoli passi, non è così Emanuele? Dimmi, perché hai deciso di andartene a spasso per l’aula trascinandoti dietro il banco e la sedia? Non è faticoso?»
Sentivo gli occhi dei miei compagni addosso, stavano tutti aspettando una risposta che non avevo intenzione di dare. Dei sussurri e delle risatine soffocate rendevano l’atmosfera ancora più opprimente.
«Torna immediatamente al tuo posto» concluse il professore «e che io non debba più affrontare questo argomento, intesi?»
Avrei voluto piangere, tanta era la rabbia che mi consumava in quel momento, ma la paura mi paralizzò e non riuscii a fare altro che obbedire.
Durante l’intervallo Leonardo s’immerse nella lettura di un libro. Non so per quale motivo, immaginai che fosse uno di quei libri che quando li finisci è come se un amico ti salutasse per l’ultima volta, lasciandoti un senso di vuoto che non ti abbandonerà più. Noialtri ci radunammo in fondo all’aula per definire meglio la situazione. Alessio, con una voce rauca e spesso punteggiata da una tosse secca e stizzosa, cominciò a prenderlo in giro in maniera sempre più decisa e determinata. Sembrava non volesse finirla più fino al giorno del giudizio universale.
«Appena l’ho visto mi è passato il singhiozzo» disse. E poi ancora:
«Non ha un bell’aspetto, vero? Dovrebbe farsi visitare da un veterinario.»
«Sua madre deve averlo immerso nella varechina per provare a renderlo immortale, ma la sua pelle era così delicata che ne è uscito fuori un maialino arrosto.»
Insomma, avete capito, no? Tutta una serie di offese e prese in giro che avrebbero fatto impallidire un generale dell’esercito. Eppure Leonardo si limitò a dedicargli qualche occhiata indifferente, contornata a volte da un lieve sorriso. Era una situazione ai limiti del paradossale. Più trascorrevano i minuti più le offese di Alessio diventavano feroci. Cercai d’immaginare cosa avrei fatto io al posto di Leonardo; di sicuro sarei saltato su come un diavolo e gliel’avrei fatta vedere, a quello lì. Lo avrei riempito di pugni, ecco quello che avrei fatto. Lui invece non si lasciò andare a nessuna reazione; se ne restò in silenzio, impassibile, a leggere il suo libro fino alla ripresa delle lezioni. Sembrava indossasse una corazza, era insensibile a tutto.
All’uscita da scuola trovò sua madre ad aspettarlo. Era una bella signora bionda, dai modi gentili, vestita in maniera elegante. Mentre i miei compagni sciamavano tutt’intorno affrettando il passo per tornare a casa, io restai a osservarli mezzo imbambolato. Li vidi abbracciarsi in un modo molto tenero. Rimasero stretti l’uno all’altra per un tempo che mi sembrò interminabile, per poi avviarsi tranquilli lungo il viale di betulle che fiancheggiava l’ingresso della scuola. Per un po’ li seguii in silenzio, a una decina di metri di distanza. Ridevano, scherzavano, si raccontavano storie. A un tratto Leonardo accennò una canzoncina. Mi sembrò perfino di sentirlo fischiettare allegramente mentre svoltava l’angolo, giù in fondo alla via, cingendo con un braccio il fianco della madre. Ero sconvolto. Tornai a casa con l’angoscia dentro. Per lo sbigottimento non riuscivo quasi a respirare, mi sentivo morire, e forse per la nausea mi rifugiai in camera rifiutando il pranzo. Mia madre non faceva altro che chiedermi come fosse andata a scuola, come mi ero trovato con i compagni, che impressione mi avessero fatto i professori, ma io non riuscivo ad ascoltarla, né tanto meno a risponderle. Per tutto il giorno non riuscii nemmeno ad avvicinarmi alla culla di mia sorella, non avrei potuto guardarla negli occhi, non più, c’era qualcosa che mi faceva pensare di esserne indegno. Continuavo a ripetermi che ero stato un vigliacco e che avrei dovuto difendere Leonardo da tutte quelle cattiverie gratuite, invece non me l’ero sentita, perché avevo temuto di diventare un bersaglio, di essere evitato da tutti come la peste. In preda a una sorta di ossessione passai tutto il pomeriggio a fare una ricerca sui vampiri, sul tipo di sangue che preferivano, sui forti traumi infantili che potevano innescare il consumo di sangue umano, sui grossi sassi che venivano infilati in bocca ai vampiri prima di essere seppelliti nelle fosse comuni, cose così. La sera faticai ad addormentarmi, ma al di là dei miei tormenti, c’era una domanda che continuava a girarmi in testa come un criceto sulla ruota. Non facevo altro che chiedermi: “Cosa è davvero successo a Leonardo?”

NdR: questo è il secondo capitolo di un romanzo scritto dai bambini della scuola elementare Evaristo Dandini di Frascati, in collaborazione con i loro insegnanti, e che è diventato un libro. Ecco come Carlo Cannella, docente all’origine dell’iniziativa, mi ha presentato la cosa:

“Quest’anno abbiamo provato a dedicarci tutti insieme, docenti e alunni, a un progetto piuttosto complesso per bambini così piccoli, quello di scrivere un romanzo intorno ai temi della pace e della guerra. Ne è venuto fuori questo “Discorso intorno a un sentimento”, in cui immaginiamo un mondo finalmente pacificato, nel quale si affermano i principi del mutuo appoggio e della gentilezza disinteressata. Il risultato mi sembra buono. L’intera narrazione è il prodotto di innumerevoli spunti offerti da ogni singolo bambino, “ricuciti” dal team docente, soprattutto in ordine a uno “stile narrativo” che potesse dare omogeneità al lavoro.”

Ed ecco come Cannella, su mia richiesta, spiega più in dettaglio il lavoro che hanno fatto:

Due anni fa, i bambini della III E della scuola Evaristo Dandini di Frascati, scrissero un libro intitolato “C’era (quasi) una volta… e poi?”. Dopo aver letto delle fiabe provarono a immaginarne il seguito, divertendosi a volte a far vincere i cattivi, un modo come un altro per non nascondersi il mondo reale, che sempre porta con sé qualche ferita. Presi dall’entusiasmo decisero di dedicare i successivi due anni alla stesura di un romanzo. L’idea era quella di organizzarsi in gruppi di lavoro che a partire dall’ideazione di una storia (un bambino orribilmente sfigurato da una bomba inesplosa risalente all’ultimo conflitto mondiale che con il proprio esempio convince l’umanità a rinunciare per sempre alla guerra), riuscissero ad accompagnare il testo in tipografia. In quel tempo nessuno poteva però immaginare che i bambini avrebbero trascorso una buona parte di quei due anni in solitudine davanti a un computer, o che non sarebbero comunque riusciti a lavorare insieme nel rispetto delle norme sul distanziamento. Poco tempo, dunque, per fare un mucchio di cose. Sennonché quelli della V E sono bambini testardi, e aiutati dai loro docenti (che hanno confrontato i diversi testi, selezionandone via via gli spunti più interessanti e lavorando con loro alle riscritture) hanno infine dato vita a questo “Discorso intorno a un sentimento”. Buona lettura.

E qui di seguito l’introduzione che nel libro precede il testo del romanzo collettivo:

Lo stesso sbalordimento sembra tormentare i bambini di scuola primaria non appena prendono coscienza di cosa sia la Storia, non solo una trasmissione della memoria a livello collettivo, il fondamento e l’espressione dell’identità di un gruppo, ma anche un continuo conflitto fra gli uomini per brama di ricchezza e di potere, l’imprigionamento e la riduzione in schiavitù di interi popoli, sconfitti in guerra e perciò annullati nella loro umanità. Da qui la necessità di una ricerca che produca la possibilità di un mondo nuovo, fondato su principi altrettanto innovativi, quali ad esempio, per usare le parole espresse dai bambini nel loro libro, l’aiuto reciproco e la gentilezza disinteressata.
Proprio intorno alle riflessioni sulla guerra e sulla pace, che i bambini della V E hanno consolidato attraverso la conoscenza di testi quali il De monarchia di Dante Alighieri o il saggio di filosofia Per la pace perpetua di Immanuel Kant (che non a caso viene citato nel testo) nasce e si sviluppa questo breve romanzo, scritto durante un anno certamente particolare. Inutile dire che le condizioni dettate dall’emergenza sanitaria non hanno loro permesso di lavorare a stretto contatto, rendendo quindi la riuscita dell’operazione piuttosto difficile. Sono mancati il confronto, la condivisione degli intrecci narrativi, le fasi di riscrittura a piccoli gruppi per armonizzarne quanto più possibile lo stile. Ciononostante non sono mancati loro il coraggio e la perseveranza per portare a termine l’impresa. Al riguardo ci piace sottolineare come il lavoro sia stato sempre contraddistinto dall’impegno e dall’entusiasmo. Ogni venerdì pomeriggio, partendo da una discussione intesa a fissare via via i punti essenziali della trama, ognuno di essi ha praticamente scritto il proprio romanzo personale, affrontando la storia con una sensibilità, una modalità e uno stile narrativo propri. Si potrebbe dire che ogni autore si è rivelato con una sua voce personale e irripetibile. Compito degli insegnanti è stato quello di confrontare i diversi testi, cercare di selezionarne gli spunti più interessanti, farli convergere quanto più possibile verso una linea comune e soprattutto uniformarli nello stile affinché la lettura risultasse quanto più possibile fluida e omogenea. Laddove si è reso necessario, in particolar modo nei capitoli 10 e 11, si è lavorato in proprio su aspetti storici e geopolitici un po’ troppo impegnativi per bambini così piccoli. I possibili scenari di guerra da introdurre nel romanzo sono stati tuttavia presentati ai ragazzi in sessioni distinte (in particolare sono state affrontate le questioni relative all’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, al conflitto isreaelo-palestinese, a quello fra India e Pakistan per la rivendicazione del Kashmir). Un interesse particolare ha suscitato la possibilità di un futuro conflitto fra Stati Uniti e Cina, che più volte è comparso nei loro testi originali, ma che non è stato possibile introdurre in quello collettivo per problematiche strutturali e di coerenza narrativa.
Cos’altro dire? Al termine di questi cinque anni, vissuti in maniera certamente intensa, districandoci fra mille difficoltà e inquietudini, eppure in modo sempre gioioso, la nostra gratitudine va ai bambini per averci dato la possibilità di condividere il nostro tempo e il nostro impegno con le loro intelligenze. A ognuno di essi rivolgiamo oggi il nostro pensiero e la nostra preghiera. Non dimenticate: siate gentili, siate altruisti, siate solidali verso i discriminati e gli oppressi, vicini a chiunque abbia bisogno del vostro sostegno per affrontare un momento di difficoltà. Conservate con amore la possibilità di un grido, quell’indignazione nei confronti del sopruso e della prevaricazione che ci permette di restare ancorati al nostro essere persone. Quel grido che farà, di ognuno di voi, nel momento delle scelte, un sostenitore della giustizia e un costruttore di pace.
Che il canto dell’addio non sia altro da quel grido. In alto i cuori. Ora e per sempre, gridiamo insieme: “Nemecsek non deve morire”.

Giovedì

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di Cristiano Musella

Ci siamo, ancora. Apro gli occhi, disserro gli occhi, sgrano gli occhi. La prima luce che entra dalla finestra mi riempie lo sguardo di ambiguità. Che giorno ho davanti che giorno è che giorno era ieri, mi chiedo. Dovrebbe essere giovedì, ieri sera ho cenato con Miki, no, ieri l’altro, no, sì, è proprio giovedì. Non c’è dubbio. Mi alzo, mi isso, sono in piedi. È giovedì, il giorno più ignobile che ci sia. Il lunedì ha tutta una sua mistica, penso, una sua mistica sulla ripresa forzata del lavoro, un’arida primavera ricorrente riconosciuta all’unanimità. Martedì, martedì invece è uno spiraglio e nessuno lo ammette, preparo la moka, innesco la fiamma, bramo il caffè, nessuno lo ammette, ma il martedì si batte per il giusto ritmo, benedetto Cicero. Dopo il grigiore di chi lo ha preceduto è sempre pronto ad accompagnarti di nuovo fuori dalla porta, irriducibile. È snervante, è untuoso. Uno spiraglio senza poi il sereno che senso ha. Il martedì è il giorno dei filistei, realizzo finalmente. E a proposito, sono ormai finemente truccata e vestita. Del mercoledì non parliamo proprio. L’unico che per insulsaggine regge il confronto con quello che gli viene dopo. E gli ultimi tre, ecco, ecco, l’ho dimenticata, devo tornare indietro. Riapro la porta di casa e allungo la mano su quello sgradevole oggetto cornuto che non so come sia entrato in casa mia, su cui la tengo appesa. Richiudo la porta a doppia mandata e mi avvio, di nuovo. Ecco, gli ultimi vanno considerati un gruppo unico, un mostro policefalo: la Noia di Lerna. Partendo dall’ultimo li battezzo Noia sacra, Noia profana e Noia nascente, sì, il venerdì è Noia nascente, un sole freddo che spunta all’orizzonte, dico mentre mi tiro per bene gli elastici dietro le orecchie. La mascherina è troppo grande per il mio viso. Qualsiasi mascherina che ho provato lo è. Questa versione chirurgica poi è la peggiore di tutte. Summum ius summa iniura, somma giustizia somma ingiustizia. Possibile che siamo alla seconda ondata globale e nessuno ha pensato di tagliare delle mascherine più piccole che non salgano fino agli occhi delle donne minute come me. Ho tentato con quelle di tessuto, ho cercato per settimane quella che facesse al caso mio. I produttori si sono impegnati di più a inventarsi fantasie di fiorellini e pupazzetti che a ragionare sul fatto che le persone non hanno tutte la faccia della stessa dimensione. Ma tanto quelle di tessuto non sono altrettanto efficaci, e in autobus le mamme ti guardano come se sospettassero che vai a letto col loro uomo, per non parlare di tua sorella, medico, che pensa che tu sia una pusillanime, che se non la ascolti è perché ti fai condizionare da quelli su internet che negano la sciagura… E allora torna alle mascherine da ospedale, adattala al naso con veemenza per impedire per quanto possibile che ti salga fino alle palpebre, e fai il nodo agli elastici per accorciarli, e ricordati di cambiarla ogni giorno e ricomincia daccapo. Ed è giovedì, benedetto Cicero. Mentre prendo abbrivio e mi dirigo in studio ne vedo altri come me. Eccolo, il padre oberato, che ogni mattina conduce a scuola la sua piccola ciurma di tre bambocci saltellanti, serbandone un quarto nel passeggino. È così intento a provvedere che tutti siano bardati contro il freddo e i patogeni che un giorno sì e uno no lo incrocio mentre si rovista istericamente addosso cercando la mascherina mancante, quella che spetta a lui, che infine estrae stropicciata ma probabilmente fresca di bucato da una tasca sempre diversa. Ha a disposizione una sola mano per riuscire a indossarla come meglio può, nel frattempo fissando con intensità le peripezie dei pargoli per non investirli col trabiccolo che va spingendo. Quindi scorgo la signora mattiniera, che a quest’ora sta già tornando dal giro di acquisti con due sporte piene di spesa, e nello sforzo non può fare a meno di abbassarsi il bavaglio profilattico sul mento, ansimando con lo sguardo basso per la fatica e il pudore. Lambisco la massa dei cecati due volte, dannati, la buffa schiera di coloro che subiscono pure il contrappasso: già indeboliti nella vista per conto loro, la pandemia li punisce con un’analogia feroce, gli annebbia col vapore della bocca le lenti che dovrebbero invece aiutarli a orientarsi. Attraverso lo sciame di tutti questi occhi esausti. Cerco quegli indizi vibratili con scrupolo, con metodo. Ogni atteggiamento impacciato, ogni strenuo comportamento in risposta alla calamità che ci sta travolgendo, è una denuncia. Denuncia chi sono, chi siamo. Siamo il padre, la madre, i figli ipovedenti: i coscritti del regno della fatica. E siamo anche il popolo dei lungimiranti, quelli che non riescono a fare a meno di pensare al domani, al futuro, a resistere, a resistere, sempre, a ogni costo. Combatteremo il virus – no, non si tratta di una guerra, il virus non pretende nulla di ciò che abbiamo, non vuole la nostra terra né tantomeno i nostri segreti, è solo che si abbevera del nostro fiato – lo contrasteremo coprendoci il volto, e se ci verrà chiesto di imbottirci le orecchie o legarci le mani faremo anche quello. Salus populi suprema lex esto, il bene pubblico vale più di quello privato. E allora io? Cosa resta di me sotto la divisa della sopravvissuta? Il lenzuolo che mi fagocita il volto di cosa si sta riempiendo? Trentatré anni. In altri tempi avrei guardato la mia vita in termini relativi, come si usa, specialmente fra donne. Non mi sarei chiesta cosa volessi ma cosa avrei dovuto fare rispetto alle mie possibilità, rispetto ai desideri altrui, rispetto alla mia età, allo scorrere imperturbabile delle cose, insomma rispetto a quanto già fatto o già perduto. Ora le cose non scorrono più, il flusso si è arrestato, sento di non essere ammessa né al passato né al futuro. Il virus concede uno scampolo di eternità a chi resta, non a chi se ne va. E non sono pronta per questo. Mi sgomenta questo osservatorio da cui posso solo misurare la mia stessa vita, senza poter muovere un muscolo, come un chirurgo chiamato in sogno a operare se stesso d’urgenza, ma sul punto di incidere si accorge di aver scordato tutta la propria scienza. Contiamo i contagiati, i guariti, i posti nelle terapie intensive occupati e quelli ancora liberi che si assottigliano sempre di più. Il nostro destino si incarna nei bollettini sanitari, siamo una civiltà riassunta nell’urgenza di dover sopravvivere. Come posso ancora soffermarmi a chiedere se sarò moglie, madre, nonna, sono titoli da usurpatrice in un simile frangente. Cosa sono i desideri se devo accanirmi con tutto il mio livore per distinguere un giorno dall’altro, se mi pare di vivere ora e tra una settimana allo stesso tempo, con l’unico orizzonte del prossimo decreto della presidenza consiglio dei ministri? Benedetto Cicero, non avrei dovuto parlare ad Antonio in quel modo sabato sera. Sì, era tanto che aspettavo di farlo, e per questo avrei potuto facilmente continuare a tacere in questo anno che pare isolato da tutti gli altri. Galleggio nella sua vita da prima che iniziasse il 2020, e allora perché proprio mentre mi trovo nell’occhio del ciclone ho deciso di ribellarmi, di dirgli che così non ce la faccio più. Mi ero messa apposta la gonna più corta che ho, le autoreggenti che mi fanno sentire veramente una spregiudicata, tanto per propiziare una serata identica alle altre che abbiamo avuto durante la prima chiusura del paese, durante l’estate interlocutoria e di nuovo adesso, con la seconda ondata. Niente cena, ci si vede a stomaco pieno. Quattro chiacchiere, semmai una birra. Se abbiamo voglia di strafare annunciamo di guardare un film, cosa che non accade mai. Però ho scelto gli stivali, non i tacchi. Per non essere troppo provocante e avere l’occasione di vuotare il sacco, invece di affrettarmi a venire spogliata? O al contrario per proporre una variante di stimolo? Se gli dessi retta dovrei andarci anche a dormire con i tacchi a spillo, allora forse questa volta volevo davvero avere voce in capitolo. Iudex damnatur ubi nocens absolvitur, bisogna condannare il giudice se il colpevole viene assolto. D’accordo, volevo comunque scopare, alzo le mani, questa è la mia difesa. Quest’anno che va alla deriva come l’avanzo di un relitto mi pare proprio l’alcova adatta per dare e prendere senza capire che accade, tenendo il mistero anche con me stessa, l’anno delle andate senza ritorno, verso dove non ha importanza. E allora perché, perché insistere con le proteste, benedetto Cicero. Perché domandare chi sono, sono ancora l’amante che accampa madornali diritti, come vorrebbe farmi sentire lui, e neanche fosse sposato! O sono la donna della sua vita, giunta in leggero ritardo, malauguratamente, che con pazienza e dedizione però si conquista il proprio spazio nella libera competizione degli affetti. Non lo so, non so più chi sarò, non riesco a vederlo; come quelli che incrocio per strada e non distinguono i miei lineamenti sotto il morso di un abnorme mascherina. Sarà perché è un anno e mezzo che lui ed io andiamo avanti così, sarà quest’annata maledetta che recide il presente dal passato e dal futuro e io sono rimasta gelata sul ramo dell’incompiutezza, come fossi un usignolo incapace dell’intonazione distintiva. Il limbo non è una sala d’aspetto in penombra; è una battuta di atroce silenzio, il controcanto nell’inno della vita, un brivido di non-essere che ora non mi abbandona, terremoto perpetuo.

“Come dice, signorina? Il biglietto ce l’ha o no?” “Certo, mi scusi. Ecco il mio abbonamento”.

Lo stesso vale per il lavoro. Gli anni massacranti dell’università, e in seguito stagista, praticante, apprendista, collaboratrice, per un attimo perfino libera professionista. Professionista libera, perché qualcuno ha sentito di dover aggiungere l’aggettivo: la madre di tutte le excusatio non petita accusatio manifesta, come se la mancanza di prospettiva ti emancipasse dai vincoli, anziché renderti prona a ogni richiesta arrogante. Non so nemmeno più se sono ancora un avvocato oppure no, a dire il vero. Quello che ho desiderato da quando ho visto per la prima volta in tv una puntata di Law & Order, a undici anni. Non che mi occupi di crimini efferati, però anche il diritto civile è un aspetto dell’esistenza organizzata che va regolato, un’espressione dell’ordine cui siamo tesi per natura. Invece mi hanno trattata de facto come una segretaria per anni, poi un’intrusa, infine un’incapace, ripetutamente, quando mi hanno congedata senza tanti complimenti, e quando mi hanno ripresa come fosse un’elemosina. Ho potuto dedicarmi di più al volontariato, questo è vero, al volontariato che voleva fare io, come volevo io. Ci sono le prestazioni pro bono, attieniti a quelle!, dicevano. Non togliere tempo al lavoro. Ma io volevo fare qualcosa di diverso, sentivo senza esitazione di essere anche qualcosa di diverso. Non sono una giurista nel momento del conforto e della consolazione, sono di più, o almeno lo pensavo. Con altre tre persone attorno a un tavolo so essere una giocatrice di carte attenta. All’occorrenza sono una cuoca di minestre, porzioni enormi di minestre. Sono un confessore paziente, non solo un consulente legale. Quod non vetat lex, hoc vetat fieri pudor, proprio così: io non sono il riflesso pallido di un manuale, il codice che mi descrive si perde nell’infinità. Ma adesso, invece, gli sfoghi e i lamenti che mi investono non sono dei disgraziati della mia onlus, gente che è giunta da altri continenti, a volte a piedi, attrezzata solo di speranza; ora protestano i patrizi delle discoteche, gli oracoli ribelli dal volto scoperto, i luminari in competizione di sussiego fra loro. E che cos’è il tintinnio della mia volontà di assistenza in questo assurdo trambusto, in questo presente deforme che si arroga il travaglio dell’universo intero? Io ho bisogno di ieri e di domani, del loro muto sostegno. Come direbbe l’architetto Antonio Trento riferendosi però alla sua concubina, ovvero io, ieri e domani sono contrafforti: non vedo il peso che di continuo scorre su di loro e si scarica a terra, ma se non ci fossero anche la cattedrale eretta con la pietra più santa sarebbe come di sabbia. Io so di essere chi sono solo se riconosco il pericolo di crollare nel vuoto, se assegno a un tempo che chiamo passato il registro delle mie pene e a quello che chiamo futuro la culla della mia redenzione. Così mi faccio l’autoritratto più prezioso, con i colori evanescenti della sostanza immaginaria, sui fogli sfuggenti che sono ieri e di domani… Sono arrivata. Aspetto che qualcuno mi apra il portone dallo studio di boriosi dove sconterò la mia deminutio capitis da perenne matricola, l’habeas corpus subiciendum, in virtù del quale presto i miei servigi ai derelitti nelle forme che decido da sola, e il mio ottuso sentimento per Antonio: davvero margaritas ante porcos. Nessun saluto al citofono, scatta la serratura. Mi porto le mani alle orecchie, sistemo gli elastici, schiaccio il ferretto sul naso a più riprese, aggiusto quasi con isteria. Mi accorgo che l’interno della mascherina è già umidiccio.

“L’hai di nuovo abbassata troppo, Caterina. Ti si vede la punta del naso” mi ammonisce l’avvocato Diriso. “Devi tenere sempre il viso mezzo coperto. Non te lo ripeterò più!”

È solo giovedì, anche se sotto il velo protettivo non fa più alcuna differenza: omnia sunt incerta, cum a iure discesseris.

Luigi Di Ruscio e il paradigma del dubbio

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di Niccolò di Ruscio

[Pubblico qui un articolo di Niccolò Di Ruscio tratto dalla sua tesi di laurea dedicata all’ omonimo marchigiano. Luigi ne sarebbe stato felice… B.C.]

Al Nordre gravlund di Oslo, il cimitero della periferia settentrionale della capitale norvegese, c’è una lapide con incisa una spiga di grano. L’epitaffio recita: “Luigi Di Ruscio. Poeta italiano. f. Fermo. d. Oslo.” L’uomo sepolto in corrispondenza era nato nella cittadina marchigiana circondata dai campi di grano, aveva conosciuto la miseria e deciso di scappare in Scandinavia. Per 37 anni lavorò in una fabbrica metallurgica di Oslo, dove conobbe la moglie norvegese Mary con la quale ebbe quattro figli. Perché allora poeta italiano? Quella che sembra la biografia di un qualsiasi emigrante nel secondo dopoguerra è anche la biografia di uno scrittore che dall’esilio geografico e culturale in cui è costretto, scolpisce su carta le vicende di un’esistenza ai margini. Alla fine «il tutto risulterà una variante della stessa angoscia»[1] di chi è emarginato ed escluso, brutalizzato dal meccanismo sociale ma al contempo aggrappato a una gioia vitale e palpitante per resistere all’orrore. «Poeta non omologabile»,[2] Luigi Di Ruscio è un caso eccentrico nel panorama letterario italiano: le vicende editoriali raccontate nei suoi romanzi sono le tappe dell’epopea bislacca di un escluso dall’élite culturale. Tuttavia, per quanto Di Ruscio fosse emarginato anche geograficamente, la sua è «opera esterna, che volutamente assume la sua non partecipazione al sistema letterario come chiave di lettura critica, ma non ignara, non estranea».[3] Perciò la menzione di autori contemporanei, la citazione di brani poetici, talvolta persino la parodia di questi; ma anche i giudizi di valore, le simpatie verso gli autori di riferimento e il disprezzo per quelli più consolidati nel canone,[4] sono tutti procedimenti retorici utilizzati nella sua produzione come tentativo di rimanere a contatto con il dibattito culturale, per non scivolare definitivamente nell’oblio. Nonostante la lingua problematica e l’emigrazione, Di Ruscio è un poeta, egli stesso lo afferma e giustifica a più riprese negoziando il «ritratto apologetico di sé come poeta».[5]

La sua formazione gravita intorno a pochi testi fondamentali e ai classici del pensiero dialettico, che prende in prestito «nella biblioteca dove c’era un infinito tutto scritto».[6] È quindi innanzitutto un lettore vorace che spazia dalla poesia alla filosofia passando per Dante e i deliri eretici di Campanella e Bruno; tuttavia scrive sin da giovanissimo, subendo lo scherno dei compagni del partito per i grossolani errori ortografici che tradiscono la sua autodidassi imperfetta, di cui prova vergogna: infatti ero stato scoperto, ormai tutti sapevano che scrivevo poesie, il mistero era diventato pubblico, sta sempre nella biblioteca comunale a leggere libri che nessuno legge, spedisce plichi da tutte le parti. Non facevano che domandarmi: Poeta ora ti provo, dimmi chi è nata prima la gallina o l’uovo? Fa il poeta e scrive “l’aradio”. Avevo vergogna di tutti i miei sbagli ortografici, erano come peccati mortali e il sottoscritto veniva scrutato, speculato, squadrato e non ero neppure un Don Chisciotte, perché avevo su tutto molti dubbi e non sono neppure un poeta lirico perché i lirici non si interrogano, perché loro sono completamente nelle loro orribili e giulive certezze, non hanno scampo mentre io cercavo di scappare da tutte le parti e le pagine erano strapiene di correzioni e cancellature, chi ti credi di essere brutto stronzo? Come ti permetti d’iscrivere le poesie nostre?[7] Per diventare poeta è necessaria la fuga, la clandestinità, sfuggire ai pregiudizi del proprio ambiente e alla menzogna della poesia rarefatta dei salotti letterari. Di Ruscio rifiuta qualsiasi convinzione e si aggrappa al dubbio come strumento di osservazione della realtà e del «caos di una identità che ha per centro queste continue scritture».[8] Si ritrova smarrito nei «labirinti delle identità sovrapposte» e trascinato da forze centrifughe e centripete alternate, tra un fuori e un dentro, così che alle istanze di riconoscimento in una classe sociale o in una molteplicità di categorie, segue ciclicamente il rifugio nell’individualismo: «mi permetto di essere estraneo e basta e con una identità non codificata dai signori critici nostri».[9] Si rivela in tutta la sua produzione un titanismo solitario contro il mondo, esercitato attraverso un processo di autoaffermazione come individuo prima ancora che come poeta, il quale contempla tutte le tappe di un apprendistato complicato: «Non ero proprio nato come scrittore di versi / ci sono diventato a forza di calci in culo»[10] e «sapendo approfittare delle smagliature della rete metallica».[11] Il conflitto con il potere manifesta quindi il portato politico della sua produzione, che per quanto inizi prima dell’emigrazione («è stato Fortini che mi ha battezzato poeta scrivendo una favolosa prefazione alla mia prima raccolta»),[12] tuttavia nella condizione di operaio emigrato ad Oslo, nel suo destierro[13] trova la dimensione ideale:

mi ritrovo in un casino di stradette e strade verso tutte le direzioni, presi una strada a caso sperando che non mi conducesse all’inferno, infatti alla fine sbuco nei pressi di casa, dove sei stato marito mio? All’inferno! Dopo allegrissime odissee vengo assunto in una fabbrica di chiodi come operaio manovratore di filatrici ed inizia una produzione sprocedata di versi.[14]

Surrealista e caustica allo stesso tempo, nella logica paradossale delle clausole diruscesche la poesia è diretta produzione delle macchine filatrici della Christiania Spigerverk di Oslo. Di Ruscio legge «l’inferno [di Dante] come fosse un reparto di fabbrica di Oslo nella seconda metà tutta intera del ventesimo secolo»[15] e ripete a se stesso con vocazione missionaria: «POESIA COME INFANZIA DEL COMUNISMO».[16] La divinità è scalzata da un’ideologia ancora acerba; spetta ai poeti fondare i caratteri della ‘nuova religione’. Una nuova religione che è di conseguenza nelle profezie dei «vati, indovini, auguri, profeti»,[17] i quali sostituiscono alla parola di Dio la poesia che annuncia l’inizio della «nostra nuova chiesa invisibile».[18] Infatti la fabbrica è al contempo luogo infernale e ultima cattedrale del secolo; di conseguenza l’operaio può diventare predicatore con la missione di «riuscire a santificarvi tutti»:[19] Le sue ovaie contenevano un unico Uovo Sacro, quello di Cristo che da una eternità aspettava l’incarnazione, l’immacolata quindi non ha mai avuto le mestruazioni, è stata sempre sacra e pura, un uovo che aspettava di diventare Cristo da una eternità. Dogma proclamato il 20 ottobre 1999 dal sottoscritto in preda ad acuta illuminazione mistica.[20] Esclusa ogni pretesa apostolica, l’elogio dell’individualità e il rifiuto di qualsiasi potere esterno sulla coscienza dell’individuo emergono dalle strampalate e visionarie riflessioni teologiche e filosofiche. Pertanto, anche la ricorrente menzione di Cristo riconduce al conflitto fra l’individuo e il mondo, interno ed esterno, e «assolve a una duplice funzione: è emblema di un corpo straziato ed è anche stralunata figura di una resurrezione metacronica»,[21] l’epifania del volo di un angelo ribelle dipinto dal conterraneo Osvaldo Licini. «Il miracolo è avvenuto e non sarà più ripetuto»[22] perché la poesia è l’immediata e fulminea rivelazione del proprio essere e quindi dichiarazione d’esistenza.

Di Ruscio è in agonismo con qualsiasi figura di potere e nella religione («io sono un nemico d’Iddio e quindi sono da Dio molto amato e non ho bisogno di niente e di nessuno»),[23] soprattutto per quanto riguarda il culto ufficiale cattolico, non può che trovare terreno fertile per l’aggressione satirica. Attraverso il procedimento retorico della blasfemia banalizza il rapporto di subalternità con il divino; d’altronde l’etimologia di blasfemia deriva da bláptein ingiuriare, e phê¯mê, reputazione e «significa appunto diffamazione, contestazione dell’operato della Fama – cioè, più che della divinità in sé, della credenza in essa; del suo senso condiviso, sociale, identitario».[24] Quindi la bestemmia per il marchigiano è il terreno di conflitto con il nemico, per quanto tranquillizzi talvolta il “Palmiro”: «sta tranquillo caro sottoscritto, in queste lettere il nemico è solo una metafora».[25] La blasfemia infatti è il «luogo predestinato e liminale di nominazione dell’Ineffabile»,[26] e solo la poesia può riprodurlo con intento non prettamente mimetico, ma più marcatamente trasgressivo, irrompendo nella dimensione del divino e facendosi religione. Questo doppia relazione con la divinità gioiosa e terribile al contempo emerge dall’alternanza di invettive contro la gerarchia ecclesiastica e il «babbo celeste»,[27] irriverente nomignolo affibbiato al Creatore, e vertiginosi picchi lirici che tendono verso un vago panteismo:

 

basta con i dualismi

non esiste Iddio e le creature

ma iddio nelle creature

le creature in dio[28]

Un topos ricorrente della sua produzione è quello della processione religiosa alla quale lo accompagnava la nonna che «andava a fregare l’acqua santa immergendo la bottiglietta nella capace acquasantiera»[29]. Il corteo con in testa il corpo di Cristo era seguita dalla «madonna sette volte spadata»[30] di Fermo, ovvero la statua della Madonna del Pianto con le sette spade d’argento conficcate nel petto, e dagli «strafottenti portatori dei valori anche bancari».[31] Sfilavano per tutte le parrocchie cittadine e lungo le strade c’erano le «coperte più belle dei letti matrimoniali esposte sui davanzali»,[32] mentre «le forze dell’ordine cercavano di contenere la pressione della folla che sembrava volesse impadronirsi dell’Iddio dei ricchi».[33] La gerarchia politica ed ecclesiastica faceva bella mostra di sé, potendo vantare la vicinanza all’ostensorio sacro:

l’eja eja alalà, l’urlo d’esultanza fascista si sentiva anche nelle processioni al passaggio dell’arcivescovo oliato e mitratissimo il più ricco agrario del Piceno che portava il santissimo sacramento con un pesantissimo e preziosissimo ostensorio raggiante sole, era proprio il più ricco, il più unto, il più nobile a portare il corpo d’Iddio e vicinissimi al santissimo d’oro massiccio i nobili gli agrari più benestanti del paese. Gli unti, i toccati dalla divina provvidenza erano i portatori d’Iddio per le strade del paese delle tante faticose salite e delle tante precipitanti discese e la particola sacra sembrava una luna sacra, un Dio ricchissimo per i ricchi e c’era anche la madonna del pianto con le sette spade infilzate sulle mammelle sacre che paurosamente vibravano alle scosse dei portatori e nonna indicandomi il mostro sacro mi diceva guarda, cosa hai fatto alla madonna?[34]

Il poeta ha una vera ossessione per questo episodio, e per sua stessa ammissione, egli fu «sempre affascinato dalle cerimonie religiose, dall’oscillazione dei merlettamenti delle confraternite dei mezzadri che a squarciagola urlavano i canti dei riti, i carabinieri con i cappelli piumati e statuari presidiare l’altare».[35] I procedimenti retorici che Di Ruscio utilizza di frequente contribuiscono a restituire l’icastica rappresentazione di una paradossale danza macabra, ma svolgono anche una funzione parodica del linguaggio solenne che si addice al culto, banalizzando la sacralità delle cerimonie quando non le irride apertamente. La bestemmia è connaturata alla dimensione orale della sua scrittura, non è mera mimesi del parlato, ma uno degli strumenti critici con la quale arma la sua poesia nel conflitto basso/alto, individuo/mondo, ma anche nella lotta di classe e nella battaglia poetica per l’autoaffermazione. «Martirizzato dai lapsus e dalle ripetizioni»,[36] Di Ruscio elabora la finzione di una lingua che sfugge al controllo dell’autore (o del “sottoscritto”) ed è responsabile della produzione “sprocedata”[37] di ingiurie, errori ortografici e persino bestemmie, come nei repertori di lapsus più o meno volontari in cui incappa il suo dettato:

non errore ma orrore, non io ma Iddio, non parodia ma poesia, non sbaglio ma bavaglia, non la fine del mimmennio ma del millennio, non cassate ma cazzate, non la processione del porco d’Iddio ma del corpo d’Iddio.[38]

Inoltre la religione professata dalla poesia di Di Ruscio non ammonisce alla caducità dei corpi ma invita a una febbrile vitalità, si contrappone quindi al feticismo cattolico che venera le reliquie «come se il culto vero sia quello della morte e non della resurrezione».[39] Il poeta folgorato dallo «spirito santo patrono dei verbi consacrati»,[40] all’interno della dialettica conflittuale tra individuo e mondo, confessa: «spesso ho creduto di essere iddio»,[41] «Dio dei poeti delle profezie e della morte».[42] Tuttavia è un’istanza rivelatrice della dimensione particolare della sua interiorità, la quale è difesa armandosi di tutti i dubbi. Non c’è verità e quindi nemmeno rivelazione all’infuori della poesia, che per quanto in Di Ruscio sia all’apparenza di impegno civile e militante, sprigiona anarchicamente non le istanze di una classe sociale, ma dell’individuo in quanto essere umano: «Luigi Di Ruscio, al di là delle ovvie etichette, non è stato né un poeta operaio né un operaio poeta ma, più semplicemente, qualcuno che ha saputo tradurre con i mezzi della poesia la condizione operaia nella condizione umana tout court».[43]

Per scorgere le ragioni del suo «iscrivere»,[44] la risposta va quindi ricercata nelle stralunate impennate liriche della sua prosa che con straordinario erotismo riconducono alle passioni umane:

Io mi misi stranamente a sognare che facevo l’amore con una bellissima, ed era proprio la Palmira con cui sognavo di fare l’amore e piano piano risvegliandomi o ridestandomi delicatamente da questo sogno, proprio mentre piano piano mi ridestavo mi accorsi che eravamo strettamente congiunti. Dormivo e sognavo di essere allacciato alla Palmira e nello stesso tempo ero realmente allacciato a lei.

Il mio sogno più bello era nello stesso istante anche la mia realtà più bella e Palmira, forse anch’essa dentro un proprio sogno, assecondava il mio con estrema morbidezza e che il sogno fosse anche la realtà e la realtà fosse anche il sogno mi procurò una folgorazione enorme e anche se il mistero mi capitò una sola volta in tutta la vita fu come se improvvisamente fosse entrato Iddio tutto intero dentro di me e fu proprio questo che mi rese poeta per sempre.[45]

L’ossessiva pratica metapoetica da un lato quindi «pone l’accento su se stesso scrivente come certificazione di esistenza e bisogno corporeo di identità per autolegittimare il proprio dire e il proprio ruolo»,[46] e dall’altro cerca di giustificare il conflitto connaturato nella violenza della sua espressione. Tuttavia, più che nelle risposte, la scrittura si risolve in un continuo interrogarsi sulle ragioni della scrittura, sul portato politico e sociale della poesia e sul compito che questa può ancora assolvere. «È già tanto potersi porre domande»[47] per Di Ruscio, poiché l’imperscrutabile verità è sempre oltre la possibilità della poesia di scandagliare il caos, di decifrarne i simboli. Per quanto il compito del poeta resti quello di «raggiungere la verità estrema, guardare l’orrore e non indietreggiare»,[48] tuttavia può limitarsi soltanto a combattere la menzogna:

è da anni cinquanta che cerco di dipanare la matassa, anni cinquanta di poesia imperterrita per rafforzare tutti i vostri dubbi e combattere contro tutte le vostre certezze perché quando i dubbi sono pochi e tante le certezze la gente si ammazza come le bestie.[49]

Il dubbio è l’unica arma a disposizione per resistere alla brutalizzazione, è il viatico per la salvezza che dispensa il poeta, ma «il rito è eseguito a chiesa vuota davanti al niente e all’ignoto».[50] La funzione maieutica della poesia è messa in scacco non solo dal caos imperscrutabile, ma anche dalla condizione di emarginazione che vive il poeta: «scrivere poesie senza speranza di pubblicazione è uno scrivere quello che non potrò dirvi»,[51] «è il tracciare le carte di un continente inutile».[52] Ma la necessità di scrivere, di mettere «carta davanti alla belva»,[53] si sovrappone a quella fisiologica della sopravvivenza, senza l’una, la poesia, non c’è l’altra, la vita:

Sino a che io posso scrivere io vivrò. Scriverei anche se fossi capitato in un pianeta completamente abbandonato senza nessuna possibilità di far giungere a qualcuno la scrittura, e bisognerebbe scrivere come se uno si trovasse in una solitudine assoluta. Bisogna scrivere di tutto quello che vedo come se lo vedessi per l’ultima volta.[54]

«Al marchigiano non importa niente che lo si legga o no»,[55] scrive Quasimodo nella prefazione a Le streghe s’arrotano le dentiere, in virtù del fatto che «la scrittura è anche una terapia, a forza di scrivere uno riesce a provocare la catarsi, la liberazione dal male».[56] Tuttavia sarebbe ingenuo pensare che non sia affatto contemplato un destinatario ideale poiché, sebbene non risieda nel lettore la ragione della scrittura, la «verbalizzazione stritolata, inceppata e caotica»[57] che vuole racchiudere in sé tutto l’universo, assume caratteri performativi: è scrittura che agisce sulla lettura, «non passa attraverso il comunicare, asse linguistico rigettato dall’Autore, ma attraverso il rappresentare e l’ostendere».[58] Laddove «la poesia è una maniera d’essere una maniera di vedere dove per solito la gente non vede niente»,[59] si assottiglia il confine fra la parola e la cosa, si sovrappongono i significanti ai significati: la poesia acquista l’aspetto della cosa assolutamente necessaria. Lo scrivere è come uno scavare, alla fine trovi l’incredibile, trovi quello che mai ti eri sognato di trovare, la cosa va cercata e scovata ad ogni costo, ogni poesia è come deve essere, prenderla come fosse un prodotto della natura, una foglia, un ruscello, una mela.[60] Poesia come rivelazione, come epifania, ma anche poesia che dando il nome alle cose, le genera, quindi «scrittura creaturale, che fa e definisce la norma stessa dell’esistenza del mondo».[61] L’orrore del mondo deve essere rappresentato senza intermediazioni per poterne smascherare la menzogna oscurata dai linguaggi mediati e per moltiplicare il portato espressivo della comunicazione/ostensione. Di Ruscio accelera il ritmo della scrittura a velocità vertiginose che scalzano l’autore stesso dalla posizione di controllo sul caos della materia poetica; ricorre alle forme più elementari del verbo e a una sintassi costruita per sedimentazione sul già detto tramite uno schema giustappositivo che predilige predicati all’infinito e all’imperativo. Così le riflessioni prendono la forma di un libretto di istruzioni per il lettore, ma anche per se stesso scrivente e chiunque ritrovi nella poesia una palpitante carica vitale; il risultato è un vero e proprio manuale della resistenza:

Scandite ogni sillaba, mettere nella scansione tutta la vostra rabbia, dire con feroce calma ogni verso che sono riuscito a scrivere, mettere un baratro tra me e loro, oppure leggere come se quello che leggete non riguardi nessuno, come se l’utopia fosse rimasta solo nei miei versi, non dimenticare di fare atti sconci verso il pubblico tutto, a ogni modo divertitevi, la poesia è come il sangue universale, possiamo darlo a tutti, però ogni altro sangue ci mette in pericolo mortale.[62]

Ricorda Apuleio, che mette in guardia il lettore e poi raccomanda al divertimento: Lector, intende: laetaberis. D’altronde la vis ilare e gioiosa di molte pagine del poeta marchigiano è la diretta conseguenza del piacere che lo stesso ricava dalla scrittura, la quale al contempo però gli procura «travagli profondi»[63] e le frequenti delusioni che si alternano alle poche fortune editoriali. Sebbene assumendo una prospettiva macroscopica, risulti poco sorprendente constatare il fenomeno del proletario proveniente da una classe subalterna che comunque riesce a raggiungere un pubblico. Tuttavia considerando il caso particolare di poeta, emigrante ed emarginato, «ultimo nella sua terra a mille lire a giornata / ultimo in questa nuova terra per la sua voce italiana»,[64] la scrittura di Di Ruscio è il miracolo di un’ostinata fiducia nella poesia. Il portato politico della sua produzione non emerge infatti dal riconoscimento nella sua classe sociale, le cui rivendicazioni certo condivide, ma dall’appartenenza alla religione della poesia, dalla fede alle «carte disinteressatamente iscritte e per la sola gioia di comunicarvi tutto senza le reticenze del perbenismo dell’oggettività, una scrittura viva, palpitante al contrario delle scritture spente senza resurrezioni e orgasmi».[65] Allora la carica vitalistica, erotica e spirituale della poesia è per l’essere umano l’unica fuga, la speranza di una salvezza:

Non disperate, mettetevi a scrivere le poesie, ne ricaverete rilasciatezza, felicità gestuale, leggerezza nei contatti con il prossimo vostro, sentirete la presenza degli Dei in prossimità della tua ombra, gioia lavorativa, aumento vertiginoso della creatività in tutti i campi, sviluppo della personalità. Leggermente folle correrai verso tutte le sciagure, ti crederai inseguito da bande antiblasferiche armate di mazze ferrate, sfuggirai ai pericoli con rapidissime fughe, potrai metterti a volare come niente fosse, diminuzione vertiginosa della rigidità muscolare e anche mentale, diminuzione dei mali di testa, sarai in preda a dolcissimi spasimi sessuali. Iscrivere poesie a occhi chiusi, sgranare frasi una dietro l’altra con la massima velocità sino al punto che la battitura segue perfettamente il ritmo delle tue pensate anche quelle più stravaganti, velocità massima nel concatenare libere associazioni, scrivere con la schiena bene appoggiata alla spalliera della sedia, tenere la testa non troppo reclinata sulla tastiera, da oggi tutte le ore sono le nostre mi disse un poeta, fa’ rimbalzare tutto sulla tastiera. Piove, nevica, suona il telefono alla porta tu inchiodato davanti alla tastiera della macchina da scrivere.[66]


[1] Luigi Di Ruscio, Firmum, Ancona, Pequod, 1999, p. 146.

[2] Id., Neve nera, cit., p. 466.

[3] Marco Carmello, La vicenda di Luigi di Ruscio fra interiorità ed esterno, in Geografie della modernità letteraria: atti del XVII Convegno Internazionale della MOD (Perugia, 10-13 giugno, 2005), a cura di Siriana Sgavicchia, Massimiliano Tortora, Pisa, ETS, 2007, p. 489.

[4] Cfr. L. Di Ruscio, Cristi polverizzati, p. 212: «Mai ho avuto infatuazioni dannunziane, ero infatuato degli Ossi di seppia, e leggevo anche Lavorare stanca», dove a d’Annunzio contrappone il primo Montale e Pavese, e p. 21: «la mia formazione coincise con la prima edizione delle lettere dal carcere e io affabulavo sull’antologia di Anceschi chiamata lirici nuovi […] e vedevo i ladri di biciclette e Roma città aperta».

[5] M. Gezzi, Le strategie del “sottoscritto”: paragrafi per Di Ruscio narratore, https://puntocritico2.wordpress.com /2011/01/18/le-strategie-del-sottoscritto-paragrafi-per-di-ruscio-narratore/ (data di ultima consultazione 19/02/2021)

[6] L. Di Ruscio., Palmiro, cit., p. 23.

[7] Id., Cristi polverizzati, cit., p. 209.

[8] Ivi, p. 143.

[9] Ivi, p. 351.

[10] Id., Firmum, cit., p. 128.

[11] Id., Cristi polverizzati, cit., p. 179.

[12] Ivi, p. 219.

[13] M. Carmello, La vicenda di Luigi di Ruscio fra interiorità ed esterno, cit., p. 494, dove il termine castigliano è utilizzato in opposizione al “dispatrio” meneghelliano: «si tratta infatti di una vera e propria eradicazione per cui mezzo la lingua viene privata del suo luogo per  essere assegnata irrimediabilmente all’esterno, al “fuori”, in una condizione in cui esodo permanente, memoria, verità e, conseguentemente, possibilità scritturale, coincidono».

[14] L. Di Ruscio., Neve Nera, cit. p. 419.

[15] Ivi, p. 441.

[16] Id., Cristi polverizzati, cit., p. 314.

[17] Ivi, p. 325.

[18] Id., Neve nera, cit., p. 494.

[19] Ivi, p. 486.

[20] Ivi, p. 459. Cfr per una variante ‘cosmologica’ ivi, p. 489: «Scrivere per la gioia di cancellare e venne il primo Aprile ed ebbi la rivelazione: Primo aprile anniversario dell’esplosione dell’uovo comico cosmico che sia, il giorno che inizia la creazione dell’universo, anniversario della frittata universale, non c’era niente, neppure il tempo e neppure lo spazio però un uovo comico doveva pur esserci, anniversario delle esplosioni dell’ovo, quando tutto il silenzio si mise ad urlare e tutto fugge da noi in una fuga infinita in un furore sempre crescente delle divergenti galassie che precipitano verso il niente», dove “comico” è lapsus per “cosmico”.

[21] E. Zinato, L’oralità di Luigi Di Ruscio, cit., p. 34.

[22] Id., Firmum, cit., p. 146.

[23] Id., L’allucinazione, cit. Cfr. con il componimento numero 89 in L. Di Ruscio, Iscrizioni, Edizioni Biagio Cepollaro, Poesia Italiana. Collana di inediti ebook, 2005, p. 17: «Cristo ha detto di amare i propri nemici / infatti essendo un nemico d’Iddio / io da Dio sono molto amato».

[24] Roberto Cuppone, Iaculatoria in Blasphemia. Il teatro e il sacro, a cura di Roberto Cuppone ed Ester Fuoco, Vicenza, Accademia Olimpica, 2019, p. 8.

[25] L. Di Ruscio, Cristi polverizzati, in Romanzi, cit., p. 271.

[26] R. Cuppone, Iaculatoria, cit., p. 7.

[27] L. Di Ruscio, Cristi polverizzati, cit., p. 223, dove rivolge persino una supplica, imitando gli stilemi  della preghiera liturgica: «Babbo mio celeste, tu che non esisti, perdona questa gioia irresponsabile che mi cade addosso tutta intera, questa gioia irresponsabile mentre giro in tutte queste terre matte».

[28] Id., Iscrizioni, Edizioni Biagio Cepollaro, Poesia Italiana. Collana di inediti ebook, 2005, p. 19. Cfr. Id., Poesie Scelte, cit., p. 286:  «tutto ritornerà nel ventre d’Iddio / niente andrà perduto / tutto sarà gioiosamente salvato».

[29] L. Di Ruscio, Cristi polverizzati, cit., p. 199.

[30] Id., Neve nera, cit., p. 496.

[31] Ibidem.

[32] Ibidem, si noti che l’uso del congiunzione “anche”, come di frequente in Di Ruscio, non rafforza alcun rapporto copulativo, anzi prende valore limitativo, escludendo che siano portatori di valori, sottinteso, morali.

[33] Ibidem.

[34] Id., Cristi polverizzati, cit., p. 198.

[35] Id., Neve nera, cit., p. 469.

[36] Id., Firmum, cit., p. 146.

[37] “Sprocedato” è un termine dell’italiano regionale di Lazio, Marche e Umbria, che Di Ruscio ritrova anche nei sonetti di Giuseppe Gioacchino Belli. Cfr. L. Di Ruscio, L’allucinazione, cit., dove la moglie Mary lo rimprovera perché Luigi bestemmia in italiano in presenza dei figli: «Devi smetterla con il tuo sprocedare italico. Scrivi in italiano quello che ti pare ma devi smettertela con il tuo sprocedatissimo parlare con la tua lingua». Si noti anche che le parole di Mary sono riportate in senso espressionista, nemmeno lontanamente con intento realistico.

[38]Id., Zibaldone norvegico, cit., p. 23.

[39] Id., Neve nera, cit., p. 403.

[40] L. Di Ruscio, Firmum, cit., p. 135.

[41] Ivi, p. 93.

[42] Ivi, p. 138.

[43] M. Raffaeli, Prefazione in L. Di Ruscio, Poesie scelte, cit., p. 10.

[44] Andrea Cortellessa, La vergogna delle lettere italiche, cit., p. 537: «se l’azione del Verbalizzatore – col più espressivo e insistito dei suoi lapsus – non è quella di scrivere bensì di iscrivere, è perché questo suo scrivere è in effetti un insistere, l’impuntarsi maniaco su un luogo e un tempo cui si è crocifissi psichicamente: tanto più quanto la pratica esistenziale della fuga, da quel luogo e da quel tempo, abbia in effetti allontanato il protagonista».

[45] L. Di Ruscio, Cristi polverizzati, cit., p. 278.

[46] S. Verdino, Luigi Di Ruscio, in «Istmi», n. 7-8, 2000, p. 96.

[47] L. Di Ruscio, Neve nera, cit., p. 473.

[48] Ivi, p. 426.

[49] Id., Neve nera, cit., 473.

[50] Id., Firmum, cit., p. 125.

[51] Id., Cristi polverizzati, cit., p. 388.

[52] Id., Firmum, cit., p. 103.

[53] Ivi, p. 113.

[54] Id., Palmiro, cit., p. 131.

[55] S. Quasimodo, Introduzione a Le streghe s’arrotano le dentiere, cit., p. 152.

[56] L. Di Ruscio, Cristi polverizzati, cit., p. 287.

[57] Ivi, p. 173.

[58] M. Carmello, La vicenda di Luigi di Ruscio fra interiorità ed esterno, cit., p. 492.

[59] L. Di Ruscio, Cristi polverizzati, cit., pp. 213-214.

[60] Ivi, p. 287.

[61] M. Carmello, La vicenda di Luigi di Ruscio fra interiorità ed esterno, cit., p. 492.

[62] L. Di Ruscio, Cristi polverizzati, cit., p. 388.

[63] Ivi, p. 304.

[64] Id., Firmum, cit., p. 104.

[65] Id., Cristi polverizzati, cit., p. 362.

[66] Ivi, p. 363. Cfr. una variante in Neve nera, cit., p. 456: «Piove, nevica, buttano le bombe, avanzamento nelle fiamme dell’incendio, il Titanic che affonda e tu imperterrito a scrivere un verso dietro l’altro, smascherare anche l’Iddio immobile, tutti i maiali delle logge massoniche più coperte, tutte le carogne associate e perfino la Repubblica nostra ti sembrerà giovanissima come quando nelle tiepidi notti picene andavo ad attaccare i manifesti per la repubblica nostra».

Nosferatu non esiste

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di Andrea Accardi

 

Io che m’illudevo di tenere tutto insieme

che le mie braccia arrivassero oltre questo

fuggi fuggi e chiudessero in tempo

ogni tipo di porta

ecco che invece mi ritrovo in mezzo

alle cose che finiscono

a questo continuo perdere pezzi

e lasciare andare, recidere

decidere

svegliarsi in viaggio con la schiena a pezzi

vedere paesaggi sognati da altri

 

(Albumi d’alba, riflessi, screzi.

La trasparenza dei Carpazi)

 

***

 

Resto immerso nel rumore del sangue,

caldo crepitio di globuli, sibilo

che unisce, difendo la casa

con barricate d’ossa, mi aggrappo

a ogni cosa con i denti

ma lascio solo un’orma ridicola:

due fori ciechi. Da piccolo

guardavo la luce cambiare

tra le persiane, come uno strappo

di tempo che nessuno ricuce.

Nel buio ora sento i topi brulicare

sobbalzare, divorare tutto.

Bisogna dare ali

a questi topi.

 

***

 

Mi tormentano immagini, fanno

male dietro gli occhi i ricordi

come questo che si accanisce adesso

strisce di sole sul bucato steso

un balcone sopra l’altro, il solito

latrato lontano, ovunque lo stesso

le stanze dell’infanzia degli altri

la dolcezza di un garage, poi la salita

una mano che saluta, l’altra che parte

lo sventolio feroce di alberi e case

fino a quando un’intera città

scompare dalle carte.

 

***

 

Rivedo l’immagine del mio corpo

nei diversi punti della rete

– in cima a scalinate, dietro porte

a vetri, sul fondo di paesi

che diventano spiagge – ma sempre

come in movimento e in controluce

la vedo che fugge, scivola, affonda

nella sua stessa presenza, incavo

pulsante, vuota intermittenza,

macchia tremolante sullo sfondo.

E invece la cornice che da sempre

mi circonda e mi separa dal mondo

ecco che adesso prende il sopravvento,

si avventa sulla vita, e ogni esistenza

soltanto accennata ritorna

di colpo insopportabile e vivida,

fulminata da odori estivi,

fissata in colori di ceramica,

in una bugia di smalto.

Il tempo che prosegue senza di me

è tempo reciso in cui non invecchio.

Per questo sparisco allo specchio.

 

***

 

Costeggiavamo campetti accesi

nel lampo del vedere un tiro fuori,

poi la strada si alzava all’improvviso

e dava su antenne, bagliori, sui paesi

nascosti dal fumo. Ma le carte non dicono

i posti che lasciamo, e le cose

si vendicano del nostro oltrepassarle,

fanno fronte comune, tutto del quale

non possiamo essere parte, mondo ch’esiste

senza noi oscuramente, ci sono sale

d’aspetto senza riviste, luci

dietro finestre, mani che spostano

sedie e non possiamo farci niente.

Nelle città immense la gente vive

senza perdersi, guarda la pioggia

sui palazzi di fronte, apre negozi

di oggettistica, si affaccia lo stesso

fiduciosa dai balconi sui fiumi

di sapone che scorrono in basso.

Nei centri piccoli vicino

alle stazioni saluti, gesti

consueti, sapere cosa fare

il caffè da prendere.

E di queste abitudini non so

dire nulla, anzi è lì che sprofondo

ogni volta, nelle vite degli altri

trasandate e inspiegabili,

nel loro mattutino ripetere il caso,

sbattere in alto come un sogno appeso.

 

***

 

La notte porta draghi di fosfeni

e un buio senza fondo dietro

presagi di cime, potessi uscire

da questo buio, giocare al gioco

del tempo, scegliere e rinunciare

come fai tu vivendo. Ma queste

infinite voglie, nascoste teste

d’aglio, avvelenano la stanza

e tutto il resto, il mio amore non sceglie

manca il bersaglio, nulla gli sembra

abbastanza.

 

***

 

Da qui non ti vedo e non vedo

la tua casa

e intorno a me continua ad accadere

questa selezione idiota

e silenziosa.

Penso a te come a un rimedio

come a una via d’uscita.

 

Il tuo nome sa di cose

che a forza di non crederci

vengono esaudite.

La tua casa è sulla carta

in mezzo a linee che si addensano

vortice minerale, gorgo

di antracite

 

(ti scrivo dal cerchio di un ostello

che è una pausa qualunque del mondo

scotta la ghisa ai bordi della stanza

e appanna i vetri e sfianca le voci

qualcuno che impreca, l’ostessa che prega)

 

***

 

Capitava di lasciare posti e persone

e guardare indietro fino a vederli

svanire, di pensare l’impossibile

di una casa in assenza di me

che l’abitavo, di vedere gli altri

già dissolti

nell’ultima parte di ogni cosa.

Anche adesso che avanzo verso di te

per ogni metro di spazio sperperato

registro il punto esatto della perdita

del mio non essere più lì

mentre l’aria si riempie di una musica

d’archi, suonata per cosa, da chi

 

(Sto arrivando.

Ecco il castello, il sortilegio.

La pietà del tuo contagio)

 

Gino Scartaghiande: per una ricognizione impossibile

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di Francesco Iannone

Se l’analisi delle cose è la morte della Bellezza o della grandezza loro, come scrive Leopardi nello Zibaldone, allora le riflessioni che seguito a condividere con voi siano lette come ghirigori sugli azzurri del cielo.

La poesia di Gino Scartaghiande (Cave de’ Tirreni, Salerno, 1951), non può essere letta alla luce della temperie degli anni settanta. Eppure da quelle istanze si avvia, da quelle premesse sembra decollare la sua grammatica. Ma è un abbaglio una simile circoscrizione, una deviazione cieca che decentra il lettore e allontana il nostro poeta dal fuoco del suo nucleo, in un tempo in cui la parola diventa sogno posando davanti ad uno specchio deflagrata in frammenti da ricomporre secondo un ordine di vanità e non di verità.

 Chi soffia sulle braci, insomma, e non uso a caso questa immagine, e chi soffia sulla cenere. Scintillìo o polvere. I due termini, a mio avviso, della questione. Lo aveva capito Amelia Rosselli che, ancora oggi fraintesa fra biografismo, sperimentalismo e vago spiritualismo, prende le distanze dal gruppo ’63 e si ricolloca al centro di un’ossessione che attiene essenzialmente al significato ultimo delle cose. Per Rosselli la parola è una res sacra, religiosa, laddove religere, rilegare, è mettere insieme in funzione di un’unità che giustifica le moltitudini. Così fa Scartagniande. Nei Sonetti d’amore per King Kong (Cooperativa scrittori, 1977) l’inconciliabile si armonizza, le dissonanze dialogano conferendo ordine al disarticolato (la sintassi è spesso alterata, la funzione logica degli elementi non è sempre immediatamente afferrabile, il canto è ora rude, ora levigato). Le violazioni sintattiche, le immagini crude, talvolta violente (scrive a questo proposito Simone Weil ne L’ombra e la grazia: la realtà è dura e rugosa. Vi si trovano gioie, non cose gradevoli […]), seppure alternate a momenti di puro lirismo, potrebbero convincerci della filialità della sua poesia alle esperienze in atto tese ad una contrazione, se non a una demolizione, dell’io a favore di un impeto reazionario, o rivoluzionario come ebbero a dire gli stessi esponenti della neoavanguardia, che ponesse il prodotto artistico in relazione, (dialogo?), con la società, ne rappresentasse, anche formalmente, le complessità, le contorsioni. Arte come gesto politico, e politico lo è nelle intenzioni dei Novissimi, programmaticamente, mentre la poesia, come Scartaghiande sembra suggerirci, è politica tutte le volte che un io si accorge di sé, in quanto dramma, fame, bisogno, stupendosene all’infinito. È da questo incontro che l’io rigenera se stesso e perciò rinnova il suo rapporto con gli altri e con il mondo, replicando il medesimo orizzonte escatologico di Anna Maria Ortese nel suo densissimo Corpo celeste quando scrive: Vedevo nell’arte, e nel suo ordine, quando l’arte respiri con l’uomo, tutta l’intesa fra uomo e uomo. E da qui si muove Scartaghiande. Dalle oppressioni dei Sonetti fino al ricongiungimento di Bambù (Rotundo, 1988). Come un’emersione che da oscure profondità tracima radiosa la sua acqua battesimale. Dalla crepa che agevola il flusso fino all’esplosione dello zampillo, è questo il viaggio che compie il poeta. Una parobola-ponte che è un attraversamento, da un bordo all’altro, dall’aspirazione al senso (nei Sonetti) alla Grazia (in Bambù), esito perseguito con esasperazione da Beppe Salvia, altra voce a lui gemella. E che cos’è la Grazia? L’attimo in cui si toccano le fondamenta, si adagia la fronte della fatica alle mura del ristoro. È un attimo. Poi tutto cade un’altra volta, tornano la tristezza, la noia, la rabbia, il disamore, tutto rotola nei cupi echi di uno spavento grande. E siamo già oltre King Kong, il mostro ha espulso il poeta, Pinocchio ha ritrovato Geppetto nel ventre della balena, si compie la Storia, è stata finalmente raggiunta la pace. Ciò che è accaduto una volta vive e vive nella memoria come speranza di carne che riaccade se attesa, desiderata. Con Bambù siamo fuori dalla nube della non conoscenza, mentre ne eravamo totalmente immersi nei Sonetti. Nei Sonetti c’è un dolore “genuino”, per citare l’anonimo autore de La nube della non conoscenza, pieno di desiderio e proprio perché genuino, cioè non disperato (ma è possibile sottrarsi alla disperazione se si hanno delle ragioni ponderatissime per non consegnarsi all’angoscia) sopportato come un chiodo della promessa confitto in mezzo alle palme. Nei Sonetti Scartaghiande urta gli stipiti di una porta strettissima, per dirla con San Giovanni della Croce, ma il passaggio è facilitato da una graduale decompressione del buio che restituisce alla parola gli spazi entro cui la notte dilata enormemente fino alla creazione di quei vuoti che se accettati sanno chiamare a sé nuova luce, e colmarsi, ed è ciò che accade in Bambù. Con i Sonetti Scartaghiande si tuffa nella fossa che è la bocca di un averno intimo con la consapevolezza che se si discende in se stessi si trova che si possiede esattamente quel che si desidera, ancora Simone Weil. Questo ritrovamento potrebbe essere accaduto in Bambù. La poesia è solo presente, avvisa Scartaghiande in una recente intervista per il Quotidiano del sud. Ci parla nel presente se è vivo in noi il dramma di un significato presente, sanguinante. La parola illumina l’esperienza come l’esperienza rischiara la parola. Un movimento osmotico irrinunciabile. Ma ciò accade se si è vivi e se è viva la parola, perché concepita all’inizio in seno ad una necessità cogente. E sia nei Sonetti che in Bambù c’è un’amicizia, una esperienza di prossimità, di vicinanza (Hai visto non sono proprio / io, ma il più ampio anfratto per riceverti), una protusione di mani e braccia leggerissime che calmano l’animale, citando un emistichio della poesia dal titolo L’animale, in Oggetto e circostanza (Il labirinto, 2016) titolo eponimo della seconda sezione del libro summa dell’autore. E se nei Sonetti esplode una voce che si pensa senza fondo è in Bambù che il poeta si accorge di avere un fondo e l’onda si appiana, confortata dalla certezza di una base, una superficie su cui posare il grido. I Sonetti manifestano una visione che è quella della propria miseria umana con tutte le sofferenze che ne conseguono, Bambù invece usa questa sofferenza, la manipola trasfigurandola a favore della Grazia; caravaggeschi, quindi, i Sonetti con tutto il loro “realismo feriale”, per dirla con Roberto Longhi, nominato nella sua ruvida fattualità e talmente impavido da andare incontro alle improvvise gittate di luce; giorgionesco, invece, Bambù, laddove la tempesta non turba, e forse la esalta addirittura, la pace di una qualsiasi conquista che sembra essersi impossessata dei personaggi ammorbidendone i gesti, le pose, le forme. Nelle opere di Scartaghiande, seppure con toni differenti, tutto si incatena, nulla è senza ragione, invocando stavolta le fiamme di Cristina Campo nella sua opera più vorticosa, Gli imperdonabili. Ed è questo ciò che rende sempre giovane, o, più prudentemente, ancora giovane, la poesia del nostro poeta, perché sa esistere nel vento di ciò che vive e che muore, ci guarda e ci fa sentire guardati, scoperti, nudi.

da Sonetti d’amore per King-Kong

Nella sua curva dolce metto

una porta oscura e la lascio

aperta. Vi conserva un’acqua,

uno specchio nell’erba e nido.

Vi respirano la notte e le ombre.

Quando distese le cose s’insinuano

nei propri vuoti. Un rimando duplice

ora, mettermi io stesso a parlare.

Dove si sposta il cerchio alle labbra.

Se qui scagliato io fossi sempre tu.

da Bambù

I raggi stanno tessendo

quest’addio. Non sono più

la fantasia. Non ho memoria

che sotto di me, furono

splendidi, freddi, quei

concavi cieli. A chi do

perdutamente

i miei baci,

se nella strada, in un attimo

ti fermi dietro di me?

Sto consumando lentamente

questa terra. Non per le strade

che seguo. Io se non te. Non

per conservare, ma essere

che tu sia. Dove si fa chiaro

io sto diminuendo dentro.

Che tu avvenga. Che tu possa

sopra un’urna chiara d’erba,

vedere quest’oasi di noi.

Le montagne e il resto di Antonia Pozzi

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di Ornella Tajani

È uscito per Ponte alle Grazie un bel volume di poesie, lettere e foto di Antonia Pozzi, scelte e raccontate da Paolo Cognetti, dal titolo L’Antonia. Seguire l’autrice – che in vita non vedrà pubblicato neanche un suo componimento – negli anni che vanno dal 1929 al 1938 è attraversare, contemporaneamente, un pezzo di storia novecentesca, via via sempre più buio, e il passaggio di una giovane donna dall’adolescenza all’età adulta: «È terribile essere una donna, ed avere diciassette anni. Dentro non si ha che un pazzo desiderio di donarsi», scrive al suo ex insegnante Antonio Maria Cervi, con il quale avrà una casta relazione. Pozzi si innamora in modo appassionato, dopo Cervi toccherà a Remo Cantoni e poi a Dino Formaggio: intanto viaggia per l’Europa, manda cronache dall’Inghilterra, si laurea con Antonio Banfi con una tesi su Flaubert, va a Berlino, scopre la realtà delle periferie milanesi, inizia a insegnare a scuola; intanto il padre ha preso la tessera del partito fascista ed è un uomo molto in vista di Pasturo, quel «brutto, dolce paese» dell’Antonia, dal quale scrive a Cervi: «Che cosa è un ritorno? Una cosa che, per qualche ora, scioglie i groppi duri che separano l’oggi dall’ieri e fonde il passato e il presente con sicurezza fresca, dove il male non ha luogo».
In mezzo a tutto questo, le escursioni in montagna, sempre più frequenti: la Grigna, le Dolomiti, il Cervino, queste presenze che «Occupano come immense donne/la sera», da cui Cognetti parte e attraverso le quali tesse una narrazione inframezzata dalle fotografie scattate da Pozzi, che si fanno via via più belle e importanti per lei; tant’è che arriverà a pregare la madre di mandarle un altro apparecchio fotografico, nel momento in cui quello che possiede in montagna si rompe, giacché lei senza macchina è «una donna morta».
La cura e la dedizione che Cognetti mette in questo racconto, che è stato innanzitutto una ricerca, sono il valore aggiunto di questo volume, e ci si emoziona insieme a lui mentre scorta chi legge nei luoghi immortalati da Pozzi nei suoi scatti.

Pubblico una delle poesie contenute nel volume, che punteggiano le molto più numerose lettere; in apertura una delle fotografie.

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Confidare

Ho tanta fede in te. Mi sembra
che saprei aspettare la tua voce
in silenzio, per secoli
di oscurità.

Tu sai tutti i segreti,
come il sole:
potresti far rifiorire
i gerani e la zàgara selvaggia
sul fondo delle cave
di pietra, delle prigioni
leggendarie.

Ho tanta fede in te. Son quieta
come l’arabo avvolto
nel barracano bianco,
che ascolta Dio maturargli
l’orzo intorno alla casa.

8 dicembre 1934

L’inutile sacrificio della purezza

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di Eleonora Roaro

Uccidi l’unicorno. Epoca del lavoro culturale interiore, il brillante esordio narrativo di Gabriele Sassone (1983) per il Saggiatore, è nel contempo Bildungsroman, raccolta di memorie e saggio sull’industria culturale e sulla produzione di immagini. Protagonista del romanzo è un quarantenne che, all’interno di confini spaziali (il suo bilocale) e temporali (una notte) claustrofobici e ben definiti, si trova a dover improvvisare in poche ore la presentazione di un convegno nell’università in cui insegna sul tema – volutamente generalista – Art in the Age of Social Media. E nel tentativo di identificare il momento in cui «una persona comune diventa un artista» (p. 16) il protagonista analizza e mette in dubbio i meccanismi di sfruttamento su cui si basa il sistema culturale – spesso precario e intermittente –, i preconcetti sulla produzione di immagini, il funzionamento del mercato dell’arte e, non ultimo, il ruolo della formazione in ambito genitoriale e accademico.

I ricordi personali del protagonista legati ai suoi primi lavori come assistente di galleria e agli aspiranti artisti conosciuti nel corso degli anni mettono in luce le contraddizioni di un sistema in cui questi «lavorano di continuo ma sono pagati raramente» (p. 36). Scrive l’autore, riecheggiando Marcel Duchamp e il rifiuto del lavoro di Maurizio Lazzarato: «L’artista emergente non è subordinato a un padrone, ma è subordinato ai dispositivi di potere» (p. 37).

Lo sguardo situato del protagonista permette, da un lato, di seguire la produzione del lavoro culturale nel suo svolgersi, con i suoi dubbi e contraddizioni, nella volontà di demistificare una professione – quella del docente e del curatore – dove ben poco è lasciato all’ispirazione ma è invece frutto di ricerca meticolosa; dall’altro mette in scena un voyeurismo assimilabile a quello dei social media mostrando in maniera morbosa dettagli del tutto irrilevanti del suo modo di vivere, su tutti l’ossessione per il fitness. Il corpo del protagonista, inoltre, non solo viene evocato in relazione all’allenamento: la sua gestualità quotidiana, dal preparare una tisana allo sfogliare i libri utili alla creazione delle slide, è sempre descritta in maniera meticolosa, a ricordarci che il pensiero non è mai totalmente astratto.

Il titolo del libro è rappresentativo della volontà dell’autore di far coesistere tra loro più livelli, e quindi «high e low culture» (p. 113), dando la stessa importanza a ekphrasis di opere d’arte, prodotti della cultura pop ed elementi della vita quotidiana: è tratto infatti da un verso del brano Gutter Ballet (1989) dei Savatage, gruppo heavy metal statunitense, di cui il protagonista del romanzo guarda il video su YouTube di un vecchio live che, a sua volta, innesca una catena di ricordi e riflessioni legati alla giovinezza.

«Il verso completo di Gutter Ballet ordina di uccidere l’unicorno soltanto per possedere il suo avorio. È la metafora dello spreco tipico dei giovani. La distruzione dell’innocenza e della purezza; la distruzione di ciò che è sacro. La distruzione di ciò che è bello, semplicemente». (p. 71)

Il protagonista ripercorre il pensiero di teorici, artisti e scrittori importanti per la sua formazione (da Boris Groys a Paul Preciado, da Giuseppe Berto a Luigi di Ruscio) che hanno minato le sue certezze legate all’educazione familiare e scolastica, ma non riesce a superare questa contraddizione, esemplificata al meglio nel suo modo di guardare le donne o dal timore di sembrare un «minchiamoscia» (p. 14). Difatti, se la sua educazione sentimentale, nella volontà di ripensare una critica d’arte in cui la posizione del critico sia dialogica e non impositiva e giudicante, pone le proprie basi in Autoritratto di Carla Lonzi, la realtà dei fatti lo contraddice, e il suo altro non è che un tentativo fallito di essere diverso dal sistema patriarcale ed esclusivo in cui è cresciuto.

Questo conflitto tra quello che siamo, quello che vorremmo essere e quello che non saremo mai è ben esemplificato nel rapporto con il figlio piccolo:

«Io sento una responsabilità enorme verso mio figlio. Lo amo più di ogni altra cosa, eppure so che gli insegnerò a commettere i miei stessi errori. Per esempio a realizzarsi nella vita senza essere prepotente ma neanche troppo interessato al prossimo. A vestirsi con indumenti prodotti tramite lo sfruttamento di altri bambini. A essere gentile e educato, a tratti molto generoso, ma incapace di privarsi del suo benessere». (p. 121)

Nonostante il protagonista si metta costantemente in dubbio e sottoponga sempre la sua identità a una verifica (p. 203), il suo fallimento disvela l’immutabilità delle cose. La struttura circolare del romanzo – che si apre e si chiude con la stessa scena – è emblematica nel dimostrare che tutto resta irrisolto e che continua a riproporsi nello stesso modo: il passato si sovrappone al presente, e si ripete.

Dante e Forese Donati

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Tra le opere in volgare di Dante, dopo la Vita Nuova, vi sono le Rime, di vario tipo, sonetti, canzoni, alcune anche di dubbia attribuzione, che vengono comunque riportate per sicurezza nei vari repertori danteschi. Vi sono in particolare, tra quelle considerate sicure, dei sonetti scambiati con altri poeti coevi con cui il Nostro intratteneva buoni o anche ottimi rapporti. Uno di questi è un certo Forese Donati: egli porta lo stesso cognome della moglie ufficiale (non la sua donna angelicata che tutti sappiamo) Gemma Donati e infatti è suo terzo cugino. Negli anni compresi tra il 1293 e il 1296 (anno della morte di Forese) lui e Dante si scambiano tre sonetti a testa, comincia Dante e finisce Forese, che ha dunque l’ultima parola; come vedrete questi sonetti non sono proprio benevoli, anzi i due si scambiano insulti e insinuazioni sulle reciproche capacità di vario tipo. Forese è chiamato Bicci novel per distinguerlo dal nonno paterno che aveva lo stesso nome. Qui trovate i primi tre sonetti, Dante – Forese – Dante e i seguenti tre domani su La Poesia e lo Spirito, dove, come ogni mese pubblico parallelamente questi ricordi danteschi. Ecco dunque la prima metà della tenzone:

1. Dante a Forese (LXXIII)

Chi udisse tossir la mal fatata
moglie di Bicci vocato Forese,
potrebbe dir ch’ell’ha forse vernata
ove si fa ’l cristallo ’n quel paese.
Di mezzo agosto la truovi infreddata;
or sappi che de’ far d’ogn’altro mese!
E no·lle val perché dorma calzata,
merzé del copertoio c’ha cortonese.
La tosse, ’l freddo e l’altra mala voglia
no·ll’adovien per omor’ ch’abbia vecchi,
ma per difetto ch’ella sente al nido.
Piange la madre, c’ha più d’una doglia,
dicendo: «Lassa, che per fichi secchi
messa l’avre’ in casa il conte Guido!».

2. Forese a Dante (LXXIV)

L’altra notte mi venn’ una gran tosse,
perch’i’ non avea che tener a dosso;
ma incontanente dì [ed i’] fui mosso
per gir a guadagnar ove che fosse.
Udite la fortuna ove m’adusse:
ch’i’ credetti trovar perle in un bosso
e be’ fiorin’ coniati d’oro rosso,
ed i’ trovai Alaghier tra le fosse
legato a nodo ch’i’ non saccio ’l nome,
se fu di Salamon o d’altro saggio.
Allora mi segna’ verso ’l levante:
e que’ mi disse: «Per amor di Dante,
scio’mi»; ed i’ non potti veder come:
tornai a dietro, e compie’ mi’ viaggio.

3. Dante a Forese (LXXV)

Ben ti faranno il nodo Salamone,
Bicci novello, e petti delle starne,
ma peggio fia la lonza del castrone,
ché ’l cuoio farà vendetta della carne;
tal che starai più presso a San Simone,
se·ttu non ti procacci de l’andarne:
e ’ntendi che ’l fuggire el mal boccone
sarebbe oramai tardi a ricomprarne.
Ma ben m’ è detto che tu sai un’arte,
che, s’egli è vero, tu ti puoi rifare,
però ch’ell’è di molto gran guadagno;
e fa·ssì, a tempo, che tema di carte
non hai, che·tti bisogni scioperare;
ma ben ne colse male a’ fi’ di Stagno.

non occorre stupirsi di questa apparente aggressività: Dante e Forese rimangono buoni amici e tutto questo modo di lanciare invettive è largamente rituale tra la focosa gioventù dell’epoca, e da quel che traspare dalle cronache del tempo focoso Dante lo era assai, soprattutto in politica, naturalmente, nelle continue battaglie tra guelfi e ghibellini e tra Neri e Bianchi, finché proprio dai Neri Dante sarà in malo modo scacciato da Firenze.

La felicità dei mobilifici

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Assieme ad alcuni amici all’inizio del 1990 fondai un giornale che usciva settimanalmente, composizione a piombo, formato da vecchio foglio aziendale, 260 x 325 mm; erano molte, tutt’a un tratto, le potenzialità inutilizzate. Volevamo accompagnare e promuovere la democratizzazione del paese. A metà febbraio uscì il primo numero. Non avemmo bisogno di un capitale di partenza, poiché l’intera tiratura fu venduta molto prima della scadenza della fattura di stampa. Agli annunci inizialmente volemmo rinunciare, lo spazio ci occorreva per cose più importanti.
La sera del 18 marzo, il giorno delle elezioni della Camera del Popolo, ridemmo delle prime proiezioni. Gli occidentali non capivano proprio niente! A poco a poco tuttavia s’insinuò in noi la verità. Il 2,9 per cento al Neues Forum nel risultato definitivo fu uno shock. Adesso potevamo anche chiudere il giornale. Ma in qualche modo dovevamo pur guadagnare dei soldi e tutti ci eravamo già licenziati due mesi prima. L’aspetto più penoso era che adesso erano proprio i «flauti dolci» dei partiti di blocco a festeggiare la vittoria. Non erano forse stati i peggiori leccapiedi? Il nuovo segretario Lothar de Maiziere non aveva forse parlato, ancora in febbraio, di un «socialismo più caloroso»?
Presto non seppi più cosa scrivere. La maggioranza aveva deciso. La logica dei numeri era diversa da quella delle parole. E cosa potevano le parole contro i numeri? Sempre e ovunque era esclusivamente una questione di numeri! E dunque di soldi. Nella primavera 1990 riflettei per la prima volta sul denaro. Era divertente guadagnare soldi come imprenditore, e per i miei parametri era una quantità di denaro inverosimile. Per altro verso avevo paura di indebitarmi fino alla fine dei miei giorni e dover spedire venti dipendenti all’ufficio di collocamento.
Con l’unione monetaria del 1° luglio 1990 fondammo un giornale di annunci. Invece di battermi per la democrazia, presto ebbi a che fare soltanto con mobilifici di nuova apertura e concessionarie di automobili. Annunci a cadenza settimanale, venti per cento di sconto, per lei un altro dieci per cento, buona collocazione, anzi ottima. Dovevo cercare di soppiantare i cosiddetti concorrenti, che avevano assunto la nostra segretaria e possedevano la nostra banca dati clienti, della quale invece noi sentivamo la mancanza. Li odiavo, tutti quei «concorrenti», perché puntavano a minare la nostra esistenza professionale, anzi la nostra esistenza tout court – come noi la loro.
Fino a poco prima avevamo manifestato a voci spiegate: «Democrazia, ora o mai!», «Libere elezioni!», «Libertà di movimento!», «Stasi in miniera!», «SÌ all’educazione popolare, NO a educazione militare, alzabandiera e Margot Honecker!». Nell’autunno 1989 avevo fatto esperienza di come rivendicazione e prassi potessero combinarsi. Era in gioco il volto umano della società, quindi la dignità di noi tutti, un mondo migliore. Ma che aspetto aveva il mio volto, adesso? Deformato dalla rabbia? In preda al panico? Perplesso? Braccato? Quel che facevo giorno dopo giorno non era forse contrario a ciò che ritenevo buono e giusto? Mi ero mai contorto davanti a un funzionario come facevo adesso davanti al proprietario del più grande mobilificio della regione? Che all’improvviso era diventato il re della regione, nella quale, come praticamente ovunque nell’Est, le grandi aziende avevano dichiarato fallimento, perché come c’era da aspettarsi non erano in grado di pagare salari e stipendi in nuovi marchi.
La cosa più strana di tutta la faccenda, però, è che allora non avrei potuto dirlo come lo sto descrivendo adesso. La narrazione della «svolta» andò diversamente. Si parlò di auto-liberazione, di democrazia anziché dittatura, libertà anziché muro, economia di mercato anziché pianificata ecc. ecc. E non era forse vero? Chi sollevava un qualsiasi dubbio, o era un inguaribile passatista o/e era privo di senso della realtà. Uno sguardo verso est, nei paesi fratelli di un tempo, era pur sufficiente a vedere quanto indicibilmente bene ce la passassimo noi tedeschi orientali. E il mondo intero non voleva e vuole forse vivere come noi? C’era o c’è ancora una qualche alternativa apprezzabile alla nostra way of life? E non aveva forse ragione Francis Fukuyama con la sua ristampa de La fine della storia?
I rapporti di forza nel mondo sono mutati dal 1989/90. Le «normalità» di allora, tuttavia, si sono globalizzate e in tal modo consolidate. Esse condizionano e cambiano il mondo ininterrottamente, sono più efficaci della fine del conflitto fra i due blocchi.
Una di queste «normalità» è un economicismo onnipervasivo, il cui mezzo e il cui fine possono essere individuati nella privatizzazione e nel profitto privato. Da ciò dipende tutto il resto, che ne è guidato e subordinato. Pensare qualcosa che non «renda», che non serva alla crescita, che si sottragga al principio McKinsey e alle quote, è un’opzione risicata e marginale. E tutto ciò viene interpretato come fine delle ideologie, come avvento di una politica conforme al mercato e orientata ai vincoli esistenti. Le mire di profitto private sono considerate normali, si ritiene cioè che abbiano un fondamento nella natura umana.
Un’altra «normalità», connessa alla prima, è la coscienza di aver vinto. L’Occidente è il vincitore! Noi siamo i buoni!
[…]
Ripensando a quanto io stesso mi sia lasciato abbindolare da questo economicismo, la cosa mi diverte o mi spaventa, a seconda; credevo di essere passato da un mondo costruito sulle parole a uno fatto ormai soltanto di numeri. E su questa base avevo tentato di descrivere l’impressione che ormai nulla mi avrebbe dovuto legare al mondo a parte il denaro. Tutto il resto era subordinato al denaro (o alla crescita o al Pil o al valore azionario), poiché sembrava che con il denaro si potesse fare tutto, nel bene e nel male.
Come giovane imprenditore nel 1990 ricevetti benevole pacche sulle spalle: anche tu ce la puoi fare se ti ci metti d’impegno e ti rimbocchi le maniche. Ma fare cosa? Arrivare in alto, ai soldi e al riconoscimento! Mi sentivo rigettato nella felicità privata, mentre si sarebbe dovuto trattare della felicità di tutti. L’idea, se non addirittura la pretesa che la mia felicità fosse legata alla felicità altrui, che non potessero darsi indipendentemente l’una dall’altra, era contraddetta dalla mia pratica quotidiana. La mia felicità era l’infelicità degli altri. E la felicità degli altri la nostra infelicità. Quella nostra lotta, tuttavia, che cos’era? La felicità dei mobilifici e delle concessionarie? E non approfittavamo forse noi stessi della concorrenza fra le tipografie? Non volevamo scegliere anche noi la migliore di tutte? Insomma, questo sistema non è forse il migliore per tutti?
Assolutamente no! Basta anche solo la constatazione per cui il 60% dei danni ambientali provocati dalla popolazione della Svizzera si trova al di fuori dei confini di quel paese. Per la Germania non sarà tanto diverso.
Se compriamo un computer o un cellulare, di solito conserviamo la confezione oppure smaltiamo il polistirolo nel bidone giallo e il cartone in quello blu, e prima o poi il computer finisce in quello arancione. Ma ciò che è stato necessario per ottenere le varie materie prime per questi oggetti, ciò che è occorso per raccoglierle, assemblarle eccetera, tutto questo si sottrae al nostro sguardo, come anche il percorso degli stessi oggetti una volta richiuso il coperchio del bidone.
Questo significa: sì, abbiamo paesaggi floridi perché abbiamo chiuso e rottamato o venduto i nostri vecchi impianti industriali più inquinanti. Non siamo più noi a dover inghiottire lo sporco, ce lo possiamo permettere, adesso lo inghiottono altri. Per questo la nostra aspettativa di vita è anche più elevata, se poi si è benestanti lo è ancora un po’ di più.
Nel racconto Vecchio scorticatoio di Wolfgang Hilbig si legge: «Era strano che si corresse il rischio di cadere fuori dal mondo se ci s’interessava delle cose più semplici… e magari persino il rischio di sparire dal mondo. Era come se anche gli oggetti più semplici, se solo vi si rifletteva abbastanza a lungo, si estendessero fino alle profondità sotterranee, come se fossero legati con una fibra della loro essenza al male nascosto».
Ciò che Wolfgang Hilbig coglie nel suo valore universale è un’esperienza che ognuna e ognuno di noi può fare ogni giorno, è il doppio fondo delle cose. A volte è sufficiente prendere coscienza delle condizioni in cui vengono prodotti i nostri alimenti. Da lì si può proseguire considerando le condizioni di produzione del cotone della mia camicia e quelle in cui viene cucito il tessuto – per non parlare delle materie prime e dei prodotti di cui necessita la nostra way of life giorno dopo giorno, ora dopo ora. Il bel mondo della nostra merce è sorretto nel profondo da un lavoro massacrante e non troppo diverso dal lavoro schiavile. Basta grattare un poco la superficie – a volte di più, a volte di meno – ed ecco che inizia il viaggio all’inferno.
Se oggi dovessi nominare una delle nuove contraddizioni fondamentali del capitalismo, senza considerare superate quelle esistite finora, forse la definirei il fenomeno dell’89: credersi i vincitori indiscussi della Storia, benché in tutto il pianeta si producano condizioni insostenibili.

 

NdR: È da poco uscito per Marietti 1820 La felicità dei mobilifici, una piccola raccolta di interventi di Ingo Schulze curata da Stefano Zangrando. Pubblichiamo qui un estratto dal primo testo del libro, ringraziando la casa editrice e Zangrando.

Da “Betelgeuse e altre poesie scientifiche”

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[Circola un’arietta leopardiana, ironica e frizzante, a tratti glaciale, nell’ultimo libro di Franco Buffoni, BETELGEUSE e altre poesie scientifiche, Mondadori, 2021. Un’arietta rara nei libri di poesia contemporanea, e che non ha a che fare con aggiornamenti poetici dell’ultimo quinquennio sul concetto di antropocene e brutture climatiche all’orizzonte. Ma con un dialogo tra poesia e scienza di lunga data. A. I.]

di Franco Buffoni

Tardigradi

  

I tardigradi visti in fotografia

Somigliano ad orsetti bruni

Ma sono di gran lunga più piccini,

Invertebrati d’un millimetro

Provvisti di otto zampettine

Adatti alle più estreme condizioni.

Si sono schiantati sulla Luna

Nell’aprile diciannove

Col relitto israeliano

Dell’Arch Mission Foundation.

Tutto distrutto, tranne loro

Pronti a resistere nel vuoto

Deponendo uova e magari chissà

A riprendere il volo

Sopra un carro di fuoco

Lasciando la porta socchiusa per Elia.

*

La superficie del Sole

 

È come un alveare la superficie del sole

E le sue celle continuano a mutare,

Emergono infuocate e si massificano

Raffreddandosi

Poi ripiombano nel nucleo

Mentre altre risalgono

Inarrestabilmente

Da cinque miliardi di anni

E si prevede per altri quattro almeno.

Ogni cella grosso modo

Grande come la Francia.

L’Italia accanto.

*

Angelo mio

 

Perché a velocità diverse le galassie

Si muovono nello spazio?

Dipende dalla forma, quelle a spirale

Come la Via Lattea sono più veloci,

Ci spostiamo a seicento chilometri al secondo

Lasciando al palo le galassie ellittiche.

A questo però dobbiamo aggiungere

I settecentomila chilometri all’ora

Di traslazione del sistema solare

E anche i centomila del nostro girare

Attorno al Sole. Se stai fermo

Somigli a un sonetto

Così sembri un colosseo sforacchiato

Sembri due angioletti di raffaello

Ora che stai

Per fermarti.

*

Crinoline di criolite

Per combinazione si è formata la Groenlandia,

Proprio al limite di qua

E proprio al limite di là,

Ultima terra dei danesi

Più vicina agli americani.

Con lo Jutland occupato

Fece gola ai tedeschi

Per quel complesso d’alluminio fluoro e sodio

Che era la criolite delle miniere di Ivittuut,

Essenziale per gli aerei da combattimento.

Così gli Yankee presidiarono la baia

Impedendo ai Kraut di sbarcare

E Ivittuut conobbe la ricchezza del commercio

E delle bare. Di chi muore in miniera.

Perché la criolite è tossica e inodore.

Oggi Ivittuut è la città-fantasma

Delle miniere abbandonate

Attonite a fissare il mar di Labrador

Come crinoline di Burano

Imprigionate nel museo del merletto.

*

Homo erectus

 

Quando un milione e mezzo di anni fa

Si insediarono nell’isola di Giava

Certamente quei nonni non pensavano

Che a mantenersi in vita pescando

E andando a caccia,

Qualche funerale con relativa sepoltura

E ben chiaro il need della replicazione.

Poi la simbolica rappresentazione

Della cognizione del dolore

Su frammenti d’ocra e uova di struzzo

Non lascia dubbi sull’evoluzione

Delle loro capacità cognitive.

Come per gli utensili in pietra

Dirozzati nel tempo per divenire più efficienti

Anche i motivi incisi per decorazione

E segnalazione d’appartenenza

Si affinano col passare dei millenni

Fino al design del nostro

Avanzato antropocene

Che non vede l’ora di tornare

A quei frammenti d’ocra

E di uova di struzzo. E a cacciare

E a pescare.

*

Dentro il cantiere

Dentro il cantiere del nuovo aeroporto

Di Città del Messico

Nell’antica conca lacustre prosciugata

Tre mammut si stanno dissetando

Da ventimila anni.

Incapaci di muoversi nel fango

Incastrati coi piccoli da lance

E frecce aguzze

Quei proboscidati

Furono preda dei locali

Il cui cimitero sorge accanto

Con i resti nei loculi

E gli uccelli in creta

Per il viaggio nell’aldilà.

Prima che dal mare arrivasse Cortés.

*

Antichi vizi

 

Non è solo da centocinquant’anni

Che con il cosiddetto antropocene

È avanzato il lavorìo sul clima.

Da prima, molto prima…

Sono almeno diecimila anni,

Dalla fine dell’epoca glaciale

Che qui in Europa ci stiamo provando.

Da quando, con il clima più umido e piovoso

Cominciammo a riprodurre il cibo

Allevando piante ed animali,

Bruciammo uno dopo l’altro

Ogni pezzo di foresta disponibile

Immettendo sempre più Co2 nell’atmosfera.

Certo oggi i nostri derivati

Nel continente sudamericano

Non ascoltano quando gli diciamo:

Per favore, siate saggi, fermatevi,

Non fate come noi che predichiamo.

 

 

 

 

Il blu di Geneviève Asse

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Geneviève Asse, Ligne bleue, 1969

«Fenêtre atlantique», 1990, huile sur papier
«Fenêtre atlantique», 1990, huile sur papier

 

di Ornella Tajani

Si può scoprire molto di Geneviève Asse leggendo Un été avec Geneviève Asse (Éditions L’Échoppe, 1996), una lunga intervista che l’artista francese concede a Silvia Baron Supervielle nel corso dell’estate 1995. Poco nota in Italia, la sua opera pittorica è fatta prevalentemente di sfondi azzurri e blu di ogni sfumatura, in cui spesso sopraggiunge una linea a tracciare un orizzonte, o a dividere lo spazio, come lei stessa spiega in questo piccolo libro: a dare cioè il senso dell’essere umano in precario equilibrio al suo interno.

Nata in Bretagna – dai cui colori è chiaramente segnata sin dall’infanzia, e dove ritornerà anziana, difatti l’intervista si svolge sull’Île aux Moines -, Asse sarà volontaria della Croce Rossa durante la guerra; entrerà nella baracca del campo di concentramento di Theresienstadt dove pochi giorni prima era morto il poeta Robert Desnos, che lei aveva incontrato nei bar parigini frequentati da entrambi; lavorerà in atelier collettivi sempre in maniera autonoma, quasi un essere appartenente a un’altra dimensione, come emerge da ciò che ne racconta; incrocerà sul suo percorso molti pittori celebri, come Braque, De Staël, Morandi e altri; collaborerà con vari poeti, di cui illustrerà le opere: Beckett, Frénaud, André du Bouchet, Bonnefoy. Per lei la pittura e ancor più l’incisione sono forme di scrittura: e nella sua opera non si può non riconoscere una precisa poetica, ricca di interesse e fascino.

Geneviève Asse, Ligne bleue, 1969

 

Geneviève Asse ha oggi 98 anni, Supervielle – scrittrice e traduttrice – una decina di meno: questo libro-intervista offre a chi legge la possibilità di trascorrere delle giornate – che si immaginano fresche e inondate di sole – con due donne che hanno attraversato il Novecento, alla scoperta di una splendida artista.

Presento di seguito alcuni estratti tradotti del testo, ancora inedito in italiano: i primi riguardano gli anni della formazione, i secondi sono dedicati al rapporto dell’artista con il blu.

___

18 luglio

[…]

Stava fiorendo in lei la pittura, insieme ad altro. Parigi era occupata…

Quando sono entrata alla scuola di arti decorative ho preso la carta dell’UNEF, che era un movimento molto attivo. Cercavo di fare qualcosa contro gli invasori. Con i miei compagni e i nostri mezzi. Stavamo male nel vedere i tedeschi. Ne abbiamo sofferto. Prima, nel maggio 1940, per non vederli ci eravamo messi in viaggio per Saint-Georges-de-Didonne, dove il mio patrigno aveva una casa. Ci andavamo a piedi o in camionetta, mentre gli aerei ci mitragliavano; ci accampavamo dove capitava. La gente scappava; gli ebrei tentavano di raggiungere la Spagna. Facendo un passo indietro bisogna dire che non avevamo accettato di vedere la Francia sconfitta, i soldati francesi allo sbaraglio e senza nessuno al comando. Fu in quel momento, credo, che sentii il desiderio di agire: mi ero sentita umiliata. D’altronde non arrivammo a Saint-Georges. La casa era stata occupata dalla Kommandantur tedesca e fummo cacciati… A Parigi eravamo privati di tutto, ovviamente, e facevamo code interminabili per un pezzo di pane, coi piedi nella neve.

«Horizon», 2007, huile sur toile

 

Aveva contatti con dei pittori?

A scuola vedevo alcuni artisti, come il pittore Messagier o Courtin, l’incisore. Anche degli architetti. Stranamente i maschi stavano da una parte, le femmine dall’altra. Ci incrociavamo all’uscita. I corsi di anatomia, di urbanismo mi sono serviti molto. Grazie a quegli insegnamenti ho realizzato in seguito alcuni progetti, dei bozzetti per tappeti, e tappezzerie, vetrate.

Aveva iniziato a dipingere?

Sì, facevo dei quadri non molto grandi. Li presentavo al Salon riservato ai minori di trent’anni; nella giuria c’erano pittori come Braque, Villon o altri. I mercanti d’arte ci venivano a caccia di nuovi artisti. Ma io non avevo uno studio; lavoravo in un piccolo ufficio, non riscaldato, che apparteneva alle edizioni Delalain. Le prime tele furono dei paesaggi, e soprattutto nature morte. Poi, nei caffè di Montparnasse, conobbi un gruppo di giovani pittori; mi invitarono a condividere il loro studio, in rue de la Grande-Chaumière; per entrarci bisognava usare una scala a pioli. Così il gruppo scelse di chiamarsi L’Échelle. Lo studio somigliava a una soffitta con degli alti lucernari. Facevamo venire i modelli, ognuno contribuiva alle spese di carbone per la stufa o altro.

Nature morte aux pots, c. 1950, huile sur toile

 

Ha fatto parte di questo gruppo?

Condividevo il loro spirito e ci frequentavamo nei caffè. Ma non mi sono integrata davvero e non ho partecipato alle loro mostre. Restavo in disparte; qualcosa mi tratteneva. Sono sempre stata ai margini.

È un destino?

Il gusto della libertà. Sono sempre stata libera, libera da tutto, sia nella vita in famiglia, privata, sia nella mia vita di pittrice. Libera nelle mie idee, quali che fossero. In realtà ero andata allo studio dell’Échelle perché Othon Friesz me l’aveva consigliato. Si preparavano nature morte che ognuno interpretava a modo suo. Io, in un angolo, facevo altro usando delle scatole: costruivo il mio mondo, mi lasciavano tranquilla. Ogni artista ci andava quando voleva; io ero molto assidua. Nel quartiere capitava di incontrare Zadkine, André Marchand, Tal-Coat e la moglie Broncia, Grüber ecc., c’erano varie gallerie. Lavoravo e andavo dappertutto.

C’era un pittore che ammirava in modo particolare?

Ammiravo moltissimi artisti che non erano necessariamente contemporanei. In maniera inconscia forse ne seguivo uno, perché quando ho iniziato tenevo nel portafogli la riproduzione del vaso blu di Cézanne.

“Ouverture de la nuit”, 1973

 

Era naturale, per lei, essere una artista donna?

Non ho mai pensato che ci fossero artisti e artiste. Non mi sono mai occupata di questo. Io dipingevo e basta. Tutto lì. Sapevo di essere un’artista molto prima di entrare alla scuola di arti decorative.

[…]

Geneviève Asse, «Écriture», 1991, Huile sur toile

 

20 agosto

È giunta l’ora di evocare il colore che circola intorno a noi oggi, sull’Île aux Moines, e che lei ha catturato nei suoi pennelli. Il blu, naturalmente…

Il blu è venuto a me in maniera spontanea. Ce n’è sempre stato nei miei dipinti, ma è aumentato a partire dagli anni ‘70. È venuto a cercarmi, poi si è diffuso in modo graduale. Inizialmente si è trattato di blu d’ogni tipo, poi d’un blu ben preciso che credo mi appartenga davvero. Ho trovato poco a poco il mio blu. Avevo utilizzato blu scuri così come blu chiarissimi, prima di arrivare a questo blu personale, che mescola grigi e altri blu.

«Rivage», 2008, huile sur toile

 

È stato battezzato il blu Asse…

Ma in realtà continua a trasformarsi. A volte torno verso tonalità cupe o chiare, ma la base del mio blu resta.

Non riesce più a separarsene…

Viaggio con i miei blu, in cui ritrovo la trasparenza. Ci sono blu cristallini, madreperlacei, e dei blu veri e propri: oltremare, cobalto. Sono gamme che mi piace maneggiare. Mi sento tutt’uno con questo colore.

Al suo interno ha trovato il centro dello spazio.

In qualche modo sì. Gli antichi trovarono il loro blu nell’arte della vetrata, della ceramica. Io l’ho trovato nella pittura. È un sentimento di profondità e speranza riunite, è le due cose insieme. Non è solo un colore o un sentimento. È un linguaggio.

«Trace stellaire», 2001, Huile sur toile

 

Da quando ha scelto di dedicarsi al blu mi sembra che dipinga in maniera ancora più sottile e densa, che la sua pienezza abbia preso tutto.

C’è una sorta di pace. I blu si armonizzano con il gesto e la materia. Il colore mi guida; si spande e il mio lavoro si sviluppa di conseguenza. Con il blu supero i formati. Non raggiungo il cielo, ma una dimensione più vasta.

Spirituale?

C’è anche questo, sì. Ma parliamo sempre di pittura. È la pittura che domina, aiutata da ciò che abbiamo dentro. Una volta qualcuno mi ha detto: «Lei dipinge l’anima». La cosa mi colpì.

[…]

«Verticale lumière», 2002, huile sur toile

Umanesimo e engagement ( Riflessioni su un aforisma di Julia Hartwig)

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di Lorenzo Pompeo

È ridicolo parlare quando tutto crolla
il mondo sotto la minaccia di esplosione si restringe
intorpidendosi
e il mito universale ha perso il suo smalto come non mai.
Siamo tornati alle tribù e alle guerre di religione.
O ridicolo umanista, che lacrime di coccodrillo
versi sulla perdita della memoria.
Eppure ti dico che non ci sono nuove ricette
e che ciò che è più grande di noi – è sempre stato
quello che rende vita la vita.
Se deve essere degna di questo nome.”(1 )

L’aforisma in questione è tratto da una raccolta del 2002. All’epoca la poetessa, che nel 1996 aveva perso il suo amatissimo marito, il letterato Artur Międzyrzecki, anche per superare questo grave lutto, si era dedicata in modo sempre più intenso alla scrittura poetica e alle proprie memorie. Nelle raccolte di questi ultimi anni, la Hartwig concepì un nuovo approccio al testo poetico, esplorando forme di scrittura a metà strada tra la prosa e la poesia (come, per l’appunto, i Lampi dell’omonima raccolta, da cui abbiamo tratto l’aforisma). Czeslaw Miłosz, (premio Nobel nel 1980 scomparso nel 2004), fu tra i primi a notare e apprezzare, in un breve scritto del 2001, lo stile laconico raggiunto dalla poetessa attraverso un processo di “chiarificazione” che l’aveva portata al raggiungimento di una forma “pura” (2).

Proprio mentre mi accingo a scrivere, un partito sovranista ha ottenuto in Polonia un chiaro successo nelle elezioni politiche. Pochi giorni prima una scrittrice polacca, Olga Tokarczuk, apertamente schierata con l’opposizione, ha ricevuto il premio Nobel. Dalla pubblicazione del testo della Hartwig sono passati diciotto anni, un arco di tempo nel quale il fenomeno del cosiddetto “sovranismo” si è imposto nella politica e nei media. Evidentemente è un intero paradigma, un modello culturale a essere messo in discussione: l’umanesimo eurocentrico e l’engagement della letteratura. L’umanista, nella sua pretesa di offrire risposte alle sfide del mondo contemporaneo attraverso il culto della memoria e del passato, secondo quanto scrive la Hartwig, ormai appare come una figura ridicola e a dichiararlo è una persona che aveva assistito agli orrori dell’occupazione tedesca (nella sua Lublino, che nel 1932 contava 112.000 abitanti, fu creato già a partire dal 1939, uno dei più grandi ghetti della Polonia, nel quale furono concentrati circa 40.000 ebrei, successivamente inviati nei campi di sterminio, tra cui quello di Majdanek, a pochi chilometri dalla città).

“Il mito universale ha perso smalto come non mai”.

È la mancanza di punti di riferimento comuni, di un orizzonte ideale condiviso. Mancanza che le “belle lettere” non possono colmare. È il senso stesso del poetare a essere messo in discussione:

È ridicolo parlare quando tutto crolla
il mondo sotto la minaccia di esplosione si restringe
intorpidendosi.

Questa diagnosi, dalle forti implicazioni politiche, può essere considerata il punto di arrivo di una riflessione sul ruolo del poeta e sul senso della poesia che attraversa tutta la letteratura polacca dall’immediato dopoguerra fino ai giorni nostri.

Nata a Lublino nel 1921, durante gli anni della guerra la Hartwig fece la staffetta della resistenza. Nel 1940 si trasferì a Varsavia, dove frequentò l’università clandestina. Alla fine della guerra, si iscrisse prima alla facoltà di romanistica dell’Università cattolica di Lublino e poi a quella di Varsavia, che in quegli anni aveva traslocato a Cracovia, divenuto il centro della vita intellettuale del paese. Abitò nella celebre Casa dei letterati di Via Krupnicza (dove visse anche Wisława Szymborska tra il 1948 e il 1963). Qui conobbe anche Czesław Miłosz (che fu suo un amico ed estimatore, mentre lei, da parte sua, lo considerò sempre il suo punto di riferimento ideale), il quale vi era giunto dopo aver assistito alla distruzione di Varsavia – cui il futuro premio Nobel dedicò una famosa poesia:

 

Che fai, poeta, sulle macerie
Della cattedrale di San Giovanni
In questo giorno di primavera?

Che pensi qui, dove il vento
Che soffia dalla Vistola sparge
La rossa polvere delle rovine?

Giurasti che mai saresti stato
Una prefica.
Giurasti che mai avresti toccato
Le piaghe del tuo popolo,
Per non trasformarle in santità.
La maledetta santità che perseguita
Nei secoli seguenti i posteri.

Ma questo pianto di Antigone,
Che cerca il fratello
Vince davvero la misura
Della sopportazione. E il cuore
È una pietra, e come un insetto
Vi è racchiuso l’amore oscuro
Per la più infelice delle terre. (..)”(3)

 

Alla figura di Antigone Miłosz dedicò anche un omonimo frammento poetico scritto a Washington D. C. ma successivamente dedicato “Alla memoria degli operai, degli studenti e dei soldati ungheresi”, nel quale l’autore immagina un dialogo tra la protagonista e sua sorella Ismene. È un atto di accusa indirizzato contro il regime comunista, (dal quale l’autore aveva definitivamente preso le distanze) accusato di avere infangato e perseguitato i partigiani dell’Armia Krajowa (la maggiore organizzazione della resistenza polacca che aveva organizzato la sfortunata Rivolta del 1944 a Varsavia e che fu ferocemente avversata dal neonato regime comunista). Alle accuse di Antigone, Ismene così replica: “Si può arroventare con le parole il dolore nella fiamma, / chi tace non soffre meno, forse di più”.  Cui Antigone risponde: “Non solo parole, Ismene, non solo/ Creonte non costruirà il suo stato / sulle nostre tombe. Non consoliderà / Qui il suo ordine con la forza della spada. / Grande è il potere dei morti. Nessuno / Ne è al riparo. Se anche si attorniasse / D’una torma di spie e di un milione di guardie, / Essi lo raggiungeranno. Attendono l’ora”. (4) Ma si tratta di un atto di accusa che assume un significato più vasto, se messo in relazione al contesto storico. Si tratta di un testo che risale al 1949 ma pubblicato molto più tardi. Un frammento poetico coerente con la presa di posizione dell’autore nella Prefazione alla raccolta Ocalenie (5) (in it. “Salvezza”), scritta sempre a Cracovia nel 1945, nella quale Miłosz si chiedeva:

 

“Cos’è la poesia che non salva
I popoli né le persone?
Una complicità di menzogne ufficiali,
Una cantilena di ubriachi, a cui fra un attimo verrà tagliata la gola.

Una lettura per signorinette.

Che volevo una buona poesia, senza esserne capace,
che ho capito, tardi, il suo fine salvifico,
Questo, e solo questo è la salvezza.

Spargevano sulle tombe miglio e semi di papavero
Per nutrire i morti accorrenti in volo – gli uccelli.
Depongo qui questo libro per te, o trascorso,
Perché d’ora innanzi tu smetta di apparirci. (6)”

 

La figura di Antigone rievocata da Miłosz aveva una valenza non solo in relazione alla tragica Rivolta di Varsavia. Indirettamente prendeva di mira anche la versione  dell’umanesimo sovietico, concepito come antitesi alla “barbarie nazifascista”, che trovò un’immediata traduzione in quel particolare stile architettonico “neoclassico monumentale” con cui vennero ricostruite le capitali degli stati entrati nell’orbita del Patto di Varsavia, con le sue colonne di marmo, i capitelli e i fregi marmorei nei quali sono ritratti operai, contadini e minatori al lavoro.

Negli Stati Uniti, dove Czesław Miłosz insegnò nelle università di Harvard e Berkeley, la sua poesia cambia radicalmente:

 

Ars poetica?

“L’utilità della poesia sta nel ricordarci
quanto sia difficile restare la stessa persona,
perché la nostra casa è aperta, la porta senza chiave,
e ospiti invisibili entrano ed escono.

Ciò di cui parlo non è, d’accordo, poesia.
Perché è lecito scrivere versi di rado e controvoglia,
spinti da una costrizione insopportabile e solo con la speranza
che spiriti buoni, non maligni, facciano di noi il loro strumento.(7)

 

I morti che si contendevano la sua penna hanno lasciato il posto a un daimon:

“Nell’essenza stessa della poesia c’è qualcosa di indecente:
sorge da noi qualcosa che non sapevamo ci fosse
sbattiamo gli occhi come se fosse balzata fuori una tigre
ferma nella luce, sferzando la coda sui fianchi.
Perciò giustamente si dice che la poesia è dettata da un daimon (8)”

Daimon che, malgrado le apparenze, appare assai più mite e meno esigente dei morti di Varsavia.

Nel mondo diviso della Guerra fredda, il poeta aveva fatto la sua scelta, che aveva pagato con l’esilio e il bando dal proprio paese (dove la censura vietò persino il suo nome). Il poeta polacco esule, così come lo furono i grandi del romanticismo, ha però avuto almeno la possibilità di tornare al proprio passato con un certo ironico distacco (in Sovrano d’Albania, nel 1972, scrisse “ Il mio debito forse è già stato pagato / E ho fatto quanto potevo per la mia lingua / Sapendo che ne avrei avuto in cambio silenzio? / Piccolo, sempre più piccolo. Pigmeo, sempre più pigmeo. / Divenni il gran poeta del reame d’Albania / E il sorriso della dama di corte, la benevolenza del reggente / Sarebbero oggi, ahimè, un premio tardivo (9)” .

Ma per chi aveva scelto di rimanere in patria le cose erano andate in modo molto diverso. Qualche mese dopo il celebre discorso segreto di Nikita Chruščëv al XX congresso del PCUS (febbraio 1956) nel quale venne denunciato il “culto della personalità” di Stalin, cominciò la stagione del disgelo. Grazie alle timide aperture riformiste si affacciò sulla scena letteraria una nuova generazione di poeti, di cui fece parte la stessa Julia Hartwig (che debuttò proprio in quell’anno con la raccolta Pożegnania – in it. “gli adii”(10)), anche se sicuramente il più celebre, la figura più carismatica di questa generazione, fu Zbigniew Herbert (nel frattempo Wisława Szymborska, nel 1957 pubblica Wołanie do Yeti, – in it. “Appello allo yeti”11 – il suo primo tomo estraneo al realismo socialista).

L’invasione della Cecoslovacchia dell’agosto ‘68 segnò la fine della stagione del disgelo in tutti i paesi del Patto di Varsavia. I giovani poeti polacchi avevano dato vita in quegli anni a un raggruppamento informale, la Nowa fala, nel quale la protesta nei confronti del regime comunista, l’impegno nel denunciarne gli abusi e le false premesse sociali e ideologiche, divennero i temi principali. Uno dei leader di questo raggruppamento, Ryszard Krynicki, dedicò a Zbigniew Herbert una poesia:

Lingua, carne selvatica:

Lingua, carne selvatica che cresce in una ferita,
nell’aperta ferita di una bocca nutrita di una verità bugiarda,
lingua, cuore denudato che pulsa all’esterno, nuda lama
che è arma inerme, bavaglio che soffoca
vinte insurrezioni di parole, belva ogni giorno domata
con denti umani, inumanità che dentro ci cresce e
ci soverchia, belva nutrita con la tossica carne del corpo,
sdoppiamento accerchiante, vera menzogna che adesca,

bambino che imparando il vero, davvero mente.(12)

 Il poeta si fa portavoce della rabbia di una generazione di giovani che non avevano vissuto direttamente gli orrori della guerra e che non sentivano più alcun debito nei confronti di quella tragedia, e avevano trovato nella militanza contro il regime comunista la ragione fondativa della loro poesia.

Nella sua celebre risposta, la Lettera a Ryszard Krynicki, Herbert si chiedeva:

“Ci siamo caricati sulle magre spalle i problemi pubblici
la lotta contro tirannia menzongna le trascrizioni della sofferenza
con avversari – ammettilo – miserabili e meschini
valeva la pena di abbassare la sacra lingua
al bla-bla della tribuna alla nera schiuma dei giornali?

Nessuno di noi ha saputo destare la driade del pioppo
leggere la grafia delle nuvole
perciò l’unicorno non seguirà le nostre orme (13)”.

I frequenti riferimenti al rinascimento italiano e più in generale ai valori dell’umanesimo furono per Herbert non solo una via di fuga verso un mondo precluso al suo paese dagli accordi di Yalta, ma anche un modello ideale contrapposto in modo radicale all’umanesimo sovietico (a cui ormai in Polonia da tempo non credeva più nessuno). Ridurre il mondo poetico di Herbert a una scelta di campo ideologica è mortificante e limitativo, tuttavia è un dato di fatto che l’Occidente umanista e razionalista, il modello a cui il poeta guardava, si trovava al di là della Cortina di ferro.

Punto di svolta nel rapporto tra gli intellettuali e il regime fu la List 59, la lettera di protesta redatta a Varsavia nel 1975 negli ambienti dell’opposizione democratica – nella quale si rivendicavano libertà religiose, di parola e di opinione. Tra i firmatari, oltre a Herbert e ai poeti della Nowa fala, vi era anche la Szymborska e la Hartwig, che era appena tornata in Polonia da un lungo soggiorno negli Stati Uniti (tra il 1971 e il 1975 aveva insegnato presso la Drake Univestity, nell’Iowa).

Con l’89 cambia tutto.

Nel 1993 Miłosz tornò definitivamente in Polonia e si stabilì a Cracovia. Nel 1996 venne assegnato il premio Nobel a Wisława Szymborska. La quale dichiarò che, se fosse stato in suo potere, lei lo avrebbe assegnato a Zbiegniew Herbert. Tutto sembra risolto per il meglio: a Cracovia risiedono due premi Nobel, la Polonia è ammessa nella NATO nel 1999 e dal 2004 nell’Unione Europea. Questo è il contesto nel quale è stato scritto l’aforisma dal quale siamo partiti. Se messo in relazione a tale contesto, appare come un vero e proprio “fulmine a ciel sereno”, che proietta una luce sinistra sul decennio successivo, annunciando la fine di del paradigma culturale dell’engagement umanista (non quello di marca sovietica, bensì quello di marca “occidentale”) che aveva rappresentato un punto di riferimento imprescindibile per l’intellighenzia polacca.

Cosa rimane dopo il tramonto dell’umanesimo? La chiusura dell’aforisma non offre risposte rassicuranti, ma quantomeno offre un’indicazione che apre un qualche spiraglio:

Eppure ti dico che non ci sono nuove ricette
e che ciò che è più grande di noi – è sempre stato
quello che che rende vita la vita.

Il senso della vita consiste proprio nel tuffarsi in questo tempo inafferrabile, che sembra scivolare via proprio perché privo di punti d’appoggio e ideali maniglie a cui afferrarsi, cercando di guardare con i nostri occhi, orfani di maestri ormai sepolti, attraverso la trama e l’ordito della nostra epoca.

1 Lampi, pubblicata in Italia da Scheiwiller nel 2008, p. 125 (la traduzione è di Francesco Groggia per la collana diretta da Alfonso Berardinelli).

2Si veda in proposito l’introduzione a Lampi Parlando non solo a sé stessa. Nota su Julia Hartwig, di Francesco Groggia, a p. 8.

3  Trad. di Pietro Marchesani, in Czesław Miłosz, Poesie, Adelphi, Milano 1983, pp. 39-40.

4 Citazioni tratte da: Ibidem, pp. 141-144.

5 Czesława Miłosz, Ocalenie, Spółdzielnia Wydawnicza Czytelnik, Varsavia 1945.

6 Czesław Miłosz, Poesie, Op. cit., p. 41.

7 Ibidem, p. 119.

8 Ibidem, p. 118.

9 Ibidem, p. 133.

10 Julia Hartwig, Pożegnania, Czytelnik, Varsavia 1956.

11 Wisława Szymborska,  Wołanie do Yeti, Wydawnictwo literackie, Cracovia 1957.

12  In: «Nowa fala» Nuovi poeti polacchi, a cura di Giorgio Origlia, Guanda, Milano 1981, p. 107.

13Tratta da: Zbigniew Herbert, Rapporto dalla città assediata, traduzione e cura di Pietro Marchesani, Adelphi, Milano 1993, p. 184-185.

L’unica lezione che la vita mi ha insegnato

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di Martino Costa

(Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo un estratto dal romanzo Trash di Martino Costa, Pessime idee edizioni 2021, finalista al Premio Calvino 2020).

***

È una sensazione davvero strana e non sono sicuro che sia così per tutti, eppure credo non sia molto diverso, o no? La vita, dico. Non è così un po’ per ciascuno di noi, che ci sei tu e poi c’è la vita? E non è che sia la stessa cosa, proprio per niente. Quando mi iniettavo l’eroina per esempio, questo concetto era così chiaro che non c’era bisogno di alcuna spiegazione. È quando sono lucido che le cose si complicano, i contorni non sono più così netti, tutto si confonde e non capisco più nemmeno dove finisce il dolore degli altri e dove comincia il mio. Presto mi manca il respiro persino, come se l’aria dovessi litigarmela con tutto l’universo e non ce ne fosse abbastanza per tutti. Devo inspirare con urgenza, quasi con violenza, per non farmela strappare. Come nelle riunioni del sindacato. Sembra una cosa idiota, a dirla tutta. Siamo lì a tirare con forza per i nostri diritti, che in fondo sono come l’ossigeno, e dall’altra parte della fune c’è il resto del mondo. E mi chiedo ancora una volta: dove finisce il nostro dolore, e dove comincia quello degli altri? E so bene che la colpa è di quella cagna bastarda che mi accompagna da mattina a sera. È lei che mi tira fuori con foga da casa e mi fa andare a un passo molto più svelto di quel che vorrei. È lei che mi sprona ad alzarmi, a confrontarmi, che mi fa sbattere contro cose e persone. A me in fondo basterebbe così poco: quel tanto di ossigeno, di acqua e di calorie a tenermi in vita; una coperta per le notti gelide, i miei occhi per osservare e una buona droga a farmi compagnia. Sarebbe così semplice. Mica andavo in giro a disturbare nessuno, no no. E invece, sai come si dice: i fatti della vita, appunto. Che se uno si limita a farsi gli affari suoi tutto fila liscio come l’olio. È quando ti tirano in mezzo a mille cose che non avresti nemmeno voluto sentir nominare che tutto si mescola e si complica.

Io alla fine, mi son ripulito. Adesso prendo cose legali: una ricetta medica, un salto in farmacia, e son tutti contenti. Però non è più come prima. Solo mi son detto: a far dentro e fuori dalla galera non mi va.

Dentro si sta uno schifo: prima ti arrivano le botte, poi ti arriva la rota e alla fine, quando credi che in fondo ci potresti pure vivere lì, ti risbattono fuori con un calcio nel culo. E di nuovo sei in strada, di nuovo a cercare chiarezza e semplicità. Ma niente, proprio niente è chiaro e semplice in questo mondo. Ecco forse questa è l’unica lezione che la vita mi ha insegnato. Sarà che ho la testa dura. In fondo deve essere per quello che mi scrivo le parole che non conosco su un taccuino. Così almeno apprendo ogni giorno qualche cosa di nuovo, e mi si aprono nuovi orizzonti. Faccio bene? Mah, non lo so. Ieri ho imparato la parola “vorace”. A quarantotto anni. Che miseria. La cosa buffa è che io non ho mai fame e mangio perché è ora, mica per altro, forse è per quello che non ne conoscevo il significato. Eppure non mi pare che a imparare cose nuove la vita si arricchisca, direi anzi il contrario: si restringe fino ad appiccicarmisi addosso come un goldone. Io do la colpa al Lexotan, che non è abbastanza forte. È una mezza sega di droga, a essere sinceri. Così alla sera non è più un cane cencioso che lascio fuori sullo zerbino, ma la mia stessa pelle, che appendo a un gancio e per qualche istante rimango a fissarla immobile, mentre ciondola lentamente e sgocciola. Ne provo ribrezzo. Rientro di fretta tra le mie quattro mura, accendo la televisione e un poco mi assopisco in quell’atteggiamento di ricezione passiva e indolore. Bevo il mio tè ed è un piacere sentire il calore scendere per la gola e depositarsi nello stomaco. Mi disturba solo il fatto di dover pisciare subito dopo. Avevo persino pensato a delle soluzioni da ottuagenario per evitarmi la scocciatura di alzarmi e raggiungere il gabinetto. Poi ho desistito perché trovavo la cosa indecorosa, il che mi ha stupito, e di nuovo ho dato la colpa al Lexotan, o meglio ai suoi deboli principi attivi.

Per il resto non posso lamentarmi troppo. Ho una casa di trenta metri quadri tutta per me, fin troppo. Ho uno stipendio che sarebbe da fame, se avessi qualcuno da mantenerci, oltre me.

Le mie esigenze sono contenute. Sono pelle e ossa, non bevo e non mi drogo più. Il Lexotan me lo passa lo Stato e io sto una bellezza. Mangio come un criceto, e mi compro magliette da mezzo euro al mercato dei sudamericani. Solo non riesco a far pace con la mia vita. Sta lì mi guarda, ammicca a volte e sembra portarmi per strade che mai avrei voluto percorrere, verso luoghi che mai avrei voluto visitare.

La pienezza di una storia, la fragilità di una vita. Su Le stelle vicine di Massimo Gezzi.

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di Marco Nicastro

Quando sulla quarta di copertina, sulle fascette promozionali, in estratti da recensioni leggo, relativamente ad un libro, frasi del tipo “non lascia scampo”, “tocca corde profonde”, “autore che come nessun altro” e simili, non posso non approcciarmi alla lettura con un pregiudizio negativo. Non mi piacciono infatti quasi mai le espressioni assolute, men che meno quando riguardano l’ambito dell’arte, ancora di più se si riferiscono ad opere di autori giovani o, perché no, tuttora viventi. Con questo tipo di pregiudizio, poiché espressioni analoghe riportate sulla quarta di copertina del libro, mi sono avvicinato alla lettura di Le stelle vicine, prima raccolta di racconti di Massimo Gezzi edita nel 2021 da Boringhieri.

Massimo Gezzi, alcuni lo sapranno, è un poeta e in poesia, nonostante la giovane età, credo abbia già detto qualcosa e con uno stile riconoscibile. Ora con questi dodici brevi racconti fa il suo felice esordio anche in narrativa, genere che del resto era nelle sue corde come si poteva evincere fin dagli inizi dal suo percorso poetico.

Ciò che più spicca in questo libro sono, a mio avviso, due elementi.

Il primo è che i nuclei delle storie sono sempre capaci di suscitare interesse nel lettore: alcune sono molto attuali, molte invece ambientate in un’epoca che non sembra ancora toccata dall’esplosione della tecnologia, forse vicina a quella dell’adolescenza dell’autore (potremmo dire gli anni 90), un’epoca in cui i ragazzi per incontrarsi e conoscersi dovevano ancora vedersi fisicamente fuori e calpestare le strade del loro quartiere o della loro città. Le vicende narrate sono quasi sempre drammatiche: si parla di malattia, morte, tradimenti, follia, solitudine, emarginazione, angoscia, insoddisfazione, e in generale della fragilità delle nostre esistenze e del ruolo più o meno salvifico che in esse giocano le illusioni. Tutti i personaggi infatti, ognuno a modo proprio, vivono già o prendono gradualmente contatto con una sensazione di fragilità, di esposizione alle intemperie della vita e del tempo, facendo tentativi più o meno incerti di tuffarsi in un’illusione salvifica, in uno sguardo che vada oltre. Particolarmente interessanti sono, almeno dal mio punto di vista incline a fermarsi sulle questioni della solitudine esistenziale e della fragilità psichica, i protagonisti dei racconti L’ultimo saluto di Cattivik e Il malcaduto; ma di rilievo sono anche gli adolescenti di Cinghiale, Un rettangolo di sole, Il salto del pesce spada. Anzi, direi che per il numero di storie che riguardano proprio i giovanissimi (sei su dodici), e per la significatività delle vicende che li vedono protagonisti – aspetto che testimonia l’attenzione e l’interesse dell’autore per quella fascia di età – il libro potrebbe essere una buona proposta di lettura per i ragazzi delle scuole superiori, che vi troverebbero utili spunti di confronto con i propri docenti, anche relativamente al rapporto mondo giovanile-mondo adulto.

Le storie sono narrate spesso in prima persona e chi narra parla veramente dall’interno della storia, cioè da una prospettiva soggettiva credibile, anche quando piuttosto distante dall’autore per sesso, età, estrazione sociale o condizione esistenziale. Gezzi introduce il lettore nel mondo interiore dei personaggi facendogli percorrere gradualmente i loro dubbi, le loro paure, i loro intricati percorsi mentali – spesso senza soluzione – con estrema naturalezza. È abile inoltre a creare la giusta quantità di tensione che sostiene bene la curiosità del lettore fino alla fine di ogni vicenda.

Il secondo aspetto rilevante dei testi è la capacità dell’autore di usare la lingua più adatta al personaggio che narra la propria vicenda, così come coerente col protagonisti e l’ambiente in cui vivono è la loro angoscia o i problema esistenziali in cui si dibattono. Si tratta di elementi che rendono i personaggi e le loro storie sempre molto credibili e che testimoniano la grande capacità empatica o di immedesimazione dell’autore. Emerge cioè un interesse autentico per gli esseri umani, anche per le condizioni esistenziali più marginali e aliene, accompagnato da una grande precisione nell’analisi psicologica. In questo processo descrittivo non si nota mai nulla di costruito, di artificioso e fortunatamente nessun cliché. Questa capacità si rileva non solo relativamente ai protagonisti delle storie, ma anche ai personaggi secondari, che pur comparendo solo per poco rimangono spesso impressi in chi legge. Aggiunge ulteriore realismo uno stile molto asciutto, vicino al parlato quotidiano, direi quasi da cronaca giornalistica, che aiuta nella creazione di quella tensione, o ritmo narrativo, di cui si diceva prima.

Ma la caratteristica forse ancora più rilevante del libro è la capacità dell’autore di creare storie che dicono tutto ciò che devono dire pur non concludendosi, pur rimanendo ognuna solo una piccola parte, un fotogramma di una vicenda che si intuisce più grande, ma al contempo restando capaci di lasciare il lettore soddisfatto, emotivamente pieno del messaggio sottostante alle vicende narrate ma anche incuriosito, stimolato intellettualmente.

E questo non credo sia poco. Anzi, è proprio ciò che dovrebbe fare un buon racconto.

Un pensiero della luce

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di David Watkins

Opera grafica di Andrea Balietti

 

Esistono luci pesanti. Luminosissime e pesanti. Tanto luminose da sbiadire. Di una pesantezza incorporea. Una curva della luce che avvolge strade mari e città entro un lenzuolo di fantasma. Domeniche spiovute in mezzo alla settimana. Di un’inconsistenza difficile da respirare. Come bagnate da un lamento, una nenia implicita, una lagnanza madornale. Luci pregne di tutto ciò che è quasi esistito. Luci possibili. Indifferenti alle stagioni, estranee all’alternativa del caldo e del freddo, senza una latitudine propria, sprovviste di un dove o di un quando che si addica al mix d’ovatta e sicumera in cui prende forma il loro immenso sbadiglio. Una biacca eterna e, dunque, fuori luogo.

Più che a una luce, assomigliano a un pensiero della luce. Eppure accadono. Entrano nelle case, mettono tutto tra parantesi, violano una a una le possibilità del buio, iniettano nei rifugi più angusti miriadi di lontananze, facendole passare ovunque, tapparelle aperte o semichiuse, poco importa.

Tutti i mondi che parevano non esistere, relegati nel non più, nel non ancora, inghiottiti in un’idea di distruzione, tutti i mondi scartati per un pelo trovano un asilo nel gravame di queste luci, un riverbero che li fa insistere nel mondo.

Esse si fanno carico di tutto quanto si credeva estinto.

È per scrollarsi di dosso questa luce di troppo che a volte le mani si agitano come senza motivo, si lascia cadere tutto, si esce finalmente a passeggiare.