di Giacomo Verri
Il 10 settembre scorso ho partecipato assieme a Stefano Valenti e allo storico Bruno Ziglioli – che ci ha coordinati – e a Mauro Magistrati – che ha introdotto le nostre parole – a un intrigante incontro organizzato dall’ANPI provinciale di Bergamo. Il titolo della serata, Scrivere di Resistenza oggi, è stato il goloso stimolo per parlare di un tema, quello della Resistenza – in senso stretto, ma non solo – che nel 2018 ancora suscita fioriti interessi e movimentate discussioni. Ne abbiamo avuto una riprova nell’ariosa Sala del Mutuo Soccorso dominata da una riproduzione – penso 1:1 – del Quarto Stato di Pellizza da Volpedo e gremita da alcune decine di persone lì raccolte per ascoltare, ma soprattutto per cercare risposte a un pugno di domande difficili il cui fulcro – mi è parso di capire – è questo: dove diavolo sta andando l’Italia, coi suoi razzismi e le sue violenze? Che ruolo ha, in questa nazione, la memoria storica?
Ne è nato – credetemi – uno degli incontri più provocatori a cui abbia partecipato negli ultimi anni attorno al tema resistenziale, ma soprattutto attorno alle odiose derive reazionarie e alle recrudescenze del neofascismo. In particolare, Stefano Valenti, autore per Feltrinelli di due romanzi (La fabbrica del panico, 2013, e Rosso nella notte bianca, 2016), ha attizzato le coscienze di molti introducendo nel dibattito alcuni notevoli elementi di discussione, dal fascismo infinito alla mistificazione della violenza, dal ‘buonismo’ di certa sinistra al patologico uso dell’ingiustizia nel sistema-Italia, fino alle derive del rancore diffuso.
Innanzitutto ti chiedo, Stefano, come e perché sei arrivato a parlare di Resistenza, in particolare in Rosso nella notte bianca.
Rosso nella notte bianca nasce da una necessità e da un incontro. La necessità è comprendere la perennità del fascismo. L’incontro è quello con Il nemico interno. Guerra civile e lotte di classe in Italia (1943-1976) di Cesare Bermani (2003), libro che narra dell’Italia come uno dei paesi d’Europa dove maggiore e feroce è stata la repressione del conflitto sociale. Bermani ci accompagna dagli anni dal dopoguerra agli anni settanta, raccontando le migliaia di morti di fucili e camionette della polizia italiana. Ben prima del terrorismo, una storia poco nota che, forse, ne racconta la genesi. Lì, dentro a quel libro, ho conosciuto la vicenda dell’ex partigiano Giuseppe Bonfatti, classe 1924, il quale, dopo decenni passati a lavorare in Brasile, torna nel 1990 in Italia e la mattina di giovedì 8 novembre dello stesso anno, a Viadana in provincia di Mantova, uccide a colpi di gravina – strumento che ricorda il piccone che aveva ucciso Trockij – Giuseppe Oppici, ex-fascista locale. Per Bonfatti è un atto dovuto.
La costruzione del nemico pubblico, ben rappresentato dalla figura del Bonfatti, non è un fenomeno recente. Nella storia del Bel Paese lo stigma è stato addossato, di volta in volta, a gruppi sociali, etnici, religiosi o politici, in una percezione diffusa della loro presunta pericolosità. Complicato sarebbe elencarli tutti. Nemiche furono le plebi meridionali all’indomani dell’unità; nemici i ‘disfattisti, pacifisti, austriacanti’ che si opposero alla grande guerra; nemici i partigiani nell’Italia repubblichina; nemici i comunisti; nemici gli anarchici a cui imputare le stragi di Stato; nemici i braccianti e gli operai in sciopero; nemici i ribelli e i rivoluzionari tutti; nemiche, in generale, le ‘classi pericolose’. Uno stigma riservato non solo ai soggetti conflittuali, ma estendibile a piacere anche al capro espiatorio del momento: gli ebrei di ieri, i migranti di oggi, i rom di sempre.
A settant’anni dalla fine della guerra, quali conti sono ancora aperti con la Resistenza? È necessario scriverne, è necessario parlarne?
I conti con la Resistenza l’Italia non li ha mai fatti davvero. L’Italia ha inventato il fascismo, lo ha diffuso nel mondo, lo ha riesumato in anni recenti, unico paese al mondo. Per non parlare del dopoguerra, quando abbiamo assistito a una sorta di amnesia collettiva. Per un lungo periodo si è ignorato il consenso popolare al regime hitleriano e a quello fascista, il diffuso antisemitismo. Una rimozione storica che ha avuto forti conseguenze sulla rieducazione di massa e sulle divisioni interne provocate dal conflitto. Parlare della deriva fascista di questo paese è più che mai necessario, senza fare sconti nemmeno a coloro che dai pulpiti privilegiati di una sinistra di comodo hanno affermato, senza pudore, quella pacificazione mai avvenuta.
Nella serata di discussione a Bergamo, hai parlato di “fascismo infinito”. Di che cosa si tratta? Ha a che fare con quello che Eco ha chiamato “fascismo eterno”?
Il fascismo non è morto nel 1945 e non è nato nel 1919, al contrario, la sua visione del mondo (e la sua psicologia, come riteneva Adorno) precedono la forma storica accettata nel ventennio e sono più durature della dittatura mussoliniana. Umberto Eco parlava di Ur-fascismo e ne incarnava le caratteristiche nei tratti tipici del fenomeno storico. Ma il fascismo travalica il fenomeno storico e diventa fenomeno culturale endemico e obliquo nella società italiana. Già Giolitti nei primissimi anni venti aveva pensato di potere usare il fascismo in funzione anticomunista per poi addomesticarlo e farlo rientrare nell’alveo della democrazia parlamentare, con i risultati che sappiamo.
Non dimentichiamo il fenomeno del governo di Fernando Tambroni, ex Partito Nazionale Fascista passato alla DC sul finire della guerra, e Presidente del Consiglio tra il marzo e il luglio del 1960 con l’appoggio determinante del Movimento Sociale. Fu, il suo, un autentico tentativo di regime autoritario, con censure all’arte e alla cultura, provocazioni fasciste, ferimenti e uccisioni di militanti di sinistra da parte della polizia. Il governo Tambroni, sebbene effimero, può essere considerato la prova che, a meno di quindici anni dalla proclamazione della Repubblica, il fascismo era già in grado di rioccupare il potere.
Non estirpando il fascismo dal suo seno nemmeno dopo la guerra, ma anzi pensando di utilizzarlo contro la protesta antilatifondista e comunista prima, e contro il più ampio movimentismo di sinistra venti anni dopo, la Repubblica s’è infettata di uno dei mali peggiori, quello di un passato tragico che non passa mai.
Un nodo centrale della nostra discussione è stato anche il rapporto tra buona/falsa coscienza e mistificazione della violenza. Una mistificazione che ha una storia, una storia che parte dai mesi di guerriglia partigiana ma poi prosegue, per il nostro Paese, lungo la traiettoria segnata dalle rivoluzioni culturali degli anni Sessanta e Settanta e continua ancora oggi…
Mi piace qui iniziare con le riflessioni sulla violenza di Edouard Louis: “Mai dire che i ceti popolari rifiutano la cultura, ma che la cultura rifiuta i ceti popolari. Mai dire che i ceti popolari sono violenti, ma che i ceti popolari subiscono violenza quotidiana e riproducono quella violenza. Ogni analisi che pretenda di cogliere il mondo senza un pensiero che individui il succedersi degli eventi è destinato a fallire. Contrariamente ai miti che la borghesia cerca di imporci, la cultura non salverà nessuno. Sarà un certo tipo di cultura a farlo. Un tipo di cultura capace di definirsi contro la cultura dominante, un tipo di cultura generata contro la cultura esistente. La violenza è elemento fondativo della lotta di classe. Per i borghesi di tutto il mondo nessuna violenza è ammessa, se non quella legalizzata e costituzionale dello sfruttamento del capitale sul lavoro salariato, e quella dei loro eserciti, sulle masse proletarie e oppresse del mondo. I sostenitori delle guerre preventive che saccheggiano, sfruttano, affamano milioni di uomini, donne e bambini nella spasmodica ricerca del massimo profitto in ogni parte del mondo, producono necessariamente movimenti d’opposizione. Così è stato nei confronti del fascismo. La forma di produzione capitalistica, su cui si fondano i valori dominanti dell’attuale società, dà per scontato uno scorrimento lineare e progressivo del tempo in cui tutti gli avvenimenti e i differenti ambienti sociali sembrano convivere in una sincronia meccanica precisa e incontrovertibile. Al massimo, chi non si adatta, anche quando si tratta di interi gruppi sociali, è considerato fuori tempo, sorpassato, inadeguato, superato, sconfitto oppure residuo di un passato destinato a scomparire”.
C’è quindi un rimedio a questo “fascismo infinito”?
L’unico rimedio efficace è l’antifascismo infinito. Così come un virus è debellato dalla infinita pratica della vaccinazione, così il fascismo può essere debellato dalla infinita pratica dell’antifascismo. Una pratica andata in disuso in Italia fin dal dopoguerra e poi cancellata dalla equiparazione tra fascismo e comunismo, dal revisionismo e dalle funeste politiche liberiste dell’oggi. Dopo la caduta del regime fascista le forze della sinistra furono fautrici della soluzione più drastica e più radicale del problema, sia della distruzione o della rimozione dei residui del fascismo, sia della punizione dei colpevoli del ventennio di dittatura. Ma nulla poterono contro le scaltre resistenze alla severa punizione dei delitti fascisti alle quali si opposero con tenacia le forze politiche moderate, il re, il governo britannico, l’alta burocrazia, gli alti gradi dell’esercito e la magistratura, con il chiaro intento di non recare il minimo pregiudizio alla continuità giuridica e amministrativa dello Stato italiano. Sono questi i principali sconfitti per la mancata defascistizzazione del Paese, sancita in modo clamoroso dall’amnistia Togliatti-De Gasperi del giugno 1946.
Una cauterizzazione del bubbone fascista è forse ancora possibile, ma richiede la premessa di una sanitizzazione culturale e politica profonda e capillare della società e della classe dirigente. Una cosa, questa, che mette l’Italia ogni giorno di più di fronte alla propria disperata inettitudine.
La memoria e soprattutto la discussione intorno alla memoria sono diventate giochi per pochi, questioni cavillose che – a prestare orecchio ai borbottii diffusi – non interessano più a nessuno?
L’antifascismo, e dunque la memoria, sono preponderanti quando diventano pratica del presente, non quando sono celebrazione del passato. Non è dunque concepibile immaginare l’attualità della memoria e della discussione intorno alla memoria in una società nella quale i valori dell’antifascismo sfumano nella violenza del Capitale che riproduce prodromi di fascismo. Perché questi temi ritornino attuali è necessario trovare le ragioni d’attualità dell’antifascismo nell’applicazione di una ragione di classe. Ma al momento non vedo nessuna forza politica organizzata in grado di farlo.
E, infine, che mi dici delle nuove leve, dei giovani?
Fare torto alle nuove generazioni dando loro responsabilità che non hanno non renderebbe un buon servizio alla causa dell’antifascismo. Meglio dire dei padri e arrivare ai figli per palingenesi. Sono infatti i padri in primo luogo, e non i figli, ad avere dimostrato ridotte capacità di resistenza al virus del fascismo.



In bilico nell’attesa del tuo prossimo respiro
cendo in profondità aggrappato alle vene che trasportano le scorie indurite del tempo, afferro le loro fragili strutture raggiungendo l’origine dell’eco che mi segue nella discesa. Toccato il fondo il passo inizia a procedere incerto e le vibrazionimi giungono chiare, di diversa natura. Seguono percorsi dissimili, schivando le macerie che ingombrano lo sguardo e obbligano al ricordo.
La vedo appoggiarsi con equilibrio incerto su quel che resta dell’antica preghiera, é una figura esile dalla voce flebile ma profonda e sta cantilenando una frase come stesse nuovamente pregando, inginocchiata sopra un irriconoscibile strumento un tempo sacro: Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. L’Angelus Novus di Klee rivive nel suo lento salmodiare, ripete incessante la frase scritta da Walter Benjamin. Una preghiera, ultima, sussurrata tra le macerie del passato che lento scivola su queste macerie con rinnovata violenza distruttiva, verso un futuro dai contorni instabili, colorati di irrespirabile bianco vitale.
La luce mi attrae, fatico a guardarla ma il vento che leggero penetra il cieco sguardo delle finestre divelte mi spinge a seguirla. Mi lascio alle spalle la solenne liturgia di morte scavalcando la linea d’ombra, il confine oltre il quale ciò che si vede é. Il respiro del giorno riempie i miei polmoni intasati dal tepore dell’afflizione, la vita sembra torni a dialogare con la natura e questo sperduto figlio. Sento il suo canto, ascolto la dolcezza della sua pronuncia mentre descrive il padiglione del sogno, lì nella città abbandonata, un luogo sempre illuminato dalla luna e dalla melodia che l’avvolge.
















«… devo riprendere dall’inizio? Quale inizio? Quando ho lasciato l’appartamento? È vero, se non avessi deciso di andarmene non sarei qui. Sembrava così semplice, cambiare casa, cambiare vita, semplice, vendere l’appartamento e via, d’un colpo tutto dietro le spalle. Ho deciso quest’inverno, un mattino, su due piedi. Faceva molto freddo, me lo ricordo perché avevo tirato fuori dalla canfora il pellicciotto, l’odore mi aveva dato nausea e ho pensato che mi sarei dovuta comprare un cappotto nuovo. Era un lunedì. Sono sicura. Perché era il giorno dopo, cioè il giorno prima era successa la cosa di Mathias. La data esatta? Non la sa? Una domenica d’inverno. Io, il lunedì mattina, quando mi sono guardata attorno, sono tornata indietro negli anni, quando siamo arrivate, la mamma e io, avevamo improvvisato una festicciola, sul terrazzo, noi due, in mezzo agli scatoloni, c’era un bel sole, le bibite si scaldavano e la crema delle pastine si scioglieva, ma le ho mangiate tutte, e ho bevuto l’aranciata, avevo sette anni e la mamma sembrava allegra. I gerani c’erano già, rosa e rossi, piantati in vasi di terracotta a bassorilievi, lungo due lati; le aiuole le ho fatte molti anni dopo, quando ne ho avuto bisogno. Glielo racconto poi, mi ascolti ora, è importante, quel lunedì mattina, quando ho deciso che non potevo più restare. Non pensavo al pericolo, non pensavo a niente, non volevo né nascondere né svelare, volevo solo andare via, per sempre. Facevo colazione in veranda e guardavo Mimì, dietro la vetrata, giocare con i gerani, grattare la terra. Frugava con le zampe e con il muso nelle ultime piantine, un ossicino è spuntato e un rigurgito di caffelatte mi ha dato un gusto acido in bocca: era ora di andarmene. Trentacinque anni in quell’appartamento, trentacinque anni in quel terrazzo, quindici anni da sola. Ho messo il pellicciotto che sapeva di canfora e sono scesa a comprare il giornale, però il giornalaio sotto casa era ancora chiuso per lutto, il figlio era morto la settimana prima, no, io non c’entro, un incidente stradale. Sono andata in piazza e non avevo i guanti né il cappello. Un dettaglio insignificante? No. Tutto quello che racconto ha un senso, almeno per me. Camminavo con le guance sferzate dal vento glaciale, con le mani livide sprofondate nelle tasche e sorridevo, sì, mi rallegravo del fatto che con quelle temperature avrei potuto rimandare il lavoro di giardinaggio. D’estate invece bisogna sbrigarsi, quando fa troppo caldo è dura. Estate come inverno comunque è un’operazione lunga che richiede applicazione. E una grande calma. La prima volta sporcai dappertutto, non pensavo che un corpo potesse contenere tanto sangue. E tanta carne, e viscere, budella, ossa, muscoli. Ci misi due giorni per tagliare, spezzare, triturare, bollire, gettare, sotterrare. La testa, la volli lasciare intera, tutta intera sotto un albero. Il terzo pino sulla destra, prima del ponte. Non c’è più? È passato tanto tempo! Forse era il quarto pino, forse dopo il ponte. Quella prima volta, fu una fatica, zoppa come sono, si immagini trascinare un bauletto. Il peggio è stato scavare. Dopo un’ora la cavità era ancora piccola e già avevo le mani coperte di piaghe e di vesciche, non ce la facevo più a tenere la pala, allora ficcai dentro le mani nude. Il buco a poco a poco si fece più profondo, abbastanza profondo. All’ospedale mi fecero tante domande. Piangevo, ma non per il dolore alle mani. Mio padre, mio amore, mio adorato, mio tutto, mio troppo, troppo amore, il primo uomo che ho amato, pazzamente, e non era bello, era vecchio ed era stanco. Appoggiavo la faccia sulla sua pancia rotonda, accarezzavo il pelo grigio del petto, e il mondo si esauriva in un’estasi infinita. Aveva la forza e l’ingegno di un animale selvatico, un odore aspro inebriante, le labbra tumide, le mani calde. Mi prendeva senza una parola, senza un bacio, il desiderio era il suo modo di amarmi. Forse. Avrei voluto essere piccola piccola e vivere dentro di lui. Mi mancava, sempre, crudelmente, anche quando c’era. Troppo amore, e lui aveva una moglie e due figli già grandi, e un lavoro importante, e sessant’anni, e io avevo lui, il gatto, i gerani e non ancora trent’anni. Quel lunedì mattina, mentre andavo in piazza a cercare il giornale, ho ripensato a Giovanni e ho pianto. Dovevo ucciderlo per non soffrire. Lei è una donna, mi capisce, vero? Ho pianto, ripensando al cuscino che lo soffocava nella letargia del sonnifero, poi mi sono calmata e mi è venuto in mente che dopo, quando sono riuscita a sistemare tutto, un po’ nei vasi un po’ altrove, a ripulire, a far tornare le cose e la casa nell’ordine che avevano avuto nei vent’anni passati con mamma, dopo, con le mani fasciate e la morte nel cuore, sono andata in un negozio specializzato e mi sono fatta spiegare come piantare le grandi aiuole lungo i bordi del terrazzo… »