di Antonio Sparzani

Domani, 25 marzo, viene definito Dantedì, perché i valenti dantisti ritengono che il viaggio di Dante all’Inferno sia cominciato, nella smisurata e straordinaria fantasia del poeta, o magari nella realtà, non si può mai sapere, il 25 marzo. Mi propongo di mettere qui su Nazione Indiana, una volta al mese, dei piccoli frammenti di tutta la produzione di Alighieri Durante, detto Dante, senza commenti, che tanto dentro e fuori la rete se ne trovano innumeri, ma solo per il puro piacere di riassaporare, magari con qualche fatica, la dantesca lingua; invito chi vuole a leggerli adagio, a bassa o ad alta voce, come meglio crede, e a farseli scorrere nella testa. Comincio, in ordine temporale, con l’inizio della Vita Nuova, scritta tra il 1292 e il 1293, poco tempo dopo la morte di Beatrice (o Bice) Portinari, cui l’opera è dedicata. Ecco qua:
Dante: Incipit Vita nova
Intervista a Italo Testa su “Teoria delle rotonde”
di Laura Pugno e Italo Testa
[Questa dialogo è stato pubblicato sul n. 75, febbraio 2021, de il Verri, dedicato al tema “Ma quale valore?”]
Laura Pugno: Vuole una tesi forte che molta della migliore poesia italiana contemporanea – Antonella Anedda, Stefano Dal Bianco, Guido Mazzoni – cerchi le proprie ragioni d’essere andando a sconfinare nei territori della saggistica. Di recente, scrivevo in una nota sul saggio Apparizioni di Andrea Gentile (Nottetempo), sembra invece, a contrario, che sia proprio la saggistica ad andare a cercarsi nei territori della poesia. Nel tuo caso, Italo, in questo tuo nuovo libro, Teoria delle rotonde (Valigierosse), l’analogia, la ricerca, il percorso circolare – altrimenti evocato nelle serie Giro del mondo e Vicolo corto – tra poesia e saggistica sono espliciti, e il territorio diventa paesaggio, alias territorio pensato – o non del tutto pensato?
Hollywood contro Orson Welles, la storia continua?

Sul film Mank di David Fincher, candidato a dieci premi Oscar, Paolo Mereghetti ha pubblicato un articolo, su Gli Asini, poche settimane fa.
Scrive il critico cinematografico:
«Ammettiamolo: un fantasma si aggira ancora per Hollywood, meno rivoluzionario di quello che percorreva l’Europa ottocentesca ma altrettanto irriducibile. È il fantasma di Orson Welles, il cui spirito iconoclasta e la cui voglia di rompere gli schemi dell’industria cinematografica evidentemente fanno ancora paura se anche David Fincher ha accettato di entrare nella schiera di chi cerca di mettere in discussione il suo lascito e le sue idee». (…) Mank «cerca in tutti i modi di sminuire, se non addirittura di distruggere, lo statuto d’autore di Welles, attaccandolo proprio sulla realizzazione del suo film più celebre e osannato, Citizen Kane, in italiano Quarto potere».
Prosegue qui:
⇨ “Mank” e il fantasma di Orson Welles
Un selvaggio che sa diventare uomo
di Domenico Talia
Mico, Leo e Dominic Arcàdi, la storia di tre uomini. Tre vite difficili. Una vicenda che intreccia i rapporti di tre generazioni di meridionali, di italiani, nel Novecento. Il nonno, il padre e il figlio, tutti uomini di un Sud che cambia in tanti aspetti e in tanti altri resta uguale. Il protagonista principale è Leo, un ragazzo che subisce lo scherno dei suoi coetanei, è vittima dell’incapacità educativa del suo maestro e finisce per passare le sue giornate nella campagna di Santa Venere, lontano dal paese. Separato dalla vita civile diventa un ‘selvaggio’ e cade nella trappola della ‘ndrangheta e delle sue leggi spietate. Intorno alla figura di Leo si sviluppa Il selvaggio di Santa Venere, un romanzo nel quale Saverio Strati ha innestato tratti antropologici e storici che abbracciano un intero secolo. Il romanzo pubblicato nel 1977 da Mondadori vinse il Premio Campiello.
Anatema
di Rosaria Lo Russo

I miei sogni erotici sono stati ammalati dal potere
nonostante il non potere
nonostante il bello del settantasette
i miei sogni erotici sono stati violenti
Dal settantasette al settantanove la violenza è bella
sono incubi erotici
dove subisco violenza
il potere ha violentato il mio sogno erotico
il mio sogno erotico violento incestuoso
In sogno sono una fedra luperca
in sogno sono una elettra che succhia odio e sputa vendetta
in sogno sono una mirra lagrimosa
che geme sangue e smegma
Se di odio candido è fatto il mio erotismo
io rifiuto il mio erotismo
io non voglio amare
io voglio avere il non potere amare
Qui c’è una storiaccia putrida
da vecchio millennio
una storia trucida di incesti
piccolo borghesi e agresti
una squallida congiuntura tenace da non ricordare
Il non ricordo è la forza del non potere
Mi rinchiuderò nel recinto di Dio
e farò di tutto per dimenticare
e farò finta di non vedere questo:
Mi parlano solo di morte e di soldi
come se il rumore dei secondi attutisse la campanella della prima
morte e soldi
dagli anni ottanta ad oggi
come stessero sullo stesso piano
come potessero annullarsi a vicenda
Noi del baby boom siamo nati nell’età dell’utopia
siamo cresciuti come avessimo in mano la chiave del futuro
la soluzione dei problemi della vita
la soluzione dei mali del mondo
Noi del baby boom pensavamo che la rivoluzione era in atto
che il cattocomunismo fosse giusto e quindi vincesse
che la famiglia finisse
la religione finisse
lo stato borghese finisse
la fantasia cominciasse
e non finisse
l’arte
sommo bene e bene sommo
trionfasse
le donne fossero libere come gli uomini
i bambini liberi come gli adulti
la povertà non si vedeva
perché non c’era
si credeva
Si vedeva tanta roba a prezzi bassi
bollette basse e adulti al lavoro
Noi del baby boom siamo invecchiati presto
noi bambini adulti obesi
abbiamo paura
Correre correre
verso ciò che si era creduto
che finisse
precipitevolissimevolmente
Anatema di Rosaria Lo Russo è di prossima pubblicazione per l’editore Effigie.
I giorni della Comune. Dichiarazione al popolo francese
(Proponiamo un estratto da I giorni della Comune. Parigi 1871, a cura di Goffredo Fofi e Mariuccia Salvati, Edizioni E/O 2021. Nel 150mo anniversario della Comune, la prima esperienza di autogoverno popolare nella storia europea, il volume raccoglie alcuni documenti originali di quei due mesi, dal 18 marzo al 28 maggio 1871, durante i quali la popolazione di Parigi impose la proclamazione della Repubblica, la fine della guerra contro la Prussia e le prime riforme sociali. La Comune adottò a proprio simbolo la bandiera rossa, elesse la propria assemblea, eliminò l’esercito permanente e armò i cittadini, stabilì l’istruzione laica e gratuita, rese elettivi i magistrati, retribuì i funzionari pubblici con salari uguali a quelli degli operai e favorì le associazioni dei lavoratori. Fin dal suo principio la Comune diede grande importanza all’individualità: libertà d’espressione, di coscienza, di lavoro e d’intervento nelle decisioni comunali. Durante la sua breve esistenza si sperimentarono forme di governo autonomo come il consiglio elettivo, i club di organizzazione politica di base e i gruppi di attività politica delle donne. La Comune fu repressa duramente nella “settimana di sangue”. Il 21 maggio le truppe governative di Versailles entrarono a Parigi. Il 27 maggio la lotta si restrinse a Belleville e al cimitero del Père Lachaise. I difensori (circa 1.600) furono fucilati davanti al “Muro” dove le esecuzioni continuarono fino ai primi di giugno. Il 28 maggio il maresciallo Mac Mahon annunciò agli abitanti di Parigi: “L’esercito della Francia è venuto a salvarvi (…) Parigi è liberata. Oggi la lotta è terminata: l’ordine, il lavoro e la sicurezza rinasceranno”. Tra fine maggio e giugno i soldati di Versailles fucilarono circa 30mila persone. Ma la Comune di Parigi divenne ispirazione per le successive insurrezioni popolari, e per il movimento operaio e socialista, in tutto il mondo.)
***

Parigi, 19 aprile 1871
Nel conflitto doloroso e terribile che impone ancora una volta a Parigi gli orrori dell’assedio e del bombardamento, che fa scorrere il sangue francese, che fa morire i nostri fratelli, le nostre donne, i nostri bambini schiacciati sotto gli obici e la mitraglia, è necessario che l’opinione pubblica non sia divisa, che la coscienza nazionale non sia turbata.
Bisogna che Parigi e tutto il paese sappiano qual è la natura, la ragione, il fine della Rivoluzione che si compie. È giusto infine che la responsabilità dei lutti, delle sofferenze e delle disgrazie di cui siamo le vittime, ricadano su coloro che, dopo aver tradito la Francia e consegnato Parigi allo straniero, perseguono con una cieca e crudele ostinazione la rovina della grande Città, al fine di seppellire, nel disastro della Repubblica e delle Libertà, la doppia testimonianza del loro tradimento e del loro delitto.
La Comune ha il dovere di affermare e di determinare le aspirazioni e i desideri della popolazione di Parigi; di precisare il carattere del movimento del 18 marzo, incompreso, misconosciuto e calunniato dagli uomini politici che risiedono a Versailles.
Anche questa volta Parigi lavora e soffre per la Francia intera, di cui prepara, con le sue battaglie e i suoi sacrifici, la rigenerazione intellettuale, morale, amministrativa ed economica, la gloria e la prosperità.
Che cosa domanda?
Il riconoscimento e il consolidamento della Repubblica, sola forma di governo compatibile con i diritti del popolo e lo sviluppo regolare e libero della società.
L’autonomia assoluta della Comune estesa a tutte le località della Francia che assicuri a ciascuna l’integrità dei propri diritti, e a ogni francesi il pieno esercizio delle proprie facoltà e delle proprie abitudini come uomo, cittadino e lavoratore.
L’autonomia della Comune non avrà per limiti che il diritto di autonomia uguale per tutte le altre Comuni aderenti al contratto, la cui associazione deve assicurare l’Unità della Francia.
I diritti inerenti alla Comune sono:
Il voto del bilancio comunale, entrate e spese; la fissazione e la ripartizione delle imposte, la direzione dei servizi locali, l’organizzazione della magistratura, della polizia interna e dell’insegnamento, la amministrazione dei beni appartenenti alla Comune.
La scelta per elezione o concorso, con la responsabilità e il diritto permanente di controllo e di revoca, dei magistrati o funzionari comunali di ogni ordine.
La garanzia assoluta della libertà individuale, della libertà di coscienza e della libertà di lavoro.
L’intervento permanente dei cittadini negli affari comunali attraverso la libera manifestazione delle loro idee, la libera difesa dei loro interessi: garanzie date a queste manifestazioni dalla Comune, sola incaricata di sorvegliare e di assicurare il libero e giusto esercizio del diritto di riunione e di pubblicità.
L’organizzazione della difesa urbana e della Guardia nazionale, che elegge i suoi capi, e provvede da sola al mantenimento dell’ordine nella città.
Parigi non vuole niente di più a titolo di garanzie locali, a condizione, beninteso, di ritrovare nella grande amministrazione centrale, delegazione delle Comuni federate, la realizzazione e la pratica degli stessi principi.
Ma grazie alla sua autonomia, approfittando della sua libertà d’azione, Parigi si riserva di operare come meglio crederà in casa propria le riforme che la sua popolazione reclama, di creare delle istituzioni atte a sviluppare e propagare l’istruzione, la produzione, lo scambio e il credito, a universalizzare il potere e la proprietà, seguendo la necessità del momento, i desideri degli interessati e i dati forniti dall’esperienza.
I nostri nemici si ingannano o ingannano il paese, quando accusano Parigi di voler imporre la sua volontà o la sua supremazia al resto della nazione, e di aspirare a una dittatura che sarebbe un vero attentato contro l’indipendenza e la sovranità delle altre comuni.
Si ingannano o ingannano il paese, quando accusano Parigi di perseguire la distruzione dell’unità francese costituita dalla Rivoluzione tra le acclamazioni dei nostri padri, accorsi alla festa della Federazione da tutti i punti della vecchia Francia.
L’unità, come ci è stata imposta fino ad oggi dall’Impero, la monarchia e il parlamentarismo, non è che la centralizzazione dispotica inintelligente, arbitraria o onerosa.
L’unità politica, come la vuole Parigi, è l’associazione volontaria di tutte le iniziative locali, il concorso spontaneo e libero di tutte le energie individuali in vista di un fine comune, il benessere, la libertà e la sicurezza di tutti.

La Rivoluzione comunale, cominciata dall’iniziativa popolare del 18 marzo, inaugura un’era nuova di politica sperimentale, positiva, scientifica.
È la fine del vecchio mondo governativo e clericale, del militarismo, del funzionarismo, dello sfruttamento, dell’aggiotaggio, dei monopoli, dei privilegi, ai quali il proletariato deve la sua schiavitù, la patria le sue disgrazie e i suoi disastri.
Che questa cara e grande patria, ingannata dalle menzogne e dalle calunnie, si rassicuri dunque!
La lotta intrapresa fra Parigi e Versailles è di quelle che non possono terminare con dei compromessi illusori; l’esito non può essere incerto.
La vittoria, perseguita con un’indomabile energia, dalla Guardia nazionale, resterà all’idea e al diritto.
Noi ci appelliamo alla Francia.
Resasi conto che Parigi in armi possiede tanta calma quanto coraggio; che sostiene l’ordine con tanta energia quanto entusiasmo; che si sacrifica con tanta ragione quanto eroismo; che non resta armata che per dedizione alla libertà e alla gloria di tutti: la Francia faccia cessare questo sanguinoso conflitto!
Tocca alla Francia disarmare Versailles, con la manifestazione solenne della sua irresistibile volontà.
Chiamata a beneficiare delle nostre conquiste, si dichiari solidale coi nostri sforzi; sia nostra alleata in questa battaglia, che non può finire che con il trionfo dell’idea comunale o con la rovina di Parigi!
Quanto a noi, cittadini di Parigi, abbiamo la missione di portare a termine la Rivoluzione moderna, la più ampia e la più feconda di tutte quelle che hanno illuminato la storia.
Abbiamo il dovere di lottare e di vincere.
La Comune di Parigi
(Journal Officiel, n. 110, 20 aprile)
Immagine: André Devambez – La Barricade ou l’Attente – Gallerix.ru, Public Domain
L’asimmetria della violenza
di Mariasole Ariot
“Tra il 2015 e il 2018 ci sono stati circa 700 casi di abusi domestici che hanno coinvolto agenti di polizia in tutto il Regno Unito, e tra il 2012 e il 2018 sono state presentate quasi 1.500 accuse di molestie sessuali, sfruttamento delle vittime di reati e abusi sui minori contro agenti di polizia in Inghilterra e Galles.” – scrive Claudia Torrisi su Valigia Blu.
Necessario leggere questo articolo a margine del femminicidio di Sarah Everard perché ci dice qualcosa che, ancora una volta, viaggia nel sommerso. In questo caso in Inghilterra. Un’Inghilterra che, a distanza, consideriamo progressista e più avanzata di noi.
Due parole invece che bordano questa vicenda, che dicono la situazione in cui la donna (scrivo donna e non il corpo della donna perché non è solo di corpi che è necessario dire) vive nella nostra società in un’epoca in cui la frattura tra la parola e l’agito va via via lacerandosi. La parola di chi dovrebbe raccontarci, certo, ma specialmente la parola di chi nel fuori fa sfoggio virtuoso di presunto femminismo, e poi nell’intimo (e non serve nemmeno arrivare alle mura di casa) rovescia quella parola nel suo contrario. In questo caso è stato un uomo delle forze dell’ordine: paradossale, si dirà. Ma non è paradossale affatto. Mi è accaduto, in anni recenti, di parlare con una volontaria di un centro antiviolenza italiano, e nello scambio mi hanno colpito quattro frasi in particolare. Le riporto a memoria, ma sono ben impresse:
1. Chiediamo aiuti, abbiamo bisogno di parlare, di divulgare, far conoscere per poter aiutare, operare per un’educazione migliore, anche solo banalmente per far capire che ci sono luoghi in cui chiedere aiuto. Riparo. Ma le istituzioni non sembrano interessate: ci ritroviamo sole.
2. La maggior parte delle violenze domestiche, al di là dei pregiudizi che vengono fomentati da una certa informazione, non è certo agita da camionisti ubriaconi, immigrati, alcolizzati, poveri e di poca cultura. Tutt’altro. Chi viene qui a denunciare abusi psicologici o fisici sono mediamente mogli e compagne di: uomini delle forze dell’ordine, libero professionisti, professori universitari.
3. Quando arrivano a denunciare? – ho chiesto. A volte mai, mi ha risposto. A volte dopo 40 anni di convivenza.
4. Il sentimento più diffuso? La vergogna.
L’uomo che ha ucciso Sarah Everard era un poliziotto che, come si evince dall’articolo, faceva parte di chi, nei giorni precedenti, andava di casa in casa a dire alle donne di non uscire dopo una certa ora (perché è la donna che deve autoproteggersi e autolimitarsi per scamparla: questo il messaggio). Un poliziotto, un uomo che, come la volontaria mi raccontava, sta nelle categorie degli uomini più maltrattanti.
Le categorie professionali che ha indicato sono categorie di persone che già stanno in posizioni asimmetriche all’interno della società o delle loro micro-società. Un’asimmetria non tanto economica (questo è secondario) ma di potere. Non stupisce quindi, anche se ci stupisce, che sia proprio là dove l’asimmetria di potere è già presente, è pre-presente, che la si cavalchi fino a questi esiti o ad esiti meno tragici del femminicidio ma che, attraverso abusi perpetrati negli anni, aprono la strada a ferite a lungo termine: traumatizzano l’esistenza.
Mi è capitato di cercare un ostello, quest’estate, per un giro in solitario ed economico. E mi sono ritrovata quasi per caso ad alloggiare in un contesto doloroso ma distanziato da ogni morte possibile (e spero davvero che negli interstizi ci siano altre zone come quella): la camerata adibita a ostello, infatti, era situata all’interno di una struttura ospitante donne e ragazze madri rifugiate lì a causa delle ripetute violenze domestiche. L’ostello Protezione della giovane, un’iniziativa volta a finanziare la struttura. Bimbi ovunque, piccoli appartamenti singoli per famiglie e per donne. Una sera, dopo una breve conversazione sul terrazzo che dava sui tetti della città, una ragazza con un figlio di appena un anno mi ha invitata nel suo piccolo appartamentino. Abbiamo parlato fino alle 2 di notte sgranocchiando qualcosa e bevendo una tisana. Lei, croata, arrivata in Italia “agganciata” su facebook da un uomo di qui che le prometteva amore e le presentava un’ipotesi di vita futura meravigliosa. Fiori, poesie, delicatezze. È partita, ha abbandonato tutto per amore, si sentiva come una ragazzina al primo appuntamento. Prima di rimanere incinta è cominciato l’inferno – e viveva nel piccolo monolocale col cucciolo nella culla, in attesa che le denunce sporte avessero effetto, con le costanti minacce di lui che le arrivavano ogni giorno, abbinate ai ti prego torna non lo farò più. Ora viveva lì, protetta, ma con la paura di uscire: sto cercando di ricominciare una vita ma non sono pronta. E poi lui potrebbe trovarmi, se esco.


*fotografie scattate durante i giorni e le notti trascorse all’Ostello
Una comunità, con tutte le difficoltà del vivere in comune: una donna veronese usciva al mattino per lavoro e tornava a sera, un’altra ragazza estone, esile e che parlava tre lingue, aiutava in cucina e aveva una figlioletta di pochi anni, donne più anziane, alcune con cinque figli a carico, fuggite al marito, una zona per fare i compiti, una piccola biblioteca, le chiacchiere nei terrazzini, qualche diatriba, piccole discussioni organizzative, momenti di raccolta con l’aiuto di personale formato, vicinanze d’affetto, piccoli diverbi, sigarette frutta macchinette del caffè notti bianche condivise.
Già da molti anni si discute, si parla, e sono attivi, centri antiviolenza ribaltati: gruppi di uomini maltrattanti che dovrebbero aiutarsi a non esserlo più. Personalmente non credo che questi luoghi siano molto frequentati, ma: a maltrattare, abusare, svilire una donna non lo si fa per dipendenza. Chi lo fa si nutre di questo e del potere che ne ricava, e infatti non avrebbe alcuna motivazione a bussare alla porta di un’associazione che lo dovrebbe “aiutare” a non fare ciò per cui, strutturalmente, sta bene. Se sono frequentati, immagino lo siano prevalentemente da uomini con problemi di altre dipendenze che perdono la ragione in determinati frangenti e che, unitamente a un percorso di uscita dall’alcolismo o dall’uso di sostanze pesanti, vogliono lavorare anche per migliorare o recuperare le relazioni che stanno perdendo. Ovvero: le categorie di uomini che si crede siano quelle da cui attingere per trovare l’abusante medio, quando invece è necessario spostare lo sguardo altrove.
In ultimo andrebbe dato atto a una verità non così irrilevante: se non ci sono luoghi come l’ostello/zona protetta di cui sopra anche per gli uomini, non è perché ve n’è carenza, è perché non ce n’è bisogno. Donne abusanti e violente ne esistono, certo, ma non per cultura.
Oggi invece è necessario ri-parlare della violenza agita nei confronti delle donne da un punto di vista culturale, sociale, e politico. Perché è ovunque, perché la cultura ne è imbevuta, nei passaggi all’atto come nel linguaggio. L’articolo di Valigia Blu, “Uccisa dal sistema che avrebbe dovuto proteggerla” ci parla di questo. Ci parla anche di un sistema in cui si punta – per proteggerla – a dire alla donna di non uscire, a (sottilmente) colpevolizzarla se esce sola dopo una certa ora, ci parla del victim blaming: perché è questo che comunemente viene fatto, ed è anche uno dei maggiori motivi di mancate denunce da parte delle vittime che hanno paura di subire anche questa ulteriore forma d abuso. L’articolo racconta dell’Inghilterra. Ma è un racconto che, almeno in parte, con i dovuti distinguo nei dati specifici, potrebbe essere esteso a molti altri paesi. E tra questi, il nostro.
*il testo, rivisto, è stato precedentemente postato su facebook e successivamente ripreso da Slowforward
Quando finirà il Kali Yuga? Apocalisse e catastrofe dal Novecento a oggi
di Adriano Ercolani

Il Novecento è stato un secolo attraversato da una profonda inquietudine apocalittica. In filosofia da Heidegger a Deleuze e Derrida, da Kojève a Fukuyama, passando per l’esistenzialismo, nella riflessione politica e sociologica da Pasolini a Baudrillard, in poesia da T.S.Eliot agli Ermetici e ai New Apocaliptycs inglesi, nell’arte da Munch a Bacon, nella letteratura attraverso le distopie antiutopistiche di Orwell, Huxley, Dick, Ballard, nella musica popolare di canzoni come A Hard Rain’s a-Gonna Fall di Bob Dylan o Eve of Destruction di Barry McGuire, nel cinema di massa con opere d’autore quali Il Dottor Stranamore di Kubrick, Melancholia di Lars Von Trier, I figli degli uomini di Cuarón, ma anche l’intero filone di film post-apocalittici dominante nel mercato americano. Soprattutto questo sentimento si manifesta più che mai nella ricerca spirituale, riferendosi non solo alla prospettiva escatologica di maestri orientali dal grande seguito come Shri Mataji Nirmala Devi e Ramana Maharshi, ma anche al pensiero di figure considerate fuori dagli schemi del calibro di Quinzio e Ceronetti. In queste e moltissime altre opere, in tutti i campi del sapere e della sfera creativa, si respira il senso di una fine ineluttabile, di una necessaria catastofe palingenetica.
Ciò si è manifestato talvolta come anticipazione profetica, l’anelito al potere sacro della violenza che animava le avanguardie storiche in mezzo ai due conflitti bellici, in altri casi invece si è tradotta nella contemplazione delle macerie dopo il disastro, esemplificata dall’arte giapponese del Dopoguerra. Del resto parliamo di un secolo in cui l’umanità è stata testimone di due conflitti mondiali, l’Olocausto, i gulag, la bomba atomica, la guerra fredda con l’incombente minaccia di un conflitto nucleare globale, un’accelerazione tecnologica senza precedenti con conseguenze devastanti per l’ecosistema globale unita al crollo delle ideologie. Come scrive Ernesto De Martino nel suo saggio Il problema della fine del mondo,
Non è improbabile che una così acuta coscienza culturale del finire del mondo nell’epoca moderna abbia tratto alimento anche dalla possibilità della guerra nucleare o dai terrificanti episodi di genocidio dei campi di morte nazisti […]. Ma, a parte Hiroshima e i campi di sterminio, vi sono altri aspetti del mondo moderno che hanno reso particolarmente acuta la nostra sensibilità per il rischio della fine. Le rapidissime trasformazioni nei generi di vita introdotte dal diffondersi del progresso tecnico, le correnti migratorie dalla campagna alla città, da regioni sottosviluppate a regioni industriali, il salto improvviso da economie più o meno arretrate o addirittura da società tribali a economie e società ormai inserite nel mondo occidentale, hanno condotto alla crisi di un gran numero di patrie culturali tradizionali senza che tuttavia l’integrazione nella nuova patria culturale avesse avuto il tempo di maturarsi (De Martino in Prini, 1964).
I primi vent’anni del nuovo millennio hanno subìto un’accelerazione vertiginosa della tensione accumulata nel secolo precedente. Gran parte dell’umanità contemporanea di fatto sopravvive in una condizione di supina alienazione privata dell’idea stessa di futuro, descritta in maniera impeccabile da Mark Fisher nel suo Spettri della mia vita, in cui l’autore riprende il concetto di hauntology coniato da Derrida: «Ciò che dovrebbe ossessionarci non è il non più della socialdemocrazia reale, ma il non ancora dei vari futuri che il modernismo popolare ci ha preparato ad attendere e che non si è mai materializzato» (Fisher, 2019). Inoltre, temi come il cambiamento climatico e il concetto di “antropocene”, di cui parleremo diffusamente in seguito, sono ormai divenuti argomento di dibattito sui media di massa. Questo senso di smarrimento, confusione, precarietà assoluta sull’orlo imminente dell’apocalisse ci induce a riflettere sulla nozione induista spesso abusata di Kali Yuga, l’Età dell’Errore o della Confusione, con cui molti studiosi tradizionalisti identificano la nostra epoca storica.
Il Kali Yuga e la concezione ciclica del Tempo
Cosa si intende esattamente per Kali Yuga? Il grande studioso Mircea Eliade così lo definisce: «Il kali-yuga, quello nel quale ci troviamo attualmente, è considerato proprio l’“età delle tenebre”, un’epoca «che progredisce sotto il segno della disgregazione e deve finire con una catastrofe» (Eliade, 2018). Per addentrarci nella visione dobbiamo affrontare brevemente la concezione ciclica del tempo nella tradizione religiosa indiana. Nell’induismo, soprattutto nei Puranas, testi di divulgazione religiosa ulteriori ai Veda, l’evoluzione della storia umana è scandita in quattro Yuga o “ere”: Satya Yuga, l’età dell’oro; Treta Yuga, l’età dell’argento; Dvapara Yuga, l’età del bronzo; infine il Kali Yuga, l’età del ferro. La fase di decadenza dell’ultimo Yuga prelude a una palingenesi e a una nuova fase di rinascita edenica in un ciclo successivo. Appare immediata l’affinità con la concezione greca del tempo, evidentemente derivata dalla cultura indiana, similmente esposta da Esiodo nel secondo mito del poema Le opere e i giorni. Una concezione ciclica contrapposta alla “freccia del tempo” che fonda il concetto di “itinerarium” nel Cristianesimo, chiaramente ripresa da Friedrich Nietzsche nella teoria dell’Eterno Ritorno proposta per la prima volta ne La Gaia Scienza.
Eppure va sottolineato come sia la concezione ciclica indiano-greca che quella cristiana prevedano un’Apocalisse, la prima come distruzione e generazione di un nuovo ciclo, la seconda come compimento dell’Ultimo Giudizio. Ma cosa c’entra questa astrusa previsione, a metà tra profezia e astrologia, col nostro mondo in fiamme? C’entra perché l’identificazione del nostro periodo storico con l’era di decadenza descritta dalle scritture induiste è stata, tra le altre cose, un leit-motiv della cultura di destra. Una cultura che sta tornando prepotentemente a dominare l’informazione di massa nella sfera politica globale, soprattutto attraverso un uso propagandistico, massiccio e capillare dei social network.
Il culto della tradizione e il rifiuto del mondo moderno
Nel suo saggio Il fascismo eterno, scritto in origine per una conferenza alla Columbia University nel 1995, Umberto Eco identifica due concetti fondanti come prime caratteristiche del cosiddetto Ur-Fascismo, il Fascismo “eterno” che ritorna sotto differenti maschere lungo la storia: il culto della Tradizione e il rifiuto del mondo moderno. Spiega Eco:
Il tradizionalismo è più vecchio del fascismo. Non fu solo tipico del pensiero controrivoluzionario cattolico dopo la Rivoluzione francese, ma nacque nella tarda età ellenistica come una reazione al razionalismo greco classico (…). Il tradizionalismo implica il rifuto del modernismo. Sia i fascisti che i nazisti adoravano la tecnologia, mentre i pensatori tradizionalisti di solito rifutano la tecnologia come negazione dei valori spirituali tradizionali (Eco, 2018).
Il concetto di Kali Yuga, ovvero di un periodo di decadenza in cui una casta di eroi iniziati dovrà guidare l’umanità verso una nuova Età dell’Oro, sembra dunque creato apposta per esaltare le menti incendiarie dell’Estrema Destra, intrise di esaltazioni esoterico-religiose e culti guerrieri. Non bisogna però fare di tutta l’erba un fascio. Anche per reazione al materialismo storico di marca marxista che ha di fatto decapitato l’esistenza del suo senso metafisico, va riconosciuto come alcuni dei più grandi studiosi di filosofia orientale del Novecento, da Giuseppe Tucci a Mircea Eliade e Pio Filippani Ronconi, autori tra gli altri di opere fondamentali, siano stati militanti in prima linea in differenti forme, gruppi, partiti, talvolta governi di estrema destra. Lo stesso Eco peccò di ingenerosità (o di comprensibile partigianeria) quando inserì due studiosi come Elémire Zolla e René Guénon nel suo “scaffale dei cretini”. Il diverso approccio nei confronti del tema qui affrontato rispecchia la differenza di sguardi dei due pensatori. Zolla, grande studioso tradizionalista ma distante dalla volgarità delle nostalgie fascistoidi, in un’intervista si prenderà gioco dell’ossessione apocalittica degli ambienti conservatori: «…l’apocalisse è una fantasia morbosa perché pretende di prevedere il futuro, che è invece imprevedibile, perché il mondo è caotico. D’altra parte è una fantasia così insistente nella mente umana che tutte le religioni hanno dovuto assumersela. Persino l’induismo prevede un certo decorso dei cicli, per cui l’ultimo, il Kali-yuga, sarà un’epoca di disastri» (Zolla, 1996). La sua elegante sprezzatura lo distingue in maniera cristallina dalla confusa temperie dell’esoterismo di estrema destra che tuttora inquina gli ambiti di ricerca sulla filosofia orientale.
Guénon, Evola e la cultura di destra
René Guénon (1886-1951) è una figura affascinante quanto controversa, un filosofo ed esoterista francese convertito all’Islam, fautore di una visione della Tradizione come conoscenza sincretica dei principi primordiali del sacro, espressi nelle varie religioni e correnti spirituali di tutti i tempi. A lui si deve la diffusione del concetto di Kali Yuga negli ambienti occidentali, soprattutto nel saggio Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi del 1945, in cui svilupperà nel dettaglio la conclusione del suo scritto Alcune considerazioni sulla teoria dei cicli cosmici: «Sappiamo già, per i riferimenti che ci danno tutte le tradizioni, di essere ormai da tempo nel Kali-Yuga; possiamo aggiungere, senza tema di errori, che siamo anzi in una fase avanzata di esso, fase che viene descritta nei Purana con particolari che rispondono in maniera davvero sorprendente ai caratteri della epoca attuale» (Guénon, 1937a).
In precedenza, nel saggio La crisi del mondo moderno (1927), lo stesso aveva affermato:
Noi ci troviamo presentemente nella quarta età, nel Kali-Yuga o “Età Oscura”, e noi vi siamo, si dice, già da più di seimila anni, cioè da una data decisamente anteriore a tutte quelle conosciute dalla storia “classica”. A partire da allora, verità già accessibili a tutti sono divenute sempre più nascoste e difficili a raggiungere. Coloro che le posseggono sono sempre meno numerosi e se il tesoro della saggezza “non-umana”, anteriore ad ogni età, non può mai perdersi, esso si avvolge tuttavia di veli sempre più impenetrabili, che lo nascondono agli sguardi e sotto i quali è estremamente difficile scoprirlo, per questo che, sotto simboli diversi, dappertutto si è parlato di qualcosa che si è perduto, almeno in apparenza e per il mondo esteriore, e che va ritrovato da coloro che aspirano alla conoscenza vera; ma è stato anche detto che quel che è divenuto così nascosto ridiverrà visibile alla fine di questo ciclo: fine che, in virtù della continuità che collega insieme tutte le cose, sarà in pari tempo il principio di un ciclo nuovo (Guénon, 1927).
Ispirandosi a Guénon, pur non condividendone la visione positiva della Chiesa Cattolica e della Massoneria contemporanea come forze custodi della Tradizione, sarà Julius Evola (1898-1974) a utilizzare il concetto di Kali Yuga per ispirare col carisma incendiario del suo stile fiammeggiante le menti esaltate dei neofascisti del Dopoguerra. Evola, mente eclettica e indubbiamente dotata di potenza visionaria, viene da decenni considerato uno dei “cattivi maestri” dell’estrema destra, area ideologica in cui è assurto allo status quasi demiurgico della “mistica fascista” e delle teorie antisemite chiamate “dottrina della razza”. Senza dubbio è stato uno dei pensatori più influenti nell’ambito della Tradizione.
Se Guénon si era limitato a mostrare la crisi del mondo moderno da una prospettiva tradizionalista, sette anni dopo il citato saggio dello studioso francese, Evola pubblicherà un testo fin dal titolo pericolosamente inebriante: Rivolta contro il mondo moderno. In quel libro si possono leggere frasi di potenza suggestiva: «Se l’età ultima, il Kali-Yuga, è un’età di terribili distruzioni, coloro che vi appaiono e malgrado tutto vi si tengono in piedi possono conseguire frutti non facilmente accessibili agli uomini di altre età» (Evola, 1969). Se però assumiamo il Kali Yuga come Età dell’Errore e della Confusione, in cui il sacro è pervertito e dall’ordine si passa al caos, una considerazione si impone. Stando ai documenti Evola fu considerato troppo tradizionalista persino da Himmler, sebbene i suoi studi sulle SS quale espressione moderna degli ordini e delle elités politiche venissero apprezzati negli ambienti nazisti. In questo senso, se la conoscenza esoterica dei testi orientali è stata messa al servizio della deformazione ideologica dei nazisti, appare chiaro come Evola stesso sia stato uno dei migliori agenti del Kali Yuga che tanto voleva debellare.
Come riassume Furio Jesi nel suo ormai saggio classico Cultura di destra:
Siamo rimasti fino a ora nell’ambito di una cultura di destra mitteleuropea che, nel nostro secolo, offre l’immagine di una mescolanza triviale di esoterismo rimasticato e di razzismo, all’insegna di pratiche sacrificali e di altri elementi d’un apparato di religione della morte. Non presumiamo, certo, di spiegare la genesi del nazismo con una piú o meno suggestiva dottrina esoterica, con l’affiorare di una data costellazione mitologica manipolata ad hoc dagli interessati. Ci limitiamo soltanto a esaminare l’aspetto che la cultura della destra mitteleuropea offre ad alcuni sondaggi nell’ambito del suo linguaggio o, se vogliamo, delle formalizzazioni iconiche e rituali della sua paura e della sua violenza (…). Non vi è ragionevole dubbio circa il fatto che Hitler e la sua corte disponessero di una cultura raccogliticcia e mal digerita; ma, d’altra parte, non vi sono ragionevoli elementi per asserire con certezza che la manipolazione propagandistica di queste sedimentazioni fosse compiuta a freddo, come calcolata tecnicizzazione di elementi mitologici che possono servire, ma nei quali non si crede o, comunque, nei quali non si crede tanto da subordinare a essi i propri interessi meno metafisici (Jesi, 2011).
Heidegger, Hölderlin, Jünger: tempo di povertà e fine della storia
Esposta la deformazione grottesca operata dall’estrema destra della visione induista dell’evoluzione umana, è interessante riflettere come la visione del Kali Yuga sia un campo di riflessione valido, esplicitamente o involontariamente evocato con riflessioni affini, anche per pensatori distanti o antitetici agli ambienti tradizionalisti o reazionari. Punto d’incontro è sicuramente una delle pagine più note di riflessione filosofica sulla poesia del Novecento, ovvero l’intervento Perché i poeti? in cui Heidegger riflette su un passo di Hölderlin:
Da quando i “tre che sono uno”: Ercole, Dioniso e Cristo, hanno lasciato il mondo, la sera del tempo mondano va verso la notte. La notte del mondo distende le sue tenebre. Ormai l’epoca è caratterizzata dall’assenza di Dio, dalla “mancanza di Dio”. […] La mancanza di Dio significa che non c’è più nessun Dio che raccolga in sé, visibilmente e chiaramente, gli uomini e le cose, ordinando in questo raccoglimento la storia universale e il soggiorno degli uomini in essa. Ma nella mancanza di Dio si manifesta qualcosa di peggiore ancora. Non solo gli Dei e Dio sono fuggiti, ma si è spento lo splendore di Dio nella storia universale. Il tempo della notte del mondo è il tempo della povertà perché diviene sempre più povero (Heidegger, 1968).
Conosciamo i rapporti controversi di Heidegger col nazismo, come d’altro canto riconosciamo la sua innegabile influenza anche su tutta la filosofia del Novecento. Un altro geniale pensatore “di destra” letto però con interesse e ammirazione “a sinistra” è certamente Ernst Jünger, che proprio in risposta a Heidegger, al quale aveva dedicato il saggio iniziale Oltre la linea, proporrà queste ardenti riflessioni che capovolgono la prospettiva nichilista della filosofia coeva: «…secondo Esiodo, l’età dei Titani è l’età dell’oro. Il passaggio dall’età del ferro all’età delle irradiazioni si verifica anzitutto nelle scienze della natura. La potenza delle loro formule si rivela nella tecnica e nei suoi dispositivi. Tale diffusione si accompagna a quella spiritualizzazione che gli astrologi attribuiscono all’Età dell’Acquario» (Jünger, 1989).
Successivamente, ne Il libro dell’orologio a polvere (1981), Jünger affronta esplicitamente la differenza fra la concezione ciclica e la “freccia del tempo”:
Il tempo ciclico e il tempo progressivo sollecitano due stati d’animo fondamentali dell’uomo, il ricordo e la speranza. Sono i due edificatori della sua dimora. In loro s’incontrano padre e figlio, spirito conservatore e spirito riformatore. Mentre il ritorno viene determinato da forze estranee al nostro mondo, la speranza, accanto al suicidio e al dolore, è un segno distintivo dell’uomo […]. La speranza è umana e terrena, è un segno di imperfezione. Ma è già una condizione superiore, nella quale l’imperfezione viene avvertita. Quello che noi oggi chiamiamo progresso è speranza secolarizzata: il fine è terreno ed è chiaramente iscritto nel tempo (Jünger, 1994).
Sorvolando sulle profezie inquietanti di Oswald Spengler sulla necessaria estinzione della civiltà occidentale nel libro Il tramonto dell’Occidente. Lineamenti di una morfologia della Storia mondiale (1918), è interessante vedere come verso la fine del secolo un concetto hegeliano sia diventato improvvisamente di moda grazie a uno scaltro recupero da parte di Francis Fukuyama nel 1992, negli anni immediatamente successivi al crollo del Muro di Berlino, e di conseguenza del blocco sovietico: parliamo della nota espressione “fine della storia”. L’espressione non nasce, a essere filologicamente attenti, né in Hegel né in Kojève, ma in poche, decisive righe presenti in un saggio di Alexandre Koyré del 1934, su Hegel a Jena:
La filosofia della storia – e per ciò stesso la filosofia hegeliana, il “sistema” – sarebbe possibile solo se la storia fosse finita, solo se non ci fosse più avvenire, solo se il tempo potesse fermarsi. Può essere che Hegel l’abbia creduto. Può essere anche che abbia creduto che fosse qui la condizione essenziale del sistema – è solo di notte che le nottole di Minerva cominciano il loro volo – ma anche che questa condizione essenziale fosse già realizzata, che la storia fosse effettivamente compiuta, e che proprio per questo egli potesse – avesse potuto – portarla a compimento (Koyré, 1980).
Il tema è stato sviscerato con competenza da Massimo Palma nel suo bel saggio Foto di gruppo con servo e signore:
Se la nottola di Minerva può volare «solo di notte», Hegel può essersi rappresentato come alla foce della storia, di quello stesso tempo della storia che aveva contribuito a determinare anche come concetto. Hegel può – ha potuto (l’oscillazione sui tempi e sui modi è significativa del dilemma di Koyré) – anche essersi pensato alla fine. Lungi dal voler discutere il tema della fine della storia, già infinite volte affrontato e criticato (per la viziosa circolarità del ragionamento implicito di Koyré, che fissa come condizione di possibilità del concetto la fine della storia, chiedendo così al tempo di finire per dare al tempo in quanto concetto la possibilità di pensarsi), e di facile fortuna per le inevitabili connessioni con le suggestioni religiose e politiche più varie, è opportuno rilevare la paternità nella linea genealogica dell’hegelismo francese d’una questione che più che tormentare Koyré, accontentatosi di aprire il vaso di Pandora, fece la “fortuna” di Kojève. […] Da base ermeneutica per approcciare il concetto del tempo in Hegel, il motivo di Koyré volò altissimo: la “fine della storia” si tramutò in mitologia operativamente efficacissima e rubò la scena a tutti gli altri della Hegel-Renaissance (Palma, 2017).
Per approfondire il tema rimandiamo, oltre al citato saggio di Palma, a La fine della storia. Saggio sul pensiero di Alexandre Kojève di Matteo Vegetti e a Il filosofo della domenica. La vita e l’opera di Alexandre Kojève di Marco Filoni; qui ci interessa solo accennarlo per mostrare come anche negli ambienti “progressisti” degli anni Trenta a Parigi si cominciasse a riflettere in senso escatologico.
Apocalissi culturali: Eschaton e Katechon
Rimanendo in ambito non reazionario, un testo importante per comprendere l’atmosfera filosofica in cui ci stiamo muovendo, benché incompiuto, è l’ultimo saggio del già citato Ernesto De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali. Antropologo e storico delle religioni nonché militante del PCI, noto per i suoi cruciali saggi sulla cultura magica nel Meridione quali Sud e Magia e La terra del rimorso, in questo testo De Martino si rifà al Dasein heideggeriano con l’intenzione di indagare una questione radicale; come deve l’uomo “stare al mondo”, soprattutto in una prospettiva apocalittica? La sua risposta fa pensare all’interpretazione “comunista” de La Ginestra leopardiana offerta da Cesare Luporini: «Certo il mondo “può” finire: ma che finisca è affar suo, perché all’uomo spetta soltanto rimetterlo sempre di nuovo in causa e iniziarlo sempre di nuovo […] il pensiero della fine del mondo, per essere fecondo, deve includere un progetto di vita, deve mediare una lotta contro la morte, anzi, in ultima istanza, deve essere questo stesso progetto e questa stessa lotta» (De Martino, 2002).
È interessante notare come anche De Martino affronti la differenza fra tempo ciclico e tempo progressivo, rovesciando però, da allievo di Gramsci, la prospettiva dei pensatori conservatori: «Il tempo ciclico è tempo della prevedibilità e della sicurezza: il suo modello è offerto dal ciclo astronomico e stagionale. Ma nell’ambito della storia umana questa tendenza della natura diventa un rischio, perché la storia umana è proprio ciò che non deve ripetersi e non deve tornare, essendo questo ripetersi e questo tornare la catastrofe della irreversibilità valorizzatrice. Il tempo della prevedibilità e della sicurezza è per la storia il tempo della pigrizia, il rischio della naturalizzazione della cultura». E la fine della sua riflessione egualmente appare come una risposta a Heidegger: «La costituzione fondamentale dell’esserci non è l’essere-nel-mondo ma il doverci essere-nel-mondo […] La catastrofe del mondano non appare dunque nell’analisi come un modo di essere al mondo, ma come una minaccia permanente, talora dominata e risolta, talora trionfante» (De Martino, 2002).
In questa galleria di riflessioni apocalittiche su sponda “sinistra” non possiamo non citare le riflessioni di Massimo Cacciari su due concetti di natura religiosa, particolarmente sviluppati in ambito neotestamentario e strettamente collegati tra loro, eschaton e katechon. Con il primo si intende “la fine dei tempi” segnata in molte religioni, in particolare nel cristianesimo, dall’avvento messianico e dal conseguente Ultimo Giudizio; col secondo, di derivazione paolina, si intende al contrario un potere che frena, contiene, rallenta l’avvento dell’Anticristo, preludio antimessianico alla fine dei tempi, notoriamente riportato al centro del dibattito teologico-politico nel Novecento da Carl Schmitt. Riportiamo brevemente due diversi momenti di riflessione del filosofo veneziano. In un intervento intitolato Ma il vento soffia dove e come vuole, parlando delle propettive attuali del cristianesimo, Cacciari afferma:
Se è vissuto in questa dimensione, è evidente che l’eschaton non è il domani, il dopodomani dell’uomo. È un vivere escatologicamente il presente, ogni istante, perché ogni istante può essere l’ultimo. L’ultimo non può sorprenderci come il ladro di notte. È vissuto come ogni istante perché in ogni istante è atteso. Chi vive il futuro escatologicamente, vive l’eschaton come ogni istante. Questa è l’esperienza che palpitava nell’esperienza cristiana originaria. E il cristianesimo può avere un futuro se può fare memoria in sé di questa idea del futuro (Cacciari, 2003)
In un’intervista per Avvenire, Cacciari affronta l’altro grande polo della riflessione apocalittica, il katechon:
…quel qualcosa, o qualcuno, che “contiene”, trattenendo e rallentando, la venuta dell’Anticristo. Questo framezzo, che si pone tra l’Evento dell’Incarnazione e la battaglia finale contro l’Avversario, è un tempo rilevantissimo […] Il katechon esprime una tensione costante. Per sua natura, tiene a entrambe le parti: ha a che vedere con l’Anticristo (“con-tenere” significa “tenere dentro di sé”) e nel contempo partecipa alla battaglia contro l’Anticristo. Del resto, nell’evo cristiano ogni potere partecipa di questa contraddizione […] Quello sul katechon è, da sempre, un discorso che rifugge dall’astrazione (Cacciari, 2013)
Questo rifuggire dall’astrazione sembra aver trovato puntuale e drammatica conferma nel presente, cronache alla mano.
Antropocene e Accelerazionismo
Un dato affascinante quanto inquietante è che questo sentimento apocalittico da anni ormai non è più confinato nelle facoltà di teologia e filosofia ma, passando sorprendentemente per la divulgazione scientifica, è approdato stabilmente come argomento di dibattito sui media di massa quali quotidiani, radio e televisione, grazie all’improvvisa popolarità della definizione di Antropocene sorta in ambito biologico. Coniato negli anni Ottanta dal biologo Eugene F. Stoermer e reso noto dal Premio Nobel per la Chimica nel 2000 Paul Crutzen, il termine indica l’attuale era geologica, contraddistinta dall’impatto dell’attività umana sul pianeta. Spiega Crutzen:
A differenza del Pleistocene, dell’Olocene e di tutte le epoche precedenti, essa è caratterizzata anzitutto dall’impatto dell’uomo sull’ambiente. La forza nuova […] siamo noi, capaci di spostare più materia di quanto facciano i vulcani e il vento messi insieme, di far degradare interi continenti, di alterare il ciclo dell’acqua, dell’azoto, del carbonio e di produrre l’impennata più brusca e marcata della quantità di gas serra in atmosfera negli ultimi 15 milioni di anni (Crutzen, 2005).
Le ripercussioni di questa “scoperta” sull’immaginario contemporaneo sono ragguardevoli. Come ha scritto Amitav Gosh: «Nell’era dell’Antropocene è diventato impossibile tenere in piedi la finzione di una netta separazione tra ciò che è naturale e ciò che è culturale: le due cose oggi appaiono indissolubilmente intrecciate. Ciò significa che quelle due divinità felicemente accoppiate, “Natura” e “Cultura”, sono morte, e che l’idea stessa di “scrittura ecologica”, così come la conoscevamo, è morta con loro» (Gosh, 2017). Non è un caso che proprio in questo contesto storico sia nato un movimento filosofico solo apparentemente paradossale (in realtà erede, non del tutto inconsapevolmente, di un’antica tradizione gnostica): l’accelerazionismo. Ispirato dalle riflessioni più radicali di Deleuze e Guattari l’accelerazionismo, lungi dal voler scongiurare l’imminente apocalisse ambientale ed economica creata dall’impazzimento del sistema capitalistico, predica la necessità di affrontare fino in fondo la crisi come unico modo per superarla. Il finale del libro di Tiziano Cancelli How to Accelerate. Introduzione all’accelerazionismo rende il significato più profondo di quella che è tutto fuorché una mera provocazione:
Le sfide della contemporaneità non coinvolgono più unicamente il mondo accademico o flosofico, ma interrogano nel profondo le stesse modalità del nostro stare al mondo; di conseguenza, solamente una visione eretica, profondamente magica, in grado di sopportare il crollo della realtà che ci circonda può aspirare a trovare un nuovo orizzonte di senso, un nuovo modo che esiste. L’accelerazionismo è una potente invocazione: cosa apparirà al centro di questo cerchio magico è tutto da scoprire (Cancelli, 2019).
These fragments I have shored against my ruins
In conclusione, dopo aver mostrato come il sentimento apocalittico, sotto diverse forme e orizzonti, innervi alcune delle riflessioni filosofiche più rilevanti dell’ultimo secolo, rimane da chiedersi quando finirà il tempo di povertà? Quando e come finirà il Kali Yuga? Sorvolando su calcoli astrologici e profezie di veggenti risalenti a mille anni fa secondo le quali saremmo agli sgoccioli di questa era oscura, credo sia proficuo riflettere su un aspetto risolutivo e implicito dell’idea stessa. Per affrancare la visione apocalittica dalle deformazioni oscure dell’esoterismo nero è sufficiente riconoscere che nella stessa visione induista la fine di uno yuga è già gravida di quello successivo.
Nell’Era della Confusione ci sono già i semi della futura Età dell’Oro. Ordo ad Chaos, dal caos l’ordine, recita un motto iniziatico della massoneria, pregno di sapienza alchemica. Uscendo dalle immagini suggestive del linguaggio esoterico questa intuizione era stata espressa in una delle vette della poesia novecentesca, The Waste Land, poemetto del 1922 di T.S. Eliot tradotto spesso in La terra desolata (in realtà il titolo inglese è traduzione dell’espressione dantesca “paese guasto”). Il poema eliotiano, modello della poesia postmoderna, appare come sintesi, in netto anticipo, della riflessione escatologica offerta dalle diverse anime filosofiche del Novecento che ho inteso mostrare in questa trattazione. Inoltre, il poema ebbe come editor d’eccezione Ezra Pound a cui è dedicato quale “miglior fabbro”, per rimanere in ambito dantesco, uno dei grandi miti della cultura conservatrice. I temi centrali dell’opera di Eliot si ritrovano tutti. Anzitutto il ritmo ciclico del tempo nei riti di morte e resurrezione ispirati dagli studi di Frazer, raccolti nel saggio Il ramo d’oro. D’altro canto, è significativo che nelle opere successive, dai Cori della Rocca ai Quattro Quartetti, Eliot sancirà in poesia delle definizioni teologicamente impeccabili della concezione cristiana del tempo. Poi, ne La Terra Desolata, appare la visione, colma di suggestioni blakeane, delle metropoli moderne come infernali luoghi di alienazione, il profondo senso di decadenza e incombente fine che verrà successivamente testimoniato da Eliot tre anni dopo nei celeberrimi versi finali della poesia The Hollow Men: «Così il mondo finisce / Così il mondo finisce / Così il mondo finisce / Non con uno schianto ma con un lamento» (Eliot, 2000). Infine il richiamo ultimo e liberatorio alla saggezza spirituale orientale. Verso la conclusione del poema infatti, dopo aver descritto magnificamente “il tempo di povertà” attraverso un mosaico di citazioni tratte dalla poesia di ogni tempo, da Arnaut Daniel a Gerard De Nerval, da Dante a Dickens, da Baudelaire a Ovidio, da Omero a Wagner, Eliot ci dona un verso che potrebbe essere posto in calce alla letteratura del Novecento: «Con questi frammenti ho puntellato le mie rovine». Il poema termina genialmente con la formula rituale che chiude le Upanishad, il mantra che evoca l’ineffabile pace interiore dettata dalla imperturbabilità della mente meditativa, «Om Shanti Shanti Shanti» (Eliot, 2013).
Dunque, raccogliendo l’intuizione del poeta, non rimane che puntellare le rovine con i frammenti della conoscenza e della bellezza giunti fino a noi, affrontando l’Apocalisse a testa alta, accogliendo tutte le trasformazioni, anche drammatiche, che necessariamente il futuro ci imporrà. E ciò sarà possibile solo elevando il livello della consapevolezza collettiva, non solo divulgando cultura presso le nuove generazioni, offrendo strumenti critici di comprensione del reale presso le classi meno abbienti, decostruendo incessantemente le menzogne della propaganda populista, affrancandosi dalla strisciante invasività dei social network, ma più profondamente rimettendo in discussione le false certezze della visione eurocentrica, aprendosi con discernimento e meraviglia a esperienze in grado di «allargare l’area della coscienza», nel proclama di Allen Ginsberg.
Tornando alla domanda che dona il titolo di questa trattazione, concludiamo con l’asupicio che si compiano le parole del maestro spirituale indiano Shri Mataji Nirmala Devi: «Nei Puranas, il Kali Yuga segna il punto più basso dello sviluppo morale e spirituale in ogni ciclo […] che conduce infine al Satya Yuga, l’età della verità o realtà, nella quale si ripresenta l’Età dell’Oro, nella quale tutte le capacità dell’uomo cominciano di nuovo a manifestarsi nella loro piena gloria» (Nirmala Devi, 2009).
Bibliografia
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http://www.meicvercelli.it/archivio/2003/01-18/interventi/cacciari-interv.htm
Cacciari M., 2013, Chi mette freno all’Apocalisse?, intervista di Alessandro Zuccari su “Avvenire” del 27 febbraio 2013
https://www.avvenire.it/agora/pagine/cacciari-chi-mette-il-freno-apocalisse
Cancelli T., How to Accelerate. Introduzione all’accelerazionismo, Edizioni Tlon, Roma, 2019.
Crutzen P., Benvenuti nell’Antropocene!, Mondadori, Milano, 2005.
De Martino E., Il problema della fine del mondo, in Prini P. (a cura di), Il mondo di domani, Abete, Roma, 1964.
De Martino E., La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino, 1977
Eco U., Il fascismo eterno, La Nave di Teseo, Milano, 2018.
Eliade M., Il mito dell’eterno ritorno, Lindau, Roma, 2018.
Eliot T.S., Poesie, Bompiani, Milano, 2000.
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Evola J., Rivolta contro il mondo moderno, Edizioni Mediterranee, Roma, 1969.
Filoni M., Il filosofo della domenica. La vita e l’opera di Alexandre Kojève, Bollati Boringhieri, Torino, 2008.
Fisher M., Spettri della mia vita: Scritti su depressione, hauntologia e futuri perduti, minimum fax, Roma, 2019.
Ginsberg, A. Jukebox all’idrogeno, Guanda, Parma, 2001.
Gosh, A., La narrazione nell’epoca dell’Antropocene, Il Sole 24-Ore del 18 giugno 2017
https://www.ilsole24ore.com/art/la-narrazione-nell-epoca-dell-antropocene-AE2OlCfB
Guénon R., La crisi del Mondo moderno, Edizioni Mediterranee, Roma, 1927.
Guénon R., Alcune considerazioni sulla teoria dei cicli cosmici, «Journal of the Indian Society of Oriental Art», giugno-dicembre 1937: https://bit.ly/3djMvGx.
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Jesi F., Cultura di destra, a cura di A. Cavalletti, nottetempo, Roma, 2011.
Jünger E., Oltre la linea, Adephi, Milano, 1989.
Jünger E., Il libro dell’orologio a polvere, Adelphi, Milano, 1994.
Koyré A., in Interpretazioni hegeliane, a cura di R. Salvadori, La Nuova Italia, Firenze, 1980
Nirmala Devi S.M., Oltre l’era moderna, Anima Edizioni, Milano, 2009.
Palma M., Foto di gruppo con servo e signore, Castelvecchi, Roma, 2017.
Vegetti M., La fine della storia. Saggio sul pensiero di Alexandre Kojève, Jaca Book, Milano,1999
Zolla E., Oltre la profezia, intervista di Elisabetta Rasy su “Panorama” del 20 dicembre 1996
http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/zolla/rasy.htm
Intellettuali in fuga dal fascismo

Patrizia Guarnieri, storica, ha ricostruito la vicenda dell’emigrazione forzata a causa del fascismo di intellettuali e scienziati, soprattutto ebrei: non solo i loro drammi umani ma anche l’enorme danno per la ricerca e la storia culturale italiana
Partigiani d’Italia

E’ online e consultabile dal 15 dicembre 2020 lo schedario delle commissioni per il riconoscimento degli uomini e delle donne della Resistenza.
Il portale è pubblicamente e stabilmente consultabile. Previa registrazione gratuita, è possibile accedere ai dati e alle riproduzioni digitali delle schede originali. Attualmente sono pubblicate le schede delle Commissioni Campania, Emilia-Romagna, Estero, Lazio, Liguria, Marche, Piemonte. Entro il 25 aprile 2021 saranno pubblicate le schede delle Commissioni Lombardia, Toscana, Umbria. Le schede delle restanti Commissioni saranno pubblicate entro il 2021.
LUMACHE NEL NOTTURNO

di Antonio Potenza
Aspetto da un lasso di tempo interminabile che arrivi il notturno e mi riporti a casa.
Mi crogiolo all’idea del bus che percorrerà la Prenestina, bagnata dall’arancio dei lampioni, per restituirmi al nero della mia camera, che è fumoso e nerastro, appena disturbato dalle finestre del condominio troppo vicino al ballatoio. Che bello sarà quando la mia stanza mi abbraccerà con il suo odore dolciastro, insozzato dai rivoli di fumo che lascio entrare quando spengo le sigarette sul cornicione. Vorrei che il bus arrivasse ora per sostenermi nel cammino in direzione del sonno, con il quale – finalmente – l’alcool che ho ingerito per tutta la sera, al pari di un assetato con le labbra increspate, si dissolverà confondendosi con il mio mondo onirico. Infine, sballottato dalla forza dei succhi gastrici sognerò di cadere dalla terrazza di casa mia e in un colpo di voce sarò riportato finalmente alla normalità.
Ma per ora resto qui, a Porta Maggiore, sbilenco su un guardrail malconcio.
Posso immaginare quasi tutte le macchine che si sono schiantate in questo ferro convesso nel quale, letteralmente, giaccio in attesa del bus. Ilaria, poche ore prima, d’altronde aveva ragione: i mezzi qui potrebbero non passare mai, ma l’attesa a volte non pesa poiché regala quell’ambigua sensazione di perdita estatica, forse causata dai capricci dei ruderi romani. E in ogni caso, aggiungeva Ila, si riesce sempre a tornare a casa, anche se a volte non è la tua. Con Andrea prendemmo le sue parole in modo letterario e sfidammo noi stessi. Proviamo, faceva, a tornare a casa prima dell’alba anche da ubriachi lerci.
Chi perde non paga pegno, ma chiama il primo dei due che gli viene in mente.
Ecco: la situazione attuale è la conferma della mia tracotanza.
Ma se Ilaria avesse ragione, allora, oltre questi grossi archi di pietra cremisi dovrebbe tra poco comparire il notturno con i finestrini appannati, trasbordante di vite umane. Allo stesso tempo, e per il medesimo motivo, potrei tranquillamente non vederlo apparire mai.
Guardando l’orologio mi attanaglia una sorta di ansia: tra poche ore il sole sarà ritornato su, e allora non avrà senso dormire, si aggancerà un nuovo tremito nervoso, la preoccupazione del fare che si attiva solo con i raggi ultra violetti. Bramerò il sonno senza riuscire ad averlo, nemmeno nel pomeriggio con le imposte abbassate, a causa del cuore tachicardico. Esorcizzo le previsioni funeste e il gelo tirando fuori dal pacchetto un’altra sigaretta che possa scaldarmi almeno le punte delle dita, perché questo inverno a Roma è più ostico di quelli vissuti nei due anni precedenti. Quindi mi avvolgo meglio la sciarpa e mi stringo nel cappotto di renna.
A questi problemi di natura ansiolitica e termica, domattina, penso, si aggiungerà lo sconforto di aver perso la scommessa. Quel banale commento di Ilaria sulla composizione madreperlacea di Roma, riguardo le stratificazioni temporali che trasudano porpora all’interno di questo polmone esangue, comincia a tormentarmi. Tra i palazzi umbertini e le rotaie arrugginite dei tram, attraverso il puzzo di ascella nei bus e al di sopra delle vestige cremisi della prima età romana, vi è un filo di bava che collega ogni cosa, come testimonianza dell’essenza zoomorfica della città. Lo vedo, sfavillante nella sua bioluminescenza, il lento passaggio della chiocciola, con il suo carapace diamantato nel quale si solidifica lo scorrere millenario del tempo, collegando con le sue spire di carbonio e le sue lamelle di conchiolina le membra dilaniate di Roma. Questo minuto essere si trascina lungo il metallo raggrinzito del guardrail, sale l’immensa coperta di renna che mi avvolge e in un lasso di tempo tutto sommato breve rispetto alla mia attesa, sta risalendo l’epidermide della mano.
Sui crinali delle nocche luccica debolmente non appena il notturno supera gli archi stanchi dell’acquedotto e con il cammino grassoccio ci raggiunge, puntandoci addosso i fari sporchi. Una lamina di luce ci raggiunge e abbacina il suo carapace, così come la mia vista per un lungo secondo. Ritornato a vedere, accosto le dita all’asfalto per aiutarla a scendere. In qualche modo la sua atarassia mi influenza e sono sorpreso che non mi importi più se il conducente e i passeggeri stiano sbraitando, ci vuole accortezza nel far scorrere il tempo, ma loro non lo sanno.
Ad ogni modo entro e le portiere si chiudono con un cigolio sfinito dietro la mia schiena. Qui dentro siamo tanti, non riesco a contarci perché le teste più vicine sono così grandi e strette tra loro che ciò che c’è dietro mi arriva come il miraggio di un’intuizione. Rumori e sudore si diffondono in tutto il mezzo. Italiano e indu si mischiano in uno sferragliante autobus dell’Atac e la cosa, forse a causa dell’alcool, mi appare romantica. specialmente se la inserisco nel nostro movimento verso la periferia, se la pigmento con i triangoli di luce arancione che sputano i lampioni dinoccolati che scorgo oltre il vetro.
Una buona prima parte dei passeggeri, pericolosamente ammassati in quel parallelepipedo dalla vernice sbeccata, scende all’altezza del Pigneto, tra le colonne della sopraelevata, per poi disperdersi nelle viuzze scure; la seconda parte so che lo farà all’altezza di Largo Preneste, tra un paio di fermate.
Ora l’aria si sveste dall’anidride carbonica emessa dall’eccesso di viventi in uno spazio troppo ristretto. L’agilità respiratoria mi permette di percorrere qualche passo, benché sballottato dai movimenti violenti del mezzo, in direzione dello spazio destinato ai disabili. Qui scivolo sul vetro annebbiato. Il chiacchiericcio non si ferma, fin quando la corsa bruscamente si interrompe con una frenata a Largo Preneste e quasi la totalità della gente ritorna a casa in quello spiazzo sferzato dai venti freddi.
Trovo pericoloso addormentarmi proprio adesso, benché la patina grigiastra del sonno assecondi lo scioglimento degli zuccheri alcolici nel sangue. Non sono bravo a resistere, e la pressione della sonnolenza è tale che a dispetto del vetro gelido sul quale giace la mia fronte che alla fine cedo e mi sottometto alla sua forza tentacolare.
Quando mi sveglio siamo ancora in cammino su questo bus malandato. Le scosse della corsa hanno disturbato il mio sonno, percuotendo i nervi del collo che ora pulsano sotto la giacca. Mi sembra di aver dormito per un tempo lunghissimo, ma guardando fuori asciugando con la manica la patina di condensa, scorgo che siamo a pochi metri oltre Largo Preneste. La mia percezione non sembra essere tarata sulla realtà.
Ogni qualvolta mi capiti di addormentarmi in pubblico – evento non così raro – mi risveglio puntualmente con la barba madida di bava e stretto dalla sensazione che lasciano gli sguardi di scherno sul mio stato di incoscienza. Meglio controllare attorno: nella coda del bus c’è una ragazza dai capelli corvini e la fronte tondeggiante appiccicata al vetro con uno sguardo che tradisce un’assenza; un po’ più avanti, nella postazione con i quattro sedili, un uomo con un cappotto marrone sdrucito, mi sembra sui quaranta, approfitta dello spazio per distendere le gambe; ad un posto da me, un altro uomo dalla barba grigiastra, intrisa di alcol – il puzzo si avverte da qui – mi guarda, ma sembra osservare oltre me, azzarderei attraverso me e la cosa mi inquieta allo stesso modo con cui mi affascina; infine, alle spalle del guidatore un ragazzo sbarbato è intento a pizzicare del tabacco che inserisce all’interno di una cartina, quindi con disinvoltura lecca la colla e accende.
Il conducente grida qualcosa, senza voltarsi, ma il ragazzo imperturbabile riempie il bus di fumi bianchicci.
Noialtri passeggeri sembriamo non provare nessun fastidio; o quanto meno, non abbiamo eventualmente la forza di ribattere.
Solo in questo momento ho la voglia di osservarli meglio, provando una certa tenerezza ingiustificata, e più come un gioco d’attesa decido di dare un nome ad ognuno di loro: Gilda è la ragazza dalla fronte fusa con il finestrino; Arturo l’uomo disteso; c’è poi Gianluca il fumatore – che nel momento del suo battesimo, consuma gli ultimi tiri di sigaretta e in mano ne termina già un’altra – e infine Elio l’uomo che mi guarda attraverso le membrane.
Fuori dal finestrino le luci si susseguono rapsodicamente, mentre all’improvviso compaiono i primi cancelli ricoperti dai cespugli ribelli di Villa Gordiani. La loro apparizione presagisce la fine della corsa, ci siamo, dico – forse ad alta voce tant’è che tutti mi guardano, ma l’imbarazzo passa in fretta.
Gianluca, con in mano la seconda sigaretta, percorre il pezzo di autobus che ci divide. La sua figura è schizofrenica a causa delle lance di luce elettrica filtrate dai vetri opachi.
Ne vuoi? chiede.
Dico di no.
Lo lascio dietro di me con la sua paglia, per avvicinarmi alle porte. Colgo lo sguardo di Gilda che dal fondo del veicolo tira su col naso, mi osserva e poi ritorna a guardare fuori, sorniona. Prima che io possa scendere, riguardo la scena perturbante.
A parte il tentativo di approccio di Gianluca e gli occhi di Gilda, movimento che potrebbe essere anche di circostanza, il resto fa da sfondo: Arturo continua a dormire in quella sua posizione funambolica tra i quattro sedili, Elio non smette di tallonarmi con lo sguardo, nessun movimento delle mie membra gli è sfuggito.
Lui è il personaggio più inquietante di questo palcoscenico. La sua carnagione olivastra gli contorna gli occhi che sono neri, li vedo anche dal limitare dell’autobus, ma la percezione che si crea nella mia dimensione visiva restituisce un luccichio giallognolo che non so se dovuto ad un ingiallimento del cristallino o a un brillio ipogeo, quasi impercettibile. Il suo sguardo non mi ha mai lasciato, mi viene da credere che mi avesse già trafitto nel momento stesso in cui sono entrato all’interno del bus, nonostante la mole di corpi che ci separavano; anzi no, penso, era riuscito a farlo ancor prima del mio ingresso: quando aspettavo alla fermata ha allungato lo sguardo oltre le teste, superando il guidatore, seguendo le linee dei fanali, incurvandosi con i ghirigori del carapace cristallino della lumaca, salendo attraverso le linee della mia mano e i peli del mio braccio, zigzagando tra i brividi di freddo del mio petto, fin sopra, nelle valli concave delle mie orbite.
Cambio il suo nome, ora è lo Sciamano. Mi viene da credere che questo incontro sia la risultante di una sua divinazione e ciò mi procura la claustrofobica preoccupazione di una malandata prigionia. Ora lo capisco, ci è riuscito con l’ausilio delle chiocciole che adesso sono anche qui, in questo autobus che viaggia senza una destinazione avulso dalla limitazione del tempo, abitano tutte qui in verità – come avevo fatto a non vederle! – e strisciano pigramente: una è anche sulla bocca dello Sciamano, ma lui sembra non percepirla, o lascia che quell’essere molliccio gli inumidisca le labbra arricciate – che orrore! – la loro bava ha creato una rete di filamenti lattiginosi e brillanti, vie lattee smorte, bianche bisettrici che rigano lo spazio e i corpi per adagiarsi, dilatandolo, sul tempo. Penso con una dolce rassegnazione a questa allucinante cattività. Di questo si tratta alla fine, mi dico, mentre rimbalzo tra la strada e gli occhi paglierini dello sciamano: di una carcerazione. La fine di Villa Gordiani tarda ad arrivare e non arriverà.
Mi si stringe l’epiglottide, mentre con l’ultimo grammo di coscienza grido qualcosa al suo indirizzo, mi sento svenire. Forse è una bestemmia, o un epiteto, forse ancora il suo nome, quello dei suoi genitori. Ciò che so è che nell’ultima immagine che registrano i miei occhi lo vedo sorridere, soddisfatto. Nel mio buio vellutato mi scruta ancora, con attenzione.
*
Quando riapro gli occhi, fiamme elettriche si stagliano contro un cielo dalla colorazione incerta.
Percepisco un dolore diffuso sulla parte posteriore del cranio e nonostante questa sofferenza riesco ad alzarmi dall’asfalto ancorandomi al guardrail. Il mondo barcolla adesso sul suo asse e mi restituisce immagini disturbate, sporcate dalle luci alabastrine dell’aurora. Mi inserisco in questo quadro impressionista completamente imbevuto di vomito. Credo anche di avere del sangue nella parte bassa della testa, ma mi manca il coraggio di constatarlo.
Dall’altra parte della strada intanto un vecchio barbone dagli occhi paglierini e la carnagione olivastra mi fissa in modo insistente. Io alzo la mano in segno di rassicurazione, ma continua a guardarmi, mi pare abbia sorriso appena. I suoi occhi stranamente mi infondono un senso di quietanza.
Alzo il polso dolente e l’orologio segna le cinque del mattino, proprio come quella volta che finii nudo sul lungo Tevere a smaltire la sbronza. Ammetto a me stesso di provare un certo affetto per i mondi onirici che mi fa scoprire l’alcool.
Sull’asfalto intanto giace il pacchetto di sigarette chiaramente trafugato. Lungo l’involucro trasparente una lumaca sta lasciando la sua traccia bavosa, trainando questo guscio voluminoso dalle spire concentriche e bluastre. Sapere che qualcuno ci metterà più di me a tornare a casa cheta un debole principio di ansia, allora accendo l’ultima sigaretta lasciata misericordiosamente dal ladro, per coadiuvare l’effetto calmante, invece mi provoca una vibrazione convulsa di tutte le camere cerebrali. Allora vomito sulle rotaie del trenino che porta a Cento Celle pensando a Ila e Andre. Conscio di aver perso la scommessa, sto muovendo serenamente i primi passi indolenziti sulla Prenestina, svestita dalla sua notte.
Non li chiamerò.
*fotografia Mariasole Ariot
Da “Noi” di Alessandro Broggi
[Presentiamo alcuni estratti da Noi di Alessandro Broggi (Tic Edizioni, 2021, https://ticedizioni.com/collections/ultrachapbooks/products/noi-broggi), un diario di viaggio finzionale e meta-narrativo.]
di Alessandro Broggi
Pensiamo troppo in termini di storia, sia essa personale o universale. I cambiamenti appartengono alla geografia, sono orientamenti, direzioni, entrate e uscite.
(G. Deleuze)
Fly Mode: Gabbia azzurrina
La prospettiva del libro Fly Mode di Bernardo Pacini è assai singolare – non appartiene a un essere che definiremmo vivente nel senso più classico. A rivolgersi a noi è infatti un drone, che ha il vantaggio di poter ampliare la registrazione delle immagini, e lo svantaggio apparente di una mancata comprensione empatica della materia. L’occhio del drone allarga l’orizzonte, spaziando fra luoghi lontani ed esperienze private, riprese a distanza ravvicinata. Il suo abbraccio è cosmico e freddo, capace di portare conflitto, farsi strumento e osservatore di guerre come di restituire un evento intimo. Proprio la disumanità cognitiva del drone è la cifra più umana di questa poesia, come dimostra il poemetto scelto qui di seguito. Lo sguardo è pulito da ogni sentimentalismo, attraversa la nostra impossibilità a tradurci definitivamente in parole, ci rende gli autentici paradossi da cui siamo abitati: l’inconoscibile prossimità del tutto, il potere estraniante del dolore – duro, chiuso e integro nella sua presenza (FM).
di Bernardo Pacini
(in memoria di Ignazio Pacini)
… and read her in a mother’s farewell gaze.
(H. Crane)
I
Se (quando) riuscirà ad andarsene da quella gabbia azzurrina
verranno subito dal paese a sincerarsi che stia bene.
Precisamente addestrato, potrà solo mostrare
con la stessa padronanza della guida museale
quanto il taglio sia stato netto, geometrico.
Quando stavo lì, dirà, mia madre mi chiedeva sempre
di soffiare / qualche nota nell’oboe.
Io obbedivo. Spalpebravo appena, e obbedivo…
II
Accadeva nel mese di agosto, quando a valle
sbraitavano fisarmoniche alla sagra del paese.
La madre gli imponeva di scendere nella notte.
Aveva precisa indicazione: far alzare “δραστηρ” i volumi
cosicché lei potesse sentire meglio
e dall’alto del colle, danzare.
Rincasava con sbreghi sui polpacci
e buchi sui calcagni / per darle un dispiacere
le diceva «Sono felice di essere rimasto
per poco tempo
nello sguardo scomposto del tasso
che con me risaliva la macchia
di erica e lentisco.»
III
Non sa più contare le volte che è salita sul tetto
per vedere sognante la via delle martore in fuga.
Quando sente i passi della figlia sulla testa
il rumore delle tegole che cedono
si ferma qualsiasi cosa / stia facendo e osserva
vetrosa come una lampada spenta
lo spazio circostante.
Consulta l’oracolo di ciò che le capita davanti
sia esso un vaso o una testa d’alce
ancora integra nella sua custodia
di infelicità greca.
Non ha senso il suo impassibile disagio
ma è questo che ha insegnato a sua figlia
a osservare dall’alto ogni posto di gioia
a diffidare della morte, anche se sta
precisa in una scatola da scarpe.
IV
Dalle persiane socchiuse del finestrone
ricorda, intravvede la corte marcita della casa di sua madre
il fiocco azzurro scolorito
garrotato alla maniglia, la radio d’anteguerra
che trasmette per starnuti l’Erlkönig.
Er fasst ihn sicher, er hält ihn warm…
Ecco l’armadio, il piano verticale, indifferente
il tedio dell’Hanon mandato a memoria
acciaccatura
mancata per errore
terrore del-
la madre che urla da
dietro / la porta del bagno
invocazione inutile del nome:
morte del corpo / nel suo proprio corpo.
In seinen Armen das Kind war tot…
E bianca era la porta come / bianca era la morte.
V
Ecco, arriva il rombo quotidiano dei caccia
che spiana la valle
la fa traboccare.
Il maschio minore, per tutta risposta
chiude la faccia
immagina un fiume, ora che irrompe
bestiale la strage / sa bene che passa
se fissa in un punto lo sguardo
se lascia la mente si avvinca al cancello
le ossa degli occhi tritate e seccate nel muro.
Allenta la presa, è finita: riemerge.
C’è un fischio che sbosca il sentiero
il latrato dei cani si annida nel cavo uditivo
il vento si lancia demente sui lecci rachitici.
Ai tuoi occhi, mille anni sono come / il giorno di ieri che è passato…
Nel gelo, il mio ronzio
recide di netto
la salma inodore del cielo.
VI
Questa era la registrazione
della rinascita della rovina
di una donna
(dei suoi figli)
dei doppi vetri di una casa
sul fiume.
Che parlava del più
o parlava del meno, sapendo bene
che non era lo stesso. Ne parlava
spesso col muro, diceva che almeno
parlava con uno, al più
con nessuno. E se parlava del tempo
ne parlava col tempo
per non rinunciare
a un parere più esperto.
Quando si accorgeva di essere ripresa
parlava alla tenda
diceva / stai chiusa.
Testi tratti da: Bernardo Pacini, Fly Mode (Amos Edizioni, Collana A27, 2020)
Do you remember Ferlinghetti?
Quando Lawrence Ferlinghetti tradusse Pier Paolo Pasolini per City Lights
di
Francesco Chianese
A pagina 203 della City Light Pocket Poets Anthology, pubblicata nel 2015 per celebrare la fondazione della celebre collana che riunisce volumi di poesia selezionati personalmente da Lawrence Ferlinghetti, troviamo un testo che comincia in questo modo:
Sex, consolation for misery!
The whore is queen, her throne a ruin,
her land a piece of shitty field,
her sceptre a purse of red patent leather:
she barks in the night,
dirty and ferocious as an ancient mother:
she defends her possessions and her life.[1]
L’antologia riprende il formato tascabile della celebre serie dei City Lights Pocket Poets da cui hanno avuto avvio le pubblicazioni dell’editore City Light, fondato da Ferlinghetti contestualmente alla celebre libreria di San Francisco che porta questo nome e che da decenni è destinazione di pellegrinaggio per gli appassionati della cultura beat. Si tratta di elegante un volumetto cartonato di circa 300 pagine che raccoglie un paio di contributi da ognuno dei sessanta libretti pubblicati dalla serie fino al 2015. Introdotta da Pictures of the Gone World di Ferlinghetti stesso, la collana ha smesso di pubblicare nuove edizioni nel 2017, con il numero 61, intitolato appropriatamente Heaven Is All Goodbyes, di Tongo Eisen-Martin. Nata su ispirazione della celebre Poètes d’aujourd’hui, che Ferlinghetti aveva scoperto vivendo a lungo a Parigi prima di ricollocarsi a San Francisco, quella dei Pocket Poets è diventata rapidamente una collana di culto, toccando l’apice di successo e scandalo con il volume numero 4, contenente Howl & Other Poems di Allen Ginsberg, pubblicato nel 1956, che aveva reso City Light il maggiore editore indipendente americano. Parallelamente, nella libreria di Ferlinghetti avevano luogo i leggendari happening poetici di Ginsberg che avrebbero ispirato l’intera cultura antagonista formatasi nei due decenni successivi. L’estratto di cui sopra, proveniente dal volumetto 41 della serie, tuttavia non è di Ferlinghetti, né di Ginsberg, né di Jack Kerouac, di Gregory Corso o Diane di Prima, i nomi più ricorrenti nella serie, dedicata principalmente alla poesia beat, neppure di altri poeti americani che vi hanno pubblicato pur non essendo strettamente parte del gruppo, come Jack Hirshman o William Carlos Williams. In questo caso, l’autore è l’italianissimo Pier Paolo Pasolini. Letti nella traduzione inglese curata da Ferlinghetti stesso insieme a Francesca Valente, questi versi risuonano delle atmosfere irrequiete degli anni Cinquanta americani, vissuti nell’eccesso e nel desiderio di coglierne la “disperata vitalità”. La poesia di Pasolini però parla di altri anni Cinquanta, di altre inquietudini e di altri vicoli sporchi e oscuri, da cercare non nella metropoli americana ma nascosti dietro i marmi dei monumenti di Roma, nelle borgate dove si rifugiava il nuovo proletariato suburbano della capitale, che Pasolini aveva tanto amato. L’originale infatti recita:
Sesso, consolazione della miseria!
La puttana è una regina, il suo trono
è un rudere, la sua terra un pezzo
di merdoso prato, il suo scettro
una borsetta di vernice rossa:
abbaia nella notte, sporca e feroce
come un’antica madre: difende
il suo possesso e la sua vita.[2]
Nell’introduzione all’antologia, Ferlinghetti si è soffermato sulla possibilità di fornire una definizione aggiornata della letteratura di avanguardia, sovrapponendo il proprio punto di vista di poeta, editore e libraio in un unico piccolo manifesto istantaneo: “Even though some say that an avant-garde literature no longer exist, the smaller independent publisher is itself still a ture avant-garde, its place still out there, scouting the unknwown” (XV). Sul sito di City Lights, Ferlinghetti aggiunge:
From the beginning […] I had in mind rather an international, dissident, insurgent ferment. What has proved most fascinating are the continuing cross-currents and cross-fertilizations between poets widely separated by language or geography, from France to Germany to Italy to America North and South, East and West, coalescing in a truly supra-national poetic voice.[3]

Al di là delle intenzioni, i poeti stranieri della collana in proporzione non sono moltissimi: di origine italiana si segnala solo Antonio Porta, e tra gli altri, Vladimir Majakovskij e Julio Cortazar, tutti molto vicini alla sensibilità dell’autore, come nel caso di Pasolini. Inoltre, Ferlinghetti non ha tradotto molti poeti della collana: l’unico altro volumetto a cui si è dedicato personalmente è quello dedicato a Jacques Prévert, dal francese che è la prima lingua che Ferlinghetti ha imparato, crescendo in Europa. L’aspetto di privilegiare una sensibilità affine ha guidato anche la selezione di Ferlinghetti delle poesie di Pasolini da privilegiare nella sua traduzione. “Sesso, consolazione della miseria” fu pubblicata originariamente su La religione del mio tempo nel 1961, in una sezione intitolata “La ricchezza” che raccoglie poesie scritte tra il 1955 e il 1959. La raccolta contiene dunque testi cronologicamente allineati con la fase iniziale dell’esperienza dei beat, che coincide con un periodo in cui i contatti politici, economici e culturali tra Italia e Stati Uniti si stringevano sotto l’ombrello del Piano Marshall. Inoltre, Ferlinghetti e Pasolini sono stati praticamente coetanei – il primo è nato nel 1919 a Yonkers, New York, l’altro a Bologna nel 1922 – e da un punto di vista molto vicino cronologicamente, seppure a un oceano di distanza, negli anni Settanta hanno affrontato nella loro poesia e nella loro attività di intellettuali i cambiamenti prodotti da quella che Pasolini aveva definito “mutazione antropologica”, che Ferlinghetti ha ricondotto ai processi che stavano guidando la gentrificazione scellerata di San Francisco, in cui la comunità italiana andava progressivamente scomparendo. Uno degli aspetti più interessanti della personalità di Ferlinghetti è il suo rapporto con il nostro paese, con cui ha cercato spesso il dialogo, una scelta confermata dalla decisione di recuperare il cognome italiano di suo padre, originario di Brescia. Come Pasolini nelle sue poesie romane, in testi quali “The Old Italians Dying” (1976) Ferlinghetti ha espresso il suo rammarico per i valori, i riti, le tradizioni delle comunità italiane negli Stati Uniti, che erano stati importati nelle prime fasi della “grande migrazione” e che si sono progressivamente smarriti nel passaggio tra la prima generazione di immigrati e quelle più recenti e sempre più distanti dalla cultura del nostro paese, oggi spesso pienamente americanizzate. Portavoce di mondi che sbiadiscono, Ferlinghetti ha provato a immortalare queste ultime testimonianze per opporsi al loro oblio con la stessa intensità con cui ha continuato a contestare le radicali e repentine trasformazioni che interessano North Beach, in cui è sempre più raro poter ascoltare voci che si esprimono in italiano, se non quelle chiassose e scomposte dei turisti che lo attraversano spostandosi dalla celebrata Little Italy al Fisherman’s Warf. Un chiacchiericcio scomposto che ha preso il posto del melodico vocio degli umili pescatori e lavoratori, appartenuto a un’epoca in cui San Francisco è stata una città di avventurieri e di artisti, poeti e scrittori, di cui Ferlinghetti ha tradotto pensieri e parole in poesia per decenni.
Anche l’altro brano di Pasolini presente nell’antologia, “Serata romana” (in traduzione, “Roman night”), è tratto da La religione del mio tempo e appartiene alla medesima sezione. Nel volume 41 della City Lights Pocket Poets Series, pubblicato nel 1986 con il titolo di Roman Poems, i due testi fanno parte di una breve, ma ricca, antologia pasoliniana di cui un numero cospicuo di poesie è tratto dalla raccolta del 1961, ben sedici su ventisette. I rimanenti testi sono tratti da una selezione piuttosto eterogenea, pubblicati con gli originali a fronte e alternati a fotografie che ritraggono Pasolini e a una selezione di suoi disegni. Ferlinghetti e Valente includono poesie più classiche, quali “Il pianto della scavatrice”, limitata alla sua parte I, e “Quadri friulani”, da Le ceneri di Gramsci (1957); la celebre “Supplica a mia madre”, insieme a “La ricerca di una casa” e a una delle “poesie mondane”, “Lavoro tutto il giorno come un monaco”, da Poesia in forma di rosa (1964); a completare il quadro, un paio di componimenti più tardi, da Trasumanar e organizzar (1971), e una coppia di poesie in dialetto friulano della prima fase, nella loro redazione finale pubblicata in La nuova gioventù (1975). La scelta più interessante è tuttavia quella delle due poesie che Ferlinghetti e Valente hanno collocato in apertura del loro volume, tratte da Roma 1950 Diario (1960), non esattamente una delle più famose dell’autore. Apre il volumetto infatti “Adulto? Mai – mai, come l’esistenza”, riportata come “Diario” e tradotta come “Diary”, che potrebbe essere considerata equamente una manifestazione di poetica di Ferlinghetti e di Pasolini:
Adulto? Mai – mai, come l’esistenza
che non matura – resta sempre acerba,
di splendido giorno in splendido giorno –
io non posso che restare fedele
alla stupenda monotonia del mistero.
Ecco perché, nella felicità,
non mi sono abbandonato – ecco
perché nell’ansia delle mie colpe
non ho mai toccato un rimorso vero.
Pari, sempre pari con l’inespresso,
all’origine di quello che io sono.[4]
L’altro è “Chiusa la festa”. La traduzione di Ferlinghetti e Valente in entrambi i casi appare piuttosto fedele:
Grown up? Never – never -! Like existence itself
which never matures staying always green
from splendid day to splendid day –
I can only stay true
to the stupendous monotony of the mystery.
Thats’s why I’ve never abandoned happiness,
that’s why in the anxiety of my sins
I’ve never been touched by real remorse.
Equal, always equal, to the inexpressible
at the very source of what I am.[5]

Si provi a confrontare questi versi con un originale di Ferlinghetti, scelti tra i testi del suo classico A Coney Island of the Mind, per verificare quanto la visione poetica dei due autori è affine, soprattutto durante la prima fase degli anni Cinquanta:
I have not lain with beauty all my life
and lied with it as well
telling over to myself
how beauty never dies
but lies apart
among the aborigines
of art
and far above the battlefields
of love[6]
L’edizione dei Roman Poems si apre con una pagina di Alberto Moravia in difesa dell’amico e della sua poesia. Moravia è un autore molto conosciuto negli Stati Uniti, che ha visitato per la prima volta negli anni Trenta, e l’introduzione riprende la celebre orazione funebre pronunciata ai funerali dell’amico di una vita, che è in sé una difesa della poesia. L’assassinio del poeta è visto come un momento di spartiacque che introduce una benjaminiana perdita d’aura che riallinea l’Italia con un mondo ormai ridotto a prosa, di cui peraltro Pasolini aveva già intravisto gli esiti nell’evoluzione dei romanzi, del teatro e del cinema. Sulla morte di Pasolini, Ferlinghetti era intervenuto anche in un’intervista per L’unità del 2012, in cui anche la celebre orazione di Moravia:
Pochi giorni fa, il 2 novembre, è stato l’anniversario della morte di Pier Paolo Pasolini, secondo me il più grande poeta italiano del secondo Novecento, che ho avuto la fortuna di tradurre per City Lights, come il mio amico Jack Kerouac. Ricordo ancora il Festival di Castelporziano, nel 1979, a pochi metri dal luogo del delitto Pasolini. Credevamo di essere stati invitati a una riunione tra pochi intimi, e invece venimmo investiti da microfoni e telecamere che ci chiedevano della sua morte. Rispondemmo che era stato un delitto fascista, e Alberto Moravia, che pure era stato suo grande amico, come gli italiani ben sanno, in quell’occasione non ebbe lo stesso coraggio. Ecco, per me Pasolini è stato un poeta rivoluzionario e anarchico, nel senso che intendo.[7]
La City Lights Pocket Poets Anthology peraltro è uscita nel 2015, nello stesso periodo in cui si è celebrato il quarantesimo anniversario della morte di Pasolini, e la stessa antologia Roman Poems è stata rieditata nel 2005 per un’edizione che celebra il trentennio della morte dell’autore, in un periodo in cui Valente è stata direttore dell’Istituto di Cultura Italiana a Los Angeles, che ha contribuito alla riedizione del volume. In un’altra intervista, rilasciata a Massimo Gaggi per il Corriere della sera in occasione del suo centesimo compleanno, Ferlinghetti – dopo aver ribadito: “Don’t call me a Beat. I was never a Beat poet” – ha anche confermato la sua idea Pasolini come del più grande intellettuale del Ventesimo secolo.[8] La scomparsa di Ferlinghetti ci appare ancora più amara, sovrapponendola a quella tragica di Pasolini ma per contrasto anche all’atmosfera festosa che ha accolto la sovrapposizione tra l’uscita del suo ultimo romanzo Little Boy (2019) e la ricorrenza del suo centesimo compleanno. In quell’occasione mi ero trovato a scrivere un medaglione su di Ferlinghetti per la rivista Riviere, curata dal Centro Studi dedicato a Joseph Tusiani, che come Ferlinghetti ha descritto l’esperienza italoamericana in poesia, acquisendo entrambi lo status di Laureate Poet partendo da questo comune background. In tempi pre-pandemici, la città di San Francisco aveva organizzato numerosi eventi per festeggiare il suo poeta più amato e più rappresentativo. Ero tornato a San Francisco un paio di settimane prima del suo compleanno, e mi ero recato nella sua celebre libreria pregustando l’atmosfera: a North Beach non si parlava d’altro, tra i turisti del Caffè Trieste i pochi superstiti e vecchissimi frequentatori locali avevano subito pronta una storia sul loro vicino per chiunque volesse ascoltarli, magari pagando loro un espresso e un maritozzo alla crema. Oggi il poeta riceve l’estremo saluto del suo quartiere blindato dalle norme anti Covid-19 e con City Light che ripetutamente annuncia la possibilità di chiudere, come hanno già fatto alcune librerie americane celebri negli ultimi mesi. Sarebbe davvero una perdita inestimabile: anche se Ferlinghetti non era ormai coinvolto direttamente nella gestione della libreria da anni, la visione dei volumetti della Pocket Poet Series, distribuiti sugli scaffali, restituisce anche visivamente la vastità degli interessi dell’autore. Da studioso di Pasolini, alla mia prima visita di City Lights la presenza in bella vista del volume mi aveva molto sorpreso. È risaputo che Pasolini amava Ginsberg, che incontrò anche a New York e a Roma, e mi è venuto da chiedermi, chissà se si sarebbe mai aspettato di ritrovarsi un giorno esposto negli stessi locali dove negli anni Cinquanta il più celebre idolo beat si esibiva nei primi readings che lo resero una leggenda. Non conoscevo invece di questo interesse di Ferlinghetti per Pasolini, finché non mi sono recato a San Francisco e mi sono trovato i Roman Poems tra le mani, né avevo idea che Ferlinghetti avesse deciso di tradurre Pasolini di suo pugno. Ancora più sorprendente è stato riscontrare un interesse per la poesia di Pasolini in America, dove è considerato quasi esclusivamente un regista cinematografico, per quanto sia risaputo l’amore di Ferlinghetti per Dante, per entrambi un riferimento costante in poesia e nella rappresentazione della realtà:
Not like Dante
discovering a commedia
upon the slopes of heaven
I would paint a different kind
of Paradiso
in which the people would be naked
as they always are
in scenes like that
because it is supposed to be
a painting of their souls
but there would be no anxious angels telling them
how heaven is
the perfect picture of
a monarchy
and there would be no fires burning
in the hellish holes below
in which I might have stepped
nor any altars in the sky except
fountains of imagination.[9]
Sempre in prima linea nella poesia, come nella promozione della cultura e nell’attivismo politico e sociale, a cento anni come a venti, Ferlinghetti da squisito poeta e intellettuale ha anche accostato Pasolini a Dante, cogliendo una certa tradizione critica diffusa soprattutto nei dipartimenti italiani all’estero, che vede Pasolini come l’autore contemporaneo che più di frequente è messo a confronto con l’eredità di poeta e intellettuale del primo e più grande poeta italiano.[10]
Proprio in Pasolini dunque Ferlinghetti è sembrato trovare un’anima affine che incarnasse lo spirito beat ma conservasse anche quel suo amore genuino per la poesia che abbracciava anche la sua dimensione più tradizionale, qualcuno che condividesse anche una simile visione della sua origine italiana. I Roman Poems appaiono dunque un piccolo capolavoro in cui la poesia diventa un linguaggio comune che unisce due paesi separati dall’Oceano e riunisce le due comunità italiane che si sono riconfigurate guardandosi da lontano negli anni, mettendo in dialogo attraverso la traduzione due autori che in vita non si sono mai conosciuti. L’importante lavoro di poeta, traduttore, editore e libraio di Ferlinghetti inoltre sottrae la poesia di Pasolini all’oblio della ricezione internazionale che ha derubricato l’intera produzione dell’autore che non sia passata sullo schermo. Forse la parte più interessante che di Ferlinghetti ci rimane è proprio la sua libreria, in cui avventurandosi è possibile sentire risuonare nella mente celebri sue affermazioni quali: “As long as there is poetry, there will be an unknown; as long as there is an unknown there will be poetry. The function of the independent press (besides being essentially dissident) is still to discover, to find the new voices and give voice to them.”[11]
[1] Pier Paolo Pasolini, “Sex, Consolation for Misery”, in Lawrence Ferlinghetti (a cura di), City Light Pocket Poets Anthology, City Lights, San Francisco 2015, 203.
[2] Pier Paolo Pasolini, “Sesso, consolazione della miseria”, in Roman Poets, a cura di Ferlinghetti e Francesca Valente, City Lights, San Francisco 1986, 40.
[3] Dal sito dell’editore City Lights, in apertura al catalogo della collana Pocket Poets Series: http://www.citylights.com/collections/?Collection_ID=305
[4] Pier Paolo Pasolini, “Diario”, Roman Poets, cit., 2.
[5] Pier Paolo Pasolini, “Diary”, Roman Poets, cit., 3.
[6] Lawrence Ferlinghetti, “10”, A Coney Island of the Mind, New Direction, New York 1958, 23.
[7] Anonimo, “Morto Lawrence Ferlinghetti, simbolo della Beat Generation che tradusse le poesie di Pasolini”, 24 febbraio 2021, http://www.centrostudipierpaolopasolinicasarsa.it/notizie/morto-lawrence-ferlinghetti-leggenda-della-beat-generation-che-tradusse-in-inglese-le-poesie-di-pasolini/
[8] Massimo Gaggi, “Ferlinghetti: ‘Io mai stato Beat. Il più grande? Pasolini’”, https://www.corriere.it/19_marzo_16/lawrence-ferlinghetti-io-mai-stato-beat-piu-grande-pasolini-intervista-c473c5f4-4816-11e9-9178-69fe8668174c.shtml
[9] Lawrence Ferlinghetti, “13”, A Coney Island of the Mind, cit., 28.
[10] Il primo a occuparsi dell’eredità di Dante negli scrittori del Novecento italiano è Zygmunt Barański, “The Power of Influence. Aspects of Dante’s presence in Twentieth Century Italian Culture”, Strumenti critici, settembre 1986, pp. 343–76. Un discorso più ampio è in Manuele Gragnolati, Fabio Camilletti e Fabian Lampart (a cura di), Metamorphosing Dante: Appropriations, Manipulations and Rewritings in the Twentieth and Twentieth-First Centuries, Turia+Kant, Vienna e Berlino 2011. Per Dante e Pasolini, vedi Gragnolati, Amor che move: Linguaggio del corpo e forma del desiderio in Dante, Pasolini e Morante, Garzanti, Milano 2013; ed Emanuela Patti, Pasolini after Dante. The “Divine Mimesis” and the Politics of Representation, Legenda, Cambridge 2016.
[11] Dal sito di City Lights, in apertura al catalogo della collana Pocket Poets Series.
Versione in forma di favola di un innamoramento e del suo disincanto
di Andrea Breda Minello
Un giorno, un giovane falco- dalle sue alture inaccessibili- scorse una tartaruga in contemplazione del mondo. Passò due anni a scrutarla, a studiarla… Poi le si accostò e stette ad ascoltare i sogni e le utopie. La tartaruga, guardinga, temeva la presenza del falco, ma prevalse lo sguardo… Era stupita dalle attenzioni del giovane falco e attratta dalla sua connaturata malinconia, che sfociava in paura di affrontare l’esistenza.
La tartaruga, alla silente supplica del falco, decise di essere per lui un approdo sicuro. Un giorno, però, il falco dai picchi innevati, in cui dimorava, come se solo da lontano potesse davvero manifestare la verità, le sussurrò, le sussurrò, quasi bisbigliò: io ti amo… Sì, io ti amo, lo sai, non mi importa, potresti essere un bradipo, una foca, un’aquila, non mi importa, importi tu… La tartaruga- d’istinto- si ritrasse spaventata nel guscio… L’imprevisto la disorientava da sempre, da sempre aveva bisogno di tenere tutto sotto controllo. E ora? Un giovane falco aveva scardinato il suo mondo. Non osava mettere la testa fuori dal guscio, non osava guardarlo. Per la prima volta qualcuno le aveva dichiarato il suo amore. Sentì scricchiolare il carapace, indietro non si poteva tornare. Nulla sarebbe stato più uguale a prima. Una crepa, due… E la tartaruga lasciò che uno spiraglio accogliesse il falco. E il falco sostò e dimorò in lei. I due si amarono fino all’avvento della primavera.
*
Poi, all’arrivo della primavera, il falco fu catturato e addomesticato da un padre padrone che lo addestrò a rifiutare ogni offerta d’amore.
*
E la tartaruga rimase sola.
*
Ora, ogni tanto, accade senza più lacrime che la vegliarda creatura osservi il cielo in attesa di un segnale; sa che il giovane falco imperscrutabile getta talvolta dal nido il suo sguardo verso la terra. Si sente talvolta oggetto di attenzione, ma non comprende se lo sguardo dell’amato sia malinconia e rimorso per ciò che è stato o studio preparatorio all’indifferenza del mondo.
*
Pur non fidandosi più del suo prossimo, la tartaruga- non vista- allestisce una dimora per il suo ritorno.
La favola farà parte di un ciclo di venticinque racconti tematici sulla simbologia delle Rune.
*fotografia di Sebastião Salgado
Soglie/ Le gemelle della Valle dei Molini
di Antonella Bragagna
La più felice di tutte le vite è una solitudine affollata
(Voltaire)

Isabella Salerno è una mia vicina di casa, apre la porta e mi fa passare. Tiene al suo aspetto, per incontrarmi si veste e si trucca, si accomoda i capelli. Sente forte il suo ruolo, è testimone di cose che ancora si respirano, polveri invisibili sull’arredo intarsiato e sui giochi di altri tempi, le boccette del profumo e la tappezzeria. I colori degli ambienti sono tenui, e i pavimenti tirati a cera formano cornici e geometrie. Cristalli, lampadari preziosi. Candelieri. Il pianoforte a coda primeggia nel luminoso salone dalle porte profilate, affacci che introducono ad altri vani e alle camere da letto.
Scrivere sul disastro
di Bianca Notarianni

La chute de Babylone (tapisserie de l’Apocalypse)
Si può scrivere del disastro? Si può scrivere dopo il disastro – e, per farlo, come individuarne la fine, il prima e il poi che ne farebbero spartiacque? «Il disastro rovina tutto lasciando tutto immutato»[1], rifletteva Blanchot confrontandosi con la specificità della catastrofe: la frammentazione, una paradossale interruzione, sì, ma senza soluzione di continuità, che lascia anche la scrittura ad arrancare, nell’impossibilità di trovare un da qui in poi – hactenus – a cui agganciarsi, quasi a ripartire per mettere in ordine quel che il disastro ha sconvolto (o lasciato eguale). E il (nostro) disastro ancora accade, non cessa di accadere. Forse anche per questo “Riflessioni sulla pandemia” s’intitola l’ultimo numero di Aut Aut, la rivista filosofica fondata nel ’51 da Enzo Paci. Perché, se il disastro che è Covid-19 non può essere circoscritto, e se non può essere per questo inscritto, ce lo si può tuttavia raccontare l’un l’altro; le riflessioni, intersezioni, rifrazioni, saranno quali le facce di un cristallo, significando differenti modalità di lettura e interpretazione, gli urti di diverse sensibilità e ricezioni, o sempre nuove prospettive allergiche a una riduzione monologica: punti di vista anzi virtualmente inesauribili e inesausti – “questo numero è un primo tentativo di discutere le diverse dimensioni della pandemia” (p. 11), scrivono i curatori Dal Lago e Filippi, e “non mancheranno, anche su questa rivista, altre voci e altre diagnosi” (p. 12) -. Si rinuncia all’argine, come ad un raccordo, o all’accordo di toni in concerto: a dare pesante giudizio sull’odierna situazione, a padroneggiarne il pensiero, anche se questa urgentemente interroga proprio tutte quelle voci, diagnosi – riguarda tutti i punti di vista. Ancora con Blanchot, è «il disappunto del disastro: che non lascia fare il punto, l’appunto, al di fuori di ogni orientamento, nemmeno come disorientamento o semplice smarrimento»[2].
Eppure, se anche non ci è possibile fare il punto, cogliere un sunto, «abbiamo costantemente bisogno di dire (di pensare): mi è accaduto qualcosa (di molto importante)»[3]. L’imperativo di un confronto, la condivisa necessità della testimonianza: il disastro, ancora difficilmente valicabile nella sua estensione e nel suo impatto, va comunque raccontato. Da qui il bisogno di provare a dirlo, pronunciarlo, incanarlo in narrazione – anche se il virus, come nota Cimatti, coincide con il processo dell’infezione, della proliferazione, ed è dunque tanto più alieno alla nostra parola che lo sostantivizza, lo costringe e lo isola rispetto alle relazioni intessute. O da qui il bisogno perché il virus, come nota Cimatti, coincide con il processo dell’infezione: la sua reduplicazione in storia e narrazione si conferma comunicazione efficace di corpo in corpo, è ancora trasmissione – quel divenire e puro fluire che la natura (natura virale, natura tout court), semplicemente è, quale luogo d’incontri moltiplicazioni e contingenze. Stiamo tutti vivendo questo evento, ne vogliamo e possiamo tutti parlare: anche perché il virus ci somiglia, ricorda Filippi sulla scorta di Paul Virilio (p. 16). È il nostro incidente tecnico specifico: nessun aereo potrebbe precipitare se il sistema di trasporto fosse basato su treni a vapore e diligenze, né nessun treno a vapore potrebbe deragliare in assenza di linee ferroviarie e motori a combustione esterna. E, prosegue Filippi, forse quell’incidente tecnico che è la diffusione su scala mondiale di Sars-Cov-2 (pandemia che, è bene ricordare, è una zoonosi), ad altro non risponde e corrisponde, se non all’epocale dispiegamento di tecniche volte all’imbrigliamento e all’appropriazione di uno sterminato numero di vite non-umane. Il colpo di coda di quel serbatoio patogeno che sono gli allevamenti intensivi (luogo dove le incalcolabili vite si dimostrano, oltre ogni attesa, tutt’altro che inermi), a loro volta non tanto distanti da quell’altrettanto prolifica fucina del contagio che è la megalopoli ad alta densità demografica.
Era ancora il 2016 quando Ghosh, ne La Grande cecità, raccontava la forza dirompente e spaesante del cambiamento climatico nel suo disordinato e violento dispiegamento, e una certa incapacità del pensiero razionale e logocentrico di starle al passo – e, ancor prima, di comprenderla come reale interlocutrice, o di prenderla in parola. Laddove l’uomo (occidentale, borghese) si raccontava il mondo come struttura ordinata, ripartito entro coordinate spaziali e temporali ben puntuali, discrete, definite, ecco Gaia, invadente e irriverente, a scombinare le carte in tavola e squadernare ogni possibile egemone narrazione impostale. Ecco una natura che procede, di contro a pianificazioni e auspicabili aspettative, per salti – inanellando eventi prodigiosi, sfidando il buonsenso contemporaneo e manifestando, con scorno di calcoli, grafici e previsioni, il proprio alto grado di improbabilità. Oggi, ecco il virus che scavalca «l’abisso tracciato tra l’Umano e tutto il resto (o tutti i resti)» (Filippi, p. 19), mostrando la vicinanza ineliminabile tra il sapiens e gli altri corpi animali, che egli credeva tanto lontani, tanto diversi – per meglio servirsene, per meglio nutrirsene, forse se ne credeva estraneo e immune? -. Virus che palesa, ancora, un differente riguardo per vite la cui sofferenza è riconosciuta ed è quindi anche soccorsa, e vite non compiante, relegate all’invisibilità e all’indifferenza, punto cieco del campo visivo dello Stato neo-liberale (Fassin), resto zero del suo calcolo di convenienza. Si diceva che il disastro rovina tutto, lasciando tutto immutato; e in questa direzione o cul-de-sac procede anche Volpe – «il disastro non è più la catastrofe né l’apocalisse: non rivela niente, non produce niente al di là della devastazione stessa, non innesca nessuna dialettica della verità e della sua (ri)appropriazione» (p. 91) -: la pandemia non è svelamento, non è escatologica annunciazione, e al suo fondo il male non trova alcuna redenzione. Ma l’emergenza rende forse trasparenti squilibri strutturali che prima era possibile (o quantomeno, lo sembrava?) occultare: dà voce al disastro già annunciato, eppure imprevisto. Non le appartiene dunque, non le si oppone, né trionfo né gloria – il suo declino non promette in nuce ascesa. Lascia immutata, piuttosto, la rovina che già (ci) soggiaceva.
I curatori possono così scrivere, nella Premessa in testa al volume, che la pandemia «era forse prevedibile, ma è stata del tutto imprevista» (p. 8): figlia del secolo, espressione tautegorica di quel mondo che è il nostro, e del nostro modo di abitare. Il Nuovo Leviatano potrà dunque tentare il sempiterno gioco di arginamento della natura scatenata (Kulesko), il tracciamento del cerchio magico a protezione dall’ignoto infuriante, il pattugliamento di confini, la sua tacitazione e imbrigliamento. Qui l’Uomo, qui l’Animale: più nessun salto di specie, nessun concesso contatto tra sani e malati – cessata la contaminazione. Rimane il rischio, autoevidente in questa pretesa visibilità totale e asettica, dell’autoimmunità. Perché quella attuale era, ci si può dire, e si dice, retrospettivamente, una situazione sì inaspettata e improbabile (una genealogia delle epidemie, e delle paure dell’epidemia, è qui ben tracciata da Cosmacini), ma l’improbabilità altro non è che «una flessione» della probabilità «un gradiente in un continuum»[4], uno spettro del possibile. E se il nostro mondo è, con Thacker, impensabile in quanto scomposto e ricomposto da disastri su scala planetaria, condizioni meteorologiche anomale, mari impregnati di petrolio, resta pur il nudo fatto che, malgrado le loro fattezze non-umane, tali eventualità sono comunque provocate dall’umana azione nel suo concerto. «Sono un misterioso prodotto delle nostre stesse mani che ora torna a minacciarci, in forme e fogge impensabili»[5].
Il micro-organismo virale, che si moltiplica oltre la legge (la legge per noi), disloca l’umano sistema, ridisegna spazi, dissesta l’umano potere di programmazione e significazione; colpisce indiscriminatamente – ci avvicina tutti, denominatore che sì dilata l’in-comune su scala universale -, e infettando neutralizza anche l’autorità di un sapere definitivo e padrone (che si definisca universale, appunto). È un’irregolarità, che non ultimo «restituisce al morire la sua caratteristica di non lasciarsi cogliere, di non poter essere preso in considerazione (…). Esso scompare dalla statistiche che pretendono di conteggiarlo»[6]. Eppure, come si ricorda a più altezze e a più voci, non sfugge neanch’esso alla fagocitazione. Fagocitazione da parte dei media e della propaganda (Giordano), fagocitazione da parte del pensiero, che ne fa proprio simbolo, e che ancora ha modo di apporre un confine: ennesima fine della Storia, a misura della dismisura – sconfinando oltre la monografia, si potrebbe citare l’intervento di Watkins, in cui l’arte del pastiche vede inseguirsi, fino a dissolversi, il testo imitato e il testo imitatore, e con essi il concetto “forte” di autore, di contro alla gioia del divenire. Torniamo dunque all’inizio, o semplicemente a poco sopra, invertendo quella temporalità tutta moderna e che è freccia lanciata in irreversibile salita, tesaurizzazione e capitale progresso. Lasciamo un attimo da parte la corsa, il decorso e il crepuscolo. Torniamo alla necessità e all’urgenza di una riflessione che sia realmente tale – o che sia, di più, una rifrazione, dispersione senza saldo precipitato: vedremo così che «la storia non finisce, per il semplice motivo che non è mai esistita, per il semplice motivo che sono sempre esistite, ancorché occultate e invisibilizzate, infinite storie di infiniti mondi di infiniti “altri noi”» (p. 29). Vedremo allora (vediamo ora) che il nostro metodo, lungi dall’essere l’unico auspicabile, non era nemmeno l’unico possibile: che il racconto principe era piuttosto fondato sulla tacitazione di innumerevoli altre, ritenute seconde, voci. Altre storie e altri profili, che è più difficile, nel levarsi vorticoso del turbinio, mantenere a lungo invisibili e mute – altre versioni dei fatti, altre facce del cristallo, zone passate in ombra e messe a sistema, che si ritrovano rimescolate e il sistema rimescolano. Il disastro rovina tutto, lasciando tutto immutato: non ultimo quell’interlocuzione non-umana, in grado d’intervenire nei nostri processi di pensiero, ora ridimensionando, ora avallando l’antropico operato, e che è sempre (stata) capace d’influenza. Che chiede di riconoscere una connessione che già c’era, che ora innegabilmente e indissolubilmente c’è – e di riflettere, forse, su nuove storie da intrecciare assieme.
NOTE
[1] M. Blanchot, La scrittura del disastro (1980), tr. it. F. Sossi, Il saggiatore 2021, p. 7.
[2] ibid., p. 65.
[3] ibid., p. 17.
[4] A. Ghosh, La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile (2016), tr. it. A. Nadotti e N. Gobetti, Beat, 2020, p. 23.
[5] ibid., p. 40.
[6] M. Blanchot, La scrittura del disastro, op. cit., p. 109.
Se il plusmaterno ci rende cittadini-bambini: “Troppa famiglia fa male” di Laura Pigozzi

di Daniele Ruini
Ma proprio in quell’America tanto imitata e doppiata,
se un giovane continua a vivere nella cuccia familiare come gli italiani,
tutti i vicini lo considerano un povero minorato
(A. Arbasino, L’Anonimo lombardo)
Non è da tutti coniare neologismi in grado di imporsi per la loro forza concettuale: dobbiamo pertanto essere grati a Laura Pigozzi che, ideando la nozione di plusmaterno, ci ha aperto gli occhi su una dinamica che interessa sempre di più le nostre società.
Ma che cos’è il plusmaterno? Secondo Pigozzi –psicanalista lacaniana, insegnante di canto e penetrante indagatrice dei mondi della genitorialità e dell’adolescenza– sempre più famiglie sarebbero oggi contraddistinte da una pulsione claustrofilica: una tendenza alla chiusura e all’autoreferenzialità che porta molti genitori a concepire il nucleo famigliare come alternativo al sociale. Tuttavia, lo capiamo bene, una famiglia che si sostituisce completamente al collettivo rappresenta un modello tossico: quale educazione all’autonomia e all’apprezzamento della differenza potrà infatti mai prodursi nei figli di madri e padri iperprotettivi e spesso fin troppo presenti?
Si tratta di tematiche messe a fuoco in Mio figlio mi adora (nottetempo, 20192 [prima edizione del 2016]), un libro che ha fatto parlare molto di sé, attirandosi anche le critiche feroci di gruppi di mamme che si sono sentite punte nel vivo. Affrontando il tema dello straripamento del ruolo genitoriale, Laura Pigozzi ha infatti denunciato alcune derive che forse a molti sarà capitato di osservare: dall’esibizione spudorata della maternità (per esempio sui social), all’idea che il figlio sia una “proprietà” dei genitori; da figli usati quasi come antidepressivi da parte di madri e padri che sacrificano devotamente sé stessi (soddisfacendo così il proprio godimento narcisista e alimentando un pericoloso legame di dipendenza), al mancato riconoscimento –se non alla denigrazione vera e propria– del legittimo desiderio di non-maternità delle donne che decidono di non avere figli.
Quando insomma la Madre si sostituisce alla madre –posto che il plusmaterno può essere incarnato anche da un padre–, ecco allora che si produce un eccesso di cura che baratta il dovere educativo con l’ansia di controllo e con la paura di non essere amati: ma un affetto genitoriale prolungato ben oltre la fase infantile finirà inevitabilmente per impedire ai figli di staccarsi dai genitori ed iniziare il loro percorso di vita. La conseguenza sarà quella di (non) crescere persone bloccate in un’eterna adolescenza: come ha sintetizzato l’autrice, oggigiorno «molti figli si sentono insensibili e ingrati se tentano l’unico vero compito che ogni figlio deve assumere: separarsi e iniziare una nuova vita» (Mio figlio mi adora, p. 73).
Tali questioni sono al centro anche dell’ultimo saggio di Laura Pigozzi, Troppa famiglia fa male (Rizzoli, 2020). In questo libro viene in particolare esplicitata la dimensione politica della battaglia culturale contro la clausura famigliare (una battaglia ancora più stringente dopo l’ultimo anno pandemico); soffocare la prole di premure applicando una costante “pedagogia della stampella” ha infatti delle conseguenze nefaste per la collettività tutta: non solo perché produce una svalutazione delle occasioni educative esterne alla famiglia (dalla scuola alle relazioni autonomamente scelte dai bambini), ma anche perché crea individui inabili alla sfera sociale, non allenati all’esercizio del pensiero critico e più facilmente preda dell’obbedienza passiva e della fascinazione per il pensiero unico[1].
Pigozzi mostra chiaramente tutti i rischi anti-democratici di un amore genitoriale incapace di limiti: se quest’atteggiamento non fa che replicare l’esiziale tendenza del capitalismo ad offrire compulsivamente l’immediata soddisfazione di ogni bisogno saturando il desiderio, esso è anche l’anticamera del fanatismo. Il plusmaterno non produce infatti solo generazioni passive non in grado di «curarsi del proprio desiderio» (p. 150) e di impegnarsi per il collettivo, ma rappresenta anche la strada più facile verso l’assoggettamento conformistico all’Uno. Dunque, da «tradire sé stessi» (p. 150), venendo meno a quella che per Lacan è la prima responsabilità di ogni essere umano, a sottomettersi al fascino di chi vuole comandarci annullandoci nell’indifferenziazione della massa, il passo è breve.
Ora, in Italia non sono certo mancate interpretazioni psicanalitiche della seduzione che il Fascismo ha saputo esercitare su un popolo a cui veniva offerto un appagamento narcisistico di bisogni infantili: due capolavori come Eros e Priapo (1967; ma scritto negli anni ’44-’45) di Carlo Emilio Gadda e Amarcord (1973) di Federico Fellini condividono precisamente questa interpretazione del Ventennio. Come dichiarato dal Maestro di Rimini:
Ho l’impressione che fascismo e adolescenza continuino ad essere in una certa misura stagioni storiche permanenti della nostra vita. L’adolescenza, della nostra vita individuale; il fascismo, di quella nazionale. Questo restare, cioè, eternamente bambini, scaricare le responsabilità sugli altri, vivere con la confortante sensazione che c’è qualcuno che pensa per te[2].
Alla tradizionale lettura di questa regressione come sottomissione alla figura fallica del Padre-padrone Laura Pigozzi ne sostituisce un’altra: a suo avviso, «il leader che pretende fedeltà non sta affatto nella posizione del padre regolatore, ma nell’assolutezza senza freni della plusmadre» (Troppa famiglia fa male, p. 174). L’incantesimo che, cullandoci, rischia di trascinare il singolo verso la posizione passiva dell’assoggettato assomiglia dunque all’abbraccio mefitico di una Madre soffocante:
Il totalitarismo, allora, più che conforme al patriarcato come si è soliti pensare, si rivela essere, anche sul piano inconscio e non solo su quello della storia contemporanea, la ripresentazione terrificante e fantasmatica dell’onnipotenza della madre originaria e primitiva. […] Il dittatore, dunque, non è una reincarnazione del padre cattivo, ma la riproposizione della potenza della madre primitiva, che decide della vita e della morte e che viene amata in modo assoluto, indipendentemente dai suoi meriti, anzi, nonostante possa presentare gravi demeriti» (Troppa famiglia fa male, p. 215)[3]
Se dietro ogni dittatore s’intravede una madre che «chiede obbedienza assoluta e assoluto amore» (Troppa famiglia fa male, p. 213), non possiamo non allarmarci per la deriva plusmaterna che Laura Pigozzi vede in opera in molte famiglie (non solo italiane). Così come non possiamo che accogliere l’invito all’assunzione di responsabilità da parte di adulti che spesso si sottraggono a quel Vuoto con cui ogni vita deve confrontarsi.
Se «il modo in cui ci si prende cura di un bambino in famiglia è politico» (p. 131), è chiaro che da lì passa la tenuta della nostra democrazia (la quale –ci ricorda ancora Pigozzi– «è faticosissima da tenere, mentre scivolare nel totalitarismo, nel populismo, nella fiduciosa obbedienza dell’infante, sembra facile, senza sforzo»: p. 224): chissà che, assumendo questa consapevolezza, non riusciremo anche a fare finalmente i conti con la nostra storia.
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[1] Sul legame tra una sempre più diffusa passività studentesca (purtroppo spesso favorita dalla scuola stessa) e il venir meno nelle generazioni più giovani di ogni forma di contestazione della famiglia di origine si vedano le interessanti riflessioni di Eleonora de Conciliis in Che cosa significa insegnare? (Cronopio, 2014). L’autrice sottolinea la difficoltà da parte dell’adolescente di oggi ad identificarsi «come soggetto autonomo al di là del nucleo familiare o in opposizione ai suoi valori», essendo incapace «di comprendere i limiti socioculturali di tale nucleo, vissuto anzi da molti come rifugio sociale» (p. 83).
[2] Il film «Amarcord» di Federico Fellini, a cura di G. Angelucci e L. Betti, Bologna, Cappelli, 1974., p. 102 (poi in F. Fellini, Fare un film, Torino, Einaudi, 1980, p. 155). Significativamente in Amarcord la sequenza della visita del federale fascista e della parata viene subito dopo una scena adolescenziale di masturbazione collettiva.
[3] Parole simili sono state usate recentemente da Pietro Del Soldà (in una riflessione intorno a Il gesto di Caino di Massimo Recalcati, Einaudi, 2020): «il rapporto possessivo tra la madre e il figlio è in fondo l’archetipo d’ogni tentativo di declinare il rapporto d’amore come la fusione del due in uno. E più in generale di reagire al mondo minaccioso, sempre più incontrollabile e incomprensibile, chiudendosi a riccio. Questo cerchiamo di fare, sul piano dell’esperienza individuale, immergendoci nel sentimento amoroso quasi a cancellare ogni traccia dell’esterno. Ma questo, in fondo, è anche l’obiettivo dei progetti politici identitari, fondati sulla promessa di esercitare la piena sovranità e un controllo totale del “nostro” territorio, resistendo alla minacciosa invasione di chi incarna la differenza» (Pietro Del Soldà, Quando la fratellanza finisce nel sangue, «Domenica, IlSole24ore», 22/11/2020, p. XI).
Reading Natalia Ginzburg
[La rivista “Reading in Translation” ha dedicato un numero speciale a Natalia Ginzburg, a cura di Stiliana Milkova. Con grande piacere pubblico l’introduzione e l’indice del numero. a.r.]
Editor’s Introduction
Stiliana Milkova
Natalia Ginzburg (1916-1991) was an Italian writer, translator, playwright, and essayist. She worked as an editor at Italy’s premier publishing house Einaudi, alongside authors such as Cesare Pavese and Italo Calvino. She was at the center of Italy’s flourishing post-war cultural industry, and in 1963 her novel Family Lexicon won the most prestigious Italian prize for literature, the Premio Strega. Her works include novels, collections of short stories and essays, plays, and literary criticism. She translated Flaubert and Proust.
Her life was difficult, but she sublimated hardship into superb writing. She grew up in Turin, the fifth child of the renowned Jewish professor Giuseppe Levi and his Catholic wife Lidia Tanzi. Natalia lived through the horrors of fascist Italy and the anti-racial laws. In 1940 she accompanied her husband, the anti-fascist political activist and the co-founder of Einaudi Leone Ginzburg on his internal exile. And in 1944, shortly after she followed him to Rome with their three children, Leone was tortured and murdered in a Roman prison. They had been married for six years.
She established herself as one of the most revered 20th-century writers, crafting a lucid, dispassionate voice that narrates war, exile, abandonment, disillusionment, resignation, apathy, and death through the intimate—and often oblique—perspectives of marginalized figures. She weaves autobiography, fiction, and non-fiction into new literary forms that defy the borders of genre. Today, thirty years after her death, her writing is more relevant than ever, as the geopolitics of war and violence and the hypervisibility of suffering, death, and disease are reshaping both literature and our relationship with reality.
This special issue “Reading Natalia Ginzburg” responds to the renewed interest in her writing in the Anglophone world and posits that Ginzburg’s texts capture many of our own struggles today. As Katrin Wehling-Giorgi comments it in her contribution:
Re-reading her works in the midst of this devastating pandemic, I can newly relate to the rawness that stands out amidst the everyday in her writings, to the acute presence of trauma in the face of personal and collective hardship, and to the material constraints of family commitments in the intellectual and practical life of women that she relates so compellingly.
Or, as Natalia Ginzburg puts it in her essay “Silence,” and as the global Covid-19 pandemic has shown, “Today, as never before, the fates of men are so intimately linked to one another that a disaster for one is a disaster for everybody.”
“Reading Natalia Ginzburg” introduces the general reader to Ginzburg’s life and writing; it explores the texts, voices, bodies, and spaces that define her style and subject matter; and highlights the work of her translators. It constructs an accessible scaffolding with multiple points of view and multiple points of entry.
Part I, “The Examined Life: Natalia Ginzburg’s Life and Works,” outlines the framework for approaching Ginzburg’s biography and literary production. Lynne Sharon Schwartz’s preface to her translation of Ginzburg’s collection of essays A Place to Live presents Ginzburg the essayist. The contributions that follow—by Andrew Martino and Chloe Garcia Roberts—dwell on Ginzburg’s essays and the lessons they teach us. Jeanne Bonner discusses the paradoxes of Ginzburg’s narratives and their representation of loneliness and loss. Concluding this part are two significant pieces: an excerpt from Sandra Petrignani’s recent biography of Natalia Ginzburg, La corsara, in Minna Zallman Proctor’s translation—an excerpt that depicts Natalia’s life around the time she met and married Leone; and an interview with Sandra Petrignani herself.
Part II, “A Poetics of the Real: Natalia Ginzburg’s Voices, Bodies, and Spaces,” explores in more depth Ginzburg’s unique style. Katrin Wehling-Giorgi discusses the forging of Ginzburg’s female voice out of real and existential exile, both as a Jew and as a woman operating in what was still a deeply patriarchal culture. Serena Todesco listens attentively to Natalia’s recorded voice whose aural presence lends a key to reading her works, offering an insight into her inner world and poetics, and constituting a means of resistance. Enrica Maria Ferrara’s contribution sheds light on Ginzburg’s representation of queer identity in the novella Valentino and argues for the text’s intersectional feminism avant la lettre. Italo Calvino’s essay “Natalia Ginzburg or the Possibilities of the Bourgeois Novel,” appearing in English for the first time, articulates crucial components of Ginzburg’s singular style. In the closing essay Roberto Carretta maps and then meditates on the topography underpinning Ginzburg’s gaze—Turin’s real and metaphysical cityscape.
Part III, “The Words Become New: Translators on Ginzburg / Ginzburg on Translation,” foregrounds the role of translators in making Ginzburg’s works accessible in the Anglophone world. In analyzing Voices in the Evening, Eric Gudas makes a compelling argument for the novel’s urgent re-translation. Minna Zallman Proctor reflects on translating Ginzburg’s novel Caro Michele while Jenny McPhee converses with Eric Gudas about translating Ginzburg’s humor and eccentricity in Family Lexicon. Natalia Ginzburg was a translator herself and thus Part III concludes with her remarkable translation manifesto published in English for the first time—her translator’s note to Madame Bovary. Minna Zallman Proctor’s skillful translation of Ginzburg on translation displays Ginzburg’s skills as an essayist and brings us back full circle to Part I.
The three parts of “Reading Natalia Ginzburg” that I have outlined here are in fact interconnected, each illuminating aspects of the other two, presenting a view at once panoramic and up-close.
This special issue would not have come into existence had it not been for Eric Gudas’s astute eye and profound knowledge of Natalia Ginzburg’s works. I am grateful to all the contributors for their time, immense expertise, and enthusiasm. “Reading Natalia Ginzburg” gives space to voices that are diverse and deep, moved by respect and passion.
Stiliana Milkova, Editor
L’Anno del Fuoco Segreto: Il Ciclo della Carne
La descrizione del progetto L’Anno del Fuoco Segreto, si può leggere QUI.

di Andrea Cassini
Il giorno prima di partire il ragazzo chiamato cerbiatto bevve il sangue dei padri, poiché lo avrebbe reso forte per il viaggio. I padri si strinsero il gomito con un laccio, si fecero un taglio sulla spalla con un coltello d’osso e lasciarono sgorgare il sangue in una ciotola d’argilla. Il ragazzo lo bevve una volta al mattino, una seconda volta al pomeriggio quand’era diventato come caglio di capra e una terza volta alla sera quand’era diventato come burro di capra. I padri staccarono il sangue dalla ciotola con il coltello e lui dovette masticarlo. Dopo che l’ebbe mandato giù i padri gli strinsero la gola, poiché se lo avesse vomitato non gli sarebbero mai spuntate le corna degli adulti. Nella steppa faceva notte presto, il sole cadeva di colpo dietro le montagne in lontananza, e le montagne erano una corona chiusa sugli otto punti dell’orizzonte. Prima di rientrare nella tenda i padri si misero in fila davanti al ragazzo, si tolsero l’alto cappello e gli mostrarono i palchi di corna, affilati e muschiati. “Adesso, diventerai più che uomo” gli dissero. “E quando tornerai sarai più che uomo e più che donna. Avrai le tue corna, come noi, oppure sarai diventato parte del ciclo della carne e vivrai nella pancia dell’orso”. La madre era l’unica donna del villaggio. Parlò da una bocca senza denti che sembrava una delle tante rughe del suo viso asciutto, profonde come il letto di un ghiacciaio. “Vieni”, gli disse. I padri spogliarono il ragazzo, lo fecero sdraiare e gli afferrarono il pene per tenerlo dritto. In due lo tenevano per le spalle, in due lo tenevano per i piedi e uno gli offrì un panno da mordere, poiché se si fosse mosso durante il taglio non gli sarebbero mai spuntate le corna degli adulti. Poi la madre prese un coltello di pietra, infilò la punta nell’occhio che è sulla testa del pene e allargò la fessura verso il basso. Dalla ferita sgorgò un liquido rosso, bianco, giallo e trasparente. I padri gli tolsero il panno dalla bocca e vi avvolsero il pene. La madre sotterrò il coltello tra la sabbia, raccolse un bastone più alto di lei e si strinse la testa nel velo. “Ora sei più che uomo” disse. “Io andrò a ovest della luna a cercare il pezzo che ancora manca alla tua anima. Tu andrai a est del sole a cercare il pezzo che ancora manca al tuo corpo”. E s’incamminò nella notte finché non scomparve a ovest sotto l’ombra gialla della luna piena, nella radura dove gli anziani andavano a morire per restituire il corpo a corvi e avvoltoi tornando nel ciclo della carne. Là c’erano anche le carcasse degli animali di ferro, ma nessuno tranne la madre osava toccarle perché il ciclo del ferro era diverso dal ciclo della carne. Il ragazzo chiamato cerbiatto entrò nella tenda. Quella notte non dormì e non sognò, ma bagnò di sudore e urina la lana di pecora e rivide i disegni quadrati sugli abiti dei padri che fiorivano e ruotavano come ottanta spirali di ottanta colori. Contò l’ululato di ogni lupo, il canto di ogni grillo, il fischio di ogni marmotta, il gemito di ogni padre che faceva l’amore. All’alba i padri gli rasarono la testa e con un pezzo di carbone ancora caldo gli disegnarono sulla nuca una seconda faccia, e poi una terza faccia dietro al ginocchio sinistro e una quarta faccia dietro al ginocchio destro. “Quando seguirai le tracce del lupo e dell’orso, il lupo e l’orso seguiranno le tue” gli dissero. “Adesso, sapranno che li stai guardando”. Poi gli legarono una cintura sul petto e in un occhiello al centro della cintura, all’altezza del cuore, sistemarono un pugnale che era prezioso e raro, poiché la madre l’aveva fatto con le carcasse degli animali di ferro sparse intorno al villaggio. “Quando incontrerai l’orso fra le montagne lo abbraccerai” gli dissero. “E così facendo lo ucciderai e lo porterai con te nel ciclo della carne”.
Il ragazzo chiamato cerbiatto partì verso est. Si voltò una sola volta verso il villaggio, e vide che le tende erano ondulate proprio come le colline di sabbia azzurra retrostanti, e proprio come le dune di nuvole nel cielo bianco. Non si voltò una seconda volta, poiché altrimenti non gli sarebbero mai spuntate le corna degli adulti. Camminò verso est cantando una canzone triste.
Il primo giorno il ragazzo chiamato cerbiatto seguì la bussola del vento che piegava i fili d’erba per trovare la strada nella steppa. Dopo che ebbe molto camminato, le cime delle montagne apparvero sopra la foschia. Il cielo, che era il maggiore dei suoi padri, le faceva scintillare bianche di neve sotto il sole del pomeriggio. La terra, che era l’unica sua madre, lo accompagnava sistemando salite e discese sotto i suoi sandali. Quando il vento smise di soffiare il ragazzo smarrì la strada, poiché le montagne adesso erano una corona ininterrotta sugli otto punti dell’orizzonte e lui era al centro del circo. Un branco di cavalli giunse galoppando. I forti steli d’erba si piegavano sotto gli zoccoli e poi si rialzavano. Un maschio dal manto bruno e dai crini neri drizzò il collo e la coda, fermò i compagni e gli venne vicino. Studiò con occhi attenti le quattro facce del ragazzo, i germogli di corna sulla testa, il panno odoroso avvolto intorno ai fianchi, il pugnale appuntato sul petto. “Conosco i tuoi padri” disse il cavallo. “Vieni con noi, così ti mostrerò la strada per le montagne”.
Il branco ripartì al galoppo e il ragazzo gli andò dietro. Corse più forte che poteva, in fondo alla carovana insieme ai puledri nervosi e alle severe giumente. Poi giunsero a un punto in cui l’erba era gialla, e più avanti i prati erano nudi. C’era un’alta torre all’orizzonte, più vicina delle montagne. “Oltre, noi non ci spingiamo” gli disse il cavallo bruno. “Ma ti lascerò una parte di me, poiché tu possa trovare da solo la strada attraverso le montagne, finché non sarai arrivato così lontano a est che vedrai il sole sorgere a occidente. Con questa potrai fiutare l’odore del vento. Bada però di resistere alle tentazioni: qui, più avanti, c’è la piramide dei saggi”. Detto questo, il cavallo gli lasciò strappare un ciuffo di crini dalla coda nera. Il ragazzo si tolse il panno dai fianchi e intinse i crini nel taglio sul pene, come gli avevano insegnato i padri, e il sangue rosso, bianco, giallo e trasparente gli servì da pece per attaccarsi una coda di cavallo in fondo alla schiena. Nell’aria spenta del pomeriggio, ora poteva divaricare le narici e fiutare l’odore del vento. Proseguì verso est tra l’erba secca finché non fu notte.
Il secondo giorno il ragazzo chiamato cerbiatto camminò fino a un campo dove la terra era rossa e le radici delle piante morte gettavano la testa fuori. Aveva dormito sotto le stelle e conversato con la luna. All’alba il vento aveva smesso di soffiare. C’era una lingua di pietra, levigata e bordata da linee bianche, che correva dritta verso la piramide dei saggi, e la piramide dei saggi era in realtà un palo alto ottanta volte ottanta uomini. Aveva uno scheletro di ferro e tavole di specchio che riflettevano la luce del sole, e alcune di quelle tavole erano rotte come si rompevano talvolta i piatti d’argilla. Ai piedi della piramide il ragazzo non vide i saggi, ma ottanta uomini vestiti con abiti neri e stretti. Vide anche che quegli uomini non erano come i suoi padri, poiché non avevano corna di cervo. Tra le mani tenevano bastoni di ferro dalla lunga canna. Il ragazzo chiamato cerbiatto non andò alla piramide dei saggi e quando si voltò a est il vento tornò a soffiare e gli disse che quella era la direzione giusta. Più avanti c’era una boscaglia polverosa dove la terra era gialla e odorosa delle spighe delle tamerici. Non c’era altro sentiero che quello che il ragazzo disegnava con i sandali, e il sentiero saliva tra arbusti spinosi e unghie di roccia larghe come otto uomini. Il cielo era sceso sopra le montagne ed era diventato viola, e di tanto in tanto lampeggiava come se dietro al velo il sole e la luna stessero lottando. Quando caddero i fulmini il ragazzo capì che il padre cielo era furioso con lui perché si era attardato presso la piramide dei saggi, allora non si rannicchiò sotto gli arbusti della boscaglia per ripararsi dai fulmini e non si coprì le orecchie con le mani per non udire i tuoni. Quando venne la pioggia il ragazzo restò fermo e si lasciò bagnare, poi aprì la bocca poiché bevendo quell’acqua sarebbe stato perdonato. Quando finì la pioggia vide che il sentiero dei suoi sandali non c’era più, ma c’era tra la polvere una traccia d’acqua che come un piccolo fiume gli raccontava qual era la discesa e quale la salita. Lo seguì camminando a fianco di una colonna di formiche, finché le formiche non scesero da una porta nascosta sotto un sasso. In quel punto della boscaglia gli arbusti erano diventati più radi e le rocce più fitte. C’era un altro sentiero fatto da impronte di lupo e il ragazzo le seguì con passo di serpente fra i sassi e i cespugli, pensando che il lupo lo avrebbe sfamato condividendo con lui la preda come un fratello, poiché il lupo e l’uomo erano gli unici animali che pregavano il padre cielo. Drizzò la coda di cavallo, annusò l’odore della pioggia e delle bacche di caprifoglio e si strinse i sandali per non affondare nella terra bagnata. Quando il suolo si fece pietroso smarrì il sentiero delle impronte, allora cercò ramoscelli spezzati e ciuffi di pelo rubati dalle spine di rosa canina, e quando non vide più nemmeno quelli si chiese cosa avrebbe pensato il lupo a quel crocevia, quale fra le ottanta strade avrebbe scelto, e quando si fu risposto vide una coda sventolare come una bandiera e infilarsi sotto l’ombra di una macchia di pioppi, e la seguì. Aveva però smarrito l’est. Entrò nella macchia di pioppi che era giorno e vi uscì che era notte, toccò ogni tronco e scalzò ogni radice, ma non trovò il lupo. Girò tutto intorno al cerchio d’alberi ma nemmeno lì trovo il lupo. Quando il ragazzo alzò gli occhi a guardare la montagna che si sbriciolava a precipizio sulla boscaglia, il lupo uscì dalla macchia di pioppi con un fruscio. “Quando non riesci a trovare il lupo che stai cercando”, gli disse il lupo, “guardati alle spalle e lo troverai lì, poiché il cacciatore sa come nascondersi nella stessa pista di chi lo bracca. Ma tu, ragazzo cerbiatto, conosci uno strano sortilegio: credevo di averti sorpreso alle spalle, eppure ecco che mi guardi negli occhi con la tua seconda faccia sulla nuca, la terza faccia sul ginocchio destro e la quarta faccia sul ginocchio sinistro. Ti lascerò una parte di me, dunque, poiché ci siamo scoperti a vicenda. Con queste potrai udire il suono del vento e troverai da solo la strada attraverso le montagne, finché non sarai arrivato così lontano a est che vedrai il sole sorgere a occidente”. Detto questo il lupo gli donò le sue orecchie, lunghe e dritte. Il ragazzo si tolse il panno dai fianchi e vide che il taglio sul pene si era richiuso. Allora riaprì la crosta incidendola con il pugnale di ferro che portava sul petto, intinse le orecchie nella ferita, come gli avevano insegnato i padri, e il sangue rosso, bianco, giallo e trasparente gli servì da pece per attaccarsi le orecchie di lupo ai lati della testa. Subito udì il respiro del sole che riposava sotto l’orizzonte, e le voci di ottanta e ancora ottanta uccelli che cantavano sulle colline, dietro il catino muto delle montagne di sabbia. Ora poteva udire il suono del vento. Quella notte il lupo e il ragazzo pregarono insieme il padre cielo, il lupo ululando e il ragazzo cantando una canzone triste.
Il terzo giorno il ragazzo chiamato cerbiatto camminò fino a un cimitero di ferro. C’erano carcasse come quelle abbandonate a ovest del suo villaggio, ma molte di più e annerite dal fuoco, e dietro quelle carcasse c’era un recinto anch’esso di ferro ma arrugginito, e dietro quel recinto un cubo di pietra grigia, liscia come la strada che portava alla piramide. Tra il recinto e le carcasse di ferro c’erano barili a forma di cilindro. Avevano tutti un disegno giallo con tre triangoli. Alcuni erano pesanti e stavano fermi, sdraiati o ritti in piedi. Altri erano vuoti e rotolavano al vento. Lì la pianura era incassata, come se la terra stesse sprofondando, e la terra era bruciata come se vi fosse piovuto un masso dal cielo. Dentro una di quelle carcasse di ferro il ragazzo vide due cuccioli di lupo che giocavano rincorrendosi la coda e mordendosi la collottola. Scambiò uno sguardo con i loro occhi gialli e piegò le sue nuove orecchie di lupo. Poi andò avanti. Il suono del vento gli diceva che l’est era proprio là, oltre la pianura morta e silenziosa, verso le montagne dove avrebbe trovato l’orso e guadagnato le corna da adulto.
La strada saliva erta e a fare da guardiani alle montagne c’erano colline verdi di tanti alberi di cui non conosceva il nome. Ciascun albero gli parlava con una voce diversa, ma la loro lingua era lenta e il ragazzo chiamato cerbiatto aveva fretta di diventare uomo. Seguì allora la voce del corvo, che volava sopra gli alberi e gli diceva: “Vieni! È qui la strada”. Il ragazzo si aprì un sentiero tra i rami bassi, sempre salendo, e dopo il suo passaggio le felci piegavano la testa a coprire di nuovo la via. L’aria era bagnata e scura, le pigne scricchiolavano sotto i suoi piedi e profumavano come balsamo. Ogni volta che il ragazzo alzava gli occhi vedeva la sagoma nera del corvo sul cielo giallo del pomeriggio, che ancora diceva: “Vieni, vieni! È qui la strada”. Il ragazzo lo ringraziò e proseguì, finché non udì il fruscio del predatore fra gli alberi. “Eccolo, eccolo!” disse il corvo, e il ragazzo ringraziò di nuovo il gentile corvo che lo avvisava del pericolo. Si guardò intorno ma il predatore fu più veloce. Era una tigre bianca e nera, dalle zampe forti e i lunghi baffi. Il ragazzo si lasciò cadere sul tappeto di foglie e quando la tigre lo abbracciò per mangiarlo, il pugnale che portava sopra il cuore, stretto alla cintura, la punse sul petto. La tigre balzò indietro e si accucciò tra le foglie, bagnando la terra con una pozza di sangue viola. “Tu sei la preda che uccide il predatore” gli disse, e aveva una voce roca e bassa. “Tuttavia ti lascerò una parte di me, perché mi hai battuto con astuzia. Io volevo mangiare il tuo cuore, ma il tuo cuore era più affilato dei miei denti. A te lascerò la mia pelliccia, affinché tu possa sentire sulla pelle la forma del vento. E al nobile corvo, che mi ha guidato fino a te, permetterò volentieri di mangiarmi, quando sarò morta, affinché io possa tornare nel ciclo della carne”.
Il ragazzo si rialzò e il corvo atterrò lì vicino. Attese che la tigre fosse morta, poi rannicchiò le ali e cominciò a beccarla sul cranio e dentro gli occhi finché non si fu scavato una via per il cervello. “Grazie, gentile corvo, per avermi guidato e avvertito del pericolo” disse il ragazzo, mentre il corvo pasteggiava. “Tu credevi che io ti guidassi e che ti abbia avvertito del pericolo” disse il corvo, “ma in verità indicavo alla tigre la strada migliore per raggiungerti e l’avvisavo che ti era giunta vicina, poiché io mangio ciò che avanza ai predatori. Questo è il mio posto nel ciclo della carne. Tu sei più che uomo ma non sei ancora più che donna, e ancora non hai un tuo posto nel ciclo della carne; lo vedo da quelle piccole corna da cerbiatto. Ti lascerò una parte di me, affinché tu possa trovare il tuo posto. Con queste potrai vedere il colore del vento e trovare da solo la strada attraverso le montagne, finché non sarai arrivato così lontano a est che vedrai il sole sorgere a occidente”. Detto questo, si strappò un mazzetto di penne nere dalla coda e le offrì al ragazzo tenendole nel becco. Il ragazzo chiamato cerbiatto le accettò, poi ringraziò la tigre e le tolse la pelliccia bianca e nera con il pugnale, che era macchiato del suo sangue e di quello della tigre. Infine si tolse il panno dai fianchi e intinse le penne e la pelliccia nel taglio sul pene, come gli avevano insegnato i padri, e il sangue rosso, bianco, giallo e trasparente gli servì da pece per attaccarsi il mazzetto di penne sulle braccia, come se fossero ali, e per tenersi la pelliccia stretta al corpo. Si arrampicò sull’albero più alto e quando fu in cima il giorno era già notte. Da lassù vide il colore del vento e sentì la sua forma. C’erano riccioli d’aria che si avvitavano e poi correvano a est, sembravano code di cometa nel cielo nero senza luna. Il ragazzo scese e proseguì il cammino in salita, fino al limite del bosco. Lì i riccioli di vento indicavano un sentiero a forma di serpente fra gradoni e torri di pietra, cascate di sassi franati, torrenti d’acqua tanto fredda da far male ai denti. Il ragazzo si strinse nella pelle di tigre perché l’aria era come ghiaccio. Poco più in alto, le cime delle montagne erano bianche di neve e luminose come una nuova luna.
Il quarto giorno il ragazzo chiamato cerbiatto camminò sulla neve fresca che cedeva sotto i piedi, camminò sulla neve bagnata che somigliava a fango, camminò sulla neve ghiacciata che lo faceva scivolare, e ognuna era di un bianco diverso mentre il cielo era di un unico azzurro, e il sole vi brillava piccolo come la punta di uno spillo. Quando incontrò un lago di ghiaccio, ne spaccò la crosta per berne l’acqua e lavarsi il corpo. Nel chinarsi, nudo, si specchiò e vide il pene e la ferita simile al sesso di una donna, la pelle di tigre che gli teneva caldo, le orecchie di lupo, le penne di corvo e la coda di cavallo. Le corna da cerbiatto che aveva sulla testa erano cresciute ma non aveva ancora il palco grande e forte dei suoi padri. Avrebbe camminato verso est fino al giorno in cui avesse visto il sole sorgere a occidente, e lì avrebbe abbracciato, ucciso e mangiato l’orso: così gli avevano detto i padri, poiché altrimenti non gli sarebbero mai spuntate le corna degli adulti. Sopra il lago di ghiaccio c’era un’altura, e sull’altura c’era silenzio poiché la vita era sepolta sotto la terra in attesa della primavera, oppure si nascondeva con pellicce dello stesso colore della neve, per non farsi vedere dalle aquile. C’era soltanto un boschetto di abeti, ma persino gli alberi risparmiavano la voce parlando con sussurri lenti. Il ragazzo chiamato cerbiatto strofinò le corna sui tronchi, lasciando a terra fiocchi di lanugine e scaglie di legno. Sotto la corteccia scoprì insetti che chiacchieravano fitto e si stringevano nei carapaci. Dall’altra parte dell’altura c’era il tetto delle montagne, l’estremo oriente della terra, e sulla strada per la vetta c’era una grotta. Fuori dalla grotta c’era un orso grande e scuro, seduto davanti all’entrata intorno al tappeto delle proprie impronte. L’orso osservava il cielo e il ragazzo osservò l’orso per molto tempo. Di tanto in tanto l’orso chiudeva gli occhi, si addormentava e sognava. Poi, appena sveglio, tornava ansioso a guardare il cielo. Il cielo diventò nero e poi azzurro e poi di nuovo nero per molti giorni e molte notti. “Perché non entra nella grotta?” si chiese il ragazzo. “Sono ben nascosto fra gli abeti” pensò. “Gli abeti mi sono amici, non svelerebbero mai all’orso che mi nascondo qui. Potrei fabbricare un arco e una freccia con il loro legno, e con arco e freccia colpire l’orso”. Ma poi si guardò alle spalle, vide il sentiero di orme che aveva lasciato per salire sull’altura e capì. L’orso attendeva che il cielo diventasse bianco come la terra e che la prima nevicata coprisse le sue impronte affinché nessun cacciatore fosse condotto alla grotta, e affinché in primavera, dopo che la neve avrebbe coperto il mondo con un nuovo strato di mondo, lui sarebbe potuto rinascere dalla grotta come dal ventre della sua madre orsa. Il ragazzo provò rispetto e attese. Non fabbricò né arco né freccia. Quando venne la neve l’orso entrò nella grotta e il ragazzo lo seguì. Era l’alba, e prima di scendere dall’altura guardò il sole, che aveva il colore della paglia dietro il telo di nuvole grigie. Ne guardò il riflesso sullo specchio del lago ghiacciato e pensò che lo specchio del lago ghiacciato fosse una linea lunga quanto gli otto punti dell’orizzonte, e nel riflesso il sole era sorto a ovest.
Dentro la grotta le rocce parlavano una lingua che il ragazzo non conosceva, ma l’orso si alzò su due zampe per salutarlo ed era alto come otto uomini. “Ti ringrazio per avere atteso la nuova neve, cacciatore” disse l’orso. “Qui è dove io riposo e rinasco, ma so che tu sei venuto a combattere e guadagnare le corna dei tuoi padri. Al termine di questa grotta saremo oltre il tetto delle montagne, a est del sole. Vieni con me. Lì combatteremo per il nostro posto nel ciclo della carne”. Detto questo l’orso tornò a quattro zampe e cominciò a correre verso il fondo della grotta, e il suo galoppo risuonava forte tra le rocce, e il ragazzo lo seguì colmo di angoscia e ammirazione. La grotta si apriva su un crepaccio e in fondo al crepaccio c’era un torrente vorticoso. “Vedi che abbiamo entrambi due braccia e un petto”, disse l’orso rialzandosi in piedi. “Combattiamo e abbracciamoci, dunque, cacciatore”. Il ragazzo chiamato cerbiatto saltò più alto che poteva e abbracciò l’orso. Il pugnale che portava davanti al cuore, legato all’occhiello della cintura, punse l’orso tra le costole. L’orso strinse il ragazzo tra le zampe e lo morse sulla spalla. Insieme caddero nel torrente e nuotarono fino a valle, e mentre nuotavano l’acqua diventò ghiaccio e poi tornò acqua per otto volte, e l’acqua e il ghiaccio erano neri di sangue. Uscirono dal torrente e si sdraiarono su un letto di sassi.
“Hai guadagnato le corna dei tuoi padri, cacciatore” disse l’orso. “Hai combattuto bene e bene mi hai abbracciato, perciò ti lascerò una parte di me. Ma adesso sei adulto, sei più che uomo e più che donna, perciò è necessario che anche tu mi lasci una parte di te in cambio. Questo è il nostro posto nel ciclo della carne”. E l’orso ripulì il morso sulla spalla del ragazzo mangiandone un boccone di carne, e il ragazzo sanò la ferita del pugnale succhiando il sangue dal cuore dell’orso.
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Immagine di Francesco D’Isa.
Andrea Cassini, filologo medievale di formazione, è giornalista, consulente editoriale e traduttore; si occupa principalmente di cultura pop e letteratura fantastica. Scrive regolarmente per L’Indiscreto e ha pubblicato racconti su varie riviste e antologie, facendo inoltre parte del collettivo TINA (Storie della Grande Estinzione, 2020). Non tutto il male – Cronache della terra inabitabile (2021) è il suo primo romanzo.
da “Somiglianze di famiglia”

di Matteo Pelliti
Essi
Essi, loro i pronomi della lontananza,
della distanza, della genealogia, della progenitura,
gli antenati, gli spettri evocabili,












