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Mots-clés__Sirene

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Joan Miró, La sirène, 1927

Sirene
di Serena Cacchioli

Lluis Llach, Abril 74 -> play

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Joan Miró, La sirène, 1927

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Franz Kafka, Il silenzio delle sirene [Da Tutti i racconti, a cura di Ervino Pocar, Mondadori, 1970]

Per dimostrare che anche mezzi insufficienti, persino puerili, possono procurare la salvezza.
Per difendersi dalle sirene Ulisse si empì le orecchie di cera e si fece incatenare all’albero maestro. Qualcosa di simile avrebbero potuto fare beninteso da sempre tutti i viaggiatori, tranne quelli che le sirene adescavano già da lontano, ma in tutto il mondo si sapeva che ciò era assolutamente inutile. Il canto delle sirene penetrava dappertutto, e la passione dei sedotti avrebbe spezzato altro che catene e alberi maestri! Ma non a questo pensò Ulisse, benché forse ne avesse sentito parlare. Aveva piena fiducia in quella manciata di cera e nei nodi delle catene e, con gioia innocente per quei suoi mezzucci, navigò incontro alle sirene.
Sennonché le sirene possiedono un’arma ancora più temibile del canto, cioè il loro silenzio. Non è avvenuto, no, ma si potrebbe pensare che qualcuno si sia salvato dal loro canto, ma non certo dal loro silenzio. Nessun mortale può resistere al sentimento di averle sconfitte con la propria forza e al travolgente orgoglio che ne deriva.
Di fatto all’arrivo di Ulisse le potenti cantatrici non cantarono, sia credendo che tanto avversario si potesse sopraffare solo col silenzio, sia dimenticando affatto di cantare alla vista della beatitudine che spirava il viso di Ulisse, il quale non pensava ad altro che a cera e catene.
Egli invece, diremo così, non udì il loro silenzio, credette che cantassero e immaginò che lui solo fosse preservato dall’udirle. Di sfuggita le vide girare il collo, respirare profondamente, notò i loro occhi pieni di lacrime, le labbra socchiuse, e reputò che tutto ciò facesse parte delle melodie che, non udite, si perdevano intorno a lui. Ma tutto ciò sfiorò soltanto il suo sguardo fisso alla lontananza, le sirene scomparvero, per così dire, di fronte alla sua risolutezza, e proprio quando era loro più vicino, egli non sapeva più nulla di loro.
Esse invece, più belle che mai, si stirarono, si girarono, esposero al vento i terrificanti capelli sciolti e allargarono gli artigli sopra le rocce. Non avevano più voglia di sedurre, volevano soltanto ghermire il più a lungo possibile lo splendore riflesso dagli occhi di Ulisse.
Se le sirene fossero esseri coscienti, quella volta sarebbero rimaste annientate. Sopravvissero invece, e avvenne soltanto che Ulisse potesse scampare.
La tradizione però aggiunge qui ancora un’appendice. Ulisse, dicono, era così ricco di astuzie, era una tale volpe che nemmeno il Fato poteva penetrare il suo cuore. Può darsi – benché non riesca comprensibile alla mente umana – che realmente si sia accorto che le sirene tacevano e in certo qual modo abbia soltanto opposto come uno scudo a loro e agli dèi la sopra descritta finzione.

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

Dimitri Milleri: “E se anche non chiedessi niente”

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Ospito qui alcuni estratti dalla raccolta Sistemi di Dimitri Milleri, pubblicata da Interno Poesia, insieme ad un frammento della prefazione di Maria Borio.

 

SISTEMI

 

«[…] Il libro ha un titolo importante: una parola che rimanda alla fisica e alla metafisica; fa intuire che la raccolta si vorrebbe proporre come un’esplorazione fisica e metafisica della vita. Diviso in tre parti – Detentivi, Complessi e Chiusi – il libro è articolato come una specie di planetario con la forma di un’ellisse. Seguirne il percorso assomiglia al fenomeno di una reazione a rilascio prolungato, con punti contratti e distesi che rappresentano i fuochi dell’ellisse e innescano una serie di rispecchiamenti: tra coscienza e incoscienza a livello metafisico, tra mondo interno e esterno a livello fisico, tra doppie serie di contrappunto a livello musicale. Una chiave di lettura per entrare nella dinamica ellittica di Sistemi è, infatti, proprio la musica. La composizione e il ritmo, dati da fratture e ricuciture, richiamano quei brani che studiano una trama dove si allacciano lo spezzato e il flusso: Folk songs di Luciano Berio, Lo spazio inverso di Salvatore Sciarrino, In the Bleak Midwinter di Jacob Collier, Fratres di Arvo Pärt. Come ci rappresentano questi sistemi, in cui il flusso dell’esistenza si articola a uno spezzato, in cui il vivere è intramezzato da momenti di coscienza del vivere? […]»

Maria Borio

 

 

da DETENTIVI

 

La gerarchia delle valute, il trust, le transazioni

e il decumano, e i buoni e il cardo illimpidiscono

nel fitto della spiaggia.

Non è erroneo nei nomi dei lidi l’ammiccamento

all’Est citato male: qui il nirvana

muove da un vuoto proposizionale, cambia segno,

vuole il rituale rigido, il gesto muto, cerca

l’estuario della specie.

Diventa fede discreta: sbriciola sul volto

di chi la dice,

fonda reliquie misere:

la cassa, il tanga, il flyer, la prevendita

col santo e la risata composta.

Ci entrano dentro come l’olio nell’acqua, cercando

l’andatura più esatta, un volto buono, ma le cause,

la relazione e il senso a forza si ritraggono

coi gasteropodi nei pyrex.

 

 

da COMPLESSI

 

IV

 

O era un figlio invece quel reagente?

Se così fosse quel che è bene

è far calare la sordina:

farà da solo il feltro, ogni rimorso

si oscurerà così che il bimbo possa

lanciare calmo i missili, spargere il sale

sul crisma per sempre, come la grazia

di chi ha lavato via da sé ogni scrupolo.

 

 

da CHIUSI

 

Tavole nere, un’araldica

fissa sul segno meno, un giustapporsi

di cuspidi contrarie, come sai.

Geni monotoni, che poi significa

magre combinazioni.

E se anche non chiedessi niente, il corpo

abbarbicato in dure geometrie,

sarebbe già messaggio —

e quanto costi trovare i pigmenti

in questo nero davvero non so

se tu lo sappia o meno,

né so cosa sperare

“ho imparato

come i pronomi si confondano in un rito

che non si dà deviare”.

 

(la frase mulinata per sentire

se l’ansia di servirti non coincida

col peso da fugare)

 

***

 

Ne siamo usciti male solo questo

vorrebbero scambiarsi e non lo fanno.

Lo sanno e non lo dicono il fantasma

di aver potuto essere, cambiare:

sanno che passa, raramente appare

come un Saturno, un astro innominato.

 

In ogni modo l’hanno preservato

dai moti centrifughi della lingua

posticipando morti, collisioni

già consumate altrove, mentre sotto

come una velatura, mollemente

nidificava il parassita, l’evidenza

 

che alcune volte non puoi fare niente.

Invisibilità e autorialità a proposito di Elena Ferrante

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di Viviana Scarinci

 
Il 29 agosto scorso in occasione dell’uscita de La vita bugiarda degli adulti in trentacinque Paesi, Elena Ferrante su Robinson rilascia una delle più lunghe e singolari interviste di sempre. Ferrante risponde alle domande provenienti da alcuni Paesi coinvolti dall’uscita del libro. Dal Brasile alla Danimarca, da Shangai al Portogallo passando per Formia, traduttori, editor e librai hanno posto all’autrice domande che entrano nello specifico non solo della sua opera ma anche di alcuni aspetti inerenti all’autorialità come fondamentale presupposto del suo profilo pubblico.

Il piccolo (grande) teatro filosofico di Aldo Masullo

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PROLOGO

di Lucio Saviani

Oggi si parla molto di dialogo, in ogni dove. Ne parlano in tanti. E anche troppo. Soprattutto i politici, quelli della burattinata politica televisiva, fatta di smorfie in camera, di voce grossa e di par condicio. Parlo io, poi parli tu, stessi minuti, stessi secondi. Ma quello, si sa, non è dialogo, è un parlare da soli a turno, senza nemmeno ascoltarsi.

Aldo Masullo ci ha insegnato che dialogo, prima ancora che parlare in due, è pensare in due, pensare insieme.

Quel pensare insieme che è come un viaggio verso qualcosa che da soli non si conosce e che da soli non si raggiunge.

Il dialogo è fatto naturalmente di parola; ma, prima ancora, di ascolto. E dunque di silenzio. Ma per dialogare non basta stare in silenzio: c’è bisogno di attenzione, apertura, e cioè ospitalità, accoglienza di un’altra visone delle cose. C’è bisogno della forza misteriosa – come per lo schiavo della caverna platonica – di chi si scioglie, di chi abbassa le difese e apre la porta di casa. Necessaria è una disposizione all’apertura, all’ospitalità, all’accoglienza dell’altro. Ma soprattutto significa disporsi ad accettare l’eventualità di cambiare, non solo idea, ma di sentirsi diverso, anche diventare un altro. Proprio per questo è così difficile fare davvero esperienza del dialogo, e invece così facile ritrovarselo così, come in maschera.

Dialogare insomma è la forza di mettersi in gioco, di accettare la possibilità di ritrovarsi diverso da prima che ci si aprisse al dialogo. In cerca di quella verità che o è un bene comune o non è. Per questo, Aldo Masullo ci ha insegnato che la filosofia nasce con la democrazia, due facce di una stessa medaglia: la filosofia con la sua vocazione agoretica, vocazione alla piazza, all’agorà, alla piazza degli scambi di merci e di opinioni.

Il dialogo perciò è esperienza. Masullo ricordava sempre la parola di Hegel: la vera esperienza è quella che modifica colui che la fa. Dopo un’esperienza non si è più gli stessi di prima. E così anche con il dialogo. E con il viaggio: dopo un vero viaggio non si torna mai uguali a come si era alla partenza.

Il Patico, termine e concetto così centrali nel cammino di pensiero di Masullo, hanno origine proprio in questo: esperire, esperienza vissuta, un passare, un attraversare, passare una prova, un provare, quel vissuto che non appartiene al piano della comunicazione dei concetti e dei significati.

Nel libro Paticità e indifferenza Masullo si chiede quale può essere ancora il ruolo della filosofia. La filosofia, risponde, è «saper assaporare i sapori della vita, gustare a fondo i sensi vissuti, …è la “sapienza del patico” ovvero, se si ricalca interamente l’etimo greco, è la “patosofia”».

Nei suoi lavori ricorre spesso il verbo greco páskein, che significa sì ‘‘vivere”, ma indica il ‘‘vivere” in senso transitivo. Indica cioè la vita come capacità di provare, avvertire, vivere l’esperienza: «Paticità è vivere provando, vivere assaporando».

È il senso, diceva Masullo.

E lo diceva con il senso che ha il dialogo: che è soprattutto attenzione, ascolto, apertura, (curiositas, come dicevano gli antichi), cura di sé, degli altri e anche delle parole: questo lo comprendono bene tutti quelli che ricordano, di Aldo Masullo, la costruzione, la sempre felice ricerca della giusta parola, l’esposizione del pensiero durante le sue lezioni, i suoi discorsi, le conferenze. E anche i suoi dialoghi.

Cura delle parole come cura di sé e degli altri. Attenzione e ascolto: per te, ma anche per le persone a te care, che per lui era come la stessa cosa; mi chiedeva di Luna, parlando del suo amore per i cani, e non ricordo una volta, nemmeno una, che non mi abbia chiesto di Ruzenka e lasciato i saluti per lei, fino a quell’ultima telefonata che ho fatto a lui per il suo compleanno, che era anche il giorno di Pasqua.

La filosofia, ci ricordava Masullo, è l’esercizio che ogni uomo è chiamato a fare dalla sua umanità per comprendere meglio non solo se stesso, ma il rapporto tra sé e il mondo, tra sé e gli altri. Insomma: “Conosci te stesso”. Ma Masullo ebbe modo di chiarire una interpretazione meno nota del motto di Delfi. E cioè: conosci te stesso perché solo così puoi sapere quale è la domanda più giusta da fare al dio Apollo. Lo scrisse ne La libertà e le occasioni. Lo chiamai subito dopo aver letto quel capitolo, ne parlammo a lungo. E io lo chiamavo proprio da Delfi, dove mi ero portato il suo libro. Ma questo glielo dissi solo alla fine.

Aldo Masullo ci lascia risposte che sono poi, come il lascito socratico, quelle che, contro la morte, danno vita: e cioè danno vita a tante domande.

È proprio in questo senso che possiamo dire che esistere è un essere in dialogo.

Un dialogo che continua anche chi non è più in vita: Aldo Masullo di risposte ne ha date tante, fino a quelle date ai giornali che gli chiedevano una riflessione sulla pandemia; ha dato tante risposte con le sue opere, con la sua opera: la sua vita, la sua vitalità, la sua esistenza.

Una lezione che è rimasta sempre inquietudine teoretica, pratica di libertà e di filosofia come libertà.

Ricordo i pomeriggi trascorsi insieme nel suo studio, verso la metà degli anni ’90, perché curavo la bibliografia da aggiornare dopo quasi vent’anni per la nuova edizione del suo fondamentale libro Metafisica, che avevo letto da studente e che sarebbe diventato un libro di riferimento per i miei studenti per molti anni. Masullo ha sempre seguito con passione i destini della scuola italiana: ancora mi ricordo la sua espressione di sconcerto, di divertita amarezza, quando qualche tempo fa ebbi a dirgli che oggi spesso nei documenti ufficiali i docenti sono chiamati “fornitori di docenza” e gli studenti sono chiamati “utenti”.

Aldo Masullo è stato per decenni un maestro e una guida per diverse generazioni di studenti, professori, filosofi e un esempio prezioso della vita civile, della politica più nobile e della cultura del nostro Paese.

Ne sono ricca e sempre presente testimonianza i suoi lavori degli anni sessanta e settanta sulla “intersoggettività” e sul “fondamento” e gli studi sul “tempo”, sul “senso” e sulla “paticità” degli anni ottanta e novanta.

Agli inizi degli anni novanta, Masullo aveva rappresentato un momento di grande speranza, di forza di rinnovamento, anzi di discontinuità nel panorama della politica nazionale italiana. Lo ricordiamo tutti protagonista delle “Assise di Palazzo Marigliano” e poi della inedita esperienza della “giunta del sindaco”, primo caso in assoluto in Italia. Poco tempo fa ebbe a dirmi che Napoli ama mettersi in maschera… E allora io mi ricordai di quella volta a Parigi. Alla fine di quel decennio di speranze e prime delusioni organizzai a Parigi, presso l’Istituto Italiano di Cultura, un convegno su Napoli dal titolo “Poros”. Al convegno di Parigi invitai filosofi, scrittori e artisti partenopei. A chiudere i lavori del convegno, invitai naturalmente Aldo Masullo.

Lui pronunciò un discorso di grande sensibilità politica e di autentica speranza per la città, per la cultura e per il futuro di Napoli. Ma soprattutto lasciò stupito il pubblico italiano e parigino iniziando così:

“E per dare a voi tutti, per lo meno ai non napoletani, un’immagine direi pre-filosofica dell’essere napoletano, dell’esistenza napoletana, vorrei evocare una figura che in genere nelle accademie filosofiche non trova posto: la straordinaria maschera di Pulcinella. (…)

“Si è fatto scuro, Lucio, ci ritiriamo?”, diceva spesso così, alla fine delle passeggiate che facevamo tra Pantheon, S. Eustachio e Piazza Navona negli anni del suo ultimo mandato da parlamentare, parlando di quella sua esperienza, tra vecchia passione e giovani delusioni. E io, a sentirlo parlare di crepuscolo mi ricordavo allora la salita delle rampe che mi portavano, da studente, al Cortile del Salvatore. Primi anni ’80, dopo il terremoto, in una Napoli che si avviava con un disastro a vivere un decennio disastroso. In quel cortile, nella penombra di una grande aula, cominciava di mattina presto la lezione di Masullo. Lui diceva che la filosofia vive sempre nella penombra. Io in quella penombra mattutina ho imparato ad amare la filosofia. A me ora piace pensare che quelle lezioni di Masullo siano continuate e arrivate fino a questa bella piazza e al nostro dialogo di questa sera.

“Il Parco in Maschera” – Rassegna a cura del Parco Archeologico dei Campi Flegrei

 

CASTEL DI BAIA

Martedì 4 agosto 2020, h. 19.00

PICCOLO TEATRO FILOSOFICO

In memoria di Aldo Masullo

 

Un prologo e un dialogo di e con

PASQUALE PANELLA e LUCIO SAVIANI

 

 

Del fraintendimento: Gruppo 93 e avanguardie

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di Bianca Coluccio

Nel maggio del 2003 l’Alma Mater di Bologna predisponeva una serie di tavole rotonde organizzate nell’ambito dell’iniziativa “Gruppo 63 – Quarant’anni dopo”. Sul magazine dell’Università si legge che l’intento principale è quello di “dimostrare che i lavori del Gruppo 63 avevano una potenzialità di sviluppo ulteriore”.[1] Che l’avessero è indubbio, ma che i lavori del Gruppo 93 potessero ritenersi uno sviluppo della neoavanguardia aveva bisogno di una puntualizzazione precisa, che sciogliesse l’equivoco che era andato tessendosi. Già Biagio Cepollaro, nell’intervento “La compresenza conflittuale”, uscito su Baldus nel 1991,[2] metteva in chiaro come ritenere il Gruppo 93 un’avanguardia, alla stregua del Gruppo ’63, non fosse che uno dei quattro equivoci che toccavano il gruppo.

Nello stesso senso si snoda l’intervento di Lello Voce a Bologna. In questa occasione Voce introduce una nuova forma di avanguardia, che non è più “quella storica, quella neo, quella neo-neo. […] esiste poi un tipo di avanguardia particolare, che io purtroppo conosco molto bene, che è l’avanguardia mio malgrado”.[3] L’equivoco quindi ritorna, anche a distanza di anni, e continua ad avere bisogno di chiarificazioni precise. Prima delle teorizzazioni fatte sopra i lavori del Gruppo, ci sono gli stessi autori che nella consapevolezza delle proprie posizioni non hanno mai voluto o creduto di essere un movimento d’avanguardia.

Lo stesso argomento aprirà, nel 2016, la conversazione svolta a Milano tra Angelo Petrella e alcuni poeti del Gruppo 93.[4] Si richiama ancora in gioco la questione dell’avanguardia: non solo Petrella si domanda se questa esperienza non possa venire considerata come “l’estremo canto del cigno della possibilità di fare avanguardia”, ma se questa considerazione non sia più che altro necessaria a inquadrare un fenomeno storico ponendolo a un estremo di due polarità.

In ognuna di queste occasioni è stato ribadito che i rapporti in termini di scopi ultimi e modalità del loro raggiungimento non sono sovrapponibili rispetto a quello dell’avanguardia, non se ne traggono le mosse. Posto che l’avanguardia sia impossibile a reiterarsi, ciò a cui si tende è più che altro un dialogo, poiché le condizioni che hanno favorito l’avanguardia, “storica, neo, neo-neo”,[5] sono ormai esaurite e irreplicabili.

Come si spiega, dunque, questo fraintendimento? E fino a che punto è normale che si verifichi l’equivoco? Ritenere avanguardia il Gruppo 93 significherebbe allo stesso tempo dover riconsiderare alcuni dei caratteri imprescindibili che cooperano alla formazione di uno statuto d’avanguardia: una condizione storico-politica favorevole, una opposizione antagonista rispetto alla tradizione tout court, un unico scopo ultimo perseguito secondo le medesime modalità.

Riguardo l’impossibilità di riprodurre le condizioni teoriche e storiche tipiche dell’avanguardia, Luperini prospetta l’esistenza di tre cerchi di azione concentrici.[6] C’è un primo cerchio nutrito da un certo numero di autori non armonizzati che compongono una resistenza sperimentale; di qui il secondo in cui tutti coloro che hanno dimostrato interesse nei confronti del Gruppo 93 hanno anche desiderato che il gruppo si tramutasse in una forma d’avanguardia, per conservare delle avanguardie il carattere oppositivo e agonistico. Un terzo cerchio, infine, è quello in cui lo stesso Luperini si inserisce. In quest’ultimo si riconosce l’impossibilità per un’avanguardia di ricostituirsi e si agisce sugli spazi liminari ed estremi ancora concessi dalla postmodernità. In questo senso si potrebbe allora configurare una possibile risposta alla dinamica postmoderna. Spostare la propria attenzione nelle zone periferiche, operare nel segno della lateralità per rispondere alle propensioni di parificazione che connotano il postmoderno.

 

La postura assunta dal Gruppo 93 è evidentemente discosta rispetto a quella tipica delle avanguardie. L’antagonismo, il nichilismo, il rivoluzionarismo e il terrorismo, l’autopropaganda violenta e autopubblicitaria e la prevalenza della poetica sull’opera: queste sono alcune delle caratteristiche che Renato Poggioli ritiene essere peculiari di ogni movimento d’avanguardia.[7]

Quale avanguardia, perciò, senza antagonismo? Esiste un’avanguardia che non abbia un terminus contra quem, che non mantenga un atteggiamento oppositivo, che non prenda le proprie difese? Già in questo senso, il Gruppo 93 non può essere considerato un’avanguardia. Il tempo delle opposizioni binarie e delle polarità contrastanti è del tutto terminato. Il contesto in cui avviene la produzione culturale è adesso votato alla velocità, della stessa velocità di cui risente il linguaggio, una piega dell’estetizzazione che deve tutto alla comunicazione massmediatica contemporanea: ritenere possibile una difesa ferma e a spada tratta come quella a cui ha abituato l’avanguardia non è neppure più auspicabile.
La modernità dilagante e fluida sancisce una saturazione impossibile da far retrocedere. È la saturazione dell’età moderna ad aver segnato il termine dell’avanguardia. Quello che hanno rappresentato le grandi avanguardie novecentesche non può più venire adoperato come paradigma. Ritenere possibile nella società postmoderna un qualsiasi movimento avanguardistico significherebbe tentare di sostenere un “velleitarismo patetico”.[8]

Tuttavia, quella che si potrebbe considerare alla stregua di un’abiura va ripensata nei termini di una presa d’atto: l’esperienza avanguardistica, storicizzata e conclusa, non può fare a meno di inserire sé stessa nella tradizione. Rispetto all’avanguardia e al suo periodo, quella dialettica contraddittoria che rimaneva alla base del rapporto arte-museo è diventata sterile e impossibile a realizzarsi. L’impasse neoavanguardistico si verificava laddove, pur ricercando un prodotto artistico che fosse incontaminato e atemporale, lo scontro con la solita logica borghese e di mercato era inevitabile: il prodotto artistico era un prodotto, appunto, che per carica innovativa, distruttiva, audacia, era in grado di superare gli altri e di batterli sul piano della concorrenza. L’avanguardia desiderava produrre un’arte imbattibile e imbattuta e che allo stesso tempo non rimanesse impigliata nelle dinamiche di un certo stringente algoritmo.

Diversamente, invece, il Gruppo 93 né mira a produzioni incontaminate e atemporali, né intrattiene questo rapporto contraddittorio col mercato. Anzi, alla nascita del Gruppo, il termine dell’esperienza è già stato deciso ed è il nome stesso che il Gruppo si dà, a indicare quando arriverà lo scioglimento.
Ecco quindi che non si può parlare di avanguardia, almeno poiché non c’è alcun “assestamento dell’arte all’epoca della tecnica”.[9] Per il Gruppo 93, considerate le premesse “temporali”, la possibilità di assestamento non è contemplata. Più che l’epoca della tecnica, si fanno i conti con l’epoca della comunicazione “televisiva” e massmediatica, nutrita di una velocità che non può non interessare anche la dimensione estetica.

In quest’ottica si capisce meglio come la tradizione rigettata dalle avanguardie sempre a fronte di uno sperimentalismo estenuato non soltanto viene riconsiderata ma assume la postura di chi la fa propria, di chi la adopera ai fini della propria arte. Questo spiega come nel Gruppo 93 il dialogo con la tradizione avvenga in un confronto di voci diverse e in qualche maniera rifunzionalizzate. Mentre Lello Voce annovera nel proprio canone Zanzotto, Leonetti, o “addirittura un certo Fortini ‘politico’” ,[10] per Biagio Cepollaro è la lingua del Duecento a costituire il perno e il riferimento principale.

Si legge nell’intervista di Enzo Rega a Biagio Cepollaro:

Jacopone da Todi e il Dante più infernale sono i miei veri maestri. Da loro ho capito come una parola, ogni singola parola può essere a tal punto “riscaldata” da diventare incandescente. Ho capito “l’eccessivo” che si annida nelle consonanti, la materialità della parola, la sua capacità di attrito e di resistenza alla banalità del “poetese” e dello standard. Da maestri del genere si capisce come la poesia medioevale, letta in un certo modo, si avvicini quasi all’ultima poesia sonora, come la cosiddetta “tradizione” sia in realtà – se grande – un serbatoio infinito di possibili innovazioni e ricerche.[11]

Il terreno comunque del Gruppo 93 è la tradizione non tutta e non canonica, ma ripensata e rifunzionalizzata alla luce di una propria soggettività. Posto questo come punto di partenza, le possibilità di declinazione sono molteplici e diversificate. Inoltre, la fluidità e la soggettività di cui si connotano i canoni, sono iscritte all’interno di un intento preciso, di una scrupolosa volontà di contaminazione. Senza questa idea di tradizione fin qui descritta, non ci sarebbe alcuna possibilità di contaminazione.

 

Come si è detto, il quadro attuale non permette più una separazione netta e oppositiva neanche tra lingua ordinaria e lingua poetica, tra lingua alta e bassa, altezza del linguaggio lirico e statuto periferico della parola dialettale. La contaminazione vorrebbe agire in questo senso come una ibridazione. Ciò che si vuole raggiungere è un momento infine creolo in cui allo scambio è seguita una successiva fusione, secondo un movimento che abbandona ogni pretesa di alterità e affermazione per giungere a un risultato polifonico, un’armonia mancata che parte dal suo apparente difetto per riorganizzarsi in un coro di voci e un coacervo di orecchi tesi. Contaminare ha quindi una “pronuncia plurale” e “produce una terza identità che non è equivalente a nessuna delle due che concorrono a formarla”.[12] Affinché un simile processo di contaminazione possa rendersi possibile, il rapporto con la tradizione deve necessariamente essere opposto a quello che si proponeva l’avanguardia. Mentre le avanguardie, infatti, hanno sempre operato un taglio orizzontale di separazione netta e definitiva col passato, quello che fa il Gruppo 93 è, sì, operare un taglio, ma stavolta verticale, aprire una fessura, provocare la fuoriuscita dei propri riferimenti, far collimare tra loro universi svariati e disomogenei.

Quando su Le Figaro apparve nel 1909 il Fondation et Manifeste du Futurisme di Marinetti, la posizione era frontale e inequivocabile. Nessuna bellezza per le opere che non possiedono un carattere aggressivo: ciò che non si configura come scontro e come sommossa allora non riguarda né più l’arte né la bellezza. Non serve a niente girarsi a guardare il passato per l’uomo che si trovi “sul promontorio estremo dei secoli”. Dichiarata la guerra ad accademie, biblioteche, musei: uno spreco di tempo rivolgersi indietro, giacché “il Tempo e lo Spazio morirono ieri” e per loro non c’è posto nell’“eterna velocità onnipresente”. Ma nessuna tra queste velleità incendiare apparterrà poi al Gruppo 93. E ancora: se l’avanguardia storica è senza passato, la neoavanguardia non sa, nel presente, destreggiarsi tra la logica piccolo borghese alla quale vorrebbe sfuggire e che invece la inghiotte. Il Gruppo 93 un po’ per propria volontà e per contingenza storica, riesce a porsi al di là di ognuna di queste posizioni. È agli antipodi, infatti, rispetto al rigetto della tradizione a cui guardava l’avanguardia storica. Ha superato il vicolo cieco in cui borghesia e museo costringevano la neoavanguardia, per approdare su un nuovo terreno di comunicazione e dialogo. Terminate violenze e antagonismi avanguardistici, lo scopo a questo punto diventa sviluppare nuove possibilità di creazione di senso, rifunzionalizzare certi elementi assodati per arrivare a una letteratura creola e quindi inedita.

Dialetto, idioletto, pastiche

Una delle strategie tramite cui si determina la contaminazione è l’utilizzo del dialetto. Di nuovo, le motivazioni sottostanti la scelta di un linguaggio dialettale non sono di natura nostalgica, né viene caricato in alcun modo di valenza regressiva o ancora mitica. Nell’assenza di cariche oppositive e contrastanti, le polarità interne alla lingua si trovano scariche e inefficaci, comportando una “equivalenza neutralizzante peraltro ampiamente supportata dagli interessi economico-tecnologici che presiedono alla produzione artistica di sempre più numerose tipologie di prodotti”.[13] La scelta del dialetto non è dettata quindi da alcuna inclinazione purista e da nessun sentimento nostalgico, quanto dalla volontà di creare uno spazio letterario, poetico, che possa essere uno spazio di creazione di nuovi sensi. Ciò che prima si trovava ai due estremi di una divaricazione viene reso incontro proficuo, generatore di significati, terreno fertile. Non solo: la riduzione progressiva dei parlanti dialettofoni ha comportato l’evoluzione del poeta dialettale in poeta neodialettale. Vale a dire che il contenitore da cui si attinge per creare il proprio universo linguistico non è più reale, ma virtuale. In una situazione simile, la dimensione territoriale, caratteristica della poesia dialettale, è inevitabilmente spinta a riconsiderare i rapporti tra il centro e il confine della lingua.[14]

Niente da imputare, insomma, né a un atteggiamento elegiaco né a una torsione verso l’infanzia linguistica. La lingua si deve muovere verso una scrittura “anti-istituzionale, anticlassica, anti-simbolista, nemica dell’io lirico gonfio dei privilegi usurpati, la quale intenda stabilire reti di relazioni piuttosto che immedesimazioni, vuol dire viaggiare in una scrittura non garantita che ha bisogno, per poter vivere, di un atteggiamento continuamente autocritico da parte dell’autore”.[15]

Si è detto di come all’interno del Gruppo non vi fossero esattamente orizzonti comuni, quanto piuttosto spazi condivisi, e di quanto su questi spazi i vari esponenti si muovessero liberamente. Il diverso utilizzo del dialetto da parte di Lello Voce e Biagio Cepollaro si può iscrivere all’interno di questo libero movimento. Cepollaro, rifacendosi a Jameson, sostiene che il deperimento del pastiche, inteso come una delle strategie di contaminazione, sia da imputare all’interazione mancata cui vengono sottoposti i materiali. La giustapposizione degli elementi non realizza, secondo lui, alcun apporto di senso. Diversamente, quando la fusione è pressoché completa e a stento si riconoscono le parti che di cui si compone l’idioletto, allora lì si verifica un nuovo apporto di senso. Alla funzione parodica del pastiche si sostituisce una funzione “modellizzante”: il luogo della periferia e del confine si pongono come centro di tutta la strategia compositiva”.[16] Il pastiche idiolettico di Cepollaro conduce a un testo le cui ragioni sono nella compressione e nella presenza interattiva di linguaggi diversi.

Di contro, Voce, stabilisce la sua idea di pastiche a partire dalla volontà di creare un attrito nella poesia: gli elementi che la compongono, le citazioni che ne creano l’ossatura, non agiscono al di sotto del testo ma sono manifeste e identificabili. In questo contesto la citazione è un modo di contaminare e dunque un momento di riflessione. E non solo la contaminazione linguistica non può essere esente dalla contaminazione stilistica, ma contaminare gli stili significa minare la consueta distinzione tra i generi di cui si rende necessario un ripensamento. Diversamente a quanto ritiene Cepollaro, Voce prende le distanze dalla posizione di Jameson:

Il pastiche fonda la sua identità (la sua individualità) non sulla perdita di riconoscibilità (di individualità) di ogni suo singolo elemento, come se per una sorta di abbassamento di luminosità tutto si omogeneizzasse nella “sintesi” di una stessa, opaca, patina-tonalità […]. La stroncatura feroce che Jameson riserva al pastiche sembra frutto, quanto meno, di un travisamento sineddochico che condanna il tutto per la parte, che deplora la valenza polifonica per colpire, in realtà, i suoi usi, per così dire, retrogradi.[17]

 

Processi allegorici, produzione di significati

Il momento in cui si sviluppa la riflessione sull’allegoria coincide necessariamente con quella di riflessione sul cambiamento della condizione e dell’intellettuale e dello scrittore.[18] Gramscianamente, l’intellettuale non può attendersi di avere un gruppo sociale di riferimento, che sarà invece di volta in volta differente sulla scorta di quale gruppo si trovi al potere. Va da sé che anche la produzione in questo contesto diventa vittima di processi di standardizzazione e appiattimento, in un modo che rende quantomai manifesto il legame di reciproca dipendenza che lega l’intellettuale – e quindi lo scrittore – alla società. Dunque, la condizione intellettuale muta indifferibilmente al mutare della realtà che lo circonda. I processi di reificazione, in questo momento, non sono reversibili.

Questo ha determinato un esaurimento delle possibilità, per il simbolo, di rendersi produttore di significati. Posta una definizione di simbolo come rappresentazione di un valore sul supporto di un corpo transeunte, è nel simbolo che il poeta poteva vedere l’universale sopra il particolare. Nella realtà ridefinita dalle logiche moderne, il poeta deve invece cercare il particolare in relazione all’universale.

Cioè a dire che si è creata una opposizione tra l’atteggiamento del vedere e l’atteggiamento più attivo del cercare, oltre che un rovesciamento del processo metonimico. Il simbolo dimostra l’universale adoperando sé stesso. Cosa si sostituisce al simbolo? L’allegoria, che, al contrario, trae le proprie forze da una volontà di indagine e riflessione. Così il simbolo offre una verità data e iscritta nel corpo dell’oggetto, mentre l’allegoria accusa una distanza da colmare tra universale e particolare. Al mutare del simbolo in allegoria muta anche la narrazione, anzi scalzata dalla descrizione. L’impadronirsi di una pratica allegoria è allora da ricondurre all’interno di un programma di ricerca poetica. Abbandonati i lirismi e messe al bando le mere nostalgie, preso atto di un postmoderno che depotenzia ogni conflitto possibile in favore di una generale neutralizzazione, la letteratura diviene essa stessa allegoria, poiché costituita di una rete di scambi e interrelazioni a partire dalle quali si determinano sensi diversi. Per dire meglio, i significati di un testo letterario diventano sempre relativi agli scambi interni che per allegoria, per dialetto, idioletto o pastiche, producono un senso che rende attivissimo il testo.

 

In conclusione, un progetto di stampo avanguardistico, stanti tutte le premesse di cui si è discusso, è di fatto impossibile a verificarsi. I presupposti che costituivano le basi per la nascita e la durata di un’avanguardia sono scomparsi: non c’è più alcun agonismo da esercitare nei confronti d’una certa tradizione, poiché l’avanguardia stessa è entrata a pieno titolo a far parte di quella tradizione che ripudiava – l’avanguardia è diventata un’arte da museo. Quei conflitti che rendevano fervente il discorso intorno all’avanguardia e al suo interno sono stati livellati dall’avvento del postmoderno, da non intendersi più come ideologia ma come momento storico dato. Laddove le avanguardie hanno sempre tentato un rovesciamento della tradizione, il Gruppo 93 ha superato la dialettica che le riguardava: piuttosto che trascinare sfibrando un discorso che in verità non ha più possibilità di durare, si avanza seguendo un movimento che parte dalla periferia della lingua, dai margini. In questo modo “A un’opposizione dialettica interna al centro si oppone una conflittualità fondata sullo spostamento; all’antagonismo frontale delle avanguardie segue una letteratura della lateralità, giocata sullo scarto, che sottolinea […] uno sforzo di non appartenenza”.[19]

Se questi sono i presupposti che hanno governato il Gruppo 93, la possibilità che si trattasse di una nuova e ultima avanguardia può dirsi inconsistente. Ciascuna delle poetiche che nasce sulla base di tali premesse, trova poi, nel proprio autore, un suo modo unico di declinazione. Quello che si presenta come un gruppo, di fatto, non funziona esattamente come un gruppo: non fa fronte comune e non trova la propria forza in una coesione interna e viscerale. L’idea è più quella di un laboratorio o di una rete, di un organismo che funziona nella cooperazione, ovvero di una letteratura che funziona nella contaminazione.

A conclusione riporto alcune parole del Luperini di Un confronto tra posizioni diverse, significative e chiarificatrici rispetto allo scopo del discorso affrontato fin qui, contenute nell’antologia “Gruppo 93 la recente avventura”.

Ricordava ieri Sanguineti com’è nata la letteratura: non diceva come competenza opposta ad altre competenze, non come la competenza di chi lavora il ferro è opposta alla competenza di chi lavora la seta, è nata invece come competenza opposta all’incompetenza, come sapere e potere separati. Nel ritorno alle origini, e spesso non manca la O maiuscola, c’è il ritorno anche a questa origine. […] Se niente è letteratura non vuol dire che è finita la letteratura, ma che forse è possibile solo una letteratura di secondo grado, sonda il vuoto e il nulla che la circonda e di cui essa fa parte. […] La letteratura di secondo grado è un’allegoria della ricerca di senso.[20]

 


[1] https://magazine.unibo.it/calendario/2003/05/08/gruppo63?d=2003-05-08.

[2] Biagio Cepollaro, La compresenza conflittuale. Quattro equivoci sintomatici sulle vicende del Gruppo 93, in «Baldus», anno II, n. 1, agosto 1991.

[3] Lello Voce, Il postmoderno è nostro: giù le mani!, http://www.lellovoce.it/Il-Postmoderno-e-nostro-giu-le. Il testo è la trascrizione di Voce del proprio intervento al convegno di Bologna. Gli atti del convegno sono contenuti in AA.VV., Il Gruppo 63 quarant’anni dopo, a c. di Renato Barilli, Fausto Curi, Patrizia Cuzzani e Niva Lorenzini, Bologna, Pendragon, 2005.

[4] La conversazione tra Angelo Petrella e alcuni poeti del Gruppo 93 svoltasi nell’ambito di Tu se sai dire dillo (2016) è reperibile al link https://www.youtube.com/watch?v=VBQsVi36reo&t=2925s.

[5] Lello Voce, il postmoderno è nostro: giù le mani!, cit.

[6] Romanzo Luperini, Un confronto tra posizioni diverse, in «Alfabeta», n. 69, 1985.

[7] Renato Poggioli, Teoria dell’arte d’avanguardia, Bologna, il Mulino, 1962. Quello citato non è l’elenco completo che Poggioli stila. Di fatto, poiché alcune tra le caratteristiche individuate potrebbero essere opinabili (si parla ad esempio di gratuità del fine, che tuttavia non è compatibile con l’avanguardismo russo), solo quelle insindacabili sono state citate in questo testo.

[8] Remo Ceserani, Trent’anni dopo, una convitata di pietra di nome Avanguardia, in il manifesto, 1993. Il documento è disponibile online all’indirizzo:

http://www.cepollaro.it/rastam2.htm#Remo%20Cesarani,%20Trentanni%20dopo,%20una%20convitata%20di%20pietra%20di%20nome%20Avanguardia,%20Il.

[9] Franco Fortini, Verifica dei poteri: scritti di critica e di istituzioni letterarie, vol. 354, Torino, Einaudi, 1989.

[10] Lello Voce, Il postmoderno è nostro…, cit.

[11] Enzo Rega, dall’intervista a Biagio Cepollaro Oltre il postmodernismo: la parola come esperienza del caos, in «Quaderni Radicali», anno XVI, nn. 33/34, aprile-settembre 1992.

[12] Lello Voce, Appunti di dinamica dell’ibrido, «Baldus», anno II, n. 1, 1991. Il documento è disponibile all’indirizzo http://www.lellovoce.it/Appunti-di-dinamica-dell-ibrido.

[13] Biagio Cepollaro, La conoscenza del poeta: metamorfosi del realismo, «Baldus», anno II, n. 1, 1991. Il documento è disponibile all’indirizzo http://www.cepollaro.it/nuova_pagina_50.htm.

[14] Cfr. Biagio Cepollaro, Idioletto, in Perché i poeti?, disponibile al link http://www.cepollaro.it/new_page_2.htm pp. 14-16.

[15] Cfr. Mariano Baino, Biagio Cepollaro, Lello Voce, A proposito delle Tesi di Lecce, «Baldus», n. 0, 1990, consultabile online all’indirizzo http://www.absolutepoetry.org/L-editoriale-del-n-o-0-e-i.

[16] Biagio Cepollaro, La conoscenza del poeta…, cit.

[17] Lello Voce, Appunti di dinamica dell’ibrido, cit.

[18] Per questa breve ricognizione sull’allegoria e il Gruppo 93 mi rifaccio in particolare al capitolo V del lavoro di Angelo Petrella Avanguardia, postmoderno e allegoria: teoria e poesia nell’esperienza del Gruppo ’93, Edizioni Biagio Cepollaro, 2007.

[19] AA. VV., Gruppo ’93: la recente avventura del dibattito teorico letterario in Italia, a cura di Filippo Bettini e Francesco Muzzioli, Lecce, Piero Manni, 1990, p. 13.

[20] Romano Luperini, Un confronto tra posizioni diverse, in AA. VV. Gruppo ’93: la recente avventura… cit., 1990, pp. 38-39.

Angelo Ferracuti: “Mario, non ci resta che l’amore”

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«”Non è che a me le persone interessino per fotografarle,

mi interessano perché esistono. Diversamente, il fotogiornalismo

sarebbe soltanto una sequenza di scatti senz’anima”, diceva… »

 

Mario, non ci resta che l’amore di  Angelo Ferracuti -dedicato alla figura di Mario Dondero è il nono libro dei Cervi Volanti, la collana di scritture poetiche che curo insieme a Giuditta Chiaraluce all’interno del progetto Edizioni Volatili.

Libri come laboratori, primi confronti, materie pensanti, montaggi e scavi attraverso la carta; libri senza profitto, in tiratura limitata (esoeditoria), evidenti nella loro invisibilità e indirizzati a chi saprà ospitarne l’implicita consegna; libri col solo intento di essere vigilie per una geografia del dopo-diluvio.

Pubblico qui alcune pagine in anteprima, insieme a un estratto dal testo. Le partiture visive e i segnalibri sono di Giuditta Chiaraluce. Il ritratto fotografico è un contributo di Marco Cruciani.

 

Un giorno eravamo insieme a Milano per incontrare Giovanni Pesce, l’eroe della resistenza italiana nella sua casa di Piazza Bonomelli. Era una giornata molto afosa in una Milano semideserta. Mario era arrivato con una bottiglia di prosecco e una vaschetta di gelato, le macchine fotografiche in spalla, e proprio il giorno dopo sarebbe partito per la Russia per realizzare un reportage con il giornalista Astrit Dakli sul post-comunismo, “I rifugi di Lenin”. Ci aveva accolto «la compagna Sandra», ovvero sua moglie Onorina, in questo appartamento buio dove avevamo conversato per un paio d’ore. Volevo da Pesce una testimonianza su Giuseppe Di Vittorio, Nicoletti, per il libro che stavo facendo con Mario, “Di Vittorio a memoria”, commissionatoci dalla Cgil, che incontrò prima a Guadalajara e poi a Ventotene. Mi aspettavo un racconto vivido, pieno di aneddoti, come piacciono a me. Quelle piccole storie che messe tutte insieme fanno la Storia. Invece lo trovai stanco, quasi senza più voglia di raccontare, si limitava a rispondere l’essenziale, poche frasi significative ma brevi.

Mario, dopo averli riempiti di attenzione e di affetto, mostrando loro le sue foto scattate proprio in Spagna, una delle sue ripetute ossessioni, chiese se potesse fotografarli. Eravamo in un tinello buio, la poca luce arrivava dalla portafinestra che dava sul balcone, faceva molto caldo, e loro due si misero uno accanto all’altro in attesa che scattasse, come una coppia di anziani qualunque nel tinello di un appartamento.

Pensavo venisse fuori una foto troppo scura, e temevo per il nostro libro che avrebbe perso una voce importante. Invece, quando dopo qualche mese Mario mi mostrò la foto m’impressionò moltissimo quel ritratto, e anche oggi continua a colpirmi. Lui aveva visto in macchina quello che io non ero riuscito a vedere, e che tutto quel tempo empatico era riuscito a creare, cioè la bellezza nuda di due persone giuste della storia, illuminate da una luce che le rendeva umanissime.

 

 

Angelo Ferracuti è nato nel 1960. Ha pubblicato Attenti al cane (Guanda, 2000), Le risorse umane (Feltrinelli, 2006, Premio “Sandro Onofri”), Viaggi da Fermo (2009), Il costo della vita (Einaudi, 2013, Premio “Lo Straniero”), Andare, camminare, lavorare (Feltrinelli, 2015), Addio (Chiarelettere, 2016). Scrive su “il manifesto”, “La Lettura” del “Corriere della Sera”, “Il Venerdì” di Repubblica, e collabora con Radio Tre.

Da Scurau

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di Giuseppe Nibali

Ultima voce chiama il sangue.

Campo cruento gli uomini, altro sangue per le donne
è il giorno. Tutti sono convocati, vecchi e nuovi
viventi aspettano un gesto per sbranarsi. Il rivolo
aspettano, verticale sullo sterno, il morituri stabilito
dalla nascita, nella nascita futura rivelato. È tempo
adesso per il sesso tra gli attori, gambe nude, lividi,
dai piedi fino all’ano serpi, piaghe fili lo sfondo fuori
anche case, molte, come in cerca vergognosa della luce.
Altro mai, nemmeno nella voce, nella voce ultima

**

due mesi, niente. La città è andata avanti
verso il mondo universo. Vi colpisce fino
ai buchi dentro i nervi fino ai chiodi tra le
costole. La città ha dato germe. Resistete
non muovete il braccio: respirare restare
come gli uomini che sono uomini due volte,
una per l’origine l’altra per il tempo.

**

Corpi cavi enormi, gonne e questi figli come squarcio.
Crolla la religione, Meroè, di chi conosce il tormento
di giocare fino al buco dell’abisso; lo sgravo che ricordi
gli spruzzi di merda sul lenzuolo e dentro l’amigdala
appena lavati macelli, vene scure, osiamo dire:

Cattedrale vuota l’ulivo schiacciato contro il greto
i rami le foglie lo schianto lo scantu della scorza
materna sul petto. Matriarcato dei giochi l’ikea
i segni, questi, del nuovo potere; parola della madre.

Sì, siamo la madre. La morte la morte. La morte.

**

Dal lato filtra l’acquenere nel cemento, passa rifugi antiaerei, tracce di ferrovia. Ai liquami arriva, alle ossa degli antichi. Di qua un nuovo cimitero: cavi molti, un prato. Per lo scopo i piedi premono sul vetro, le mani stanno in preghiera. Mio e comune il giorno in cui ho pisciato via dalla fica il flare, il colpo del sole sulle labbra. Un silenzio primitivo, il viso è morto, non vedi? Le strade, anche le strade, le gallerie come arterie di donna, le vedi? Le sorveglia un’altra volontà. Allora nulla si è sfatto da quanto siamo, non hai da cercare, né manca in TV di guardare i fiati sfiniti degli amanti, il collo che si curva di un airone. Così è fino alla matrice, allorché del maschio e della femmina farete un unico essere sicché non vi sia più né maschio né femmina. Così è fino alla matrice, alla prima carne strappata da uno stomaco.

**

Che bestia sei. Che bestia mentre aspetti col muso l’acqua
battere sul dorso e le zampe arrivare alla nuca, mentre latri
all’erba che spacca in giardino il pezzo vicino di cemento.
Dalle foglie ritorna il grecale, la pioggia passa dalla feritoia
nella casa, dai tendoni che coprono i raggi. Questo e di come
ci siamo dimenticati, di come è successo in fretta. Tenendoti
tu ai miei fianchi io alla maglia stesa accanto. Ora è la mossa.
Fermo. La Bugonia. Solleva le mani dai fianchi, la mossa che
faccio col culo. Svella piano la carcassa mia dalle labbra,
la carcassa qui esplosa, il suo fegato emerso dalle piume.

**

Vi seguirà il male dietro l’edera, e di sopra,
sul balcone in lamiera che avete per rifugio.
Non è il tempo delle corse alla ringhiera
mentre lo sfondo si disossa, e passa dall’arco delle vie
per la montagna. È morto anche il vecchio prete
di Ragalna, per la fine del suo giorno una domenica.

Chissà che luce vi assale lì dai tetti, dove il sole si
inurba coi pastori fra i negozi e che fatica morire
anche voi nella chiesa col barrito alto della fiera.
Qui nel lontano la nebbia muove la pianura
sopra i ponti, dalla miseria di colline, altre volte
fuori alla finestra si alza lo scheletro di un albero.

**

Sgruma tutto l’osso, spolpa le parti del petto non ti fermare
nei calli; tu scheggia gli incisivi sull’osso. Questo amore
con la carne ci ha fatti bestiame umano di denti e radice
di pianta tutta antica tutta crudo inverno. Sgruma l’osso
anzi ascolta: un fischio convoca all’oggi i cadaveri nati
sotto l’orrore delle dita.

Anche la donna, Vera, che pare tua figlia, la donna che guarda
non un punto ma le case, è carne putrefatta già nell’atomo
nel ribosio è carne di rovina, carne rischiarata dai fotoni
al virginale. Non le mani guarda ma la felce cresciuta
sul buio, che il buio tormenta col suo verde. Sui tasti supera
comuni di uomini in trofallassi. Crea suono.

La moltiplicazione del Signor Distruggere

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di Helena Janeczek
Abbiamo un problema, un problema culturale e politico.
L’onnipresenza del linguaggio misogino (misogino e non più solo maschilista) che nello spazio dei media (social e tradizionali) è diventato da tempo la norma della violenza verbale.
Normale il tweet di Massimiliano Parente – l’ennesimo – che usa come sinonimo di “minchia” il cognome di Michela Murgia, mentre a lei pare cosa di un altro mondo che una rivista americana la difenda da un troll fascistoide. O Marco Gervasoni che, qualche settimana prima, commentava la copertina dedicata a Elly Schlein con “ma questa è n’omo?”
Lo “scandalo” della modella Armine Harutyunyan scoppiato a un anno dalla sfilata di Gucci e divampato solo in Italia. Le valanghe di veleno su Greta Thunberg, ricorrenti come le anomalie meteorologiche causate dal cambiamento climatico.

Le forme dell’amore

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di Matteo Quaglia

 

Mamma diceva sempre che non esiste solitudine, per chi non apprezza la compagnia. Secondo lei, per soffrire davvero, era necessario conoscere le alternative.

Papà era un tipo più pragmatico. Un campione dell’evoluzionismo darwiniano. Non solo perché ha modificato la propria caratura umana in modo direttamente proporzionale al lievitare della sua influenza nell’Apparato, ma anche perché è venuto a patti con lo stravolgimento di una vita, pianificata, fino a quel momento, al minimo dettaglio. Questo non significa che sia stato un cattivo padre. Non uno di quelli a cui si chiede di leggerti la storia della buonanotte. Non uno di quelli che ti accompagnano al corso di danza, o al cinema. Il suo pragmatismo lo ha guidato lungo le nostre vite con l’ostinazione del sordo. Ha chiuso gli occhi ed è andato avanti per la sua strada.

L’ultimo ricordo che ho, di lui in vita, è di questa mattina. Un uomo con la cornetta in mano e le gambe di burro. Quando hanno telefonato per dirci che mamma era morta, la faccia di papà ha assunto l’espressione di certi quadri di Courbet. Non ha versato una lacrima e non ha detto una parola. Si è chiuso nel suo studio e da quel momento, per lui, ho smesso di esistere.

Sebbene fossimo preparati alla notizia, la scomparsa di qualcuno che ami è sempre un pugno su per il culo.

Papà si è impiccato senza lasciare nemmeno una lettera, o un’altra forma di addio. L’ennesima dimostrazione dell’economicità di un certo funzionalismo.

Quando ho bussato e non ho ricevuto risposta, ho inspirato e ho chiuso gli occhi. Ho aperto la porta del suo studio ed era lì, appeso, con una specie di ghigno che ricordava un sorriso. L’ho tirato giù e l’ho adagiato sul tappeto. Mio padre era un uomo compatto, ma non avrei mai detto che pesasse così tanto. Era così compatto che, se mi ha voluto bene, è solo perché amava mamma. Il suo sentimento, nei miei confronti, una forma di rispetto per la donna che amava così tanto.

 

Così, in un colpo solo, ho perso mamma e papà. Ho sempre creduto che questo genere di coincidenze capitassero solo nei b movies, o in seguito a qualche cataclisma. La verità è che la vita sa essere più grottesca di ogni finzione o evento naturale. La verità è che papà non mi ha mai voluto e, dopo la pensione, mamma era il suo unico motivo di vita. Quando ti dicono che si può imparare a voler bene alle persone, be’, è una grande cazzata. Imparare non è da tutti. Voler bene non è da tutti. Dicono che si possa imparare dai propri sbagli, ma non è sempre vero. Ho capito che mio padre si era sempre adattato a tutto, perché non era in grado di adeguarsi a niente.

Dopo aver tirato giù papà e avergli dato quel minimo di compostezza cui aveva sempre aspirato in vita, ho chiamato il portavoce dell’Apparato per dargli la notizia. Gli ho detto che papà era morto d’infarto. Gli ho detto che avrei utilizzato la Macchina, quel giorno stesso, perché avevo una cosa da fare. Il portavoce dell’Apparato ha risposto indicandomi un indirizzo e un’ora precisa. Ha detto che mi avrebbero aspettato lì, con la Macchina e le condoglianze.

 

Mamma mi raccontava sempre che, quando ha scoperto di essere in attesa, ha trascorso un pomeriggio pensando al nome da darmi. Papà non le è stato molto d’aiuto. Più per questione di volontà, che per mancanza di immaginazione. Se avesse conosciuto le conseguenze che il parto avrebbe avuto sulla salute di mamma, papà l’avrebbe costretta ad abortire. Non voglio dire che, così facendo, avrebbe risolto due problemi in uno, ma insomma.

Il punto è che papà amava mamma e ha accettato la sua volontà di diventare madre e di consacrare quell’errore in una forma di amore. Ha accettato la mia nascita come un moscerino che ti si infila nell’occhio.

Mamma mi ha più volte detto che non sono stata proprio il frutto di uno sbaglio, perché non è mai proprio così. Ha ripetuto che, se anche sono stata uno sbaglio, sono lo sbaglio che l’ha resa più felice. Il nome che mamma ha deciso di darmi, quando sono nata, è Mia.

Ho raggiunto l’indirizzo all’ora indicata e ho trovato gli uomini dell’Apparato ad attendermi, i volti scuri di chi si sforza di dimostrare dolore e comprensione. Ci sono state strette di mano e parole di circostanza. Mi hanno chiesto se sapessi come utilizzare la Macchina. Ho detto di sì. Mi hanno detto che non ci sarebbe stato bisogno di riportare la Macchina indietro, perché la Macchina è sempre ovunque.

 

Così sono arrivata in quell’altro indirizzo preciso, a quell’ora precisa di diciannove anni fa. Mamma mi ha raccontato che lei e papà si sono conosciuti un pomeriggio piovoso, in un vecchio caffè. A mamma era caduto il libro che stava leggendo all’epoca, papà l’aveva raccolto e da lì era nato tutto quanto. Da lì ero nata io.

Vedo mamma. È giovane, una ragazza con la spensieratezza di chi ama le giornate di maggio. Il libro sotto il braccio. Mi hanno sempre detto che sono mia madre da giovane, ora ne ho la prova. Forse è questo il motivo per cui, papà, non ha mai utilizzato la Macchina per cambiare il corso degli eventi. Per cancellarmi dalla storia. Forse, questa è la stata la sua personalissima forma di amore.

Ora è il mio turno per fare ciò che va fatto.

 

Si dice che si impara dai propri sbagli, ma a volte anche gli sbagli imparano. Ed è per questo che siamo tutti e tre dentro il caffè e fuori pioviggina e siamo tre sconosciuti dal destino intrecciato. Da giovane, papà sembra meno duro, meno intagliato nel legno. Forse, è diventato ciò che è diventato in seguito alla mia nascita. A vederlo, ora, pare impossibile che tra diciannove anni si appenderà per il collo.

Mi avvicino a mamma. Lei non mi nota. È appoggiata al banco del bar. È bellissima. Papà è poco distante. Anche papà si avvicina, per ordinare da bere. Mamma si volta verso di me e il libro le scivola da sotto il braccio e cade al suolo, sollevando un piccolo sbuffo di polvere. Mi chino e raccolgo il libro. Lo porgo a mamma, che mi sorride. Papà nota la scena e mi sorride. Poi abbassa gli occhi sul giornale che sta leggendo.

Mi guardo le mani. Sto iniziando a scomparire, come Marty McFly in Ritorno al Futuro. Certe volte la vita è davvero come un film, a quanto pare.

Ho la testa ovattata, tanto che posso sentire i battiti del mio cuore farsi sempre più leggeri, mentre un raggio di sole bianchissimo attraversa i vetri impolverati del bar e  mi bagna di luce. Mentre scompaio per sempre, nel pomeriggio, ripenso a quella frase di mamma, secondo cui, per soffrire davvero, è necessario conoscere le alternative. Mi chiedo se papà soffrirà. O se, senza di me, la sua vita sarà più felice. Mamma non mi avrà, ma mi ha già avuta, in un’altra vita. E vissero tutti felici e contenti, in un modo o nell’altro, senza di me e con me.

I miei occhi incrociano di nuovo quelli di mamma e le labbra di mamma si aprono e mamma sembra sapere chi sono e mi dice qualcosa, che non riesco a capire, e in un attimo sono solo un ricordo, un’altra forma dell’amore, e scompaio con uno sbuffo negli angoli più reconditi della vita futura di mamma e papà.

Livraisons

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photo by Robert Mack
photo by Robert Mack

Una libreria in inglese

 

Di Angelo Vannini

 

 

A Phyllis Cohen,

e alla sua libreria di sogni

 

Non sono mai stato la persona adatta a questo, pensai una volta arrivato davanti alla porta, benché io a volte sia capace di fare quello che altri non possono fare in un lasso così breve di tempo, è evidente che non sono mai stato adatto, a questo come a ogni altra cosa del resto, perché tutto quello che ho intrapreso in vita mia è sempre capitato mio malgrado, anche se per idea mia, anche se profondamente voluto da me, come questa idea assurda e terribile di lasciare Perpignano per andare a vivere ad Aix-en-Provence, una cosa che certamente ho voluto io ma che è andata, fin da subito, contro me stesso, perché era evidente, e lo era fin dall’inizio, che mai sarei stato all’altezza di fare quello che ad Aix-en-Provence mi era chiesto di fare, scrivere seicento pagine, solo a me poteva venire in mente di lanciarmi in un’impresa del genere, dato che non avevo tempo la mattina, né il pomeriggio e tantomeno la sera, e poi anche con tutto il tempo del mondo era perfettamente chiaro che non sarei potuto riuscire a scrivere seicento pagine tutte in francese, perché io non sono adatto a queste cose, anche se a volte preferisco mentirmi e non voglio riconoscerlo, anche se la gente non vede la mia inadeguatezza per quella che è, la mia insufficienza rispetto alle idee che si fanno di me, o delle mie capacità, che sono del tutto errate.

Sono idee del tutto errate, come errato è questo progetto, pensai davanti alla porta, un progetto per cui io divento un anello assolutamente indispensabile, e che farò certamente fallire, se soltanto questa cosa fosse vera, ma vera, voglio augurarmi, non è, e allora con l’aiuto della sorte, perché di sfighe ne ho avute tante, una dietro l’altra, sempre, da quindici anni a questa parte, ininterrottamente, tantoché mi dico che prima o poi questa lunga discesa, per quanto evidentemente senza fondo, come sono tutte le discese quando sono vere discese, e non finte, dovrà incontrare qualche soprassalto, uno o due, una cosa tra mille che va per il verso giusto, almeno una volta, cristo, una dico, forse con una manna dal cielo ce la farò, e ci sarà una cosa che riesce come dovrebbe riuscire, pensavo davanti alla porta, almeno una e per cui saranno contenti del mio operato, e penseranno che sia anche merito mio se sono riusciti a raggiungere un obiettivo, come appariva allora, tra i più difficili, anche se è e rimane del tutto improbabile, ma qui è tutto nero, pensavo, non c’è nemmeno una lucina eppure non possono essere se non qua dentro, almeno così mi hanno detto, pensai appena vidi tutto chiuso e sbarrato, l’interno preso dal buio, ma la serranda non era abbassata e in vetrina ancora si vedevano libri come se non fosse chiuso, libri ovunque, da ogni parte, libri come se piovessero, eppure la porta non si apriva, maledettamente, cominciai a pensare, era chiaro che non si sarebbe aperta con la scalogna maledetta che mi porto dietro, e come faccio ora che loro non mi vedono né possono sentire dato che io non posso urlare, non devo attirare l’attenzione proprio ora, pensavo, dato che qui sul marciapiede la mia situazione è irrimediabilmente illegale, di sicuro mi capiterà qualcosa se rimango ancora in questa strada, le volanti non passavano mai nella rue Delavigne, mi avevano detto loro, ma io di queste cose non mi sono mai fidato in vita mia perché non so quante volte sono stato controllato in situazioni completamente improbabili, come quella volta ad Ancona mentre passeggiavo con un amico, tranquillamente, nella maniera più tranquilla del mondo un piede dopo l’altro sul marciapiede della Via Nazionale, quando appena svoltati a sinistra davanti a un bar tre carabinieri col mitra, pareva che aspettassero proprio noi quei diavoletti, mezz’ora per controllare la carta d’identità via radio mentre ci tenevano sotto tiro col mitra come fossimo banditi usciti da una rapina, ed eravamo pure vestiti bene quella volta, camicette abbottonate e appena stirate, un primo pomeriggio d’estate, che cazzo ci facevano lì col mitra in un pomeriggio d’estate, pensai mentre ero davanti alla porta, con la sfiga che mi ritrovo passerà sicuramente una volante dei gendarmi stanotte, passerà proprio qui se non mi sbrigo ad entrare, ma loro non rispondono, anche quando comincio a bussare, non c’è nessuno dentro porco cane, m’hanno lasciato qui nella merda, era prevedibile, era assolutamente prevedibile che sarebbe stato un viaggio fatto completamente a vuoto e che mi sarebbe costato caro, avevo pensato mentre nessuno da dentro rispondeva, esposto nel mezzo della notte ad ogni tipo di ispezione, multa, prelevamento e incarceramento, tutto questo era chiaro che sarebbe successo, se all’improvviso, dopo non so quanto tempo, non mi avessero aperto. Io non ero adatto a quelle cose, a tutte quelle cose voglio dire, quello che facevo ad Aix-en-Provence come quello che avrei dovuto fare lì a Parigi, non ci sarei mai riuscito, per non parlare poi di quello che avevo fatto a Perpignano e per cui, quasi, ero morto di fatica e follia, con la schiena a pezzi e otto chili in più che non riuscivo a smaltire, per quanto corressi, per anni, tutta colpa del mio metabolismo, anche con quello sono stato sfigato, una che ne andasse dritta non c’era né ci sarà mai, la merda surgelata, parevo avanzando, se soltanto qualcuno mi avesse guardato accuratamente se ne sarebbe accorto, era evidente, ma nessuno mi guardava accuratamente e la cosa non mi sorprende, perché io stesso avrei fatto di tutto per tenermi lontano dalla mia vista, se solo avessi potuto, invece non potevo e mi toccava essere di nuovo lì con me stesso nel mezzo della notte aspettando che mi aprissero, e anche dopo che mi avevano aperto ero rimasto solo con me stesso, in mezzo a tutti gli altri che a poco a poco si erano alzati e visibilmente non erano per niente contenti del mio arrivo, e come biasimarli del resto, dato che neanche io ero contento, quella volta come ogni volta, dell’arrivo, che evidentemente non ero capace di fare e che fallivo miserabilmente in modi sempre più disastrosi e avvilenti.

A Perpignano, almeno, ero potuto sparire, anche se solo per un lasso limitato di tempo, a Perpignano avevo potuto far finta di non esistere e questo aveva potuto confortarmi, per un po’, e soltanto relativamente, ma poi da Perpignano decisi di andarmene per tentare questa follia di Aix-en-Provence che pagherò certamente caro, e presto, non appena la mia impossibilità di adempiere il contratto che ho firmato cinque mesi fa diverrà chiara a tutti, tempo un anno o due al massimo, pensai una volta entrato nella libreria, che non so perché ma non pareva una libreria anche se era piena di libri, e quella cosa non era certo di buon augurio, pensai, e subito pensai a non pensarlo, non più per tutto il resto del viaggio, tempo un anno o due e si accorgeranno dell’errore madornale che hanno fatto con me, sarò espulso dal centro di matematica applicata e mi toccherà fuggire da Aix-en-Provence e probabilmente tornare a Perpignano, anche se a Perpignano non ho più niente da fare, ma almeno da Perpignano potrei andare facilmente, si fa per dire, a lavorare in Catalogna, fare avanti e indietro tra la Spagna e la Francia per insegnare a scuola, finché, pensai, non mi sarebbe esplosa la testa.

A Perpignano sarebbe stato possibile, mentre ad Aix no, ma io in quel momento mi trovavo ad Aix, dove tutto sarebbe, un giorno all’altro, precipitato, anzi no, non ero più ad Aix, ero appena arrivato a Parigi senza sapere neanche il perché, imbarcato in un progetto completamente folle per cui non ero certamente all’altezza, mi trovo completamente allo sbando, pensai una volta entrato, è un miracolo che non mi abbiano già arrestato e chissà come farò, a festa finita, per ritornare a casa, a festa finita avevo pensato, anche se era chiaro che non era una festa la ragione per cui mi avevano voluto lì, una ragione di estrema ed impressionante urgenza, mi aveva detto Éléonore per telefono, fiondati ti prego, aveva detto e subito mi ero fiondato, come se avessero avuto davvero bisogno di me quando era del tutto evidente che io ero e sarei rimasto in ogni senso superfluo, e non si capiva perché continuassero a chiamare me, dato che non ero certamente il migliore in questo mestiere, che tra l’altro non era un mestiere perché non poteva darmi da vivere dal momento che facevo di tutto per restare nella legalità, e io non volevo essere uno illegale, assolutamente, mai avrei accettato di esserlo, e quindi mi toccava farmi assumere di anno in anno dai dipartimenti più svariati delle più svariate università per avere di cosa pagare l’affitto e comprare il pane, io non ero ricco e anche su questo ero stato sfortunato, perché c’è chi nasce senza problemi di soldi e senza problemi di soldi finirà per morire, ma io non facevo parte di questa categoria, i miei erano poveri cristi nati e cresciuti a Vaccarile dove pure io ero nato e cresciuto, prima di finire ad Urbino assieme ad altri poveri cristi, quanti crocifissi, mio dio, pensai una volta finito dentro alla libreria, quanti ne ho visti in tutto e quanti ne sarò ancora condannato a vedere. E questi qua pure erano poveri cristi, pensai, quello là da Buenos Aires è dovuto fuggire e da anni si nasconde a Parigi sotto falso nome, questa che da Chicago è venuta a ripercorrere le orme della Resistenza francese, quell’altro che si spaccia per greco ma in verità è apolide, dove cazzo sono finito, pensai, e soprattutto perché, per quale dannata ragione mi sono imbarcato in questa impresa chiaramente destinata a fallire, e per di più in un momento come questo, in cui sarei dovuto rimanere ad Aix-en-Provence a fare quello che stavo facendo, cioè niente, perché niente ero in grado di fare ad Aix-en-Provence dal momento che anche lì mi ero imbarcato in un’impresa impossibile, seicento pagine di formule, e per di più in francese, formule che mai sarei riuscito a scrivere, dovendo lavorare mattina pomeriggio e sera soltanto per tirare a campare, questo mondo è un mondo di santi, pensai una volta tolto il giaccone, tutto un sacrificio e nessuna redenzione, almeno non in questa parte della vita, e io non credevo all’altra parte, non sono uno che crede facilmente, pensai, non ho mai creduto alla befana per esempio, o a babbo natale, quando nonna e nonno ci venivano a trovare dicendo questo te lo manda babbo natale io sparavo già allora una pernacchia, e correvo via, perché capivo, se non vedo non credo, ma quello che vedo credo, e vedevo tutti i santi, i sacrificati, i matti, le bollette da pagare e le madonne da tirare, e chissenefrega, dicevo al prete ogni volta che mi pronosticava l’inferno, e avevo ragione io, perché l’inferno è in questa terra, non in quella. Togliti la merda dalle ossa, vedi se puzza ancora, dicevo ogni volta a mia sorella, se puzza ancora è perché tutto è dentro, rogna pure nel sangue, aveva fatto bene lei a lasciare l’Europa per rifugiarsi in Vietnam, e mi dicevo spesso che anche io avrei dovuto raggiungerla, mettere una croce sopra a tutto quanto e partire, ma poi quando andai in estate mi resi conto che non era meglio, la vita lì era uno scatafascio esattamente come qua, esattamente come qua si tribolava per le stesse ragioni per cui tribolavamo qua, cosa ho fatto di male io, pensavo allora da mia sorella, che neanche qui posso stare in pace due minuti, è proprio vero che è nel sangue, mi dicevo, e già ero tornato via, ero a Perpignano ancora prima di essere tornato a Perpignano, e una volta tornato davvero a Perpignano ci misi poco per andare ad Aix-en-Provence senza esserci ancora andato, pensai mentre guardavo i libri che erano ovunque, per terra e sugli scaffali, tutti in inglese cristo santo, neanche un testo in francese in una libreria del sesto arrondissement, manco fossimo davvero a Berkeley, mi dissi, perché noi viaggiamo con la mente prima del corpo, e solo dopo il corpo segue, ma a volte è il corpo che va e la mente che tiene, non si muove, e allora chissà se mai mi sono mosso da Vaccarile, pensai davanti agli scaffali tutti in inglese, a Perpignano forse non ci ero mai arrivato e me ne rendevo conto in quel momento stesso, mentre mi preparavo a essere nuovamente inutile per me e per tutti in una faccenda, come disse Éléonore, della massima urgenza, che certamente non avrei saputo affrontare nella maniera adeguata, ammesso che una maniera adeguata potesse mai esistere in un mondo come quello in cui siamo stati condannati a vivere.

Ma porca, vociferavo, porca, sempre dentro di me, mentre quelli si muovevano tutti in coro per sistemarmi, era quasi commovente tutto quel giostrare all’unisono attorno al mio materiale, devono tenerci davvero, pensai, se in piena notte ancora non mi hanno mandato a cagare, io mi sarei mandato a cagare molto spesso, se avessi potuto, pensai, e soprattutto per esser piombato dal nulla con così tanto ritardo, ma cosa mi è saltato in mente, partire da Aix-en-Provence in una situazione di emergenza sanitaria assoluta per andare illegalmente a Parigi, al fine di compiere un’operazione che mai sarei riuscito a compiere, in pieno lockdown, e questo avrebbe dovuto essere sotto gli occhi di tutti, ma loro probabilmente fingevano di non vedere, era davvero improbabile che pensassero si potesse realizzare grazie a me quello che volevano realizzare, anche per una combriccola di svitati come erano loro, non era verisimile che ci credessero davvero, pensavo mentre mi sistemavo, in ogni caso non sarei mai riuscito a dormire quella notte, questo era evidente, e anche le seguenti, sarebbe stato impossibile dormire in una situazione come quella, in un posto come quello e con tutto quello che stava succedendo fuori, una città fantasma, mi era sembrata, mi accorsi in quel momento, Parigi al mio arrivo, e probabilmente non sarei mai riuscito ad arrivare in quella libreria senza risvegliare almeno un fantasma. L’unica cosa bella, pensai mentre attaccavo i computer alla corrente, è che a quella gente importa di me, almeno apparentemente, mi hanno sempre detto le cose come stanno, che fanno quello che fanno non per soldi, perché non li hanno e mai li avranno, ma per giustizia, per giustizia fanno quello che fanno perché quando il mondo è rotto c’è chi pensa ancora che bisogna aggiustarlo, e questo era per me l’unica cosa bella che però non poteva darmi sollievo perché io non ero all’altezza, non avrei mai potuto far parte del loro gruppo in pianta stabile senza morire, un giorno o l’altro, di fame, e non capivo come facevano loro, a non morire di fame, uno con meno lavoro dell’altro, chissà quale era il segreto, chi gli spesava l’affitto, dato che, ne ero sicuro, non era il commercio perché non vendevano, non era il Centro di Mediazione Anticoloniale perché ancora non esisteva, ancora quel centro non era un centro, dato che sarebbero divenuti loro il centro, ognuno di loro e tutti assieme, un passeraio, non avevano neanche un ufficio se non quel buco di libreria in cui si rifugiavano di tanto in tanto da qualche mese, a quanto Éléonore al telefono mi aveva detto, ma come si fa, pensai, a essere in una situazione come questa, in un posto come questo, cacciato qui senza nessuna possibilità di successo, niente, a Parigi non riesco, ad Aix sarà un fallimento, Perpignano ormai per me non esiste più, come mi sono ridotto, tra l’altro non si sa nemmeno se ad Aix riuscirò a tornare senza farmi arrestare, solo a me poteva capitare una situazione così, per cui l’unico posto sicuro è questo qui, una libreria in inglese, chissà come ci sono finiti gli altri, pensai, il quartiere dell’Odéon, dico, roba da matti, voler guarire il mondo a partire da qui, come fosse un sogno o un bisogno, una fisima da bel lunedì.

 

Antropocene fantastico

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In questi giorni è uscito nelle librerie Antropocene fantastico. Scrivere un altro mondo, il nuovo pamphlet di Matteo Meschiari, pubblicato da Armillaria.

Ne ospito qui un estratto in anteprima, tratto dal capitolo Kairocene.

 

KAIROCENE – RIFONDARE IL TEMPO

 

Quale passato si annida nel futuro? In che cosa Paleolitico e Antropocene si somigliano? La parola Antropocene è irritante, un’irritazione che viene essenzialmente dalla sua proteiforme adattabilità ai contesti, dalla sua eccessiva carica di seduzione e facilità d’uso. Ma, concettualmente, quello che non convince è la sua perenne atmosfera alla Blade Runner, il suo sapore di futuro a tinte fosche, reale ma banale, come una quinta teatrale fissa, scontata. L’esperienza di Covid-19 ha smentito ogni visione distopica: l’Antropocene è qui senza mutare la percezione del presente. Anzi. Nei comportamenti e nelle atmosfere il presente è venato più di preistoria che di fantascienza. Filosofi oscurantisti e virologi impotenti ci fanno sentire più in un passato immaginato che in futuro promesso. È inquietante, certo, ma si apre una possibilità inedita all’immaginario del dopo: un Antropocene dagli attributi diversi, più debitore a J.R.R. Tolkien che a Philip K. Dick. E Tolkien per me è il vero scrittore-guida in questo momento storico, perché se un Antropocene Fantastico è possibile è solo tornando alla radice di chi ha riflettuto sul fantastico in modo ineguagliato. Come dicevo in precedenza, Tolkien non è il Fantasy, perché lo scarto è tutto tra i due mondi è tutto nell’idea di studio, nella filologia della parola e dello sguardo, e soprattutto nella credenza: Tolkien ci ha lasciato delle istruzioni per l’uso, a una guida mitopoietica del presente e del dopo che ci attende. Fiaba, subcreazione, storytelling fantastico non sono cose da conoscere sulla carta, non sono il destino di un singolo autore, ma sono pratiche sociali, collettive, performative, che hanno il potere di aiutarci a reimmaginare la realtà: «Tutte le narrazioni si possono avverare; pure alla fine, redente, possono risultare non meno simili e insieme dissimili dalle forme da noi date loro, di quanto l’Uomo, finalmente redento, sarà simile e dissimile, insieme, all’uomo caduto a noi noto».

 

La citazione chiude un testo in cui all’inizio si pongono le basi: Feeria «è un reame che contiene molte altre cose accanto a elfi e fate, oltre a gnomi, streghe, trolls, giganti e draghi: racchiude i mari, il sole, la luna, il cielo, e la terra e tutte le cose che sono in essa, alberi e uccelli, acque e sassi, pane e vino, e noi stessi, uomini mortali, quando siamo vittime di un incantesimo». Il tono apparentemente discorsivo, a tratti bonario, del saggio Sulle fiabe, non deve distrarci con la sua apparente semplicità. Tolkien sta leggendo una conferenza (una Andrew Lang Lecture tenutasi all’università di St Andrews l’8 marzo 1939) in bilico tra filologia e autopoetica. Proprio la sua natura ambigua, duplice, rende difficile estrapolare delle coordinate “utili” a ottant’anni di distanza, ma quello che si dice qui è soprattutto un invito ad aggiustare lo sguardo, una cosa difficile da proporre e da apprendere. Tolkien ci avverte: Feeria non è solo storie di fate o storie di umani tra le fate, Feeria è un luogo, e non dobbiamo smettere di pensare che in quanto luogo è fatta anche di cose “comuni”, “normali”, che in realtà comuni e normali non sono. Su posizioni non troppo lontane da quelle di Viktor Šklovskij sullo straniamento, Tolkien sta dicendo che abbiamo perso la vocazione a guardare il mondo “primario” con attitudine meravigliata. Come recuperare allora lo stupore verso un sasso o una foglia uscendo «dalla tediosa opacità del banale o del familiare»?

La strada non è semplice perché bisognerebbe comprendere e accettare una frase densissima che il filologo e il linguista storico cala nel suo saggio come un fendente: «le lingue, soprattutto le europee moderne, sono una malattia della mitologia». Tolkien, contrariamente a chi dice di eliminarli, elogia la funzione poietica degli aggettivi: «La mente che pensò leggero, pesante, grigio, giallo, immobile, veloce, concepì anche la magia atta a rendere cose pesanti, leggere e atte a volare, a trasformare il grigio piombo in giallo oro, l’immobile roccia in acqua veloce». Questo atto di subcreazione è lo stesso che ritroviamo negli inventori del mito: la mitopoiesi è un atto linguistico primario molto più articolato di una mera architettura allegorica. Il mito non è il tuono che diventa un dio o un irascibile contadino dalla barba rossa elevato a rango divino, il mito è la zona di coesistenza di tuono, Thor e contadino, un luogo di simultaneità narrativa e ontologica che Tolkien chiama appunto Feeria. Feeria è allora la co-possibilità. E dove la co-possibilità dei piani si interrompe, per stanchezza creativa, per cinismo, per disordine cognitivo, per usura, allora ci troviamo di fronte a una specie di “malattia del mito”, una sfiducia della lingua per cui subcreazione e sospensione dell’incredulità sono solo giochi temporanei, fittizi, senza la “credenza” profonda di poter “fare mito” anche nel quotidiano. Il problema, ovviamente, non è solo un nodo epistemologico del mondo contemporaneo. Sono e saranno sempre molto pochi i portatori di parola disposti a credere in un commercio diretto tra mito e tempo presente, in un reale scambio di fluidi tra Feeria e il mondo primario.

 

 

Ora, che ci piaccia o meno la parola, siamo entrati nell’Antropocene. Possiamo vedere quest’epoca di transizione e la futura prossima come un’ennesima declinazione distopica, come una serie Netflix da guardare a distanza stando seduti sul divano, oppure possiamo intercettare nell’Antropocene i grandi flussi mitici che, come accade a ogni epoca, lo attraversano e lo alimentano. Tolkien lo dice così: «Costruire un Mondo secondario dentro il quale il sole verde risulti credibile, imponendo Credenza Secondaria, richiederà probabilmente fatica e riflessione, e certamente esigerà una particolare abilità, una sorta di facoltà magica. Pochi si cimentano in compiti così ardui; ma quando li si affronta e li si attua in misura maggiore o minore, si ottiene un risultato artistico senza pari: arte narrativa, insomma, elaborazione di racconti nella forma primaria e più pregnante». È chiaro che chiedersi come sarà la “letteratura del dopo” ha più a che fare con questo, con un sole verde, che non con potenziali e anodini romanzi su Covid-19, distanziamento sociale, contenzione domestica e mascherine a passeggio. Nel collasso e nella Pandemia, e forse proprio per questo, dovremmo ricordarci di quelle che Tolkien chiamava «le cose più permanenti e fondamentali».

Tolkien concepisce il Silmarillon nel 1917. Suo figlio Christopher lo pubblica postumo nel 1977. Christopher aveva 53 anni e Guy Gavriel Kay, tra il 1974-75, ne aveva appena 20. Kay, canadese a Oxford, aiutò Christopher nella riscrittura delle parti più tardive. Il libro, che Tolkien voleva pubblicare assieme al Signore degli anelli, ha avuto una genesi di 60 anni. E nonostante la riscrittura postuma resta un incompiuto. Al suo interno ci sono tempi narrativi e tempi redazionali che formano un intrico così complesso da aver immobilizzato il loro stesso autore. Per noi invece sono un invito a riflettere non sul worldbuilding ma sull’etica della parola: dalla cronaca alla cronologia, dalle agenzie stampa agli annali. Un cambio di prospettiva che potrebbe aiutare a stendere un balsamo calmante sulla fretta di correre a registrare tendenze intellettuali e mode sulle testate on line. Il futuro è crollato. Abbiamo tutto il tempo adesso. Tolkien era sintonizzato su Kairos non su Kronos. Noi certamente non siamo Tolkien, ma siamo lettori e scrittori davanti a una scelta. E questa scelta è di vita o di morte.

 

 

Storia di farfalle e altre metamorfosi di Chiara Pellegrini – recensione

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di Silvia Morotti 

 

Storia di farfalle e altre metamorfosi di Chiara Pellegrini (Robin, 2020)

 

“A Vincenzo Consolo, maestro di voce, maestro di memoria”: Chiara Pellegrini esordisce con un romanzo, Storia di farfalle e altre metamorfosi, che si apre nel segno di un’educazione letteraria e morale. Un libro polifonico e stilisticamente curato, con una lingua limpida, incisiva e al tempo stesso capace di abbandonarsi al “messaggio celeste” (p.9) della natura, di scendere in profondità, anzi, come scrive lo stesso Consolo, di “verticalizzare il linguaggio, spostarlo verso la zona della poesia”. Il romanzo inizia con una data fortemente simbolica: 8 marzo mattino. Si tratta di una lettera, la prima di un lungo carteggio: l’autrice è una delicatissima adolescente che ricorda Katherine Mansfield nel nome e, soprattutto, nel sentire, nel suo trovare da subito, più o meno consapevolmente, la propria religione e il proprio mondo nella scrittura. 8 marzo mattino: di quale anno? Non importa. Il tempo del romanzo si dilata: l’adolescente scrive alla se stessa che sarà, domanda alla donna se potrà finalmente, un giorno, “riempire fino in fondo ogni spazio” o se resterà per sempre “un angolo di vuoto” (p.7). Ed ecco che la donna risponde: non vuole illudere, non vuole nascondere alla se stessa del passato le ferite “che gocciano per molto tempo” (p.17), vuole che la ragazza impari ad appartenere, a “rimanere diversa” (p. 23).

La ragazza di ieri e la donna di oggi appaiono al lettore racchiuse in una stanza ideale, riunite in un miracoloso dialogo, ma il romanzo non è privo di un aggancio con l’esterno: possiamo immaginare che nella stanza ci sia una grande finestra, una di quelle finestre che tanto amava anche un’altra adolescente, Emma Bovary; lo sguardo delle due donne si posa quindi fuori: non è solo uno sguardo sognante, è anche lo sguardo di chi contempla il mondo, un mondo che si lascia cogliere nel momento in cui la primavera si schiude, fino a quando matura, alle soglie dell’estate. Una primavera e un’estate di qualsiasi anno, una primavera e un’estate di una vita che fiorisce e si trasforma, come ogni vita in ogni tempo.

La metamorfosi è talvolta espiazione e percorso di salvezza: “si resta diversi”, si deve attraversare il dolore, perdere il sé per poi riconoscersi (o almeno ricomporre qualche frammento). Tra i tanti riferimenti letterari possibili, l’immagine della farfalla non può che ricordare Guido Gozzano, l’entomologo, chiuso nel suo eremo, dove silenziose e in attesa dormono le crisalidi. Nel romanzo di Chiara Pellegrini, l’attesa è sicuramente un tema chiave, come è naturale in pagine scritte in gran parte da un’adolescente; l’adolescenza è l’età dell’attesa ed anche l’età in cui la vita ti si offre come un ventaglio di infinite possibilità: attesa, quindi, ma anche scelta. Storia di farfalle e altre metamorfosi non è un romanzo crepuscolare: è più forte, alla fine, la voglia di bruciare nella luce, dopo aver passato la vita a evitare di scegliere. Quando la metamorfosi avviene, quando Caterina si scopre farfalla, porta impresso, come l’Acherontia di Gozzano, un segno spaventoso, qualcosa a cui non è riuscita a dar nome per molto tempo, un trauma che ha condizionato, sotterraneo e prepotente, tutta la sua esistenza. Se le voci maschili sono evanescenti – l’amore non goduto della giovinezza o l’amore della maturità- c’è invece personaggio maschile che, pur restando sullo sfondo, domina l’intera esistenza di Caterina: è la vera ferita, il dolore rimosso, l’incarnazione del male che non ha voce ma ha “mani”, “mani calde”, odiose e brutali, il cui ricordo ossessiona Caterina. Il trauma avviene quando Caterina sta per sbocciare. La farà sentire “fuori posto” (p.7) nella sua primavera e nella sua estate. Le renderà indispensabile trovare una strada per “restare diversa”, per fiorire, nonostante tutto. Un varco per Caterina sono le piante e i fiori che lei ama. Le piante non possono muoversi, non possono parlare. Le piante le somigliano ancora di più dopo quel trauma che l’ha inchiodata e le ha tolto la voce. Eppure, lei continua a fiorire, consapevole di quanto dolore richieda il mutare forma. “Fiorire non è uno scherzo”, scrive Caterina adulta (cfr. lettera del 23 marzo, notte di stelle):

 

Fiorire non è uno scherzo. È necessario spaccarsi ed è doloroso. La gemma riposa nella fibra del ramo tutto l’inverno. Quando primavera entra e, come sappiamo, non bussa e ha passo sicuro, la gemma erompe dalla scorza ed è una spaccatura. Le fibre si sono tese allo spasimo dentro il ramo per far posto all’ingrossarsi di quel grumo composito e duro di vita e quando questo è gonfio abbastanza, ecco che la sua eruzione lacera e apre il varco. Primavera entra e non bussa e ha passo sicuro. Ieri il verde non c’era, oggi vibra a ogni soffio sulle punte dei rami. Ma questa esplosione, che sembra avvenuta stanotte, chiamata dal silenzio delle stelle, ha impiegato mesi per aggregarsi, comporsi, strutturarsi, e lo ha fatto a spese delle fibre dell’albero, piegate, ritorte, compresse e infine strappate, lo ha fatto succhiando, mungendo, spremendo linfe e umori vitali alla pianta tutta. Tutto quel che cresce fa male a tutto ciò che racchiude. Tutto ciò che cresce lacera tutto ciò che lo vorrebbe avvolgere e contenere. Crescere e racchiudere, coraggio e paura. Il movimento della vita. La vita e la morte. Coraggio e paura.

 

Anche la letteratura, come la natura, è cosa viva. In un universo frammentato e sfuggente, l’io si perde in un gioco di specchi: Caterina si ritrova nel mondo vegetale e nei libri, in altre voci di donne, poetesse, scrittrici o protagoniste di pagine narrative. Tra le molte storie citate, nel romanzo si ricorda il racconto Rose rosse, della siciliana Maria Messina, una storia dura e violenta: “sostieni anche tu, se ne hai coraggio, che è la solita scrittura femminea”, afferma la voce narrante, parlando a se stessa, ma rivolgendosi in realtà a un uditorio più vasto, al pubblico che ancora dibatte sull’annosa questione se esista o meno una scrittura femminile. A tale riguardo, l’autrice di Farfalle e altre metamorfosi rivendica l’esistenza di quello che Sandra Petrignani (Laterza, 2019) chiama “lessico femminile”: una lingua diversa, espressione di un “pensiero naturalmente autocritico” e spesso “inascoltato” (ibidem, p.7), una lingua che sa trattare con leggerezza temi pesanti, proprio come avviene per Maria Messina e per la stessa Pellegrini.

Caterina diviene farfalla e, in parte, si libera e si riconosce; non smette di confrontarsi con il dolore che l’ha resa quello che è, ma trova una strategia per “restare diversa”. Come Marcel, alla fine della Recherche, si scopre scrittore, così Caterina comprende che ciò che l’aspetta, da sempre, è “un volo di parole” (p. 217). Le due donne, la ragazzina e la donna matura, trovano un varco e balzano fuori, fuggono, in un luogo dove non è necessario scegliere. E passare quel varco “è rimanere diversi”, “trasfigurare” (cfr. p. 21):

 

No, non è una contraddizione: rimanere diversi è un trasfigurare. Sei ancora tu, ma indossi una veste nuova, come dopo una risurrezione, una volta che la pietra del sepolcro è rotolata di lato e si esce dalla tomba come dal grembo materno, scintillanti di luce e rinati.

 

Scrivere non imprigiona, scrivere è “restare diversi”: Caterina, come Katherine, trova nella scrittura la sua religione, il suo mondo, la sua vita.

 

Silvia Morotti

Neve in agosto

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(Avendo io frequentato, e continuando a frequentare, la “scrittura alimentare” non posso che essere felice di questa raccolta di “articoli alimentari”: primo volume di una serie, spero esaustiva, che raccoglie gli articoli che Tommaso Labranca scriveva da freelance per riviste e quotidiani. Il curatore mi ha regalato la sua introduzione che qui volentieri pubblico, ringraziandolo. Il libro è ordinabile in libreria oppure acquistabile online su questo sito. G.B.)

di Luca Rossi

Quella che segue è una raccolta abbastanza completa di articoli scritti da Tommaso Labranca ed è stata fatta con lintento di strappare unaltra piccola parte del suo lavoro dalloblio.
Non so se sarà mai possibile rileggere in una nuova edizione i libri che T-La (scritto come J-Lo) ha pubblicato prima di ventizeronovanta.

Quindi il volume che state sfogliando, a fronte di lacune delle quali mi assumo ogni colpa, avendo curato ogni aspetto, è un’operazione di salvataggio del suo pensiero, quello che nellanime Ghost in The Shell, uscito lo stesso anno di Andy Warhol era un coatto veniva chiamato salvataggio cerebrale: salvare i dati di un cervello umano su una memoria esterna. Oggi larga parte quello che rimane del cervello di Tommaso Labranca è fatto di pochi megabyte dispersi in rete. Opere che ha reso pubbliche, file e siti internet periodicamente cancellati. Quello che rimane riposa nelle pance di quei cetacei editoriali che sono i quotidiani e i loro archivi digitali.

Non si dovrebbe dire nelle prefazioni ma, da sempre uno dei cardini di questa microimpresa editoriale è la sincerità (con tutte le conseguenze del caso) questa collezione (e collazione) di articoli non è l’opera perfetta e non è l’opera definitiva su Tommaso Labranca. È quello che si è potuto strappare alla morte (e alla legge sul diritto dautore) di un autore così originale da non essere mai banale anche in quegli articoli che gli permettevano: «Di frequentare con una certa assiduità i negozi di alimentari.»

Aprile è il mese più crudele di tutti i mesi. Genera lillà dalla terra morta, mescola / memoria e desiderio, desta / radici sopite con pioggia di primavera.

Eliot nel primo frammento della Terra desolata sbaglia di quattro mesi, perché per chi vive di collaborazioni è agosto il mese più crudele: redazioni desertificate, caldo soffocante, il Mc Donalds di Piazza Oberdan con laria condizionata rotta, il gusto del mese di Agosto di Grom che era il gusto del mese di un altro mese ripescato. Un sapore banale e una Milano spettrale battuta solo da cadaveri di rifugiati stesi al sole a parco Sempione o tossici meno che ventenni che si lavano nelle vedove in piazza Mistral.

Meglio stare a casa a sbobinare, cronicamente in ritardo sulla consegna, la biografia di Riccardo Fogli come se non ci fosse un domani (e così è stato).

Ecco perché l’agosto nel titolo, agosto è il vero aprile, la cui pioggia aggiunge noia al mese dello spleen labranchiano. Un mese che ti faceva sentire morto, che ti faceva sentire lultimo e che lui passava in sella alla sua bici argentata percorrendo il perimetro di Linate per poi arrivare a Rogoredo e cercare lombra o il Wi-Fi in un McDonalds, in fuga da un temporale estivo che aggiunge solo umidità a una città tropicalizzata. In questo mese aveva scritto Le poesie dellagosto oscuro, che io e pochi intimi conserviamo in edizione limitata, con copertina in velluto nero e stellina argentata, rilegata a mano. Questa era la personale Terra desolata, per chi aveva fatto voto di non avere ferie:

Quel cadavere che lo scorso anno piantasti in giardino / ha cominciato a germogliare? Fiorirà / questanno? O il gelo improvviso / ne ha danneggiato laiuola? Oh tieni il Cane lontano / che è amico delluomo, senno con le unghie / lo metterà allo scoperto! Tu hypocrite lecteur mon ensemble, mon frere!

Il cadavere di Tommaso, quattro anni dopo ha iniziato a germogliare? E gli ipocriti lettori, gli amici, i colleghi che con una mano twittavano la perdita della più grande mente di una generazione, mentre con laltra inviavano il coccodrillo in redazione, oggi dove sono? Claudio Giunta in Le alternative non esistono ha scritto che l’effetto Labranca ha portato in Italia una nuova figura dintellettuale, più pop; che oggi è più facile parlare di pop con intelligenza. Come se la lezione di Labranca avesse aperto la strada a un nuovo modo di trattare il pop, lontano dalle cattedre e dagli scranni. Io penso però che il sacrificio sia stato troppo grande e troppo flebile è il colpo di coda dei nuovi salmoni del trash che hanno smesso di risalire la corrente e a 25 anni da Andy Warhol era un coatto (ma anche dopo Eco e Dorfles) applicano indistintamente le etichette di trash”, kitsch” e campai programmi della DUrso, come alle televendite di poltrone motorizzate dellhighlander Mastrota, a Casa Surace e ai video di TikTok.

Questi versi di Eliot e gli ultimi messaggi di Tommaso hanno la stessa urgenza, il poeta statunitense usa lenjambement, quello di Pantigliate la brevità sincopata per punirmi per essermi allontanato dalla vita agra per pochi giorni proprio nel mezzo del mese terribile: «Cosa fai? Io Fogli.» «Faccio colazione, poi Fogli.» «Mi gira la testa, ora mi riposo, poi Fogli.» «Vado al discount in bici, poi Fogli.» «Non ce la faccio più, vado a letto. Domani mattina sveglia presto e… Fogli.» Ma tra una pagina e laltra di quella biografia in realtà appena abbozzata, c’è stato quellarticolo per Libero che si era alzato prestissimo per scrivere e lidea fulminante mandata in redazione «Quando ancora non sono arrivati così aprono la mail prima della riunione e la propongono». Articoli alimentari che come le biografie gli permettevano di andare al discount a comprare yogurt sottomarca, incollare la vignetta al parabrezza per andare a Coldrerio e riempire il baule della 500 di zuppe liofilizzate, per vestirsi con le t-shirt nere H&M Basic a manica lunga che acquistava in confezioni da cinque e metteva nellarmadio pieno di vestiti uguali come quello di Paperino e ancora di pagare la rata delliPad mini su cui guardare le costellazioni la sera prima di addormentarsi, confondendole con i lustrini delle giacche di Fogli.

C’è una fotografia che conservo gelosamente in un archivio protetto del mio cervello: Tommaso sta scrivendo un articolo che gli hanno commissionato unora fa. Lo vedo battere furiosamente i tasti del suo MacBook. Mentre scrive legge muovendo le labbra, pensando che non lo veda da dietro il milkshake. Invece lo guardo ridere per la frase che ha appena scritto. C’è un frammento di anima in ogni parola che Labranca ha scritto, per questo poi non ce nera più per lui. Quei pochi grammi rimasti sono raccolti in Neve in agosto.

Non si tratta sempre di articoli scritti in punta di penna, ma che non scadono mai nel piatto cronachismo dei compilatori seriali di quotidiani. Questi articoli non sono meno importanti dei libri che Labranca ha scritto, perché è grazie a loro che quello che con colpevole ritardo, sarebbe stato definito «un intellettuale fuori dagli schemi» e «un pensatore libero e originale» ha strappato la sua libertà una sillaba alla volta.

Questo primo volume raccoglie articoli pubblicati tra il 2009 e il 2016 su Cronaca vera, Libero e Oggi. Si va dai Simpsons al grattacielo Pirelli, passando per la disco music, larte contemporanea, Orietta Berti, il glam rock e il panettone.

Ringrazio Giuseppe Biselli senza il quale non esisterebbe più ventizeronovanta e con lei questo libro. Grazie a Claudio Giunta che ha geolocalizzato Labranca sulla mappa della cultura italiana. Grazie al direttore Umberto Brindani e a Dea Verna di Oggi. Grazie a Stefano Cecchini e a tutta la redazione di Libero. Grazie a tutti coloro che hanno reso possibile questi volumi che cercano di strappare un altro lembo di Tommaso alla cenere.

La Parigi occupata di Sartre

1

(Pubblichiamo l’introduzione della curatrice e traduttrice a Jean-Paul Sartre, Parigi occupata, il melangolo 2020, che ringraziamo anche per la foto. A seguire, il primo testo della raccolta antologica: La Repubblica del silenzio).

di Diana Napoli

«Senza averla preparata, scatenammo un’“offensiva esistenzialista” […] Nelle settimane che seguirono la pubblicazione del mio romanzo, uscirono i primi due volumi de I cammini della libertà. Al Club Maintenant io e Sartre tenemmo delle conferenze, io sul romanzo e la metafisica, Sartre L’esistenzialismo è un umanismo? Venne messo in scena Le bocche inutili. Sollevammo un tumulto che ci sorprese. […] Non passava settimana senza che si parlasse di noi nei giornali. “Combat” commentava con approvazione tutto quello che scrivevamo e dicevamo. “Terre des hommes”, un settimanale fondato da Herbart e che uscì solo per qualche mese, ci dedicava in ogni numero molte colonne amichevoli o agrodolci. Ovunque c’era l’eco nostra e dei nostri libri. I fotografi ci assalivano per le strade, i passanti ci fermavano per strada. Al caffè Flore ci guardavano e sussurravano. Alla conferenza di Sartre vennero molte più persone di quelle che la sala poteva contenere: fu un parapiglia incredibile, addirittura molte donne svennero».

Con queste parole Simone de Beauvoir raccontava lo straordinario e “inaspettato successo” riportato da Sartre nell’immediato dopoguerra, consacrandolo come filosofo, scrittore, drammaturgo impegnato che, “prigioniero della sua epoca, l’avrebbe scelta contro l’eternità”[1]. Come del resto aveva intuito de Beauvoir, Sartre ha varcato di gran lunga i confini della sua epoca e ancora oggi potremmo dire che la sua figura si staglia nel nostro immaginario come “l’idea regolatrice della vocazione intellettuale”[2].

Filo rosso dell’itinerario sartriano è il richiamo costante all’irriducibilità del soggetto che resta “solo e senza scuse”. Da La Nausea, pubblicato nel 1938, alla Critica della ragione dialettica, uscito nel 1960 che indica la soggettività come il motore della storia tentando di conciliare il materialismo marxista con la libertà da parte dell’uomo di inventare il mondo (partendo dai suoi bisogni, dalla sua condizione di alienato o sfruttato), passando per i romanzi e per il teatro, al centro della sua riflessione rimane, per usare le sue stesse parole, lo “scandalo di un idiota che diventa genio”[3]; lo scandalo di un soggetto che, per giustificare la sua esistenza, non può fare riferimento al determinismo, alla “natura umana”, alla necessità storica, ma solo alla scelta di diventare un genio, un vile, un eroe continuando a restare (e avendo il coraggio di riconoscersi) comunque: “Solo un uomo, fatto di tutti gli uomini: li vale tutti, chiunque lo vale”[4].

Ripercorrendo l’evoluzione del pensiero di Sartre, tutti gli studiosi hanno sottolineato il ruolo centrale, il significato di vera e propria svolta, costituito dall’esperienza della guerra. Era stato mobilitato allo scoppio del secondo conflitto mondiale, vivendo quell’alienante situazione bellica che era stata la drôle de guerre per essere poi catturato dai tedeschi, dopo la firma dell’armistizio tra Francia e Germania nel giugno del 1940[5], e passare circa nove mesi in un campo prigionia, riuscendo a evadere nel marzo del 1941. Sono mesi in cui Sartre racconta di aver scoperto le forme dell’esistenza collettiva fuoriuscendo dall’individualismo che aveva fino a quel momento scandito il suo percorso. Ne è testimonianza la scrittura che consegna ai suoi Carnets de la drôle de guerre, vero e proprio laboratorio del suo pensiero filosofico in forma di diario, una scrittura che traccia, nel marzo del 1940, un autoritratto sicuramente poco compiacente:

Io sono il prodotto mostruoso del capitalismo, del parlamentarismo, del mito della centralità di Parigi e dell’ideologia del funzionario. […] A tutte queste astrazioni messe insieme devo il fatto di essere un uomo astratto e sradicato. […] Questo è il personaggio che mi sono costruito in trentaquattro anni, proprio quello che i nazisti chiamano “l’uomo astratto delle plutocrazie”. Non ho per lui alcuna simpatia e voglio cambiare. Quello che ho capito è che la libertà non è affatto il distacco stoico dai beni o dalle passioni; al contrario, essa suppone un radicamento profondo nel mondo[6].

È lo stesso Sartre a ricordare, in più occasioni[7], il momento quasi di cesura che la guerra aveva costituito nel passaggio “dalla nausea all’impegno”, come ben sintetizza il titolo di un testo che ne ricostruisce la biografia intellettuale[8]. Nel 1945, a guerra finita, Sartre è subito una celebrità filosofica e letteraria all’insegna dell’engagement, testimoniato anche dalla fondazione nel 1945 della rivista “Temps modernes” la cui presentazione ribadiva con fermezza le responsabilità dello scrittore come colui che sempre “è in situazione nella sua epoca”. Questa “svolta” evidentemente radicale a livello biografico affonda però le sue radici nel complesso percorso di riflessione della filosofia sartriana[9] la cui eco si fa sentire anche nei contributi raccolti in questo volume. Si tratta di alcuni testi scritti subito dopo la liberazione di Parigi, tra il 1944 e il 1945 (solo l’invettiva contro Drieu La Rochelle è del 1943) e che non hanno lo scopo di parlarci del Sartre “resistente”[10], ma costituiscono invece una profonda e lucida disamina della Resistenza e delle attese che essa aveva veicolato. Sartre scrive per diverse riviste clandestine[11] da “Combat”, di cui Camus era stato per un periodo caporedattore, a “Lettres françaises”, organo del Comité national des écrivains (CNE). Quest’ultimo era stato creato su iniziativa dei resistenti comunisti, grazie all’attività instancabile di Louis Aragon e al contributo di Jean Paulhan, che, da storico direttore della prestigiosa “Nouvelle Revue française”, era stato tra i promotori dell’ingresso alle edizioni Gallimard di Sartre, accolto però nel CNE solo nel 1943. Era stato probabilmente ostacolato dai comunisti che lo guardavano con sospetto a causa della sua vita privata considerata sregolata, della sua frequentazione della filosofia heideggeriana e anche forse della sua amicizia con Paul Nizan che in seguito al patto Ribentropp-Molotov aveva abbandonato il Partito Comunista Francese[12].

I contributi che presentiamo, senza perdere nulla della loro bellezza documentaria (come nel caso della cronaca dell’insurrezione di Parigi), sono capaci di trasmetterci lo slancio ideale di quell’irripetibile esperienza storica che è stata la Resistenza al nazifascismo; testimoniano l’orizzonte di aspettative che essa era stata in grado di convogliare e la fiducia nella politica come capacità di cambiare il mondo, come la cornice di una possibilità autentica della condizione umana intesa quale sovversione permanente dell’esistente. Nelle parole di Sartre, la Resistenza era stata innanzitutto la scoperta della propria radicale libertà che aveva trovato una formulazione nella frase “piuttosto la morte che…”, una frase che obbligava ad una scelta le cui conseguenze si pagavano nella solitudine più assoluta perché i resistenti (non solo l’élite dei partigiani, ma anche tutti quelli che semplicemente sapevano qualcosa) combattevano una lotta clandestina in cui ciascuno era solo di fronte alle torture, ai supplizi, alla deportazione e alla morte.

Nella Repubblica del Silenzio e della Notte che era la Resistenza “Ogni cittadino sapeva che dava se stesso per tutti e tuttavia poteva contare solo su se stesso. Ciascuno realizzava nell’abbandono più totale il proprio ruolo storico. Ciascuno, contro gli oppressori, si impegnava a essere se stesso, irrimediabilmente, e scegliendosi nella libertà, sceglieva la libertà per tutti”[13]. Sartre traccia, speculare all’uomo della Resistenza, il ritratto del collaborazionista, che però non viene connotato semplicemente dagli elementi tipici dell’ideologia o dell’immaginario fascista. Prima di ogni ideologia, all’opposto della Resistenza troviamo la resa all’empiria, al dato, l’adattamento a una situazione che non può mai essere diversa da quella presente. Incapace di immaginare, il collaborazionista invece di giudicare la realtà “in base al diritto”, “[fonda] il diritto sui fatti” ed è quindi l’incarnazione della “docilità ai fatti” nobilitata col nome di realismo che serviva solo a mascherare un “odio di sé diventato un odio dell’uomo”. Il collaborazionista rappresenta la malafede che cerca scuse per negare la libertà profonda e assoluta che ogni scelta invece realizza; veste la contingenza con gli abiti della necessità e rinunciando a progettarsi, a rischiare trascendendo l’immediatezza, sceglie la viltà, chiamandola “senso del dovere”.

L’appello al senso del dovere era stato l’asse attorno a cui il Maresciallo Pétain aveva cercato di costruire il consenso verso lo Stato di Vichy, incitando al pentimento tutti i francesi che avevano dimenticato i loro doveri facendo sprofondare la Francia nella corruzione che la disfatta militare del 1940 aveva semplicemente sancito. Contro questo discorso si era schierato Sartre con la rappresentazione de Le mosche nel 1943, fatto che, come la pubblicazione de L’Essere e il Nulla sempre nel 1943 (e la messa in scena di A porte chiuse nella primavera del 1944)[14], aveva segnato sicuramente una distanza sostanziale da coloro che durante la guerra avevano deciso di non pubblicare se non nelle edizioni clandestine o all’estero, anche se si era trattato di una scelta, in particolar modo in relazione a Le Mosche, che aveva condiviso con il CNE ricevendone il sostegno.

In continuità con il ritratto del collaborazionista dev’essere letto il Ritratto di un antisemita[15]. Indipendentemente dalle contingenze (la pervasività dell’antisemitismo nella società francese, la debolezza costitutiva della Terza Repubblica, la generale tolleranza verso l’antisemitismo inteso come un’opinione tra le tante), Sartre ci descrive l’antisemita come un uomo che sceglie di essere impermeabile all’esperienza al punto che se l’ebreo non ci fosse, lo inventerebbe. Avendo scelto di interpretare la realtà in base a una passione, l’odio, l’antisemita non ha bisogno di ragionare ed è impossibile convincerlo perché non ci sono buoni argomenti per chi ha deciso di non lasciarsi influenzare dall’esperienza, non c’è un confronto possibile per chi non crede per principio alla serietà delle parole o alla consequenzialità delle argomentazioni. Per l’antisemita tutto si riduce a un gioco con le parole, al disorientamento e al discredito dell’avversario. La sua convinzione è forte non perché si nutre dei fatti, ma proprio perché egli ha deciso, in principio, di non farsene influenzare in quanto ha intenzione non di cercare il bene, il vero, di mettersi in gioco, di valere qualcosa, ma solo di cedere alla sua perversa fascinazione per il male.

È un uomo che ha paura. Non certo degli ebrei, evidentemente, ma di se stesso, della sua coscienza, della sua libertà, dei suoi istinti, delle sue responsabilità, della solitudine, del cambiamento, della società e del mondo. Di tutto, tranne che dell’ebreo. È un vigliacco che non vuole riconoscere la sua vigliaccheria, un assassino che rimuove e censura la sua tendenza all’omicidio senza poterla però frenare del tutto e che quindi ha il coraggio di uccidere solo per interposta persona o nell’anonimato della folla. Un infelice che non ha il coraggio di ribellarsi per paura delle conseguenze della sua ribellione”[16].

Sartre, nella sua fenomenologia del collaborazionista e dell’antisemita, non ci consegna semplicemente il profilo di un uomo che aderisce al fascismo e al nazismo, ma disegna una postura nei confronti della realtà fatta di sottomissione all’empiria e di incapacità di vedere oltre, di immaginare qualcosa d’altro. Ed è su questo punto che la sua filosofia ci può venire in aiuto, con un testo del 1940, proprio per dimostrare che la cesura della guerra, benché significativa e imprescindibile, si situa all’interno della complessa articolazione del suo pensiero. Immagine e coscienza[17] si concentra infatti sull’immaginazione come cifra della libertà della coscienza nei confronti della realtà, costituendo la capacità di “irrealizzare” il mondo, di negare cioè il mondo da cui la cosa immaginata è assente. All’interno di una psicologia fenomenologica, Sartre analizza la libertà della coscienza come il riferimento intenzionale a un orizzonte noematico, il mondo, che reca però in sé la propria possibilità di negazione. L’immaginazione quindi, indica la libertà della coscienza verso la realtà o, detto altrimenti, la coscienza che immagina trascende il suo essere-nel-mondo. Senza questa “funzione” la coscienza perderebbe la sua intenzionalità, il suo tendere a un significato. Ma è proprio questo elemento che manca al collaborazionista o all’antisemita: essi non sanno “irrealizzare” il mondo e possono solo sottomettersi al fatto compiuto, disprezzando (perché sono incapaci di assumerla) la condizione stessa di uomo come soggetto radicalmente libero. Se la libertà viene tradizionalmente definita come la possibilità di scegliere con piena consapevolezza delle conseguenze, quella dell’antisemita è la libertà di sottrarsi alle responsabilità, prima di tutto a quella di essere uomo.

Quanto la Resistenza sia stata, contro la fissità del presunto realismo, un orizzonte di aspettative, emerge soprattutto nel “reportage” dell’insurrezione di Parigi. Per descrivere i giorni dell’agosto del 1944 in cui i parigini sono insorti in attesa dell’arrivo degli alleati, Sartre riprende un’espressione dello scrittore André Malraux ne L’Espoir, uno dei testi emblematici della guerra civile spagnola: “l’esercizio dell’Apocalisse”. Le aspettative che avevano animato l’insurrezione riprendevano – ripercorrendo le tappe della rivoluzione intesa come scelta radicale della libertà per se stessi e per gli altri – le questioni lasciate in sospeso dal 1789, dal 1830, dal 1848 e dal 1871 (che sempre erano state seguite da una controrivoluzione). Parigi, infatti, insorge nel 1944 in un’atmosfera di festa che sembrava riprodurre la ritualità rivoluzionaria non solo per i grandi momenti tragici che la scandiscono, ma anche per il richiamo irresistibile della piazza che spinge le persone a uscire di casa e scendere in strada. È un clima che ricorda quello del 1936, quando la classe operaia aveva invaso le città della Francia per festeggiare la vittoria alle elezioni del Fronte Popolare.

Di fronte alle imponenti manifestazioni, la borghesia si era impaurita, e aveva scambiato una semplice espressione collettiva di gioia per l’inizio di una rivoluzione. Quest’incomprensione, come aveva osservato Marc Bloch ne La Strana disfatta, era all’origine del “grande malinteso dei francesi”[18], cioè del fatto che una parte della nazione aveva smesso non solo di credere alla solidarietà, ma anche di riconoscere la legittimità delle aspirazioni delle classi più in difficoltà a condizioni di vita migliori e a una più piena partecipazione alla vita politica. La Parigi del 1944 ci riporta a questo scenario. Ci riporta non alla massa – al conformismo, alla ricerca di un capo, al linciaggio del “colpevole” – ma alla folla rivoluzionaria che agli angoli delle strade, cantando la Marsigliese e improvvisando balli popolari, festeggia “l’occasione inattesa di un ancoraggio all’utopia”[19]. Il grande malinteso dei francesi, per riprendere le parole di Marc Bloch, ci riporta al discorso ufficiale dello Stato di Vichy e in generale al clima del collaborazionismo che avevano guardato con compiacimento alla disfatta, quasi un male minore perché aveva significato la fine della corrotta Terza Repubblica e messo un punto a tutte le pericolose aspirazioni al cambiamento che il 1789 aveva gettato sulla scena della storia.

Mentre Sartre scriveva i testi qui raccolti, anche l’Italia viveva un’esperienza simile a quella da lui raccontata. Nel 1943 l’Occupazione tedesca aveva diviso il Paese in due dando vita allo Stato fantoccio della Repubblica Sociale Italiana con capitale Salò. Anche in quest’Italia divisa c’era chi, di fronte alle azioni dei partigiani, faceva appello alla concordia nel tentativo di limitare eventuali insanabili lacerazioni tra gli italiani. Giovanni Gentile, sul “Corriere della Sera”, pubblicato nella RSI, aveva scritto il 28 dicembre del 1943 un articolo dal titolo Ricostruire che nei contenuti riecheggiava l’invito all’unità nazionale e alla fedeltà al fascismo del Discorso agli italiani, pronunciato in Campidoglio il 24 giugno 1943, circa un mese prima dello sbarco degli alleati in Sicilia e della destituzione di Mussolini.

Gli argomenti di Gentile ricalcano la triade di Vichy “Lavoro, Patria, Famiglia”, così come tutta la panoplia collaborazionista della “docilità ai fatti” e della sottomissione al senso del dovere evitando la violenza[20], tranne quella contro i partigiani, ridotti a semplici “sobillatori, traditori, venduti o in buona fede, ma sadicamente ebbri di sterminio”[21]. A questo appello alla concordia risponde Concetto Marchesi, uno degli esponenti di spicco della Resistenza italiana di cui la sua Lettera aperta, pubblicata il 24 febbraio 1944 sul quotidiano socialista “Libera stampa”, potrebbe essere considerata un manifesto. Nella lettera viene messa in evidenza l’impari lotta tra il partigiano – che può contare solo su se stesso ed è “tutto esposto alle conseguenze micidiali del suo atto micidiale” – e il potere nazifascista che non esita a ricorrere alle rappresaglie, parola con cui si legittimava un “assassinio in massa su persone necessariamente innocenti”. Accomodarsi a questa situazione, essere “docili ai fatti”, essere “realisti” significa solo, per Concetto Marchesi, cedere a una “residenza inerte e fangosa di delitti e di smemorataggini”. Rivolgendosi a Gentile osserva:

Ma guardate, signor professore, quello che succede ora nelle città della vostra Italia repubblicana. […] Con chi devono accordarsi ora, i cittadini d’Italia? Coi tribunali speciali della repubblica fascista o coi comandi delle S.S. germaniche? […] Concordia è unità di cuori, è congiunzione di fede e di opere, è reciprocanza d’amore; non è residenza inerte e fangosa di delitti e di smemorataggini. Quanti oggi invitano alla concordia, invitano ad una tregua che dia temporaneo riposo alla guerra dell’uomo contro l’uomo. No: è bene che la guerra continui, se è destino che sia combattuta. Rimettere la spada nel fodero, solo perché la mano è stanca e la rovina è grande, è rifocillare l’assassino. La spada non va riposta, va spezzata. Domani se ne fabbricherà un’altra? Non sappiamo. Tra oggi e domani c’è di mezzo una notte ed un’aurora”[22].


[1] S. DE BEAUVOIR, La force des choses, I, Paris, Gallimard “Folio”, 1963, pp. 60 e ss. tr. it. di B. Garufi, La forza delle cose, Torino, Einaudi, 2008

[2] Pierre Bourdieu nella prefazione a A. BOSCHETTI, L’impresa intellettuale. Sartre e “Les Temps modernes”, Bari, Dedalo, 1984, p. 6.

[3] J.-P. SARTRE, L’Idiot de la famille. Gustave Flaubert de 1821 à 1857, Paris, Gallimard, 1971-1972, tr. it. di G. PAVOLINI, L’Idiota della famiglia. Gustave Flaubert dal 1821 al 1857, Milano, Il Saggiatore, 2019.

[4] Si tratta del finale di Les mots: “Tout un homme, fait des tous les hommes et qui les vaut tous et vaut n’importe qui” (J.-P. SARTRE, Les Mots, Paris, Gallimard, 1964, p. 213, tr. it di L. de Nardis, Le parole, Milano, Il Saggiatore, 1965. È, in parte, anche il significato dell’opera teatrale Il Diavolo e il buon Dio (1951) in cui il protagonista fallisce nel compiere sia il bene che il male assoluto quando si prende per Dio e non gli resta, alla fine, che riconoscersi solo come uomo.

[5] L’armistizio aveva sancito la divisione della Francia in una zona Nord occupata dai tedeschi e in una zona Sud, lo Stato di Vichy, con a capo il maresciallo Pétain, che aveva sostituito la triade repubblicana “Liberté, égalité, fraternité” con quella, di ispirazione fascista, “Travail, famille, patrie”. La zona sud venne comunque occupata dai tedeschi alla fine del 1942 in seguito allo sbarco (e alle conseguenti vittorie) degli Alleati in Nordafrica.

[6] J.-P. SARTRE, Carnets de la drôle de guerre, Paris, Gallimard,1995, p. 537-538.

[7] “Ce que je vois de plus net dans la vie, c’est une coupure qui fait qu’il y a deux moments presque complètemet séparés, au point que, étant dans le second, je ne me reconnais plus très bien dans le premier, c’est-à-dire avant la guerre et après” (Intervista del 1975 a Michel Contat, citata da P. SABOT, Littérature et guerre. Sartre, Malraux, Simon, PUF, Paris, 2010, p. 15.)

[8] A. GOMEZ-MULLER, De la nausée à l’engagement, Paris,Felin, 2005.

[9] Perfettamente delineato da Pier Aldo Rovatti, per cui Les mots riescono a “portare avanti le esigenze espresse nella Critica alla ragione dialettica: la necessità di fondare il discorso storico-dialettico rimandandolo alla singola prassi soggettiva per ricostruire il processo a partire dalla individuazione concreta. È dunque lecito affermare che già in Les mots si realizza il progettato secondo tomo della Critica”. Rovatti cita a questo proposito un articolo di Paci per cui Les mots potrebbero costituire il secondo volume della Critica (P.A. ROVATTI, Che cosa ha veramente detto Sartre, Roma, Astrolabio, 1969, p. 6).

[10] Come suggerisce, peraltro in maniera molto critica verso Sartre, S.R. SULEIMAN, Crises de mémoire. Récits individuels et collectifs de la Deuxième Guerre mondiale, Presses Universitarires de Rennes, 2012, pp. 19-39.

[11] Subito dopo la prigionia, Sartre aveva fondato un gruppo clandestino, Socialisme et liberté, che però si era sciolto dopo pochi mesi di fronte al delinearsi delle grandi correnti della Resistenza.

[12] Cfr. G. SAPIRO, La guerre des écrivains, 1940-1953, Paris, Fayard, 1999, pp. 490 e ss.

[13] Cfr. La Repubblica del silenzioinfra.

[14] Per una ricostruzione del contesto e delle reazioni in merito alla pubblicazione e alle rappresentazioni delle opere di Sartre durante l’occupazione, cfr. I. GALSTER, Sartre sous l’Occupation et après, Paris, L’Harmattan, 2014 e ID. Sartre, Vichy et les intellectuels, Paris, L’Harmattan, 2001.

[15] La versione pubblicata in Situations, II, Paris, Gallimard, 2010 nuova ed., è la prima parte del più ampio saggio Réflexions sur la question juive pubblicato nel 1946 (tr. it. di I. WEISS, L’antisemitismo. Riflessioni sulla questione ebraica, Milano, Ed. di Comunità, 1947).

[16] Cfr. Ritratto di un antisemita, infra.

[17] Cfr. J.-P. SARTRE, L’imaginaire, Paris, Gallimard, 1940, tr. it. di E. Botasso, Immagine e coscienza, Torino, Einaudi, 1960.

[18] Cfr. M. BLOCH, L’étrange défaite, Paris, Gallimard, 1990 (1946), p. 194 e ss. (tr. it. di R. COMASCHI, La strana disfatta, Torino, Einaudi, 1995). È interessante leggere in parallelo le osservazioni di Sartre sui collaborazionisti raccolte in questo volume e l’analisi della disfatta del 1940 di Bloch.

[19] Cfr. Introduzione, M. OZOUF, La fête révolutionnaire (1789-1799), Paris, Gallimard, 1976, tr. it. di F. Cataldi Villari, La festa rivoluzionaria, Bologna, Patron, 1982.

[20] Gentile era stato fatto oggetto di numerosi attacchi da una parte della stampa della RSI che aveva fabbricato di sana pianta delle accuse contro di lui, ritenuto colpevole di essersi tenuto in disparte in alcuni momenti della storia del fascismo. Sulle prese di posizione di Gentile a favore di Mussolini e del suo desiderio di essere utile alla RSI cfr. M. FORNO, Intellettuali e Repubblica sociale. L’osservatorio del “Corriere della sera”, in “Contemporanea”, 5, aprile 2002, pp. 315-328.

[21] Articolo citato da L. CANFORA, La sentenza, Palermo, Sellerio,2005, p. 167.

[22] Ivi, pp. 449 e ss. Canfora ricostruisce anche le diverse versioni e la storia della circolazione del testo di Marchesi.

***

LA REPUBBLICA DEL SILENZIO[1]

di Jean-Paul Sartre

Non siamo mai stati così liberi come sotto l’occupazione tedesca. Avevamo perduto ogni diritto e prima di tutto quello di parlare; ci insultavano apertamente, ogni giorno, e dovevamo tacere; ci deportavano in massa, come lavoratori, come ebrei, come prigionieri politici; ovunque – sui muri, sui giornali, sugli schermi – ritrovavamo l’immagine immonda e insulsa che i nostri oppressori volevano darci di noi stessi: ma proprio per questo eravamo liberi. Il veleno nazista si insinuava nel profondo dei nostri pensieri e quindi ogni pensiero giusto era una conquista; una polizia onnipotente cercava di costringerci al silenzio e quindi ogni parola diventava preziosa come una dichiarazione di principio; eravamo braccati e quindi in ogni nostro gesto gravava il peso dell’impegno.

Le circostanze spesso atroci della nostra lotta ci rendevano finalmente in grado di vivere, senza trucchi e senza veli, questa situazione straziante, insostenibile che chiamiamo la condizione umana.

L’esilio, la prigionia, ma soprattutto la morte, che in epoche più fortunate riusciamo abilmente a dissimulare, erano diventati gli oggetti perpetui delle nostre preoccupazioni perché avevamo imparato che non si trattava di accidenti evitabili o di minacce costanti ma esterne: ci giocavamo la nostra partita, erano il nostro destino, la fonte profonda della nostra realtà di esseri umani. Ogni istante vivevamo in tutta la sua pienezza il senso di questa semplice frase banale: “Tutti gli uomini sono mortali”. La scelta che ciascuno faceva per sé era autentica perché era compiuta di fronte alla morte e avrebbe potuto sempre esprimersi nella forma: “Piuttosto la morte che…”. E non sto parlando dell’élite costituita dai veri Resistenti, ma di tutti i francesi che a qualunque ora del giorno e della notte, per quattro anni, hanno detto no. Proprio la crudeltà del nemico ci spingeva all’estremo della nostra condizione di uomini, costringendoci a porci quelle domande che generalmente eludiamo in tempo di pace: tutti quelli che erano a conoscenza di qualche dettaglio sulla Resistenza – e a quale francese non è capitato almeno una volta – si domandavano con angoscia: “Se sarò torturato, resisterò?”. La questione della libertà sta in questi termini, è il momento in cui siamo portati ai limiti della conoscenza più profonda che possiamo avere di noi stessi. Il segreto di un uomo, infatti, non è il suo complesso di Edipo o di inferiorità, ma il confine stesso della sua libertà, il suo potere di resistenza ai supplizi e alla morte.

Per tutti coloro che si sono trovati coinvolti in attività clandestine, le modalità della lotta sono state l’occasione per un’esperienza nuova, perché non combattevano alla luce del sole, come fanno i soldati di un esercito; braccati nella solitudine, arrestati nella solitudine, si trovavano a resistere alle torture nell’abbandono e nella più completa privazione. Erano soli e nudi davanti ai loro boia ben rasati, ben vestiti e ben nutriti che si prendevano gioco della loro miserabile carne e a cui una coscienza soddisfatta e un potere sociale smisurato offrivano tutte le apparenze della ragione. E tuttavia questi uomini, nella solitudine più profonda, difendevano gli altri, tutti gli altri, tutti i compagni di resistenza. Una sola parola era sufficiente per provocare dieci, cento arresti. E questa responsabilità totale nella solitudine totale che cos’è se non il disvelamento della nostra libertà? L’abbandono, la solitudine, il rischio elevato, erano gli stessi per tutti, non solo per i capi, ma per qualunque uomo. La pena era la stessa per chi portava messaggi di cui ignorava il contenuto, come per chi prendeva le decisioni: la prigione, la deportazione, la morte. Non c’è nessun esercito al mondo in cui ci sia una tale uguaglianza di rischi per il soldato e per il grande generale. Ed ecco perché la Resistenza è stata una vera democrazia: per il soldato come per il capo, stesso pericolo, stessa responsabilità, stessa assoluta libertà nella disciplina. Così, nell’ombra e nel sangue, si è costituita la più forte delle Repubbliche. Ogni cittadino sapeva che dava se stesso per tutti e tuttavia poteva contare solo su se stesso. Ciascuno realizzava nell’abbandono più totale il proprio ruolo storico. Ciascuno, contro gli oppressori, si impegnava a essere se stesso, irrimediabilmente, e scegliendosi nella libertà, sceglieva la libertà per tutti. Ogni francese doveva conquistare e difendere contro i nazisti, istante per istante, questa repubblica senza istituzioni, senza esercito, senza polizia. Eccoci ora alle soglie di un’altra repubblica: possiamo solo augurarci che sappia conservare le austere virtù della Repubblica del Silenzio e della Notte.

9 settembre 1944


[1] Questo testo, subito diventato famoso, è stato pubblicato nel primo numero non clandestino di “Lettres françaises”, il 9 settembre 1944 per essere poi ripreso in “L’Éternelle Revue”, 1, nuova serie, dicembre 1944, rivista diretta da Louis Parrot. È stato inserito nella prima edizione di Situations, III (1949), dedicato a Jacques-Laurent Bost, allievo e poi amico di Sartre e di Simone de Beauvoir.

Chandra Livia Candiani, La domanda della sete

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(Dal 22 settembre è nelle librerie il nuovo libro di Chandra Livia Candiani, “La domanda della sete” (Einaudi 2020). Pubblico qui una piccola antologia della raccolta con una nota di Giorgio Morale).

Le mani rotolano la terra
la farina l’acqua il sale
impastano, bevono
e distinguono, raccolgono,
addormentano, addomesticano
il dolore, accarezzano, come un gesto
che prende il posto del pensiero, i suoi
manovali. Le mani sono ricche e vuote
conoscono molte altre mani
e caldo e freddo e le voci le attraversano
e loro sanno buono quando è buono
e cattivo quando è cattivo.
Le mani perpendicolari al filo
si stendono sull’abisso e dicono:
stai quieto stai quieto,
come con un mare in burrasca.
Vecchie molto vecchie
le mani.
(pag.7)

Ciao, compagna Rossana

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di Antonio Sparzani

mi mancano, come sempre, le parole per salutarti come forse tu vorresti, t’ho sfiorata una volta a Milano, eri amica di una mia amica, ma non ti ho mai parlato veramente, ho solo guardato i tuoi occhi così penetranti, così bramosi di sapere, di capire, di indagare. La tua storia la sanno tutti quelli che ti hanno amata, apprezzata, cara maestra di generazioni di giovani: la cacciata dal PCI, la fondazione del Manifesto, le tue infinite battaglie e infine l’uscita anche dal Manifesto, col quale avevi ormai maturato, col maturare dei tempi, qualche divergenza. Non la mandavi a dire a nessuno, mi dice chi ti ha conosciuta, eri diretta, implacabile. Di cose e di fatti ne sapevi molti, non avevi dimenticato nulla della tua lunga e in qualche modo instancabile vita. Fosti la sola ad accompagnare Lucio Magri in Svizzera.
Il Manifesto ti dedicherà un numero speciale martedì 22, per oggi le notizie più standard sono quelle che dà Repubblica.
Ciao Rossana, non siamo più in molti a piangere la tua morte, ma la piangiamo.

Il giorno che sono morta

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di Flavia Sforza

Il giorno che sono morta iniziò come tutti gli altri, né più né meno.

Esausta dopo una notte insonne e già in ansia per i numerosi impegni che costantemente affollavano le mie giornate, ero assorta, come in trance, mentre guardavo il caffè fuoriuscire dal beccuccio della caffettiera e inondare il piano cottura; come sempre, me la prendevo con me stessa perché, pur assistendo a quella piccola catastrofe, restavo immobile, incapace di oppormi.

Quella non fu l’unica catastrofe a cui non reagii quel giorno. A mia discolpa si può dire che la seconda, quella fatale, non era preannunciata da alcun segno premonitore.

Si pensa sempre che l’ultimo giorno della nostra vita debba essere contraddistinto da chissà quali segnali trascendentali, che ci invitino a godere appieno – per quanto inconsapevolmente – delle ultime preziosissime ore rimaste. Ammesso che si possa godere appieno di una situazione, convivendo con una sensazione indefinita di angoscia per un evento imminente e inesorabile.

In quel momento, però, il mio pensiero era rivolto solo a riparare il danno quotidiano del propagarsi del liquido scuro e profumato, sottratto all’assaggio benefico e risvegliante che già pregustavo.

Dopo una doccia veloce mi vestii, e per quanto non avessi incontri di rappresentanza, quel giorno un qualcosa dentro di me mi spinse a scegliere con cura gli abiti: a dare di me la rappresentazione che avrei voluto venisse ricordata. Come l’ultima, memorabile interpretazione di un attore al culmine della carriera. Forse questo sì, poteva essere un segnale.

Nella mia perenne lotta contro il tempo, mi precipitai giù per le rampe di scale, fuori dal portone e per strada, senza guardare nient’altro che lo schermo del cellulare. Non mi accorsi dell’auto che arrivava a tutta velocità, a dispetto dell’attraversamento pedonale.

Se ci ripenso, non ricordo assolutamente niente né dell’impatto – presumo violento – né di che cosa accadde dopo, se non un forte ronzio nei timpani, l’offuscarsi della vista, l’eco di un tramestio intorno a me.

 

Riaprii gli occhi di primo mattino. Dalla finestra filtrava la luce dell’alba. Non compresi dove fossi. Mi arrivava un bip bip di macchinari, intravedevo una flebo e percepivo un vago odore di disinfettante, luci di emergenza soffuse. E più che dolore, una sensazione di dolore.

La donna delle pulizie si appoggiò alla ramazza e mi guardò strabiliata; il suo viso si allargò in un sorriso caloroso e mi rivolse le prime parole che udii post mortem. “Buongiorno! Era ora, cara! Ti stanno aspettando tutti!”, e corse a chiamare l’infermiera di turno.

Gli eventi che seguirono si succedettero con una tale concitazione che non riuscii a raccapezzarmi di che cosa mi stesse accadendo.

Accorsero i medici, venni trascinata in un tour de force di accertamenti, distesa in barella su e giù per i freddi ascensori dell’ospedale; ogni volta venivo accolta dalle stesse parole: “Bentornata tra noi Irene, lei è una donna fortunata!”.

Onestamente, non capivo ancora in cosa consistesse la fortuna di essere trascinata in quel girone infernale di risonanze magnetiche e TAC, di prelievi e flebo; ero morta no? Mi lasciassero riposare in pace!

Poi, arrivò anche il momento, da me temuto, dell’incontro con i miei “cari”.

“Ehi amore, che paura ci hai fatto prendere!”.

Andrea era lì, visibilmente stanco: occhiaie scure cerchiavano i suoi occhi, anche se lo sguardo era apertamente felice, pieno di una gioia disarmante. Quello sguardo, finalmente concentrato su di me, non più distratto dai continui richiami del cellulare, mi parve una rivelazione, un miracolo assoluto.

Provai a parlare, ma non sentivo uscire alcun suono dalla mia bocca.

“Ma io sono morta!”  pensai. “È troppo tardi!”.

Allargai lo sguardo intorno alla stanza e vidi avvicinarsi mia figlia, gli occhi umidi di commozione e pieni di quella luce sua propria che rischiarava le mie giornate buie.

“Mamma”, si limitò a dire, la voce rotta dai singhiozzi.

“Amore, sono qui”, pensavo, ma la mia voce si rifiutava di uscire dalla gola e restava intrappolata dentro di me.

Lei notò il mio sguardo allarmato, intuì i miei sforzi, poi la vidi uscire dalla stanza, e crollai in un sonno profondo, prostrata da tutte quelle emozioni.

 

Gli eventi che seguirono sono rimasti confusi nella mia coscienza. Dentro di me avevo la certezza di essere morta, eppure medici, infermieri, parenti e amici si susseguivano ai bordi del mio letto e disquisivano sul mio “blocco del linguaggio”, che pareva non avere causa in lesioni organiche.

A un certo punto comparve Alfredo, il mio terapeuta, da anni paziente ascoltatore e fedele custode dei miei tormenti interiori.

“Irene, mi ha cercato tua figlia. Dimmi un po’… non vuoi tornare in vita o non vuoi tornare alla tua vecchia vita?”, mi disse, senza preamboli.

Mi sentii smascherata. Si stava così bene, per una volta, sentendosi addosso gli sguardi e le attenzioni di tutte quelle persone che, di solito, non mi guardavano, che non mi ascoltavano più, da anni, per le quali ero scontata e sempre più invisibile.

“Lasciami in pace, Alfredo, non vedi che sono morta?!?”, proruppe la mia voce, imperiosa e squillante, dopo giorni di prigionia.

“Ma poi sei rinata. Sei qui ora, non credi?”, mi disse, con un sorriso sornione e accogliente. “Può esserci una nuova vita per te, Irene, basta che tu lo voglia”.  Mi strinse la mano, mi lanciò uno sguardo d’intesa e uscì dalla stanza.

Sentii lacrime calde colare sulle mie guance, irrefrenabilmente, mentre un senso di pace mi invadeva il petto.

 

La sveglia mattutina mi riportò bruscamente a galla dalle paludi del sonno. Aprii gli occhi, ancora sospesa tra sogno e realtà, e mi guardai intorno rapidamente, incerta su dove fossi. I rumori familiari in cucina mi restituirono la consapevolezza che era stato solo un sogno. Purtroppo. Restai acquattata sotto le coperte, aspettando che tornasse il silenzio a confermarmi che erano usciti tutti, rincorrendo i loro consueti impegni, come tanti criceti dentro le loro ruote. La voce di Andrea, già di primo mattino fagocitato dalle telefonate di lavoro, sfumava per le scale mentre la porta si richiudeva. Non mi aveva neppure salutata.

“Sono morta. Non cercatemi. Starò bene”. Lasciai il biglietto in bella mostra sulla ètagère all’ingresso, assieme al mio cellulare e alle chiavi di casa, e mi tirai la porta dietro le spalle. Me ne restai un attimo ferma, con la schiena appoggiata allo stipite, sopraffatta dall’enormità del mio gesto. Respirai a fondo, sentii un misto di sollievo e ansia che si spandeva nel mio petto; poi, con passo svelto scesi le scale. Ridendo.

 

 

La colla dei suicidi

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di Walter Nardon

 

Erano le sei meno un quarto. Se avessero saputo resistere all’abbagliante richiamo cinematografico pomeridiano e alla sua indulgente penombra avrebbero avuto un paio d’ore per mettere a posto gli articoli sul loro profilo, ma dato che l’invincibile attrattiva di Firebuster 3 con le sue traiettorie spaziali aveva avuto la meglio ora, attraversando l’arteria principale sulla via di casa, per quanto appagati, dovevano proprio darsi da fare.

La radice dell’inchiostro: Maria Grazia Calandrone

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NOTA INTRODUTTIVA

Ketty La Rocca, Le mie parole e tu?, 1971

 

«Forse non spetta a te di portare a termine il compito, ma non sei libero di rinunciare.»

(Avot 2,21)

 

Un questionario, come luogo di una sollecitazione: «È ancora legittima la radice dell’inchiostro?». Non solo il come si scrive, ma lo scrivere stesso, malgrado le storture. Lo scrivere che si porta avanti per decifrare la qualità del proprio silenzio o del proprio arretramento.

Una nota appuntata altrove scompiglia ulteriormente il ciglio dell’interrogazione: «Come dimenticare la fine -della storia, della poesia-? Non soltanto la fine che è già stata decretata, ma anche quella sempre sul punto di venire, di tramutarsi in eschaton rovesciato, in buona novella liberale: “la fine della storia ad opera di Dio è diventato il progresso storico dell’umanità” (Sergio Quinzio, La Croce e il Nulla, 1984).»

Oggi la scrittura non sarebbe altro che uno stornare la necessità di una risposta a tali quesiti, e insieme un esserne già in partenza incomodati, chiamati a dire prima ancora di sapere. Citati in giudizio. Forse per questo i poeti italiani somigliano sempre più a glossatori dell’affaccendamento, come se l’andirivieni tra le cose quotidiane fosse un modo per incenerire con uno stesso rogo i sintomi del presente e l’eredità del secolo passato. Qualcosa continua a battere sulla pagina, e allora ne riporto una traccia…

Adriano Spatola, da Poesia Apoesia e Poesia Totale (1969): «Il poeta sa che la poesia è qualcosa che lo riguarda sempre meno. […] “Per il poeta, la fine della poesia come poesia è un fatto accertato”». Corrado Costa, da Alzare la gru ad alta voce (1972): «Che nome è che gridano / alle gru spaventate dal loro nome / volano via inseguite dal nome che le insegue / che vola via sta insieme con le gru / senza sapere che nome è». Emilio Villa, da quell’abiura in forma di annotazione che segnerà il suo congedo definitivo dalla letteratura (1985): «Ma, volevo dire: non si sente che io non credo alla “poesia”, che ritengo una baldracca del baldraccone che è il linguaggio … Io mi sono duramente dissociato della “poesia”, quindi perdonami, e non mi chiedere più niente».

Nulla più che righe inferme, potrebbe obbiettare qualcuno. Se non altro, questo breve attraversamento aiuterà a scamuffare le tresche dell’oblio programmato, e così a comprendere qual è il fantasma con il quale ci dobbiamo confrontare. Ogni nostra parola vigila il suo personale dirupo: sta a noi scrivere come se già custodissimo un anticipo della caduta.

Il vero lavoro del glossatore, conviene ripeterlo con Heller-Roazen, è quello di rinnovare l’incompletezza, poichè sempre precaria dovrà essere l’interpretazione del libro-mondo (e insieme sempre cercata). Proprio a partire da ciò, ho chiesto ad alcuni poeti e critici letterari di farsi alleati a una riserva di bianco. Di raccogliere gli interrogativi da posizioni divergenti, cioè di strincerarsi, e di usare questo spazio come un modo per tornare a domandare un qualche assenso alle cose nominate…

Giorgiomaria Cornelio,

dicembre 2019

 

 

MARIA GRAZIA CALANDRONE

Chiunque dovunque

 

Lo scrivere che porto «avanti» – o meglio, che porto «dentro»: le cose e, spero, l’integrale umano – vuole decifrare le cose e, sì, con Deleuze, farle riscaturire dall’origine. La poesia non è il fine ma il mezzo: è la chiave, l’attrezzo, la pala (la falce) e il martello col quale scavo, mozzo e rompo il guscio, cioè la convenzione, di quella che chiamiamo realtà e che, naturalmente, non esiste.

Di certo esistono gli oggetti in sé, sarebbe insolente negarlo, ma non esiste un modo collettivo di guardarli. Neanche il mezzo più obiettivo, così obiettivo da denominare se stesso obiettivo (la fotografia), restituisce la realtà di niente. Ciò che vediamo è solo ciò che vediamo noi, individui fissati in un unico e irripetibile momento della nostra vita. Anche questo vedere, naturalmente, cambia. La poesia è forse un piccolo nodo nel tessuto di questo fluire e fluttuare continuo, casuale e pressoché incontrollabile, di esistenza. Un’esistenza enorme, che ci attraversa. Viene il mal di mare, a pensarci. O viene il sorriso dell’idiota dostoevskiano. Che è ciò cui ambisco.

Poetando, ci si ferma un momento e si fa il punto, non tanto della situazione, quanto il punto di quanto è nascosto sotto la situazione. La poesia fa il punto sull’invisibile. Una piccola curva spaziotemporale, una spiegazzatura nella trama che ci prescinde, uno strappo infinitesimale attraverso il quale osserviamo l’infinitissimo nulla, il vuoto che sta sotto e dentro qualsiasi costruzione umana e naturale.

La fisica illustra che la materia è vuoto, che la solidità sulla quale poggiamo i nostri apparentemente solidi piedi è costituita esclusivamente dal movimento delle particelle, dunque dalla relazione tra esse. La materia è relazione, inclusa la materia dei nostri corpi. Senza la relazione, non esiste che vuoto.

Anche noi, senza gli altri, non esistiamo. In questi mesi di clausura forzata abbiamo sperimentato la nostra inesistenza. Io, per esempio (io chi?), ho incontrato il gigantesco (ma discreto, devo riconoscere) fantasma di mia madre. A tal punto non esistiamo, senza gli altri, che, in assenza di corpi contemporanei, ci mettiamo a parlare coi fantasmi.

La poesia è anche questo parlare con chi non esiste e con quanto non esiste, per costringerlo a rivelare il proprio nucleo caldo, la propria sopravvivenza nella comune umana, la propria disperata vitalità, la voglia che hanno i morti di vivere ancora (cioè la voglia che abbiamo noi che i morti vivano ancora), che sopravvive come energia e anch’essa ci attraversa e percorre. Siamo attraversati e percorsi dal desiderio che niente finisca. Questo malinconico grido di eternità è la poesia. Un grido tanto più bello e valoroso perché consapevole della propria inutilità. La sua utilità consiste nel gesto di farlo. L’utilità della poesia sta nell’essere fatta. Pensata, plasmata. Questo gesto disperato di scavalcamento della morte accomuna chiunque dovunque.

La poesia che limita se stessa a mera descrizione delle cose si contenta di poco, si sostiene con mezzi di superficie, ci lascia a passeggiare nel mondo (ameno, benché orribile) delle apparenze, non ci toglie la terra sotto i piedi, non ci annienta, non ci nullifica, non ci fa precipitare in apnea dove le cose non esistono più. Dove, tanto meno, esistiamo noi. Questa visione del mondo è insostenibile e rasserenante.

La poesia è essa stessa purissimo vuoto, col punto rosso al centro della musica della relazione, che il nostro stesso corpo riconosce, per simpatia e istinto molecolare. Quella musica è nata contemporaneamente all’invenzione della materia. All’origine di tutto, probabilmente il caso, il quale ha mosso qualcosa che, chi sa perché, aveva avuto volontà di esistere, insieme a un piccolo gruppo di divinità inventate. Il caso, il vuoto, il non sapere, la febbre dell’indagine. Quando – in rari momenti – riusciamo a percepire il suono microscopico ed enorme della relazione, posta al centro del vuoto della materia, abbiamo accostato l’orecchio a quello che stamattina intendo per poesia.

 

Maria Grazia Calandrone,

settembre 2020

 

Per consultare tutti gli interventi del questionario:

LA RADICE DELL’INCHIOSTRO: TAVOLA DEGLI INTERVENTI

Allegria alla fine del mondo. Quattro poesie di Andreia C. Faria

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Helena Almeida - Study for Inner Improvement - 1974
Helena Almeida – Study for Inner Improvement – 1974

 

 

traduzione e cura di Serena Cacchioli

 

Andreia C. Faria è nata a Porto nel 1984. Nel 2008 ha pubblicato la sua prima raccolta di poesie, De haver relento (Cosmorama Edições), seguito da Flúor (Textura Edições, 2013), Um pouco acima do lugar onde melhor se escuta o coração (Edições Artefacto, 2015) e Tão Bela Como Qualquer Rapaz (Língua Morta, 2017), che ha ricevuto il Premio della Società Portoghese degli Autori nel 2017 come miglior libro di poesia. Nel 2019 ha vinto il premio Letterario della Fondazione Inês de Castro con il libro Alegria para o fim do mundo (Porto Editora, 2019). Propongo in traduzione quattro poesie tratte da quest’ultima antologia, Allegria alla fine del mondo, che riunisce una selezione di testi delle opere precedenti.

*

 

Se mi arrivano nuove di chi ancora sei
mi si sporcano le guance di fuliggine e rossore,
m’annerisce la tristezza e ulula, si rivolta
in petto la terra scura.

Sale in me un immenso fragore, se il tuo nome
ancora sento, uno sciame la testa,
i nodi delle dita blasone
d’idiomatica furia, malinconico insorgere
di maschera tribale.

Mia madre, che non ha mai saputo
chi fossi o ancora sei, vede nascermi negli occhi
cattiveria pura e senza pianto, paesaggio lacustre,
liquore spesso.

Come alcol d’alta gradazione, mia madre vede in me
cattiveria incontaminata se mi arrivano
notizie di chi sei, che ancora vivi, che passi
le paludi a guado

e al galoppo mandi saluti
all’imbranato demonio che mi assale.

*

NARCISI

Un alito venereo entrando in macchina, un’eccitazione funebre, e li vidi: caduti, caldi di sete, febbrili, le palpebre calpestate dal sole.
Avevi colto narcisi per me, ma li avevi dimenticati in macchina, e se ne stavano lì come figli unici, la carne tiepida, mansueta per il ripudio, avidi di profumo e di straniamento dalla terra.
Poteva essere mio il gesto: toccare il tuo volto, il taglio della tua gioventù. Ossa massicce ti facevano capolino spaurite sottopelle, la tesa architettura che serbavi come una cicatrice. Avrei potuto toccare il fiore inesperto della lama sulla tua guancia, berlo, acquifero su una mappa arida. Era un amore concepibile. Ma venuto da chissà che perfette solitudini, da un’educazione altezzosa in cui nemmeno l’acqua calda ci fece venire in mente che stavamo vivendo. Un amore di denti che non brillano, il sesso rappreso e spesso, ferito dalla polvere, suolo inadatto dove posare le radici urgenti.

*

SCARNIFICAZIONE

Fino a trent’anni hai
la faccia che ti ha dato Dio. Dopo
hai la faccia che ti meriti. È una promessa
d’ironia, una sentenza
senza ricorso.

Ti viene detto:
sei in balìa dell’intimo travaglio
di quel che mangi, del numero di ore che dormi,
di quello che fai e soprattutto
di quello che pensi. Dio
(perdonagli la debolezza)
ci tollera mentre siamo giovani,
ci protegge, ci accarezza
la fronte dopo un dolore, forse
ci ama, ma ci lascia
soli quando la bellezza
è terreno poco saldo

e assiste da lontano
alla temeraria sfida lanciata
a ogni figlio.

Sai allora che il volto è un fiore
piantato nel buio, una corolla
tenera, rotonda e impenetrabile
che si schiude e si apre
con petali lisci e brillanti, o
confusi e spettinati,
a seconda della forza
e la direzione del vento.

*

Con gli stivali sporchi e la pelle intatta
tornare a casa.
Con le suole maculate, appiccicose, i passi
che hanno ordito nel piscio un insistente miele.
Lo stivale è uno stelo
che allude alla purezza caduta
alla purezza versata
e fiorisce
attorno a bar e orinatoi, cavalcando un fianco
un solo cranio che fa il giro della notte
con il ferro spurio delle stelle.

Un piede nudo sulla ghiaia ferisce la vista.
L’inguine porta il sangue al proprio sostegno.
Qui un frutto
gocciolante dal cuore
dovrà ascendere alla carne.

Ma lo stivale è carne lavorata.
Che supplica la strada,
che delira.

Nel suo scricchiolare di pietra canta
il cuoio delle comete e affonda
ai piedi del letto.

 

Il cielo amaranto sopra San Francisco

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di Sara Marinelli

9 settembre 2020

   Se non sei a distanza ravvicinata dalle fiamme e non stai pensando a dove fuggire per salvarti la vita in queste giornate di fuoco che sta consumando la costa occidentale degli Stati Uniti, hai un’altra cosa a cui pensare: come tirare fuori da dentro tutto stesso la forza di convivere, o sopravvivere, con un’altra dura prova di esistenza sulla terra nell’anno della pandemia. Quando una mattina di settembre ti svegli alle 7:30 ed è come se fosse ancora notte, e la tua casa è avvolta in un buio pesto ancora molto lontano dall’annunciare il giorno. Quando una mattina di settembre la luce perversa che filtra dalle tende ti sembra invece giunta ad annunciare una fine.

L’hanno visto in tutto il mondo questo cielo amaranto. Le fotografie del 9 settembre a San Francisco, del suo skyline, dei suoi ponti, dei suoi grattacieli e palazzi ammantati di rosso e arancio, hanno fatto il giro del globo in tempo reale sui social, la stampa e i telegiornali. L’hanno paragonato al paesaggio futuristico di “Blade Runner”, hanno citato “Apocalypse Now”, “The Day After” e altro, insomma tutto l’immaginario surreale e distopico del cinema e della letteratura divenuto di colpo realtà. A me, DJ per passione in una stazione radiofonica della città, sono venute in mente tante canzoni da farci una playlist a tema, da “Si è spento il sole” a “Cupe vampe”, da “L’aridità dell’aria” a “Cieli neri”, e anche “Il cielo è sempre più blu”[1]— quest’ultima così, per sdrammatizzare. Un istinto di sopravvivenza dello spirito. Un bisogno di commentare a modo mio questa circostanza straordinaria che mi chiedo se diventerà — anche questa — la “nuova normalità”.

Le ho ammirate anch’io le centinaia di foto impressionanti e sensazionali, spaventose e affascinanti che girano in rete, materiale prezioso per ricevere cuoricini e faccine dalla bocca spalancata sui social. C’è chi avrebbe voluto essere qua per poterlo scrutare di persona questo cielo fenomenale, per poter dire di aver vissuto questa giornata memorabile da apocalisse e fine del mondo.
Io c’ero. Sono ancora qua. La frase che conta più di tutto di questi tempi. Quella che dici a te stessa quando la stai scampando un’altra volta, quando in realtà non sai bene dove poter stare perché non hai più molta scelta, perché il virus o il fuoco stanno scegliendo per te.
Io c’ero.
Questo è il mio diario di un giorno dal cielo amaranto sopra la città.

 

9 settembre 2020

 

Le 7:40, ma mi pare impossibile, è tutto buio, meglio continuare a dormire, meglio ancora non sapere. Perché svegliarsi se il mattino tarda ad arrivare?

Le 8:30, qualcosa non quadra, ancora tenebre. Svogliatamente lascio le lenzuola; i pochi metri dal letto alla finestra sono un breve viaggio alla scoperta del mistero di questa luce sinistra. Scosto la tenda e un brivido mi attraversa la schiena. Un drappo di cielo amaranto si stacca dai tetti delle case davanti a me. Silenzio inconsueto intorno, come se il quartiere avesse il fiato sospeso o semplicemente non sapesse più che dire, proprio come me. Richiudo la tenda, l’oscurità e la quiete intorno mi danno il permesso di tornarmene a letto; non so che fare. Dal letto guardo il buio gli con occhi sbarrati, in realtà non so a cosa sto pensando. A cosa pensa le mente quando è improvvisamente sotto shock?

Le 9:10, dò un calcio alle lenzuola, mi alzo convinta — qui bisogna capire che cazzo succede. Apro tutte le tende, le finestre: ancora tenebre. Odio accendere la luce al mattino, ma è ciò che dovrei fare se almeno voglio centrare il caffè nell’imbuto. Il caffè mi desterà da questo strano incanto. Ma no, è impossibile non restare imbambolati davanti alla finestra. Poi esco sulla scala antincendio e mi alzo in punta di piedi per vedere quanto più lembo di cielo possibile oltre gli alberi e le case. Ma dove è finito il sole? Non so per quanto tempo resto braccata nel mio stupore mentre l’amaranto degrada in un arancio forte e vivo, una specie di tramonto lentissimo, o meglio statico, paralizzato nel mezzo del suo viaggio. È uno di quei paesaggi in cui il solo atto del guardare non ti basta.
Mi infilo la camicia da notte nei jeans, prendo il telefono, la N95, ed esco di casa.

Le 11:15, fuori tutto cambia, uno sconvolgimento dei sensi. A ogni passo mi viene incontro una specie di mare solido senza orizzonte. L’arancione inonda le strade, le macchine, Dolores park e i suoi alberi, la sua collina, e la gente abbarbicata in cima. Ci salgo anch’io lassù, fermandomi sul punto più alto per vedere l’intero skyline della città. Noto subito che posso respirare aria non (ancora) tossica, e non mi sento in pericolo. Mi sento in sospeso; come in ipnosi, in attesa di qualcosa che si manifesti ancor più risolutamente o che invece svanisca del tutto. Guardo la gente intorno ferma anch’essa a guardare dal punto più alto, nessuno dice una parola. Il suono distinto e intermittente del “fog horn” della città — il corno che annuncia la nebbia fitta sulla baia — interrompe il silenzio. Ma questa non è nebbia, non è neanche fumo; è un’entità gassosa a me sconosciuta, dopo forse il dio internet me lo saprà spiegare. Ributtarsi in uno schermo per ora può aspettare, è uno di quei momenti in cui devi esserci fino in fondo. Eppure mi chiedo come proseguire la giornata, una giornata che invocherebbe al nulla, a premere il tasto pausa. Se “si è spento il sole”, allora per un giorno spengo tutto anch’io. Infatti non ho voglia di fare niente, anche se ho lezioni da preparare, del lavoro da finire entro domani.
Mi incammino su per le salite, percorro altre strade del mio quartiere, il rumore del poco traffico è smorzato come fosse sott’acqua; i lampioni sono tutti accesi, i fari delle macchine scintillano al passaggio, lasciando brevi scie luminose davanti a sé. Faccio tante foto, ma nessuna riesce a catturare il cielo, che non sta sopra le cose ma dentro.
La bellezza che s’infiltra adagio nel mio scoramento mi sembra sbagliata.

Le 13:30, torno a casa. Di nuovo tutto buio. Di nuovo, mi faccio forza per decidere cosa fare del giorno. Intanto accendo la luce, poi il computer. Quanti video e quante foto più stupefacenti delle mie, quanti occhi puntati su tutti i quartieri della città: Haight, Castro, SOMA e il downtown, il Golden Gate, e Ocean Beach. L’esperienza collettiva rende tutto più reale. Molti scatti mostrano tracce di cenere sulle automobili che io non ho notato. Apro la finestra, e adesso la vedo anch’io questa polvere grigia sottilissima sulle piante e sulla ringhiera.
A questo punto mi viene l’ansia. Consulto nervosamente tutti i siti memorizzati su internet e nella mia testa che mappano gli incendi boschivi e monitorano la qualità dell’aria. Uno si chiama addirittura “purple air — aria viola — ossia il colore che indica il livello più alto di inquinamento, l’indice di qualità dell’aria (AQI) tra 400 e 500. In pochi secondi, la mappa della costa occidentale, dalla California all’Oregon al Washington, si popola di una miriade di macchie purpuree, cremisi, rosse, che si animano proprio come fiamme al passaggio del cursore sullo schermo. Clicco su ogni fiammella; se vado giù con lo zoom riesco anche a distinguere le aree forestali simboleggiate da file di alberelli verdi che sembrano alberi di natale, e me le vedo davanti le distese di conifere, le sequoie, i parchi nazionali, la flora selvaggia, tutto di quanto più prezioso ci sia in questo pease. Ettari su ettari di boschi e foreste andati in fumo. Sento una fitta allo stomaco leggendo i nomi dei luoghi a me noti, le contee e i parchi nazionali che ho visitato: Mendocino, Yosemite, la Sierra National Forest — territori di sequoie maestose e fiumi verde smeraldo. Mi dirigo col mouse verso le cittadine dell’Oregon, a nord di Ashland: Salem, Eugene, fino alla periferia di Portland, e poi fin su allo Stato del Washington. Le fiammelle pulsano dappertutto.
Sento la stessa frenesia che si è impossessata di me agli inizi della pandemia: il monitoraggio ossessivo di mappe, numeri e dati, stavolta non relativi al Covid ma alla qualità dell’aria: moderate, unhealthy, very unhealthy, hazardous. Ricarico le pagine internet ogni mezz’ora con la speranza, come è stato per le cifre dei contagi, che i numeri si abbassino. Invece no, i valori si stanno alzando a vista d’occhio.
Anche quelli del mio stress.
Ci mancava anche questa; eppure lo sapevamo che quest’inferno sarebbe arrivato, lo sappiamo che il pianeta è una sfera rovente, lo sappiamo che l’ordigno è stato già innescato.

Quando mi sembrava di aver acquistato una routine di convivenza col virus — le mascherine, la distanza, il telelavoro — interrotta occasionalmente da sprazzi di vita sociale all’aperto, o da gite in quella natura che adesso sta bruciando; quando mi illudevo di abbandonarmi al mito italiano del ricominciare tutto a settembre, ecco un’ulteriore prova del fuoco (è il caso di dire) da superare; un altro fenomeno — naturale? — che ci toglie la libertà di respirare. “ll soffio del vento, che un tempo portava il polline al fiore, ora porta spavento, spavento e dolore” dice Brunori Sas in una sua canzone.[2]

Le 15:00, il cielo si tiene intatto, cristallizzato nel suo arancione. Dovrei lavorare, domani insegno tutto il giorno. Chiudo le tende per far finta che sia tutto normale, silenzio il telefono e le conversazioni e le battute sull’apocalisse e Blade Runner e che sembra di stare in un film. Trovo la mia stoica concentrazione quando so quanto tempo destinarle, quando so che dopo tornerò a farmi ipnotizzare dalle sfumature di colore, a caricare e ricaricare le mappe sui mie schermi, a tormentarmi sui numeri e su quello che accadrà. A chiedermi se questo stato d’eccezione durerà per sempre.

Le 17:30, no dai che non durerà per sempre. Adesso l’arancio è leggermente sbiadito agli orli, come un acquerello. Un sentore di movimento. Riprendo le conversazioni al telefono, i messaggini e i Whatsapp con gli amici qui che sanno e con quelli lontani che vorrebbero sapere e vedere coi loro occhi questo scenario da film. Con un amico commentiamo l’aspetto esilarante di quest’astrazione nel cielo, la vertigine di essere vicini al pericolo; mi sento quasi in colpa: è il privilegio di non essere in prossimità diretta con le fiamme a parlare, è l’adrenalina pura che mi gira nel sangue, che mi mette in circolo un’energia strana, come se in questo cielo mi ci volessi tuffare, afferrarlo tra le mani per poterlo interrogare. Sono al tempo stesso su di giri e giù di morale. Poi capisco che, nei mesi della pandemia, con le sue minacce e le sue incertezze, questa mia non è un’esaltazione spensierata, ma quella di chi se l’è scansata ancora una volta; quella di essere vivi in un altro giorno che ti ha presentato la sfida della sopravvivenza, e ti ha costretto nuovamente a tenere a bada le tue ansie, a rivalutare il tuo posto e il tuo ruolo sulla terra, a vedere oltre te stesso.

Le 19:30, l’intensità dell’arancione si è placata nel giallo. La bellezza che prima affiorava in quest’anomalia adesso è sparita, sostituita da una luce giallognola stupida e banale, ma che stranamente oppone resistenza all’arrivo della sera, della fine di un giorno difficile da dimenticare.
Riprendo a leggere le notizie, zoomare sulle mappe; a malapena mi ricordo di cenare. I fronti dei diversi fuochi avanzano dappertutto, si teme per le cittadine a nord di Los Angeles, per la periferia sud di Portland, per il mezzo milione di evacuati, per la pioggia che non cadrà, per questa stagione delle fiamme che potrebbe durare fino a dicembre.

Intanto si fa notte, e dovrei andare a dormire; ma l’adrenalina è ancora in circolo e mi tiene sveglia. Non sappiamo che colore sarà il cielo al risveglio domani; quanti incendi saranno stati domati, quanti continueranno a bruciare, quanta fuliggine coprirà le cose, quanta si addenserà nell’aria. L’AQI sul telefono dice 173, unhealthy. I geni delle previsioni annunciano che nei prossimi giorni, per un periodo non specificato, i valori raggiungeranno i 400.
Forse il cielo amaranto-arancione di oggi allora davvero era sublime; un’ultima sferzata di paurosa bellezza prima dei giorni stinti e polverosi che ci aspettano.
Frammenti di canzoni continuano a balenarmi nella testa, mi vengono in mente solo quelle che alludono alla fine: “e poco a poco ci dissolveremo…, al tramonto di tutto potremo capire”[3]; quelle che non so se passerò in radio, ma che adesso si conciliano col mio umore:

E il vento d’estate che viene dal mare
Intonerà un canto fra mille rovine
Fra le macerie delle città
Fra case e palazzi, che lento il tempo sgretolerà
Fra macchine e strade risorgerà il mondo nuovo
Ma noi non ci saremo, noi non ci saremo[4]

Le canzoni che avevano già previsto e immaginato il futuro, sì proprio come Blade Runner e altre distopie, ma senza effetti speciali e filtri cromatici; quelle che hanno cercato di dirci anzitempo, con dolcezza o poetica crudeltà, che su questa terra non ci siamo solamente noi, che non da tutte le fini si potrà ricominciare

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[1] “Si è spento il sole” (nella versione di Vinicio Capossela); “Cupe vampe” (C.S.I.); “L’aridità dell’aria” (Cristina Donà); “Cieli neri” (Bluvertigo); “Il cielo è sempre più blu” (Rino Gaetano).

[2] Brunori Sas, “Al di là dell’amore”.

[3] Cosmo, “Le cose più rare”.

[4] Francesco Guccini, “Noi non ci saremo”.

 

NdR: la prima e la quarta fotografia sono di Federico Perazzi, le due centrali dell’autrice, Sara Marinelli