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Bacino 13

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di Gianni Biondillo

Jon McGregor, Bacino 13, Guanda editore, 293 pagine, 2018, traduzione di Ada Arduini

Rebecca Shaw – per alcuni Becky o anche Bex – ha tredici anni ed è in vacanza con la famiglia in un rustico affittato nella pacifica campagna inglese. È inverno. Di lei sappiamo fin dalla prima pagina che se ne sono perse le traccie. Sparita, non si sa dove. Tutto il paese la cerca, per giorni, per mesi. Ma non se ne sa nulla. E nulla se ne saprà nei mesi e negli anni a venire, non ostante la polizia non dichiari mai chiuso il caso, non ostante le televisioni, i giornali, le ricorrenze, gli anniversari della scomparsa.

Bacino 13 di Jon McGregor è un romanzo retto su una scommessa difficilissima: avere una protagonista che non si vede mai, immobile al ricordo che se ne ha, che non si sviluppa, che non muta, che non si approfondisce. È una specie di descrizione di un’immagine sfocata. Rebecca, Becky, Bex, è un agente chimico che fa reagire la composizione sociale del borgo. È una sorta di fantasma, un espediente che permette a McGregor di raccontarci i cicli delle stagioni, la vita degli allevatori, la campagna piovosa, le brevi estati, i coetanei della ragazza scomparsa (che conosceva a malapena) che nel frattempo crescono, vanno all’università, si sposano. C’è chi chiude bottega, chi muore, chi divorzia, chi diventa genitore, chi arriva, chi se ne va. C’è la vita che prosegue. Tutto questo descritto con una scrittura asettica, senza “a capo” senza particolari interpuntazioni, senza virgolette che distinguono il dialogo dalla descrizione. Un muro di parole che rappresenta lo scorrere inesorabile del tempo.

Bacino 13 è un romanzo sulla dimenticanza, sul ricordo che si fa sempre più flebile e allo stesso tempo sulla misteriosa resistenza che può avere un avvenimento nella memoria collettiva. Come i bacini idrici del paese, che salgono e scendono in funzione della siccità, così la memoria si riattiva e si rispegne. Infinitamente, per altri tredici anni. Scoprendo che nella vita non c’è lieto fine, non c’è logica, non c’è soluzione. C’è solo vita.

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(precedentemente pubblicato su Cooperazione, numero 15 del 10 aprile 2018)

Un’intervista su (((

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[Gianluca Garrapa ha parlato con Alessandro De Francesco del suo ultimo libro, ((( , da poco uscito per la collana Lacustrine di Arcipelago Itaca, 2020]

Gianluca Garrapa:

la scrittura cuneiforme è basata sulla ripetizione di una forma unica    una serie di vettori a quanto pare provenienti da linee continue    il senso è dato dall’orientamento orizzontale o verticale e dalla quantità dello stesso segno

Ho appena letto ((( e il primo pensiero, o meglio sentiero, poiché è il sentire che muove questa poesia, credo, è che poesia sperimentale è, con molta probabilità, scoprire altre forme di orizzonti lontani da casa e un’altra forma prima sconosciuta di dire il desiderio; la poesia di Alessandro De Francesco è proprio una stratificazione ben resa dal titolo ((( : un discorso che include un discorso che include un altro discorso. E la macchina desiderante che mette in moto è un congegno a orologeria in cui ogni significante, che ruota attorno all’impossibile dire, è strettamente connesso a ogni altro significante. È così? e come mai ha deciso di utilizzare un segno grafico per titolare il tuo lavoro?

 

Alessandro De Francesco: Sono d’accordo che sia il sentire che guida la poesia. Proprio per questo, se di congegno si tratta è un congegno aperto, lontano dall’essere perfettamente funzionante: le tre parentesi del titolo indicano altrettanti piani percettivi, quasi narrativi, che questo libro apre senza chiudere: un piano storico-politico, focalizzato in particolare sul rapporto anche emotivo, anche psicologico, tra infanzia e guerra, e in generale su situazioni di conflitto; un piano “metafisico”, che cerca di raggiungere con il linguaggio sfere di per sé non linguistiche, forme informi, spazi immateriali, corpi indefiniti e infiniti; e un piano “animale”, in cui si indaga il comportamento di alcuni animali più o meno identificabili e la loro relazione con l’ambiente. Il segno grafico della parentesi, che ha peraltro una lunga storia nella poesia italiana, rinvia inoltre ad elementi fisici quali la curvatura dello spazio-tempo, la curvatura delle superfici dei pianeti, delle stelle e dei satelliti (e in generale all’equilibrio idrostatico, che dà una forma sferica alla maggior parte dei corpi celesti), la curvatura del bulbo oculare, del cranio, delle colline, e di altre forme sferiche o convesse di cui queste parentesi, similmente alla dimensione narrativa incompleta e non lineare di cui sopra, percorrono un arco parziale e talora impossibile. Non so se si può parlare di poesia sperimentale in relazione a (((. È però certo una poesia che ricerca, che esplora, è un modo, come dici tu molto giustamente, per scoprire orizzonti lontani e, aggiungerei io, riscoprirli come vicini a noi, riportarli qui attraverso la poesia.

 

G.G.:

l’incontro degli sguardi è prolungato   gli occhi traslucidi dell’animale hanno un’espressione morbida ma impersonale   come se l’emotività nel guardare fosse di un tipo diverso ci chiediamo se meno intenso ma una risposta certa non è data    l’animale rimane nella sua posizione e ogni tanto emette degli schiocchi sordi con la bocca    il suono del suo corpo contro l’erba è amplificato dal vuoto delle colline circostanti benché il moto generale sia quasi impercettibile

Il testo rimanda a flash e bulbi oculari, a paesaggi reali, bambini, storia e animali, frammenti di memorie inesplose che la parola riporta a galla nel caleidoscopio della scrittura. Sulle prime si ha una sorta di difficoltà nel percepire simultanee visioni, un po’ come vedere attraverso ommatidi, un occhio di insetto che selezioni ologrammi e mantenendoli nella moltitudine in uno stesso campo visivo. Una coralità che sborda oltre il corpo del poeta, della terra, del passato, del cosmo. Quali sono i temi intorno cui hai lavorato?

 

A.D.F.: Assolutamente sì, c’è una dimensione corale, multipla, inesauribile, e come dicevo sopra non lineare, in questo lavoro. Come spesso nei miei libri, la poesia incarna un succedersi di piani percettivi, spaziali, temporali, storici, emotivi, cognitivi, che non potrebbero avere luogo con questo grado di sintesi, di esattezza e allo stesso tempo di con-fusione, se questi non si trovassero condensati nella poesia. Per me la poesia è davvero una Dichtung, una densità, secondo la falsa ma splendida etimologia (da dicht, che in tedesco significa “denso”) che possiamo scegliere di trovare in una delle parole che nella lingua tedesca significano “poesia”. Questo libro tenta di aprire nuovi scenari e possibilità di dialogo tra piani tematici molto diversi, brevemente già indicati nella risposta precedente in quanto profondamente legati al titolo. Ad esempio, il testo da te appena citato apparterrebbe alla linea tematica che ho definito “animale”. Nell’insieme, e attraverso l’interazione tra i vari piani tematici, questo libro pone, direi, una domanda sostanziale: come mettere in relazione l’esperienza umana, anche nei suoi lati più sordidi e drammatici, oppure anche semplicemente quotidiani (il frigorifero, la doccia, eccetera), con la gioia che provoca l’esistenza del tutto, delle stelle, dei pianeti, delle cose organiche, ma anche di ciò che è inconoscibile e inosservabile?

 

G.G.:

170 cm di corpo con salario 171 cm di corpo con salario
172 cm di corpo con salario 173 cm di corpo con salario
160 cm di corpo con salario 161 cm di corpo con salario
162 cm di corpo con salario 163 cm di corpo con salario
164 cm di corpo con salario 165 cm di corpo con salario
166 cm di corpo con salario 167 cm di corpo con salario
168 cm di corpo con salario 169 cm di corpo con salario

Come nasce questo lavoro e come si colloca nell’insieme della tua arte, quella che precede e quella che seguirà questo testo?

 

A.D.F.: Questo testo fa parte di quel gruppo di poesie di ((( che maggiormente si avvicinano alla cosiddetta “scrittura concettuale”, poco praticata in Italia ma molto importante in particolare nella storia della poesia americana e francese. Si tratta di una scrittura che nasce dal suo proprio processo, e dal concetto che, come anche in arte concettuale, dà vita all’opera. In questo caso il testo è nato come conseguenza di un altro testo, ispirato a sua volta da una foto che ha fatto il giro del mondo, quella di un bambino morto a faccia in giù sulla battigia di una spiaggia, uno dei tanti che non ce l’hanno fatta ad arrivare sull’altra riva. In ((( ho cercato sia di rendere conto di queste realtà che di criticare il loro divenire immagine, e quindi spettacolo. Il corpo di quel bambino è diventato, in questo altro testo, una misura, una lunghezza, in quanto parte del tutto e non più individuo separato dagli altri, ma anche in quanto mera immagine svuotata dall’empatia che questo evento genererebbe nella maggior parte di coloro che ne facessero un’esperienza diretta. Ho poi scelto di estendere questo passaggio dalla concezione di un essere umano come individuo verso quella dell’umano come porzione del tutto – quindi misurabile in fondo solo per convenzione – anche al mondo del lavoro, scegliendo una statura media che può far pensare in particolare a quella di una donna. L’effetto di questi due testi, almeno così ritengo e spero, è quindi sia quello di proporre una percezione universale dell’essere umano come parte del reale e della storia, sia quello di conferire a queste pur diversissime condizioni – una morte ingiusta, lo sfruttamento sul lavoro – il carattere straniante e violento che effettivamente hanno nella realtà.

 

G.G.:

Poi abbiamo una stratificazione di significanti, come successivi livelli di plastica scenografica. Sulle prime ho pensato come si potessero leggere, nel contempo, tre significanti graficamente sovrapposti. E come fosse distante il visitare il senso dal renderlo esplicito. Il significante mentale che ne risulta, non è una mera sovrapposizione di parole che perdono forma e senso l’una dell’altra, ma proprio, mi pare di aver scorto, quel meccanismo del fondale barocco, di scenografie mobili, o come strutture collocate a profondità diverse che creano, una dietro l’altra, una visione prospettica. È prospettica la scrittura di (((. Sovrapporre i significanti è una scelta visuale o un ulteriore possibile forma di c-oralità?

 

A.D.F.: In effetti i termini sovrapposti, in tutti i miei lavori, sono pensati per essere letti da più persone simultaneamente. Dal punto di vista visivo, non si tratta di una forma per così dire minimalista di poesia visiva o concreta, quanto piuttosto di un espediente semantico, poetico e narrativo che pensa la pagina come spazio, e la poesia come un linguaggio multidimensionale, in cui le lettrici o i lettori sono invitate/i ad immergersi. C’è inoltre per me una continuità assoluta tra la pagina – di cui questi semplici espedienti tipografici rivelano ulteriormente la spazialità – e le mie installazioni audio, video o in realtà virtuale, o appunto le letture-performance corali, dove il testo poetico, spesso anche lo stesso testo che si trova nel libro, viene esperito spazialmente e collettivamente. Il testo poetico si rivela per quello che è: spazio e mondo. La sovrapposizione delle parole ha, come tutto il resto del testo, una necessità strettamente poetica, scaturente dal presupposto che certe cose possono essere dette solo in un certo modo, ed è precisamente per questo che esiste la poesia. La poesia emerge quando è necessario dire cose che non possono essere dette altrimenti. Il barocco, infine, è certamente presente nella mia ricerca, nella sua capacità di creare profondità, che qui però non sono trompe l’oeil, ma realtà della parola, ed anche nella capacità che ha la poesia barocca di inventare dei legami cognitivi con l’inconoscibile e l’immateriale: penso a Sor Juana Ines de la Cruz, a Thomas Traherne, a Margaret Cavendish, a Pierre Le Moyne, allo stesso Milton, e a tanti altri poeti del Seicento.

 

G.G.:

da lontano la buccia porosa sembra una bolla lucida una superficie da cui vedere tutte le finestre ma senza potervi leggere dentro quando il tuo volto è contro il mio non posso vederti    il tatto    questo atto di trasportare masse organiche fuori dal recipiente

Per te la poesia è più legata all’immagine o alla parola? e a proposito dell’immagine, cosa ci dici della tua copertina – mi evoca un’olografia, un uno nel tutto e viceversa – elaborata insieme a Laila Dell’Anno?

 

A.D.F.: Quando definisco la mia poesia come pratica artistica intendo, tra le altre cose, che la poesia è per me un modo per generare delle immagini mentali che sono libere dalla rappresentazione. È il linguaggio che ci permette di creare delle immagini fluide, non definite, non fisse, in evoluzione e in connessione diretta con concetti e sentimenti, e la poesia è la forma linguistica più sofisticata e più potente per ottenere questo risultato. Inoltre per me la poesia è un paradosso: usa il linguaggio per raggiungere una percezione del reale che si sottrae al linguaggio stesso, oltre che talora al visibile e all’immaginabile. Per cui direi che per me la poesia, compresa ovviamente la poesia di (((, non ha a che vedere né con l’immagine, o con la parola, come rappresentazione o finzione, né con la parola nel senso novecentesco-heideggeriano di una parola poetica assoluta sull’orlo dell’indicibile, ma piuttosto con un continuo fluido tra immagine mentale, emozione e concetto che produce orizzonti cognitivi intensificati e orizzontali, aperti.

Detto questo, è vero che mi capita di utilizzare, all’inizio dei miei libri e per la prima volta qui in copertina, una fotografia che è una sorta di chiave di lettura, o meglio di visione sincretica, di alcuni aspetti tematici dei testi a seguire. In questo caso si tratta di una sovrapposizione digitale tra la fotografia di una pietra trovata su una spiaggia in California all’interno di una polla circolare e la fotografia di una sfera di vetro. Questi oggetti sono evocati nel libro, in testi in cui si parla di peso, di mano, di rapporto tra organico e artificiale, e di livelli della sostanza e della materia, dalla pietra al pianeta.

 

G.G.:

si tratterebbe di un pianeta trasparente il cui centro vuoto sarebbe visibile dalla superficie   la lentezza del suo moto distorce da milioni di anni quella struttura buia dietro lo spazio convesso

Il desiderio – de-sidus (sidus = stella): cessare di contemplare le stelle a scopo augurale – è quella vacanza spostata più in là e mai pienamente godibile. Ecco perché l’andamento di ((( mi pare quello di un giallo, il senso slitta sempre più in là e ci comporta in una semantica sensoriale che destabilizza armonicamente la di-visione del mondo appena appresa. C’è quel mondo di cui si parla, c’è nel bulbo dell’animale, nel muto procedere del tempo. Perché hai desiderato proprio (((?

 

A.D.F.: Direi che ((( esprime un desiderio di presenza, di reale, di qualcosa che c’è già. Per una volta ciò che è desiderato non è qualcosa di spostato e mai pienamente raggiunto, definito dalla sua assenza, ma il tutto che esiste, tutto quello che c’è, nella speranza che riusciremo sempre meglio, anche noi esseri umani, a sentirlo e ad abbracciarlo, a cominciare dal linguaggio. Così la stella più lontana o il fenomeno inosservabile diventano in ((( materia e sostanza che si trovano sullo stesso piano ontologico e hanno lo stesso grado di presenza rispetto a un animale o alla pietra di cui sopra. Il laggiù – gli orizzonti lontani di cui hai parlato – è qui in quanto materia, e l’inosservabile e l’immateriale sono anche loro sostanza che partecipa alla vita del reale. Tutto è nel tutto, senza soluzione di continuità. Il senso, aperto, multidimensionale, contenuto in questi testi, cerca di evidenziare questa presenza, e di farne parte, fosse anche come piccola porzione, come momento. Per questo mi piace dire che la poesia, da questo punto di vista, è una traduzione del tutto. Vogliamo inventare un neologismo, e dire che (((, anziché un “de-siderio”, è un “siderio”, un tentativo di siderare senza spostare né spostarci, anche nel senso della Verschiebung freudiana? Lo spostamento certo però avviene sul piano strutturale e narrativo, perché è solo con un andamento non lineare, rizomatico, inconcluso, e talvolta indefinito benché, come ricordi tu, sempre sensoriale, che può avvenire questo invito ad un’esperienza simultanea, multipla e corale del mondo e del linguaggio. L’elemento quasi da libro giallo, che osservi giustamente, viene secondo me proprio dalla successione e dalle relazioni “non lineari” tra i testi di (((. Ma lo stesso reale è non lineare, in quanto aperto, imprevedibile, contingente.

 

G.G.:

~0.00002 R 3 gyr pulsar rotatore obliquo radiazione irradiamento irradiazione di archi di luce ai lati della strada che sale nel buio PSR B 1620 – 26b è un pianeta antico quasi quanto l’universo la sua origine sarebbe avvenuta quasi 13 miliardi di anni fa 12400 ly 1.35 / 0.34 M 2.5 ± 1 Mj ? / 13 gyr PSR B 1620 – 26b è una massa che orbita in un sistema altrimenti ignoto da cui verrà eiettata un fenomeno di spostamento interstellare permanente nel vuoto curvo ai lati della strada che sale gli alberi

Ouspensky nel suo Frammenti di un insegnamento sconosciuto – mentre leggevo ((( l’ho aperto a caso come spesso faccio tra le varie letture – ho letto che se un uomo comincia a sentire la vita dei pianeti comincia simultaneamente a sentire la vita degli atomi. Non tanto di oroscopi, o forse sì, si tratta, quanto di un’idea panica di congiunzione astro-fisica: in ((( si percepisce quest’apertura all’altro grande e all’altro piccolo, nello stesso tempo, e non v’è gerarchia che collochi su diversi piani le qualità, e non c’è modo di svilire una de-scrittura totale del caosmo poetico. Il corpo e i corpi celesti. Il corpo terrestre e la terra che lo ospita. Cosa è la voce in una poesia che diventa collezione di strati, dialettica di sguardi e significanti multipli?

 

A.D.F.: È una poesia del reale, un inno alla vita e a quello che c’è, laddove, in questo c’è, c’è anche l’impossibile, l’inosservabile, l’impensabile, il reale in tutte le sue estensioni, la sostanza spinoziana che unisce fisica e metafisica, corpo e immateriale, e certo anche la fisica teorica moderna che sempre più tende ad unire, con modelli simili, l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande. Ricordiamoci però che più del 90% del cosmo è costituito da due forme della materia, le cui proprietà ci sono ancora oggi sostanzialmente sconosciute, che i fisici chiamano per convenzione “materia oscura” ed “energia oscura”. Esse non hanno nessuna relazione con la fisica delle particelle come la conosciamo oggi. Anche di queste dimensioni inosservabili rende conto la poesia, ma le riporta qui, le mette, come direbbe Wittgenstein, sullo stesso piano della lampada, del tavolo, della porta, degli oggetti e degli eventi che ci circondano, e poi anche degli eventi storici collettivi e individuali, e dei traumi ad essi legati. Tutti questi piani sono appunto connessi, con-fusi. Per questo gli strati semantici di questa poesia sono multipli, se non infiniti. La voce quindi è la voce del tutto ancora una volta, a cominciare dalla voce di noi umani, perché la poesia spera sempre che il linguaggio possa unirci al di là dei nostri biechi e meschini conflitti contingenti, e superare le gerarchie e le frustrazioni del potere. Un’unione orizzontale, non autoritaria, molteplice, come lo stesso ingranaggio poetico attivato, almeno così spero, in (((.

 

 

G.G.:

 

Appare la mano, il suo gesto, la grafia di un corpo che oppone il suo Reale pulsionale insimbolizzabile. Non credo che il significante palla sia solo una presenza visiva, ma invece testimonianza dell’assenza creativa, del vuoto potenziale, simbolo del corpo. Una ferita della mano nel corpo digitato dalla macchina. Alla macchina che omologa i segni del desiderio, la mano-palla oppone, dialettica, la macchina del desiderio, della carne. Che rapporto ha (((, e più in generale la tua arte, con il corpo?

 

A.D.F.: Innanzitutto tengo a precisare che questa parola scritta a mano, che definisci in modo molto bello ed esatto come “ferita nel corpo digitato della macchina”, indica, sul piano del significante, la palla (ancora una volta anche sfera, corpo celeste) di un bambino o di una bambina, altrove nel libro anche giocattolo che questo bambino o bambina – che non è ovviamente un personaggio ma una classe, per così dire, di persone e di eventi – tiene stretto vicino al corpo durante una situazione di conflitto armato, o mentre non può più parlare quando le vengono fatte domande su qualcosa che è accaduto. L’autorità, la violenza, la guerra, il trauma, l’ingiustizia, si amplificano quando perpetrati a danno dei bambini, e lasciano segni da generazione in generazione, come una tragedia greca, e di questo anche parla (((. Ma questa palla è anche una possibilità futura, è la riscoperta di uno spazio e di un corpo che nonostante tutto respira e vive, anche se è indefinito e indefinibile, inarticolato; la vita dell’inosservabile, l’esistenza di un’alternativa che non si trova, ancora una volta, su un piano diverso, ma qui con noi, se la vogliamo intraprendere. Perciò, forse, le poesie più corporee di ((( sono spesso anche le più astratte e indefinite. Perché in questi corpi contengono tutti i corpi possibili, anche quelli ancora inimmaginabili. Ed anche perché la poesia cerca di rendere linguaggio ciò che non può essere immaginato, ovvero di fondare la sua azione sull’impossibile e sull’ignoto. In questo stanno, a mio avviso, sia la sua potenza che il suo scacco.

Su un piano pratico, che è però legato a questa dimensione concettuale, e dal punto di vista della mia pratica artistica in generale, il corpo ha una posizione anche qui molteplice: innanzitutto è il corpo di una parola che si scopre materia e spazio, mondo ed ambiente. Inoltre è il corpo del performer che però si cancella dietro l’enunciazione stessa; il corpo individuale cede il passo al corpo corale, e alla voce stessa come corpo, che si fa presenza immateriale al posto del corpo. Tale traduzione del testo nel corpo, nello spazio e nella voce, a cominciare dall’oggetto-libro stesso, che concepisco né più né meno come una scultura, rende conto di questa oscillazione tra materia e immateriale nel corpo del testo, di questa interazione vitale tra l’indefinito, l’astratto, l’orizzonte inconoscibile, e l’hic et nunc, la presenza del reale, della natura e delle cose, in potenzialmente tutte le sue manifestazioni.

 

il Due come prossimo titolo

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di Mia Lecomte

La frontiera spaesata. Un viaggio alle porte dei Balcani di Giuseppe A. Samonà

In uno dei pochi accenni autobiografici di questo libro meravigliosamente “estro-verso” – sempre oltre l’autore, altrove, all’ascolto della comune umanità nel tempo – Giuseppe Samonà-bambino chiede al padre: “Come mai gli uomini si spostano?”. Ormai adulto, forte dei molti spostamenti geografici e linguistici con cui ha costruito il proprio percorso di studioso e scrittore, prova ora a rispondersi/ci avvicinando la lente di ingrandimento a un’area geografica esemplare, coagulo di transiti e destini, paradosso di frontiere. Trieste, la Slovenia, Zagabria… l’Istria dove “ci sono moltissime cittadine, villaggi pieni, meno pieni, vuoti… Ci sono moltissime isole, grandi e piccole”, come recita giocosa la prima delle cartine manufatte disseminate tra le pagine del volume, che apre agli “itinerari di questo libro”. Forse sono proprio queste mappe, e le piccole fotografie commentate con cui si alternano – opera della “compagna di viaggi” dell’autore, Sophie Jankélévitch – a dirci di che cosa si stia davvero parlando. Lievi, poetiche, fanno da controcanto al testo, come le didascalie di un film muto, o la descrizione dei miracoli negli affreschi di un santo popolare. Perché questo è anche il diario del viaggio preannunciato dal sottotitolo, o meglio ancora una «ipotesi di percorso, nello spazio e nel tempo, e di riflessione, contemplazione», come puntualizza l’autore nella postfazione; ma il significato del viaggiare in questione, di questo percorrere ragionato e contemplativo, è tutt’altro che scontato.
Nei libri di viaggio, l’autore è spesso troppo presente, ingombrante. Qui, attraverso i continui riferimenti e rimandi storici, letterari, la presenza è lasciata agli altri. L’autore osserva e si osserva camminare, esiste solo nei paesaggi delicatamente saturi di colore, nelle architetture, nel fuggevole ricordo di alcuni luoghi – altri viaggi, la sua Sicilia – coerente al proposito dichiarato di “scomparire” dietro ai suggerimenti, nel riverberare altrui. Passo a passo – il ritmo della marcia, un’incalzante lentezza, è il principale strumento di osservazione e continuiamo a “sentirlo” anche dopo aver interrotto la lettura – Samonà ci fa entrare nel suo raggio d’osservazione, in questo frammento ingrandito di mondo: un brulichio intelligente e documentatissimo di Storia e storie, luoghi, date, eventi, opere, personaggi, scrittori, poeti, musicisti, artisti…; politico, realmente politico, e lirico, in un abbraccio diacronico senza gerarchie. Il viaggio promesso sta dunque in questo appassionante corteo, ritmato e promiscuo, di uomini e gesta; che è poi lo stesso procedimento adottato dall’autore nel suo precedente Quelle cose scomparse, parole, dove a brulicare, a copulare fertili erano le voci esponenziali del proprio glossario personale. Ma più si entra nei dettagli delle vite, delle vicende, delle molte opere citate – più la lente s’avvicina per ingrandire – e più l’immagine perde di realtà. Come quelle piantine, quelle fotografie, che dovrebbero essere lì per testimoniare un percorso, e invece ci raccontano di un sogno, un’illusione.
A mano a mano che ci lasciamo portare per questi luoghi, si fa sempre più evidente l’idea che questo viaggio e il suo viaggiatore-assente – la zolla esemplare di mondo e lo sguardo al di là della lente – si alimentino dello stesso s-paesamento, un «décalage che mette a loro agio tutti i décalés». Dove l’unica realtà sta nelle parole: quelle che Samonà usa sapientemente come una formula magica per dare consistenza alla verità fugace delle cose umane; e quelle della lingua che ha inglobato le frontiere in un nome composito e si è fatta carico delle lacerazioni.
È un precipitato di imperi, regni, stati – austro-ungarico, ottomano, jugoslavo, italiano…– questo frammento pre-balcanico, un condensato di frontiere che si sono intersecate nei secoli, in un sovrapporsi cacofonico di intenzioni. Limbo per esistenze sospese di “misti”, “rimasti”, sempre “in bilico”, come tale è emblematico della caducità di ogni umano potere, della volatilità delle barriere erette per difenderlo e glorificarlo, che si confondono e si arrendono. Perché, ci ricorda l’autore «Proprio nel momento in cui affermiamo una proprietà, ne vanifichiamo la ragion d’essere, rivelando che le eredità sono il trionfo dei miscugli, e la terra che si pretende amare è un tempo, più che uno spazio…». E nel tempo, si sa, tutto è destinato a finire, ogni limite, mura che, dalla sua prospettiva, esprimono solo «il segreto bisogno dell’altro, dell’incontro», consegnano Ettore alla lancia mortale di Achille per poi farsi rovine.
Nell’esemplare variazione di tempo che si dispiega nelle pagine di questo libro, cadenzata dai passi del viaggiatore Samonà, arpenteur dell’impermanenza, non sono solo le frontiere geografiche o linguistico-culturali a spaesarsi, ma anche quelle “tra follia e normalità, o persino tra maschile e femminile, tra uomini e animali e magari, perché no, fra sentimenti, fra desideri”, che restano appese al vuoto come bandiere lacerate.
Eppure – c’è sempre un eppure, a perpetuare… – nell’ultimo capitolo del libro, qualcosa sembra ancora resistere, luccicare sotto tutto il resto: l’indo-cambogiano-americano Jay, riemerso dal passato di fronte alla stazione di Zagabria, con la sua giovinezza inaspettata e perenne dischiude una prospettiva di speranza, riaccende le utopie. Rinnova la voce che, con dolcezza, sempre domandando, si/ci congeda. Come mai gli uomini si spostano?

Intervista a Marco Giovenale su “Quasi tutti”

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Intervista a cura di Gianluca Garrapa

La presente versione di Quasi tutti (Miraggi ed., 2018), da considerare definitiva, emenda qualche ingenuità e refuso della prima edizione, e si presenta in alcuni punti riveduta, a livello macro- e microtestuale.

 

Gianluca Garrapa: ci racconti la genesi del testo? E dei microscopi e telescopi testuali come fanno direzionati per curarsi del reale e simbolizzarlo sulla pagina?

Intensificare la vita ovvero il tempo degli eventi ( opinioni di un disadattato)

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di Giorgio Mascitelli

Prima dell’avvento dell’epidemia di Covid 19 e delle conseguenti misure di distanziamento la forma di vita sociale più tipicamente contemporanea nelle nostre città era quella dell’organizzazione di grosse manifestazioni che tuttavia non restano confinate in uno spazio apposito magari di tipo fieristico, ma tendono a coinvolgere tutto il territorio cittadino con una miriade di eventi collaterali o addirittura non hanno nessun evento centrale, ma consistono proprio nella diffusione sul territorio. Manifestazioni come Il Salone del mobile o Milano city books non sono che varianti locali di un modalità diffusa in tutte le metropoli occidentali e che se non sarà possibile ripristinare nel giro di breve  tempo, entro un anno al massimo, determinerà una crisi sia dell’economia che la sostiene sia dei modelli ideologici di riferimento, portando in breve a una crisi di paradigma.

Si tratta di manifestazioni che richiedono una partecipazione per così dire assiduamente assoluta e un impegno che sembra essere più tipico di un contesto lavorativo, pur apparendo a prima vista forme innanzi tutto di intrattenimento: spesso due appuntamenti sono collocati a breve distanza temporale, ma in luoghi molto lontani della città, il numero stesso delle  iniziative è chiaramente superiore alle capacità di presenza di un individuo, le forme della convivialità sono regolate dall’etichetta sociale dominante e perfino la consultazione del catalogo della manifestazione diventa già un lavoro in sé. In questo contesto seguire un numero anche ristretto di eventi richiede una prestazione di un certo livello anche sul piano fisico con il suo carico di stress e il senso di fallimento e di isolamento sociale nel caso non si possa mantenere il livello di presenzialismo che ognuno si è posto silenziosamente come proprio obiettivo. Gli eventi della manifestazione scandiscono il tempo, che è un tempo accelerato, sicuramente superiore alle capacità individuali di movimento e attenzione, e così il singolo evento cessa di avere un significato specifico e diventa parte di un flusso continuo. In fondo queste grandi manifestazioni non ripropongono che in forma concentrata quella logica degli eventi, che troviamo in un normale fine settimana o anche nel sistema mediatico e nei social. Il premio però che offrono in palio a chi affronta la prova e ne esce vittorioso è la convinzione di vivere una vita piena e intensa, in cui si coglie il meglio per la propria autostima che una realtà vorticosa lascia intravvedere. Non è peraltro un fatto nuovo la presenza di un elemento performativo nei piaceri sociali liberamenti scelti: si sa che indossare gli abiti che le dame dell’alta società settecentesca portavano nelle occasioni più prestigiose richiedeva una vera e propria performance atletica con la non trascurabile differenza che essi rientravano nei non numerosi obblighi sociali di un’élite per tutto il resto riverita e servita, mentre attualmente sono lo sforzo minimo richiesto a chiunque voglia sentirsi cittadino del mondo.

Come scrivevo sopra, uno dei caratteri principali del flusso degli eventi, sia di quelli previsti nelle manifestazioni sia di quelli che punteggiano la vita quotidiana,  è quello di dare un preciso ritmo, elevato e possibilmente crescente, alla scansione temporale della vita sociale e del tempo libero del singolo, il che è un elemento sorprendente per una cultura moderna, nella quale la misurazione esatta del tempo è legata al ritmo di lavoro, la ricerca sistematica della sua intensificazione al calcolo della produttività e dunque all’industrializzazione. Si ha qui invece un’intensificazione dei ritmi del tempo non lavorato e un nuovo Charlot protagonista di un ipotetico remake di Tempi moderni forse non avrebbe bisogno del suono della sirena d’inizio turno per dedicarsi alle sue mansioni con ritmi folli. Pare probabile che questa accelerazione del tempo libero sia un segno del fatto che tempo libero e tempo di lavoro tendano a mescolarsi e a tracimare reciprocamente negli spazi riservati all’altro e questo, a sua volta, sia connesso con quel fenomeno che alcuni critici dell’attuale società hanno chiamato svolta linguistica dell’economia, che sarebbe poi la tendenza del capitale a mettere a profitto non solo l’attività produttiva nel senso tradizionale del termine ma l’attitudine comunicativa dell’uomo e tutti gli aspetti della vita.

Se il tempo degli eventi è un tempo accelerato e per più di un verso simile a quello lavorativo, che a sua volta subisce delle modificazioni postfordiste per così dire, come attesta la diffusione delle varie forme di orario flessibile e di lavoro informatizzato potenzialmente senza limiti di tempo, possiamo notare un carattere profondamente divergente dalla dimensione festiva popolare nel senso classico che propone un’altra temporalità rispetto al calendario normale e alla sua organizzazione. La festa popolare tradizionale propone un rallentamento dei ritmi di vita rispetto a quelli feriali. Non alludo qui alla festa popolare storica, al Carnevale medievale, portatore di una sua propria cultura e visione del mondo, ma semplicemente a quelle feste che esistono o sono esistite nel mondo moderno industriale, ma che si sono formate spontaneamente senza nessuna forma di governo. Un esempio, anche becero se si vuole, è quello della partita di calcio, il cui tempo per gli spettatori, specie nelle curve e nei settori caldi dello stadio, era ben superiore a quello della durata della partita in sé perché era preceduto da canti, schiamazzi, bevute e spuntini sia dentro lo stadio sia fuori, mentre da quando gli incassi del calcio coincidono per la maggior parte nella cessione dei diritti televisivi lo sforzo è portare gli spettatori allo stadio esattamente per il tempo che dura la partita.

Uno dei caratteri dominanti dell’attuale società neoliberista è l’introduzione di una dimensione didattica permanente che deve servire a far interiorizzare agli individui alcuni elementi essenzialmente propedeutici alla vita nel mercato, in particolare le idee di performance individuale, di autovalutazione continua delle proprie prestazioni e di competizione. Questo processo non è naturalmente gestito soltanto dalle agenzie formative tradizionali, scuola, media e famiglie, ma trova la sua più completa realizzazione nell’esperienza sociale generale, in questo senso il modello di socialità basato sugli eventi ha un ruolo di primo piano perché consente di introiettare la performance e l’adeguamento a ritmi accelerati come orizzonte necessario per raggiungere il godimento.

In uno dei libri più citati, non so se altrettanto letti, della seconda metà del secolo scorso, La società dello spettacolo, Guy Debord scriveva che “è noto che il risparmio di tempo costantemente perseguito dalla società moderna- che si tratti della velocità dei trasporti o dell’uso di minestre in polvere –  si traduce positivamente per la popolazione degli Stati Uniti nel fatto che la sola contemplazione della televisione la tiene occupata in media da tre a sei ore al giorno” ( trad.it., 1997, tesi 153, pag.143). In un certo senso il tempo degli eventi che viviamo oggi è figlio di questo uso del tempo, che Debord chiamava  tempo spettacolare, ma in un punto decisivo se ne allontana. Ne è figlio perché la temporalità degli eventi è una forma di merce, esattamente come il tempo spettacolare, destinata a essere consumato all’interno di uno stile di vita che è essenzialmente consumo di esperienze come merci di un supermercato; se ne distacca perché in Debord è chiaro che la dimensione del tempo spettacolare è fondamentalmente contemplativa, tipica di uno spettatore che guardi degli spettacoli, mentre il tempo degli eventi è caratterizzato in primo luogo da un elemento performativo e quasi attivistico. Questa trasformazione può essere spiegata in prima battuta con un cambio di paradigma politicoeconomico: da un capitalismo che vive il proprio boom in paesi democratici in cui lo scopo principale è addormentare la popolazione perché il suo attivismo rischia di alimentare il conflitto sociale a un capitalismo di tipo neoliberista che per garantire il mantenimento del livello dei profitti deve mettere al lavoro ogni aspetto della vita umana, avendo ormai virtualmente frantumato le possibilità del conflitto sociale, che è ridotto a un elemento resistenziale non in grado di condizionare il funzionamento della macchina economica, e dunque può sollecitare nelle masse una mobilitazione individualizzata che coincide nell’idea che si debba intensificare la propria vita ( fare più cose in meno tempo) per realizzarla.

La socialità che gli eventi promuovono, in fin dei conti, è già una socialità competitiva in cui ogni soggetto introietta il concetto di prestazione. Non è un caso che  Peter Sloterdijk nel commendevole  tentativo di dare un’interpretazione positiva di questo fenomeno, strappandolo alle attenzioni pelose di critici e disadattati, alcuni anni fa intitolava un libro molto fortunato Devi cambiare la tua vita,  nel quale curiosamente questo imperativo, che di solito assume un valore etico o religioso, viene inteso come miglioramento delle prestazioni fino al superamento delle posizioni di partenza, in senso quantitativo e intensivo. Proprio stamattina ho ricevuto un sms di pubblicitario che iniziava  con l’invito a cambiare la propria vita e finiva con la raccomandazione di comperare azioni Amazon per realizzare questo cambiamento. L’anonimo estensore del messaggio pubblicitario si è dimostrato il più acuto interprete della tesi di Sloterdijk. Per cambiare la propria vita non si tratta più di ritornare sulla retta via o di andare a vivere in Polinesia, ma di ottimizzare e intensificare le proprie prestazioni. L’organizzazione della vita sociale per eventi rientra in questo percorso di cambiamento della propria vita ossia di sua intensificazione, anzi ne è una delle colonne portanti perché diffonde la convinzione che una vita intensa sia una vita dalle cadenze sempre più veloci.

Ora, le misure di distanziamento sociale seguite alla pandemia vanno a colpire questa modalità di relazione in modo particolare perché essa si basa su una accelerazione funzionale all’aumento dei contatti individuali: se questa modalità non verrà ripresa al più presto, visto che non è sostituibile se non per brevi periodi con contatti virtuali, potremmo trovarci di fronte a una crisi di identità di una parte considerevole della popolazione, specie della parte che sui giornali viene definita come la più dinamica. Infatti la crisi di quel modello di socialità coinvolgerebbe anche il processo di autoriconoscimento sociale e di individuazione del singolo e questo a sua volta metterebbe in crisi anche un tipo di economia degli eventi che nei centri urbani si è sviluppata su questo processo. E’ chiaro che qui si apre una linea di frattura piuttosto interessante perché da un lato ci sarà una spinta a ritornare quanto primo alla normalità degli eventi e dall’altro ci sarà chi vuole sfruttare le economie che il lavoro domestico fa realizzare, mettendo però fatalmente in crisi l’economia degli eventi. Si prospettano tempi duri insomma, ma restando in equilibrio su questa linea potrebbe anche essere un’occasione per provare a vivere con lentezza.

 

 

 

 

L’uovo del cielo

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di Mariasole Ariot

 
 

Cade un mondo dalla testa, amplifica la velocità del tremendo, quando si china e non mi chiama, un capo abbassato conficcato nella terra, quando resta la parte clandestina che non apre, quanto preme, quanto muore e se non muore: vedere il bosco uscire dalle labbra, una pelle scorticata per le attese, il silenzio che muove, il vento di aprile, il frutto acerbo delle età immobili, e fugge, sugge il fiore, e fugge le gesta, non aggiusta le cose masticate, un verme che distingue il buono dal buono: ho mangiato il piatto della chiusa, una santificazione inginocchiata.

 

Dimentica la presa, dimentica i primati

 

I primi s’inerpicano, un recinto degli sprechi, chiocciole senza guscio, gusci senza l’animale del silenzio, il sudario è una metafora, il tu ruba il posto all’io, uno iato tra le stelle.
Non ci saremo tra il letto e l’uovo del cielo, con le ossa unghiate, quando le ore non dicono è ora, se mi dondoli e non culli, se mi allenti a mezzo fine, si contorce una storia non narrata, si prepara il relitto dei miei anni: bruciare nel nuziale, condannare le iniziali,
la testa brucia e brucia, si affretta veloce sulle cose, le case moderate, le cose terminate, le termìti che disciolgono parole: sei mutata come un muto avvicendarsi dei congiunti, incrèdula ora la tua notte.

 

Le ferite a vista, la vista dei rituali 

Poi arrivano : poi si fanno fiume : poi fumano i ceppi : un prestito per le celle in costruzione. Attraversando le domeniche dei suoli, il sottosuolo addomesticato dalle scimmie, puoi sentirmi, puoi parlare, parla la lingua e tre linguaggi, posa i palmi ed apri il varco sulla nuca, le gesta disposte alle promesse, il suo sottrarsi che figlia nel suo l’insieme. Non tornare nelle cose acconsentite : la mia bilancia non fa presa, ho il sangue piatto, le gambe aperte come occhi, la temperatura costante del rossore. Il dolore che protegge, l’intenzione della veste – e quando e quanto e come vivi, e quanto non vivi, quanto il tuo coraggio è travestito, se mi attraversi come un resto, se ti appresti a fecondare.

 

Le spine della rosa, la rosa che ho ferito

Guerra 85

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di Giovanna Daddi

La goccia di sudore scendeva dalla tempia lentamente, staccandosi dall’attaccatura dei capelli neri. Si confondeva con il gel. Ma poi si muoveva. Percorreva la mandibola, restava in equilibrio per un attimo, aggrappata a un neo marrone scuro, piccolo e inquietante sulla pelle bianca. Sembrava sbirciare le labbra tese sui denti digrignati.
Poi cadeva sul dorso della mano stretta a pugno, le vene in rilievo. Le dita avvolgevano il calcio di una pistola giocattolo, sembrava vera. La madreperla aveva un’incisione: “Ti amo. Elena”.

Miro in crisi di astinenza si gingillava con la pistola: la ruotava verso sé stesso, la portava alla bocca, aprendo le labbra e infilandocela dentro. Per vedere l’effetto che fa. Aveva caldo, poi aveva freddo. Tutto il suo corpo magro era coperto di sudore, la maglietta era attaccata alla schiena, la sentiva. Il maglione di lana pizzicava nei punti scoperti dalla maglietta, sulle braccia martoriate di buchi.
“Ti amo. Elena”.
Elena era andata via in un giorno pieno di neve, le strade ghiacciate, le auto ferme, di traverso, abbandonate da tutti quelli che avevano deciso di proseguire a piedi.
Era il 5 gennaio. Miro ascoltava il silenzio finto dei fiocchi che scendono, scaldando l’eroina nel suo cucchiaino. La porta era stata sbattuta con forza sulla parete ed era rimbalzata su sé stessa, lui aveva guardato nella direzione del tonfo, così incongruo, lo scoppio di una bomba: aveva visto un paio di gambe magre avvolte in delle calze rosse, una minigonna nera guizzare e una coda di capelli biondi sparire nella cornice della porta. Una frazione di secondo, non era riuscito a fermare quella figurina. La mano protesa, aveva tentato di parlare ma non era uscito un suono.
Forse solo “Ehi”. Non altro.
Ma nella testa parlava, diceva un addio pretenzioso, una preghiera di restare.
Elena, vestita di nero, era scappata dalla porta bianca scrostata, lasciandosi alle spalle un ragazzo mezzo morto in un tinello cadente di via del Leone.
Era andata via. Sicuramente verso Piazza del Carmine. Miro pensava che si sarebbe fermata a guardare la chiesa bianca di neve. Pensava alle sue gambe magre, alla sua pelle tesa, alle sue mani piccole che nei momenti felici si stringevano a pugno agguantando i suoi capelli: non aveva scarpe adatte a quel freddo. Nessuno aveva scarpe adatte quel giorno, nessuno avrebbe potuto prevedere.
Elena, Elena.
Dopo ventiquattro ore Miro si era svegliato, nella stessa stanza del buco, il tinello. Si era ritrovato disteso sul pavimento di grisaglia, la casa di sua nonna. Le piastrelle della cucina schizzate di sugo, la bocca secca con il sapore di morte chimica che aveva a quell’ora in quelle condizioni.
Mangiò un pezzo di pane.
Ricordò che Elena se ne era andata.
Guardò fuori dalla finestra e tutto era sempre più bianco, aprì i vetri e sentì una lama entrargli fra i denti, ibernare le gengive: l’aria era fosforescente, da lì poteva scorgere il Giardino Torrigiani coperto di neve, paesaggio di luna. Non un’anima giù in strada.
Aveva finito la dose, doveva uscire a comprarne ancora.
Il giubbotto di pelle lisa, con il pelo dentro, consunto e infeltrito, la gora di sperma sulla manica – si ricordava bene di aver fatto una sega a uno che non poteva pagare in altro modo, e quello stronzo gli era venuto sul giubbotto buono.
Uscire, respirare, provare a guardare, a non sentire i brividi, il caldo prima, poi il gelo. Provare a camminare diritto, provare a salutare il tabaccaio che spalava la neve davanti al negozio.
Provare a non sembrare un tossico di merda.
Arrivare fino a via del Campuccio, suonare il campanello del Ghisa e prendere l’eroina.
Tornare a casa. Spararsela in vena. Rinascere.

L’8 gennaio era alla terza dose.
I centimetri di neve erano diventati sedici.
Giorni di ghiaccio e neve, giorni siberiani, bianchi come la polverina nel cucchiaio. Bianchi come le sclere rovesciate, come la bava che per giorni usciva dalla bocca di Miro. Bianchi come le lenzuola in cui si rivoltava. La rivolta del suo sangue, che usciva da lui, nel vomito, e sporcava il lino, stuprava il ricamo con le iniziali di suo padre.

Elena sei sepolta nella neve? Sei diventata una Madonna di ghiaccio in calze a rete e minigonna nera. La tua sigaretta continua a brillare nel colore vetrino dell’aria, la punta accesa di fuoco. Vedo i tuoi occhi pesanti di brina, sulle ciglia, vedo le tue labbra blu, vedo le tue mani livide.

La pentola sul fuoco a bollire, sterilizzare l’ago. Glielo aveva insegnato qualcuno. Elena diceva che altrimenti si sarebbe anche ammalato.

La luce è vuota
Senza colori
Senza più vita
Lulù
Ogni ora persa
È una ferita

Aveva comprato il vinile, con i soldi rubati dalla borsetta dell’amica di sua madre, nella casa che era stata di suo padre. Rubati i soldi, comprata la dose. Avanzate poche lire. Per Desaparecido.
Desaparecido.
Senza Elena.

Persi negli echi
Un cielo finto
Li avvolgerà

Ora prendo la pistola, non la pistola finta di Elena. Prendo la pistola vera, quella di mio padre.
Chiusa a chiave, sotto chiave – Il ragazzo è strano, leva la pistola da quella casa, diceva mia madre.
Il mobiletto con lo scomparto.

Non finirà più di nevicare, nevicherà per sempre su Firenze. Firenze diventerà una luna.

Miro era riuscito ad aprire il mobile, a scardinare lo scomparto segreto.
Guardava l’arma: questa era nera, niente madreperla sul calcio. Niente “Ti amo. Elena”.
Non si faceva da un paio di giorni, aveva deciso di prendere la pistola.
Pistola nera, avvolta da un panno verde.
La mano di Miro agguantava il freddo, rivoltando la rivoltella verso di sé: in mezzo alla fronte, l’occhio di Allah, il chakra, un sacco di cazzate sincretiche.
Guardava il buco nel buco, scrutava dentro quel nulla da cui la pallottola sarebbe uscita per conficcarsi nel suo chakra centrale.
Elena.
Elena vestita di ghiaccio.
Il campanello lo aveva fatto sobbalzare sulla sedia del tinello, aveva fatto cadere la pistola.
«Chi è?»
«Scendi Miro dai, andiamo a fare la guerra di neve?»
«Chi sei? Che cazzo dici?»
«Sono Elena, idiota. Scendi. Sono giorni che ti chiamo. Scendi, che questa città sembra la Siberia e tra poco non lo sembrerà più».
Il tempo di sciogliere il ghiaccio, il tempo di spazzare via il freddo.
Il tempo di un solo, preciso, colpo mancato.

A caccia nei sogni

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di Gianni Biondillo

Tom Drury, A caccia nei sogni, NNeditore, 2017, 232 pagine, traduzione Gianni Pannofino

C’è un’America, nel cuore dell’America, che sembra esclusa dalla Storia. Esiste come in un eterno scenario, sempre simile a se stesso, paralizzato negli anni cinquanta del secolo scorso, anche quando si raccontano storie dei giorni nostri. È l’infinita provincia, il ventre molle degli Stati Uniti, così peculiare eppure, allo stesso tempo, talmente metaforica, talmente ficcante che ogni provincia dell’occidente pare riconoscercisi.

A caccia nei sogni è il secondo capitolo della trilogia di Tom Drury, ma non è obbligatorio aver letto il primo volume per seguirne la trama. Il romanzo ruota attorno a pochi giorni, un fine settimana, a Grouse County. Romanzo corale, dove non esiste un protagonista su cui agglutinare gli eventi ma una famiglia come tante: Charles che rivuole indietro il fucile che appartenne al padre (ma non sa neppure lui perché ci tenga così tanto), Joan, la moglie, che prepara le valigie per un viaggio di lavoro (ma forse è una fuga mascherata), Lyris, la figlia che Joan ha ritrovato dopo anni, Micah, il figlio più piccolo dei due. In pochi giorni fanno esperienza, ognuno nel suo mondo impenetrabile, di una costellazione di piccole microfratture dell’anima, piccoli tormenti, piccole tragedie.

Attorno a loro tanti altri personaggi, altrettanto tratteggiati e irraggiungibili. Dialoghi spesso inconcludenti, come la trama che sembra ruotare attorno al nulla. Qualche scena strappa un leggero sorriso, qualche altra un lieve accigliarsi. Niente avventure memorabili, niente storie indimenticabili. In realtà, in questo continuo non far accadere nulla, accade la vita stessa. Drury, in questo, è impeccabile, come la sua scrittura, senza sbavature, senza fronzoli, ma neppure troppo disseccata. I suoi personaggi vagano, molto spesso nel buio della contea, sperduti in un mondo che sembra troppo grande, troppo incomprensibile. Veri.

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(precedentemente pubblicato su Cooperazione, numero 11 del 13 marzo 2018)

Perdere il controllo

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di Lisa Ginzburg

 

Julia von Lucadou (Heidelberg, 1982) ha costruito un notevolissimo romanzo (La tuffatrice (Die Hochhauspringerin) Carbonio editore, traduzione di Angela Ricci, pp. 252) tutto incentrato sul reciproco controllo come paradigma dominante. Non solo: la sua riflessione, con sapienza travasata e diluita in forma narrativa, si pone (e vince) una sfida supplementare, quella di descrivere l’inevitabile erosione di detto paradigma di controllo. Una disfatta sistematica  e pensata come sola possibile prospettiva salvifica.

La trama è acutamente limpida: un’atleta campionessa di tuffi dalle prestazioni sportive performative al punto da averla resa oggetto di massimo interesse e investimento da parte di diversi manager sportivi, cade in depressione. “Cade” in senso quantomai letterale: perché l’aitante giovane sprofonda in una condizione di spirito che è fatta insieme di misantropia e di un’abulia entrambe intrise di ottundente malinconia e (apparente) cessato  desiderio di vivere. Di colpo diserta gli allenamenti e fugge da ogni tipo delle varie sessioni di coaching, mostrando “un chiaro cambiamento di indole, di comportamento e dell’umore”. Così nelle schede descrittive che – ingaggiata dai manager sportivi dell’atleta – una psicologa del lavoro / allenatrice dello spirito scrive di lei nelle schede che è tenuta a redigere. Il punto di vista posato sulla sportiva in crisi (Riva Karnowsky il suo nome) non è però ravvicinato. La coach/psicologa  (Yoshida) sta appostata, nascosta, osservando la sua “paziente” attraverso video, filtri di lenti molto sofisticate, zoommate di teleobiettivi, comunque sempre da postazioni segrete così che quella non possa accorgersi di lei, secondo una prossemica tutta improntata sulla dimensione della distanza.

Già con questi ingredienti il romanzo conterebbe una “mise en abyme” molto originale (crisi del narcisismo competitivo osservata e riportata da lontano, senza contatto diretto e perciò amplificata nella sua distorsione). Non fosse che a ispessire il materiale romanzesco della vicenda si aggiunge un rapporto di specularità semi-simbiotica tra osservatrice e osservata: la stessa coach/psicologa “cade” progressivamente in una crisi di identità ed esistenziale persino più grave di quella dell’altra, la sua paziente oggetto della sua diagnostica quotidiana. L’universo in cui entrambe si muovono è – pur nella distanziazione – un universo angusto, quasi concentrazionario (non così lontano da certi scenari che l’attuale pandemia ha generato, con relative prossemiche anti-contagio in varie occasioni di una limitatezza spaziale o viceversa lassitudine di comportamento cautelativo cui corrispondono analoghe ristrettezze del pensiero). Secondo un organigramma inflessibile ai limiti dello spietato, la coach/psicologa Yoshida risponde a un superiore (Master) severo nei confronti dei tentennamenti della sottoposta, e che di continuo la sprona a non sgarrare rispetto alla disciplina che come osservatrice lei è tenuta a mantenere. Una ferrea metodica quotidiana composta di due dimensioni speculari e asintoticamente vicine a quelle cui, se fosse “in salute”, sarebbe tenuta l’altra – l’atleta. Vuoto mentale e cura del corpo, “mindfulness” e “fitness”. Ovvero, rendere tonico e smagliante il contenitore, e invece il più possibile aereo e poco consistente il contenuto. Su questo binomio antitetico, anche, fa leva la distopia concepita da Julia von Lucadou.

Perché il suo La tuffatrice racconta tra le altre cose la valanga metamorfica di una muda che coinvolge curatore e curato, controllore e controllato,  e la conseguente decostruzione di un monitoraggio simbiotico inteso come forma di vita e base imprescindibile di ogni relazione. Molto, tra Riva e la sua coach/psicologica a distanza della quale lei ignora l’esistenza, funziona esattamente come secondo lo schema dicotomico dei neuroni a specchio. Se pure nello scenario totalmente indiretto di web camera, micro chip video, riproduzioni audio a distanza e quant’altro dica di uno spiare nascosto, nella prima parte del racconto l’angoscia accorata da cui Yoshida, la psicologa, si sente progressivamente pervadere è riflesso diretto della depressione della sportiva Riva, sua paziente osservata da lontano. Quanto più Riva si abbandona alla propria rinuncia, mentale e fisica, esistenziale e professionale, tanto più Yoshida incomincia senza accorgersene consapevolmente a mettere in discussione il proprio stesso spiare, il senso profondo della sua professione. Inquietudine, la sua, che assume presto la forma più estesa  di una disobbedienza a un intero sistema. Il mondo del controllo ora la mette in crisi, e per metterlo in crisi lei altro non può che attraversare una profonda personale crisi. Attraverso una serie di “atti mancati”, gesti che sono autentici autosabotaggi (ma gravidi della determinazione assoluta che solo può pertenere alle istanze dell’inconscio), quello della coach  è un perdere il controllo volontario. Volontario e sovversivo: le costerà reputazione, salario e sicurezza economica, identità nel mondo, e peggio di tutto – in un mondo dove la reperibilità è tutto – sconnessione. Verrà radiata, ogni password del suo accesso all’universo del controllo, cancellata. Nel mentre, secondo una nemesi distopica anche quella, accanto alla sua disfatta, in parallelo, prenderà corpo la guarigione di Riva. Da un lato la terapeuta perde il bandolo, “lascia entrare il caos” così autoemarginandosi dall’asettica realtà in cui lavorava e si muoveva, dall’altro la sportiva intanto ritrova entusiasmo. Come tuffatrice riprende a tuffarsi, torna a provare l’orgasmo di quel momento del corpo assoluto per interezza, l’unico in cui senta di esserci tutta, scossa da una vertigine di lucidità e presenza a se stessa che, quella sola, sa regalarle una soddisfazione intima senza eguali.

Senza praticamente mai incontrarsi per davvero nella realtà, le due giovani donne conoscono un destino uguale e contrario. Con la sua battuta d’arresto esistenziale, la tuffatrice permette alla psicologa chiamata a “monitorarla” di disserrare le chiavi di una nuova visione, liberandosi dalla propria vita inautentica di “controllante”. Qualcosa di reciproco e di essenziale (un “filo d’oro”, per dirla con Jung) vincola le loro anime, in un patto che le allontana l’una dall’altra di più ancora nella realtà, eppure legandole, continuando a legarle in una telepatica corrispondenza “a specchio”.

La depressione della coach risulta a chi legge molto più energica e suggestiva della ritrovata salute della sua paziente tuffatrice. A tuffarsi per davvero – tuffarsi nella vita reale – adesso sarà Yoshida, la curatrice. Si termina di leggere il romanzo pensando così. Perché sottrarsi al monopolio della vigilanza onnipresente, perdere il controllo, rinunciare all’uso di un occhio clinico e in una continua ansia di prestazione da giudizio significa aprire altri occhi, puntandoli su nuove realtà. Realtà delle proprio cicatrici, come accade a chi si risolva a prendersi (sé stesso da sé stesso) in consegna. Così dischiudendosi a orizzonti più ampi e sapienti, quelli della libera autodeterminazione e della spontaneità, che non controlla più, decide una volta per tutte di smettere di farlo. E proprio perciò, per questa volontaria scelta di abbandono al flusso delle cose, alla naturale complessità del vivere, incomincia a vedere e seguire quel che in essa vale e conta per davvero.

Una famiglia

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di Cristian di Furia

Un padre

Quando otto anni fa mio padre è deceduto credevo mai più l’avrei rivisto: ieri invece mi ha telefonato per dirmi che era appena risuscitato.
Poi ha chiuso, e io sono rimasto col telefono in mano.
Poi ha richiamato e mi ha detto, ci vediamo?
Quando, ho chiesto io.
Ora, ha detto lui.
Dove, ho chiesto io.
Sotto casa, ha detto lui.
Quale, ho chiesto io.
Ma aveva già chiuso. E io sono rimasto col telefono in mano.
Così sono sceso, e sono sceso sotto casa mia, che non è casa di mia madre, da cui sono venuto via l’anno scorso, e non è casa di mio padre che a sua volta non è casa di mia madre – divorzi, litigi, comunione dei beni – e che non è neanche più casa di mio padre essendo, casa di mio padre, tornata casa del proprietario di casa cui mio padre pagava l’affitto e ha pagato finché è morto, casa mia, voglio dire, sono sceso sotto casa mia, quindi uscito dal portone: non c’era. Allora a piedi sono andato sotto casa di mia madre, che era anche casa di mio padre, e anche casa mia, e anche casa di mia madre finché mia madre non ha deciso di metterla in vendita da che sono andato via io e dacché di quella casa ha brutti ricordi, avendone invece trovati di più belli tra gli infissi e nei cassetti e sulle mensole della casa del suo nuovo compagno, quindi anche casa di mia madre prima che mia madre si trasferisse dalla casa di mia madre: non c’era. A quel punto, deciso, mi sono incamminato allora verso la casa di mio padre che non è più casa di mio padre e che non so di chi sia, se poi è di qualcuno, se poi, in effetti, è ancora dello stesso proprietario di prima o se invece non l’ha venduta come ha fatto mia madre con la casa di mia madre, sotto casa di mio padre che non è più di mio padre e che non so se ci abita qualcuno, se un nuovo padre o una nuova madre o un nuovo figlio o una nuova famiglia prima di diventare solo un padre, una madre e un figlio: non c’era. Quindi alla fine ho deciso di tornarmene a casa mia, perché casa mia, almeno questo, è casa mia e tanto basta, e così tornando da casa di mio padre, che non è più casa di mio padre, a casa mia, che è ancora casa mia, sono passato sotto casa nostra. Casa nostra è: casa nostra. La casa dove mio padre e mia madre hanno vissuto il loro amore, e io il loro amore e la mia infanzia. Ogniqualvolta, andando per la città, capitava di passarci sotto, tutti e tre ci giravamo, guardavamo il balcone del nostro vecchio appartamento e dicevamo: casa nostra. Non lo dicevamo, lo pensavamo. Casa nostra.
E insomma mio padre stava lì. Quello per lui era: sotto casa; sotto casa: casa nostra.
Mi stava aspettando, stava in silenzio, sul marciapiedi, in sella: a una bicicletta da bambini con le rotelle.
Papà…
Ciao.
Ciao.
Andiamo?
Dove?
Ma già era partito, già pedalava, già: in un fracasso rotolante di ferro su ferro e ferro sull’asfalto e l’asfalto era sconnesso, rotto sulle radici degli alberi emersi a rompere l’asfalto del marciapiedi lungo il quale mio padre pedalava a una lentezza esasperante, e facendo un rumore talmente assordante che mi guardavo intorno imbarazzato, ora per il rumore, ora per mio padre che stava sui pedali con le ginocchia che gli arrivavano alle orecchie.
Siamo arrivati al parco quando mio padre ha detto: siamo arrivati al parco; fermiamoci qui, e ci siamo fermati.
Avevo tante domande da fargli, e gliele avrei fatte pure, sulla strada, non fosse stato per il rumore. Avevo tante domande da fargli e gliele avrei fatte ora, gliele avrei fatte al parco. Una volta seduti, gliele avrei fatte seduti, sull’erba, e ci siamo seduti. Ci siamo, siamo seduti… E davanti a noi, più in là, ci sono due bambini: giocano, giocavano, a calcio. Uno tirava, uno parava. Quello che tirava ha tirato, e quando quello che parava ha parato si è poi alzato e ha rinviato, calciato, il pallone, al volo: il pallone, calciato, è andato in alto, in altissimo, e io che guardavo ho guardato i bambini che guardavano il pallone che in volo era sparito: quindi guardavano in alto, e basta, quasi pareva pregassero.
Dopo qualche secondo il pallone è esploso: ma lontano. Come un fulmine, ma lontano, come per annunciare una pioggia, lontana: che presto sarebbe arrivata.
Mi sono girato per dire a mio padre: hai visto?
Ho visto, invece: che mio padre non c’era più.

Una madre

L’auto accosta, lo spazio è libero. Quello alla guida chiede, per sicurezza, e affacciandosi al finestrino: «È libero?».
«Certo», gli risponde uno sulla soglia del teatro prospiciente.
«Posso parcheggiarmi qui, allora?» domanda di nuovo l’autista.
«Ma certo» gli risponde di nuovo il ragazzo sulla porta del teatro.
L’auto accosta, lo spazio è libero. E ampio. All’autista è sufficiente svoltare, allinearsi al marciapiede. E spegnere.
Esce dalla portiera e con un sorriso saluta quello davanti al teatro. Quasi contemporaneamente dallo sportello di dietro spunta una bambina, nove, massimo dieci anni. Sorride, è allegra, canticchia.
«Papà!, papà!» dice, «Papà, posso aprire io a mamma?».
«Va bene» le risponde il padre l’autista, «Apri tu».
«Evviva» esclama gaia la bambina. Che dunque scesa dal sedile, chiusa la portiera, aggira la macchina per andare all’altro lato. Ma si ferma, davanti al bagagliaio. E poi bussa, sul lunotto.
«Mamma?» chiama, «Mamma?» e bussa.
E apre: il palmo rivolto in alto, le dita che fanno scattare la serratura del bagagliaio. Lo sportello che si alza.
Nel bagagliaio non c’è niente, a parte una busta: nera, di quelle per l’immondizia. Piena: come una busta. Nera di cose; piena da buttare.

Una famiglia

Il piccolo non riesce a dormire: è notte e fa gli incubi. Così si sfila le coperte, scende dal letto, esce dalla camera e cammina: ha un pupazzo stretto al petto, giunge alla camera dei suoi, spinge la porta e entra.
Papà? Mamma, papà?
I genitori del bambino si scuotono dal torpore e lo guardano, teneri.
Posso dormire con voi?
Sospirano. Vieni, tesoro: rispondono.
Il bambino sorride e si avvicina al letto matrimoniale. Si piega sulle ginocchia, poi si sdraia a terra. Finalmente striscia, sotto il letto, e si mette: tra mamma e papà.

Questa di Marinella è la storia vera

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di

Isabella Borghese

Ho ripreso a dormire bene, dopo l’isolamento. In estate, a Roma, poco prima dell’arrivo delle cicale. E questo dormire di notte, accompagnato da quel frinire di giorno, è fonte di serenità, la mia più grande gioia, adesso. Otto ore di sonno.

Al mare è diverso. Al mare dormo di meno.

Lì riconosco di avere quell’eccitazione propria dei bambini. Così, alla sera, quando mi corico, penso alla spiaggia, al mare e provo lo stesso divertimento di quando ero bambina e mio padre, dopo cena, senza riuscire, cercava di convincermi, “Se non vai a dormire vengono i carabinieri e domani non potremo andare al mare”; e pure, sento lo stesso fremito che mi invade quando immagino di spogliarmi davanti a un uomo con cui desidero fare l’amore.

La fretta di andare al mare, per me, non è poi molto differente dalla fretta che ho quando voglio fare l’amore. L’impazienza dei bambini.

È così che alle 7,00 sono già sveglia.

Quando tutti dormono, ma io no. Io alle 7,15 indosso il costume e mi avvio, prima di avvicinarmi al mare, verso l’edicola. Passeggio e osservo i balconi, il cielo, in alcuni tratti intravedo le onde, o la calma piatta che mi allieta così tanto. Mi fermo a prendere il caffè a La Gatta, qualche volta. Il lido dove mio padre e mia madre si sono conosciuti quarantaquattro anni fa, mentre una ragazza cercava di conoscere il mio futuro padre, e lui invece, con un mazzo di fiori, chiedeva di uscire a quella giovane di vent’anni che pochi anni dopo sarebbe diventata mia madre. Mi sembra di vederli: lei con il suo sguardo lusingato, lui con il suo più malizioso.

Da quando mio padre è in clinica, da quando so che nel nostro mare, a Santa Marinella mia (così la chiamavo quando ero piccola e la indicavo sulla cartina geografia) non andremo più insieme, da allora e dopo la morte di un caro amico, ho maturato questa convinzione: esiste una geografia sentimentale dei luoghi che a essi ci lega in modo incondizionato ed è mappata dalle persone che amiamo. Quando qualcuno non è più con noi, nei mille modi con cui possiamo individuare e definire un’assenza, quando questa assenza viene a pesarci nei posti che insieme abbiamo vissuto, occorre forgiarsi di pazienza e forza e così, lentamente, reinventare la nostra mappa geografica; occorre mantenere i nostri itinerari, ma affidarci a un nuovo sguardo su di essi, senza sciupare i sentimenti più gloriosi e magnifici che in passato ci hanno accompagnati. Non è forse così che nascono i bei ricordi? Perciò l’estate non è mai potuta diventare la mia stagione del cuore. Perché non di una stagione ai miei occhi si tratta, ma di un sentimento: la nostalgia, il mio preferito.

Amavo l’imbrunire da ragazzina. A Santa Marinella era il momento in cui mi accovacciavo e mi incantavo a vedere le belle di notte aprirsi. Potevo restare ore intere in quella scena. Le trovavo così belle nei loro petali rosa, come le bouganville, ma di esse più profumati, o gialli, i miei prediletti. Le toccavo segretamente, ché mia madre ripeteva a cantilena, Non toccarle sono velenose, e non staccare i semini, non è tempo. E io le toccavo ogni volta e sempre staccavo i semini e poi li nascondevo dentro le tasche dei miei pantaloni, o sotto un sasso vicino la porta – il mio nascondiglio.

Ma l’imbrunire era anche il momento in cui mio padre ci raggiungeva da Roma, nel fine settimana, e di lì a poco il mio diventava un tormentone, “Papà, portami dalla signora che fa mangiare i gatti!”. Lo ripetevo fino allo sfinimento. Ero talmente affascinata da questa vecchina che viveva da sola in una grande villa, che pareva mezza abbandonata tanto cadeva a pezzi, e a qualsiasi ora ti recavi nei pressi, lei era lì affacciata alla finestra parlava da sola, o coi gatti e gli lanciava da mangiare. Dicevano che era una matta, e io le volevo bene, e la salutavo da lontano. Ed ero punto felice.

Sono passati oltre trent’anni da quella felicità, da quando mio padre mi ha insegnato a fare le capriole sott’acqua e lì dentro nel mare un po’ affogavo, un po’ restavo a galla, nel modo in cui oggi, a volte, mi pare di vivere.

Pochi giorni fa, lontano da Santa Marinella, ero in vacanza a Gaeta, dove si può stare in spiaggia anche a ora di pranzo tanto è piacevole il vento; un po’ pare esserci per farti riposare, un po’ per consegnarti i tuoi ricordi. Questi. “Poi torno a Santa Marinella nostra”, ho raccontato a mio padre in una videocall, “Ma prima passo a trovarti”.

Non ho mai raccontato a papà che due anni fa a Santa Marinella si è suicidato il figlio del gestore di un lido, un posto che per noi era come una casa, un padre che io, quando sono lì, passo sempre a salutare, anche se poi vado dove mi porta il momento. Ovunque, a nuotare.

Sembra una colpa, un’offesa a volte a noi figli questo continuare a vivere, a cercare la vita, mentre vediamo i nostri padri immobili, fermi, deboli e indifesi. E pure, mentre sembriamo diventare noi i loro genitori e siamo qui e cerchiamo di proteggerli persino scegliendo cosa sia giusto raccontargli e quello da cui crediamo sia meglio salvaguardarli. Ma ecco, mi sovviene un pensiero, Tutto è vita, tutto serve alla vita, ha scritto Manuel Vilas e queste parole risuonano nella mia mente, quasi come un insegnamento. O forse un promemoria.

 

Beirut mon amour.

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di Paulina Spiechowicz

 Catastrofi a distanza

Ho visto l’esplosione per la prima volta tramite un video condiviso su di un gruppo whatsApp. Non ho capito subito che cosa stesse succedendo. Come spesso accade sui social networks, le immagini arrivano prive delle didascalie e, sullo schermo, tutto è ridimensionato. Hanno seguito altre foto, più precise, più inquietanti: quella della finestra della mia cucina ridotta in frantumi, saloni di case di amici devastati, carcasse di palazzi andate in frantumi. Ho telefonato per sapere che cosa stesse succedendo. Un’amica mi ha risposto. La sua voce era calma, senza intonazioni. Sentivo alle sue spalle urla e ambulanze, ma lei ripeteva «pronto» senza aggiungere altro. Alla terza telefonata, non ha più risposto. È difficile visualizzare una città distrutta senza averla vista con i propri occhi. Le immagini che circolano sul net delle due esplosioni che il 4 agosto hanno liberato 2750 tonnellate di nitrato di ammonio a Beirut, spazzando via il porto e buona parte dei quartieri residenziali a esso annessi, mostrano solamente crepe e fenditure di un quadro ben più vasto e non danno la visione dell’insieme. Sembrano realtà autonome: non siamo portati a immaginare il caos, proiettiamo strutture organizzate sugli spazi lasciati vuoti. Il quartiere dove ho vissuto per gli ultimi due anni non esiste più, così come l’ospedale dove ho partorito, le gallerie d’arte che ho frequentato, i bar e i ristoranti di Mar Mikhael, la biblioteca dell’università dove ho insegnato. La città è diventata il fantasma di se stessa.

Sono riuscita a lasciare Beirut il 9 luglio scorso, non appena l’aeroporto è stato riaperto dopo il lockdown dovuto al COVID. Partivo lasciandomi alle spalle un paese in preda a un numero crescente di casi, privo di una struttura sanitaria pubblica, con lo Stato in bancarotta e un’economia allo sbaraglio. La città era al buio, non funzionavano più neppure i semafori perché lo Stato non aveva i soldi per pagare l’elettricità. La maggior parte dei miei colleghi universitari si è ritrovata senza poter accedere ai propri risparmi. La lira libanese è passata da 1500 LBP per un dollaro a 10.000 LBP, l’inflazione è aumentata del 90%. Oggi un pacco di preservativi costa 50$, duecento grammi di parmigiano 150$, e abbiamo assistito alla rapina in una farmacia di un padre che reclamava, pistola alla mano e mascherina in viso, un pacco di pannolini e delle medicine per il suo bambino. La situazione è il risultato di trent’anni di caste politiche corrotte che, invece di investire in un sistema produttivo atto a garantire la sopravvivenza del paese (industria, sanità, educazione, elettricità), si è limitata ad accumulare capitali bancari a scopri lucrativi privati.

Non essere triste, sii arrabbiato

È questo lo slogan che sta circolando sui social networks libanesi dopo l’incidente: il tuo governo ha stoccato 3000 tonnellate di esplosivi nel mezzo della tua città per sei anni. Le due esplosioni che hanno avuto luogo a Beirut, in termini di grandezza, seguono solamente quelle di Hiroshima e Nagasaki. Le cause non sono chiare. Si parla di un incidente, oppure di un attacco di Israele alle armi dell’Hezbollah. Quello che invece è certo, è che l’esplosione è la conseguenza di una casta al potere che vive nell’impunità. I Libanesi oggi reclamano un’indagine internazionale sui responsabili, perché conoscono il sistema di clientelismo sul quale si fonda la giurisprudenza in Libano, eppure il governo sta facendo di tutto per ostacolare le perquisizioni: hanno negato l’accesso al porto a una squadra olandese di soccorso con i cani, accorta per cercare altre vittime sotto i detriti. Come se non bastasse, il presidente Aoun ha rifiutato gli aiuti umanitari provenienti dalla Francia con la scusa del COVID. Secondo il canale televisivo libanese MTV, la Sicurezza generale, uno dei principali organismi di sicurezza del paese, avrebbe elaborato un rapporto sul nitrato già sei anni fa e avvertito il presidente della Repubblica, il primo ministro attuale e quello precedente del pericolo. Eppure, dinanzi alle domande indignate di molti giornalisti, il portaparola del governo ha escluso, dopo l’esplosione, qualsiasi dimissione, «sarebbe come sottrarci alle nostre responsabilità», ha aggiunto il ministro dell’informazione Manal Abdel Samad. Solamente sei giorni dopo, a seguito di una grande manifestazione durante la quale è stato occupato il ministero degli Affari esteri, Hassan Diab ha annunciato la caduta del governo.

Traumatismi collettivi 

Dal giorno dell’incidente, nessuno dei miei conoscenti e amici libanesi riesce a dormire. Neanche io. Alle quattro del mattino, tutte le spie dei loro contatti sono accese. La mia amica, quella che ho chiamato per avere più notizie, è stata ferita alla testa, ha perso i sensi e non sa chi l’abbia portata al pronto soccorso. Non si ricorda niente, neppure che l’abbia chiamata. Si è risvegliata nel corridoio di un ospedale. Attorno a lei c’erano solo urla, il suo corpo era imbrattato di sangue. Se l’è cavata con dodici punti e un forte mal di testa. L’hanno operata al buio, nel corridoio, con l’aiuto solo di un cellulare per illuminarle la ferita. Altri non hanno avuto la sua stessa fortuna, come l’architetto e collega Jean-Marc Bonfils, che pochi minuti prima dell’esplosione aveva filmato l’incendio del porto in diretta su facebook dal suo appartamento. Beirut oggi piange più di centocinquanta morti, cinquemila feriti, un centinaio di dispersi, 300.000 sfollati, eppure ancora nessuno, al seno del governo, si è mostrato coinvolto nel dramma e pronto né a dimettersi e neppure a venire in aiuto alle vittime. La società civile sta ripulendo la città con le proprie mani. Il presidente Aoun ha aspettato l’arrivo di Macron per recarsi sul posto dell’incidente e dichiarato che non cederà la sovranità del Libano ad altri paesi.

Patiboli e martiri

A prescindere dalle cause dell’esplosione (incidente, terrorismo, Israele), la distruzione di Beirut è il risultato di una cattiva gestione interna degli affari pubblici. Ora che stanno arrivando gli aiuti e le donazioni, il popolo teme che i politici si accaparrarono i resti, così come hanno già fatto con i fondi di aiuto giunti nel 2006 a seguito della guerra con Israele. Alcuni paesi, del resto, come il Canada e la Svizzera, hanno preferito non far passare i doni tramite il governo, ma aiutare direttamente delle ONG di fiducia. Il popolo, inoltre, non sopporta più di sentirsi dire «coraggio e resilienza». Per strada, su internet, nelle chat, girano ormai vignette di politici decapitati, impiccati, accusati di essere dei criminali. «At this point, it’s not a crime to kill a politician in Lebanon. It’s self defense», è uno dei tanti slogan che si possono trovare su internet. Il popolo è pronto a riprendere la sawra, la rivoluzione iniziata a ottobre scorso. Questa volta però la rivolta non sembra più mossa dalla speranza, ma dalla vendetta. A piazza dei Martiri, simbolo della protesta che da mesi ha luogo in Libano, un patibolo è stato installato come monito delle prossime manifestazioni. Il cappio è ancora vuoto, forse ancora non per tanto tempo.

 

 

Tutte le foto sono di Charbel Haber

 

 

 

 

Coefficienti di difficoltà. Intervista a Valerio Magrelli

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Un’intervista a Valerio Magrelli

di Marco Ceravolo

 

Foto di Gianmaria Gava

 

«Un tempo c’era una distinzione, una capacità critica che oggi è sparita. Quando apro i giornali nazionali, vedo le pubblicità della Feltrinelli e il consiglio “leggete questo libro” è firmato da un comico o addirittura da un lettore; quando compro un libro di poesia e la prefazione è scritta da un conduttore televisivo, vuol dire che la bussola è impazzita. Non esistono più punti di riferimento». Nell’era dei social media, della fine degli esperti e dell’uno vale uno, la critica letteraria non fa eccezione. «Un tempo potevi costruirti una fama di critico e il giornale ti chiamava, ora è il contrario: prendono uno qualsiasi, lo fanno scrivere di libri ed eccolo diventato critico».

 

A parlare è Valerio Magrelli, poeta, scrittore, professore di letteratura francese all’Università di Cassino. Lo incontriamo nel salotto della sua casa romana, a due passi da Piazza del Popolo. Argomento: la fine degli esperti in letteratura.

 

«Attenzione», ci tiene a precisare al riguardo, «nelle riviste, in moltissimi siti, ci stanno fior fior di ragazzi studiosi, critici, come forse non ce n’erano prima. Ma il mercato, grazie alla compiacenza di chi poteva frenarlo, ha voluto confondere tutto. Ecco perché sentiamo il cantautore che si presenta come professore universitario, quando non lo è; ecco perché sentiamo un giudizio critico espresso da un cantante, un romanzo scritto da un attore televisivo, e vediamo in classifica i libri da passatempo (sacrosanto e dignitosissimo), ma spacciati per letteratura».

 

Ce l’ha soprattutto con i critici di professione Magrelli?

 

«Piuttosto, con i non-critici. Ce ne fu uno che diventò famoso perché su un giornale nazionale pubblicò una copertina con il titolo “Giorgio Faletti, il più grande scrittore italiano”. Se scrivi su un giornale nazionale una cosa del genere, sei responsabile di migliaia di ragazzi che, fidandosi dell’autorità del quotidiano, crederanno a una sparata del genere. Non penseranno che magari possa essere un Tabucchi, un Zanzotto; no, Faletti, contro il quale io non ho nulla. È stato un bravo comico, magari avrà scritto un buon libro, ma questo titolo è come il napalm. Distrugge tutto, fa il deserto. Chi perderà più tempo a leggere Gianni Celati?»

 

Secondo Magrelli, è ancora necessario distinguere tra letteratura di ricerca e letteratura di consumo, o meglio, precisa, «fra letteratura di interrogazione e letteratura di intrattenimento».

 

«Per questo parlo di una cultura in dialisi. Questa è l’immagine che ho avuto: la dialisi è quella cura che si mette in opera quando i reni non funzionano più, non filtrano più. Ecco, per me i reni della cultura erano le pagine culturali. Quando propongo un articolo su Céline, e mi dicono che andrà nella pagina successiva perché nella prima c’è un’intervista a Ombretta Colli, vuol dire che i reni sono da buttare. Ombretta Colli che sta nella prima pagina di uno dei più importanti giornali culturali è come una bandiera bianca. Ci arrendiamo. È finita. In Italia io ho visto tutto ciò dall’inizio. Ricordo il “responsabile” (lo dico scherzando): Antonio Ghirelli. Un giornalista che scrisse del calcio come cultura. L’imbroglio era nato».

 

Per l’autore degli Esercizi di tiptologia (Mondadori, 1992) tutto dipende da cosa si intende per cultura. L’equivoco nasce da qui.

«Una cosa è la cultura in senso antropologico, lì possiamo parlare del seppellimento dei morti, delle feci o del modo di cucinare (è cultura in senso lato); altro è parlare di cultura in senso stretto. Lo scambio tra queste due sfere ha fatto sì che adesso i rettori diano la laurea honoris causa a sarti, cuochi e motociclisti. Mi spiace, su questo non transigo. Detesto la celebrazione dell’ordinario. Tu non puoi fare un corso sulla Storia della televisione e metterlo sullo stesso piano di un corso sulla Storia dell’Illuminismo».

 

Per Magrelli il discusso Nobel per la letteratura a Bob Dylan è l’esempio paradigmatico di questo cortocircuito.

«Non c’è niente da fare, non è dietrologia, io vedo da vent’anni in qua, un sistematico attacco portato contro la scuola pubblica e contro il concetto di cultura come pensiero critico. Adesso l’alternanza scuola-lavoro è il colpo di grazia. Certo, esiste ancora chi legge i classici. Io vedo dei ragazzi preparatissimi, per fortuna. Ma questi sforzi sono offuscati dalla glorificazione dell’esistente. Ricordo, ebbi una lite violenta perché a una seduta di laurea uno studente aveva portato una tesi triennale su Amleto e un altro sulle parole di De André. Al momento della valutazione, volevano dare il massimo a tutt’e due. Io dissi: “Passerete sul mio corpo: non sia mai che un testo di tale complessità venga messo sullo stesso piano delle parole (si badi: non “parole e musica”) di De André”».

 

Secondo il poeta non è questione di alto o basso, ma di coefficiente di difficoltà.

 

«Come nei tuffi: tu mi fai un tuffo a bomba impeccabile, l’altro mi fa un triplo carpiato. Ecco, le parole di De André (attenzione, ripeto, non parlo della musica) sono un tuffo a bomba. È fatto bene, certo, ma ammetterete che comunque ci voleva meno che scrivere l’Amleto. O no? Andando via, domandai: “Alla magistrale, tesi sui Fratelli Righeira?” (che peraltro hanno scritto canzoni di rara intelligenza, vedi L’estate sta finendo)».

 

E se dovesse essere Valerio Magrelli a consigliare ai lettori  degli autori italiani contemporanei di qualità, chi sceglierebbe?

 

«Nella narrativa, che in realtà seguo poco, ho letto recentemente uno dei primi romanzi di Michele Mari. Ho visto degli spettacoli teatrali di Vitaliano Trevisan, molto belli. Mi piacciono Michela Murgia o Mauro Covacich. Ma è difficilissimo immaginare quello che può interessare al pubblico. Per me è una sfida impossibile, mi sono arreso. Nel 2010 scrissi Addio al calcio, in cui credevo molto: andò malissimo. Mi dissi: a questo punto scrivo un libro che potremo leggere solo io e mia sorella, e scelgo pure un titolo insolito, Geologia di un padre; me ne frego di tutto. Inutile dire che è il mio volume andato meglio. Anche con i miei figli era lo stesso: quando erano piccoli mi divertivo a consigliare loro dei libri e li sbagliavo tutti. Indovinare è impossibile. Una volta, ad esempio, mia figlia liceale prende dalla mia scrivania Finzioni di Borges, un testo difficilissimo. Tempo dopo mi dice: “Era questo che mi dovevi far leggere, non gli altri”. Oppure mio figlio con Lolita di Nabokov. Mi disse: “Ma perché mi hai consigliato tante stupidaggini al posto di questo?”».

 

[Una prima versione di questa intervista è uscita originariamente su Pagina99]

Hong Kong è una nevrosi

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Il distretto centrale di notte (HSBC Building)
La polizia disperde un gruppo di giornalisti e manifestanti a Wan Chai il 24 Maggio 2020

 

di ⇨ Alessandro Malaterra 
 

La Francia, in altri tempi, era il nome di un paese; attenzione che non diventi, nel 1961, il nome di una nevrosi.
Jean-Paul Sartre, prefazione a I dannati della terra di Frantz Fanon.

I. Piacere (principio di) – Agosto 2017

Mi piacerebbe poter dire che la mia nevrosi sia iniziata con la morte di mio padre, come quella di Giuseppe Berto; ma in verità è cominciata quando mi sono trasferito a Hong Kong, cioè quando è venuto meno il principio di realtà. Morte del principio di realtà che era sempre una morte del padre, ma non quella vera che tutti prima o poi proviamo, ma quella anelata dal me bambino, che sognava un mondo impossibile in cui niente potesse mettere limiti al piacere.
E’ difficile descrivere la vertigine di arrivare a Hong Kong per la prima volta a chi non l’ha provata. Zhang Ailing l’ha fatto così: in una città fatta di tali iperboli, perfino una caviglia lussata avrebbe fatto più male che in altri posti. Era un’altra Hong Kong, certo, quella del 1940, un anno prima che cadessero le bombe giapponesi. Ma la città era allora come oggi un luogo straordinario, al centro dei traffici tra Cina e Occidente.

Natura a Hong Kong (Sai Kung)

Hong Kong stessa sembrava partecipare a quel senso di licenziosità che provavo. Mi bastava uscire appena dal centro per incontrare una natura opulenta che non avevo mai visto: le foglie verde smeraldo, le spiagge tropicali, il mare blu. Tornando, trovavo ad attendermi l’altrettanto ostentata ricchezza della città, con le sue centinaia di boutique di lusso nei centri commerciali e nelle vetrine del centro. Uccelli dai colori sgargianti sfrecciavano nei parchi e tra i grattacieli. La durata interminabile della bella stagione mi aveva liberato dalla tirannide del tempo, e dalla paura di sprecarlo.

Insomma il principio di realtà, cioè il padre, si era dissolto come in una fantasia infantile. A 9000 Km da quella che era stata la realtà, le conseguenze apparivano un problema del passato. Del flusso impressionante dei capitali che dai paesi sviluppati fluiscono verso le aziende cinesi quotate a Hong Kong, 35 miliardi di dollari solo nell’ultimo anno, le briciole che iniziavano a cadere nelle mie tasche erano sufficienti per permettermi tutto quello che desideravo. Tutto sembrava possibile.

Non avevo ritenuto importante informarmi nel dettaglio sul sistema politico di Hong Kong quando avevo deciso di trasferirmi: altri aspetti come la tassazione minima, la facilità di trovare cibo occidentale e la qualità delle discoteche erano stati in cima ai miei pensieri.
Solo dopo alcuni mesi che mi trovavo qui ho iniziato a capirci qualcosa: dopo la restituzione di Hong Kong alla Repubblica Popolare Cinese, avvenuta nel 1997, Hong Kong si è dotata di una Basic Law che funge da costituzione, pur non chiamandosi tale. L’interpretazione di questa “mini-costituzione”, in ogni caso, spetta al Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo, un organo della Cina continentale.
Uno dei fattori che ha permesso l’afflusso di capitali a Hong Kong è la presenza del sistema di Common Law ereditato dalla dominazione coloniale inglese, a cui si aggiunge un potere giudiziario indipendente; ma che, come si è detto, è obbligato a rimettersi a Pechino per l’interpretazione ultima delle leggi.
Il potere legislativo è svolto dal Parlamento, i cui componenti sono per metà eletti direttamente dai residenti e per l’altra metà nominati da delle Functional Consituencies, che dovrebbro rappresentare i vari settori dell’economia della città e sono per lo più sotto il controllo di Pechino. Alle ultime elezioni legislative, quelle del 2016, i partiti di opposizione hanno conseguito la maggioranza del voto popolare, ma risultano in minoranza in parlamento a causa delle Functional Constituencies e della squalifica di diversi parlamentari, accusati di non aver prestato correttamente il giuramento di fedeltà al governo centrale cinese.
Il Capo dell’Esecutivo è una figura ispirata al modello dei paesi democratici, ma è nominata da un concilio ristretto di 1200 persone (di fatto, è scelta da Pechino). Il trattato tra Cina e Regno Unito sulla cessione di Hong Kong prevede un progressivo allargamento della base elettorale fino ad arrivare al suffragio universale, accordo che la Cina non sembra avere intenzione di rispettare e che ha costituito la miccia per le proteste infruttuose di Occupy Central nel 2014.

Manifesto di propaganda appeso a Wan Chai

Il sistema prevede dunque la separazione dei poteri, in maniera non dissimile a quello delle democrazie liberali a cui è ispirato; già allora notavo, però, una certa contraddizione logica tra la separazione dei poteri delle istituzioni di Hong Kong e la nozione che la sovranità ultima del territorio spettasse alla Repubblica Popolare Cinese, dove la separazione dei poteri certo non esiste.
Era interessante anche osservare le frizioni di un sistema politico ispirato alle democrazie, ma in cui l’unica elezione davvero democratica che si svolge è quella per il ramo più basso del potere amministrativo, cioè per i District Councilors, quasi privi di poteri reali.

Di fronte a tante contraddizioni nella sfera pubblica e nella mia sfera privata ho sentito il bisogno di avere un punto fermo nella mia vita: è per questo che dopo qualche mese a Hong Kong ho iniziato una relazione con Amy. E’ chiaro, non ho smesso di vedere altre donne: solo, ho iniziato a farlo di nascosto, e con ancora più attenzione a che sparissero poco dopo avermi dato quello che volevo. Ho scoperto così di poter rimuovere dalla mia coscienza i fugaci incontri con altre donne, e dissociare la personalità del libertino da quella del fidanzato devoto.

Nulla è reale, tutto è permesso, frase che piaceva a Nietzsche. Si dice che sia stata pronunciata sul letto di morte dal Vecchio della montagna (ancora il padre?), il capo della setta degli Assassini. Ed è qui che la morte fa capolino per la prima volta nella mia storia.

II. Morte (e rimozione) – Settembre 2019

Il pensiero della morte rappresenta l’esempio per eccellenza di quella che gli psicoanalisti chiamano rimozione; se credessimo davvero alla nostra mortalità non sprecheremmo di certo il nostro tempo cazzeggiando al cellulare – così ho scherzato con Amy.
Difficile credere alla morte di fronte al cielo azzurro di maggio, durante una gita in barca vicino Sai Kung. Getterei via l’amore di una donna in questa maniera, se credessi alla morte? Accetterei di vivere così, nella dissociazione?
O è l’unico modo in cui si può vivere?

Chi vive esteticamente non può dare della sua vita nessuna spiegazione soddisfacente, perché egli vive sempre e solo nel momento, e ha una coscienza soltanto relativa e limitata di se stesso. […] l’esteta non possiede liberamente il suo spirito, manca di limpidezza.
Chi vive esteticamente infatti cerca per quanto possibile di perdersi nello stato d’animo, cerca di avvolgersi completamente in esso, finché in lui non rimanga nulla che non ne possa venir assorbito, perché un simile residuo ha sempre un effetto perturbatore, che distoglie dal godimento. […] Chi vive eticamente ha […] memoria per la sua vita, chi invece vive esteticamente non l’ha affatto.

Mi sono segnato queste frasi di Kierkegaard, medico attento nella diagnosi del mio male. Ma quale sarebbe la cura? La scelta etica, che passa per la disperazione, appare poco allettante: sospetto che a conti fatti sia solo un modo di venire a patti con l’aver sublimato tutti i propri desideri in delle blande, monotone, piccole soddisfazioni. La scelta religiosa – men che meno, un secolo dopo la morte di Dio. Forse è per sfuggire a questa libertà di scelta che alcuni si rifugiano tra le braccia di governi autoritari come quello cinese.

La morte di mio padre – quella vera, infine – che è avvenuta qualche mese dopo al mio arrivo, ha sferrato il colpo definitivo ai concetti di realtà, temporalità, conseguenza. Innanzitutto mio padre continua a esistere, pur essendo senza dubbio morto: si palesa nei sogni, nelle foto dimenticate, nella lunghissima cronologia dei messaggi. Ancora mi appunto le cose da dirgli la prossima volta che lo vedrò; se dovesse apparirmi davanti in questo momento, giuro, non avrei il minimo moto di sorpresa.
Questa tragica circostanza, inoltre, ha fornito una scusa provvidenziale alla mia dissociazione: non è più un difetto nella mia tempra morale che mi porta a disperdere la mia personalità in mille rivoli contraddittori (e tradire crudelmente la persona che professo di amare), ma è il trauma del lutto; che io veda la realtà come un insieme di istanti non consequenziali, spettrali partite di videogames da cui entrare e uscire in qualsiasi momento, non è da attribuirsi alla nevrosi, ma al dolore. Poco importa che abbia iniziato a comportarmi in questo modo ben prima della morte di mio padre: cause e conseguenze sono concetti che ho rigettato da tempo; la realtà oggettiva è ormai del tutto degradata.

Il 4 giugno 2019 Amy e io siamo andati alla commemorazione annuale del massacro di Tienanmen. Una donna ha pronunciato un discorso appassionato dal palco che ha strappato gli applausi di centinaia di migliaia di persone, scagliandosi contro il progetto del governo di rendere legale l’estradizione di Hong Kong verso il resto della Cina.
Ecco un’altra contraddizione: è assurdo che non sia prevista l’estradizione tra due regioni dello stesso stato, ma allo stesso tempo collaborare con i tribunali sommari della Cina continentale manderebbe in crisi il sistema legale liberale di Hong Kong – per aggirare le garanzie previste a tutela di un imputato basterebbe portarlo appena oltre il confine regionale, a Shenzhen.
Le prime oceaniche marce contro la legge sono state esperienze gioiose ed elettrizzanti. Mettermi in gioco per un ideale mi liberava dallo stato nevrotico e nichilista in cui ero precipitato: mi sentivo parte di una massa coraggiosa e ottimista, sentivo che si stava facendo la storia, sentivo la forza del popolo unito di fronte a cui il regime avrebbe potuto solo capitolare…
C’erano anche tensione e paura, certo, ma eravamo convinti che la vittoria finale non avrebbe potuto mancare, che l’energia di due milioni di manifestanti non avrebbe potuto essere fermata da nulla, men che meno da lacrimogeni e manganelli. A una delle prime manifestazioni ci siamo trovati dietro le barricate, protetti da degli elmetti da cantiere raccolti da terra, senza altra arma che le nostre buone intenzioni – questo rende l’idea dell’illusione e l’incoscienza di quei giorni.

La doccia fredda non ha tardato: il governo non ha ceduto un centimetro, seguendo lo stereotipo che vede un cinese disposto a tutto pur di non perdere la faccia. E’ iniziata la repressione: il momento di svolta è stato l’⇨ attacco di Yuen Long, in cui criminali armati di bastoni hanno massacrato di botte manifestanti e passanti indifesi nell’indifferenza soddisfatta della polizia (ancora oggi, solo sette dei circa cento aggressori sono stati incriminati). Erano le Triadi, la mafia locale: agguati del genere appartenevano per me solo alla storia e ai libri, a Furore di Steinbeck o a Fontamara di Silone. Nella mia ingenuità, non riuscivo a credere che un governo potesse avere la faccia tosta di organizzare un atto di ingiustizia così trasparente nel 2019, davanti alle telecamere dei media globali.
Gli scontri si moltiplicavano fino a diventare una costante, gli arresti erano sempre più comuni, oltre che più gratuiti e più violenti. Anche giornalisti e paramedici iniziavano a essere presi di mira dalla polizia. Le manifestazioni erano ormai proibite, così che solo scendere in piazza esponeva al rischio di detenzione arbitraria. Erano ancora più agghiaccianti i resoconti di torture e molestie che iniziavano a circolare, ritenuti credibili da organizzazioni non governative come Amnesty International. La foto in homepage sul South China Morning Post ritraeva un uomo in carrozzina che avevo notato fin dalle prime manifestazioni, mentre soffocava nel fumo dei lacrimogeni a cui non poteva sfuggire.

Ma nello stesso tempo il suo cuore si rallegrava dell’avventura in cui il mondo stava per incappare. Perché alla passione, come al delitto, non s’addice l’ordine stabilito e il benessere normale, e ogni tentennamento della compagine civile, ogni turbamento e flagello del mondo le torna gradito.
Così descrive Thomas Mann la reazione di Aschenbach al diffondersi del colera e dei disordini, ne La morte a Venezia (non per caso a Venezia, città per Mann esotica e sensuale; il furore dionisiaco di Aschenbach non sarebbe scoppiato a Monaco o a Vienna, e questa nevrosi non si sarebbe impossessata di me a Roma o a Londra). Così mi sono sentito io di fronte alle scene sempre più caotiche di Hong Kong in fiamme: il malato prova una cupa soddisfazione a vedere anche il mondo cadere malato.

Le contraddizioni del sistema venivano alla luce, così che nessuno potesse più ignorarle o far finta di non vederle. Ero contento di assistere al collasso di un sistema partitico dove i ruoli sono fissi, senza possibilità di alternanza al governo.
Così, la funzione che i partiti di opposizione svolgono all’interno del sistema è quella di sparring partner: ora capro espiatorio da additare all’opinione pubblica della Cina continentale, ora foglia di fico da indicare all’opinione pubblica in Occidente.
Le contraddizioni del sistema spesso restano sommerse; rimosse, si potrebbe dire. Basterebbe rivolgere lo sguardo nella direzione giusta per vederle, ma in pochi lo fanno. Frantz Fanon nota che solo la lotta mette in luce le contraddizioni camuffate della realtà coloniale. In effetti, ci sono volute le manifestazioni e la repressione violenta per costringere il mondo a guardare.
Lottare contro un sistema nevrotico porta alla nevrosi, come fosse un contagio. Le questioni irrisolte si annidano nel profondo, per quanto riguarda sia i fini che i mezzi della lotta di liberazione. La violenza è da considerarsi parte dei mezzi disponibili a un movimento che era nato pacifico? E se l’obiettivo è la libertà di chi vive a Hong Kong, l’indipendenza è un modo legittimo per assicurarla? Le domande restano irrisolte, le risposte ambigue; anche perché questioni simili non si possono discutere apertamente per legge – sono a tutti gli effetti rimosse dal discorso pubblico.

L’ambiguità principale sta nella natura stessa della lotta e del rapporto tra le forze in campo. Attaccata alla Cina continentale, Hong Kong è imprendibile per una potenza straniera. E’ ancora meno immaginabile uno scenario in cui il popolo di Hong Kong, disarmato, abbia la meglio sulla polizia militarizzata locale e sull’Esercito di Liberazione Popolare cinese. Gli unici strumenti di pressione contro il regime a disposizione dell’opposizione interna e esterna sono quelli che prevedono la distruzione di Hong Kong così come è ora, danneggiando il popolo da liberare molto più del regime che lo opprime: rimozione dei privilegi commerciali concessi dagli Stati Uniti, paralisi economica della città tramite proteste e scioperi. Presto si è imposta tra gli slogan del movimento quella che suonava come una sentenza: se bruceremo, brucerete con noi.

Il movimento di liberazione di Hong Kong ha dovuto fare i conti con l’impossibilità, presto evidente, di raggiungere i propri obiettivi. Implicita la scelta: se Hong Kong non può appartenere al suo popolo, è giusto che sia distrutta affinché non possa appartenere al regime?
Altra scelta: combattere nel sistema, con il rischio di legittimarlo, o contro il sistema? Un appello alla Corte Suprema ha valore, nel momento in cui Pechino può ignorarne le decisioni emettendo una “interpretazione” della legge? Il Parlamento è un luogo dove condurre una battaglia per la democrazia, malgrado solo la metà dei seggi siano eletti dal popolo, e gli altri siano occupati per lo più da teste di legno nominate di fatto da Pechino? O è il palazzo di un potere tirannico e illegittimo, pieno di inutili cianfrusaglie da sfasciare, come è accaduto il 1 luglio 2019?
Se Pechino può cambiare il sistema a suo piacimento e senza contraddittorio, vincere una battaglia all’interno del sistema serve a qualcosa di più che costringere il regime a gettare la maschera, e diventare più apertamente autoritario?

Ricostruire la storia clinica della nevrosi chiamata Hong Kong non è scontato. Hong Kong non è mai stata una democrazia: il “gioiello della Corona” inglese era nient’altro che un possedimento coloniale, una preda di guerra. Per la mancanza di democrazia e libertà si può incolpare sia la Cina autoritaria che la dominazione coloniale del Regno Unito democratico, da cui la Cina ha ereditato molte strutture di potere: una su tutte, la polizia, che negli anni 60 ha represso con successo le rivolte marxiste e le spinte decolonizzanti. Anche il potere di emettere leggi senza passare per il parlamento, che il Capo dell’Esecutivo Carrie Lam si è attribuita nel settembre 2019, viene dall’ordinamento coloniale inglese.

Più facile è abbozzare una diagnosi, per quanto poco scientifica: la dissociazione è una forma di difesa dell’ego che prevede la separazione o il ritardo dell’emozione che di norma accompagnerebbe la situazione presente. Molti a Hong Kong ammettono di vivere nella negazione, ignorando l’avvicinarsi inesorabile del 2047, anno in cui è prevista l’integrazione della città al sistema del resto della Cina.

La nevrosi non affligge solo i residenti di Hong Kong, ma anche gli osservatori esterni. Al picco delle proteste, la pubblicazione di regime ⇨ Xinhua ha avuto buon gioco a notare che nel 2018 lo ⇨ Human Freedom Index, pubblicato dal Fraser Institute, collocava Hong Kong al terzo posto al mondo per “libertà umana”, dietro solo a Nuova Zelanda e Svizzera, e al di sopra della gran parte dei paesi democratici. Il Fraser Institute è un importante think tank canadese: come spiegarsi che abbia preso un l’abbaglio tale da giudicare che gli abitanti di Hong Kong fossero tra i più liberi del mondo, malgrado Pechino avesse già rifiutato di concedere elezioni democratiche, malgrado Hong Kong sia, in ultima analisi, la regione amministrativa speciale di uno stato dispotico?
Un’altra classifica, quella dell’⇨ Economist Intelligence Unit, classifica Hong Kong come “democrazia imperfetta”, così come gli USA o l’Italia. Come si può considerare una democrazia, sia pure imperfetta, un territorio in cui i partiti di opposizione non hanno mai potuto vincere le elezioni, pur ottenendo la maggioranza dei voti popolari?
Si sarebbe tentati di attribuire queste valutazioni senza senso al desiderio delle istituzioni “neoliberiste” di continuare a fare affari con il regime cinese, nascondendo sotto il tappeto gli aspetti sgradevoli così come si mette il cerone a un cadavere. Ma la stessa pubblicazione del Fraser Institute emette una dura condanna del regime già nell’introduzione. Anche l’Economist Intelligence Unit identifica la Cina come uno stato autoritario. Queste valutazioni incoerenti dei think tank occidentali rappresentano più che banali ingenuità o menzogne: considerarle frutto di interesse o ignoranza non permette di coglierne il carattere – appunto – nevrotico, dissociato.

L’Occidente ha bisogno di credere che Hong Kong sia libera; innanzitutto per giustificarsi di averla abbandonata nelle mani di una dittatura senza consultare il suo popolo. Ma anche per crogiolarsi nell’illusione della fine della storia, immaginando la Cina intera lungo un percorso inevitabile di democratizzazione (e liberalizzazione dell’economia) che la porterebbe ad assomigliare sempre di più a Hong Kong, e per estensione, all’Occidente. Riconoscere che Hong Kong non sia avviata lungo la via della libertà, e che men che meno lo sia la Cina continentale, significa distruggere il sogno dell’Occidente, la nostra pretesa di essere il culmine di un processo storico inarrestabile verso il progresso. La dissociazione come forma di difesa dell’ego, appunto, difesa dai sensi di colpa e dai dubbi su se stessi.

Nevrotico è stato l’intero approccio dell’Occidente all’ascesa della Cina. La dissociazione è stata istituzionalizzata attraverso quella che Shaun Breslin ha chiamato ⇨ privatizzazione della politica estera, in cui obiettivi di politica estera dello stato vengono perseguiti da istituzioni private, come aziende, missioni commerciali e organizzazioni non governative; lo stato, al contempo, si defila. I singoli obiettivi di politica estera possono così essere perseguiti senza bisogno di guardare il quadro generale, e soprattutto rimuovendo gli elementi più sgradevoli. Un ministro degli esteri, soggetto alla pressione dell’opinione pubblica, può trovare difficile ignorare l’arresto illegale di un libraio per un reato di opinione; la delegazione di un consorzio commerciale può farlo senza problemi.

III. Lo strappo – Luglio 2020

Gli strappi tendono a verificarsi sulle linee di faglia. Hong Kong sta sulla frontiera tra le due superpotenze US e Cina; ma anche su un’altra linea di faglia globale, quella tra i popoli e le élites nevrotiche che dal popolo traggono la legittimazione del loro potere, ma che sopportano sempre meno l’imprevedibilità del popolo e gli ostacoli che il processo democratico pone alla “buona” amministrazione tecnocratica. Elites che hanno guardato con simpatia ai successi della Cina in campo economico; élites che – non avendo il coraggio di proporre direttamente il modello autoritario cinese – ⇨ hanno indicato negli anni passati i sistemi più soft di Singapore e Hong Kong come una possibile strada da seguire affinché l’eccesso di democrazia non arresti il progresso. Eccolo qui il vostro progresso post-democratico, penso con soddisfazione; eccolo andare in fiamme sotto le molotov dei giovani militanti per la democrazia.
L’incendio si espande così oltre Hong Kong e le fiamme avvolgono Minneapolis, New York, Los Angeles. La reazione repressiva delle istituzioni democratiche degli Stati Uniti non è troppo diversa da quella di Hong Kong. La retorica di Washington ricalca quella di Hong Kong e Pechino: i manifestanti sono accusati di essere terroristi, definizione illogica e contraria a ogni evidenza, ma che può essere utilizzata per giustificare la repressione poliziesca della comunità intera. Ai poliziotti è lasciata carta bianca, garantita l’immunità; l’habeas corpus è sospeso senza particolari remore.

La tempistica degli strappi è sempre imprevedibile: una comune esperienza di chi ha a che fare con un sistema nevrotico è quella di scoprire quanto a lungo una situazione insostenibile possa essere sostenuta. Così, quando finalmente si arriva allo strappo, si viene presi in controtempo.
La Legge di Sicurezza nazionale imposta da Pechino, senza passare per le istituzioni locali, ha preso di sorpresa anche gli osservatori più pessimisti. Persino il Capo dell’Esecutivo ha dovuto ammettere di essere stata tagliata fuori dal processo, di non aver potuto leggere il testo della legge prima che fosse promulgata. Una legge così platealmente autoritaria ha costretto il mondo e i residenti di Hong Kong stessi a guardare con lucidità l’inconsistenza delle garanzie promesse da Pechino, e delle pretese libertà di cui si godrebbe in questa Regione amministrativa speciale della Cina.
Dal primo luglio, data di entrata in vigore della nuova legge (e anniversario della cessione di Hong Kong alla Cina), è cambiato tutto. Alcuni attivisti, come ⇨ Nathan Law, hanno trovato rifugio all’estero per sfuggire alle persecuzioni.
D’altra parte, la guarigione dalla nevrosi non consiste forse nell’adattarsi all’ambiente sociale che circonda l’individuo? Non resta che aspettare qualche anno per vedere Hong Kong, rimossi gli elementi più indesiderati, adattarsi al sistema senza libertà del resto della Cina.

Il distretto centrale di notte (HSBC Building)

[ le immagini sono dell’autore dell’articolo ]

Due pezzi

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di Davide Orecchio

[7 maggio 2020, Facebook]

Miei cari,
da quando siete partiti il mondo è cambiato. Riuscite a immaginare da dove vi scrivo? A quale mezzo affido il mio messaggio per voi? Non adopero una delle vostre Olivetti. Nelle vostre vite pestavate sui tasti. Col ricorso a tappeti di feltro pensavate di attutire i colpi sulle macchine calde, e di non disturbarmi. Ma esattamente così non andava. Vi sentivo.

Le Olivetti non si usano più, né i primordiali personal computer che avete fatto in tempo a vedere (e sgranavate gli occhi). Insomma da dove vi scrivo? Da una bacheca sociale. E digitale. È un luogo promiscuo nel quale altri possono leggere il mio messaggio per voi, che diventa lettera aperta agli affetti. Questi “altri”, dei quali io stesso faccio parte, sono nomi e personalità senza corpo, parole pure che si raccolgono nello spazio virtuale dove ora voi mi leggete. Questo è il mio luogo, seppure anche io debba usare una tastiera e l’alfabeto che già conoscete, e vi scriva dalla casa che molto tempo fa avete lasciato, da qui, proprio da qui, non sorprendetevi, dove resto sigillato ormai da due mesi, perché è scoppiata un’epidemia e mi è proibito di uscire.

Immagino il vostro stupore. Un’epidemia. Una pandemia. È arrivata morte collettiva nella mia vita. Pericolo di tutti. Fervore e solitudine. Potete comprendermi? Tu puoi comprendermi, che nascesti nel ‘15 e combattesti tre guerre? Anche tu puoi comprendermi, venuta al mondo nel ‘39, quando veniva al mondo l’ultima guerra?

Vi prego, nessuna preoccupazione per me, niente soprappensieri. Siccome vado scomparendo, io sto bene. Questo volevo farvi sapere in lettera aperta. Mi allontano e sto bene. Appassisco e sto bene. Non potreste immaginare il ragazzo che non sono più. Ricorderete forse il ragazzo chino sui libri di storia, e appassionato. Prima di partire, il vostro preoccupato pronostico fu per una vita di studio. Si avverò per un poco. La tua partenza era calda, quando andai a Milano per il dottorato, la tua partenza mi distraeva nella grande aula, chiamato a esporre progetti per la commissione professorale, e invece pensavo alla gonna e al cappotto nei quali eri partita, alle calze di nylon per sempre. Pensa che ora non si può andare a Milano, né in treno, né in macchina o aereo, e nemmeno a piedi.

Pensa che ora la mia vita non ha corrisposto al vostro pronostico. Ho scelto una vita diversa. Ho cercato il più a lungo possibile di non prendere ordini. Odio gli ordini. Odio i comandi. Dalla tua partenza, avevo 26 anni, bado a me stesso. Ho fatto la spesa, ho risolto questioni pratiche. Sono fiero di aver badato a me stesso. Ma ho iniziato troppo presto, e in quel modo, senza ultime istanze, senza gradi di appello, dovendo badare a me stesso o morire, mi sono trasformato in un maturo bambino, improvvisamente adulto, fragile durevolmente.

Ma questo volevo dirvi: non importa e me la sono cavata. Scomparendo sento di rilassarmi, come se bevessi whisky in faccia alla storia. Svuoto il mio calice e non sopravvaluto il dovere di vivere. In stato di ebbrezza, sottovalutare si può. Peccato solo che non abbiate letto i miei libri. Qualche racconto, un paio di romanzi. Mi avrebbe fatto piacere mostrarveli. Ma se voi non foste partiti così presto, io non avrei scritto quei libri e non avrei potuto mostrarveli. Insomma che complicazione le cause e gli effetti.

Mi accorgo che voi siete per me la preistoria, e che io sono per voi fantascienza. Tranquilli: eccettuate epidemia e tecnologia, conservo fattezze umane, mi copro con vestiti pesanti nell’inverno più rapido e adopero le stoffe leggere di sempre nelle lunghe stagioni del caldo.

Mi sognate? Io vi ho sognati. È ovvio che ci siamo sognati. Tengo per me il racconto onirico vostro, preferisco non spogliarmi, restare negli abiti davanti a voi. Venite a trovarmi nei sogni, io vi raggiungo nei vostri. Il racconto è superfluo.

Per la festa del partigiano ho messo alla serranda una bandiera tricolore. Perdonami: tu mettevi bandiere rosse. Ma ho aggiunto un fazzoletto rosso, ricordo molecolare di te. Poi, ogni sera, cucino in casa con la mia compagna, un’estranea per voi mi dispiace. I ristoranti sono ancora chiusi. Teatri e cinema anche. Ma noi abbiamo due ore di serenità, mentre si prepara e apparecchia la tavola, e poi quando si cena. Beviamo vino e parliamo.

Ecco, questo volevo farvi sapere, laggiù dove siete finiti: che beviamo vino e parliamo ogni sera, che beviamo vino e ridiamo. Quindi va tutto bene, per un poco ancora.

Spero che anche voi condividiate la mia serenità. Ricordatevi di me come io vi ricordo, e ogni tanto mandate notizie.

Con affetto, d.

Dedicato a Frederika Randall

***

Da quando ero giovane e fino a poco tempo fa ho bestemmiato. Sfogavo certe rabbie quotidiane o perenni nella bestemmia. Ero spaventosa e ridicola, aggredivo un Dio che non conoscevo e non avevo mai frequentato ma che incolpavo, forse priva di altri da biasimare. Io non battezzata e analfabeta di qualsiasi chiesa, la mia bestemmia era un gesto di pura violenza e irresponsabilità, poiché nulla dovevo a Dio e viceversa. Poi ho deciso di smettere. Non bestemmio più. Mi pare di essere più calma. Più ferma e vecchia ma comunque migliore. O forse sono solo spaventata. Nei primi tempi dalla decisione, se ricadevo per abitudine o riflesso in una bestemmia mi colpivo con un pugno sulle tempie così dal dissuadere col dolore il mio istinto e la voce. Poi non ce n’è stato più bisogno. Avevo imparato a non bestemmiare. Ieri però mi ha preso un rimorso come se avessi bestemmiato di recente senza essermi punita col pugno, e fossi quindi in difetto. Ma non riuscivo a ricordare in quale momento avessi bestemmiato esattamente. Ero confusa. Alla fine ho capito. Avevo sognato. Avevo bestemmiato in sogno con la stessa ferocia del tempo reale passato. Bestemmiare in sogno è grave come nella vita reale? O valgono le regole del sogno dove tutto è lecito perché non avviene? In sogno la bestemmia pronunciata avviene o no? Non ricordo se in quel sogno dopo la bestemmia mi fossi data un pugno. Mi sembra di sì ma non ne sono sicura. Spero di averlo fatto perché sarebbe impossibile tornare nel sogno e colpirmi, quindi resterei impune per sempre.

(immagine tratta da Pexels)

Il club dei bugiardi

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di Gianni Biondillo

Mary Karr, Il club dei bugiardi, edizioni e/o, 2017, 413 pagine, traduzione Claudia Lionetti

L’intera opera di Mary Karr sembra dimostrare la semplicistica teoria di ogni scrittore improvvisato: ognuno ha una storia necessaria, urgente, da raccontare. La propria. Certo, si potrebbe replicare: bisogna aver vissuto una vita interessante. E quella raccontata in questo memoir, Il club dei bugiardi, lo è: una famiglia scombinata, un padre operaio contaballe e rissoso, una madre da un passato sconosciuto e un presente fatto di alcolismo e depressione, uno scenario desolato (Leechfield, cittadina petrolifera di indicibile squallore), un’infanzia difficile, fatta di abusi sessuali, risse, pregiudizi, con unico baluardo di fronte alle difficoltà quotidiane Lecia, la sorella di soli due anni più grande.

Eppure neppure questo basterebbe. Conosco persone che hanno vissuto vite altrettanto complicate, se non addirittura più estreme, devastanti. La stessa Mary Karr, dopo il successo incredibile avuto alla pubblicazione di questo libro, racconta delle centinaia di lettere ricevute che mettono a nudo storie altrettanto al limite. L’autrice, in realtà, con questo libro magistrale dimostra che è sempre e comunque la scrittura che fa la differenza, con, in più, il particolare dono di una memoria elefantiaca: ricorda tutto della sua infanzia, non solo le situazioni, ma persino i particolari più marginali. Leggendo ci si immerge nella vita di quella bambina, si fa esperienza degli odori, i sapori, i colori. Karr scrive con onestà ammirevole, non nega nulla, nulla nasconde: anche le piccinerie, le vigliaccherie, i capricci. E, cosciente che anche una memoria così solida può fallire, non nega a chi legge i buchi, i vuoti del suo passato, disegnando nel complesso un ritratto di traboccante umanità.

Insomma, non basta avere una storia da raccontare per farlo. Occorre avere un (grande) scrittore.

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(precedentemente pubblicato su Cooperazione, numero 5 del 30 gennaio 2018)

Marilina Ciaco: Intermezzo e altre sinapsi

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Copertina del sesto Cervo Volante: Intermezzo e altre sinapsi

 

«Ripensarsi come sistema semi-aperto / ridimensionare il ciclo delle verifiche / inserire, fra le strategie e gli atti, uno scarto» scrive Marilina Ciaco in Intermezzo e altre sinapsi. Forse proprio in questo scarto s’instaura quel vuoto tenace che è il vero luogo dei possibili, e anche il senso di una collana di scritture poetiche che a ogni nuovo titolo aggiunge un ulteriore vacillamento nel disegno d’insieme.  

Per questo motivo ho scelto di ospitare Intermezzo e altre sinapsi nei Cervi Volanti, che curo insieme a Giuditta Chiaraluce all’interno del progetto Edizioni Volatili. Dicevamo in un precedente appunto: libri come laboratori, primi confronti, materie pensanti, montaggi e scavi attraverso la carta; libri senza profitto, in tiratura limitata (esoeditoria), evidenti nella loro invisibilità e indirizzati a chi saprà ospitarne l’implicita consegna; libri sfollati, col solo intento di essere vigilie per una geografia del dopo-diluvio.

Pubblico qui alcune pagine in anteprima da Intermezzo e altre sinapsi, insieme a una nota tratta dalla sezione del libro realizzata per il Museo per la Memoria di UsticaLe partiture visive e i segnalibri sono sempre di Giuditta Chiaraluce.

 

 

 

 

All’interno del Museo per la Memoria di Ustica a Bologna è conservato il relitto del DC9 abbattuto il 27 giugno 1980. L’installazione di Christian Boltanski ha previsto che il relitto del DC9 fosse circondato da 81 specchi neri collegati a 81 altoparlanti. Dal soffitto pendono 81 luci, le luci si accendono e si spengono – 81 sono le vittime della strage. L’esperienza della morte è il non immaginabile. Una morte collettiva che si direbbe accidentale e inaspettata ci rende partecipi di una tragedia che fino a un istante prima non ci apparteneva. Gli altoparlanti emettono voci confuse, le ultime frasi pronunciate al telefono, la prosa quotidiana di ciascuno. Gli specchi riflettono l’immagine del visitatore, ma opaca, appiattita dalla lastra scura, si perde il contorno che distingue figura e sfondo. Alcuni oggetti appartenuti alle vittime sono stati prelevati dal mare e riposti in 9 casse.

 

 

Marilina Ciaco è nata nel 1993 a Potenza. È dottoranda di ricerca in Literature and Transmedia Studies presso l’Università IULM di Milano, città dove attualmente vive. È stata selezionata come autrice emergente per l’edizione 2017 di RicercaBo e alcuni suoi testi hanno ricevuto segnalazioni in diversi concorsi letterari tra cui il Premio Lorenzo Montano. Nel 2018 ha partecipato alla performance poetica La notte di San Lorenzo presso il Museo per la Memoria di Ustica (Bologna). È fra i finalisti del Premio Nazionale Elio Pagliarani 2019 per la raccolta inedita Sinapsi.

Scherzi dell’allunaggio

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di Giorgio Mascitelli

questo racconto è apparso sul numero 69, anno 2019, della rivista Sud dedicato all’anniversario dello sbarco sulla Luna,g.m.)

 

Faceva caldo, sì faceva troppo caldo in quel maledetto luglio del 2019 nelle nostre periferie di cemento, nelle giungle d’asfalto che ci ostiniamo a chiamare città come se esse fossero costruite per noi e non noi per loro. Faceva troppo caldo anche per Tristano Corzé, un settantenne che tutto sommato si teneva bene, in situazione pensionistica non brillante ma accettabile, purtroppo però dotato d’un cuore canaglia incline alla nostalgia & sentimentalismo tant’è vero che sua madre, sapendo che lui era così, proprio Tristano l’aveva chiamato, respingendo le insistenze del prete che lo voleva battezzare con un nome più cristiano ( come se Tristano non fosse un nome cristianissimo!). Tutto ciò per amor di cronaca ovviamente. Quanto al resto, resta il fatto che questo maledetto Calore, al pari della Grande Eguagliatrice, è democratico e non distingue tra malinconici ed entusiasti, grandi e piccini, ricchi e poveri, femmine e maschi e quando deve colpire, colpisce. E in quel Luglio colpiva con dovizia feroce, forse a causa dell’effetto serra o della normale canicola, non so, e allora Tristano Corzé prese a passare una parte del pomeriggio nel supermercato vicino a casa: indossava la sua sciarpettina di seta, caro souvenir di giorni più fulgidi, per ripararsi dagli eccessi della climatizzazione, metteva uno yogurt allo zabaglione nel carrello e poi, fingendo di cercare tra gli scaffali altri prodotti, dava qualche quarto d’ora di refrigerio a una vita accaldata non solo per motivi atmosferici. Ma la Direzione dell’esercizio non approvava questo passatempo rinfrescante, soprattutto a fronte di una spesa così contenuta, e glielo comunicò nella maniera più ferma possibile ( poveri cocchi quelli della Direzione non sapevano quanto avrebbero rimpianto tutti i Tristani di questo mondo allorché Big Data si fosse decisa a introdurre un serio sistema di vendite on line dei prodotti da supermercato!).

Fu così che Tristano si vide costretto a scoprire  altri luoghi pubblicamente frequentabili nel quartiere dotati di aria condizionata, tra i quali spiccava l’ufficio postale. Proprio nello stesso periodo l’ufficio numismatico della zecca di stato dette licenza a Poste Italiane di mettere in vendita presso le proprie filiali una dannatamente intrigante collezione di cinque monete commemorative in lega d’argento del cinquantesimo anniversario dello sbarco dell’uomo sulla Luna su disegni dell’artista Pippo Garoci al prezzo di euri 25,40 ( venticinque e quaranta) per i titolari di un conto Bancoposta e di euri 40,80 ( quaranta e ottanta) per la clientela ordinaria. La raccolta, naturalmente intitolata ‘Le facce nascoste di un grande balzo per l’umanità’, rappresentava in ciascuna delle monete una fase cruciale della spedizione.

Il piano di Tristano Corzé, quanto all’ufficio postale, consisteva nel sedersi e leggere, poi fingere di essersi dimenticato di prendere il biglietto con il numero di chiamata  e infine per guadagnare tempo, soprattutto nell’ipotesi che non vi fosse molta fila, porre una domanda subdolamente sbagliata, per esempio il cap di Lublino in Irlanda, in modo che il personale perdesse del tempo nelle more di dare una risposta corretta a una domanda che non la prevedeva.

Questo in breve il piano, anche ingegnoso, vanificato dall’imprevisto. Ora, tutto quel che c’è da sapere su questi dannatissimi imprevisti è che ce ne sono due grandi tipi, quelli relativi alle contingenze della realtà e quelli alle contingenze del cuore. E i secondi, per quanto di minore apparenza,  non sono meno perniciosi dei primi.

Quando Tristano Corzé entrò nell’ufficio postale e l’occhio gli cadde sulla teca che esponeva la collezione celebrativa, un sospiro fuoriuscì dalle sue labbra. Altri allunaggi di quel luglio del 1969 gli erano tornati alla memoria: una cinquecento che correva su una litoranea a un appuntamento o meglio a un approdo, Evelina dalle bianche mani che lo aspettava alla gelateria, il loro disco che suonava, un avvenire prodigo di promesse: un piccolo passo per un uomo sulla Luna era il giusto corollario del grande passo di Tristano nel cuore di Evelina. E poi se l’uomo era stato capace di arrivare sulla Luna, anche gli altri problemi pian piano sarebbero stati risolti. L’amore di Evelina e il progresso dell’umanità  andavano a braccetto.

Intanto Tristano Corzé continuava a fissare la teca e fatalmente dopo un po’ altri occhi fissavano lui. Si sa che la vita spesso va altrimenti dai desiderata della giovinezza, si sa che ciò è fottutamente vero. Anche se non è che ci si possa soffermare a descrivere minutamente gli inconvenienti di ogni cristiano che sta su questa terra, va precisato che a Tristano Corzé luccicavano un po’ gli occhi nel  fissare come uno stoccafisso le medagliette nella vetrinetta. Da quanti anni non pensava ad Evelina: che nostalgia canaglia, che graziosa luna, che fottutissimo ricordo disseppellito inconsultamente da una normale iniziativa commemorativa della zecca di stato. La sua discesa sulla Luna, il suo piccolo grande balzo era stato la scoperta con l’amore di Evelina dell’esistenza di un futuro ( radioso? Abbastanza) e invece poi… poi c’era stato un Poi. Logicamente non poteva ascoltare in quello stato le domande e i richiami vieppiù incalzanti del personale.

Fu giocoforza, dato il suo persistente e inspiegato mutismo, restituirlo all’ardente strada da cui era giunto lasciandolo esposto al vento di malinconia, quantunque non spirasse nemmeno il più piccolo alito di vento fisico. Se anche i progressi con Evelina dalla bianche mani non ci furono in quella maledetta storia del Luglio ’69, è d’altra parte innegabile che i progressi per l’umanità dopo il primo allunaggio sono stati patenti e numerosi; e tra questi merita di essere segnalato Big Data. E allora se consultassimo Big Data alla voce Corzè Tristano, scopriremmo che nei giorni di Luglio del 1969 egli prestava servizio militare di leva presso la caserma XXIV maggio di Sacile e in particolare nel giorno in cui il comandante della missione Apollo 11 toccò il suolo lunare egli si trovava addetto a un picchetto armato ordinario presso la predetta installazione militare. E’ probabile che le rimembranze relative ad Evelina fossero relative all’estate di uno o due anni dopo. Ma questo naturalmente non cambiò nulla nella malinconia di Tristano e neanche nell’afa di quel maledettissimo luglio.

Il vento attraversa le nostre anime, di Lorenza Foschini

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di Mauro Baldrati

Quanti siamo?
Difficile dirlo. Non è mai stato realizzato un censimento. E poi siamo sparsi per il mondo. Il “Piccolo Popolo” degli amanti di Proust è transnazionale, variegato, ma unito da un aspetto singolare: abbiamo letto tutto di lui, o quasi, compreso Contro Sainte Beuve. Fu redatto come un libro singolo, in realtà è collegato con l’opera collettiva, come tanti altri raggi di luce che hanno nutrito la fotosintesi della Recherche. Sappiamo come il nostro autore abbia contestato il “metodo Sainte Beuve”, ovvero il collegamento stretto tra l’opera e il suo creatore; il critico deve studiare le sue abitudini, i suoi gusti, le sue amicizie. Letto e condiviso, eppure, curiosamente, agiamo esattamente in senso contrario. Vogliamo sapere TUTTO di Marcel Proust.

L’ombra della neve

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di Orazio Labbate

 

Nevicava da due notti. Il gelo aveva sommerso i pali della luce interrompendo la corrente in tutto il quartiere. La gente rimaneva in casa come in attesa di un mistero. Il mio vicino di tanto in tanto mostrava un occhio attraverso la tenda, come a spiare un omicidio. La neve aveva sommerso la mia auto, riuscivo a vederne, dalla finestra della cucina, solo alcune parti. Nel cofano c’è un cadavere. L’ho messo lì dentro un giorno fa. Non ho il coraggio di riscoprirlo. Mi limito a studiarne solo i piedi, ritti come la base di una croce. Non so cosa farne. Gettarlo in un vallone? Abbandonarlo in una discarica? Non sono una persona decisa, è da tutta la vita che sono ridotto a succhiare il coraggio altrui. Prima quello di mia madre(ora seppellita nel cimitero di questa città), poi quello di mia moglie che è fuggita con il suo amante. Mi è rimasto da succhiare tutto me stesso. Mi servo della mia ombra come unica fonte di forza. Quando sto seduto alla poltrona la guardo allungarsi sopra la tv, procreo l’atmosfera adatta avvicinando due lampade come se si reggessero a vicenda. Nel momento del sonno, invece, metto l’abatjour sdraiata sul comodino così da ammirarne l’ombra che dorme anch’essa. Non appena so dove si ferma allora la fisso con tutta la concentrazione, e la inserisco dentro di me. Una volta che mi attraversa ho la potenza di tutte le cose sconosciute. Vi spiego… Tutti noi facciamo caso alle ombre, tuttavia nessuno sa che queste hanno una loro vita. Io, invece, ne sono convinto! La loro vita è mistica. Riescono a regalarti, solo se conosciute, una prima sensazione di ciò che proveremo nell’aldilà. È una droga, quindi, cibarsi d’ombre. Eppure era da tre giorni che la mia ombra non bastava al mio spirito. Così, prima che iniziasse a nevicare, vagai tutta la notte in cerca di un’ombra più potente. Nonostante avessi percorso con l’auto le strade deserte, e avessi ammirato ombre bellissime, come quelle dei negozi, dei cani randagi, dei semafori, dei lampioni, non trovai quella giusta. Allora mi diressi verso il bosco. Ricordo che le stelle mi facevano paura. Credo che rilascino più ombre loro sulla terra, che tutta la terra stessa nella propria galassia. Nonostante ciò, non posso rubare l’ombra a Dio… Arrivato nel bosco, ansioso cominciai la mia ricerca. La luna piena permetteva alle ombre di uscire dai loro corpi. Le ombre dei tronchi però erano troppo spente e immobili. Le ombre delle piante, troppo sottili e deboli. Le ombre degli animali, troppo istintive, come gli animali stessi. Non erano quelle giuste per il mio scopo. Allora percorsi un sentiero che portava ad un ruscello. Lì scorsi una meravigliosa ombra appoggiata ad una roccia, ne vedevo la schiena e i piedi ritti come una croce che si scioglieva nell’acqua. Era l’ombra di una donna. Dormiva con la schiena rilassata. L’ombra era potentissima. Me ne innamorai a prima vista. Incominciai a mangiare l’ombra con grande foga. Ero con le mani poggiate alla corteccia di un abete, a cento metri dalla donna. Dovevo avvicinarmi per assaporarla, meglio, faccia a faccia. Mi mossi lento, e così fece pure la mia ombra, dietro di me, che mi seguiva e non se ne andava. Via via si gonfiava. Fu talmente grande da soffocare la donna, io invece ammazzai quest’ultima, a mani nude. A occhi chiusi. Non gemeva. Non gridava. Lo accettò senza emettere nulla. Lontano qualcuno applaudì. Sentivo che alcune case stavano perdendo la corrente perché la neve stava arrivando. E, intanto, mi dicevo: “Non posso lasciare un’ombra bellissima nel corpo di una donna bellissima, soprattutto in vita, perché prima o poi mi abbandonerebbe”. Tutti mi lasciano da solo! Raccolsi il cadavere della donna coprendole il volto con un sacco nero. Pesavano tanto, lei e l’ombra. I piedi le strisciavano. I piedi avevano l’ombra ritta come una croce. Ogni dieci secondi mi giravo per paura che corresse via nelle profondità del bosco. Sentivo così tanta pace. Mi dissi: “Dio sarebbe fiero di me. Amo così tanto al punto di ammazzare l’ombra del mio nuovo amore”. Un gufo mi guardava da un ramo. Il suo sguardo mi pedinava. Aveva gli occhi gialli. Ho paura dei gufi da quando ho capito che hanno l’ombra a punta per via delle orecchie. Penso ce l’abbia così pure il diavolo. La bocca della donna perdeva saliva che scintillava nel pietrisco. Affannato raggiunsi l’auto. Aprii il cofano con il pulsante sulla chiave di accensione. Con il braccio destro adagiai il corpo sulla tappezzeria sporca all’interno del cofano. Entrai in macchina. Cadde la prima neve dell’anno. Il vento ne portò lentamente un’abbondanza. Accesi l’auto. I fari fendevano la neve. Nel sedile del passeggero era proiettata la mia ombra. Oltrepassai le strade. A occhi aperti vidi la montagna sopra la città addormentata. Il semaforo rosso mi costrinse a frenare. A occhi chiusi la neve fu nera. Accesi di nuovo la macchina non appena lampeggiò il verde. Superai i quartieri che stavano imbiancandosi. Vidi le finestre delle case, di colpo, spegnersi. La corrente abbandonava tutti i quartieri della città. La neve vorticava e si aggrappava ai cavi elettrici che emettevano scintille bianchissime. Non acceleravo. Sembrava trasportassi il feretro di mia madre. Raggiunsi casa mia. Premetti il pulsante perché si sollevasse la saracinesca del garage. Posteggiai l’auto nel garage. Inspirai tanta aria chiusa. Indugiai un minuto nel silenzio perché capissi cosa stava succedendo. Non lo compresi. Estrassi dal cofano il cadavere. Una volta arrivato in casa lo stesi nel mio letto matrimoniale. Presi di fretta tutte le lampade della camera da letto, le misi in fila, l’una accanto all’altra, ai lati del letto. Poi ne rubai altre dal soggiorno e le disposi davanti al letto. Quelle rimaste le posizionai, infine, dietro il letto, dopo averlo spostato due centimetri dal muro. Ottenni quell’ombra bellissima di cui godetti nel bosco! Per due giorni me ne cibai. Felice. Mi genuflettevo all’interno di tutte le dimensioni che l’ombra rifletteva. Mangiavo. Eppure dopo due giorni, d’un tratto ne fui sazio. L’ombra mi appariva dimagrita. Come senza più carne. Non seppi cosa farne. Quella cosa inutile! Quel corpo morto che dormiva nel mio letto! Mi faceva schifo. Non aveva più potenza. Frattanto nevicava, e non voleva smettere. La corrente non tornava.
Ora, nella terza notte, dopo aver nascosto il corpo della donna nel cofano, non so cosa farne. Lo studio spaventato. I piedi sono sempre ritti come croci. Mi impressionano. E la maledetta corrente non riparte. Siedo di tanto in tanto sul divano dove la televisione è spenta. Da quella posizione guardo fuori e so che nevica ancora. Se ci fossero stati i lampioni avrei potuto vedere la neve. Adesso non vedo neppure questa. Mi alzo. Non mi rifletto nelle invetriate della finestra principale. “Il vicino giocherà ancora con la tenda, e si chiederà le mie stesse cose”, penso. Fisso la mia auto. È un’auto funebre. Ed io sono colui che ha ammazzato l’ombra e la sua donna. “Va bene. Il cadavere rimarrà nel cofano”, sibilo. Ritorno alla poltrona. L’ombra alle mie spalle è quella che mi farà più paura. Starà lì per sempre. La mia ombra.

 

*(racconto tratto da Stelle ossee (LiberAria) di prossima pubblicazione in autunno sul primo numero di “The Shoutflower” – rivista letteraria di Philadelphia – tradotto da Anne Milano Appel).

Alice – un racconto

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ph. Fred Herzog

 

ph. Fred Herzog

 

di Giulia Sara Miori

Non ci voleva tanto, per capire che Alice non ci stava con la testa. Innanzitutto era grassa, e quando sei così grassa c’è qualcosa che non va. Ci deve essere per forza, altrimenti ti prenderesti cura del tuo corpo e saresti magra. Infatti io mi prendo cura del mio corpo e sono magra. Chi non si prende cura del corpo è malato: su questo non ci sono dubbi. È una questione di salute, nient’altro che una questione di salute. E Alice era grassa, e dunque non gliene importava niente della salute, e visto che non gliene importava niente della salute, era malata. Io non ho niente contro le persone malate, intendiamoci. Ma essere grassi non è proprio come avere un tumore. Quello, non lo scegli. Invece scegli di ingozzarti fino a diventare un quadro di Botero. Con tutto il rispetto per Botero, s’intende.

Io le persone grasse proprio non le capisco, e quindi non capivo Alice. Arrivava a scuola con un paio di jeans sformati, sempre gli stessi, e un dolcevita nero che sembrava un sacco. Almeno il maglione se lo cambiava, ma il modello era sempre lo stesso. Anche il colore era sempre lo stesso, e cioè nero, e cioè un non colore. Di sicuro credeva di sembrare più magra, vestita di nero. Ma quando si è grasse come Alice, non c’è nero che tenga. Comunque, almeno il maglione se lo cambiava. I jeans invece non li lavava mai, perché quando si lavano si restringono e allora bisogna indossarli due o tre volte prima che tornino normali. Cinque o sei volte, nel caso di Alice. Non so dove avesse trovato un paio di jeans della sua taglia, a dire il vero, perché sopra la quarantadue nei negozi normali non si trova quasi niente. Sopra la quarantadue c’è poco da fare: bisogna dimagrire. E anche la quarantadue non è proprio una bella taglia. Io porto la trentotto e a volte anche la trentasei: dipende dal modello. Il metabolismo ce l’ho veloce per natura: anche mia madre è così. Per il resto, faccio danza tutti i giorni e mangio come si deve, e cioè insalata, petto di pollo, fiocchi di latte. Poco olio, niente dolci. L’importante è seguire un’alimentazione sana e fare sport. Voglio dire, non mi sembra difficile. Ma lei niente: durante l’intervallo, si portava un panino col salame e lo mangiava davanti a noi. Alice a me non faceva pena, devo ammetterlo. Mi faceva rabbia. Era grassa e pretendeva di uscire con noi. Questo non me l’ha mai detto, sia chiaro. Ma era ovvio che ci sperava. Se almeno si fosse truccata un po’, se almeno si fosse lavata i capelli, sarebbe stato diverso. Cioè, era grassa e sembrava che non le importasse, ma la cosa peggiore era la sua faccia. Aveva i brufoli, gli occhiali e i capelli unti. Capisco la faccenda dei brufoli, ma non del tutto. Anche Melissa aveva l’acne, ma sua madre l’ha portata dalla ginecologa e da quando ha iniziato a prendere la pillola ha sistemato tutto. Ha la pelle liscissima, ora. Se hai un problema, cerchi di risolverlo. Ma Alice no. I brufoli se li teneva. Per non parlare di tutto il resto, e cioè degli occhiali e dei capelli unti. Gli occhiali li portavo anch’io, una volta, ma adesso mi metto le lenti a contatto, altrimenti non posso truccarmi gli occhi come si deve: problema risolto. I capelli unti, basta lavarli. Oltretutto, puzzava. Non voglio essere cattiva, ma è un dato di fatto. Puzzava di vestiti non lavati, e quando aveva il ciclo non era neanche possibile avvicinarsi. Nessuno si sedeva nel banco con lei, questo è vero, ma cosa pretendeva? Non ti lavi: cosa ti aspetti? Abbiamo cercato di farglielo capire, e anche questa è stata descritta come una cattiveria. Per il suo compleanno, le abbiamo regalato un bagnoschiuma dell’Erbolario. Pensavo che avrebbe capito, e invece non solo non ha capito, ma ha rincarato la dose. Sembrava che facesse apposta, a non lavarsi.

Poi è successa la cosa del mio diciottesimo. Io vorrei vedere voi, che cosa avreste fatto. Era il mio compleanno: avevo pure il diritto di invitare chi volevo io, o no? Ecco, perché è facile parlare, col senno di poi. È facile dire che sono una stronza. Ma non è vero. La stronza era lei. Era lei, quella che non ci stava con la testa. Era lei, quella che non ha mai fatto il minimo sforzo, non dico per essere come noi, ma almeno per integrarsi. Comunque no, Alice non l’ho invitata. Ho invitato tutta la classe, ma non Alice. E sì, lei l’ha saputo. Fosse stato per me, mica gliel’avrei detto. Ma la voce le è arrivata. Non so da chi, ma le è arrivata. Si deve essere lamentata con sua madre, sua madre è andata dai professori, i professori se la sono presa con me. Capite? Se la sono presa con me perché alla mia festa non ho invitato Alice. Poi, non si sa come, è saltata fuori anche la storia del bagnoschiuma. Non poteva stare zitta, quella serpe: no. Doveva proprio raccontare anche la storia del bagnoschiuma. Che poi, a ben vedere, voleva essere una cosa carina. Okay, tornando indietro non l’avrei fatto, ma insomma: se avesse capito che l’intenzione era buona, se avesse capito che noi volevamo soltanto aiutarla, allora l’avrebbe usato, quel bagnoschiuma, invece di andare dritta da sua madre. Lamentarsi non ha mai risolto nessun problema. E Alice di problemi ne aveva parecchi.

Comunque, dopo la cosa della festa, anche i miei si sono incazzati. Mi hanno detto sei stupida, devi farti furba, cosa ti costava invitarla?  Cosa te ne frega di quella grassona, ha detto mia madre, chiedile scusa e basta. Quella è una stronza. Va in giro a dire che tu e le altre la bullizzate. Io quando ho sentito la parola bullismo, sono saltata sulla sedia. Voglio dire, proprio non ci credevo. Da quando in qua cercare di aiutare una persona significa bullizzarla? Allora mi sono incazzata. Ammetto che mi sono incazzata. Non l’ho presa bene, ma proprio per niente. Insomma, mettetevi nei miei panni. Io Alice non la odiavo mica: semmai era il contrario. Non era colpa mia, se ero una bella ragazza. Non era colpa mia, se lei era brutta e grassa. Non era colpa mia se non si lavava. E mi toccava anche sentire le lamentele dei professori. Io non avevo fatto niente. Non c’entro niente, io. Non c’entra niente, Thomas. Le altre, nemmeno. Ma devo dire che sembrava una buona idea, in quel momento. Non dico che lo sia stata – avremmo dovuto capire che Alice non ci stava con la testa – ma sembrava una bella idea. Quando gliel’ho proposto, Thomas ha detto di sì. Neanche lui la sopportava, Alice, perché aveva detto alla Corradini che la chiamava cessa, scaldabagno e roito, e la Corradini lo aveva fatto sospendere. Thomas non vedeva proprio l’ora, anche se da un certo punto di vista non ne aveva affatto voglia. Si capisce, del resto: chi avrebbe avuto voglia?

E non è stato facile, non è stato facile convincere Alice, non è stato facile convincerla che Thomas voleva uscire con lei. All’inizio era diffidente, diceva non ci credo, all’inizio diceva non ci penso neanche, ma poi ha detto non lo so, magari posso dargli una mano coi compiti, magari posso dargli una mano, visto che è stupido, è proprio un asino, e magari grazie a me è la volta che prende sei in latino, perché no, vediamo cosa posso fare. Era diffidente, la stronza, ma alla fine si è lasciata convincere, alla fine ha ceduto alla vanità, la stronza, alla fine ci ha creduto. E lo ammetto, tornando indietro non lo rifarei, ovvio che non lo rifarei e anzi, a ripensarci era uno scherzo di cattivo gusto, era proprio uno scherzo di merda, ma un’altra ci avrebbe riso su, io ci avrei riso su, chiunque ci avrebbe riso su, Thomas è un bel ragazzo, chiunque avrebbe pensato: ma quando mi ricapita? Chiunque tranne Alice.

Lei no. Lei ci ha creduto. Lei ha creduto che uno come Thomas potesse guardarla e desiderarla e dirle ti amo. Bisogna essere proprio matti e ciechi e fuori di testa come Alice per credere all’impossibile. Non è colpa di nessuno se l’ha presa così. Nessuno l’ha costretta a fare quello che ha fatto. Poteva dire no, grazie, Thomas, vai via. E invece no. Ha fatto tutto quello che lui le ha chiesto, la vacca, l’ha fatto senza battere ciglio. E quando il video è girato, quando ha saputo che tutti l’hanno visto, sembrava che non le importasse niente. Noi ridevamo e a lei non importava. Noi la chiamavamo troia, e a lei non importava. Io mi son detta: non gliene frega niente. L’ho quasi invidiata, a un certo punto. Era superiore, lei. Era migliore di me, di Thomas, di tutti noi. Era grassa e non le importava; aveva i brufoli e non le importava; aveva i capelli unti e non le importava; nessuno si sedeva accanto a lei, e non le importava; quel video lo aveva visto tutta la scuola, e non le importava.

Durante l’intervallo, ero in bagno a fumare. Parlavamo del video, e ho sentito un botto. Tutti l’abbiamo sentito, ma io ci ho pensato subito. Non so perché, ma lo sapevo che era lei. Allora mi sono affacciata e l’ho vista. Ho visto il rosso dei capelli mischiato al sangue. Ho spento la sigaretta e sono tornata in aula.