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Fastidiosa e sputacchina, ovvero come abbattere milioni d’ulivi in silenzio.

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di Lele Amoruso

O miseras hominum mentes, o pectora caeca.  O misere menti degli uomini, o ciechi cuori.

Lucrezio, De rerum natura – II,13

 

QUALCUNO s’avvede guidando sulla superstrada, altri negli innumerevoli  tragitti intercomunali.

Oppure giravoltando in bicicletta per stradine segnate da muretti a secco, o dal finestrino della Sud-Est; altri buttando giù l’occhio dall’aereo.

A volte si offre uno sguardo più lungo dai rari rilievi, più che alture, che la terra salentina ha, talora,  mentre degrada verso la costa.

Qualcuno  non sa in quale tavolozza cercare quel colore che appare  come marcio.

Qualcuno è più anziano, altri più giovani, ma anche donne, bambini, conterranei, connazionali, d’ogni parte.

Un’anziana è ferma, sta. Osserva col capo chino e muove le labbra, come in preghiera.

Una giovane fotografa, ma non trova l’inquadratura.

Lo sguardo vorrebbe posarsi. Si passa dal particolare all’assieme, ora più d’appresso, ora più lontano.

Lo sguardo vorrebbe posarsi, placarsi: ma, come, agitato erra senza riposo.

 

QUALCUNO ricerca aggettivi, vaga, e un po’ muore, tra aggettivi, sostantivi, concetti, tentativi di sintesi. Si prova ad inquadrare, spiegare a se stesso, com / prendere: fare propria la cosa.

Naming: nominare quanto ha davanti e dentro. Si spera di trovare un termine, una espressione verbale quasi magica che oltre che descrivere rassicuri, tolga sgomento. Ma come  definire quanto gli occhi vedono e il cuore non sa chiamare?

C’è chi azzarda aggettivi ferali, infausti; altri provano con i consolatori, altri ancora con rabbia.

Qualcuno allarga le braccia, qualcuno volge lo sguardo al cielo. Altri dovrebbero volgerlo in basso, quasi a vergogna?

Qualcuno è rassegnato, talaltro impaurito.

Ovunque la si trovi, qualunque sia quella parola sarà segno d’amarezza, e d ‘impotenza, e di tristezza.

Non quella, quasi idillio,  dei poeti o dei lunari, ma quella semplice, immediata, comune a ciascuno  d’ogni età e sensibilità.

Ecco. Siamo qua!

Davanti, sotto, sopra, d’appresso: alberi, piante, tronchi, strani vegetali  che un tempo sono stati ulivi, a volte imponenti ulivi. E ora sono grigi; grigi colori di una natura  snaturata.

 

QUALCUNO dice  disgrazia, altri disastro, distruzione, tragedia, apocalisse, catastrofe.

Si  cercano le parole, la parola. Quale è quella giusta?

Nelle parole, decine di possibili parole, dove si avverta come sulla pelle  il diffuso e profondo smarrimento.

 

QUALCUNO azzarda, sperando di sbagliarsi: catastrofe. Dove ci appare una catena di eventi … vede una sola catastrofe (Benjamin). Rivolgimento, rovesciamento. Ricordarsi che prima o poi le catastrofi arrivano? Appaiono lontane dal grande fiume del progresso, dalla idea di un progresso infinito, sempre in avanti? Smemorati, ormai, che la vita finisce (Lucrezio), ma piuttosto abbagliati e sedotti da effimere e labili emozioni.

Qualcuno avvisa i naviganti delle varie forme di nostalgia. C’è quella patologica, regressiva, che ricorda il passato, vorrebbe restaurarlo, e mette la prua per approdare nell’isola del giorno prima; c’è quella  critica, riflessiva, che agisce per recuperare il salvabile, ciò che si può rigenerare: la nostalgia creatrice non vuole neutralizzare la Storia, ma mettere la prua per  sprigionare dinamiche sovversive.

Attenti, dice qualcuno, a non cedere alla vocazione pedagogica delle rovine (Augé), ma non ignorarle. E’ smarrita la visione ciclica del tempo? Per essa il passato ritornerebbe sotto forma di futuro.

Siamo naufraghi alla deriva verso un’isola che costruiamo con immaginazione e narrazione, con sogni e utopie e incubi, anche ad aria condizionata?

Ogni catastrofe lascia tracce materiali  nei canti, nella lingua, nei proverbi, nei riti. Abbiamo costruito e dato ciclicità ai riti propiziatori di abbondanti messi, di santi infiorati, di processioni “primaverili”. Abbiamo percorso  strade arse e pietrose, anche inginocchiati, invocando pioggia, protezione, per grazia ricevuta. Nelle  feste patronali ritroviamo la comunità  come entità interpretante che costruisce un comune sentire che diviene “tradizione”. Ma  negli eventi dell’oggi evadiamo dall’esserci? Ed ora dove siamo, in quale tragitto e guado?

Qualcuno rammenta la condizione paradossale: non appartenere più ad un “paesaggio”, paesaggio oltre i nostri borghi, paesaggio antico che si allarga oltre il Mediterraneo; e nello stesso tempo non sentirsi in questa terra che sa di deserto, non sentirsi in questo mondo che s’afferma come sradicato, prono a leggi ragionieristiche, cieche, dispotiche, algoritmiche.

 

 

QUALCUNO si chiede se tutto ciò sia già dolore dei più? Attaccati e ammorbati dall’eterno presente chi sente, chi avverte tutto ciò oltre l’attimo sorprendente? Nelle città, grandi e piccole, persino nei “paesini”, dopo i giorni della paura da virus, siamo come avvolti in una bolla di ritmi, musiche e danze che stordiscono, obnubilano dall’essere e, complici eccitazioni d’ogni sostanza, escludono dalla realtà. Fenomeno degli ultimi anni ed è come scomparso l’incanto dei silenzi nelle notti e nelle albe. E li chiamano eventi! Sono accozzaglie di stati dell’essere che at/traversano anche non più giovani che del corpo fanno unico medium.

 

Resta mistero dove finisce il bianco quando la neve si scioglie, e ora ci chiediamo dove è finito il verde delle nostre terre, delle nostre campagne? Il verde, colore che connota la vita.

Dove sono le rinfrescanti ombre, dove sono andate le chiome, dove sono volati gli uccelli?

Dov’è l’aura  che prendeva le viscere (Quasimodo) e liberava le parole per  incanti d’amore?

Ci sarà ancora quella terra del rimorso? Siamo in una cesura tra mondi?

 

INIZIO. Qualcuno ricorderà le voci che giunsero dalle primissime zone infette. Qualcuno sottovalutò, altri insinuarono azioni di untori. La star divenne la ignara “sputacchina”, vettore del batterio.

Qualcuno era distratto, altro occupato a sobillare. Più che riflettere parecchi  provarono ad avvelenare i pozzi. Altri a battere cassa.

Ai primi timori ci furono alzate di spalle e molte risposte sufficientemente incomplete ed evasive.

L’ignoranza anziché far elaborare i dubbi alimenta la fuga dalla stessa realtà. La conoscenza dovrebbe aiutare a trasformare “risorse” in “funzioni” (Sen) utili ai più. Ma il raffazzonato realismo accascia ogni “discorso”.

Poi le voci si diffusero, anzi il batterio si diffuse attaccando piante nella periferia di Oria, tra Brindisi e Taranto.

C’è chi ricorda  uomini in divisa, come sul fronte.

Qualcuno ebbe il timore della Caporetto imminente?

Si diffusero immagini di tronchi segnati per essere abbattuti: crociati di vernice rossa, segno di destino.

Metterci una croce sopra per chiudere con la vita che non è più vita: metterci una croce, chiuso, finito, morte.

Qualcuno, dal palazzo di Giustizia di Lecce,  fermò gli espianti.

In molti intervennero, tra chi aveva un qualche potere, maldestramente.

Cominciò l’accozzaglia delle opinioni e dell’agire, e ai timori si sostituirono retoriche improvvisate, artatamente false, forse solo per esorcizzare gli stessi  timori.

Ci furono gli agricoltori e le loro associazioni che si opposero agli abbattimenti. Ci furono manifestazioni con blocchi stradali.

E fu confusione,  già molto diffusa e consueta nella babele contemporanea.

La xylella fastidiosa è uno dei fitobatteri  più pericolosi al mondo che provoca la morte delle piante infette. E non solo degli ulivi!

 

EVOCANDO. Al  mattino, presto, si tagliavano ramoscelli per la benedizione e così rinnovare annualmente la pace e la protezione nelle case, e nei campi.

E ci fu chi dipinse un ramoscello nel becco di una colomba in volo (Picasso).

Qualcuno s‘è dato appuntamento sotto quell’albero, altri hanno visto le stelle sdraiati, e abbracciati, sotto rami già carichi di frutti.

C’è chi ha pianto sommessamente, tra quegli ulivi, nella sempre viva memoria del genitore e della genitrice che gli han dato vita, proprietà e rispetto per piante, animali, uomini e donne.

E in tanti hanno giocato tra quelle piante, nascondendosi, arrampicandosi per vedere  lontano, forse anche il mare.

Si poteva trovare riparo, seppure solo momentaneo, dalla pioggia scrosciante.

Qualcuno s’è fatto una fionda, elastica e precisa, con un ramo a forcina.

Qualcuno, da bambino, ha fatto girotondo mano nella mano ai compagni di giochi provando a provare ad abbracciare quel tronco dell’olivo secolare, grande, nodoso, gibboso, pieno di cavità misteriose!

Qualcuno ha dimenticato un brutto sogno  provando a disegnare  uno di quei tronchi che narrano, muti, di tempo, meraviglie, fiabe e oscuri abitanti.

 

AMPUTARE. C’è stato chi propose un piano d’intervento alla maniera d’esperienza: il medico pietoso fa la piaga verminosa. E allora tagliare, recidere, dividere, circoscrivere. Si! Dividere, separare tra ulivi infettati e, per un certo raggio, espiantare anche piante ancora non “toccate”. Come tenere lontana la cancrena, come igienizzare il territorio. E’ come scavare una trincea taglia fuoco o un canale di scarico. Ebbe risalto anche una ipotesi radicale: tagliare da Jonio ad Adriatico creando così una fascia immune. Il rimedio parve eccessivo, inattuale? O sarebbe stato necessario?

E l’Europa? La normativa europea indicava la creazione di “zone cuscinetto” per evitare la diffusione, perché non dilagasse.

E la Politica? Ci risiamo: più che responsabile  è distratta, presa da dichiarazioni e presenzialismo. Inaugura ora qui, poi da un’altra parte. E spende, anzi  qualcuno dice che butta soldi di tutti nelle tasche di pochi.

Chi ha responsabilità del bene comune, chi agisce in scienza e coscienza, deve prendere decisioni. Cosa si è scelto tra la riduzione  del rischio e  troncarlo alla radice?

Qualcuno stimò l’avanzata della diffusione: 20 km. all’anno.

20 chilometri all’anno, cioè 200 ettari in linea!

Quanti paesi stanno in 20 km.? Quante piante stanno in 20 chilometri? Quanto largo era il fronte d’avanzamento? Quanti Comuni, quanta coltura d’olivo in 20 chilometri del Parco dei Paduli?

 

 

DELLE NOSTRE FACCENDE. La Commissione Eu impose misure di contenimento: rimozione delle piante infette e degli alberi circostanti per un raggio di 100 metri. Creazione, inoltre, di una  zona “cuscinetto” di 10 km, con costante monitoraggio.

Vi furono ricorsi al TAR del Lazio per impedire l’espianto e la Corte di Giustizia Europea fu interessata dai  ricorsi pregiudiziali sollevati dalla Magistratura amministrativa.

Nel 2018 l’Italia è stata deferita dalla Commissione Eu per non aver adeguatamente impedito l’ulteriore diffusione del batterio alla stessa corte lussemburghese.

Settembre 2019: la Corte di Giustizia Europea richiama un’altra volta l’Italia ad adempiere all’obbligo di eradicare le piante infette e monitorare costantemente il territorio.

Un Ministro della Repubblica dice che oramai i campi sono diventati cimiteri!

E c’erano già stati oppositori d’ogni interesse e di variopinte casacche. I “Verdi” contro gli espianti, le “brigate dei poeti rivoluzionari” (sezione Puglia) che poetavano generosi declamando alle piante, i soliti imbroglioni che truccando le carte gridavano alla cospirazione di oscuri interessi delle multinazionali, piccoli medi e grandi proprietari di uliveti che, non si sa mai, speravano in qualche vantaggio.

IN POCHI ANNI da Lecce a Brindisi, dapprima nella sola zona di  Squinzano, poi …. Adesso tutto è andato, ammalorato, devastato.

Gallipoli, Aradeo, dall’altura di Minervino, dalle serre di Alessano, di Presicce, di Taviano,   … davanti, a dritta e a manca, a distesa è colore che sembra  già cenere.

E avanza! E dopo le campagne di Brindisi e Taranto ora nelle campagne a sud di Bari, verso la Valle d’Itria.

E  oramai molte piante secolari infettate. Si dice: oltre 20 milioni di piante infette, perdite di valore del patrimonio olivetato di 1,6  miliardi!

Errori, incertezze, scaricabarile e l’Arif (Agenzia Regionale attività Irrigue e Forestali) di nuovo senza guida?

CHE NE SARÀ?

Ora è catastrofe? Capovolgimento! Lu mundu si vota a cappieddu!(Il mondo si rovescia, in mal/ora ?).

 

MEMORIA. Ma non c’era stata solo pochi anni addietro l’esperienza, anch’essa rapida e violenta, del punteruolo rosso che aveva disseccato le palme dei lungomari, dei giardini pubblici, delle campagne, delle ville?  Anche allora erano “mutati” i paesaggi, le “quinte” urbane a decoro e frescura, i segni della estesa e comune  mediterraneità? Già c’era stata questa esperienza: ma non siamo più in grado cognitivamente di far tesoro dei dati di realtà, dell’esperienza, di come le cose possono cambiare. Di male  in peggio?

 

 

QUALCUNO gira su internet, ed è come smarrirsi cercando una notizia, una foto, qualcosa che possa evocare una speranza, una illusione cui, anche solo per poco, aggrapparsi come ad un alito di vento.

Qualcuno scorre mappe, foto dall’alto: nell’angoscia cerca frammenti, frammenti di rinascita?

Qualcuno consulta testi cosiddetti scientifici: ma nessun conforto, nessuna illusione.

 

LAVORO. Ma quanti erano i lavoratori, gli addetti al settore, quelli stagionali e quelli fissi? Diecimila? Ventimila? Forse erano più dell’Ilva?

Quanti ne sono rimasti? Quanti ne occorreranno per gli anni a venire?  Quante giornate lavorative si facevano nei campi, nei frantoi, nei negozi? E quante, tante non conteggiate ufficialmente.

Ci ricorda Tommaso Fiore: .. vengono poi gli olivicoltori, .. il Leccese da solo ha metà degli ulivi della Puglia, come questa un quarto dell’olio italiano ….

 

 

LI CUNTI. Ed erano tanti, belli, affascinanti li cunti del lavoro, delle potature, delle giornate dei raccolti: cunti infine della vita che rincuoravano durante le sere invernali.

Che gran da fare, e ce n’era per tutti. Per i piccoli, i nipoti, i proprietari, il fattore, la fattora. E poi cernere, scherzare, le fimmene, i canti, la pausa del “pane”, le allusioni, gli scherzi, le battute, gli sguardi, le promesse, le delusioni, il dire licenzioso, le gioie, la riconoscenza, la sudditanza, la spocchia,  l’ingenerosità.

Ma con la buona annata anche gli sponsali e, talora, sopraelevare la casa?

Fare festa, feste, cibarsi con abbondanza: guai a rovesciare olio sulla tavola. Tutto era un bene sudato, da non sprecare: la frugalità era rispetto e doverosa precauzione per cui  ringraziare il Signore.

Le filastrocche, le canzoni popolari …Sciamu sciamu mienzu li fiei / spezzandu rami mo de ulei (andiamo per i campi / spezzando rami di olivo – Lu santu Lazzaru, canto della settimana santa , zona grecanica ).

 

 

 

 

QUALCUNO preparava sotto l’albero un cerchio mondato da erbe e pietre.

Tanti facevano festa nei terreni, a fine raccolta, per la gioia dell’abbondanza e la fine della fatica.

Chi portava al frantoio i sacchi di olive aveva l’orgoglio sul volto che somigliava all’olio color d’oro.

Ci si incantava della fioritura.

Qualcuno ha tracciato sul campo i filari, piantando e accudendo la pianta  legata al tutore.

Si  faceva un grande falò, dopo la potatura biennale.

Qualcuno raccoglieva la cenere e la spargeva  pel campo.

 

QUALCUNO ha invocato divinità nei pressi di un dolmen che ora e sotto l’ombra di un ulivo; e poi ha riposato.

Qualcuno ha dipinto ulivi alla maniera di Van Gogh, altri alla maniera di Manet?

Si portava il lutto, anche a vita. E ora cosa si farà?

Qualcuno metteva olive sotto sale e insaporiva le pucce; il cibo della fatica.

Qualcuno metteva olive sott’olio e insaporiva le focacce.

 

OGGI. Qualcuno ha spiantato con dolore sperando di salvare parte dell’oliveto.

E cosa vede? Cosa vedi?

Piante abbandonate, potate, stroncate, tagliate radicalmente, polloni in basso, erbacce, campi abbandonati, misto di verde, marrone, grigio,  sfilacciati, scombinati, mezzi in piedi, ciuffi, vuoti inquietanti   di quanto è rimasto:  un frame incontrollabile, tutto è abbandono!

Campi di monchi tronchi:  a distesa  relitti come lapidi,  simmetriche quali cimiteri di guerra.

Quel che erano tronchi, oggi  sono come fantasmi, i più a braccia levate, invocanti.

Disseccano! Stanno li come “esercito di terracotta”, per nessuna guerra da combattere?

Dov’è andata l’amica campagna? Era generosa, era  lussuriosa: da amare, da rispettare, da lasciare in eredità.

Cosa daremo in eredità? Quali saranno i “valori” a venire? (Angoscia un poco questo  scenario, oppure no?)

Che ne sarà? … Legna da ardere? Incendieremo il mare?

Qualcuno prova con essenze (200.000 piantine di nuova cultivar) da non innestare su piante “vecchie”, ma impiantare ex novo.

Qualcuno, nel frattempo, produce simulacri di tronchi secolari, bianchi, in plastica; e quando è sera s’accendono nel giardino della bella villa!

Nel regno del tutto possibile ogni oggetto, come ente, mangia il senso. Ed è la consacrazione dell’inutile, dell’io stupidamente impavido che con l’agire fa danni a sé e agli altri (C.M.Cipolla).

 

QUALCUNO, sgomento, osserva d’appresso quelle piante secolari ripiantate lungo la statale, dopo essere state accudite, protette, numerate e curate dopo l’espianto per   agevolare l’allargamento della carreggiata.  A guardarle ora ecco che riappare, come dolorosa, il segno del comune destino:  mors immortalis.

C’è chi prova  a immaginare i numerosi ulivi secolari spiantati, prima della “protezione” per legge,  e ripiantati negli ultimi anni nei giardini delle ville lombarde e venete. Riesce ad immaginare il loro verde argenteo? Si chiede: saranno salve per via del distanziamento?

 

 

 

TORNARE AL SUD. Viaggiare di notte. Dal finestrino del treno, alle prime luci, vedere il  cielo azzurro, campo giallo, per la pianura deserta, sta camminando un olivo, un solo olivo (F.G.Lorca).

E così  riconoscere casa, trovarsi e ritrovarsi  a casa. Ritrovare i portoni di colore di verde.

 

 

 

L’OLIVO HA QUALCOSA DI SACRO. L’olio, sua epifania, alimenta la lampada che  consente, nella notte,  di vedere la luce; nutre i corpi degli atleti nell’Olimpia; lenisce ferite e piaghe dei combattenti; con il segno  di croce sulla fronte  annuncia alla vita nel battesimo e conferma gli infermi nella grazia di Dio  al momento del distacco da essa; nutrimento del corpo e della mente nella tradizione Ayurvedica; è popolarmente riferito come  “olio santo” in minestre e pietanze; è Atena che protegge gli olivi?

Laudato sia l’olivo nel mattino, esclamava San Francesco.

Sul Monte degli olivi, a Gerusalemme, è l’albero della vita: lega l’aldiquà con l’aldilà. E’ unione della carne con lo spirito.

La colomba, nel becco il ramoscello d’olivo,  annunciò a Noè la fine del diluvio, e iniziò la buona vita.

E con i ramoscelli d’olivo fu salutato un profeta d’amore e dolore, che entrava a Gerusalemme.

E’ su coste  e campagne del mare nostrum,  ed è noto che il Mediterraneo arriva  fin dove cresce l’olivo… l’oliva non è solo un frutto, è anche una reliquia (Matvejevic).

Ovunque nel Mediterraneo si ritrova la stessa trinità: il grano, l’olivo e la vite, la medesima vittoria degli uomini sull’ambiente fisico (Braudel).

…da sola alle piante offre umore bastevole la terra se aperta con un dente adunco, e se arata con il vomere darà frutti pesanti. Perciò fai crescere il pingue olivo caro alla Pace (Virgilio, Georgiche).

Dal Corano, Sura XXIV: Dio è la luce simile a quella di una lampada collocata in una nicchia, in un vaso di cristallo e accesa grazie a un albero benedetto, un olivo che non sta a oriente né a occidente. Nell’Islam, l’olivo,  è l’albero cosmico per eccellenza.

Sicut oliva in fidelitate domini , come un ulivo nella fedeltà del Signore-Salmo 51 (motto di vescovo pugliese).

Colui che coltiva i campi, coltiva la santità; colui che coltiva le leggi della natura coltiva la santità; colui che coltiva la religione della natura coltiva la santità (T.Fiore,  Un popolo di formiche).

1947: stella a 5 raggi di bianco, bordata di rosso, accollata agli assi di una ruota d’acciaio dentata, tra due rami di olivo e quercia, legati da un nastro rosso, con la scritta di bianco in carattere capitale  Repubblica Italiana.

 

OLIO. Olio lampante, per rischiarare i giorni brevi dell’inverno. Olio lampante per orientarsi, e scavare, in gallerie tufacee gli acquedotti dei tempi remoti. Olio lampante per copiare e ricopiare manoscritti, cantilenare i testi classici, abitare grotte da rifugiato. Olio lampante per tenersi accesa la speranza, su altari di fede. Partivano dai nostri porti vascelli carichi di otri, e talora il trasporto non aveva buon esito.

Qualcuno ha fatto dell’olio poesia. L’olio della poesia che da anni festeggia in una sera d’estate a Serrano un poeta, omaggiato con un quintale d’olio extravergine. E abbiamo udito versi, visto occhi che vedono lontano, artifex  pazienti e visionari che ringraziamo ancora una volta.

Olio, chiamato oro del Salento. E la frisa, la frisella, il pane dei Crociati,  la paximadia dei manioti,  lu biscuettu? Il mondo gira con l’olio della pazienza, ci ricorda Saramago, e tutto potrebbe andare liscio come l’olio! Se poi è ogliu di prima stringitora… (il miglior olio  è la cosiddetta lacrima, sic!).

 

 

 

 

QUALCUNO proporrà un giorno ed una notte di lutto? Quando avvertiremo che siamo in un lutto che durerà giorni, mesi, anni? Non c’è una crisi di presenza, dopo il lutto, come descritta da De Martino?

Cos’è il deserto chiede qualcuno; cos’è questo deserto ci chiederà una bambina, non trovando il colore per colorare?

Qualcuno proporrà un sacrario dove si potrà in silenzio sostare? Dove si potrà reimparare quanto noi stessi siamo natura naturans?

L’imperio del regno della quantità è stata la sola misura dell’homo economicus, e lo sarà ancora? L’utilità a quale  benessere può ancora legarsi?

 

QUALCUNO s’immagina un campo di tronchi, oramai senza vita, dipinti di rosso sangue: il bosco della vergogna?

Altri s’immagina dipinti di bianca calce: il campo dei sepolcri imbiancati?

E chi s’immagina ancor più dell’attuale desolazione e sgomento! Macerie!

Cosa scriverebbero quei viaggiatori dei secoli scorsi che ci hanno descritto il loro incantamento dinnanzi alla rigogliosa campagna? Cosa scriviamo, noi ora? Necrologi?

 

 

Rimedi miracolosi hanno provato il contadino e lo scienziato, come  contro la peste. Affidarsi al magico: potere della volontà o delle forze naturali e cosmiche,  entrambe imperscrutabili?

Siamo nella Macondo dei sensi, e dei nervi? Cos’è questo Sud?

 

L’ulivo non soffre la sete, gli uomini si (si diceva).

Gli ulivi hanno fusti irregolari, spesso contorti, dalla corteccia grigia. Il legno è durissimo e garantisce una perfetta levigatura (e qualche artigiano ritrova, nelle contorte e variamente colorate linee di fibre e nodi, immagini antropomorfe, zoomorfe e oggetti d’uso quotidiano e di fantasia). Li liuni (pezzi grossi e nodosi del tronco d’ulivo) alimentavano tutta la notte il fuoco nel camino.

Qualcuno, pochi, ha in masseria le vecchie macchine dei lavori. Abbandonate, tra ragnatele e polvere giacciono come simulacri di “come eravamo”. Reti, scuotitori, marchingegni per la raccolta e cernita oramai avevano sostituito donne e uomini, e i rumori d’ingranaggi al posto dei canti della passione e agli sfottò.

Quelli che un tempo erano, anche labirintici, frantoi ipogei sostituiti da moderni frantoi d’acciaio  dai riflessi  come stelle. Frantoi d’acciaio, efficienti,  fascinosi ma oramai smontati e rivenduti a popoli lontani.

E i frantoi ipogei? Buoni solo per presepi viventi o centri benessere.

 

Si era come fatti anche di creta d’ulivo, insieme all’inebriante vino, al regale melograno? … divento ulivo e ruota d’un lento carro… immaginava Bodini danzando sotto la luna.

Dis Alitem Visum,   agli dei è parso altrimenti e oggi siamo lontani dagli astri e dalla grazia (dis-astro; dis-grazia)?

 

Vorremmo ri/cordare, rimettere nel cuore della memoria personale e collettiva. Il ricordo ha la duplice funzione di costruire dei significati utili sia all’individuo che ricorda, sia alla collettività di cui l’individuo è figlio e parte. O ancora siamo nell’illusione che non ci sia stata la cesura tra i mondi, del prima e dell’oggi,  e che gli effetti della modernità siano contingenti, temporanei?

 

Come ricorderemo l’Orto del Getsemani? Come luogo del tradimento e della notte?

Chi, cosa annuncerà la Buona Novella? I politici adesso, e spesso, in campagna elettorale?

 

No! Non voglio vederli. Dite alla luna che non venga nelle notti del chiaro di luna che non sarà  più possibile ammirare riflessi d’argento su rinsecchite foglie..

C’è stato un tempo di quando … scivolammo tra valli fiorite dove all’ulivo si abbraccia la vite (De André, Il sogno di Maria).

 

Tronchi di ulivi curvati, scarnificati dal vento, che soffia dal mare. Tronchi rugosi, contorti e scossi dagli anni come imperituri muti testimoni . Tronchi che inquietano, che come rocce bucate reggevano rami raggiati ai quattro venti.

Qualcuno dice, a proposito della torsione dei tronchi,  che han seguito la rotazione dell’emisfero nord della terra.

Chi narrerà più favole così?

 

Plinio  suggeriva ai naviganti che se altro modo non rimane di resistere alla tempesta, si vuotino (allora) barili d’olio intorno alla nave. Si placheranno le frustate dell’onde sui legni, si potrà forse trovare momentanea quiete.

Gli antichi, se nervosi, facevano bagni d’olio (Savinio, Nuova enciclopedia).

E adesso cosa faremo?

Dove ci siamo cacciati? Cosa abbiamo combinato? Perché è accaduto? Cosa sarà dopo?

Dove poggiamo i piedi? Per terra? E la testa, dove? Sbatte, oscilla, s’inerpica, reclina, fugge via, è muta, senza sguardo, né udito? Sempre da un’altra parte?

 

Gli uomini prima sentono senz’avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura  (Giovan Battista Vico, La Scienza Nuova).

 

C’è da Augurarselo! Torneranno le lucciole?

Fazz’a Diu! Fazz’a Diu?

 

                                                                                                                              SONNE

Luglio, 2020                                                                                               

 

SONNE, frequenta il Mediterraneo e dimora all’Hostal de Paris di Port Bou.

Dalla disfavola al fuoco

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di Romano A. Fiocchi

Kaha Mohamed Aden, Dalmar. La disfavola degli elefanti, 2019, edizioni unicopli.

Marco Rovelli, La parte del fuoco, 2020, TerraRossa Edizioni.

Ci sono libri che càpitano in mano casualmente e casualmente si legano tra loro. Fanno “clic”, come dice Rovelli, e si incastrano l’uno nell’altro. Due autori diversi per cultura, due case editrici entrambe piccole ma diverse per impostazione editoriale, due storie che usano poetiche e linguaggi differenti, eppure due libri che collimano e si completano uno con l’altro quasi portassero impresso lo stesso marchio: la diversità. Sono convinto che se Kaha Mohamed Aden leggesse Marco Rovelli e viceversa, entrambi riconoscerebbero questo punto in comune.

Sono due libri che proiettano il lettore in un mondo di simboli. La Aden evoca gli orrori della guerra civile somala dei primi anni Novanta attraverso una favola dai toni duri, per adulti, con spiriti di animali morti in modo drammatico che chiedono giustizia, che non hanno pace finché la loro storia non viene alla luce. Lo fa partendo da una storia di migrazione: la fuga di un branco di elefanti dalla minaccia di una guerra e il loro approdo su un’isola abitata solo da orsi e api che si sono spartiti rigidamente il territorio. È una favola della memoria, una disfavola appunto, nell’accezione utopia-distopia favola-disfavola. Gli spiriti degli animali che popolano la foresta non hanno nulla di ecologista o di animalista, è tutta una metafora delle lotte per il potere, un po’ come nella orwelliana Fattoria degli animali. E anche gli spiriti “intrappolati in questo ginepraio di foresta” non sono concepiti come singoli fantasmi ma come l’insieme degli ultimi sentimenti espressi da tutti gli animali assassinati, una massa indistinta di pura rabbia rimasta in sospeso e che da tempo attende di essere liberata. L’allusione ai massacri somali tra i clan Hawiye e Darood è evidente. Altrettanto evidente è lo scopo del libro, che è poi lo stesso della foresta: “La foresta si limita a ospitare la rabbia che non aspetta altro di essere recepita nella storia dopo che si è riconosciuto, semmai c’è stato, il torto che l’ha creata”.

La Storia diventa allora disfavola, le metafore si accavallano in continuo, si fanno, come ho detto, parodie del mondo umano. Ci sono i giri d’affari della guerra, le armi leggere, le armi letali, i Fabbricatori dell’ordine mentale, il tutto narrato – per quanto la Aden scriva e parli perfettamente l’italiano – attraverso un linguaggio permeato di invenzioni semantiche, di frasi idiomatiche e modi di dire attinti dal linguaggio familiare e utilizzati senza che siano aderenti alle caratteristiche morfologiche dell’animale-personaggio (ad esempio l’ape regina che schiocca le dita). Ne nasce una prosa con forme e costrutti che sembrano non appartenerci e che l’editore ha deciso di lasciare così come sono – salvo alcuni interventi per esigenze di maggior chiarezza – proprio per mantenere “il profumo dell’Africa”.

Con Rovelli siamo invece in un’altra dimensione: mentre la Aden abbandona la cultura del Paese di adozione per lasciarsi guidare dal suo istinto africano – sicuramente più vicino alla natura – e si immedesima nello spirito di elefanti e orsi umanizzati, Rovelli si spoglia dei suoi pregiudizi di occidentale per vestire i panni di un immigrato africano e di una ragazza psichiatrica. Altro parallelo: come l’elefantino Dalmar della Aden stringe amicizia con l’orsetta Dritta, così l’immigrato clandestino di Rovelli, Karim, stringe amicizia con la giovane e benestante Elsa.

Ma anche Rovelli resta fedele al suo stile, mantiene il linguaggio del suo essere poeta e cantautore e alterna dialoghi di parlato che sembrano tratti da una sceneggiatura con passi di pura poesia: “Il tempo si mostra qui, nella sua assenza. E tu che guardi sei puro guardare”. Sino a includere brani musicali come testi di canzoni: “Scendete ancora, giù per il sentiero che dal castello arriva al mare, scendete quasi inerti, come minerali che scivolano perpendicolari al sole, che scivolano in basso per sfidarlo, a raccogliere la sfida dell’incandescenza, che i minerali trattengono presso di sé, racchiudendola senza sprigionarla, conservandola per l’eternità. Siete pietre nere, racchiuse nell’attesa, l’attesa dell’incandescenza, e l’incandescenza non attende niente. Poi vi sciogliete in fuoco, o forse metterete radici e vi distenderete in terra, o germinerete in vermi e butterete bellezza come un cadavere il grasso, ma non sarete acqua, questo no, non potrete mai essere acqua”.

C’è molta introspezione psicologica, un’analisi attenta sia delle fobie di Elsa, nate proprio dal suo ambiente familiare trincerato dietro la solidità economica (“Vivere in una fortezza fa crescere nella paura. E la paura produce una percezione del mondo diversa”), sia della saggezza di Karim, intriso di una visione filosofica che non è data solo dalle drammatiche esperienze di vita ma anche dalla sua cultura: Karim legge libri, cita Nagib Mahfuz e San Paolo, è un diverso tra i diversi, un immigrato speciale, di quelli che Elsa vorrebbe al posto di tanta gente che non è immigrata. Karim ha fiducia negli altri e ispira fiducia, è di una gentilezza che più nessuno conosce. Per questo Karim e Elsa sono così vicini, due facce della stessa medaglia. Entrambi vogliono le stesse cose, ossia giustizia, libertà, uguaglianza, un mondo migliore, fatto di persone vere. Elsa ne ha la netta percezione quando raggiunge Karim in Puglia, sceso per la raccolta dei pomodori: “Tutta questa campagna intorno è libertà, (Elsa) vede persone e non maschere, e non le importa se è una sua illusione, l’ennesima visione”.

῾Υποθῆβαι ἄνευ τειχῶν

1
di Daniele Ventre
Τῷ Αἰμυλίῳ Ουίλλᾳ ἀναθέμενον
1. πάντων μεταδειπνούντων τῶν ῾Υποθηβαίων
σχολὴν σπουδαίαν ἔχω
φάρμακα ἔδωκα κἄπιον
τὸ τῆς ἀορασίας ἄορ ἄοριστον ἐξὸν γεγονέναι
ἄνευ θηρευτῶν ἢ καὶ ἰχνευτῶν.
πάντῶν ἰχνῶν ἀγνώστων ὄντων
καὶ ἡ μετάσφιγξ μεταίνιγμα μεταινίσσουσα
τάς μετανθρωπίνας σκιὰς βορᾷ
ἄπαστον κἄσιτον τὸν γαστέρα ἔχουσα
μετὰ τὴν ἀμέγαρτον δαίτα
. . .
1. tutti al post-pasto i sub-tebani
io ho affannoso ozio
farmaci ne ho dati bevuti
la daga dell’inindagabile resta possibilmente indefinita
senza cacciatori o indagatori.
tutte le tracce non riconoscibili
la post-sfinge pospone post-enigmi
le post-umane ombre divora
rimanendo stomaco innutrito
digiuno
dopo il festino che non le si invidia
2
ἄξενα ξένια ξενοδόχοι ἄξενοι
φέρουσι τοῖς ξενίοις οἱ ῾Υποθηβαῖοι
τινὰ ζητοῦντες τῇ μετάσφιγγι δαῖτα δώσοντα
τινὰ ἐυρίσκοντες τὰ μεταινίγματα
σαφῶς ἀπομηνύσοντα
κοὔτινα χᾶριν ἔχοντες
ἴνα κτείνεισθαι ἐξειη.
Τούτῳ γὰρ τῷ τέλει ὅσοι ἥρωες·
ἵνα τεθναῶτες εἶεν.
. . .
inospite ospitalità
gli ospiti inospiti
agli ospiti stranieri offrono -da bravi sub-tebani-
cercano un x che darà banchetto
per la post-sfinge tentano di scoprire
uno che sveli chiaro i post-enigmi
senza mostrargli gratitudine
perché sia dato ucciderlo.
a questo cerchio di fine gli eroi:
perché restino morti
3.
Ἐν τοῖς ἄθλοις τοῖς ἐπὶ τοῦ ἀντιοιδίποδος
χείλιοι ἦμεν ἀθληταὶ
ἔχοντες δι’οὐδεμίαν αἰτίαν
οἴδηματα τοῖς ἀβεβαίοις ποσίν.
ἠλάλαξε δι’οὐδεμίαν νίκην
τὰ μετανθρώπινα ἀπόντα ζῶα
ἀμένηνα κάρηνα.
. . .
alle gare per l’anti-edipo
mille eravamo atleti
non avendo per alcuna ragione evidente
gonfi i piedi instabili.
giubilarono di nessuna vittoria
le postumane assenti forme di vita
teste senza sangue – senza forza
4.
ἐξετέθη ἐπὶ τὸ κάρηνον ὁ τὰ αἰνίγματα λύσων
ἡμεῖς τοῖς βένθεσι
ὑπορταρτάροικοι
. . .
fu esposto sulla cima quello che doveva
sciogliere enigmi
noi agli abissi
noi infero-locati
5.
ἄνευ τειχῶν οὗσαι῾Υποθῆβαι
μετὰ τὴν καταστροφὴν τῆς ἱλαροτραγῳδίας,
ἀνακόλουθα μετανθρώπινα ζῶα βαδίζει
ἄβατον ὁδὸν ἐν ἀμόρφῳ ἀτειχίστῳ πτολιέθρῳ
ἐν κακοναιομένοις μεγάροις κακοπήκτοις
ἡμιβιούντων σκιόεντα κάρηνα
κατακείομενα δι’ἀφώνῃς αἰθούσῃς
κοὐκ ἀοιδοὺς ἀκούει·
τὰ γὰρ δυσήκοα δαιτί
. . .
senza mura sub-Tebe
dopo la fine dell’ilarotragedia.
non sequitur post-umani viventi a passeggio
per non passeggiabile passo
nell’informe immurata città
per malabitati malfοndati abituri
teste d’ombra di mezzo-vivi
giacenti a dormire nei portici muti.
non ascoltano aedi
quella roba a pranzo è noiosa
6.
τὶ γάρ;
τὸ ἐρώτημα μένει
διὰ τὸν ἔρωτα μαίνεται
ματαῖος ἐραστὴς
ὁ μάτην ἐρωτῶν
ἧδε ἡ μετάσφιγξ
ποικιλῳδὸς
. . .
Insomma: che.
La domanda rimane.
Desiderio mania.
Matto amatore
chi matte domande pone.
Questa la varia cantrice:
Meta-sfinge.
7.
Σφιγγόζωστοι αἱ ῾Υποτῆβαι.
Τὰ ῾Υποθηβαῖα θηρία
Τείχη σκιοειδῆ
πάλιν καὶ πάλιν βορᾶται
αὐτὰ σκιόεντα ὄντα.
ἄλλοθι τἀνθρώπινα εἴδη
ὑπὸ ἥλιον ἀνιόντα βαδίζει.
γλαφυρὸν ἐνθάδε σπήλαιον.
κενοὶ λόγοι
οἱ περὶ τοῦ σπηλαίου
κενὴ ἱκετεία
κεινὴ ἴχνευσις
. . .
Sfingocinte le contrade di sub-tebe.
sub-tebane bestie
mura umbriformi
ancora e ancora vorano
esse in sé tessute d’ombra.
altrove forme umane
vanno sotto il sole sorto.
qui vuota caverna.
vuoti i discorsi
della caverna
vuota preghiera
quella traccia chiesta.
8.
θνητοὶ θνητοί εἰσιν
κλίσις τοῦ οὐδενὸς
κοὐδὲν πάνυ ἀθάνατον
πλὴν τοῦ ἄλλοθι
. . .
mortali mortali restano
declinazione in coda all’accento del nulla
e nulla è in tutto immortale
fuori dell’altrove
9.
κρίσις ἄνευ κριτηρίου αἱ ῾Υποθῆβαι
τὸ μεταίνιγμα αἰνίττεται
τῇ ποικίλῃ ἀφωνίᾳ
ἐν ταῖς στοαῖς ἀποικίλοι
ἃ τὰ μὲ ἐόντα ποικίλλει
οὑδεμίᾳ συγγραφίᾳ
τῶν προσώπων σκιοέντων
. . .
giudizio ingiudicato sub-Tebe
il post-enigma si varia
di varia afasia
nei portici senza dipinti
che i non enti dipingono
di nessun dipinto
di volti ombranti
. . .
10.
ἄνομον ἄμορφον ἄπολι πτολίεθρον
ἀπολειφθὲν ἄβροτον μείνει.
οὐκ ἄνοδοι ἡγοῦνται
ἐς τὸ ἄτοπον τἀνανθρώπινα
ὅθι μόνη μονὴ ἀνομία
ὅχλος θηρίων
ἀνδροφάγων Κυκλώπων
καὶ ἀγροιοτικῶν αἰγῶν
. . .
città senza legge senza forma senza città
abbandonanta senza gente resta.
non ritorni guidano
al non luogo i non umani
dove sola permanenza è l’assenza di norma
folla di bestie
ciclopi androfagi
e capre selvatiche

Trappola per lupi

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di Bruno Vallepiano

Isola di Kornati – Croazia – Luglio 2019

Sdraiato su un materassino giallo, con la schiena arsa dal sole e il viso immerso nell’acqua limpida stavo guardavo, annoiato, una miriade di minuscoli pesci che sfrecciavano sotto di me. Giocavo a quanto resistevo senza prendere fiato.
Il bagliore del sole spalmato sulla superficie dell’acqua ne esaltava il turchese e scendeva a riflettersi in tremolanti spicchi arcobaleno sui sassi bianchi distesi sul fondale. Ogni tanto, sollevavo lo sguardo verso la spiaggia semideserta cercando la macchia blu dell’asciugamano sul quale era distesa Ceci. Il bambino era accanto a lei e trafficava con la sabbia e con alcuni cubi di plastica colorata. Erano al centro della piccola caletta isolata, protetta su due lati dagli scogli e alle spalle da una fitta macchia mediterranea che finiva poi nell’ampia pineta di Beritnica. Poco più lontano si innalzava la torre di pietra di Stogaj dove nei giorni passati ero andato più volte ad arrampicare. Il nostro bimbo, Idris, era diventato, come Cecilia, bello e abbronzato, e sembrava davvero felice. Bastava guardarlo per capire che stava bene.
Gli avevamo affibbiato, con buona pace dei parenti, il nome di battaglia di uno zio partigiano ucciso dai nazisti.
Da tre settimane eravamo in pieno relax sulla spiaggia di Metajna. A dire il vero avevamo fatto delle puntatine verso l’interno girando, a volte, senza una meta precisa, altre invece puntando verso città da visitare, ma sempre senza imporci orari o tempi. Quando eravamo stufi di una cosa ci bastava un’occhiata e cambiavamo direzione, andando a fare altro.
Da un paio di giorni, però, Ceci manifestava una certa inquietudine e avevo capito che ormai era giunto il momento di puntare la prua verso casa, perché quella specie di Eden nel quale avevamo vissuto cominciava a sbiadire e sarebbe stato davvero un peccato inquinare la piacevolezza di quei momenti, con la noia e lo scazzo, che presto sarebbero stati in agguato, se avessimo forzato ancora la nostra permanenza lontani dalla vita di sempre.

Dopo molti giorni, erano tornati, nei nostri discorsi, pensieri rivolti alla nuova casa, o meglio quella che sarebbe diventata, da lì a un po’, la nostra nuova casa, ancora tutta all’aria. Erano riaffiorati i ricordi delle passeggiate nei boschi che sovrastano Gariola, delle nostre lunghe serate passate a chiacchierare con i nostri amici Paolo e Clotilde nel cortile della loro cascina, ormai lanciata come B&B, con turisti tedeschi ed olandesi che si avvicendavano nelle camere e ad abbuffarsi con le crostate e le altre golosità gastronomiche che Clotilde cucinava per loro. Addirittura, era comparsa la voglia di una serata a Cuneo, con gelato da Arione e passeggiata sotto i portici.

Era ora di tornare a casa. Che per il momento era ancora il piccolo alloggio di Ceci, diventato ancora più piccolo con l’arrivo del terzo incomodo e di un mucchio di cose affastellate ovunque.

Per questo avevamo iniziato a pensare ad una casa vera. In un primo tempo avevamo adocchiato un rustico a Gariola, visitato su suggerimento di Paolo. Sembrava fosse in vendita ad un prezzo abbordabile, ma quando il proprietario ci aveva visti interessati all’acquisto aveva cominciato a fare il difficile e la cifra iniziale era lievitata, così non avevamo concluso nulla, anche perché l’ultima volta che lo avevamo incontrato gli avevo detto, neppure troppo velatamente, che non mi piaceva essere preso per i fondelli.
Infatti, quando mi aveva identificato come “quello visto diverse volte sui giornali” a seguito del mio coinvolgimento in casi polizieschi che, quasi mio malgrado, avevo contribuito a risolvere, si era persuaso che grondassi soldi e quindi pensava di poter lucrare. Così la sua casa era rimasta a farsi divorare dall’edera e dalle ortiche. Peccato, perché mi sarebbe piaciuta.
La seconda opportunità era stata un altro rustico ma situato un po’ fuori paese, in direzione della vecchia miniera e, a prima vista, decisamente malmesso: il tetto era parzialmente sfondato, i serramenti marci e tutto intorno era cresciuta talmente tanta vegetazione da impedirne una vista d’insieme. Il proprietario era sembrato piuttosto deciso a liberarsene. Lui risiedeva fuori paese da molto tempo e non gli interessava più tenerla, inoltre non vedeva l’ora di finirla con le tasse che, nonostante tutto, doveva pagare. Ci aveva raccontato che gliel’avevano richiesta alcuni costruttori con l’intenzione di abbatterla e costruire al suo posto un condominio, ma la cosa non gli garbava. Per principio, diceva, non gliel’aveva venduta. Era la casa nella quale era nato e sapere che noi avremmo avuto intenzione di ristrutturarla mantenendola il più possibile fedele al progetto originale, era una soluzione che lo tranquillizzava maggiormente. Così aveva ingaggiato un boscaiolo e aveva fatto ripulire il terreno tutto intorno al vecchio edificio, estirpando rovi e alberi, e la casa, magicamente, era riapparsa. I muri erano solidi e sani ed era meno peggio di quanto ci fosse apparsa in un primo tempo. Per acquistarla avevo venduto il mio alloggio di Mondovì ed era iniziata la nostra avventura, ma la ristrutturazione era lenta e costosa ed io e Ceci dovevamo tenere a freno la nostra voglia di trasferirci, pur sperando che questo potesse avvenire prima dell’inverno.
Avevo quindi interrotto il mio improvvisato snorkeling, mi ero spinto a riva con questi pensieri in mente e avevo raggiunto Ceci e Idris sdraiandomi sul telo accanto a loro. Lui mi aveva mostrato orgoglioso il piccolo buco che aveva fatto nella sabbia dove aveva riposto alcuni cubetti di plastica e Ceci di era voltata verso di me e mi aveva baciato.
«Pensavo alla nostra nuova casa. Chissà se a quest’ora avranno finito di mettere su il tetto.»
«Anch’io mi domandavo la stessa cosa…»
Ci eravamo guardati per un attimo, poi le avevo chiesto «Torniamo?».
«Non osavo chiedertelo…»

 

NdR: questo è il primo capitolo di “Trappola per lupi”, di Bruno Vallepiano, pubblicato recentemente da Golem Edizioni, nella collana “Le Vespe”

Marco Giovenale: Le carte della casa

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«sa come funziona il movimento di annottare.

il magenta-blu che è negli sterri negli sbancamenti delle

vigne, dove è morta per trent’anni.»

 

Le carte della casa di Marco Giovenale è l’ottavo libro dei Cervi Volanti, la collana che curo insieme a Giuditta Chiaraluce all’interno del progetto Edizioni Volatili.

Libri come laboratori, primi confronti, materie pensanti, montaggi e scavi attraverso la carta; libri senza profitto, in tiratura limitata (esoeditoria), evidenti nella loro invisibilità e indirizzati a chi saprà ospitarne l’implicita consegna; libri sfollati, col solo intento di essere vigilie per una geografia del dopo-diluvio.

Pubblico qui alcune pagine in anteprima, insieme a una nota dell’autore. Le partiture visive e i segnalibri sono di Giuditta Chiaraluce.

 

 

NOTA DELL’AUTORE

Questo piccolo gruppo di testi è in tutto e per tutto un addendum al libro La casa esposta, uscito nel 2007. E nello stesso tempo lo precede, perché è costituito da foglietti accartocciati letteralmente nell’epicentro del caos-scasamento vissuto negli anni 2005 e 2006 (tempo che porta alla Casa esposta).

Nasce quindi direttamente come plaquette. Impossibile da accorpare ad una struttura più ampia. E tuttavia non in tutto disgiungibile da questa. I materiali sono handwritten, ossia non cut-ups né oggetti trovati. Come al solito, l’ispirazione non c’entra, sì la dissipazione, e anche qualche punta di disperazione, si può dire.

Alcune strutture elencative, così come – al contrario – certi meccanismi grafici o sintattici di sgretolamento testuale, potrebbero suggerire una riflessione sulla loro natura di possibili didascalie del disastro, vissuto abbandonando una dimora che in verità era pressoché una collezione di nonluoghi, hangar, un aeroporto, una città, una fabbrica di fabbriche. Però forse vale qui, semmai, una specie di contorta formula documentaria, o diario, probabilmente qualcosa che si avvicina al Ponge del “periodo che annuncia la primavera”. Senza primavera.

 

 

Marco Giovenale è inciampato nell’essere più di mezzo secolo fa, poi a fine anni Ottanta e poco oltre ha sondato alcuni percorsi politico-culturali di estrema sinistra; dopo, per quasi dieci anni (i Novanta), si è opportunamente tenuto lontano dall’ambiente romano della poesia; poesia che gli spiaceva perché llorona o sottoboschiva (o entrambe). Dopo il servizio civile si è laureato assai fuori corso in Letteratura italiana moderna e contemporanea (cattedra di Walter Pedullà), con una tesi su Roberto Roversi. Ha vissuto brevemente a Firenze, saltuariamente a Bologna: torna in queste due città (e in una terza) tutte le volte che può.

In dialogo con Nanni Balestrini, ha curato l’edizione 2005 di RomaPoesia. È stato tra i fondatori – e tutt’ora è redattore – di gammm.org (2006). È redattore e collaboratore di spazi web e cartacei italiani e anglofoni. Lavora come curatore indipendente, lettore per case editrici e singoli autori; è (stato?) traduttore dall’inglese. Ha diligentemente svolto per dieci anni il mestiere di libraio, ogni tanto ci ricasca; mentre in tempi più remoti  (i Novanta di cui sopra) ha lavorato in un centro di assistenza per rifugiati politici.

Tiene corsi di storia della poesia di secondo Novecento e delle scritture contemporanee, come docente indipendente (tre anni presso l’Upter, anche, sempre a Roma). Svolge attività per il Centro di poesia e scritture contemporanee che nel 2018-19 ha contribuito a fondare. Dal 2013 cura la collana SYN – scritture di ricerca per le edizioni IkonaLíber.

Il suo ‘primo’ libro di versi, Curvature, a due mani con la fotografa Francesca Vitale, è uscito nel 2002 per La camera verde, con prefazione di Giuliano Mesa. Dopo ha scritto ancora parecchie poesie o cose simili (l’elenco dei libri si cattura facilmente in rete).

In prosa: Numeri primi (Arcipelago, 2006), Quasi tutti (Polìmata, 2010; edizione definitiva: Miraggi, 2018), Lie lie (La camera verde, 2010), Il paziente crede di essere (Gorilla Sapiens, 2016), Le carte della casa (Edizioni volatili, 2020). In lingua inglese: a gunless tea (Dusie, 2007), CDK (T.A.P., 2009), Anachromisms (Ahsahta Press, 2014); e il ‘found text’ White While (Gauss PDF, 2014).

Il suo sito principale è slowforward.net. Escogitazioni grafiche varie in differx.tumblr.com.

 

Immaginare la fine. Nota su Trilogia della catastrofe

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di Francesca Matteoni

Come il libro di cui mi accingo a scrivere anche il titolo di questa recensione non è da interpretare alla lettera, ma da tenere a mente come una possibile linea guida. La Trilogia della catastrofe, libro inusuale voluto e pubblicato da effequ (i cui editori hanno una parte attiva nel testo, di cui firmano la premessa quale incipit programmatico), e scandito attorno alla catastrofe etimologicamente intesa quale rovesciamento di uno status quo, e suddiviso in tre movimenti: principio, durante, fine. Per parlare di catastrofe o immaginare la fine quindi editori e scrittori decidono in assoluta controtendenza di non affrontare direttamente il presente, le sue cause immediate e i probabili sviluppi, concentrandosi sulle varie crisi che interessano la nostra epoca (politica, economica, culturale e infine, punta dell’iceberg che molti si ostinano a non vedere, climatico-ambientale), ma allargando la prospettiva al nostro rapporto con la Storia o la sua invenzione, con la memoria e con la morte stessa.  Così Emmanuela Carbé nel primo saggio, “L’inizio degli inizi” ci porta indietro in un singolare congresso di Vienna in cui si decide non solo, come si è sempre creduto, dell’assetto delle nazioni, ma ci si spinge nel tempo con l’istituzione di un “comitato per l’immaginazione e la rappresentazione del mondo”, determinandone quindi le opere dei filosofi e dei poeti trascorsi, le invenzioni, la preistoria quasi azzardando l’origine del tutto. Ovvero l’autrice ipotizza il 1814 come punto sorgivo della Storia occidentale, poiché se catastrofe è ribaltamento, allora può anche essere un crocevia in cui resta aperto l’interrogativo sulla realtà quale mescolanza di conoscenza, immaginazione e manipolazione, in cui nessun fatto è mai veramente se stesso. Carbé utilizza Calvino e la sua indiscutibile sentenza: “le fiabe sono vere”, per condurci dentro la rocambolesca conferenza viennese. Quanto sembra suggerire l’autrice è che la storia è una questione di credo, infine: si crede a chi la racconta meglio o a chi ha le capacità per raccontarla, finché con un gioco letterario qualcuno viene a scompigliare le carte, tiene i nomi e cambia il senso. In quale mondo abbiamo dunque deciso di vivere? A chi affideremo le nostre narrazioni? E, questione spinosa per ogni storico o letterato, chi parla per l’oppresso e fino a che punto è genuino? Carbé conclude con degli appunti che certifichino ancora il suo “essere umano”, “in vista del passato, o del presente, o del futuro”, ed è lì che si apre una via di fuga o d’entrata nel garbuglio delle storie. Una lista di cose amate – azioni, artisti, visioni, capaci di tenerci nel mondo oltre ogni tempo fittizio e fallace.

Lista che ci prepara per la seconda catastrofe, stavolta nella sua dimensione disastrosa, nel reportage narrativo di Jacopo La Forgia, “Costruire il risveglio” che si muove nella contemporaneità per documentare la strage, e il suo occultamento, di circa cinquecentomila comunisti in Indonesia nel 1965. Si tratta di un viaggio non in un passato da inventare, ma nella memoria negata, che si riaccende a incrinare gli effetti propagandistici di un certo potere. Gli incontri sono tutti tasselli di un trauma, perché tale è il risveglio, contro le bugie dentro cui i più giovani sono cresciuti, per paura, per difficoltà e vergogna nel confrontarsi. In tutta la narrazione, oltre al racconto di vittime e carnefici, aleggia infatti l’ambiguità  su cosa sia giusto, cosa sia da salvaguardare, cosa da denunciare, se la morte dei cari sia il segno di colpe familiari contro la collettività o sia invece il grido contro l’ingiustizia. Tutte cose che sappiamo, certo, che crediamo di aver imparato, eppure La Forgia ben sottolinea che a volte bisogna andare là, ovunque sia questa lontananza, per avvicinarsi al semplice dubbio sulla giustizia e al nostro ruolo in lei. Ogni allontanamento alla ricerca di un vero scomodo può mutarsi in una riappropriazione delle proprie fratture e in un annullamento dei confini che rende l’altro umano familiare. “Uno dei motivi per cui ho fatto questo viaggio è perché parte della mia famiglia è stata uccisa durante la Shoah”, scrive verso la conclusione l’autore. “Ora mi sento a Jakarta, ma anche a Dachau”.  Mi sembra che questo sia l’approccio più onesto alla realtà: trovare il punto in cui ci riguarda. In cui gli anticorpi contro il male che gli umani infliggono ad altri umani coincidono con la resa alla sua esistenza ineludibile.

Anticorpi, resa. Sono le due parole che traghettano nello scritto finale “Gestire la morte”, saggio divulgativo di Francesco D’Isa dove la catastrofe che si fa dramma e lutto. Come gli altri l’autore adotta la prima persona e lo fa mostrando l’inadeguatezza corale nel fronteggiare il guaio in cui ci siamo cacciati: il surriscaldamento globale, il destino tragico a cui abbiamo condannato molte specie viventi, noi inclusi. “Per evitare di accanirmi sulla pagliuzza nel tuo occhio dunque, lascia che ti dica com’è fastidiosa la trave nel mio”. Passando per le abitudini personali, la fondamentale questione del dolore animale non riducibile solo alle scelte alimentari, la rivoluzione tecnologica e le sue conseguenze e la cultura del consumo, D’Isa ci conduce verso il problema dietro e oltre l’incubo ambientale: il nostro rapporto con la morte e la sua mancata gestione.  “Mangiare molta carne, valutare le situazioni quasi solo a breve termine, non mettere in dubbio i propri desideri, cercare soddisfazioni immediate, accumulare un potere eccessivo, non sono che degli esempi alla cui radice c’è un unico, stentoreo comandamento, declinato in mille comportamenti spesso contraddittori: evita – la – morte”.

Si tratta ancora di prossimità: per comprendere come curare il nostro unico pianeta, non serve a molto aprire un dialogo sui massimi sistemi, disegnando scenari perfino apocalittici, ma di una portata insostenibile per le vicende del singolo e delle comunità. Servirebbe invece concepire il nostro coinvolgimento in tutto questo: dopo la narrazione o lo smantellamento del passato più congeniale, dopo la fatica della memoria, occorre che si dica di nuovo io davanti all’essere mortale e che questo io sappia che è sua la morte che guarda, anche attraverso l’occhio di un altro essere. D’Isa non nomina la nostra natura fallimentare come autoassoluzione in attesa di un improbabile  “manipolo di coraggiosi” che metta tutto a posto: al contrario ci chiama al cambiamento della nostra indole più antica, ma non innata. Perché questo avvenga bisogna recuperare la parola per dirci che stiamo sentendo male. Non l’albero, non il pollo d’allevamento, non un popolo remoto nella giungla, non la costa quasi sommersa di un qualche paese fantastico. Noi. Tutti.

Per non confondere realtà e pregiudizio: una riflessione sulle ripercussioni del populismo culturale

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di Matteo Bianchi

A te che soltanto puoi capire:
È come quando gridi “scusa”
E lo ripeti
Da fondo campo
Per i colpi duri fuori di battuta.

F. Buffoni

 

Un paio di settimane fa, in largo su “Il Fatto Quotidiano”, Patrizia Valduga attaccava senza riserve il mancato riconoscimento degli intellettuali odierni e di conseguenza il decadimento del loro ruolo, quasi che il populismo culturale corrisponda all’inconsistenza di quello politico, quello delle boutade dei Salvini, Renzi e Di Maio di turno, che paiono più dei PR avveduti che degli amministratori pubblici. Dunque abbasso i parolai sgargianti e lunga vita ai dotti? Può darsi, ma è d’obbligo essere precisi nella dissertazione. Scorrendo l’articolo in questione il lettore potrebbe pensare “meglio tardi che mai” da parte di una poetessa avvezza a un situazione editoriale controversa, spesso soggetta a rapporti di forza e favoritismi coatti. Ma poi riaffiora l’annosa polemica circa la stanca dicotomia tra cultura “alta” e cultura “bassa”, o tra i dignitari del canone e il detestabile pop. Polemiche estive che aiutano i giornali ad andare in stampa e gli studenti distesi a tenere gli occhi aperti? Ci si domanda quanto valga insistere su una diatriba ormai calcificata, che non tiene conto di tante felici ibridazioni e degli studi consolidati da anni.

Adriano Spatola: il testo è un oggetto vivente

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«A trent’anni dalla scomparsa di Adriano Spatola tante conquiste sono state ormai acquisite e ben digerite dai media. La scrittura verbo-visuale non fa più rumore. Tantomeno scandalizza. Basti pensare alle acrobazie tecnicamente impeccabili della pubblicità televisiva. Ma la lezione di Spatola ci mette in guardia e ci indica che le strade percorribili ancora oggi sono quelle caratterizzate dal forte atteggiamento critico, quelle che considerino a pieno la materialità del linguaggio, che sfuggano alle limitazioni del mercato, che sappiano ben distinguere tra multimedialità e intermedialità, che garantiscano sempre un’alternativa al sistema linguistico istituzionale, nel senso che sappiano costruire il linguaggio, così come diceva Max Bense: “Scrivere significa costruire il linguaggio, non spiegarlo”».

Così si conclude Guarda come il testo si serve del corpo, l’introduzione che Giovanni Fontana ha dedicato alla ristampa di tutta l’Opera poetica di Adriano Spatola, da lui curata per [dia•foria. Negli ultimi decenni la “grande” editoria non ha fatto altro che scongiurare la peste dell’informe, riparandosi in un mestiere della cancellazione per cui la letteratura sperimentale della seconda metà del secolo scorso non è di fatto esistita, se non come concrezione o come quanto minaccia di riapparire: il verificarsi dell’inverificabile, qualcosa a cui non si può che continuare a dare la morte per impedirne il ripetersi. Accogliamo dunque con gioia questa ripubblicazione che -insieme alle recenti ristampe di autori come Emilio Villa e Corrado Costa– manifesta un ritrovato interesse per quella poesia che si è posta sempre al di là di ogni presa di potere, e che proprio per questo rappresenta ancora oggi un’indicazione primaria su quella che deve essere la vitalità del fare poetico.

***

Ospito qui una raccolta di estratti dal libro, per gentile concessione dell’editore.

 

 

da L’Ebreo Negro

(Scheiwiller-All’insegna del Pesce d’Oro, Milano, 1966)

 

5.

e ripetere il mito della creazione

gettare gli uomini dietro le spalle perché si tramutino in pietre

il sacerdote prega il seme divino (energia)

(sole) semen encefalo d’ogni forma di vita

tempo (fuoco) causa divina (vis viva) ameba eterno nel nucleo che si scinde

universi bruciati e ricreati – molteplici nell’uno del ripetersi (actus)

(energia) materia assunta alla città di dio

pòlio costante d’ogni protoplasma

signore del negativo e del positivo del numeratore e del denominatore della parte e del tutto

(ovum) basterà uno scatto per PROLIFICARE

(semen) fecondazione (fission) nel tuo corpo concepirai

(i nuclei avranno massa totale inferiore all’originaria)

fission fecondazione le mani dell’uomo riproducono dio (l’ovum si scinde)

aria fuoco luce (sole che adorano)

 

 

da Majakovskiiiiiiij

( Geiger, Torino, 1971)

 

3.

ma il testo è un oggetto vivente fornito di chiavi

la cruda resezione il suo effetto l’incredibile osmosi

è questo il momento che aspetti comincia a tagliare

guarda come si tende e si gonfia sta per scoppiare

è l’immatura anaconda si morde la coda strisciando

odore della palude odore coniato da fiato di fango

un libro un quaderno una penna un desiderio indolore

senza parole

 

 

da Algoritmo

(Geiger, Torino, 1973)

da Diversi Accorgimenti

 (Geiger, Rivalba, 1975)

 

3.

Democrazia una parola

ovviamente trascurabile origine

scopertamente risibile

e irrisibile il peso della menzogna

la confessione riconducibile alle radici

precaria amarezza

o teodulia.

 

4.

Democrazia una parola

dubbiosamente sconfessabile

felicemente confermabile

e riconfermabile la prognosi esatta

la delazione

riducibile alla più breve distanza

planetaria misericordia

o teologia.

 

 

da La piegatura del foglio

(Guida, Napoli, 1983)

 

9. Settembre, forse

 

Il teatro si chiude al tramonto nell’autopsia

è un terriccio cosparso di scaglie di limatura

radiazioni cromatiche di un’oratoria eccessiva

qualcosa di magnetico e fulvo sopra l’intonaco

esalazione fumosa stagnante e combustibile

come un odore di sottobosco un po’ marcescibile

così aromatico e greve così gradevole al fiuto

dell’animale insediato nella propria goffaggine

parlo dell’animale che ride con un po’ di malore

delle sue uova avvolte in un sudario di lino

sono cellule immerse in un vino scontroso

intenerito per le vere verità che verranno

in settembre il nono mese dell’anno

 

 

da Altri Testi

(In Giuliano Della Casa, Alfabeto, Geiger, Torino, 1973)

 

Alfabeto

 

Arcobaleno sopra la limpida

Balestra sospesa sulla porta sulla

Capsula saldata proprio al centro il

Domicilio dell’alfabeto la pronuncia dell’

Enunciata parola o la

Figura esattamente contornata nel

Geroglifico scolpito nell’intonaco:

Ha trascritto e riscritto l’

Imboccatura bianca e nera del

Labirinto la specie labile del

Mondo abitabile disabitato nella

Negazione assoluta nella nozione astratta l’

Organismo sillabico il singolo

Palpabile oggetto leggibile sulla carta

Quadrettata da sinistra verso destra nella

Radice chiara del

Segno

Taglio

Ultrasuono

Visibile

Zeta

 

 

Adriano Spatola col figlio Riccardo

 

Mots-clés__Mani

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Pol Rab (illustrateur) by Germaine Krull, 1930 © Estate Germaine Krull, Museum Folkwang, Essen

 

Mani
di Giulia Scuro

Mozart, Don Giovanni, “Là ci darem la mano” -> play

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Pol Rab (illustrateur) by Germaine Krull, 1930 © Estate Germaine Krull, Museum Folkwang, Essen

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Da Stendhal, Il rosso e il nero, trad. Alberto Cappi, Newton, 2014

Entrando quella sera in giardino, Julien era disposto a occuparsi delle idee delle belle cugine. Esse lo aspettavano impazienti. Occupò il suo solito posto, a fianco alla Rênal. L’oscurità divenne in breve profonda. Egli volle prendere una bianca mano che da un pezzo vedeva lì vicina, appoggiata al dosso d’una sedia. Ci fu qualche esitazione, ma finalmente la mano fu ritirata con un atto che rivelava un po’ di malumore. Julien era disposto a tenerselo per detto, e a continuare gaiamente a conversare, quando sentì che il signor Rênal si avvicinava.
Julien aveva ancora nelle orecchie le grossolane parole della mattina.
– Non sarebbe – si disse – un modo di burlarmi di quest’uomo, così favorito in ogni modo dalla fortuna, l’impossessarmi della mano di sua moglie, appunto in presenza di lui? Sì, lo farò, io, per cui egli ha mostrato tanto disprezzo.
Da questo istante la calma, così poco naturale all’indole di Julien, se n’andò subito: egli desiderò ansiosamente, e senza poter pensare ad altro, che Louise volesse lasciargli la mano.
Il Rênal discorreva irosamente di politica: due o tre industriali di Verrières stavano facendo migliori affari di lui, e volevano opporglisi nelle elezioni. La Derville lo ascoltava. Julien, irritato dai quei discorsi, accostò la propria sedia a quella della Rênal. L’oscurità nascondeva tutti i suoi movimenti. Osò posare la mano molto vicino al bel braccio che l’abito lasciava scoperto. Fu turbato, il suo pensiero non fu più suo; accostò la guancia a quel bel braccio, osò appoggiarvi le labbra.
La signora fremette. Il marito era a quattro passi; ella s’affrettò di dare la mano a Julien, e insieme a respingerlo alquanto.

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

L’autunno in Sardegna di Ernst Jünger

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Maria Chiara Pruna - "Zona d’ombra", 2011 - 60×120 acrilico su tela

Per i tipi di Le Lettere è uscito da poco Un autunno in Sardegna di Ernst Jünger, a cura di Mario Bosincu. Dei tre testi raccolti nel volume pubblico l’incipit del primo, intitolato San Pietro. [ot]

Maria Chiara Pruna – “Zona d’ombra”, 2011 – 60×120 acrilico su tela

di Ernst Jünger
traduzione di Mario Bosincu

Si possono raccontare molte cose sulle isole, ed è più facile iniziare che finire. Ricordo di aver parlato una volta con un giovane amico che pensava di scrivere una monografia intitolata L’isola. Dovetti dissuaderlo dal farlo, poiché l’argomento è così vasto che può dare filo da torcere a intere società di eruditi. Non sono isole solo quelle che appaiono come sabbia sul mare, ma tutto è isola, anche i continenti, e la terra stessa è un’isoletta nel mare di etere.

Ecco, forse, perché l’isola ci dà da riflettere non solo in termini quantitativi, ma anche qualitativi; essa rientra nel novero delle grandi immagini oniriche. Il desiderio di Sancio Panza di divenire il governatore di un’isola è un desiderio comune tra gli uomini; ognuno l’ha avuto dopo aver conosciuto la storia di Robinson. «Ci si dovrebbe ritirare su di un’isola». Insel, insula, isola, Eiland – sono parole usate per indicare qualcosa di segreto e compiuto. Suscitano l’idea di ciò che è proprio e della proprietà.

Se da una nave vediamo profilarsi all’orizzonte un’isola – l’abbiamo scambiata, dapprima, per un ammasso di nuvole, poi sono emerse lentamente le cime, le scogliere e l’anello dei frangiflutti – ci afferra la speranza. Quando la rivediamo scomparire e confondersi con la foschia, cadiamo in preda alla tristezza e ad una nostalgia dal carattere indefinito.

Si dice che le isole abbiamo avuto un ruolo particolare nella vita di Napoleone, perché, nato su un’isola, fu vinto da un’isola e morì su un’isola. Ma forse è anche perché in questo caso il destino diviene un po’ più chiaro. Ma è difficile stabilire che cosa si debba intendere per isola. I geografi, infatti, hanno discusso a lungo se definire l’Australia un’isola o un continente. Una definizione può essere data solo grazie ad una decisione che coroni un percorso

intellettuale, quale fu presa da Robinson quando, salito sulla cima più alta della sua solitudine, si vide circondato dal mare. Questo atto di maturità spirituale diviene tanto più difficile quanto più si è circondati e recintati da pianure. La forza dell’inglese risiede perciò meno nel fatto che vive su un’isola quanto nel fatto che ne è divenuto consapevole. È soltanto questo ad aver reso la Manica invalicabile. Se un giorno potessimo concepire in questi termini il nostro pianeta, anche l’umanità conoscerebbe una nuova maturità spirituale.

È fonte di confusione anche l’ordine di grandezza all’interno degli arcipelaghi disseminati nei mari del mondo. Si è tentati di distinguere le isole e le isolette in base alle loro potenze – mi riferisco meno a quelle algebriche che a quelle omeopatiche, indicate con dosi sempre più piccole. In questo senso, l’isola di San Pietro, a cui sono dedicate queste pagine, sarebbe un’isola alla terza potenza, poiché essa è vicina all’isola più grande di Sant’Antioco, che a sua volta è vicina alla Sardegna. Tuttavia, la serie di isole non può dirsi conclusa, perché anche San Pietro è attorniata da isole come una chioccia dai suoi pulcini. Di fronte alla sua estremità settentrionale, la Punta, si trova l’Isola Piana, sulla quale in maggio ed in giugno fumano le ciminiere degli stabilimenti di lavorazione del tonno, e anche da questa isola si distacca un’isoletta disabitata, l’Isola dei Ratti. Infine, lo stretto braccio di mare tra la Punta e l’Isola Piana è reso pericoloso da scogli ora ben visibili, ora invisibili, che a loro volta tendono all’individuazione, all’essenza delle isole. Tra di esse figurano quelle le cui pallide sommità emergono quando si abbassano le onde. Hanno il capo verde per la zostera pettinata dai flutti. Sono i territori delle aragoste, di cui San Pietro rifornisce le città, come fa l’arcipelago di Helgoland nel caso degli astici. Questo braccio di mare è noto fin dall’antichità anche come una delle classiche rotte per la cattura del tonno.

Altre isolette, come l’Isola del Corno e l’Isola del Gallo, si trovano ad ovest, altre ancora a sud, e spesso, come l’Isolotto del Geniò, sono così piccole che non sono indicate su alcuna carta. Quando il cielo è terso, in lontananza si vedono levarsi dal mare due ripide scogliere, il Vitello ed il Toro.

Per abbracciare con lo sguardo il proprio regno, come un tempo fece Robinson, la cosa migliore è salire sul punto più alto dell’isola, la Guardia dei Mori. Fu costruita nel luogo più adatto, una scogliera che si erge nell’entroterra, come punto d’osservazione per difendersi dalle scorrerie dei pirati africani. Caduta in rovina nel XIX secolo, durante la Seconda guerra mondiale fu occupata dalla contraerea. Ora è di nuovo un rifugio per gheppi e civette. Simile alla rocca del Graal, poggia su un basamento di pietra così stretto che sembra rastremare la scogliera. Dall’alto si può godere del colpo d’occhio di un’aquila.

I mori, per avvistare i quali fu eretta la torre di guardia, hanno giocato un ruolo importante nella storia dell’isola. Per molti secoli i loro assalti hanno reso l’isola inabitabile. Sarà servita, come molte isole poco sicure del Mediterraneo, come luogo in cui far pascolare le capre. Al massimo fu la dimora di alcuni pastori semiselvaggi che si nascosero in grotte o capanne di giunchi. Già nell’Odissea è dato leggere che i naviganti si rifornivano di viveri e che avvenivano degli scambi in luoghi del genere.

Sono questi minuscoli dettagli a rivelarci quasi sempre lo spirito di epoche del passato; assomigliano a talismani sfiorati dallo sguardo. È quanto mi accadde anche qui, quando discesi da Capo Sandalo verso la costa occidentale disabitata di San Pietro. Là un pescatore custodiva la sua barca. La vidi solo dopo essermi avvicinato molto, poiché l’aveva nascosta ad arte con del muschio marino. Temeva, infatti, che i traghettatori, o, almeno, certi traghettatori si sarebbero levati il gusto di rubargliela. Quando il clima mondiale peggiora un po’, non solo la barca, ma ogni cosa va nascosta. Per secoli le cose erano andate così, e la spiaggia solitaria a ovest dell’isola ha conservato quest’aura di pericolo. La sentii diffondersi dentro di me come un sottile alito di fumo mentre guardavo il muschio grigio-verde. […]

 

E tu splendi

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di Gianni Biondillo

Giuseppe Catozzella, E tu splendi, Feltrinelli editore, 2018, 231 pagine

Anche questa estate, come ogni anno, Pietro e Nina vengono spediti dal padre – la mamma è morta da poco – da Milano ad Arigliano, il paese d’origine della famiglia, nel cuore sperduto della Lucania.

La voce narrante di Pietro ci fa conoscere gli abitanti del borgo: vecchi stralunati, contadini rancorosi, ragazzini selvaggi. Sembrerebbe un’estate come tutte le altre, immobile e gioiosa, se non fosse che toccherà proprio a Pietro scoprire che nella vecchia torre normanna abbandonata si nasconde un gruppo di clandestini africani.

L’avvenimento irrompe come un cataclisma nel borgo, scatenando i più bassi istinti di conservazione, i peggiori rigurgiti identitari, il populismo più vieto nei confronti di questi migranti. E Pietro stesso non ne sarà esente, osservando Josh, uno dei clandestini (suo coetaneo), come fosse un essere misterioso, affascinante e pericoloso. In una realtà piegata da vecchi conti mai saldati, paralizzata dalla memoria e dal passato, il gruppo di clandestini diventa il perfetto capro espiatorio di ogni male, quasi fosse una maledizione, un monito inviato dagli dei.

E tu splendi è, soprattutto, un tributo alla letteratura meridionalista del novecento. L’affetto di Giuseppe Catozzella alle terre che descrive è palesato dal calco quasi pedissequo della sua scrittura alla tradizione neorealista dei Silone, dei Levi, degli Jovine. Il Sud di Catozzella sembra fotografato in bianco e nero, con sfumature seppiate; incapace di conoscere la modernità, persino di raggiungerla. Ma non si faccia l’errore di credere E tu splendi un romanzo “realista”. In realtà non di romanzo dovremmo parlare ma di fiaba. O, forse, di fine del periodo fiabesco della vita. L’estate raccontata in queste pagine è, in definitiva, quella del passaggio della linea d’ombra del protagonista, che abbandonerà l’infanzia verso una nuova consapevolezza dell’esistenza. Tutta da raccontare.

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(precedentemente pubblicato su Cooperazione, numero 20 del 15 maggio 2018)

Matteo Meschiari: Il treno per Ballachulish

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«nel mondo ghiaioso bruciato

 nel mondo vago

nel mondo verde ramarro

del venerabile Kutkh

il Corvo del Cosmo.»

 

Il Treno per Ballachulish di  Matteo Meschiari è il settimo libro dei Cervi Volanti, la collana che curo insieme a Giuditta Chiaraluce all’interno del progetto Edizioni Volatili.

Libri come laboratori, primi confronti, materie pensanti, montaggi e scavi attraverso la carta; libri senza profitto, in tiratura limitata (esoeditoria), evidenti nella loro invisibilità e indirizzati a chi saprà ospitarne l’implicita consegna; libri sfollati, col solo intento di essere vigilie per una geografia del dopo-diluvio.

Pubblico qui alcune pagine in anteprima, insieme a una nota dell’autore. Le partiture visive e i segnalibri sono di Giuditta Chiaraluce.

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

56°40′24″N – 5°09′53″W, Ballachulish, sulle sponde di Loch Leven, Scozia, quella dei grandi ghiacciai scomparsi, quella dove vorrei finire il mio viaggio carnale nella caduta dei tempi. Un villaggio che non sapevo che esistesse e che un giorno, per un insolito inceppamento del caso, è apparso non richiesto sul mio portatile, mentre la fiamma di un camino scaldava gennaio. Un angolo di mappa che riempiva lo schermo, un pop up tra fiaba e poltergeist che mi ha turbato per molti giorni. Perché? Che cosa c’è a Ballachulish? Quale destino intercetta per uno come me che non crede a nulla se non a una grande marmellata di energia, senza scopo, senza Dio? Decido di scoprirlo, voglio andare a vedere, faccio un biglietto aereo per Edimburgo, il volo è previsto per fine maggio. Quando, rinchiuso nel mio studio-soffitta, tra febbraio e marzo, capisco che invece non ci andrò mai a Ballachulish, comincio questo poema narrativo, come promessa smaterializzata, come riparazione, progettando un mondo che nei miei calcoli avrebbe dovuto raggiungere i 10.000 versi. Era il mio modo per arrivare là mentre eravamo tutti nascosti in casa, magari non da Modena, ma dalla strada più lunga. Quali sono quindi gli antipodi di Ballachulish? Lo stretto di Bering? Come attraversare la Grande Asia artica e subartica? In treno? Con chi se con tutti gli esseri, umani, animali, divini, in un ultimo viaggio delle specie, dei saperi, del mondo vivente e immaginato, sopra una specie di Orient Express metafisico, proiettato come un fantasma contro la volta di una caverna? Il treno per Ballachulish non è solo un viaggio mai fatto o un poema mai finito. Nella sua confezione cartacea si interrompe addirittura prima, a metà di un verso, a metà di un dialogo, e continua nel mio manoscritto come una specie di organo-vestigia che un giorno potrei decidere di rianimare, ma in realtà, così com’è, è già il nostro ultimo viaggio nell’Antropocene, un percorso a senso unico, verso una Ballachulish-fine-dei-tempi che è più in là della portata della mia mano. In questo Snowpiercer verbale volevo metterci tutti, in terza classe gli umani proletari, in seconda gli animali parlanti, nella prima gli Dei, che banchettano per mesi. E, come Poirot, avrei voluto cercare l’assassino della divina Inanna, vestendo i panni di Fierabraccia Matisson, un leopardo delle nevi dal sangue di ghiaccio e dalle feline capacità investigative. Intanto, fuori, la steppa, la tundra, la brughiera, le costellazioni che per l’ultima volta vedremo prima di entrare nel lago di Leven, dove il Mondo finisce. Ma, dopo marzo, è arrivato aprile e Il treno per Ballachulish si è fermato poco dopo la partenza. Non doveva neanche uscire dalla soffitta e invece l’ho passato per affetto a un ragazzo. Mentre il vecchio sognava i leoni, il ragazzo ha deciso di farlo diventare un libro di ventotto pagine che, assieme a tutti gli altri di queste aeree Edizioni volatili, con disegni che sono in bilico tra le miniature irlandesi e i bigliettini di Auschwitz, incarna per me il futuro del libro e dell’editoria: antropologia del dono contro neoliberismo, cura contro merce, durata contro fretta, inattualità contro cronaca. Non doveva neanche esistere Il treno per Ballachulish, ma ora c’è, e oltra alla storia che lo precede e a quella che contiene, in poche centinaia di versi difende un’idea di poesia, epica, fantastica, cosmogonica, antropocenica. Ora, io non andrò a Ballachulish, il treno l’ho perso, ormai, ma voi che ci andrete seguite la mappa contenuta nel libro: seconda brughiera a destra, questo è il cammino, e dopo dritto, oltre il declino.

 

 

 

 

Matteo Meschiari (1968) è geografo, saggista e scrittore. È professore associato dell’Università di Palermo, dove insegna Geografia e Antropologia. Ha scritto diversi libri, tra cui Artico Nero (2016) e Neghentopia (2017), entrambi pubblicati per Exorma. Con Antonio Vena ha ideato il progetto TINA-LA GRANDE ESTINZIONE sull’immaginario collettivo nell’Antropocene.

 

 

La questione meridionale, e quella neoliberista, a scuola

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di Giorgio Mascitelli

Uno degli argomenti invocati dai riformatori neoliberisti della scuola per spiegare la necessità della riforma è che la scuola pubblica in Italia non funziona, in particolare nel Sud. L’ultimo a sostenere questa tesi è stato l’economista Giavazzi sul Corriere della sera lo scorso agosto, ma sarebbe facile citare l’opinione di tanti altri commentatori negli ultimi anni. Le prove citate per questa inefficienza delle scuole meridionali sono fondamentalmente due: gli scarsi risultati ottenuti dagli studenti del Sud nelle prove di verifica internazionali ( prove PISA) e nazionali ( prove INVALSI) e il fatto che agli esami di stato i voti al Sud sono più alti che al Nord. Si tratta di due argomenti pretestuosi che nascondono altre finalità. Nel caso dei voti di maturità basterà ricordare che la scuola italiana nel suo complesso è tra quelle più severe nell’uso dei voti e il fatto che in una regione si sia un po’ più larghi di un’altra non cambia questa situazione di fondo. E’ curioso pertanto che ammiratori di sistemi scolastici come quelli anglosassoni, in cui è molto più semplice raggiungere i voti più alti, rimproverino un presunto lassismo a una parte della scuola italiana che adotta comunque standard di valutazione abbastanza duri.

Esiste invece un’ampia letteratura che spiega come queste presunte prove di valutazione oggettiva di un sistema scolastico non sono adatte allo scopo che si prefiggono, ma anche prendendole per buone in questo contesto per non allontanarci troppo dal nostro argomento, non si può fare a meno di notare un paio di elementi sorprendenti. Infatti se prendiamo le prove PISA esse fanno emergere sia della differenze a favore delle scuole settentrionali rispetto a quelle meridionali, ma anche dei licei rispetto ai professionali e poi ancora delle scuole pubbliche sulle private. Curiosamente di queste differenze l’unica che ottiene l’attenzione dei nostri commentatori è la prima, quando in realtà quella veramente sorprendente, per i criteri internazionali,  è la terza. Infatti un principio generale, da intendere non in senso deterministico ma tendenziale, è quello che il successo scolastico si lega a una situazione di maggiore benessere e integrazione sociale degli studenti, quindi in ogni paese del mondo le aree di maggiore disagio sociale hanno tendenzialmente, anche se non è un algoritmo, un tasso di insuccesso scolastico più elevato: nel Sud queste aree sono ben più numerose che nel Nord ed ecco spiegato molto se non tutto. A riprova di ciò direi che basterebbe raccogliere in ogni regione dati sui risultati delle scuole collocate nei centri dei capoluoghi e confrontarli con quelli dei sobborghi o dei quartieri più problematici, che ci sono ovunque, per ritrovare all’interno della stessa regione le differenze Nord/Sud. In pratica molti commentatori stanno cercando di territorializzare delle differenze sociali: sul senso e sulla pericolosità di questa operazione ritornerò più sotto.

Invece gli esami di stato ogni anno restituiscono un’immagine di una scuola abbastanza uniforme, per così dire unitaria da Lampedusa al Brennero, e infatti di solito coloro che considerano poco attendibili gli esami di stato sono coloro che attaccano la scuola del Sud, magari in nome della superiorità delle prove INVALSI come se la compilazione di quiz potesse realisticamente sostituire un esame articolato in più prove sulla base di un piano di studio basato su contenuti programmati. Naturalmente bisogna intendersi cosa vuol dire uniformità: se per uniformità s’intende un’esatta e quasi geometrica coincidenza di contenuti e capacità in tutti gli alunni, questa non solo non esiste tra varie regioni, ma neanche tra le scuole di una stessa città e tra le classi di uno stesso istituto ed è un bene che sia così perché l’unico modo per raggiungere un’uniformità geometrica sarebbe quello di rendere elementari i contenuti, penalizzando creatività, interessi e conoscenze specifiche di studenti e docenti. Una scuola viva è una scuola che trasmette saperi, capacità e consapevolezza critica tramite l’entusiasmo che per forza di cosa ha una natura multiforme. L’importante è che alla fine del ciclo ci sia una prova unitaria che funga da comun denominatore, non necessariamente minimo, ma che impedisca derive di tipo statunitense dove un diploma di scuola secondaria superiore non vuol dire assolutamente nulla quanto ad apprendimenti certificati.

Naturalmente il fine del discorso liberista sulla scuola meridionale non è quello di produrre maggiore uniformità, ma sembra avere tre obiettivi ben precisi. Il primo obiettivo è ideologico, ma proprio per questo assolutamente centrale, e mira a imporre la competitività come unica forma di relazione tra i soggetti nella scuola, competitività tra individui, tra scuole e tra aree territoriali. La società liberista tende a imporre una sorta di didattica permanente del liberismo e dell’individualismo e una scuola che fa della competizione il suo valore cardine è assolutamente necessaria. In secondo luogo questo discorso è funzionale alla regionalizzazione della scuola, obiettivo assolutamente necessario per subordinare la scuola al mercato, nel doppio senso di creare un mercato dell’istruzione in luogo della scuola pubblica e in quello di creare una scuola dipendente dalle richieste del mercato del lavoro, cieca alle esigenze di lungo periodo, ma flessibile a rispondere alle piccole necessità congiunturali, dirottando le risorse nelle regioni economicamente più forti. Per raggiungere questa finalità è fondamentale diffondere subliminalmente  l’idea che si va male a scuola non perché ci siano problematiche sociali ma perché docenti e studenti sono fannulloni ( particolarmente i primi secondo questa rappresentazione ideologica) : da questo punto di vista l’economista consulente del ministero, il ricercatore delle fondazione Agnelli e il militante leghista medio dicono tutti la stessa cosa con linguaggi differenti. Infine il terzo obiettivo è attaccare l’esame di stato unitario accreditando l’idea, come visto sostanzialmente falsa, che l’esame in certe regioni sia poco rigoroso a differenza delle prove INVALSI. Al contrario per costruire una scuola di mercato è necessario accentuare e creare, laddove non ci sono,  differenze e una situazione il più possibile disomogenea: l’esame di stato è uno degli ostacoli più importanti al conseguimento di questo risultato, proprio per la sua articolazione e complessità.Non è secondario notare che in un contesto del genere un buon profitto e altre virtù scolastiche tradizionali, nelle quali non eccellerebbero le scuole meridionali secondo i riformatori neoliberisti, non conteranno più perché sarà importante solo il brand della scuola costruito tramite le prove INVALSI, le classifiche di qualità redatte da enti privati come eduscopio della fondazione Agnelli  e i rapporti di autovalutazione, già oggi disponibili sui siti delle scuole, che indicando il ‘livello’ della scuola indirizzano le scelte dell’utenza.

La storia del nostro paese, sempre in sospeso tra un’idiozia campanilistica, di cui si può ridere tramite le rappresentazioni kitsch che ne ha offerto il cinema popolare nazionale, e potenziali rischi di derive balcaniche, non appena la situazione politica ed economica peggiori, dovrebbe sconsigliare questi incauti riformatori a usare argomenti del genere, quand’anche non fossero menzogneri, ma essi sono peraltro  funzionali a una riforma della scuola basata sulla liquidazione di ogni sapere critico nell’ambito della costruzione di quella che il sociologo canadese Alain Deneault ha chiamato la mediocrazia. Con questo termine egli intende quel processo che tende a emarginare i soggetti molto competenti a vantaggio di quelli mediamente competenti e più facilmente manovrabili.

L’idea di una scuola non unitaria e in perenne competizione a cui questo genere di argomenti fatalmente conduce è particolarmente pericolosa, se si pensa allo scenario che si sta aprendo. La costruzione dell’unione europea è virtualmente bloccata e, anche se area euro e UE sopravviveranno allo choc del covid, ci aspettano decenni in cui l’Italia continuerà a essere coinvolta come nazione in varie vicende internazionali. Intanto la crisi demografica e i flussi migratori ridisegnano una società in cui la tendenziale scomparsa dello stato sociale e un mercato del lavoro sempre più simile al far west, caratterizzato da una scarsa propensione agli investimenti del capitalismo privato italiano, faranno emergere una tendenza alla frammentazione dei rapporti e delle strutture sociali. La scuola è già e lo sarà sempre più il caposaldo essenziale di qualsiasi politica di integrazione, sociale e simbolica, volta a contrastare l’atomizzazione crescente. In questa prospettiva una scuola che riproduce al proprio interno l’atomizzazione sociale e territoriale che vuole combattere, perdipiù facendone un valore guida,  sarebbe uno strumento nullo. La pretestuosa polemica antimeridionale non è un prodotto casuale dell’inconscio leghista di qualche bocconiano, ma una linea precisa di attacco alla scuola pubblica volta a realizzare una scuola basata sulla competizione. Quest’ultima non è una idea che nasce oggi, ma in un momento storico ben preciso ossia gli anni novanta del secolo scorso, nei quali vigeva la convinzione che la globalizzazione sarebbe stato un processo pacifico di progressivo arricchimento dei singoli guidato senza discussione dagli Stai Uniti e dai suoi alleati europei. Un progetto di scuola simile, proprio per essere avulso da quello che è il contesto storico e sociale presente, rappresenta un’oggettiva minaccia agli interessi del paese e della collettività, andando a minare uno dei pochi elementi di coesione sociale e culturale della nostra società.

 

 

Lettere dall’assenza #4

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di Mariasole Ariot

Caro G.,

oggi il cielo è plumbeo, ho scartavetrato la casa per cercare un corpo che non fosse inquinato, ho preso le parti e introdotto un nervo nello stipite. La paura è questa sacca di placenta che spinge la mia testa, nascono figli e figlie dentro la nuca, mi chiedo sempre come tu stia, da quando la montagna ci ha soccorso.
Ho camminato a lungo, ho percorso un tratto di buio ed era una finestra: puoi sentirmi? Puoi vedere la mia pioggia?

Nelle giornate chiare mi aggrappo alle nubi bianche, fanno da copertura, e lassù, dove non sei, mi piego irregolare le ginocchia accovacciate : una preghiera laica, la tua riconoscenza.

Dalla partenza si crea l’attesa del ritorno, un treno veloce irradiato dalla luce, il riflesso dei riflessi del mondo, questo viaggio lungo, questa mancanza: abbiamo chilometri nel mondo, i suoni nel fondo del plesso solare, dove tutto si muove e non siamo, dove tutto tace e siamo, quando adorniamo l’utero della nostra conoscenza. Ti chiedo della donna lasciata al fronte, sei partito come partono le assenze, hai ancora l’orologio che ticchetta la notte, ho ancora la tua notte sulla pancia. Suggere dalle vene il poco sangue rimasto, depositarlo nelle tombe dei morti, far fiorire una primavera tra le labbra – e quanto siamo veri in questo vero, quanto siamo andati altrove, quanto siamo stati nei territori oscuri, quanto le anfore ci hanno franato e composti, quanti corpi abbiamo incuneato, la terracotta che ci fa da sponda, la ricuciamo con fili d’oro, un artificio orientale. La pioggia non è una malattia.

Qui i gatti immobilizzano i tempi, sfregano il muso sulla dimenticanza, affondano le unghie e muovono il volto.
Hai perduto l’acqua, ci siamo immersi nel lago per affogare – tu che detesti i fondali, tu che li cerchi.

La mia gamba è rotta, non ho piedi per appoggiare, solo una mano grande sullo sfondo che si affretta in divenire. La mia natura è morta, salva il salvabile, mentre le donne chiacchierano i padri, e tu hai un bambino nella zona occipitale, quando e quanto ti vestivi del nero degli inverni, quando e quanto pativi gli assoluti: il fine è aprire la bocca, dire il dire degli antenati, camminare sui fili degli in versi, e io mi inverto, faccio spazio tra le gambe delle cose.

Nelle zone tranciate dall’infanzia attendo la mia pelle, gli scorticati siamo noi che ci diciamo, siamo il noi che non diciamo.
Hai incendiato lo sterno, un mazzo di fiori finti nella strada, ora che sei in alto e guardi ad ovest e se non guardo non mi vedi: mi senti?
Dicevi il canto dicevi la sostanza, dicevi la stanza che mi avanza. Hai costruito una casa tra i boschi del cervello, siamo entrati come due animali in fuga, siamo due lingue e non abbiamo i denti, hai aperto la gola, conosciamo la sostanza e non paghiamo la frana, scendiamo nelle fortezze, portiamo la saggezza dei millenni: costruisci un mondo, il mio sguardo è ancora opaco.

Caro G., fa’ che sia avvenire, fa’ che consumi, fa’ che dica, fa’ la strada, indicami la consistenza, indicami il ritmo e le circostanze, indicami le stanze, dimmi gli azzerati, indica la grazia, dì la soglia, dimmi che hai voglia di ammutire, muta il cielo in uno specchio, muta gli specchi, fa’ che sia giorno.

Ti lascio la mia scatola d’argento, il ventre angioleggiante, la paura è tra la casa e le inferriate, questa mia caduta, la mia mandria di cavalli sulle ombre.

Ti aspetto nella risposta, sospendo la quiete, sospendi il verbo sepolto, danza il taciturno che hai innaffiato.

Tua,
S.

@fotografia di Mariasole Ariot

Francesco Aprile: insisti se puoi nel fare il polline

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di Francesco Aprile

 

 

Passaggio (I)

 

non si volevano fare esplodere i dati,

ma la necessità del mercato. la terapia

non dava i suoi frutti. paziente dopo

paziente, mitraglia per mitraglia, per

cintura una costola d’agnello dei tempi

andati, non di dio, della violenza.

non si volevano fare esplodere i dati,

per cui si lascia da parte la dizione,

l’ostracismo delle zolle, per le macchine,

insisti se puoi oltre l’omero, e accogli

nelle mani tagliate la forma dei rami.

sono le collere dei capitoli accesi

a rimarcare la dose, non si volevano

mica esplodere i dati, ma la necessità

del mercato. insisti se puoi nel fare

il polline, mentre i corpi abbagliati

si armano.

 

1.

a quel tempo era tutto un distendersi di rami a perdita d’occhio. tutto iniziava dalle serre, piccole colline senza pretesa di assoluto, che mantenevano un profilo basso e una continuità di sguardo con le montagne d’albania, dall’altra parte. tutto iniziava dalle serre, e tutto a quel tempo era un distendersi di rami a perdita d’occhio, montati sopra gli occhi, ma senza pretesa di assoluto. non erano ancora santi e conservavano il dominio della forma, senza parola. a noi restava il proposito di una smisurata passione, ora per la luce, ora per la forma. sulle pietre si stendevano le ombre, corse dietro le forme a registrare i tragitti di breve durata della luce.

 

2.

credetemi, non abbiamo mai rinunciato a seminare il terrore.

 

 

7.

quando smagra, lo sciamano sbellica la forma, con rissore, sempre, di chi ama del gesto l’eccedenza. ma qui era il rissore, l’audacia, la pioggia, vedi le rane, le lumache, le strade verdi. se non fosse un santo, avrebbe il corpo d’argento, al sole. se non fosse un santo ne avremmo fatto legna, per l’inverno. pietra dopo pietra, lo sciamano considera lo scibile e rifiuta l’asilo alla parola. ma qui erano pietre gialle, docili, ma qui erano pietre bianche, durabili cascate di cotone, di stagno, verdi di rane, di pioggia, ancora da spaccare. ma qui erano santuari dell’ignoto. fosse stato un albero, avrebbe avuto dominio della forma. senza parola.

 

20.

sono caduti dal finestrino tutti gli insetti tenuti a forza come ventose, sono caduti dal finestrino tutti gli insetti, né la velocità né i cambi di direzione, i sorpassi azzardati, niente, sono caduti dal finestrino tutti gli insetti, c’è voluta l’acqua striminzita della prima pioggia a portare terra sui vetri e sabbie a pollini dai deserti. sono caduti dal finestrino tutti gli insetti mentre smontavano le piattaforme e il corriere faceva le foto, ecco, non si vede più niente sulla spiaggia, ma noi sappiamo, noi sappiamo che sono caduti tutti gli insetti, sono caduti mentre imponevano coi soldi le piattaforme. noi sappiamo che a ripeterlo il fatto non diventa poesia. sono caduti tutti gli insetti, forse testuggini senza uova, forse lanuggini consonanti, piume vocaliche e svolazzi immacolati. sono caduti tutti gli insetti, insieme alle alghe, alle pietre, alle forme di palude dietro la corrente a muovere la luce tra le piante. sono cadute le piante a tronco cavo, come gli insetti, caduti con la prima pioggia, curvati alla mutilazione. sono cadute le piante a tronco cavo, ma noi sappiamo che lo stoccaggio, anche se si ripete, non trasforma il fatto in poesia.

 

24.

fare ordine. concepire il mondo senza il mondo. fossero stati santi non avrebbero avuto un corpo, solo forma, senza spazio, solo luce. un tempo erano sciamani abili per l’argento, un tempo erano promotori di racconti appena pronunciati, solo brillavano. ora sono santi, hanno abolito il corpo, disperato ogni luce.

 

 

Estratti da: La forma dei rami (marzo 2020)
raccolta finalista al premio Montano, sezione raccolta inedita, 2020

 

 

 

I poeti appartati: Alida Airaghi

1
Michael Triegel Deus Absconditus (2013)

Elsewhere

di

Alida Airaghi

 

 

 

C’è un fondo al cielo,

in fondo al cielo: e prima luce,

e primo buio. Fine di tutto,

innanzi a tutto.

Velo che tieni il mondo,

ripara il fiore, il frutto.

 

**

 

Tu che non puoi non essere,

non puoi finire.

Costretto a vivere

il futuro nell’adesso:

condannato a te stesso.

 

**

 

Ma tu sei un dio nascosto.

Oppure solo stanco:

e vorresti confonderti,

bianco nel bianco;

arrenderti, non esserci.

Invece stai al tuo posto.

 

**

 

Ma chi può consolarlo

se soffre, a chi può chiedere

aiuto? Cosa pregare,

a chi confessare il tarlo

di un dubbio: lui, muto?

 

**

 

Fare la guardia al niente.

Per millenni di vuoto

opporsi al niente, senza essere cosa.

E poi la scelta, il lampo. La voglia

che esistesse una rosa.

 

**

 

Prima di Dio non c’era dio,

prima del nulla non esisteva niente.

E niente e dio e fine e avvio

furono tutto, insieme: corpo e mente.

 

**

Ci chiederà mai scusa

per il male che ha potuto farci

(l’eterno, l’infinito, onnipotente)

a noi, che usa come alibi,

se ci ha destinati

all’inferno del niente?

 

**

 

Non crede al suo essere Dio,

non chiede di esistere eterno.

Gli basta che un lieve brusio

lo invochi presente e paterno.

 

**

 

Se gli arriva al di là degli spazi

sepolti e persi, oltre i cieli

le galassie gli universi;

se riesce a giungere a lui, leggera,

sottile come un soffio,

la preghiera incredula e viva

di uno che ha paura ma chiede

che lui ascolti; fosse solo per questo,

per questa minima fede,

dovrebbe esistere e rispondere,

esserci,

anche se non si vede.

 

**

 

Altro da me e da tutto,

non visto non visibile: muto.

Solo e inconosciuto,

lontano – irraggiungibile.

E in ogni cosa, in ogni rosa;

abisso e vetta, pantano

e volo. Tu, sordo

a qualsiasi grido, tu – grido.

Puro e trasparente, insanguinato

e lordo. Mio Dio, mio io,

mio muro. O niente.

 

**

 

Le tue mille e mille cattedrali,

come le amo nei loro silenzi,

nel buio dei confessionali: altari

spogli e cupole pesanti,

le nicchie, i banchi in fila,

la pazza solitudine dei santi.

 

**

 

Se il giorno è stato senza luce,

la notte lo riscatterà:

le parole sbagliate taceranno,

le offese saranno perdonate.

Nel sonno innocente di ognuno

il male si riduce a niente.

 

 

Da “Un diverso lontano”, Manni, Lecce 2003

 

 

 

 

 

Il cinema russo a Firenze: i film čechoviani di Konstantin Chudjakov e Svetlana Proskurina

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di Giulia Marcucci

La seconda edizione del Festival di cinema russo contemporaneo nella cornice di NiceFestival (Direttrice artistica Viviana Del Bianco) si svolgerà dal 5 al 10 settembre; tuttavia, per ragioni ben note, quest’anno la modalità di proiezione sarà in streaming sul portale Più Compagnia con una conferenza stampa introduttiva il 4 settembre in collegamento dagli Uffizi per dialogare con i co-organizzatori russi (il Centro dei festival cinematografici e dei programmi internazionali) e i registi e le registe dei sei film selezionati.
I film sono stati scelti cercando di dar luce alle voci più giovani e promettenti della cinematografia russa odierna – come Boris Akopov, in programma con il pluripremiato Il toro, Ivan Šachnazarov con Rock e Vera Surkova con Pagani –, in dialogo con registi già noti e affermati: Konstantin Chudjakov e Svetlana Proskurina. In attesa di ragionare sui più giovani, qualche riflessione qui su questi ultimi.

Konstantin Chudjakov, classe 1938, è il regista della serie Netflix di successo La via dei tormenti, tratta dall’omonimo racconto di Aleksej Tolstoj e ambientata a Pietrogrado tra il 1914 e il 1919. D’ispirazione letteraria, per numerosi rimandi all’opera di Anton Čechov, è anche il film La fine della stagione, selezionato per il festival fiorentino.
Alle due sorelle protagoniste di La via dei tormenti, interpretate da Anna Čipovskaja e Julija Snigir’, in La fine della stagione se ne aggiunge una terza, Elena (Julija Peresil’d). Anna (Čipovskaja), Vera (Snigir’) e Elena vivono in una dacia presso una tranquilla cittadina sul Mar Baltico. Donatas (Andrjus Paulavičjus), il marito di origini lituane di Elena, è l’unica presenza maschile. Vera fa la ritrattista; Anna canta in un locale.
Un “nuovo russo” (Evgenij Cyganov) affitta per una grande somma di denaro la dacia di Brigitta, la sorella di Donatas, che si trasferisce così a vivere dal fratello. Sebbene sia la fine della stagione, le altre due camere disponibili nella dacia delle tre sorelle vengono inaspettatamente affittate anch’esse: una al giovane Igor’, accompagnato da un punk di nome Schweppes, che si esibisce nella piazza travestito da drago; l’altra a una strana coppia, formata da una giovane donna malata (Natal’ja Kudrjašova, già nota al pubblico italiano per il film presentato nel 2017 alla Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro Pionieri eroi e per il premio nel 2018 come miglior interpretazione femminile alla settantacinquesima Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia) e da un attempato marito (Sergej Koltakov) dall’aria losca, Sergej Petrovič.
Il rimando alle Tre sorelle čechoviane è subito esplicitato da Igor’, che sogna di diventare uno scrittore: «Ma siete tre, proprio come in Čechov!»; la cantante ribatte facendogli indirettamente notare che non è originale, mentre Schweppes ammette di non aver mai letto Čechov sebbene ne abbia sentito parlare. E proprio come i prototipi letterari, Vera, Elena e Anna vivono in una piccola cittadina sospesa fuori dal tempo sognando Mosca, la città che hanno lasciato da piccolissime per il trasferimento del padre, un militare sovietico.
Anche Donatas aveva un sogno, che però non si è realizzato: diventare un medico; nella realtà fa il taxista nella piccola cittadina baltica. E l’allusione a Čechov si rafforza per l’atmosfera di fine stagione di questo posto oramai privo di turisti – come Jalta in La signora col cagnolino –, dove non sembra poter succedere nulla, dove non sembra che un’avventura estiva possa trasformarsi in un vero amore. Donatas infatti, altro “portavoce” čechoviano, a proposito della storia nascente tra Anna e Igor’ afferma sicuro che le avventure estive non portano a nulla di buono.
Qualcosa, in realtà, succede anche in questa cittadina baltica a fine stagione, nel micromondo delle due dacie, e sulla trama čechoviana si innesta a questo punto il tempo più recente con tratti della černucha degli anni Novanta: il losco affittuario deve uccidere Boris perché ha osato lasciare la moglie, nonché figlia di un uomo di potere. Per compiere il piano e fare fuori il “nuovo russo”, Sergej cerca la collaborazione di Igor’, che, in cambio di denaro, dovrà aiutarlo nell’esecuzione. In occasione del compleanno di Anna – in Le tre sorelle nel I atto si festeggia l’onomastico di Irina –, si riuniscono tutti attorno allo stesso tavolo: le tre sorelle, Donatas, Brigitte, Igor’, Schweppes, Sergej e la moglie, e per ultimo arriva a sorpresa Boris. Igor’, che a questo punto non ha più intenzione di macchiarsi le mani di sangue, si dirige alla spiaggia, getta in acqua l’arma e poi scappa via, non prima però d’aver chiesto a Anna di raggiungerlo a Pietroburgo. Sergej non si arrende e nasconde dell’esplosivo nella valigia di Vera, che nel frattempo ha promesso a Boris di partire con lui.
Nella dacia esplosa di Brigitte muoiono Boris con le sue guardie e Sergej, che intanto aveva fatto partire la moglie con una valigia piena di denaro. Per questo è diventato un killer, per amore della giovane moglie, pensando di fare la sua felicità con il denaro guadagnato a suon di crimini.
La distruzione e il dolore sono appena accennati, restano in superficie, perché il film termina con l’arrivo di una notizia di vita tanto attesa da Donatas e Elena: lei è incinta; Vera, nonostante la terribile perdita di Boris, si abbandona in una giravolta di felicità trasformando in interrogativa la frase di Sonia dal monologo finale čechoviano di Zio Vanja «vedremo tutto il cielo cosparso di diamanti?», ripetuta poi anche in tono affermativo. Anna, invece, smentisce Donatas: è partita per Pietroburgo lasciandosi alle spalle la pioggia di fuochi d’artificio della sua cittadina festante; come in La signora col cagnolino, dove l’apparente ennesima avventura di Gurov con Anna Sergeevna è in realtà una grande storia d’amore di cui, a conclusione del racconto, non conosciamo tuttavia la direzione definitiva.

Una domenica è il decimo film di Svetlana Proskurina, allieva e assistente del regista leningradese Il’ja Averbach, maestro di drammi psicologici come il film confessione Monolog (Monologo, 1972) o Čužie pis’ma (Lettere altrui, 1975), i cui protagonisti sono medici, accademici, maestre di scuola, in poche parole esponenti dell’intellighenzia degli anni Settanta capaci di analizzare se stessi in un rapporto dialettico con la realtà circostante. Dieci film di finzione all’attivo, dunque, e alcuni documentari, tra cui Ostrova. Aleksandr Sokurov (Isole. Aleksandr Sokurov [2003]) dedicato all’amico Sokurov, con cui Proskurina ha collaborato alla stesura della sceneggiatura di L’arca russa (2002).
Fin dagli esordi nel 1982 con il cortometraggio Roditel’skij dom – e via via con i film successivi girati tra la fine degli anni Ottanta e i primissimi anni Novanta, e poi di nuovo a partire dagli anni Duemila, dopo una pausa obbligata dovuta alla crisi dell’industria cinematografica degli anni Novanta – la regista dimostra un forte interesse per le relazioni umane e familiari, per i legami tra le persone, tra uomini e donne e tra generazioni diverse. Barbara Wurm (si veda l’articolo The International Film Festival Rotterdam – A Festival of Significance for Russian Cinema. In Focus: Svetlana Proskurina pubblicato su «Kinokultura») ben delinea i tratti principali della poetica cinematografica di Proskurina quando sottolinea l’importanza per la regista del lavoro con gli attori, la riduzione al minimo dei dialoghi, l’impeccabilità delle atmosfere interiori dei personaggi (una lezione evidentemente ereditata dalla scuola psicologica leningradese da cui discende), che Proskurina ottiene sfruttando al massimo tutti i mezzi del linguaggio cinematografico: per esempio i contrasti tra suono e immagine, o un uso di colori caldi in atmosfere cupe (soprattutto nei film degli anni Ottanta-Novanta).
Ma guardiamo ora al presente, facendo però un passo indietro. Il film precedente a Una domenica è Do svidanija mama(Arrivederci mamma, 2014), basato sulla pièce Karenin del giovane drammaturgo e regista Vasilij Sigarev. Karenin è una stilizzazione di Anna Karenina di Lev Tolstoj, in cui la storia dell’adulterio viene raccontata dal punto di vista del dramma interiore di Aleksej Karenin alle prese con i suoi demoni, le sue debolezze e la sua inutilità. Nel film di Proskurina interpretano i ruoli di Karenin e Vronskij Daumantas Ciunis e Aleksej Vertkov, mentre Anna è Aleksandra Rebenok, nella vita moglie di Vertkov.
Vertkov-Vronskij è anche il protagonista di Una domenica, dove interpreta la parte di Terechov, un uomo d’affari ripreso in apertura nel suo ufficio, dopo una scena di sesso con una donna di nome Inna, la stessa Rebenok-Anna di Arrivederci mamma. Quando Inna lascia l’ufficio, sentiamo il rumore dei tacchi allontanarsi mentre la macchina riprende Terechov immobile per alcuni secondi, seduto sulla poltrona. In chiusura di sequenza prende infine un biglietto nascosto sotto il computer su cui si legge «Morirai presto».
La sequenza successiva è costituita da un’alternanza di primi piani del volto e dei piedi di Inna, e poi la figura intera si staglia sullo sfondo di un paesaggio suburbano alle luci dell’alba. La donna si getta dal balcone, ma non muore, uscendo per sempre di scena dopo alcuni brevi momenti ambientati all’ospedale. È Inna stessa a raccontare a Terechov di aver tentato il suicidio perché non sopporta più la voce del marito; e il marito più tardi confessa a Terechov che avrebbe preferito fosse morta. Il malessere di questa prima coppia, Inna-marito, anticipa il fallimento delle altre relazioni nel film: quello di Terechov con la moglie (che appare più avanti), e poi con Maša Kočergin, una donna che lo ama e che gli chiede «portami via da qui» (ma lui risponde distaccato e assente «ma dove, Maša?»).
Terechov riesce solo a dare ordini per distruggere e far costruire sulle ferite della povera gente. E sta appunto in questo destino faustiano il nodo centrale del film: il protagonista è il responsabile del progetto di disboscamento di un’area in cui sarà costruita una grande pista ciclabile, un cinema all’aperto, un caffè alla moda, tutto sul modello di Mosca. È questo un tema abbastanza attuale nella letteratura degli anni Duemila: si pensi al racconto Beton (Cemento) di Aleksandr Snegirev o al romanzo di Roman Senčin Zona zatoplenija (Zona di allagamento) incentrati sul dramma di chi, da sempre, vive a contatto con la natura, nella propria casa, tra i propri oggetti e con i propri animali, e improvvisamente – solo perché si possano compiere progetti irrazionali, costosi e imposti dall’alto – sono costretti o a trasferirsi in asfittici appartamenti o, come fa l’anziano e disperato protagonista del racconto di Snegirev, a murarsi nella propria cosa.
In questo modo di prendere decisioni sulla pelle dei marginali, sentiamo l’eco della decisione improvvisa, irrazionale ed egoistica del professor Serebrjakov in Zio Vanja di Anton Čechov, quando annuncia di voler vendere il podere, senza assolutamente pensare al destino della figlia Sonja, di zio Vanja e della vecchia mamma, che non hanno mai lasciato la campagna e hanno dedicato tutta la loro vita al mantenimento e all’amministrazione di quel podere, mandando regolarmente i soldi al professore. E sentiamo l’attualità delle parole e delle previsioni di Astrov a conclusione del suo monologo sulla riduzione drastica della superficie boscosa nell’arco di cinquant’anni: «Si è distrutto quasi ogni cosa e in cambio non si è creato ancora niente». Per non pensare poi a Il giardino dei ciliegi e alla proposta di Lopachin alla nobile proprietaria decaduta, Ljubov’ Andreevna Ranevskaja, di abbattere quel paradiso terrestre insieme alla vecchia casa per costruirci dei villini da dare in affitto ai villeggianti, e poi alla decisione definitiva di Lopachin stesso di acquistare tutta la proprietà all’asta. E l’accetta usata per abbattere tutti gli alberi risuona quando i vecchi padroni sono ancora presenti, come nel film di Proskurina.
La sequenza dell’abbattimento degli alberi è di particolare intensità: il rumore metallico delle seghe e della gru si confonde con il vociare della gente che tenta invano di fermare uno scempio di cui Terechov tuttavia non è pienamente responsabile: gli ordini da lui impartiti non erano questi, gli alberi non dovevano essere abbattuti ma trapiantati. Intanto la macchina indugia su Terechov: un leggero tremito scuote le sue spalle, mentre la luce gialla dei lampioni illumina il suo volto immobile e indignato; poi con un movimento rapido volta le spalle e, goffo e pesante, si avvia verso il bosco. Qui incontra dapprima una donna che lo aggredisce verbalmente per quanto ha fatto, alla quale lui consegna una busta contenente del denaro (un gesto che Terechov compie automaticamente altre volte nel film). Poi lo sguardo del protagonista si sofferma sofferente su una scena in cui due donne sezionano una pecora e la appendono sopra il fuoco, mentre i loro mariti assistono rilassati godendosi lo spettacolo. Infine, giunto sulla riva del fiume, l’incontro decisivo: Terechov è avvicinato da due bambini del posto che portano addosso – nei loro abiti lisi e nei volti indiavolati – i segni del degrado sociale; il più grande pronuncia suoni strani e incomprensibili.
Il bambino è lo stesso che alcune sequenze prima si era seduto accanto a Terechov durante l’incontro con la figlia, e aveva assistito alla scenata isterica della madre della bambina, accusata di fare errori ortografici troppo gravi per la sua età. Questo bambino, che Terechov aveva cacciato via in malo modo, ora lo colpisce alla nuca con un grande sasso. È l’altro, il diverso, il marginale, come diversi sono i lavoratori asiatici delle scene nel bosco, ripresi sempre a distanza, coloro che Kolja, l’autista di Terechov, definisce «feccia».
La ferita causata dal bambino è però salvifica; preannuncia una risurrezione del fiacco Terechov, specie di uomo superfluo proveniente da un Diciannovesimo secolo di decadenza, ma anche uomo fuori dal tempo – come lo ha definito Sokurov in una lettera a Proskurina dal titolo Un film sorprendentemente russo. Chi in Russia è ancora così russo? pubblicata su «Novaja gazeta» del 20 aprile 2019 – e stanco di vivere accanto a noi.
È lunedì mattina; Terechov dovrebbe essere nell’ufficio del sindaco a discutere di affari e grandi progetti, e invece lo vediamo in una sequenza di primi piani mentre viene traghettato sull’altra riva del fiume a bordo di una piccola imbarcazione. Non indossa più la camicia e la giacca, ma una semplice  tel’njaška (la canottiera a righe dei marinai), e accenna un sorriso d’intesa e comprensione al bonario capitano, mentre bevono insieme, in silenzio, una tazza di tè. Il film termina, però, così come è cominciato, con due figure femminili à la Petruševskaja in primo piano: gli ultimi minuti sono dedicati infatti alla capricciosa madre ammalata di Terechov interpretata dalla grande attrice di teatro e di cinema Vera Alentova (si veda l’intervista del 25 aprile 2020 sul portale Russia in translation). La donna confessa alla badante Anja una verità scottante e lei cerca allora di soffocarla, ma la madre di Terechov muore da sola qualche istante dopo, chiedendo e ricevendo il perdono di Anja.
Il presente asfittico della Russia odierna – fatto di disuguaglianze sociali, prevalere delle apparenze, corsa al denaro facile, relazioni familiari infelici, assalto feroce all’ambiente, tutti temi in tanta parte estendibili a livello globale – è raccontato da Proskurina con uno sguardo arricchito dalla lezione ereditata dai grandi classici russi, e non solo da Čechov (non va dimenticato che l’idea iniziale della regista era di girare un adattamento di Resurrezione di Tolstoj). Quel che più conta però è che in Una domenica ogni allusione letteraria fluisce nella vita e nello scorrere del tempo filmico, risolta nelle inquadrature. Niente rimane pura superficie, e quanto meno il rimando ai grandi testi del canone è esibito, tanto più profondo e nutritivo appare il legame con la tradizione, tanto più autentiche appaiono le atmosfere interiori del protagonista nella fusione con i colori, le luci, i suoni e l’ambiente fotografato, come se si percepisse un immaginario sedimentato che guida dall’alto e fonde passato e presente, unico spiraglio di luce in un mondo prevalentemente oscuro.

Lampi, premonizioni, attriti: i versi visionari di Simonetta Giungi

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di Piergiorgio Viti

Negli ultimi anni pubblico e critica hanno riportato in auge autori ingiustamente finiti nel dimenticatoio, o addirittura scoperto ex novo scrittori a lungo ignorati, pietre dello scandalo in quanto se stessi, cavalli sciolti, spesso, nel vischioso panorama letterario delle scuderie, dei sodalizi e dei potentati. Penso ai casi più noti, quelli più recenti, di Goliarda Sapienza, di Beppe Salvia, fino all’anarchico Giovanni Antonelli, solo per citarne alcuni. Verrebbe da domandarsi se questi tardivi fenomeni di recupero o di “epifania” non celino, in realtà, miopie editoriali, se davvero non esistano crepe, e quanto grandi, nella relazione tra scrittori e pubblico e fra i loro intermediari. Questioni antiche, certo, mai del tutto risolte, se è vero come è vero che di “casi” letterari ne escono fuori sempre di nuovi, casi a cui se ne potrebbe aggiungere un altro, ancora, se possibile, più luminoso e allo stesso tempo oscuro: luminoso perché il talento raggiunge vette elevatissime, oscuro perché la vita, culminata nel suicidio, di questa autrice, presenta aspetti insondabili, fughe improvvise, smarrimenti degni di una pellicola cinematografica.

 

Sto parlando di Simonetta Giungi. Nata nel 1945, di famiglia aristocratica, ha un’infanzia apparentemente felice e un’adolescenza tumultuosa tra Venezia e Ancona, culminata con la precoce morte della madre e l’ingombrante presenza di un padre autoritario. Dopo un periodo di internamento in una casa di cura, continua gli studi e si laurea in filologia bizantina. Successivamente ottiene una cattedra, ma, insoddisfatta, fugge a Parigi e Londra, dove collabora con diverse testate, dedicandosi anche alla pittura. Proprio a Londra, nel 1985, a soli quarant’anni, Simonetta Giungi si toglie la vita, undici anni dopo Anne Sexton, undici anni prima di Amelia Rosselli. Poco prima di lanciarsi nel vuoto, la poetessa lascia sulla scrivania un pastello che la ritrae di spalle, al balcone, di fronte a un sole molle, con la testa dipinta per metà. Questo disegno diventerà l’immagine di copertina del suo libro Finestre affascinate ardenti stanze, pubblicato per una minuscola casa editrice, Il gabbiano, la cui cura postuma sarà opera del fratello. La silloge è, a mio avviso, un capolavoro sepolto nell’oblio. Un capolavoro che non sfuggì, in verità, a Mario Luzi, che ne firmò la prefazione, individuando nelle poesie di Giungi un “tragitto espressivo in una eclisse psichica dietro l’appropriazione vivida delle cose”. In questa eclisse psichica il dettato è lacerato, franto da spezzature, lacunoso, con apparenti cadute di stile: è il codice scelto da Giungi per esprimere una vita di turbamenti, per venire a patti con quell’ombra che costantemente pervade il suo “abitare poeticamente la Terra”, anche quando il soggetto dei testi è Glauco, uomo misterioso che, tra motel, treni, volte a crociera, appare come un’epifania al termine della raccolta. Anconetana come Scataglini e legata a doppio filo, quello dell’amore-odio, alla sua città natale, tanto da citarla spesso, come nel titolo dell’unico romanzo pervenutoci, La casa sul colle Guasco, Giungi rappresenta un vero e proprio unicum: nel suo percorso poetico che è anche un attraversamento di coscienza, le parole emergono da un abisso, sono strappate al silenzio, sono “negativi del silenzio”, per dirla con Ritsos; per questo è auspicabile un attento recupero di una voce come la sua, fuori dai canoni, in bilico, visionaria, e, nel conformismo di tanta letteratura, più che mai necessaria.

 

 

 

 

sì ma c’entro io in tutto questo
ripeteva l’uomo capitato a caso
un giorno nella mia stanza deserta
ed io stessa svegliandomi la notte
mi trovo a dirmi questa stessa cosa
a tutto ciò che è disancorato
alla mia vita deserta
all’ex ipotesi sogno e situazione:
che c’entro io in tutto questo ormai
ma che io c’entri mi viene dimostrato
subitamente da un male che io provo:
mentre lo dico mi si straccia l’anima
ancora e ancora si straccia molte volte
è come un foglio ch’io gettassi via
forse è per questo che si è amati postumi
perché davvero ci si può entrare

 

 

 

 

 

a Napoli tu eri il torinese
a Torino eri mediterraneo
– più straniero nella tua città –
e mi piaceva come parodiavi
i motti schifiltosi di Torino
e sorridevi invece a ricordare
il fasto stracciato e melodioso
delle terre del sud

le puttane di Napoli e i falò
presso i quali si scaldano e si mostrano,
i funerali coi cavalli neri
al passo con le sonagliere
lenti nel sole per le vie deserte,
e il trionfo del mare, quelle feste
notturne a fior d’acqua,
un nome di ragazza: Sasà

e tuttavia, triste nei ritorni,
eri straniero tu nelle città
ma non al mare non al cielo e ai tetti
non ai monti né alle pianure
non ai paesaggi divorati in fuga:
di essi e di vampe di edifici

 

 

 

 

 

ti avevano affidato una tartaruga
gli amici andando via in vacanza
al Bois de Boulogne coglievi l’erba
per la tartaruga; al lavoro pensavi
a lei rimasta a casa:
non le facesse male
tutto quel sole in terrazza
“lo vedi” dicevi poi a dimostrazione
“solo una tartaruga
E non fai che pensarci!”

 

 

 

 

 

parlavano tanto nello scompartimento
del treno che mi portava a te
proprio da te? da te? da te? da te?
che occhi dolci ha questo soldato, pensai
scende a Casarsa, e perché no, anch’io?

e tu dicevi, dopo, “come fare
andremo a Casarsa alla caserma
e il comandante dirà ai soldati in fila:
graduato bruno dagli occhi dolci
un passo avanti”

 

 

 

 

 

orli contorni
dettagli estremi appigli
ai quali si aggrappa la mia anima
d’un tratto nulla riconosce
e la sgomenta la notte balenante
e il giorno come l’elsa di una spada

 

 

 

 

 

ora, come hai voluto, fa sera:
così il cielo si avvia arditamente
col suo cappello a tricorno
e gli strumenti dell’arte:
la cupola verdastra di San Pellegrino
il duomo diafano
il selciato che decide i passi
e fermamente s’aggrava di grigio

 

 

 

*
Opere citate:

Giungi S., Finestre affascinate ardenti stanze, Il gabbiano, Messina, 1993

Giungi S., La casa sul colle Guasco, Transeuropa, Ancona, 1999

Bacino 13

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di Gianni Biondillo

Jon McGregor, Bacino 13, Guanda editore, 293 pagine, 2018, traduzione di Ada Arduini

Rebecca Shaw – per alcuni Becky o anche Bex – ha tredici anni ed è in vacanza con la famiglia in un rustico affittato nella pacifica campagna inglese. È inverno. Di lei sappiamo fin dalla prima pagina che se ne sono perse le traccie. Sparita, non si sa dove. Tutto il paese la cerca, per giorni, per mesi. Ma non se ne sa nulla. E nulla se ne saprà nei mesi e negli anni a venire, non ostante la polizia non dichiari mai chiuso il caso, non ostante le televisioni, i giornali, le ricorrenze, gli anniversari della scomparsa.

Bacino 13 di Jon McGregor è un romanzo retto su una scommessa difficilissima: avere una protagonista che non si vede mai, immobile al ricordo che se ne ha, che non si sviluppa, che non muta, che non si approfondisce. È una specie di descrizione di un’immagine sfocata. Rebecca, Becky, Bex, è un agente chimico che fa reagire la composizione sociale del borgo. È una sorta di fantasma, un espediente che permette a McGregor di raccontarci i cicli delle stagioni, la vita degli allevatori, la campagna piovosa, le brevi estati, i coetanei della ragazza scomparsa (che conosceva a malapena) che nel frattempo crescono, vanno all’università, si sposano. C’è chi chiude bottega, chi muore, chi divorzia, chi diventa genitore, chi arriva, chi se ne va. C’è la vita che prosegue. Tutto questo descritto con una scrittura asettica, senza “a capo” senza particolari interpuntazioni, senza virgolette che distinguono il dialogo dalla descrizione. Un muro di parole che rappresenta lo scorrere inesorabile del tempo.

Bacino 13 è un romanzo sulla dimenticanza, sul ricordo che si fa sempre più flebile e allo stesso tempo sulla misteriosa resistenza che può avere un avvenimento nella memoria collettiva. Come i bacini idrici del paese, che salgono e scendono in funzione della siccità, così la memoria si riattiva e si rispegne. Infinitamente, per altri tredici anni. Scoprendo che nella vita non c’è lieto fine, non c’è logica, non c’è soluzione. C’è solo vita.

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(precedentemente pubblicato su Cooperazione, numero 15 del 10 aprile 2018)

Un’intervista su (((

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[Gianluca Garrapa ha parlato con Alessandro De Francesco del suo ultimo libro, ((( , da poco uscito per la collana Lacustrine di Arcipelago Itaca, 2020]

Gianluca Garrapa:

la scrittura cuneiforme è basata sulla ripetizione di una forma unica    una serie di vettori a quanto pare provenienti da linee continue    il senso è dato dall’orientamento orizzontale o verticale e dalla quantità dello stesso segno

Ho appena letto ((( e il primo pensiero, o meglio sentiero, poiché è il sentire che muove questa poesia, credo, è che poesia sperimentale è, con molta probabilità, scoprire altre forme di orizzonti lontani da casa e un’altra forma prima sconosciuta di dire il desiderio; la poesia di Alessandro De Francesco è proprio una stratificazione ben resa dal titolo ((( : un discorso che include un discorso che include un altro discorso. E la macchina desiderante che mette in moto è un congegno a orologeria in cui ogni significante, che ruota attorno all’impossibile dire, è strettamente connesso a ogni altro significante. È così? e come mai ha deciso di utilizzare un segno grafico per titolare il tuo lavoro?

 

Alessandro De Francesco: Sono d’accordo che sia il sentire che guida la poesia. Proprio per questo, se di congegno si tratta è un congegno aperto, lontano dall’essere perfettamente funzionante: le tre parentesi del titolo indicano altrettanti piani percettivi, quasi narrativi, che questo libro apre senza chiudere: un piano storico-politico, focalizzato in particolare sul rapporto anche emotivo, anche psicologico, tra infanzia e guerra, e in generale su situazioni di conflitto; un piano “metafisico”, che cerca di raggiungere con il linguaggio sfere di per sé non linguistiche, forme informi, spazi immateriali, corpi indefiniti e infiniti; e un piano “animale”, in cui si indaga il comportamento di alcuni animali più o meno identificabili e la loro relazione con l’ambiente. Il segno grafico della parentesi, che ha peraltro una lunga storia nella poesia italiana, rinvia inoltre ad elementi fisici quali la curvatura dello spazio-tempo, la curvatura delle superfici dei pianeti, delle stelle e dei satelliti (e in generale all’equilibrio idrostatico, che dà una forma sferica alla maggior parte dei corpi celesti), la curvatura del bulbo oculare, del cranio, delle colline, e di altre forme sferiche o convesse di cui queste parentesi, similmente alla dimensione narrativa incompleta e non lineare di cui sopra, percorrono un arco parziale e talora impossibile. Non so se si può parlare di poesia sperimentale in relazione a (((. È però certo una poesia che ricerca, che esplora, è un modo, come dici tu molto giustamente, per scoprire orizzonti lontani e, aggiungerei io, riscoprirli come vicini a noi, riportarli qui attraverso la poesia.

 

G.G.:

l’incontro degli sguardi è prolungato   gli occhi traslucidi dell’animale hanno un’espressione morbida ma impersonale   come se l’emotività nel guardare fosse di un tipo diverso ci chiediamo se meno intenso ma una risposta certa non è data    l’animale rimane nella sua posizione e ogni tanto emette degli schiocchi sordi con la bocca    il suono del suo corpo contro l’erba è amplificato dal vuoto delle colline circostanti benché il moto generale sia quasi impercettibile

Il testo rimanda a flash e bulbi oculari, a paesaggi reali, bambini, storia e animali, frammenti di memorie inesplose che la parola riporta a galla nel caleidoscopio della scrittura. Sulle prime si ha una sorta di difficoltà nel percepire simultanee visioni, un po’ come vedere attraverso ommatidi, un occhio di insetto che selezioni ologrammi e mantenendoli nella moltitudine in uno stesso campo visivo. Una coralità che sborda oltre il corpo del poeta, della terra, del passato, del cosmo. Quali sono i temi intorno cui hai lavorato?

 

A.D.F.: Assolutamente sì, c’è una dimensione corale, multipla, inesauribile, e come dicevo sopra non lineare, in questo lavoro. Come spesso nei miei libri, la poesia incarna un succedersi di piani percettivi, spaziali, temporali, storici, emotivi, cognitivi, che non potrebbero avere luogo con questo grado di sintesi, di esattezza e allo stesso tempo di con-fusione, se questi non si trovassero condensati nella poesia. Per me la poesia è davvero una Dichtung, una densità, secondo la falsa ma splendida etimologia (da dicht, che in tedesco significa “denso”) che possiamo scegliere di trovare in una delle parole che nella lingua tedesca significano “poesia”. Questo libro tenta di aprire nuovi scenari e possibilità di dialogo tra piani tematici molto diversi, brevemente già indicati nella risposta precedente in quanto profondamente legati al titolo. Ad esempio, il testo da te appena citato apparterrebbe alla linea tematica che ho definito “animale”. Nell’insieme, e attraverso l’interazione tra i vari piani tematici, questo libro pone, direi, una domanda sostanziale: come mettere in relazione l’esperienza umana, anche nei suoi lati più sordidi e drammatici, oppure anche semplicemente quotidiani (il frigorifero, la doccia, eccetera), con la gioia che provoca l’esistenza del tutto, delle stelle, dei pianeti, delle cose organiche, ma anche di ciò che è inconoscibile e inosservabile?

 

G.G.:

170 cm di corpo con salario 171 cm di corpo con salario
172 cm di corpo con salario 173 cm di corpo con salario
160 cm di corpo con salario 161 cm di corpo con salario
162 cm di corpo con salario 163 cm di corpo con salario
164 cm di corpo con salario 165 cm di corpo con salario
166 cm di corpo con salario 167 cm di corpo con salario
168 cm di corpo con salario 169 cm di corpo con salario

Come nasce questo lavoro e come si colloca nell’insieme della tua arte, quella che precede e quella che seguirà questo testo?

 

A.D.F.: Questo testo fa parte di quel gruppo di poesie di ((( che maggiormente si avvicinano alla cosiddetta “scrittura concettuale”, poco praticata in Italia ma molto importante in particolare nella storia della poesia americana e francese. Si tratta di una scrittura che nasce dal suo proprio processo, e dal concetto che, come anche in arte concettuale, dà vita all’opera. In questo caso il testo è nato come conseguenza di un altro testo, ispirato a sua volta da una foto che ha fatto il giro del mondo, quella di un bambino morto a faccia in giù sulla battigia di una spiaggia, uno dei tanti che non ce l’hanno fatta ad arrivare sull’altra riva. In ((( ho cercato sia di rendere conto di queste realtà che di criticare il loro divenire immagine, e quindi spettacolo. Il corpo di quel bambino è diventato, in questo altro testo, una misura, una lunghezza, in quanto parte del tutto e non più individuo separato dagli altri, ma anche in quanto mera immagine svuotata dall’empatia che questo evento genererebbe nella maggior parte di coloro che ne facessero un’esperienza diretta. Ho poi scelto di estendere questo passaggio dalla concezione di un essere umano come individuo verso quella dell’umano come porzione del tutto – quindi misurabile in fondo solo per convenzione – anche al mondo del lavoro, scegliendo una statura media che può far pensare in particolare a quella di una donna. L’effetto di questi due testi, almeno così ritengo e spero, è quindi sia quello di proporre una percezione universale dell’essere umano come parte del reale e della storia, sia quello di conferire a queste pur diversissime condizioni – una morte ingiusta, lo sfruttamento sul lavoro – il carattere straniante e violento che effettivamente hanno nella realtà.

 

G.G.:

Poi abbiamo una stratificazione di significanti, come successivi livelli di plastica scenografica. Sulle prime ho pensato come si potessero leggere, nel contempo, tre significanti graficamente sovrapposti. E come fosse distante il visitare il senso dal renderlo esplicito. Il significante mentale che ne risulta, non è una mera sovrapposizione di parole che perdono forma e senso l’una dell’altra, ma proprio, mi pare di aver scorto, quel meccanismo del fondale barocco, di scenografie mobili, o come strutture collocate a profondità diverse che creano, una dietro l’altra, una visione prospettica. È prospettica la scrittura di (((. Sovrapporre i significanti è una scelta visuale o un ulteriore possibile forma di c-oralità?

 

A.D.F.: In effetti i termini sovrapposti, in tutti i miei lavori, sono pensati per essere letti da più persone simultaneamente. Dal punto di vista visivo, non si tratta di una forma per così dire minimalista di poesia visiva o concreta, quanto piuttosto di un espediente semantico, poetico e narrativo che pensa la pagina come spazio, e la poesia come un linguaggio multidimensionale, in cui le lettrici o i lettori sono invitate/i ad immergersi. C’è inoltre per me una continuità assoluta tra la pagina – di cui questi semplici espedienti tipografici rivelano ulteriormente la spazialità – e le mie installazioni audio, video o in realtà virtuale, o appunto le letture-performance corali, dove il testo poetico, spesso anche lo stesso testo che si trova nel libro, viene esperito spazialmente e collettivamente. Il testo poetico si rivela per quello che è: spazio e mondo. La sovrapposizione delle parole ha, come tutto il resto del testo, una necessità strettamente poetica, scaturente dal presupposto che certe cose possono essere dette solo in un certo modo, ed è precisamente per questo che esiste la poesia. La poesia emerge quando è necessario dire cose che non possono essere dette altrimenti. Il barocco, infine, è certamente presente nella mia ricerca, nella sua capacità di creare profondità, che qui però non sono trompe l’oeil, ma realtà della parola, ed anche nella capacità che ha la poesia barocca di inventare dei legami cognitivi con l’inconoscibile e l’immateriale: penso a Sor Juana Ines de la Cruz, a Thomas Traherne, a Margaret Cavendish, a Pierre Le Moyne, allo stesso Milton, e a tanti altri poeti del Seicento.

 

G.G.:

da lontano la buccia porosa sembra una bolla lucida una superficie da cui vedere tutte le finestre ma senza potervi leggere dentro quando il tuo volto è contro il mio non posso vederti    il tatto    questo atto di trasportare masse organiche fuori dal recipiente

Per te la poesia è più legata all’immagine o alla parola? e a proposito dell’immagine, cosa ci dici della tua copertina – mi evoca un’olografia, un uno nel tutto e viceversa – elaborata insieme a Laila Dell’Anno?

 

A.D.F.: Quando definisco la mia poesia come pratica artistica intendo, tra le altre cose, che la poesia è per me un modo per generare delle immagini mentali che sono libere dalla rappresentazione. È il linguaggio che ci permette di creare delle immagini fluide, non definite, non fisse, in evoluzione e in connessione diretta con concetti e sentimenti, e la poesia è la forma linguistica più sofisticata e più potente per ottenere questo risultato. Inoltre per me la poesia è un paradosso: usa il linguaggio per raggiungere una percezione del reale che si sottrae al linguaggio stesso, oltre che talora al visibile e all’immaginabile. Per cui direi che per me la poesia, compresa ovviamente la poesia di (((, non ha a che vedere né con l’immagine, o con la parola, come rappresentazione o finzione, né con la parola nel senso novecentesco-heideggeriano di una parola poetica assoluta sull’orlo dell’indicibile, ma piuttosto con un continuo fluido tra immagine mentale, emozione e concetto che produce orizzonti cognitivi intensificati e orizzontali, aperti.

Detto questo, è vero che mi capita di utilizzare, all’inizio dei miei libri e per la prima volta qui in copertina, una fotografia che è una sorta di chiave di lettura, o meglio di visione sincretica, di alcuni aspetti tematici dei testi a seguire. In questo caso si tratta di una sovrapposizione digitale tra la fotografia di una pietra trovata su una spiaggia in California all’interno di una polla circolare e la fotografia di una sfera di vetro. Questi oggetti sono evocati nel libro, in testi in cui si parla di peso, di mano, di rapporto tra organico e artificiale, e di livelli della sostanza e della materia, dalla pietra al pianeta.

 

G.G.:

si tratterebbe di un pianeta trasparente il cui centro vuoto sarebbe visibile dalla superficie   la lentezza del suo moto distorce da milioni di anni quella struttura buia dietro lo spazio convesso

Il desiderio – de-sidus (sidus = stella): cessare di contemplare le stelle a scopo augurale – è quella vacanza spostata più in là e mai pienamente godibile. Ecco perché l’andamento di ((( mi pare quello di un giallo, il senso slitta sempre più in là e ci comporta in una semantica sensoriale che destabilizza armonicamente la di-visione del mondo appena appresa. C’è quel mondo di cui si parla, c’è nel bulbo dell’animale, nel muto procedere del tempo. Perché hai desiderato proprio (((?

 

A.D.F.: Direi che ((( esprime un desiderio di presenza, di reale, di qualcosa che c’è già. Per una volta ciò che è desiderato non è qualcosa di spostato e mai pienamente raggiunto, definito dalla sua assenza, ma il tutto che esiste, tutto quello che c’è, nella speranza che riusciremo sempre meglio, anche noi esseri umani, a sentirlo e ad abbracciarlo, a cominciare dal linguaggio. Così la stella più lontana o il fenomeno inosservabile diventano in ((( materia e sostanza che si trovano sullo stesso piano ontologico e hanno lo stesso grado di presenza rispetto a un animale o alla pietra di cui sopra. Il laggiù – gli orizzonti lontani di cui hai parlato – è qui in quanto materia, e l’inosservabile e l’immateriale sono anche loro sostanza che partecipa alla vita del reale. Tutto è nel tutto, senza soluzione di continuità. Il senso, aperto, multidimensionale, contenuto in questi testi, cerca di evidenziare questa presenza, e di farne parte, fosse anche come piccola porzione, come momento. Per questo mi piace dire che la poesia, da questo punto di vista, è una traduzione del tutto. Vogliamo inventare un neologismo, e dire che (((, anziché un “de-siderio”, è un “siderio”, un tentativo di siderare senza spostare né spostarci, anche nel senso della Verschiebung freudiana? Lo spostamento certo però avviene sul piano strutturale e narrativo, perché è solo con un andamento non lineare, rizomatico, inconcluso, e talvolta indefinito benché, come ricordi tu, sempre sensoriale, che può avvenire questo invito ad un’esperienza simultanea, multipla e corale del mondo e del linguaggio. L’elemento quasi da libro giallo, che osservi giustamente, viene secondo me proprio dalla successione e dalle relazioni “non lineari” tra i testi di (((. Ma lo stesso reale è non lineare, in quanto aperto, imprevedibile, contingente.

 

G.G.:

~0.00002 R 3 gyr pulsar rotatore obliquo radiazione irradiamento irradiazione di archi di luce ai lati della strada che sale nel buio PSR B 1620 – 26b è un pianeta antico quasi quanto l’universo la sua origine sarebbe avvenuta quasi 13 miliardi di anni fa 12400 ly 1.35 / 0.34 M 2.5 ± 1 Mj ? / 13 gyr PSR B 1620 – 26b è una massa che orbita in un sistema altrimenti ignoto da cui verrà eiettata un fenomeno di spostamento interstellare permanente nel vuoto curvo ai lati della strada che sale gli alberi

Ouspensky nel suo Frammenti di un insegnamento sconosciuto – mentre leggevo ((( l’ho aperto a caso come spesso faccio tra le varie letture – ho letto che se un uomo comincia a sentire la vita dei pianeti comincia simultaneamente a sentire la vita degli atomi. Non tanto di oroscopi, o forse sì, si tratta, quanto di un’idea panica di congiunzione astro-fisica: in ((( si percepisce quest’apertura all’altro grande e all’altro piccolo, nello stesso tempo, e non v’è gerarchia che collochi su diversi piani le qualità, e non c’è modo di svilire una de-scrittura totale del caosmo poetico. Il corpo e i corpi celesti. Il corpo terrestre e la terra che lo ospita. Cosa è la voce in una poesia che diventa collezione di strati, dialettica di sguardi e significanti multipli?

 

A.D.F.: È una poesia del reale, un inno alla vita e a quello che c’è, laddove, in questo c’è, c’è anche l’impossibile, l’inosservabile, l’impensabile, il reale in tutte le sue estensioni, la sostanza spinoziana che unisce fisica e metafisica, corpo e immateriale, e certo anche la fisica teorica moderna che sempre più tende ad unire, con modelli simili, l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande. Ricordiamoci però che più del 90% del cosmo è costituito da due forme della materia, le cui proprietà ci sono ancora oggi sostanzialmente sconosciute, che i fisici chiamano per convenzione “materia oscura” ed “energia oscura”. Esse non hanno nessuna relazione con la fisica delle particelle come la conosciamo oggi. Anche di queste dimensioni inosservabili rende conto la poesia, ma le riporta qui, le mette, come direbbe Wittgenstein, sullo stesso piano della lampada, del tavolo, della porta, degli oggetti e degli eventi che ci circondano, e poi anche degli eventi storici collettivi e individuali, e dei traumi ad essi legati. Tutti questi piani sono appunto connessi, con-fusi. Per questo gli strati semantici di questa poesia sono multipli, se non infiniti. La voce quindi è la voce del tutto ancora una volta, a cominciare dalla voce di noi umani, perché la poesia spera sempre che il linguaggio possa unirci al di là dei nostri biechi e meschini conflitti contingenti, e superare le gerarchie e le frustrazioni del potere. Un’unione orizzontale, non autoritaria, molteplice, come lo stesso ingranaggio poetico attivato, almeno così spero, in (((.

 

 

G.G.:

 

Appare la mano, il suo gesto, la grafia di un corpo che oppone il suo Reale pulsionale insimbolizzabile. Non credo che il significante palla sia solo una presenza visiva, ma invece testimonianza dell’assenza creativa, del vuoto potenziale, simbolo del corpo. Una ferita della mano nel corpo digitato dalla macchina. Alla macchina che omologa i segni del desiderio, la mano-palla oppone, dialettica, la macchina del desiderio, della carne. Che rapporto ha (((, e più in generale la tua arte, con il corpo?

 

A.D.F.: Innanzitutto tengo a precisare che questa parola scritta a mano, che definisci in modo molto bello ed esatto come “ferita nel corpo digitato della macchina”, indica, sul piano del significante, la palla (ancora una volta anche sfera, corpo celeste) di un bambino o di una bambina, altrove nel libro anche giocattolo che questo bambino o bambina – che non è ovviamente un personaggio ma una classe, per così dire, di persone e di eventi – tiene stretto vicino al corpo durante una situazione di conflitto armato, o mentre non può più parlare quando le vengono fatte domande su qualcosa che è accaduto. L’autorità, la violenza, la guerra, il trauma, l’ingiustizia, si amplificano quando perpetrati a danno dei bambini, e lasciano segni da generazione in generazione, come una tragedia greca, e di questo anche parla (((. Ma questa palla è anche una possibilità futura, è la riscoperta di uno spazio e di un corpo che nonostante tutto respira e vive, anche se è indefinito e indefinibile, inarticolato; la vita dell’inosservabile, l’esistenza di un’alternativa che non si trova, ancora una volta, su un piano diverso, ma qui con noi, se la vogliamo intraprendere. Perciò, forse, le poesie più corporee di ((( sono spesso anche le più astratte e indefinite. Perché in questi corpi contengono tutti i corpi possibili, anche quelli ancora inimmaginabili. Ed anche perché la poesia cerca di rendere linguaggio ciò che non può essere immaginato, ovvero di fondare la sua azione sull’impossibile e sull’ignoto. In questo stanno, a mio avviso, sia la sua potenza che il suo scacco.

Su un piano pratico, che è però legato a questa dimensione concettuale, e dal punto di vista della mia pratica artistica in generale, il corpo ha una posizione anche qui molteplice: innanzitutto è il corpo di una parola che si scopre materia e spazio, mondo ed ambiente. Inoltre è il corpo del performer che però si cancella dietro l’enunciazione stessa; il corpo individuale cede il passo al corpo corale, e alla voce stessa come corpo, che si fa presenza immateriale al posto del corpo. Tale traduzione del testo nel corpo, nello spazio e nella voce, a cominciare dall’oggetto-libro stesso, che concepisco né più né meno come una scultura, rende conto di questa oscillazione tra materia e immateriale nel corpo del testo, di questa interazione vitale tra l’indefinito, l’astratto, l’orizzonte inconoscibile, e l’hic et nunc, la presenza del reale, della natura e delle cose, in potenzialmente tutte le sue manifestazioni.

 

il Due come prossimo titolo

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di Mia Lecomte

La frontiera spaesata. Un viaggio alle porte dei Balcani di Giuseppe A. Samonà

In uno dei pochi accenni autobiografici di questo libro meravigliosamente “estro-verso” – sempre oltre l’autore, altrove, all’ascolto della comune umanità nel tempo – Giuseppe Samonà-bambino chiede al padre: “Come mai gli uomini si spostano?”. Ormai adulto, forte dei molti spostamenti geografici e linguistici con cui ha costruito il proprio percorso di studioso e scrittore, prova ora a rispondersi/ci avvicinando la lente di ingrandimento a un’area geografica esemplare, coagulo di transiti e destini, paradosso di frontiere. Trieste, la Slovenia, Zagabria… l’Istria dove “ci sono moltissime cittadine, villaggi pieni, meno pieni, vuoti… Ci sono moltissime isole, grandi e piccole”, come recita giocosa la prima delle cartine manufatte disseminate tra le pagine del volume, che apre agli “itinerari di questo libro”. Forse sono proprio queste mappe, e le piccole fotografie commentate con cui si alternano – opera della “compagna di viaggi” dell’autore, Sophie Jankélévitch – a dirci di che cosa si stia davvero parlando. Lievi, poetiche, fanno da controcanto al testo, come le didascalie di un film muto, o la descrizione dei miracoli negli affreschi di un santo popolare. Perché questo è anche il diario del viaggio preannunciato dal sottotitolo, o meglio ancora una «ipotesi di percorso, nello spazio e nel tempo, e di riflessione, contemplazione», come puntualizza l’autore nella postfazione; ma il significato del viaggiare in questione, di questo percorrere ragionato e contemplativo, è tutt’altro che scontato.
Nei libri di viaggio, l’autore è spesso troppo presente, ingombrante. Qui, attraverso i continui riferimenti e rimandi storici, letterari, la presenza è lasciata agli altri. L’autore osserva e si osserva camminare, esiste solo nei paesaggi delicatamente saturi di colore, nelle architetture, nel fuggevole ricordo di alcuni luoghi – altri viaggi, la sua Sicilia – coerente al proposito dichiarato di “scomparire” dietro ai suggerimenti, nel riverberare altrui. Passo a passo – il ritmo della marcia, un’incalzante lentezza, è il principale strumento di osservazione e continuiamo a “sentirlo” anche dopo aver interrotto la lettura – Samonà ci fa entrare nel suo raggio d’osservazione, in questo frammento ingrandito di mondo: un brulichio intelligente e documentatissimo di Storia e storie, luoghi, date, eventi, opere, personaggi, scrittori, poeti, musicisti, artisti…; politico, realmente politico, e lirico, in un abbraccio diacronico senza gerarchie. Il viaggio promesso sta dunque in questo appassionante corteo, ritmato e promiscuo, di uomini e gesta; che è poi lo stesso procedimento adottato dall’autore nel suo precedente Quelle cose scomparse, parole, dove a brulicare, a copulare fertili erano le voci esponenziali del proprio glossario personale. Ma più si entra nei dettagli delle vite, delle vicende, delle molte opere citate – più la lente s’avvicina per ingrandire – e più l’immagine perde di realtà. Come quelle piantine, quelle fotografie, che dovrebbero essere lì per testimoniare un percorso, e invece ci raccontano di un sogno, un’illusione.
A mano a mano che ci lasciamo portare per questi luoghi, si fa sempre più evidente l’idea che questo viaggio e il suo viaggiatore-assente – la zolla esemplare di mondo e lo sguardo al di là della lente – si alimentino dello stesso s-paesamento, un «décalage che mette a loro agio tutti i décalés». Dove l’unica realtà sta nelle parole: quelle che Samonà usa sapientemente come una formula magica per dare consistenza alla verità fugace delle cose umane; e quelle della lingua che ha inglobato le frontiere in un nome composito e si è fatta carico delle lacerazioni.
È un precipitato di imperi, regni, stati – austro-ungarico, ottomano, jugoslavo, italiano…– questo frammento pre-balcanico, un condensato di frontiere che si sono intersecate nei secoli, in un sovrapporsi cacofonico di intenzioni. Limbo per esistenze sospese di “misti”, “rimasti”, sempre “in bilico”, come tale è emblematico della caducità di ogni umano potere, della volatilità delle barriere erette per difenderlo e glorificarlo, che si confondono e si arrendono. Perché, ci ricorda l’autore «Proprio nel momento in cui affermiamo una proprietà, ne vanifichiamo la ragion d’essere, rivelando che le eredità sono il trionfo dei miscugli, e la terra che si pretende amare è un tempo, più che uno spazio…». E nel tempo, si sa, tutto è destinato a finire, ogni limite, mura che, dalla sua prospettiva, esprimono solo «il segreto bisogno dell’altro, dell’incontro», consegnano Ettore alla lancia mortale di Achille per poi farsi rovine.
Nell’esemplare variazione di tempo che si dispiega nelle pagine di questo libro, cadenzata dai passi del viaggiatore Samonà, arpenteur dell’impermanenza, non sono solo le frontiere geografiche o linguistico-culturali a spaesarsi, ma anche quelle “tra follia e normalità, o persino tra maschile e femminile, tra uomini e animali e magari, perché no, fra sentimenti, fra desideri”, che restano appese al vuoto come bandiere lacerate.
Eppure – c’è sempre un eppure, a perpetuare… – nell’ultimo capitolo del libro, qualcosa sembra ancora resistere, luccicare sotto tutto il resto: l’indo-cambogiano-americano Jay, riemerso dal passato di fronte alla stazione di Zagabria, con la sua giovinezza inaspettata e perenne dischiude una prospettiva di speranza, riaccende le utopie. Rinnova la voce che, con dolcezza, sempre domandando, si/ci congeda. Come mai gli uomini si spostano?