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Sedici marzo mille novecento settantotto

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di Davide Orecchio

… ed entra marzo quando Giulio Andreotti promette a Leone la lista del nuovo governo, e la fa, sposta ad esempio Tina Anselmi alla sanità, e con Aldo Moro fa il conclave del partito di Dio per i sottosegretari, per il sottogoverno, lo fa alla Camilluccia e dice al diario Ho tenuto duro; e dice che Aldo Moro promette che l’aiuterà; e non resta che giurare e chiedere il voto alle camere,

ed ecco il sedici marzo quando le maestre si apprestano a scuola,

i bambini si apprestano a scuola,

vestono i grembiali e i fiocchi azzurri,

prendono le cuccume dalle madri e le nonne,

i macellai tritano carne, i fruttivendoli legano asparagi,

Giulio Andreotti porta il governo alle camere,

i pizzaioli sfornano la rossa con le olive e l’origano,

i bidelli aprono scuola,

i tranvieri aprono le porte dell’autobus,

le brigate rosse prendono Moro,

i giornalai alzano le saracinesche,

le tintorie avviano le lavatrici,

le brigate rosse uccidono due carabinieri,

i postini imbucano lettere,

i bancari incassano assegni,

gli architetti progettano,

le scrittrici fantasticano,

le brigate rosse uccidono tre poliziotti,

alcuni bambini hanno il morbillo e non vanno a scuola,

alcuni bambini hanno la varicella e non vanno a scuola,

i bambini di Monte Mario sentono spari e frenate,

una notizia corre da Monte Mario a Montecitorio (di parola in parola, di filo in filo),

un’automobile si divarica stuprata nel sangue,

Andreotti si piega e vomita, sviene a Palazzo Chigi, si sdraia sul divano e in fretta gli portano un abito da cerimonia pulito,

un’altra camicia, un’altra cravatta,

Andreotti si piega come la madre si piegò sul padre che muore,

il dolore è un atto geometrico nel tempo dell’indimenticabile morte,

giurano i sottosegretari del nuovo governo,

Aldo Moro scompare coi brigatisti

e vengono a Palazzo Chigi gli uomini del partito di Dio, i socialisti, i sindacalisti,

il partito della storia invia i suoi rappresentanti più degni;

e Andreotti dice al diario Emozione profonda;

e dice Tutti concordano nel non dare (spazio bianco); e dice Ma (spazio bianco) immediatamente la fiducia per il governo (spazio bianco);

e in poche ore le due camere votano;

e Giulio Andreotti raccoglie le forze, sigilla lo zaino.

Ora Giulio Andreotti vede Aldo Moro: i capelli leonati, sulla fronte una ciocca di bianco germoglia sul cespo d’argento, gli occhi del lemure timido, dentro la gabbia il volto è lungo, appeso alle tempie e alle sopracciglia come un ometto aggrappato alla balaustra prima del precipizio, il labbro superiore sottile, il labbro inferiore carnoso, la camicia aperta sconfitta, il giugulo è l’ultima trave che regge Aldo Moro, sul capo Aldo Moro ha un drappo di cielo e una sola stella, gli artefici annunciano il processo al “Responsabile primo della controrivoluzione”, ora Aldo Moro è in un telo.

E i bambini sono in ostaggio,

e gli agrimensori, e i macellai, e i netturbini coi giornalisti,

e le casalinghe, i lavascale sono in ostaggio,

e gli stagnini con gli sterratori,

e gli elettricisti e le rammagliatrici: sono tutti in ostaggio con Aldo Moro;

sbiancano le pagine dei libri di favole,

tacciono tutte le storie;

dalle ville, dai palazzi a cortina, dalle borgate, dai condomini, dai tuguri spruzza nero di seppia;

nel tempo di morte e vita sospesa;

loro controllano se hanno ancora uno zaino, e se sia colmo o deserto;

loro chiedono se hanno ancora un governo;

loro chiedono Chi governa l’Italia?, le Br o Andreotti?;

e non accade nulla, questa malattia paralizza i dischi invertebrali e i corpi vertebrali e i nervi spinali.

E si spengono le lavatrici nelle tintorie,

i bidelli chiudono scuola,

le maestre diventano mute,

le scrittrici non fantasticano più,

gli architetti non progettano più,

i bibliotecari non catalogano libri,

i sarti non rammendano gli abiti,

gli stenografi non consegnano i verbali,

i capibarca affondano,

i barbieri rompono le forbici,

gli infermieri gettano i camici,

i tassisti parcheggiano e dormono,

i cuochi consegnano pietanze crude ai camerieri,

i camerieri portano in tavola pietanze crude,

gli idraulici non spurgano più,

i geometri non tracciano segni,

gli elettricisti spruzzano nero di seppia,

i preti stringono al petto gli zaini.

E i bambini sono sempre in ostaggio,

e i capibarca galleggiano sul fondale del mare, tra le grotte e il nero di seppia,

e i camerieri supplicano i clienti Mangiate noi, perché non abbiamo più cibo;

e le macchine da scrivere chiedono asilo agli svizzeri, perché i giornalisti non hanno più nulla da dire,

e le edicole non alzano più le serrande,

e le maestre convocano i sarti e le rammagliatrici e supplicano Cucite le nostre bocche, perché non abbiamo più nulla da dire;

dalle fogne emergono idraulici imbrattati di nero di seppia,

gli stenografi verbalizzano il tempo della morte e dell’omicidio,

i bancari incassano assegni in nero di seppia,

gli scrittori friggono libri in padella e poi ridono,

i falegnami restituiscono i mobili ai boschi,

i tranvieri ripartono sigillando i convogli,

e che nessuno vi salga.

In principio era l’Ulisse

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di Romano A. Fiocchi

Noel Riley Fitch, La libraia di Joyce. Sylvia Beach e la generazione perduta, Il Saggiatore, 2004.

In principio era l’Ulisse, l’Ulisse era presso Sylvia Beach e l’Ulisse era Sylvia Beach. Ecco, così si possono sintetizzare le 559 pagine di un libro che un cultore di Joyce non può evitare di leggere. È la storia di una giovane americana che il 17 novembre di novantanove anni fa aprì una libreria in rue de l’Odéon, a Parigi, sulla riva sinistra della Senna. Lei si chiamava appunto Sylvia Beach, la libreria era la Shakespeare and Company. Attenzione, non la Shakespeare and Company tuttora esistente in rue de la Bûcherie. Quest’ultima, fondata da George Whitman nel 1951 e oggi gestita dalla figlia, Sylvia Whitman, venne inaugurata con il nome di Le Mistral e diventò Shakespeare and Company in onore di Sylvia Beach nell’aprile del 1964, due anni dopo la sua scomparsa. Certo, anche nella libreria di George Whitman (qui il sito) i nomi dei frequentatori sono da brivido: Allen Ginsberg, William Burroughs, Anaïs Nin, Richard Wright, Julio Cortázar, Henry Miller, Lawrence Durrell, giusto per citarne qualcuno.

Ma lo splendido volume di Noel Riley Fitch, La libraia di Joyce, non fa cenno della libreria di George Whitman, nonostante arrivi all’anno della morte di Sylvia Beach. La Fitch si concentra sulla ricostruzione meticolosa e approfondita della biografia della piccola libraia americana a partire dal suo ambiente familiare e culturale – era nata a Baltimora, figlia di un pastore presbiteriano di Princeton – sino all’incontro con quelli che chiama i suoi tre amori: Adrienne Monnier, James Joyce e la Shakespeare and Company. È attorno a questi tre amori che ruota tutto il libro.

Il primo è un amore discreto ma duraturo tra due appassionate di libri. Adrienne Monnier, scrittrice ed editrice, è la proprietaria della libreria La Maison des Amis de Livres, collocata sul lato opposto di rue de l’Odéon. Sylvia ne farà la sua compagna di vita per trentotto anni. Il secondo amore è uno scrittore conosciuto quasi per caso al ricevimento degli Spire nel luglio 1920. L’incontro è proverbiale: lo scrittore è seduto nella biblioteca, rifugiato lì per sfuggire all’imbarazzo di un pessimo scherzo che gli ha fatto Ezra Pound, anche lui presente al ricevimento. Sylvia gli si avvicina e chiede con timore:

Il grande James Joyce?

James Joyce, – risponde lui, porgendole con fermezza una fragile mano.

È l’inizio di un rapporto di amicizia e di stima reciproca, quella di Joyce talvolta un po’ opportunista, che porterà Sylvia Beach a pubblicare l’unico e il solo libro per cui la Shakespeare and Company darà il tutto per tutto e rasenterà più volte il fallimento: Ulisse.

Il terzo amore di Sylvia Beach è proprio questa, la sua libreria. La Shakespeare and Company era una semplice libreria con funzioni di biblioteca, di quelle che, come si usava allora, non solo vendevano ma prestavano i libri dietro una forma di abbonamento. Ma era anche e soprattutto un centro di aggregazione di artisti, di scrittori, di letterati, di semplici bibliofili. Nei mitici anni Venti parigini la frequentarono, attratti da una sorta di magnetismo, personaggi come Thomas Stearns Elliot, André Gide, Ernest Hemingway, Ezra Pound, Gertrude Stein, Paul Valéry, persino musicisti innovativi come George Antheil. L’elenco si estenderà negli anni Trenta a nomi del calibro di Samuel Beckett, Simone de Beauvoir, Walter Benjamin, anche se gli effetti della grande depressione seguìta al crollo di Wall Street del ’29 e i venti di guerra che inizieranno a soffiare con l’avvento di Hitler ridurranno drasticamente l’attività della libreria.

La libraia di Joyce è dunque anche la ricostruzione del clima artistico-letterario di quel periodo, di una Parigi diventata patria culturale di decine di migliaia di cittadini americani. Lo scopo della Shakespeare and Company, in tutti i suoi anni di esistenza, sarà sempre quello di promuovere lo scambio culturale e l’amicizia tra gli autori americani e quelli francesi ed europei in generale. E fa davvero specie, così come emerge dal libro, vedere questo crogiolo di straordinarie potenzialità implodere lentamente e dissolversi di fronte al dilagare del nazismo. Sylvia Beach sarà una dei pochi americani che non lasceranno la capitale francese neppure dopo l’occupazione tedesca. Sapeva che a rischiare erano più che altro i suoi amici, e lei sarebbe rimasta per aiutarli. Ma a darle davvero forza era probabilmente la carica di ottimismo accumulata dopo aver affrontato un’avventura credo unica nella storia editoriale: la pubblicazione nel 1922 del più impubblicabile dei libri, l’Ulisse.

Che non fu una passeggiata, specie per una libraia che non era mai stata editrice, lo testimonia una molteplicità di aspetti. Si trattava innanzi tutto di realizzare un libro di una certa dimensione, con particolari caratteristiche editoriali che andassero incontro ai desideri di uno scrittore esigente come Joyce. Un libro già sotto processo per pornografia negli Stati Uniti dopo una pubblicazione parziale a puntate sulla rivista newyorkese The Little Review, un libro che nessuno aveva più il coraggio di pubblicare. Per trovare una tipografia disponibile, Sylvia Beach dovette andare sino a Digione, da Maurice Darantière, con cui si accordò per la stampa di una prima tiratura di mille copie, di cui cento su carta a mano olandese e con copertina di carta blu rilegata in marocchino dello stesso colore. Lavoro immane anche quello delle bozze, continuamente rifatte con correzioni e integrazioni di intere pagine aggiunte all’ultimo momento dallo stesso Joyce e ricopiate da tipografi francofoni che non conoscevano una sola parola di inglese. Poi c’era il lavoro di segreteria. Joyce incominciò ad utilizzare la Shakespeare and Company, quindi Sylvia Beach e le sue collaboratrici, come se fosse una struttura a disposizione sua e del suo Ulisse: inviti, spedizioni, contatti, fermo posta, richiesta di recensioni, presentazioni, e così via. La Shakespeare and Company fu coinvolta anche nelle questioni legali dovute alla pubblicazione di copie pirata, a partire da quella clamorosa dell’editore americano Samuel Roth. O, viceversa, al contrabbando di copie originali in nazioni dove ne era vietata la vendita.

Dalla storia della pubblicazione dell’Ulisse emergono due immagini contrastanti dei protagonisti: la tenacia e la generosità di Sylvia Bech e la fragilità di un Joyce pieno di ossessioni e spesso dedito all’alcol, squattrinato ma sempre pronto a vivere oltre le sue possibilità a scapito di amici e conoscenti, arrivando al punto di sfruttare le risorse economiche della stessa Sylvia e di “tradirla”, dopo undici edizioni, cedendo i diritti ad un importante editore americano.

Sylvia accettò tutto senza risentimento. Amava Joyce e le sue opere nonostante tutto. La sua soddisfazione non era soltanto vendere o prestare libri, di Joyce o di altri, ma aiutare la creatività e intrecciare una rete di amicizie. Fra le numerose prove di altruismo, l’aiuto e l’ospitalità che insieme ad Adrienne diede alla fotografa Gisèle Freund, giovane rifugiata ebrea di Berlino espulsa dalla Francia. Ma anche a Gordon Craig e alla sua famiglia, rinchiusi dai tedeschi e salvati grazie all’intercessione di un cliente della Shakespeare and Company che fece da tramite con la Gestapo e assicurò che i Craig non fossero di origine ebrea.

Joyce, dopo varie incertezze, rifiuterà alla Shakespeare and Company persino la sua prima edizione del Finnegans Wake, che uscirà contemporaneamente in Inghilterra e negli Stati Uniti il 4 maggio 1939, mentre Hitler attuerà l’invasione della Cecoslovacchia e della Polonia. Ma per mettere la parola fine all’esperienza della Shakespeare and Company e a tutto ciò che era stato bisognerà aspettare il 7 dicembre 1941, quando i giapponesi bombarderanno Perl Harbour e l’America entrerà in guerra. Lì Sylvia Beach incomincerà davvero a temere non tanto per sé, in quanto americana, ma per la sua libreria. E non avrà tutti i torti. Ecco come il libro della Fitch riporta le battute finali:

«Alla fine di dicembre (1941) l’ufficiale tedesco che voleva la sua unica copia di Finnegans Wake ricomparve alla porta della Shakespeare and Company. Chiese dov’era il libro e Sylvia gli rispose che l’aveva nascosto. Questa volta la sua resistenza fu vana: “Verremo a confiscare il suo negozio” annunciò l’ufficiale, tremando di rabbia. Non appena se ne fu andato, Sylvia corse dalla portinaia, che le concesse gratuitamente un appartamento libero al quarto piano. Sylvia si rivolse a Saillet, che le chiese se non poteva attendere l’anno nuovo per spostare le sue giacenze. Non poteva. Temeva la confisca di Shakespeare and Company più della prigione. A tempo di record (Sylvia racconta di averci messo due ore), usando scatole e cesti per la biancheria, lei, Adrienne, Saillet e la portinaia spostarono oltre cinquemila libri, migliaia di lettere, quadri, tavoli, sedie, insegne e perfino lampade, i fili per la luce e gli interruttori, portandoli al sicuro al quarto piano. Chiamò un falegname per smontare gli scaffali e un imbianchino per cancellare la scritta sulla facciata del negozio. Dopo anni di sogni, mesi di progetti e ventidue anni di ciò che lei chiamò “pilotare una piccola libreria attraverso due guerre”, Shakespeare and Company scomparve in un baleno».

Ciò che ripetuti assalti di difficoltà economiche non erano riusciti a ottenere, riuscì invece ai nazisti. Alcuni mesi più tardi, i tedeschi arrestarono Sylvia Beach e la internarono prima nello zoo del Bois de Boulogne, quindi a Vittel. Ma i tesori della Shakespeare and Company restarono nascosti sino al momento della liberazione. La libreria non venne mai più riaperta, neppure a distanza di anni.

Di Sylvia Beach, per chi volesse farsene un’idea anche fisica, restano delle interessanti interviste registrate, in inglese o in francese, da lei rilasciate durante l’ultimo periodo della sua esistenza, quello degli onori. Con l’avvio delle ricorrenze annuali del Bloomsday (termine da lei coniato) e il diffondersi di un vero e proprio culto per Joyce, il suo nome tornò alla ribalta. Qui, ad esempio, è un’intervista resa disponibile dagli archivi dell’INA, l’ente nazionale francese incaricato della conservazione delle documentazioni audiovisive. Sylvia parla ovviamente in francese, la sua lingua di adozione.

Alla sua morte, nonostante le obiezioni dei suoi amici francesi e i suoi quarantasei anni trascorsi a Parigi, le sue ceneri vennero sepolte a Princeton, nel New Jersey.

Le palme mozzate di Magliani

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di Marino Magliani

Boomerang

Quando ti penso è perché non ti vedo

non perché mi manchi.

E se da quassù getto uno sguardo

la tua bocca triste inventa un sorriso.

Liguria tutta vallate l’una afffianco all’altra

come un pettine rotto.

La vergogna non è di essermene andato via

dai tuoi costoni bruciati. Ma tornare

a questa fetta di anguria morsa male

e tornare a capire che era all’alba

quando dovevi salvarmi dal furore

del mare.

Pensa alla tua forma di boomerang,

alle rincorse nel rauco respiro di cicala,

la fronda dell’ulivo dinnanzi a un burrone.

Vuoi che te lo confessi? Sono io

che t’ho sempre rincorsa, scema.

Forse se durante i pomeriggi delle gabbie

azzurre, quelli dell’ombra al torrente,

solitudine fresca sotto gli olmi, fossi riuscita

in qualche modo a trattenermi,

invece di star lì a giocare con me

senza dirmi nulla. Invece di sorprendermi

ogni sera. Ogni sera. Invece di chiedermi di ubbidirti,

e non di lasciarti convincere.

A rotta di collo le mulattiere scivolose.

Dal fondovalle per guardar le cose

bisogna alzare gli occhi o inventarsi scemenze.

Invece di far finta di niente e accettare come buona

la fronte bagnata di rugiada e non di sudore.

E sbandare assieme nelle curve del portico,

il fruscio di canneti, una corrente magra ci ha trascinati

troppo presto in città, per ultimo il mare

e al fascio luminoso all’orizzonte

il faro si è voltato verso rami

di notte saccheggiata e ci ha mollato lì.

Eravamo già andati via. Ma solo io.

Ti rendi conto di come è andata.

Il cavernoso rantolo di altri moli ha messo a tacere

le campane a festa. Non le sentivo più. Per anni.

Solo le tue ombre tossivano ancora.

Lontano, nuotavo fino a una boa mi sdraiavo,

il mento sulle mani, e guardavamo la nuova costa.

Rotolavo sulle sabbie finte d’estate, in Costa Brava,

d’inverno era la pozzanghera spumosa

di un pugno di isole africane.

Abitavo le montagne svizzere.

Mi svegliavo davanti alle pampe

sulle panchine o in galera.

Mi rilasciavano con un foglio di via.

Ma via dove? Via c’ero già, ci sono andato

solo da te via.

E da dove mi spedivano, e dove cadevo

la verticalità che mi ricordava «lontanamente

qualcosa di troppo tuo» poteva essere giusto

un albero all’orizzonte. El ceibo, albero di corallo,

in fondo alla pampa fioriva d’estate, tra dicembre

e febbraio, le ombre sanguinavano.

E il resto?

Erano i golfi dei fiordi. Le dune del Nord.

I pesci congelati da scaricare dalle stive delle

barche frigo.

Zee, all’imboccatura del canale

rumbo Amsterdam, sta per mare.

Zeau, in dialetto sta per ghiacciato.

Ti piaceva giocarci e io non ci scherzavo:

una lingua senza passato remoto è una lingua

inutile. Ci dimenticavamo.

Che altro, un anno di piatti e pentole nei ristoranti

norvegesi, un anno a lavare.

Il detersivo, attraverso la cartina biografica

del mio continente, giungeva alle tue falde acquifere

per dirti ci sono. Forse. A volte, sono io.

Eppure ogni tanto giocavamo ancora a rincorrerci.

A chiederci le cose, anche ora.

Inizio io, dove sei stata?

Io qui, lo chiedo a te.

Io anche, non me ne sono mai andato. Il detersivo

era di un altro.

E poi domande intime.

In quale segreta tua parte del mondo cercarti,

ora che non ci sono più estati australi

e sono qui a torturarmi all’ombra delle palme tagliate.

Si nasce d’estate a giochi fatti e il resto della vita

si passa a ubbidire a qualcosa che la vita ci chiedeva

quand’era ora. Che sforzi, mi dici.

Sotto le pietre del paese a trafficare con il reticolato

delle parole che tiene assieme il respiro e manda,

manda dispacci dalla valle, ora che sono qui

nel bosco ulivato tra Prelà e Dolcedo, e li cerco,

dove sono sepolti i nostri ciottoli?

Li avevo lasciati in un orto, promettendomi

poi torno.

Hanno addirittura frantumato per noi

il tuo carruggio, ti rendi conto, che onore.

Tu con un compasso avevi pensato a un cerchio

e perché la circonferenza lambisse la spalliera

di Moro e la foce del Prino, avevi trovato un centro

e in quel punto hai voluto il nostro carruggio.

Non è giusto dire è passato così tanto tempo

che a volte rientro e mi rifiuto di percorrere

la tua vena di asfalto.

Non è questione di tempo, no, e uno non torna

neanche perché sa che torna da clandestino,

ma perché anche stavolta sai che poi tornerai

ad andartene da espulso.

Per questo, mi basta sfiorarti e fermarmi

in una stanza di albergo ai tuoi piedi,

e star lì alla finestra – starci bene lo ammetto –

come il geco di Palomar, posto nell’insolita posizione

di spalle a te, le dita come ventose ai vetri,

il silenzio da cui appare un molo che non è

più terra né mare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NdR: la poesia è tratta dalla raccolta “All’ombra della palme tagliate” (Amos Edizioni, 2018), illustrata da Sergio «Ciacio» Biancheri

 

I poeti appartati: Fernando Bandini

3

Nota

di

Alida Airaghi

Fernando Bandini (Vicenza, 1931-2013) poeta, scrittore e docente di stilistica e metrica all’Università di Padova, compose versi in italiano, latino e dialetto vicentino, e fu egregio traduttore di classici.
Mondadori giustamente pubblica ora Tutte le poesie, a cura di Rodolfo Zucco, con introduzione di Gian Luigi Beccaria e un saggio biografico di Lorenzo Renzi. Il volume ripropone, nelle sue 700 pagine, non solo le raccolte minori (a partire da Memoria del futuro del 1969 fino a Un altro inverno del 2012), ma anche poesie disperse, una scelta di traduzioni e di testi in latino, con un ricchissimo apparato di note e una dettagliata bibliografia.
Partendo proprio dall’affettuoso contributo di Lorenzo Renzi sulla vita dell’autore, veniamo a sapere della sua nascita – primogenito di quattro figli – in una famiglia modesta, della perdita precoce del padre, degli studi prima in un collegio religioso, quindi all’università patavina, allievo di Gianfranco Folena. Maestro per sedici anni in varie sedi della provincia vicentina, nel 1972 iniziò la carriera universitaria. Non lasciò mai Vicenza, pur vivendo con la città un rapporto ambivalente, «di odio verso l’ambiente provinciale e retrivo», e insieme di affetto e identificazione. Ad Aznèciv (come la chiamava spesso nelle sue composizioni, trasfigurandola ironicamente con un palindromo) frequentava intellettuali famosi come Piovene, Parise e l’editore Neri Pozza, che fu il primo a pubblicarlo nel 1962, animando in loro compagnia circoli culturali e associazioni politiche. Da un’iniziale vicinanza al cattolicesimo progressista, passò con la maturità a un impegno laico e socialista, nel costante richiamo di integrità e resistenza rispetto a una contemporaneità imbarbarita e disumanizzante.
Renzi si sofferma anche sul carattere dell’uomo, semplice e signorile, dotato di humor, rasserenante nel suo eloquio dolcemente segnato dalla cadenza veneta.

La poesia di Fernando Bandini, sebbene non abbia goduto del riconoscimento e del successo pubblico che meritava, sia a causa della sua atipicità e del severo virtuosismo formale, sia per il profilo discreto e riservato della persona, ebbe molti estimatori tra letterati e critici: Zanzotto e Raboni, in primis, e poi i più giovani allievi e seguaci Paolo Lanaro e Rodolfo Zucco. Andrea Zanzotto lo definì: «poeta eccezionale tra pacatezza e meditazione», e Giovanni Raboni commentò con ammirazione la sua «poesia percorsa da una sottile mobilità e inquietudine», e il suo «parlare sommesso e ragionativo». Dello stile di Bandini si occupa specificamente l’introduzione di Gian Luigi Beccaria, che evidenzia «la limpidità della lingua… la sensibilità e la perizia metrica… la piena sostanza sintattica… una medietà e colloquialità simulata» praticate da questo poeta che si muoveva «fuori da scuole o gruppi», consapevole però del valore di tutta la tradizione letteraria italiana, e contiguo agli esiti di Giudici e Raboni, piuttosto che alle dissacrazioni, agli ermetismi e ai tecnicismi delle avanguardie. In relazione ai contenuti della sua scrittura, Beccaria sottolinea l’«appartata / tenerezza», affettuosamente complice, con cui Bandini guardava agli affetti familiari e alla quotidianità domestica, alle presenze animali e vegetali della natura, alla «farragine di tetti» della sua piccola Aznèciv («questa città dove all’alba / riconosco alla voce ogni campana», «questa città / indotta e bigotta»). Un mondo che amava raccontare anche in dialetto ‒ lingua “subliminale”, che scava nei meandri mentali ‒, rievocando e ricostruendo una storia personale e collettiva, piena di sogni e di incubi: «Dove le càtito, ciò! le parole / che ghi n’è sempre manco? / Le cato te le spassaúre / che i descarga de sfròso in meso ai prà».

Dal microcosmo locale, Bandini riusciva poi ad innalzarsi fino alle quote eccelse di un’osservazione stupefatta dell’universo: «oltre i confini dei miei occhi verso / regioni dove non arriverò mai».
La cifra più evidente della sua poesia rimane comunque quella della memoria, della nostalgia per l’infanzia e la giovinezza, soprattutto a partire dalle ultime raccolte di versi, là dove impegno e indignazione civile, pur rimanendo intuibili in una sorta di risentimento ideologico, cedono il passo alla consolazione del ricordo, allo struggimento per il perduto: «Voi dove siete andate, / care voci alloglotte / che una volta sentivo / parlare dalla cavità dei muri?», «O primavera celeste / dei miei quattordici anni, / fughe, proiettili, fiori», «A vent’anni sognavo allori. / Dio, che sciocchezza! / Ebbro del fumo della mia sigaretta / andavo incontro ai galli / che cantavano sulla collina, / vedendomi famoso», «I gatti che ho amato / adesso dove sono, in che tranquillo Eliso / o miagolante Averno?»,
«I miei compagni morti, franati nell’Eterno / sotto le bombe come / ora evocarne il nome, come piangerli?».
Orgogliosamente il poeta difendeva la sua scelta di far rivivere nei versi il tempo trascorso: «Non si tratta di ritrovare il passato né di guardare il passato con lo sguardo degli eruditi o con l’atteggiamento dei conservatori. Ma solo di ricordare che il futuro è anche memoria».
Vorrei infine accennare, per quello che può essere consentito nell’ambito di una semplice recensione, all’attività di traduttore e di autore in latino di Bandini, che così si esprimeva al riguardo: «Dialetto e latino sono lingue-rifugio, camminamenti di talpa scavati sotto la terra per vedere le parole dalla parte della radice». Riferendosi alla prima delle due specifiche competenze, con fierezza ribadiva: «Tradurre una poesia è scrivere una poesia». Si cimentò con i testi di Virgilio, Orazio, Arnaut Daniel, Rimbaud e Baudelaire, arrivando addirittura a trasporre in latino alcune composizioni di Montale («Anguilla borealium / syrenen marium //… quidni credideris paene sororculam?»).
Relativamente alla sua straordinaria capacità di utilizzare una lingua morta per esprimere contenuti e sentimenti del tutto moderni, affermava che ricorrendo ad essa intendeva recuperare «sensi perduti, la capacità di evocare una qualche immagine paradigmatica dell’uomo nel frammentato panorama della poesia d’oggi»: pertanto rigettava con fastidio l’accusa di sentimentalismo e di un conservatorismo “pascolizzante”. Se tali pubblicazioni si segnalarono a livello internazionale per quantità e qualità a partire dagli anni ’70, fu soprattutto la produzione in «un limpido, saldo italiano» quella a cui demandava l’interesse e la volontà di essere ricordato come poeta, convinto che movente fondamentale della sua scrittura dovesse essere la «volontà di dire», la capacità di comunicare con nitida eleganza, come giustamente sottolinea Rodolfo Zucco, attento e appassionato curatore di questo volume.

 

Sette poesie

di Fernando Bandini

 

Ci vorranno giorni

Ci vorranno giorni e giorni per lavare questa colpa
che non è colpa né mia né tua
ma di chi diede gli ordini e di chi vi obbedì,

per tutto il fascismo che ci brulica sotto
come un formicaio nascosto dall’erba:
fascismo nell’occhio della quaglia tremante

e in quello del ragazzo che attraversa il grano.

Da Memoria del futuro, Mondadori 1969

 

Nessuna parola

Così abbagliante ormai
la distesa di neve che la retina non ce la fa.
Tutto è silenzio dopo lo schianto dei rami,
nessuna parola aveva colto nel segno.

Da La mantide e la città, Mondadori 1979

***

Amnesia

Giorno per giorno qualche nome si eclissa
dalla mia lingua e dalla mia memoria,
usuali parole come sedia bottiglia.
Oh, trafelate corse per riprenderne
possesso! Annaspo naufrago
in un mondo che sempre più smarrisce
i suoi eoni, balbetto
come Mosè presso il roveto ardente.

E con nervoso tremito pronuncio
casa farfalla mela
per esorcizzare la buia notte
che si avanza a grandi passi;
ma poi casa precipita, farfalla
si polverizza in porpora,
mela mi è tolta divorata dal verme
che abita il mio cervello.
Come mi muoverò, poeta senza
gli amati nomi succo delle cose,
tra i buchi d’un saccheggiato universo?

Da La mantide e la città, Mondadori 1979

 

Desso i me spoia nuo

Desso i me spoia nuo.
I pensa
che la roba che i serca mi la sconda
soto i vestiti.
I dise che i me cavarà
le onge se no parlo,
i me mola na svèntola.
Desso i me verze
i denti co na méssola.
Quelo che i serca i pensa che lo sconda
soto la lingua.
No i sa che la xe solo
roba che se se insogna.

(Adesso mi spogliano nudo Adesso mi spogliano nudo. / Pensano / che la cosa che cercano io la nasconda / sotto i vestiti. // Dicono che mi caveranno / le unghie se non parlo, / mi mollano un ceffone. // Adesso mi aprono / i denti con una falce. / Quello che cercano pensano che io lo nasconda / sotto la lingua. // Non sanno che si tratta soltanto / di cose che si vedono in sogno).

Da Santi di Dicembre, Garzanti, Milano 1994

 

Meridiano di Greenwich

Mi sembravi quasi un’estranea
Mentre eravamo tra la folla
A Piccadilly o nella sotterranea.
Ma qui nei recessi del bosco
di Greenwich dove il sole è una fioca corolla
dai baci, amore mio, ti riconosco.

Da Meridiano di Greenwich, Garzanti 1998

 

Voci serali

Adesso il mondo non è più remoto.
Sta tutto addosso a noi,
tutto pigiato nelle
stanze sgomente delle nostre case.
Ma ci sono giù in strada dei bambini
che si gridano «ciao».
Una volta, due volte – mentre l’uno
dall’altro si allontana – tre volte, quattro volte,
senza voltarsi indietro.
E le voci si librano nell’aria
finché l’azzurro della sera è solo
loro esclusiva eco.
Cinque volte, sei volte, sette volte.
Forse perché si accordano
ai battiti del tempo, ne scandiscono
la diastole e la sistole.
O forse il loro modo di contare
somiglia un poco al mio
quando conto le sillabe dei versi
stoltamente sperando che una grazia celeste
mi rimanga impigliata tra le dita.

Da Dietro i cancelli, Garzanti 2007

 

Ricevendo da Copenaghen nel mio ottantesimo compleanno
una cartolina di auguri raffigurante un paesaggio polare

Si vedono i pinguini sulla banchisa dell’Oceano Artico
che guardano lontano schierati lungo il lido
a centinaia, in piedi, presumo senza un grido,
in quello sconfinato bianco. Ma dove spazia
il loro vacuo sguardo non c’è più mondo ormai,
solo disabitate isole che hanno il nome
di sovrani d’imperi già tramontati come
Zemlya Frantsa Iosepha.

Io t’invoco, Signore, dal mio più mite Sud.
Non sottrarmi, ti prego, le voci della terra,
il chiassoso risveglio dei tuoi uccellini.
Quanto c’era di meglio l’ho già visto quaggiù,
mi annoierei, io temo, nel tuo paradiso.

Da Un altro inverno, Il Girasole 2012

Questi fantasmi di un autunno romano, tra Manganelli e Hitchcock 

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di Matteo Pelliti

Luca Ricci approda al romanzo, Gli autunnali (La Nave di Teseo, 2018) senza rinnegare il suo passo da raccontista convinto e, anzi, dedicando questo ultimo lavoro al suo nume Maupassant, l’autore che, a detta dello stesso Ricci, lo avviò sulla strada della scrittura durante una giovanile peregrinazione per i lungarni pisani in preda a una lettura capace di imprigionarlo fuori dal tempo fino a che non l’avesse conclusa. “Tornano, i morti?”, si chiede Maupassant nell’epigrafe del capitolo Ottobre. Evidentemente sì, se è vero che la letteratura è inesauribile dialogo coi morti (chi ha scritto prima di noi) e che questo romanzo è reincarnazione di alcune membra di racconti, smembrati (senza dolore) dell’autore per farne carne da romanzo. Specularmente a quanto aveva fatto appena poco tempo fa, sopprimendo romanzi per farne racconti (I difetti fondamentali, Rizzoli 2107) qui Ricci si auto-cannibalizza riusando suoi moduli propri (come dichiara esplicitamente nella nota a fine testo). Il risultato degli innesti è invisibile e riuscito (Il piede nel letto) e, dove in qualche punto qualche cicatrice pare riaffiorare sulla pagina (come nell’uso del racconto Amici immaginari), ciò costituisce un grumo narrativo posto a sbalzo, a render omaggio all’arte del racconto, come inserendo un quadro in un quadro. 

Il cosmo di Dante e il caos di Gombrowicz

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[Il saggio “Su Dante” di Witold Gombrowicz (trad. di Roberto Landau), tratto dai suoi diari, apparso per la prima volta in Francia e già edito da Sugar (Milano) nel 1969, è riproposto oggi da Dante & Descartes (Napoli). Pubblico la prefazione di Vittorio Celotto, ringraziando il curatore e l’editore. ot]

di Vittorio Celotto

Nei primi capitoli di Ferdydurke (1939), il protagonista, trasformato in bambino dal professore Pimko, viene trascinato a forza in una bizzarra scuola, dove le lezioni sono formule sclerotizzate ripetute fino alla nausea, e gli allievi sono letteralmente costretti a provare ammirazione per un certo poeta nazionale, per la semplice ragione che “era un grande poeta”. Quando uno studente osa confessare di far fatica a leggere anche solo due strofe dei suoi poemi, perché “quella roba non piace a nessuno”, Pimko, allarmato, infligge alla classe la pubblica declamazione della sua opera completa, concludendo che “la grande poesia, in quanto grande e in quanto poesia, non può non suscitare ammirazione, e quindi la suscita”.
L’opuscolo Su Dante, pubblicato nel 1966, si può immaginare come la replica ideale che Gombrowicz, a trent’anni di distanza da quel suo primo romanzo, rivolge a quel professore. Si tratta di un pamphlet polemico più che di un saggio di critica letteraria, lettura compromessa e deformante, gravida di memoria e personale ostinazione, che probabilmente ci parla di Gombrowicz più di quanto non ci aiuti a capire la Commedia. Ma pochi libri, come questo, obbligano a liberarsi della retorica ossequiosa che infetta ogni discorso su Dante, per riflettere sulla sua lunga durata nel canone delle nostre letture. Il tono corrosivo di queste pagine, la disarticolata architettura dei pensieri, rivelano l’applicazione ossessiva di chi ha rovistato nelle stesse maglie della poesia dantesca, e non altrove, per cercarne le ragioni della bellezza. Gombrowicz resiste a ogni tentazione apologetica, che anzi è il suo primo bersaglio polemico, e non elude, ma aggredisce frontalmente il dubbio che era stato anche dello scolaro di Ferdydurke: che cosa la Commedia, questo lungo poema in versi intriso di mentalità medievale, abbia ancora da dire al lettore del Novecento.
Dante viene sottoposto al tribunale del presente con uno spirito di provocazione e una carica eversiva del tutto inediti. La sua poesia viene rivoltata e scomposta attraverso molteplici punti di osservazione, perché sia essa stessa a fornire i mezzi per farsi comprendere e apprezzare. Si alternano così giudizi contrastanti, la cui apparente perentorietà è costantemente contraddetta da nuovi livelli di analisi, che partoriscono nuovi giudizi, denunciando una continua esitazione tra attrazione e rifiuto. Non è un caso che nessuna delle aporie sollevate dal libro venga risolta definitivamente e che la conclusione coincida con una serie di domande destinate a rimanere senza risposta. A Gombrowicz importa decisamente meno sostenere una tesi a forza di argomentazioni che esibire provocatoriamente il rovello della sua ricerca delle verità che la letteratura di ogni tempo è chiamata a esprimere.
È chiaro che queste pagine, al pari delle molte altre sparse nei suoi diari contro i poeti e contro la poesia, vanno riportate dentro il dibattito culturale in atto nel secondo dopoguerra in Europa. Vanno cioè lette come reazione ai miti letterari in auge in quegli anni, primo fra tutti quello della poesia pura e dell’estetismo borghese che dietro la sacralità del lirismo maschera la sua rinuncia a guardare agli orrori e alle bassezze della realtà. Gombrowicz passa tutta la vita a opporsi alla classe intellettuale europea (e non solo), che considera ridicolmente arroccata nell’autoreferenzialità e nell’autocelebrazione, riparata dietro vuote posture ideologiche, incapace di abbracciare la magmatica vitalità delle cose. L’opuscolo dantesco è perciò anche una critica al culto aristocratico del vate e, più in generale, alle impalcature fintamente oggettive imposte dalla recente critica strutturalista, tanto più sterili e inefficaci quanto più chiuse nella loro pretesa di imparzialità.
Osservate da questa prospettiva, queste pagine, apparentemente contro Dante, sono in realtà lo sforzo di instaurare un dialogo vivo con Dante, di recuperare l’uomo dietro e attraverso l’opera: sono un organo di resistenza al rischio che una tale personalità poetica finisca mummificata e convertita in puro nome, che di lui non sia più possibile dire o sapere altro che il nome.
Ci si può chiedere perché proprio Dante. Perché, tra i suoi tanti idoli polemici, Gombrowicz abbia scelto di approfondire la sua critica proprio su Dante. Non c’è dubbio che lo abbia letto fin dagli anni della sua formazione. Lo dimostrano ancora le prime pagine di Ferdydurke, dove sono citati i primi versi dell’Inferno, seppure per via di manipolazione: “nel mezzo del cammin della mia vita mi ritrovai per una selva oscura. E il guaio era che si trattava di una selva verde“. Il cammino del protagonista non ha, non può avere più nulla dell’allegorico pellegrinaggio dantesco, ne è piuttosto la versione degradata: la selva è verde, tutta terrestre, il male ha tinte non più così facilmente riconoscibili, la guida è un pedante ciarlatano, la strada è intricata e non condurrà a nessuna salvezza.
Ma forse più ancora che nel primo romanzo, la chiave per comprendere il rapporto con Dante è in Cosmo (1965). Il titolo allude all’immagine, di matrice classico-cristiana, dell’armonia del mondo: cioè a un sistema di corrispondenze tra microcosmo mondano e macrocosmo trascendentale, che fa dell’universo lo specchio della perfezione e della bontà divine. Gombrowicz stesso lo definisce “un tentativo di organizzare il caos”, e si può credere senza troppe forzature che l’ordine metafisico rappresentato nella Commedia sia stato per lui un punto di riferimento. Ma l’ossessiva investigazione dei due protagonisti del romanzo non è che la ratifica definitiva della caduta di quell’ideale di armonia. I segni sono indecifrabili, le cose tragicamente irrelate, e il bisogno di trovare delle corrispondenze non porta ad altro che a confondere una banale crepa nel muro con una freccia che non porta da nessuna parte.
È un tema ricorrente nella narrativa di Gombrowicz. Ogni individuo è imprigionato in forme precostituite, nelle quali non può identificarsi perché ne limitano libertà ed espressione, costringendolo a una vita inautentica. Allo stesso tempo però non può fare a meno di ricercare spasmodicamente quelle stesse forme, che sono l’unico mezzo di cui dispone per comprendere sé stesso e la realtà circostante. Il bisogno di affermare, di supporre nelle cose un ordine maggiore, è contraddetto puntualmente da una realtà che si nega a ogni definizione, destinando ogni sforzo all’inanità.
Si capisce allora che la Commedia rappresenta per Gombrowicz proprio questo sforzo, sempre insufficiente eppure insopprimibile, che risiede nell’uomo quasi più come una condanna che come una possibilità conoscitiva. Da dentro l’insensatezza invalicabile e prepotente delle parole e delle cose, resta una qualche nostalgia di un tramontato ordine archetipico, di quando era possibile affidarsi a una divina architettura. Ma Gombrowicz non si accontenta di facili risarcimenti. Pretende da Dante una risposta sul presente, e questo spiega il suo atteggiamento agonistico, che lo spinge persino al paradosso di correggere e riscrivere i versi danteschi, come per scuoterli, scrostarli delle impurità accumulate in secoli di concilianti interpretazioni, e cavarci finalmente una via d’uscita: “spiegaci, o Pellegrino, come dobbiamo fare per giungere a te?”.
T.S. Eliot scriveva che per comprendere e apprezzare la Commedia non è necessario credere nelle idee filosofiche e teologiche in cui credeva Dante, bensì è sufficiente conoscerle. Che sia possibile giudicare ogni aspetto della realtà entro un disegno provvidenzialmente disposto, è per Dante una verità incontrovertibile. Gombrowicz non può più credere in questa verità, ma nel contempo non gli basta semplicemente conoscerla. Sa che il cosmo si polverizza inesorabilmente nel caos, l’ordine è compromesso dall’inferno dell’esistere, non lo spiega. Il suo Dante è la traccia rabbiosa di questo conflitto, la ferita inferta dal tragico compito di ammettere di essere nati per viver come bruti.

Tre incontri sulla letteratura elettronica a Genova

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Fabrizio Venerandi, autore dell’ebook Poesie Elettroniche coedito da Nazione Indiana, terrà a Genova tre incontri a ingresso libero sul tema della letteratura elettronica. Accorri numeroso! – Jan Reister

PRIMA GIORNATA – Martedì 13 marzo

Presentazione di Poesie Elettroniche di Fabrizio Venerandi (Ed. Quintadicopertina &Nazione Indiana 2016). Un viaggio, assieme all’autore, all’interno del suo ebook di electronic poetry. Quali sono stati i lavori ispiratori, come si scrive (e come si legge) una poesia elettronica, come la si programma, come la si modifica. Con l’Autore dialoga Donald Datti, poeta del gruppo Bib(h)icanti

SECONDA GIORNATA – Mercoledì 28 marzo

Letteratura elettronica: uno sguardo internazionale.

Dai text adventure degli anni Ottanta, alle App di lettura interattiva, dai Multi User Dungeon fino ai catalogi di Electronic Literature di ELO.

TERZA GIORNATA – Mercoledì 11 aprile

Il digitale prima (e fuori) del digitale.

Un viaggio tra i testi di narrativa cartacea non lineare: da Il gioco del mondo di Cortazar a Aurum Tellus di Gavino Ledda, da In balia di una sorte avversa di Johnson a La nave di Teseo di J. J. Abrams e Doug Dorst. Senza dimenticare i librogame.

Gli incontri sono alle ore 17 presso la Biblioteca Universitaria di Genova – ex Hotel Colombia – via Balbi 40 – 16126 Genova. Ingresso libero.

Comunicato stampa

Mutandine

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di Mirfet Piccolo

Era mattina, e lui dal comò afferrò un paio di mutandine della moglie: un tanga di colore nero con pizzo, davanti; dietro, il filo sottile aveva come scopo la nudità delle natiche e, al contempo, lo sfregamento dell’orifizio. Le mise nella borsa in pelle, tra l’agenda e l’ultimo numero della rivista Anesthesiology. Nel fondo della borsa, Sergio intravide una caramella al lampone, residuo della sua più recente sosta fuori casa. Chiuse tutto in fretta per non cedere alla sua naturale propensione a soffermarsi sui dettagli. D’altronde, la richiesta era stata chiara e questa volta non avrebbe ammesso obiezioni: voglio le mutandine di tua moglie e questo è un ordine.

Poi Sergio entrò in bagno, abbassò la tavoletta del water e si sedette ad osservare il corpo nudo di Clara che appariva oltre il vetro smerigliato del box doccia: i tratti confusi e apparentemente inafferrabili avrebbero potuto essere di chiunque. In fondo era andata così, quella mattina all’alba dopo il turno di notte in ospedale, e a quel ricordo Sergio sentì il suo desiderio farsi carne nel pene turgido, e, ancora una volta, provò vergona e piacere e senso di colpa. Quando sua moglie chiuse l’acqua della doccia, Sergio si alzò e uscì dal bagno.

In camera da letto, Sergio accese la televisione: guardò le immagini disturbate, tagliate da scie bianche e nere che nella promiscuità diventavano grigie. Clara entrò in stanza con l‘asciugamano sui capelli bagnati e un sorriso stanco e un po’ triste. Sergio aprì l’anta dell’armadio; celare l’indicibile, ovvero la sua stessa corruzione, rimanere nell’ombra.

– Sei di turno ogni sabato, adesso.

– È solo un periodo, passerà. Hai chiamato il tecnico?

– Oggi la porto in negozio, ma forse dovremmo cambiarla, ci costa di meno. Queste cose si rompono di continuo, ormai.

– Forse non dovremmo tenerla in camera da letto – disse guardandosi allo specchio mentre si abbottonava la camicia -, forse potremmo farne a meno.

– Che differenza farebbe?

La camicia era abbottonata, ma lui rimase allo specchio ad osservare, nel riflesso, sua moglie che si vestiva. Eccola, elegante e fresca, le scarpe rosse con il tacco che lui le aveva regalato e che, una notte, le aveva fatto indossare mentre lei, nuda, in ginocchio e davanti al lungo specchio, con la bocca prendeva il suo sesso. Su e giù; la schiena riflessa, i glutei sodi leggermente dischiusi, i tacchi divenuti scostumati. Ricordò la bocca di lei riempirsi della sua eiaculazione, del suo trionfo. Dopo quella sera, la stesa scena era stata ripetuta qualche altra volta con un entusiasmo ed eccitazione via via decrescenti, fino a scomparire.

Le nove del mattino. Salutò la moglie ricordandole che avrebbe potuto fare tardi anche per cena, di non aspettarlo, e sua moglie, nell’abbraccio e dopo un bacio, non fece domande.

In strada, il calore dell’estate era una maschera che gli avvolgeva il viso dopo averlo schiaffeggiato; era punizione e godimento insieme. Stava per succedere ancora, pensò, e questa volta lui sarebbe stato l’artefice, il regista di un gioco che lui stesso non avrebbe mai immaginato possibile. Controllare il gioco come si controlla la vita e la morte; io so sospenderle, pensò, io so riprenderle e lasciarle andare. Salì sulla sua Audi ma non partì subito. Appurò che tutto fosse in ordine: il libretto di circolazione, la patente, gli specchietti ben posizionati; verificò che non ci fossero chiamate non risposte, messaggi non letti ai quali avrebbe dovuto rispondere con una menzogna e, infine, quando ogni cosa fu controllata, Sergio mise in moto.

La scritta a neon rossa Sex Shop era una prima donna in mezzo ai capannoni industriali di una provincia che il cemento aveva desertificata. C’era già passato davanti altre volte, ma senza mai fermarsi. Perché con Clara non era mai entrato in posto così? Sergio si ripromise che lo avrebbe fatto, certo, e che lui sarebbe tornato un marito non fraudolento, un marito conforme alle aspettative. Spense il motore. Il negozio era aperto da pochi minuti ma molti posti del parcheggio erano già occupati. Una donna, di apparente mezza età, con lo sguardo basso e il passo svelto entrò nell’adiacente Slot Machine Palace; l’insegna recitava: +18, aperto tutti i giorni dalle 10.00 alle 02.00. Sergio non poté fare a meno di pensare che, tutto sommato, se avesse avuto il vizio del gioco sarebbe stato peggio. Più in là, un camion della logistica entrava e usciva da un capannone; carichi e scarichi, vite impacchettate.

L’aria calda e immobile entrava dai finestrini abbassati. Sergio pensò che era ancora in tempo per tonare indietro, per annullare l’appuntamento, per cancellare tutta quella storia inqualificabile. Poteva controllarla.

Il negozio aveva appena aperto e Sergio, al momento, era l’unico cliente. Alla cassa, un uomo stempiato e sovrappeso era intento a compilare dei moduli e a firmare carte; l’uomo alzò lo sguardo verso Sergio: se ha bisogno chieda pure, disse. Il Sex Shop era un drappo di velluto scarlatto; la luce, calda, illuminava gli scaffali senza pretesa di sconvolgere. Era tutto lì, afferrabile da chiunque, misterioso e normale, ordinato, catalogato per genere e dimensione, colore, desideri e fasce di prezzo. Palline di Geisha, vibratori singoli e duo, stimolatori, plug Anal Dream, cuscini gonfiabili con fallo, bende, manette, corde. I best-seller del mese erano due: il Plug Anale Matrioska Prince of Kiev Pink, da una parte; e il Brent Corrigan Butt, dall’altra.

Andò nel settore lingerie e trovò subito le calze a rete con apertura. Erano parte degli ordini ricevuti; e gli ordini erano, per Sergio, la scoperta dell’eccitazione dove non se l’era mai aspettata. Andò alla cassa e pagò le calze a rete in contanti. Vuole che le faccia un pacchettino? No, grazie, va bene così. Chiese se ci fosse un bagno disponibile per i clienti; il negoziante, con un sopracciglio sollevato, rispose con tono pacato che se lì ci fosse stato un bagno a disposizione dei clienti, di certi clienti, sarebbe stato sempre occupato. Sergio si sentì sciocco e in imbarazzo e chiese scusa.

Rientrò in macchina. Il caldo si era impossessato di ogni cosa: della sua auto e dei capannoni e del cielo azzurro terso. L’insegna del negozio era la cosa più anarchica nel raggio di chilometri. Prima di mettere in moto, Sergio immaginò di vedere Clara nella sua Toyota color ambra. Immaginò di vederla entrare nel Sex Shop per fare l’equivalente di ciò che stava per fare lui, e trovò il pensiero sconvolgente ed eccitante. Molti anni fa, quando erano ancora fidanzati, Clara aveva raccontato a Sergio di aver vissuto un’esperienza sessuale estremamente stravagante per il suo carattere: aveva baciato un’altra donna, o meglio, una ragazza. Era accaduto in quarta liceo nei bagni della scuola – “nei bagni delle scuole ogni cosa è possibile”, aveva aggiunto portando la testa indietro con una grande risata -; era stato qualcosa di mai più ripetuto e lasciato andare senza nostalgia, piuttosto raccontato come un evento piacevole, sì, ma eccezionale e, tutto sommato, buffo.

C’era coda, e il bagno dell’autogrill odorava di tutto il piscio del mondo e di vacanze sfatte. Sergio si chiese quanti uomini, di quelli in coda, avessero fatto ciò che Sergio stava per rifare. Forse, pensò, sono in coda come me e loro sono come me; forse anche loro, nei loro borselli a tracolla, nascondono il tradimento. Chi non ha peccato scagli la prima pietra, o il primo borsello o zaino; chi non ha peccato si amputi il rigonfiamento carnoso che emerge dai bermuda a fantasia, il capo d’abbigliamento principe di un’altra (l’ennesima) estate in famiglia.

In bagno, Sergio si tolse i pantaloni e le mutande. Dalla borsa in pelle sfilò le mutandine della moglie e le indossò: dall’alto osservò il pene compresso dal tessuto in pizzo nero e lo accarezzò ma senza esagerare perché, si disse, non era ancora il momento; poi indossò le calze a rete, e infine si rivestì del tutto. Tra le natiche, il filo sottile era teso e, finalmente, poteva sentirlo in tutta la sua impertinente provocazione. Sergio uscì dal bagno con la straordinaria consapevolezza che la sua eccitazione sarebbe stata evidente a chiunque avesse abbassato lo sguardo anche solo di sfuggita, e in quell’istante, cioè quando aprì la porta del bagno e vide la coda essersi fatta ancora più affollata, scoprì che essere guardato nella sua indecenza era ciò che desiderava in quel momento. Non chiedeva altro.

Il Motel era elegante: cinque stelle e parcheggi riservati e discreti; la receptionist in tailleur e le caramelle al lampone in una ciotola color argento, le stesse che gli ospiti avrebbero ritrovato in camera. Sergio consegnò il documento d’identità; la receptionist era la stessa dell’altra volta e Sergio fu tentato di chiederle se Darina fosse il suo vero nome, e quanti anni avesse e se le piacesse quel lavoro e cosa ne pensasse degli uomini come lui. Fu tentato di dirle che sarebbe stata l’ultima volta, che non si sarebbero più rivisti; e, vede, io non sono ciò che crede lei. La numero diciotto, disse la donna, la stanno già aspettando.

Il percorso dalla reception al bungalow numero diciotto fu assai breve. Parcheggiò la sua Audi accanto a quell’atra macchina che conosceva così bene; il parcheggio, in effetti, era riservato, disposto in modo che nessuno degli ospiti degli altri bungalow avrebbe potuto vedere i rispettivi vicini entrare e uscire dagli alloggi e, ciascuno a bordo del proprio veicolo, fuggire di gran lena lontano dal luogo dell’adulterio.

Stava succedendo ancora, pensò, era già in stanza e lo stava aspettando. A motore spento, Sergio pensò anche che era ancora in tempo per andarsene, per tornare a casa da sua moglie e magari andare insieme a comprare un nuovo televisore, poi avrebbero potuto andare a pranzo fuori e sorridersi a vicenda tra i riflessi di un calice di vino, per poi tornare a casa a fare all’amore: il loro amore semplice e costante, il loro desiderio quieto. E nel tempo di quell’amore, Sergio avrebbe potuto, ancora una volta, abolire la sua coscienza e sospendere il battito del suo cuore per il tempo necessario a camuffarlo in un orgasmo senza discrepanze. Avrebbe potuto.

Smise di pensarci e scese dall’auto, bussò alla porta. Oltre la porta poteva sentire i suoi passi, e Sergio li ascoltò avvicinarsi uno dopo l’altro. La porta si aprì e lui era lì, ancora una volta davanti a lui, così osceno e così bello, ad accoglierlo: hai portato le mutandine di tua moglie, vero?

Lo studio di Sciascia

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di Giuseppe Schillaci

 

Il brano è stato pubblicato nel numero della rivista francese « Atelier du roman » dedicato a Leonardo Sciascia (autunno 2016, traduzione di Eloisa Del Giudice).

 

LO STUDIO DI SCIASCIA 

 

Per uno scrittore siciliano come me, Leonardo Sciascia rappresenta un maestro. E in tempi in cui i maestri scarseggiano, averne uno è un lusso che devo dimostrare di potermi permettere.

Per farlo, ormai da qualche anno, vado in visita alla Noce, nella casa vicino il paese di Racalmuto, in provincia di Agrigento, dove Leonardo Sciascia scriveva i suoi libri e invitava gli amici più intimi. Ad accogliermi nella casa della Noce è suo nipote Vito Catalano, la moglie polacca e le figlie.

Vito ci tiene a ricordarmi che qui, nella casa della Noce, tutto è rimasto uguale per rispetto alla memoria del nonno. Dopo un pranzo italo-polacco, Vito mi accompagna in pellegrinaggio al piano di sopra, dove c’è lo studio di Sciascia. Già la scala, con le sue mura tappezzate di mappe siciliane, mi fa capire che ci stiamo addentrando in uno spazio particolare, sobrio e magico al contempo. Superata una vecchia libreria traboccante di vecchie edizioni italiani e francesi, sulla destra di uno stretto corridoio, ecco aprirsi lo studio di Sciascia: una piccola camera con lo scrittoio e la macchina da scrivere Olivetti Lettera 22 di quel colore unico, un verde acqua bluastro che potremmo definire « color Lettera 22 ». Lo studio di Sciascia sembra la cella di un monaco emanuense, o anche l’ufficio di un ragioniere di paese : « tutto è come l’ha lasciato il nonno », mi ripete ancora Vito, come se non si vedesse, o come per volersi giustificare da eventuali incaute intrusioni. Certo, essere il nipote di Leonardo Sciascia deve essere una bella responsabilità, una missione che Vito porta avanti con cura filologica delle « cose del nonno ».

Lo studio di Sciascia è un microcosmo in cui risuona tutta l’opera dello scrittore siciliano. A partire dalla caricatura ottocentesca che campeggia sullo scrittoio, proprio dietro la sedia su cui scriveva: è una parata di scrittori francesi, più o meno noti, da Balzac a Hugo, che avanza baldanzosa sotto la scritta « Le grand chemin de la posterité ». Ecco la sferzante ironia di Sciascia e la passione per la letteratura francese, a cui fa eco, sulla destra, la caricatura di Voltaire, in un disegno dell’epoca, a testimonianza del culto della ragione a cui il maestro di Racalmuto dedicò la sua opera. Un culto sempre messo in crisi, come tutte le fedi profondamente vissute, senza alcuno zelo religioso, ma con una tensione costante per la ricerca e la consapevolezza di una qualche verità.

Ai lumi dei filosofi e dei grandi romanzieri francesi ribatte, sulla parete di fronte, un documento seicentesco in latino, che a ben guardare è una condanna del Tribunale dell’Inquisizione spagnola di Palermo: ecco l’ombra spagnolesca, il lato oscuro dell’uomo, a testimonianza del destino della terra di Sciascia, una Sicilia poco illuminata dalla ragione, ma semmai arsa dalle fiamme del potere e soffocata dal buio dell’oscurantismo. Con questa contrapposizione si spiega la sua passione per la Francia dell’arte e delle scienze, il volgersi alla Ragione come antidoto all’occulto del potere, agli intrighi della corruzione, alle trame dell’ingiustizia, ben sintetizzata anche dalla stampa delle « carceri » di Giovanni Piranesi. Queste due immagini, l’Inquisizione cattolica e le carceri, erano sempre davanti agli occhi dello scrittore, come a sfidarlo, a ricordare un’altra ossessione di Sciascia: lo Stato di diritto e le sue caricature pericolose, orribili.

La Spagna, poi, altro amore e odio di Sciascia, fa capolino anche sul disegno autografato di Picasso dedicato al poeta Antonio Machado. La Spagna cattolica e superstiziosa che ha governato per secoli la Sicilia e a cui sono state addossate le colpe del mancato sviluppo del Meridione d’Italia, dell’origine della Mafia e della corruzione, della miseria e dell’ignoranza borbonica… accusa a cui Sciascia, col suo spirito critico e indagatore, non ha mai creduto. Le cose sono molto più complesse, sosteneva Sciascia, ma vanno analizzate con cura e raccontate con semplicità, per sgarbugliare la matassa dell’impostura, sempre in agguato tra le righe della storia ufficiale. In questo suo atteggiamento non c’era nulla, ovviamente, del complottismo contemporaneo, disinformato e disinformante, ma si trattava di una consapevolezza antica, pervasa dalla passione per gli studi storici, dalla capacità di saper decifrare i codici dell’ideologia e della propaganda.

E infine, sulla parete di sinistra, ecco due piccole fotografie posizionate in uno strano ordine geometrico, come a sorreggere lo scrittoio di Sciascia, due ritratti che raffigurano i maestri siciliani Verga e Pirandello: il verismo di Verga, la necessità di raccontare il reale, la cultura contadina, lo sfruttamento dei più deboli ; e l’amara ironia di Pirandello, il maestro dei maestri, colui che ha fatto filosofia con la letteratura e letteratura con la filosofia, lo scrittore che ha indagato la follia dentro di noi, il teatro lì fuori e le maschere sul volto di ognuno.

Mi attardo sull’immagine di Pirandello, sui bastoni di Sciascia sistemati in un angolo, in basso, su alcuni libri, pochissimi, lasciati lì, nella vetrinetta di fronte. Poi Vito mi esorta a uscire, con garbo, come invitandomi a lasciare in pace il nonno, che sembra lì, alla sua Olivetti « Lettera 22 », felice di aver ricevuto questa visita, ma in attesa che lo si lasci in pace per rimettersi a lavorare.

Scendo le scale e spunta un’altra immagine, quasi nascosta, di cui non mi ero accorto. È un ex-voto popolare che raffigura un uomo elegante e una donna in posa da incantatrice. Vito mi spiega che l’ex-voto apparteneva alla nuora di Sciascia, che lo aveva fatto fare per scongiurare che il figlio si innamorasse di quella donna perversa e malvagia raffigurata sul quadro. Ecco che la sensualità e le credenze popolari, magiche e religiose, spagnolesche se vogliamo, fanno ancora capolino nel mondo di Sciascia, seppur in un sottoscala, come se il maestro di Racalmuto volesse reprimerle per onta o per paradossale superstizione.

Vito prepara il caffé. Lo beviamo fuori, in terrazza, guardando il panorama, mentre le sue figlie di otto e cinque anni suonano il violino; Sciascia avrebbe sicuramente apprezzato la loro grazia. Dalla casa della Noce si vede tutto intorno, a trecentosessanta gradi. Se potessimo definire uno scrittore da ciò che vede dal posto in cui scrive, la vista panoramica di Sciasca potrebbe sovrapporsi perfettamente ai temi e alle figure della sua opera. Sciascia, dalla Noce, vedeva tutto: la villa del barone e quella del mafioso, il paese vicino e le campagne intorno, alberi, colline, e in fondo i Monti Sicani. Sciascia vedeva tutto, tranne il mare, come se fosse prigioniero di questa isola, della sua storia e delle sue contraddizioni, della sua bellezza e della sua arroganza.

Ho scritto che della Noce si vede la villa di un mafioso, ma sarebbe il caso di aggiungere una precisazione : Vito mi spiega che lì ci andava da bambino, col nonno, per assaggiare il formaggio di pecora, quando quel posto era ancora un caseificio di campagna, e cioè prima di essere acquistato dal mafioso di cui sopra, il quale ha ingrandito il vecchio casale, con nuovi muri e orrende finestre d’alluminio. La nuova costruzione è stata innalzata qualche anno dopo la morte di Sciascia, come se il mafioso non osasse farlo finché lo scrittore fosse ancora in vita.

Questa villa sciatta e sgraziata mi sembra il simbolo di un tempo crudele che non riesce a volgersi alla luce della Ragione, ma rinnova meccanismi di oppressione e di bruttezza. Come se, nella Sicilia che fu Magna Grecia, menzogna e bruttezza fossero concetti legati per sempre, in opposizione alla verità e alla bellezza, che Sciascia ha rigorosamente cercato.

« La Sicilia come metafora », recitava il titolo di un libro-intervista di Marcelle Padovani al maestro di Racalmuto, e mi verrebbe d’aggiungere anche « la Sicilia come ossessione ». E infine, per me, « Sciascia come ossessione » : la necessità di illuminare gli intrighi, non per il piacere consolatorio di risolverli, ma per esplorarne la complessità, raccontare il mondo per quello che è, la sua ingiustizia e la sua beffarda bellezza.

L’appuntamento alla Noce, con Vito, è per il prossimo anno, come sempre a ridosso di ferragosto, per discutere dei nostri progetti e ricordare suo nonno: entrare nello studio di Sciascia, per non più di cinque minuti, e restare lì, in silenzio, a scrutare l’Olivetti « Lettera 22 », in questa piccola stanza che era il faro di Sciascia sulla realtà, il suo esilio dalla realtà, al centro di un’isola senza mare.

 

Occhi sul pianeta Terra ( Bagatella dell’invidia)

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di Giorgio Mascitelli

Qualche volta Guido della Veloira va a trovare il fratello Corrado della Veloira, che ha messo su famiglia senza troppi calcoli. Guido invidia e allo stesso tempo è atterrito dalla vita di Corrado, ma resterebbe sorpreso se sapesse che tale ambivalenza di sentimenti è nutrita anche dal fratello. E invero ci sarebbe da sorprendersi della sua sorpresa perché questa legge, secondo la quale bisogna desiderare tutto se no si fallisce, è legge generale che riguarda coniugati e non coniugati ed è legge costitutiva del pianeta Terra ( in questa fase storica naturalmente). Dunque quasi tutti invidiano quasi tutto, spesso senza potersi permettere di ammetterlo o addirittura senza avvedersene, e l’invidia è la principale manifestazione psicologica di una coscienza acquiescente a quella legge. Quello dell’invidia come vizio o peccato è un falso problema, quasi una trascrizione in termini di morale religiosa di una raccomandazione sanitaria come lo sono certi precetti alimentari, perché in verità liberarsi dall’invidia serve a tutelare quel minimo di libertà interiore senza la quale ogni nostra iniziativa è solo la sclerotica ripetizione di uno schema dettato dall’esterno, anche se perfettamente interiorizzato.

Guido chiede a Corrado come vanno le cose e come sta il nipotino Ferruccio della Veloira che va alle elementari. Ferruccio va bene ed è andato a una festa di compleanno dell’amichetto Devid Trimboliti. La festa si tiene in una ludoteca con grandi gonfiabili a forma di castello e di vascello, del resto anche la festa di Ferruccio si è tenuta in un luogo simile, anche se, come gli ha fatto notare Devid, i gonfiabili di quella ludoteca sono più grandi e colorati di quelli della festa di Ferruccio. Ferruccio o sua madre, questo Corrado non lo sa con certezza, hanno ricordato a Devid o sua madre che lo stesso Ferruccio ha 10 in matematica e scienze a differenza di Devid che ha solo 9. Ma secondo la madre di Devid questo non è importante perché loro vogliono far crescere il bambino in un ambiente sano senza troppe pressioni perché arrivi giustamente carico allo sprint decisivo dell’adolescenza e infatti pratica solo due sport, un corso di inglese e uno di musica. E poi Devid gioca già in una squadretta di pallacanestro, mentre Ferruccio frequenta solo i corsi di minibasket del doposcuola. Nel nuoto eccelle però Ferruccio, mentre Devid a quanto pare annaspa, anche se il suo inglese ha già raggiunto un certo livello di fluency al contrario di Ferruccio, che sta ancora compitando a fatica i colori e i nomi degli animali. Entrambi studiano sintetizzatore elettronico, che Devid sembra suonare meglio, ma Ferruccio segue un metodo più difficile che usano in Conservatorio.  A parere di una selezionata giuria di mamme di compagne di classe dei due, Devid è più bello, ma Ferruccio è più simpatico.

A queste parole Guido, che ha fatto quasi un principio del non pensare mai alla sua infanzia, si ferma e cerca di ricordarsi se anche loro fossero così e poi lo domanda, senza pensarci troppo, a Corrado. Si tratta di una domanda imbarazzante e infatti lo stesso Corrado ribatte, a sua volta troppo spontaneamente, con un “così come?”, ma poi si avvede che un’ulteriore risposta del fratello aumenterebbe il vicendevole imbarazzo, che potrebbe concretarsi in un increscioso incidente verbale e sospirando aggiunge che ai loro tempi i genitori erano meno assidui, meno attenti, non avevano tempo per queste finezze. Anche loro da piccoli avevano delle occupazioni e degli obblighi, subivano delle aspettative, ma la loro tirannia non era sistematica. Ed è probabile che sia così, che la tanto decantata libertà della loro infanzia, il mare assoluto del tempo libero che poteva temere poco oltre alla risacca del tempo scolastico, non fosse altro che un prodotto di un’organizzazione ancora arretrata, ancora non scientifica della giornata, insomma dipendente da un deficit tecnico più che da una diversa impostazione. Guido vorrebbe aggiungere che, però, lui non si ricorda affatto di questa spirale di invidie incrociate, ma si censura per timore di compromettere il bel rapporto con il fratello. Essi sono entrambi senza parole e non per la sorpresa o per l’incapacità di dire, ma perché ogni parola potrebbe uscire dal perimetro dello spazio riservato all’espressione delle proprie idee non suscettibile di scatenare reazioni.

Certo, anche Corrado si rende conto di qualcosa, non di tutto ma di qualcosa sì, e vorrebbe dire che la colpa è della mamma, ma si trattiene perché non c’è nessuna colpa, al contrario si tratta di offrire opportunità alla propria prole. Così le opportunità crescono, ma purtroppo aumentano anche quelle degli altri ed è ovvio allora mettersi a cercare sempre quell’opportunità in più che fa la differenza. In un simile contesto possono venire alla mente immagini balzane, come quella da Vita agra di impiegati che cercando si accaparrarsi gli uffici migliori nella nuova sede dopo il trasloco della ditta, solo che la scena si svolge in una scuola dove i bambini competono per i banchi migliori ( la prima fila in una classe tradizionale, i posti del cerchio meglio visibili dal maestro in una classe rovesciata).

Si è fatto tardi ormai, Guido della Veloira saluta Corrado ed esce. Sulla strada s’imbatte in una pubblicità dove sono rappresentati un bambino e una bambina che sono vestiti, gesticolano e sorridono come adulti.

 

 

MAGDA MINCIOTTI “Considerate che avevo quindici anni

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di Orsola Puecher

Magda Minciotti a quindici anni

Anna Paola Moretti, storica della memoria e della deportazione femminile, nel libro Considerate che avevo quindici anni. Il diario della prigionia di Magda Minciotti tra resistenza e deportazione, [ed. affinità elettive 2017], ricostruisce la storia personale e il contesto storico politico della vicenda della giovane partigiana marchigiana in modo esemplare, con dovizia di documenti, citazioni, raccolta di testimonianze, ricerca sul campo, note accuratissime e riflessioni che ci riportano dal passato al presente. La memoria, il dare spazio alla vicenda della gente comune [pag. 14] è sempre la chiave di volta per comprendere il presente. Oggi 8 marzo, in un paese dove dopo le recenti elezioni politiche il numero delle donne non raggiunge nemmeno un terzo dei deputati eletti, parlare di quanto la vita delle donne è stata a lungo espulsa dalla storiografia e relegata nel privato [pag. 13] ci racconta doverosamente di una emancipazione femminile mai del tutto raggiunta, piena di vuoti e di assenza, e il compito della storia è riempire queste lacune, stabilire una continuità di fatti, reiterpretarne i contorni.

Se la ricerca storica è atto di invenzione interpretativa, ossia vedere tratti finora trascurati, tenere insieme memoria e storia in una diposizione all’accoglienza che sia rievocativa e partecipe di ciò che si racconta, comporta anche una scrittura che varchi i confini dei generi, anche questa tutta da inventare: “nuove parole e nuovi metodi”, come chiedeva Virginia Woolf. [pag. 16]

Da questa scrittura puntuale eppure avvincente, la figura di Magda Minciotti, catturata insieme al fratello Giorgio per rappresaglia, durante un rastrellamento alla ricerca dell’altro fratello partigiano Giacinto, si anima dalla pagina a tutto tondo, innanzitutto nelle pagine del suo diario, che inizia a scrivere detenuta a Ripe, in provincia di Ancona, il 23 luglio 1944, 15 giorni dopo il suo arresto, con una matita copiativa sul retro delle pagine di blocchetti di ricevute scadute 8×12, sottratti di nascosto, con una calligrafia minuscola. Nelle sue peregrinazioni di lavoratrice coatta fra gli “schiavi di Hitler” negli Arbeitlager gestiti dalle grandi industrie germaniche, da Norimberga fino all’aprile del ’45 a Bayreuth, riesce a portarsi appresso il suo diario e, con alcuni momenti di silenzio, non smette mai di scrivere, nelle pause del duro lavoro alla fabbrica Siemens, di sera fino a quando la luce non viene spenta. Quella che per noi oggi è una preziosa documentazione, ha per lei il compito di contrastare la solitudine e di farsi coraggio, di resistere, affidando a un interlocutore immaginario tristezze e dolori, ma anche sogni, segreti, speranze, desideri e volontà di sopravvivere al terribile presente. La naturale curiosità di adolescente, il suono di una campana lontana che la riporta con nostalgia a casa, la bellezza della natura, nonostante tutto, della neve, di una giornata di sole, e, perché no, qualche palpito amoroso, la tengono ancorata alla vita e alla sua dignità di persona.

[Nürnberg 28/8/44]
Comincio a essere meno pessimista. Per arrivare a ciò ho voluto cominciare come facevo a scuola, cioè sognare ad occhi aperti. [pag. 44]

In questa vera e propria strategia di sopravvivenza non parla molto di eventi dolorosi, cerca di mantenere saldi gli ideali mazziniani, risorgimentali e antifascisti a cui la sua famiglia l’aveva educata, l’amore per il prossimo, la giustizia, la Patria con la p maiuscola, che non è certo quella tronfia e autoritaria del fascismo, la solidarietà, l’amore per il prossimo, riuscendo sempre con autoironia e distacco a sdrammatizzare e a superare la durezza del presente, ad affezionarsi alle persone e persino ai luoghi squallidi della prigionia. A mantenere allegria di giorno, con orgoglio, e a piangere di nascosto di notte. Ma nel racconto della disinfezione al campo di Dachau non riesce a non lasciar trasparire i suoi sentimenti di profonda indignazione per il pudore violato e di odio verso i Tedeschi:

[Nürnberg 17/8]
Devo fare un passo indietro per annotare un particolare sfuggitomi. A Dachau ci fecero la disinfezione, Ci mandarono al forno i panni e dopo averci fatto spogliare nude, prima il bagno e poi ungere la testa con la creolina. Tutto questo raccontato così sarebbe una cosa giusta e necessaria… Ma quanta mancanza di pudore in Germania! Nel corso dei secoli il popolo tedesco è rimasto selvaggio. Sono ancora i barbari di Attila questi del secolo 20mo? Per rispondere giustamente bisogna venir qui vedere e giudicare. Solo chi mi ha conosciuto può dire se rimasi indignata avanti ad un simile spettacolo. Non solo ma un odio feroce contro questo popolo devastatore mi fa desiderare sempre più forte che questo tutto finisca per ritornare alla mia cara Patria. [pag. 42]

Questa liceale quindicenne dagli occhi profondi e sensibili, con le lunghe trecce raccolte, che nella sua famiglia di resistenti aveva partecipato a diverse azioni partigiane, come staffetta, sventando l’attentato a un ponte minato dai tedeschi in ritirata, soccorrendo il giovane partigiano ferito Nello Congiu, nei 66 foglietti del suo diario apre una particolare dimensione “letteraria”, che dalla quotidianità si spinge a una scrittura alta, spesso poetica, a tinte pascoliane e carducciane, con grande proprietà di linguaggio e sintassi e vero talento narrativo.
Un secondo supporto del diario è andato perduto, ma Magda, tornata a casa, ricopia le pagine ormai consunte, macchiate e quasi illeggibili, su un quaderno nero quadretti con il bordo rosso, di 36 pagine più un foglio volante. Gli dà l’ironico titolo Le mie prigioni. Nella breve introduzione scrive:

[Chiaravalle, Agosto 1945]
Il mio carattere, i miei pensieri sbattuti dalla tempesta, la nostalgia, le mie lacrime amare e mai sgorgate, i miei dolori assillanti e segreti, potrà comprenderli solo colui che soffrì la prigionia tedesca, solo colui che sa cosa vuol dire essere soli senza risorse, lontani dalla Patria; (…)
Non domando altro: – Siate magnanimi!! Non giudicatemi troppo severamente se anche fra tutte le intemperie siano sbocciate nella mia anima delle illusioni, qualche sogno, qualche speranza.
E se qualche giudizio dato con troppo buon cuore, se qualche osservazione fatta con animo pettegolo sia da biasimare, – oh posteri!!!, non tacete – ma nello stesso considerate… considerate che avevo 15 anni.
[pag. 31]

M.M.

Nel dopoguerra le viene proposto di pubblicare il diario, ma come per molti altri sopravvissuti ai lager, subentra una specie di ritrosia a renderlo pubblico, nel clima post bellico di ottimismo forzato, di desiderio di dimenticare, l’interesse e la comprensione per le vicende dolorose della deportazione è scarso.

Anche il rientro in Italia ebbe tratti comuni per tutti gli uomini e le donne che erano stati deportati: ebrei, oppositori politici, militari internati, lavoratori coatti si trovarono accumunati dalla freddezza e dall’indifferenza con cui furono accolti da una società che usciva dai disastri della guerra, poco disposta ad ascoltare il loro dramma e propensa invece a rimuovere e occultare le responsabilità, la maggior parte di loro si chiuse a lungo nel silenzio. [pag. 267]

Propagada per il lavoro coatto

Così il diario rimane chiuso in un cassetto. Magda tornata in Italia gravemente malata di tubercolosi renale, fatica molto a guarire, difficile trovare antibiotici e cure adeguate allora, cerca di riprendere il liceo senza riuscirvi, si sposa con Vincenzo Castellani un giovane carabiniere lui pure deportato, conosciuto in Germania, e si dedica alla famiglia e ai suoi quattro figli. Non l’abbandona mai il dolore e anche forse il senso di colpa per la morte del fratello Giorgio Minciotti, arrestato con lei, che scelse, nonostante fosse stato scartato alla visita medica per la sua salute cagionevole, di andare in Germania per non lasciarla sola, e mandato a scavare trincee dall’Organizzazione Todt non sopravvive alla durezza del lavoro e agli stenti. Magda Minciotti consegna il suo diario al figlio pochi giorni prima di morire nel 1990. Ad Anna Paola Moretti il merito di averlo riportato alla luce, insieme allo studio approfondito del contesto e soprattutto della questione del lavoro coatto, propagandato ingannevolmente dal regime fascista come opportunità di guadagno e che vide molti partire volontari, con la complicità mai punita delle maggiori fabbriche tedesche dalla Siemens, alla Volkswagen, Mercedes e Bayer. Solo in Italia più di 100.000 persone con il 10% di morti, soprattutto giovani dai 14 anni in su, prestarono la loro manodopera al nazismo, un ambito ancora pochissimo studiato, ingiustamente distinto dalla deportazione nei campi di sterminio, ma non meno crudele e degno di essere ricordato e analizzato.

A Livingston nessuno fa il bagno

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di Carmine De Falco

La guida avvisa “A Livingston nessuno fa il bagno”
Cerchi un’atmosfera da cartolina che non c’è
la sabbia senza colore della costa
è coperta tutta da alghe marroni. Uccelli neri
si nutrono e volano. Comandano appolaiati
persino sulla statua del giurista americano
che bianca di marmo emerge dal mare.

Anche qui qualcuno naviga la rete e comunica
al mondo che “la vita non è solo
una questione di pesche e di creme, e chi può dire
d’aver ricomposto tutti i pezzi del puzzle
nell’ordine esatto se ci resta tra le frasi non dette
quelle domande che cominciano con why”
questo post lanciato da questo angolo lontano
ha il sapore dei messaggi in bottiglia
con l’ingenua speranza che qualcuno li colga.

Lungo la strada dall’imbarcadero al villaggio
un vecchio di colore con una lunga
barba grigio chiara e baffi folti,
scuri ed ispidi dread irregolare
miscela di cenere e tabacco che scende
a grappoli da un cappello da pescatore.
È sorprendente la sua idea d’Italia che somiglia
pressappoco a un’immagine di Sardegna dipinta
da un artista mezzo Michelangelo e mezzo Caravaggio
che srotola pensieri tra Macchiavelli e Galileo.
Su quella salita non lo pensi quanto è strano
sentirsi chiamare italiani con accento garifuna
senza il solito pasta pizza mafia che s’ascolta
dalla bocca per bene e bianca di ogni dove.

Bisogna soprattutto rincorrerla l’atmosfera
tra i passi lenti in queste case baracche
alla fine del Paese centramericano, unico bianco
tra gente di colore, naufragata due secoli fa.
Bisognerà immaginarselo lo spirito
di Marcos Sanchez Diaz che attracca
per primo su questo lembo di terra, adesso
che rivive nelle mani e nei pensieri di quest’uomo
in una lingua in estinzione, che diversifica
a volte le parole in base al genere di chi le dice.

Ma se pensi di ritracciare linee e verticali centenarie
tutto traballa fumoso e impreciso
come questi passi tra viali di terriccio fangoso
e lamiere, i capricci del bimbo che vuole andare
a giocare e rifiutare pasta scotta diluita in brodaglia,
come la parete dei riti woodoo e qualcosa d’ancestrale
che suona sinistro alle orecchie, e lungo il percorso
contorto e disorientante. Ma lo so non dirmelo
che non mi sequestrerai me lo sento, ti ricordo
sorrido e doni di nuovo questo piccolo pezzo del mondo.

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Nota del redattore

Il nuovo poemation di Carmine De Falco conferma le linee della sua poetica, legata a una dimensione lato sensu “civile”, ma supera l’usuale maniera breve o la lassa di prosa in prosa, che spesso l’autore frequenta, e riscopre una forma di altro respiro, che richiama alla lontana il Cesare Pavese di Lavorare stanca, per la contiguità di ripresa di certa aura della poesia americana –pavesiani sono per lo meno la chiusa tematicamente “densa”, staccata e sottolineata dal corsivo (come in Fumatori di carta), e l’andamento sintattico, intonazionale e ritmico del verso lungo, talora senz’altro dattilico-anapestico, con occasionali endecasillabi, alla Mari del Sud (“Anche qui qualcuno naviga la réte e comúnica/al mondo che “la vita non è solo/ úna questióne di pésche e di créme, e chi può dire/ d’avér ricomposto tutti i pézzi del púzzle/ nell’órdine esátto se ci résta tra le frási non détte/ quelle domande che cominciano con why”/ questo post lanciato da questo angolo lontano/ ha il sapore dei messággi in bottíglia/con l’ingénua speránza che qualcúno li cólga…// Ma se pensi di ritracciare linee e verticali centenarie/ tutto traballa fumoso e impreciso/ come questi passi tra viali di terriccio fangoso/ e lamiere, i capricci del bimbo che vuole andare/ a giocare e rifiutare pasta scotta diluita in brodaglia,/ come la parete dei riti woodoo e qualcosa d’ancestrale/che suona sinistro alle orecchie, e lungo il percorso/ contorto e disorientante.// Ma lo so non dirmelo/ che non mi sequestrerai me lo sento, ti ricordo/ sorrido e doni di nuovo questo piccolo pezzo del mondo.”) per quanto un simile ritmo sia presente anche nel verso lungo à la Fortini e in molta poesia gemmata dalle neo-avanguardie, e possa essere riemerso per semplice intersezione fra rimando ipogrammatico e tendenze spontanee della lingua –un cliname però lucidamente assecondato dall’autore. Ritornando a tempi più vicini, e forse meno impopolari nella ristretta audience poetica attuale, lo sfondo meso-americano evoca gli influssi della poesia di un Walcott; per converso, di ritorno dal Guatemala alle nostre plaghe, il titolo e il primo verso, con la prescrizione da guida turistica “A Livingston nessuno fa il bagno”, rimandano con ironia al mare che per annamariaortesiana memoria non bagna Napoli. Sembra forse un lavoro ingeneroso di deminutio dell’originalità del poeta, questa ricerca di fonti improvvisa (lasciando stare che dopo svariati millenni di letteratura sarebbe il caso di deporre la superstizione dell’originalità); ingeneroso parrà anche il rimando a coordinate che non si riallacciano al piccolo gotha semi-occulto della poesia americana o francese odierna a cui molta poesia italiana riguarda. In realtà la scelta di ravvisare qui presenze di memorie letterarie quasi scontate, da infanzia del lettore, nasce dalla nostra volontà di sottolineare una precisa cifra del testo, l’intenzione comunicativa di condurre per mano l’eventuale fruitore, tramite chiavi di lettura evidenti e di percezione banale, alla straniamento di un esotismo à rebours, in cui oggetto di vagheggiamento, per il suo effetto alone sullo straniero, è la cultura di provenienza dell’autore. L’io narrante di questo blocco narrativo di versi è portatore in sé di una tendenza che nella sua dimensione nazional-popolare associa la remota esoticità centroamericana a determinati paesaggi e memorie. Il poemation comincia invece a evocare un’“atmosfera da cartolina che non c’è”, di cui si tingono i luoghi esotici, quando fisicamente ci si immerge in essi. La cartolina (postale) è poi simbolo derridiano della presunta catena di assenze e messaggi non pervenuti che si incontrano nella fruizione della scrittura, talché l’incipit si delinea all’istante come momento di rottura del sonno e del sogno esotico, come un brusco risveglio in presa diretta e in presa di coscienza. Nella sequenza di Realien che si presentano alla telecamera del linguaggio un forte peso ha inoltre il cromatismo. L’immaginario di massa associa all’America latina il sentore sinestetico di un tripudio di colori accecanti; il quadro incipitario di questi versi vira al seppia e al bianco e nero: sabbia senza colore, alghe marroni, statua di marmo bianca, nella divina indifferenza, o meglio, insussistenza del diritto, ma soprattutto uccelli neri (come in fuga da inopinate e intempestive gabbie d’Ottocento) a dominare ogni cosa (soprattutto la statua e il simbolo dell’insussistente diritto), con ominosi raffi di corvi necrofagi. In questa sordina cromatica ed esistenziale le lasse del poemetto seguono un movimento alterno: è da notarsi l’opposizione fra il secondo blocco di otto versi, centrato sul post lanciato in internet quasi messaggio in bottiglia come da un’isola persa senza tesori, perché lo scrigno si è scoperto vuoto, dopo un vano navigare virtuale, stante l’appena evocata obliterazione del mare e del navigare concreto, e la chiusa, con il suo ipermoderno sfumare delle “verticali centenarie”, fra lamiere da favela, e sciamanismo woodoo (anch’esso oblato al linguaggio ordinario dell’immaginario ordinario). Le due lasse in opposizione identificano due dimensioni opposte, da verticale urbana terzomondista alla Dos Santos: la rete telematica e la sua seconda navigazione tecnologica contro la baraccopoli animata da ritualismi residuali e residuati. Le due lasse incorniciano il centro tematico della poesia: la figura del vecchio di colore, con il suo immaginario dell’Italia, non più pizza/pasta/mafia, secondo il pregiudizio della “lingua per bene e bianca”, bensì Sardegna dipinta da un artista mezzo Michelangelo mezzo Caravaggio, che srotola pensieri fra Machiavelli e Galileo, il tutto espresso in lingua garifuna, in quel dialetto arawak, patrimonio mondiale di tradizioni orali e linguistico melting pot, che l’immaginario per bene e bianco non conosce e non riconosce. Al centro del testo campeggia un incrocio di immaginazioni riorientate, che l’ironia ha depurato dell’ovvietà dell’immaginario di consumo. “Questo piccolo pezzo di mondo” (l’Italia come il Guatemala), le singole identità depurate dalle scorie dell’orizzonte d’attesa gregario, viene ridonato all’essere evocando, in uno stile dominato da nitido monolinguismo, le risonanze di una parlata borderline ed estrema, intraducibile e irreplicabile e tanto più attigua alla verità della cosa. Si rivela così l’intento pragmatico dei versi che abbiamo sotto gli occhi: la polarità delle forme di esistenza evocate è tramata dall’antitesi fra globalizzazione del rifiuto di ciò che non si omologa e non è omologabile a nessun patto (lingue e culture creolizzate, linguaggi laterali –come la stessa poesia), e ricostituzione del sé nell’incontro come forma aperta che ha bisogno dell’altro da sé per riconoscersi in positivo, pena la conferma del pregiudizio e l’irrigidimento. Siamo perciò di fronte a un testo raro e prezioso, che pone in modo immediato e destabilizzante il problema dell’identità (degli individui, delle culture, dei luoghi, dei mondi) nel contesto di una rete di comando planetaria disgregata, che ha ben provveduto dal canto suo a mescolare nell’assurdo il piattume notturno del pensiero unico, in cui tutti i colori identitari restano grigi, e l’aberrazione delle identità impazzite ma omologate nella loro pazzia, in cui tutte le visioni politiche tornano nere.

D. V.

Quaderno Azzurro – Poesie 2012-2016

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Pubblico qui alcune poesie tratte da Quaderno Azzurro, Poesie 2012-2016 di Pierino Gallo (Campanotto Editore). Un libro intenso e denso, in cui la parola e gli spazi bianchi che l’accompagnano portano il lettore a una completa immersione nella poetica dell’autore. I ricordi si intrecciano al presente, in un incedere elegante, privo di esibizione ma piuttosto di un’esposizione a tratti commovente, a tratti duro, ma sempre delicato nella sua compostezza.

 

Tengono altari chiusi,
altari sacri,
corsetti di madonne,

e scapolari di lana.
Sottrazioni,
dietro i mattoni
bianchi,

sottrazioni.

Il candore di un abbaglio
apre la notte
e gli inguini.

***

Si è come rotto il cerchio
dell’erranza
ed io Caino col marchio sopra il petto
mi divoro.

Il mio mese è d’inverno,
ché addosso ho le catene
della neve.

Vengono steli di ghiaccio
sul dubbio se lasciare

la terra.

***

È inverno di bocche schiuse e neve ferma.
Dopo la breve sosta, è gelo tenue e stanco,
scarnificato sui fili delle radio.
Dall’alto, le mie dita impertinenti
segnano il tempo.
È il tuo turno,
stavolta,
di vegliare su me.

 

Genoma

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di Carlo Bordini

 

Questa è una poesia dedicata a mio nonno

 

Lui aveva la stessa testa come la mia. Piena di cose. E anche di cose

troppo numerose, che cozzano tra loro, e che a volte

non riescono a

trovare l’armonia.

10 marzo, Ancona – Assemblea nazionale unitaria di movimento

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Sono passati pochi giorni da quando la mano armata di un neo-fascista ha sparato all’impazzata nelle vie di una nostra città alla ricerca delle sue vittime “di razza”. Sono passati pochi giorni da quando migliaia di persone hanno deciso che ad ogni costo il silenzio e le ritualità andavano frantumati, che il clima di complicità con quel gesto infame e l’arroganza di un potere convinto di poter imporre i suoi diktat andavano rovesciati.

E’ passato poco tempo. Eppure nel volgere di pochi giorni è nata una storia, una grande storia, che sembra impossibile possa essere contenuta nel suo breve involucro temporale. Una storia che ha restituito ai movimenti una capacità di protagonismo fino a qualche settimana fa inimmaginabile, che ha reso le piazze di tante città impraticabili per i neofascisti, che ha dissestato la già miserabile campagna elettorale, che ha trasformato un intero contesto culturale e comunicativo in cui si era ad arte costruita la percezione dell’assenza di opzioni, della cultura razzista e della propaganda xenofoba come sfondo dominante, della sicurezza come negazione delle libertà.

Qualcuno ha detto che questa storia è magica. Ma non c’è niente di magico o di trascendentale, non è una fortunata ed occasionale combinazione di elementi. Molto più semplicemente la realtà materiale, le sue contraddizioni ed il bisogno sempre più pressante di reagire, di non subire oltre, ha trovato una credibile possibilità di espressione, costruita sull’affermazione radicale dell’indipendenza dei movimenti, sull’insubordinazione, anziché sulla mediazione, verso tutti i tentativi di scipparne la rappresentanza, di limitarne la presa di parola o di farne terreno di campagna elettorale. Ciò che ci appare straordinario è, in realtà, la potenza naturale che i movimenti esprimono quando sono reali e protagonisti dei propri percorsi. Un lungo periodo di difficoltà, di divisioni e sottrazioni, di riduzione drastica degli spazi di agibilità, di disarticolazione dei soggetti sociali di riferimento, ha attenuato la consapevolezza della reale intensità  di tale potenza, nella quale si radica l’unica realistica prospettiva di cambiamento generale. Ma le mobilitazioni di questi giorni, la loro incisività e la loro forza incredibilmente ricompositiva ci hanno bruscamente rimesso difronte a quella potenza, alla sua importanza, al desiderio ed alla speranza di tornare a viverla, di vederla nuovamente espandersi, travalicare, debordare. Tutte e tutti siamo tornati a saggiare la materia viva della modificazione del reale, puntuale, immediata, di cui i movimenti sono capaci.

Sono stati sufficienti pochi giorni per ridare significato e concretezza alla parola “antifascismo”: una declinazione nuova che attualizza l’antifascismo storico ed immette una produzione di senso che tiene insieme il rifiuto di ogni discriminazione etnica o razziale, la lotta contro il sessismo e la violenza del patriarcato, la battaglia per le libertà nel tempo della fine dello stato di diritto. Tutte direttrici di contenuto che le migliaia di persone che si sono mobilitate hanno scelto di porre all’ordine del giorno e che, a loro volta, si radicano nella problematica generale del sistema economico e politico in cui razzismo, sessismo, neo-fascismo, negazione delle libertà e della giustizia sociale proliferano.

Mentre i 30.000 sfilavano per le vie di Macerata, più di una volta ci siamo imbattuti in persone che parlavano di “una boccata d’aria”, alcuni azzardavano che stesse “cambiando l’aria”. Con le grandi mobilitazioni antifasciste e antirazziste dei giorni successivi abbiamo letto che era “l’aria di Macerata” a soffiare nelle strade e nelle piazze. Ma l’aria, lo sappiamo, quando inizia a muoversi è strana, cambia di direzione e senso, si muove attraversando luoghi e acquisisce forma e forza dei movimenti che incontra. Più strade percorre più diventa vento collettivo e si esprime in forme diverse a seconda delle barriere che urta e della morfologia che incontra.

Così quel vento partito dalla provincia non è più uguale a come è cominciato ma è già sostanza di tutte e tutti, andando ben oltre la grande giornata del 10 febbraio.

I venti nascono dalla differenza di pressione, nascono dal conflitto. E in questi anni nonostante una feroce repressione, nonostante un’informazione mainstream sempre più veicolo del decadimento culturale e politico, nonostante il clima mefitico che noi tutti respiriamo nelle nostre città, nonostante le mille differenze che i movimenti hanno sedimentato al loro interno negli anni, nonostante tutto questo e molto altro c’è stato sempre chi ha continuato a metterci cuore, polmoni e fiato.

Dalle montagne della Valsusa fino alle spiagge del Salento, passando per piccoli e grandi conflitti il vento ha continuato a soffiare, impercettibile, quasi un sospiro, anche nei momenti più bui della nostra storia. Ora improvvisamente sembra riemersa una capacità di trasformazione della realtà che si è determinata direttamente come evento e come processo: la diffusione molecolare della mobilitazione, la costruzione collettiva della potenza dell’avvenimento, l’energia generata che ha determinato la concatenazione e moltiplicazione di ulteriori accadimenti.

Dopo la manifestazione del 10 febbraio in molte/i ci hanno chiesto quali sarebbero stati i passaggi successivi, a quali proposte stavamo pensando per dare continuità al percorso aperto con la mobilitazione di Macerata. Non avremmo potuto dare   altra risposta a queste domande se non quella semplice, trasparente, forse ovvia, della nostra insufficienza, del fatto che i passaggi successivi possono essere solo il prodotto di una riflessione collettiva, condivisa, articolata tra tutte e tutti coloro che hanno fatto proprio questo percorso, generalizzandolo e diffondendolo nei territori.
Quale altra risposta potrebbe darsi se non che i passaggi successivi possono essere solo il prodotto di un’assunzione di “responsabilità” comune, quella responsabilità “rivoluzionaria”, che è capace di anteporre ai particolarismi, alle sclerotizzazioni, alla tentazione di “autocentrare” i ragionamenti, le necessità di crescita, riaggregazione e ricomposizione dei movimenti? Che il patrimonio restituitoci da queste settimane di mobilitazione è un bene prezioso, da curare e tutelare, forse anche da noi stessi, dal rischio di semplificazioni o di sovrascritture che peserebbero come macigni su percorsi che sono appena all’inizio?

Per tutto questo pensiamo che la grande ricchezza che si è espressa in queste settimane debba prima di tutto trovare un momento di confronto collettivo dove sia possibile provare a darci insieme delle risposte, a condividere l’entusiasmo con cui immaginare i passaggi successivi e la geografia di un agire in grado di riaprire spazi credibili di espressione della conflittualità sociale.

E’ da queste considerazioni che nasce la proposta di realizzare nelle Marche un’assemblea unitaria di movimento per SABATO 10 MARZO, dalle 10 alle 18,30, alla Mole Vanvitelliana di Ancona.

I movimenti hanno la forza di trasformare perché essi sono già cambiamento in atto, fuori e dentro se stessi. I movimenti cambieranno il futuro perché hanno la forza, qui ed ora, di cambiare il presente.

CSA Sisma
Centri Sociali delle Marche
Ambasciata dei Diritti Marche

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Il testo integrale dell’appello

L’evento su Facebook

Prove d’ascolto #23 – Michele Zaffarano

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(SETTE) PICCOLE ESTINZIONI QUOTIDIANE

C’est l’ennui qui trépasse

 

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Non viaggiamo frequentiamo molta gente poi non ne frequentiamo più. Le solite ore di solitudine. Così torniamo e ricominciamo a vivere da soli. Altri rispetto alle altre cose. E le virtù con parole tanto aspre. Hai detto questo. Almeno lui come se veramente potesse portarsela via. Insomma si sente agitata da vibrazioni sottili. È un dato di fatto. È semplice la vita con tutte le sue iniziali.

 

 

 

 

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Va via e: non ci restano nemmeno due giorni. Te l’assicuro. Pura esperienza virtuale. Mediata dal linguaggio. Ho promesso che non sarei più andato in chiesa ma mentre uscivo di chiesa l’ho sentita e non ci potevo credere. Probabilmente loro sì è il loro bene che è il paradiso: oh ce l’abbiamo fatta. Il riferimento è costante al luogo e al momento della giornata alle condizioni atmosferiche e ambientali in cui avvengono i rapporti. È il primo senso che gli amanti usano per conoscersi la vista. Poi viene sicuramente il tatto. Lei l’ha detto: adesso mi giro la prendi giù e poi ci fai quello che ti pare. Quando si gira lo tiro fuori e ci faccio un po’ quello che mi pare. È così che ha detto. Guarda non ne vedo l’utilità stiamo tutti per uscire nel giro di dieci minuti. Lo faccio perché cerco di dire quello che penso veramente e credo che da quel momento mi hai impressionato in modo sostanziale. E continuavamo a dirglielo di non aprire la porta: chiedi solo chi è. Invece il piacere che provava era il piacere di essere osservata. Esibizionismo. Quando l’ho aperta sembrava una specie di palude. Pensa di assaporare la pienezza del piacere solo se sa da quando lui è già sulle scale. E un giorno per strada sotto la pioggia di novembre mi raccoglie. Vorrebbe soddisfarsi le sue fantasie ma non può farlo in realtà per motivi culturali e di educazione.

 

 

 

 

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Nascosti in parte da una coperta si accarezzavano la mano destra che era bloccata all’altezza della vita dentro di lei. Per favore fottimi. Il ventre inghiotte valori negativi e simboleggia la caduta nel microcosmo del peccato. È priva di gusto è solo una scocciatrice che racconta oscenità tutte le volte che in casa sua uno alza i tacchi. Ci si potrebbe addirittura immaginare un lettore disposto o predisposto a considerare qualsiasi cosa legga come uno spettacolare eccesso narrativo. Pornografico. Pallide non sono pallide oh che paradosso nemmeno le sue ore di trasparenza nemmeno questo. Non vuole annoiarsi ma non vuole dirglielo. Dispotica e tenera insieme desiderosa che sia lui. A.

 

 

 

 

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Prima di tutto piace perché ci sono tutti quegli oh e perché le abituali categorie si trasformano in follia pura. Il linguaggio poetico non è la lingua comune un gatto non è un gatto e questa non è una pippa. Fin da quando sono nato ho fatto errori ma tu lo sai sempre in un modo che era autentico.

 

 

 

 

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Certo il talento per il disegno una passione saggissima. Ma qui lei sorride tranquillamente. La morte sta nella ripetizione. E quindi la vita è condizione della morte e viceversa. Adesso vai a casa. Che cosa pensi di fare vestendoti così. In fin dei conti ti stai facendo la tua bohème. Il corpo e l’intreccio dei corpi diventa allo stesso tempo il mondo e i personaggi che lo abitano. E poi c’è l’uccello. Si sa che l’uccello è il simbolo dell’eros sublimato. La fantasticheria dell’ala del volo l’esperienza dell’aria della materia celeste. Fermate questa confusione: mi sta uccidendo. Forse faccio la cosa giusta se non ne facciamo niente. Nella narrazione a queste immagini si alterna sempre una descrizione che sarà meglio trattata in seguito. Si traccia una specie di percorso iniziatico con lamentazioni che si intrecciano a sprazzi luminosi. E poi davanti a tutti ha detto: ooh si può avere una busta grande. Ma poi ha deciso: non è grande abbastanza. Hai mai visto qualcosa di più perfetto. Adesso però vogliamo fumare. A dodici anni si lamentava del congenito spleen e adesso rovescia dubbi con l’aria di chi ti prende in giro. Vedi te l’ho detto sono tutti strani hanno tutti nomi strani e anche il resto è tutto strano.

 

 

 

 

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È così che si reagisce in prima linea e non so perché. La vocazione non spartisce il mondo in coppie di nozioni soltanto per la smania di muoversi. Scendesse nel corpo come può. Si conoscesse diversa. Io voglio morire così. Consacrato all’arte. Prenderei un po’ di peso. Mi pianterei con eroica fermezza mi lascerei crescere. Ma forse la poesia non contesta potentemente il principio di realtà.

 

 

 

 

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Che impressione che faceva. Quando l’ho vista sembrava una cosa così preziosa aveva intorno tutta quell’atmosfera misteriosa. All’inizio ero ancora disposto ad accettare tutto anche se riconoscevo gli eccessi fantastici. Per esempio l’abito a righe bianche e nere. Per esempio quando si agita mentre respira. I capelli neri fino alle labbra. Basta poco. Ma non hai mai dormito più di due o tre ore per notte per tutta la vita. Adesso vuoi vedermelo fare di nuovo. Va bene. Rimango appeso a un filo: vuoi vedermi fare il mio numero speciale. Prendiamo l’occorrente. Prendi tutto e porta qua. Faremo di tutto. Dovrò spazzare questo posto. Mi dovete proprio scusare.

 

 

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Prove d’ascolto è un progetto di Simona Menicocci e Fabio Teti 

 

La crozza col cappellino e l’ombrellino

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Monologo di Nadia Cavalera

Democrazia? Democrazia…E che cos’è?
Secondo la definizione corrente è «la forma di governo basata sulla sovranità popolare, in grado di garantire a ogni cittadino pari libertà e i medesimi diritti civili, politici e sociali, oltre alla partecipazione in piena uguaglianza dell’esercizio del potere pubblico». Una seppur parziale realizzazione della isonomia propugnata da Hannah Arendt?
Pari libertà per tutti…pari uguaglianza per tutti, nella gestione del pubblico potere.
Alexander Dubcek incalza: «La democrazia non è solamente la possibilità ed il diritto di esprimere la propria opinione, ma è anche la garanzia che tale opinione venga presa in considerazione da parte del potere, la possibilità per ciascuno di avere una parte reale nelle decisioni».
Che belle parole, che possono essere smentite punto per punto per mio sommo disappunto.
Parole dunque. E nei fatti?
Forse aveva ragione Lenin quando diceva che
«la democrazia è uno stato che legittima la sottomissione della minoranza alla maggioranza, ed è paragonabile ad un’organizzazione istituita per l’uso sistematico della forza di una classe contro l’altra, di una parte della popolazione contro l’altra».
Però a ben pensarci questo poteva andare bene un secolo fa. Quando comunque la maggioranza aveva sempre ragione e la minoranza non aveva la forza di reagire e subiva soltanto.
Ma ora, che le nebbie si stanno definitivamente diradando, vediamo che quella maggioranza di cittadini non esiste, non conta niente ed è stata assorbita in un gruppo di potere, che decide secondo i propri piani, per i quali non c’è bisogno neppure di voti di approvazione.
Se proprio di maggioranza vogliamo parlare indichiamo quel gregge di spettatori passivi che segue, tra mance varie, il capetto di turno, e la minoranza una massa di topi decerebrati che rosicchiano le briciole, volendone altre ed altre ancora.
Tutti soggetti passivi. Come mai? Lavaggio del cervello ad opera della pubblicità, che non è solo quella classica ma è quella che si esercita in tanti altri modi occulti. Ha ragione Noam Chomsky: «La propaganda è in democrazia quello che il randello è in uno stato totalitario». Tutti randellati dunque.
Un popolo stordito manipolato, sradicato da quei sani valori che ancora potrebbero servire da leva per una ripresa. Un popolo orientato solo a perseguire un qualche beneficio personale (in rapporto alla capacità di ogni singolo di appropriarsi indebitamente di quanto più possibile), potrebbe essere redento da giuste leggi, è vero. Ma come muoversi, quando sono proprio queste leggi che prendono le debite distanze dai soggetti, volendoli tenere in quello stato, sottovuoto mentale?
Le leggi sono lontane dal popolo, lontane dalla sua coscienza, reperto obnubilato. Così che, in maniera evidente ormai, senza neppure sotterfugi, le leggi vengono imposte dall’alto.
Per mantenere l’illusione della libertà, si spendono milioni per indire i referendum popolari, che vengono sistematicamente ignorati. E per meglio domare il popolo ribelle lo si priva del lavoro, gli si toglie in parole povere la base della dignità, l’unica condizione che gli permetterebbe di pensare ad una qualche generale uguaglianza.
E la disoccupazione e il precariato, nella salsa perenne dell’aleatorietà, impazzano.
Questa è la democrazia? Forse sarebbe più corretto chiamarla oligarchia
Democrazia è una parola simile a poesia. Di essa si dice di tutto e di più senza conclusione alcuna. Per puro indottrinamento sciorinato in ogni qualsivoglia intrattenimento.
Per me?… è un reperto archeologico dei greci più creativi (i produttori di logos, circolanti nel bios politikos – ah la polis che grande fregatura!), che, a caccia di personale eccellenza, già allora vollero manipolare l’opinione pubblica, facendo passare per “popolo intero” ciò che era solo una parziale realtà, l’indicazione di un ceto, la modificazione della fratria per scalare il potere e entrare nella bulè.
Non indicava certo il popolo tutto. E le donne dov’erano? e i meteci? e gli schiavi?
Va bene, ammettono i capoccioni, non erano tutti tutti, ma almeno hanno cominciato l’autodeterminazione. Ah deo gratias! E gli uomini autodeterminandosi, autodeterminandosi continuamente, nei secoli dei secoli, sono finiti dove? sotto i piedi del capitalismo, che elargisce falsa libertà, quel tanto per poter essere ligi consumatori e permettere alla piovra di sopravvivere alla grande.
Conoscevano bene i Greci il potere del linguaggio e giù a coniare quella parola, che poteva andare bene allora, ma coccolarsela ancora dopo due millenni e mezzo è il colmo. Fa vomitare. Tra tanti filosofi e politici nessuno riesce a pensare di meglio? Nessuno riesce a definire una forma nuova di governo? Se proprio siete antiquari rispolverate il comunismo, che sempre più giovane è. Certo con ritocchi, ok, ma sempre meglio di questo sconcio corrente.
Democrazia…una crozza col cappellino e l’ombrellino, che ancora i filosofi si pettinano, scartando proprio il comunismo che ben altre soluzioni porterebbe.
Non credo sbagliasse Andrzej Majewski quando ha detto che «Il più grande e geniale truffatore di tutti i tempi è stato l’inventore della democrazia». Truffatore sì.
E giocate, giocate ancora con questo fantoccio senza anima, accontentatevi di scrivere migliaia di libri per pochi e senza tanta immaginazione, con la conseguenza del trionfo tronfio del capitalismo.
«Niente e nessuno, neanche la democrazia, può proteggere l’umanità dalla sua propria follia» ha scritto qualcuno.
E lo credo bene.
Primo: l’umanità non è folle. Folle è solo quel gruppetto di maschi che dominano imponendo le loro scelte economiche di puro mercato al resto di quella che andrebbe chiamata finalmente, nel rispetto della componente femminile, umafeminità (neologismo per uomini e donne insieme, n.d.r.).
Se ne fregano di qualsiasi possibile ostacolo. Lo aggirano con le parole quindi lo annientano.
Secondo: non può un fantasma verminoso, vuoto e roso fermare alcunché, anzi è stato creato apposta per permettere al gruppetto di folli violenti di fare quello che vogliono.
La democrazia non esiste. Solo apparenza. Anzi la flatulenza di putrefatta effervescenza.
E già lo sapeva bene, nel secolo breve, Mussolini: «I Regimi democratici – diceva – possono essere definiti quelli nei quali, di tanto in tanto, si dà al popolo l’illusione di essere sovrano.»
E Gore Vidal: «La democrazia dà la sensazione di poter scegliere».
Illusione dunque, sensazione come impressione.
Certo qualcuno potrebbe obiettare che stiamo meglio che nei Paesi Islamici.
Ma questo non mi consola proprio.
A parte il fatto che una parodia di democrazia può essere anche più pericolosa di una chiara dittatura perché anestetizza i cittadini, toglie loro la volontà di agire, di difendersi, a me come vivano altre culture non interessa. E comunque bisogna vedere i punti partenza.
Se consideriamo i nostri e i loro, i risultati, credetemi, sono identici.
Immobili loro e immobili noi. Loro sulla teocrazia, che almeno si capisce cos’è, e noi a cincischiare con ‘sto straccio di parola.
Democrazia… Tra i composti con -crazia, per indicare una forma politica, è l’unica parola insulsa. Infatti se teocrazia, aristocrazia hanno ancora un senso: potere gestito dalla religione l’uno, e potere in mano ai migliori l’altro (si fa per dire, più spesso sono i peggiori moralmente, capaci delle più obbrobriose nefandezze). E persino ginecocrazia, potere in mano alle donne. Ma …democrazia..per carità!
Anche Monarchia o Oligarchia hanno ancora un senso valido, per una forma di stato.
Oligarchia sarebbe poi la condizione attuale con ‘sta mascherata democratica.
Viviamo in una società oligarchica, gestita dal potere finanziario, che non può permettere libertà reali ma solo virtuali.
Permesso ribellarsi, ma senza speranza alcuna di cambiamento. Uno sfogo saltuario per mantenere tutto come prima. E di questo sono testimonianza svariati movimenti, valvole di sfogo controllate, preventivate, programmate. Non certo prova della forza degli ideali democratici. Che se così fosse stato, un miglioramento avremmo dovuto vederlo. Invece niente di nuovo, tutto rientrato (come nel ’68), dopo il movimento di “Occupy Wall Street”, dopo la “primavera araba”, dopo la “rivoluzione degli ombrelli” dei ragazzi di Hong Kong.
Si può discutere il carattere centrale dell’economia, ma non certo osare pensare di cambiarlo, è questo il monito. Più che dimostrazione della forza eversiva dell’autonomia e dei suoi ideali democratici, sono sfoghi previsti e castrati in tempi rapidi.
In democrazia il popolo è bastonato su mandato del popolo. È la pratica certosina dell’autoinganno, direbbe Carmelo Bene.
Siamo in pieno neo-liberismo: il potere dei cittadini trasloca sempre più nelle mani dei privati, di pochi privati.
La sovranità popolare è stata confiscata dalle lobby economiche che usano i partiti burocratizzati, fantocciati. Siamo in postdemocrazia. Per taluni. Che non hanno neppure la fantasia di trovare un altro nome. Eppure trovarlo è ineludibile se veramente si vuole creare un’altra realtà. Il nome la determina.
Che fare dunque davanti a questa che per Georges Bernanos è un’invenzione degli intellettuali, e per Leonardo Sciascia una presa per i fondelli? «Il popolo, la democrazia […] sono belle invenzioni: cose inventate a tavolino, da gente che sa mettere una parola in culo all’altra e tutte le parole nel culo dell’umanità » .
Che bella soddisfazione!
Ma il culo dell’umanità è colmo. Eliminare la parola democrazia è d’obbligo. Così come quella di “politica”. La polis oggi è inconcepibile. Se proprio si vuole mantenere la terminologia greca, rifacciamoci all’astu, la piazza e location dei lavoratori.
Basta con questa falsa crazia del popolo, ma che politici accorti, quali per me potrebbero essere solo gli astutici (gli operatori pubblici che vengono dall’astu e si muovono per l’astu) puntino su programmi che privilegino il lavoro, che è l’unico modo per dare dignità all’umafeminità.
Da decenni io auspico una nuova forma di governo. Le ho dato anche un nome: ERGOCRAZIA: Potere al lavoro (ergon in greco, n.d.r.)
Ai sopravvissuti alle manipolazioni e ai possibili loro degni rappresentanti il compito arduo ma inderogabile di realizzarla.

 Il doppio sguardo. Su Parlarne tra amici e Lealtà  

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di Eloisa Morra                                                     

Ci sono tanti tipi di lettori quanti tipi di romanzi; tra questi ultimi preferisco quelli che chiamo tra me e me “romanzi-gazzella”: testi brevi il cui fascino è racchiuso nella brillantezza dei dialoghi e in una voce narrante capace di rendere interessante il paesaggio o il tipo umano più noto. Certi romanzi di Maugham, tutto Lernet-Holenia, il primo RothLeggo questi libri con lentezza esasperante, maledicendo gli autori per non aver scritto un tomo. Poi però mi dico che se li venero è proprio per la brevitas, e che i romanzi “obesi” non sono davvero nelle mie corde: di David Foster Wallace mi divertono i saggi, ma ho ripreso tre volte in mano Infinite Jest senza mai riuscire a finirlo (per Zadie Smith il discorso è diverso, ma forse lei è l’eccezione che conferma la regola). Come mai mi trovo più a mio agio nella Firenze volutamente cliché di Maugham o nella felix Austria di Lernet-Holenia che in quelle pagine ribollenti di attualità?

Essendo il dentro un fuori infinito #14

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di Mariasole Ariot

Gaia si muove respirando faticosamente, il dolore lancinante come punte di spillo sotto i piedi, l’asfalto rimasto da quando si è gettata, l’orribile dentro le scarpe, l’orribile nelle caviglie, al posto dei tutori. La carrozzina si sposta voltandosi come un corpo muto, una protesi di acciaio sotto il suo, prima così delicato, ora in piena.
Gaia ride, si è dipinta gli occhi di azzurro, Gaia parla a perdifiato bevendo spremute d’arancio, Gaia si traveste da cervo o cerbiatto, Gaia sa parlare tre lingue.

Di quel giorno ricordo il flacone di tachipirina, la gola arsa, lo svenimento. Poi mi hanno portata in coma nell’ala ovest, so solo questo. So che quando mi sono svegliata volevano prendermi, portarmi nel reparto “giusto”, e io mi sono tuffata. Tre piani, sono caduta in piedi, i talloni scoppiati, le fratture,i corpo schizzato in mille pezzi d’ossa : sono viva per miracolo.

Di questo miracolo porta il segno negli occhi e nella bocca : un miscuglio di donna e di rossetti, di figli e di amanti, di imprecazioni e di risate, di desiderio e vergogna. Porta i miracoli nelle dita che giocano a scacchi a tutte le ore, porta i miracoli nella sala del fumo, porta i miracoli a cena, quando le ragazzine si distendono per evitare di mangiare e lei le riprende con parole secche.

Gaia è quello che rimane di un salto nel vuoto, il molto che non ci si aspettiamo, Gaia scherza anche quando piange, Gaia ha parole dolci per i neonati, per la vecchia fuggita in tram, Gaia galleggia sulla città, Gaia non cede, Gaia non tace.
Il letto è stato affumicato dall’ultima sigaretta, Gaia si sporge dalla sedia a rotelle e lo innaffia con vasi di mare, traffica con le parole dette e con quelle chiuse dentro la stanza dei ricostruttori. I piedi non le danno tregua.
Non li sento e continuo a sentirli. E’ come un arto amputato che continua a piangere, un temporale di acquavite sulla vita, un sole che brucia a mezzogiorno mentre non ho niente addosso, i cinquanta gradi a sud del mio corpo. Viva per miracolo non significa niente, significa esistere senza giustificazione. Non c’è bisogno di una giustificazione all’esistenza, bambina: sono qui perché dovevo essere qui. Perché ho due figli e un uomo che mi corica a letto e m’innaffia di seme buono, perché ho le gambe morte ma ancora aperte, perché dalle cosce in su io sento tutto, perché il tutto non è niente se non è travestito, perché ho una lingua potente, che batte sulle cose, che striscia sui tetti e sulle finestre, perché sono una finestra. 
 
Gaia ha infilato il cuore in una scatola quadrata che ricopre di piccole conchiglie, la sera prima di addormentarsi lo sfila, lo mangia tutto fino all’ultimo boccone, Gaia lo sente battere per la notte, Gaia ha i sogni nel battito cardiaco, Gaia ha un rumore di fondo che la perseguita e le dice di avanzare. Gaia avanza, non può inginocchiarsi di fronte al mare, può solo berlo. Le abbiamo visto il seno protruso in una gigantesca montata lattea, accudisce i bambini del corridoio, li mette uno a uno sotto lo sterno e comincia ad allattare. E’ umore buono, l’umore delle madri salve, delle donne salvate, delle armi depositate.
Gaia ride come sempre, con un rivolo di sangue sulla bocca per essersi morsicata un labbro mentre decideva cosa farsene dei piedi, Gaia cambia le scarpe con scarpe nuove, il pungente è sempre allenato, Gaia lo reprime cantando una canzone per i passati andati a male. Gaia è protesa al futuro :
 
“Non, rien de rien, non, je ne regrette rien
Ni le bien qu’on m’a fait, ni le mal
Tout ça m’est bien égal
Non, rien de rien, non, je ne regrette rien
C’est payé, balayé, oublié, je me fous du passé”
Ho lasciato ai miei occhi quello che è stato, resta sotto le ciglia, quando divento una soluzione per un movente, quando divento la donna che sono – sempre stata e mai stata. Mi sono gettata dal terzo piano, ma ho un piano per risalire : il suono della ruggine capita perché mi sono piovuta addosso. Un ramo mi dice di non fuggire, e non fuggire nemmeno tu, bambina dagli occhi grandi: non c’è passato che non passi, non c’è futuro che non resti, non c’è che questa sala in cui voi vi dimenate e io sono immobile ma ho una bocca abile a parlare la voce degli altri. Ora tu segui la mia voce : segui il mio canto : segui il rifugio : sei tra i rifugiati ma non sei perduta. Mi sono sfracellata, sono caduta, non sono fuggita. Dalla bottiglia da cui ti parlo ti mando luci di incendi e stellate, ti mando mani aperte alle verità più crude, ti apro la verità con un soffio. I trafficanti non hanno tempo di scusarsi, ma tu svegliati, bambina: il sonno non è una cura. 
 
* le foto sono state scattate alla mostra di DOGUKAN BELOZOGLU

La vita lontana

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Domani 1 marzo esce il romanzo di Paolo Pecere, filosofo e ricercatore, “La vita lontana”, edito da LiberAria, nella collana Meduse curata da Alessandra Minervini.
Di seguito, l’incipit in anteprima. Buona lettura.

di Paolo Pecere

Il giorno d’agosto in cui Livio e Marzio sono nati ci alzammo presto e scendemmo a vagare per le vie deserte, come una coppia di palombari nello scafandro dell’auto, sonnolenti e senza direzione. Elio guidava piano, rideva fuori sincrono, mi sfiorava dolcemente il braccio. Nella pancia sentivo un solletico elettrico. Forme di vita cominciavano a uscire di casa per procurarsi cibo e giornali, il vento palpitava sotto i panni appesi, i filamenti delle nuvole si aprivano. Dai tetti delle palazzine scese una scala musicale: l’esercizio di un musicista al flauto, appena distinto tra gli sbuffi dei motori, o un miraggio uditivo di cui una voce bisbigliante in me giurava l’esistenza. Un giorno sei stata felice.
– Mare? – disse Elio, e poi silenzio. Comunicavamo col pensiero, seguendo una traccia invisibile, centrifuga, per un istinto migratorio che portava via dalla calotta della città, oltre l’agro romano, verso un’altra vita.

Brasilia: il doppio sogno di Franz Krauspenhaar (no spoiler)

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di Domenico Lombardini

Accingendomi a scrivere alcune ipotesi di lavoro intorno all’ultimo lavoro di Franz Krauspenhaar (Brasilia, Castelvecchi) emerge evidente la natura proteiforme dell’opera. Romanzo distopico, è stato detto; scrittura in cui si risentono, chiare, le letture “preferite” del nostro: Kafka, Lovecraft, Houellebecq, tra gli altri. Tutto vero ma parziale. C’è di più. Il protagonista, Ernesto, chiamato dal padre in Brasile per l’ultimo saluto (al padre rimane poco da vivere), apprende una verità terribile sul conto del genitore, un segreto che getta retrospettivamente un’ombra malefica su tutta la sua vita, perché sui figli cadrà sempre la colpa dei padri. Ma qual è la colpa del padre, quale il suo terribile segreto?

Si parla, nel romanzo, di un’organizzazione occulta, un Grande Oriente dedito al traviamento delle masse attraverso l’uso di messaggi subliminali. Si parla di esperimenti, ma poco si dice sulla loro intima natura, gli effetti, la verità ultima. A differenza dei romanzi distopici, tuttavia, in cui il protagonista si scopre catapultato e immerso in un mondo altro e alieno ma ben delineato e definito nella narrazione, in Brasilia non si ha mai reale contezza se ciò che l’autore sta descrivendo sia cosa reale o onirica, esperienza o figurazione, fatto o reminiscenza, e il mondo che fa da sfondo al racconto non è mai a fuoco ma piuttosto immerso in una spessa caligine. Qui è la natura proteiforme, cangiante dell’opera: la realtà dei personaggi è continuamente decentrata, infondata, sfumata, sempre a cavallo tra la realtà e qualcosa che sta di là da questa, che non è finzione ma piuttosto sogno, mimesi di una realtà di cui si intuisce la natura ma della quale non si ha vera esperienza ma, appunto, intuizione.

Si sta quindi in uno stato di sospensione narrativa: il racconto prosegue, la prosa continua, ma non se ne capisce la direzione, l’approdo. Anche il tratteggio caratteriale ed emotivo dei personaggi appare talvolta scontornato, talaltra troppo netto. L’amore di Ernesto per la madre morta suicida durante la sua infanzia appare a un tempo sincero e naïf, l’attrazione sessuale per una giovane donna, Denise, ricalca gli stilemi forse un po’ triti della classica infatuazione maschile per un bel corpo, il rapporto col padre improntato alla abituale, difficile e nevrotica relazione edipica. Eppure, nonostante quel tanto di abbozzato e digrossato, il racconto mantiene imperturbabile la sua tenuta narrativa: tout se tient. Questo è il piccolo miracolo di Brasilia.

La storia è sempre sul punto di rivelare finalmente qualcosa di definitivo, ma ciò non accade mai, neppure alla fine. È un sogno che non si scioglie mai nella veglia e una veglia che non cede definitivamente al sogno. Si sta tra i due mondi in uno stato di continua esitazione, non optando definitivamente né per uno né per l’altro. È come se l’autore volesse suggerirci che nulla ci fonda né che possiamo trovare requie al dolore in un accesso di coscienza ipertrofica o, al contrario, di sogno o deliquio. Forse proprio questo vuole suggerirci Franz Krauspenhaar: come in Doppio sogno di Arthur Schnitzler, ma meglio in Eyes wide shut di Stanley Kubrick, il defatigante sforzo di razionalizzare o, al contrario, di perdersi definitivamente nel sogno non approda a nulla, piuttosto siamo chiamati a farci abitatori mai stanziali di entrambi i mondi, perché, come scrisse Edgar Allan Poe, “All that we see or seem / Is but a dream within a dream”.