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una rete di storie CALUMET VOLTAIRE cabaret letterario

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una rete di storie
CALUMET VOLTAIRE
cabaret letterario
Sabato 28 ottobre alle ore 21.00 après le buffet!
Mediateca Montanari di Fano [PU]
Sala Ipogea
 
Cose mai viste (le riviste)
di Francesco Forlani
Anni fa – molti anni fa – un noto intellettuale napoletano mi raccontò di come gli impresari che gestivano le serate di avanspettacolo al Salone Margherita avessero trovato un espediente pubblicitario per fare gola al pubblico- presumibilmente in gran parte di maschi- e attirare quanti più spettatori. Invece di mettere sulla locandina sei ballerine scrivevano dodici bellissime gambe. Dodici è più di sei, come confermeranno i fisici matematici tali il nostro indiano Antonello Sparzani, eppure, almeno in questo caso, può essere uguale a sei visto che per fare dodici gambe ci vogliono sei ballerine. Il piccolo aneddoto mi serve per condividere con voi una riflessione che mi faccio da anni – da molti anni- ovvero da quando ben quasi trent’anni fa sono caduto nell’incantesimo delle riviste. Poteva andarmi peggio in quella fine degli anni ottanta, tipo inciampare nell’eroina o peggio ancora nell’ultraliberalismo dei goldenboys, ma a occupare in modo ossessivo lo spazio mentale e del cuore dei miei desideri, ci sarebbero state solo riviste. A proposito di Nazione Indiana  tra noi redattori si è sempre detto che quella che a molti appariva come una debolezza- la mancanza di una gerarchia redazionale, di una parola d’ordine diktat condivisa da tutti, un’estetica e un pensiero unici e trionfanti – e perché no anche un po’ tronfi-  costituiva il punto più saldo e solido, insieme alla stima e all’amicizia che hanno reso il nostro sito longevo e vivace. Eppure uno degli elementi che ci accomuna va a mio avviso identificato in quella parola di cui si diceva all’inizio: le riviste. La maggior parte di noi si è formato sulle riviste e per alcuni addirittura nelle stesse, come è stato prima il caso di Baldus, poi  Paso Doble, Sud, Alfabeta e l’Atelier du Roman. L’elenco va chiaramente completato ed è proprio questo che chiederò agli altri collaboratori o lettori di Nazione Indiana: segnalate nei commenti la rivista in cui vi siete formati. Ma formati a cosa? ci si potrebbe chiedere. A stare con gli altri? A crescere insieme? A farsi le ossa? A scoprire da subito che la qualità letteraria non va affatto a braccetto con “l’argent”? Che non si è pagati per fare cultura ma appagati dal desiderio di farne parte? Che il conflitto può essere foriero di scoperte e non solo di spaccature? O più semplicemente si impara con le riviste che le cose possono finire e ricominciare, che nulla è più duraturo dell’effimero. Ma tornando da dove eravamo partiti, ovvero dalle dodici bellissime gambe, una cosa mi ha sempre incuriosito, come strani misteri che ci si porta dietro dall’adolescenza ed è il fatto che un numero di avanspettacolo e quello di un dossier monografico portassero lo stesso nome: rivista!! La risposta è semplice. Entrambe portano lo stesso nome perché le caratterizza la periodicità, il suo ripetersi almeno nella cornice che ospita contenuti diversi. In realtà anche altro, ancora più essenziale, unisce queste due rappresentazioni, ed è il loro mettere insieme generi  diversi, gusti differenti, proponendo una mescla di alto e basso, elitario e popolare. Avanspettacolo e avanguardia hanno calcato per decenni  lo stesso palco a cominciare dalla grande lezione di Tzara e Compagni, inventori di quel Cabaret Voltaire a cui è ispirato il titolo delle nostra serata. Ci saranno performance, musica improvvisata, reading, convivialità, conversations, preferendo questo termine, civile, a quello di dibattito generalmente stantio come l’acqua nelle caraffe posate sul tavolo dei relatori. Le feste di Nazione Indiana sono state e saranno questo. A Fano faremo come a Milano, Mesagne, Pistoia, Torino, Parigi, Fos’di Novo, Bolzano, dunque non mancate.
 

 

Enfin! Ventiquattro bellissime mani
[ dieci magnifiche penne ]
il 28 e 29 ottobre a Fano!

 
P.S. Rivista è anche termine militare, nel senso di passare in rivista le truppe  e infatti non è un caso che le stesse si definiscano in molti casi proprio in questa accezione: riviste militanti. Ma questa è un’altra storia.
 
ConMariasole Ariot, ⇨ Gianni Biondillo, ⇨ Francesco Forlani, ⇨ Helena Janeczek, ⇨ Renata Morresi, ⇨ Orsola Puecher, ⇨ Jan Reister, ⇨ Giacomo Sartori, ⇨ Antonio Sparzani, ⇨ Maria Luisa Venuta [improvvisazioni musicali di Ettore Mazzoli e Fabio Strinati]
 
ETTORE MAZZOLI E’ nato ad Urbino nel 1994. Il suo percorso musicale è iniziato a con l’approccio da autodidatta prima alla chitarra e poi al basso elettrico. Nel 2009 si è iscritto al Conservatorio Rossini di Pesaro in strumenti a percussione per poi passare nel 2012 al corso preaccademico di basso elettrico jazz. Dopo la maturità classica, conseguita presso il liceo Nolfi di Fano, ha intrapreso il corso di laurea triennale di basso elettrico che ha portato a termine nel 2016 sempre presso il Conservatorio di Pesaro. Attualmente è iscritto al secondo anno del biennio di arrangiamento e direzione d’orchestra jazz. In contemporanea frequenta il corso di laura magistrale in filosofia dell’informazione all’Università di Urbino.
 
FABIO STRINATI (poeta, scrittore, aforista, compositore) nasce a San Severino Marche il 19/01/1983 e vive ad Esanatoglia, un paesino della provincia di Macerata nelle Marche.Molto importante per la sua formazione, l’incontro con il pianista Fabrizio Ottaviucci. Ottaviucci è conosciuto soprattutto per la sua attività di interprete della musica contemporanea, per le sue prestigiose e durature collaborazioni con maestri del calibro di Markus Stockhausen e Stefano Scodanibbio, per le sue interpretazioni di Scelsi, Stockhausen, Cage, Riley e molti altri ancora. Partecipa a diverse edizioni di “Itinerari D’Ascolto”, manifestazione di musica contemporanea organizzata da Fabrizio Ottaviucci, come interprete e compositore. Strinati è presente in diverse riviste, antologie letterarie e pubblicazioni.
 

Cronache mesopotamiche

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di Lidia Massari

Forse i paesi collinari si assomigliano tutti, non so. Io questi conosco, per esserci stata deposta, per caso, alcuni decenni fa; “per caso”, nel senso che i miei giovani genitori, che vivevano altrove, al mio apparire pensarono che sarebbe stato un bene piantare le tende al paese di origine di uno dei due, Recanati, appunto, senza in realtà aver ben chiaro il loro futuro, credo. (Da qui nessuno di noi si è più mosso).

Dicevo: sembra facile, la geografia, con tutti quei fiumiciattoli paralleli. E invece no: ogni collina sembra un pallone pieno d’acqua, fai un buco e sgorga una fonte. Le colline sono solcate da rigagnoli (fossi) che appaiono e scompaiono, formano avvallamenti, diventano pericolosi come torrenti quando piove tanto. Per arrivare a Recanati da Macerata c’è un ponte sopra un fantomatico (perché l’acqua non c’è) “fosso Rica’”: che tutti noi da bravi bambini traducevamo in buon italiano “fosso dei cani”, e che invece ha a che fare con l’antico toponimo di qui, “Ricale”. Ne parla pure Leopardi. No, non “quello”, che tutti qui chiamano Giacomo, ma suo padre Monaldo [1].

Dicevo: in linea d’aria i paesetti collinari all’intorno sembrano a portata di mano, di fatto inerpicarsi su per i colli rende ogni vetta una conquista: le strade o sono dritte, brevi e con pendenze alpine, o procedono a zig zag, contorcendosi come serpenti e rendendo distanze minime (apparentemente), lunghissime. Quando nevica (e nevica tutti gli inverni) e le strade sono ghiacciate, capita di rimanere isolati. I paesetti tanto carini si stanno svuotando: molto più comoda la costa, ampi parcheggi, mega centri commerciali, autostrada. Insomma: il paese è bello, ma non ci vivrei.

Le strade che seguono i corsi d’acqua, dalla costa all’interno, sono battutissime oggi, come lo erano un tempo. Come la regina delle strade, la strada Regina, bellissima storpiatura: il nome deriva da “Rècina”, Helvia Rècina, la città romana che sorgeva ai piedi della collina dove oggi su cui oggi è distesa Macerata. Fiume, strada: e in fondo, sul mare, Potentia, fondata nel 184 a.C. Per dare terre coltivabili a chi aveva combattuto la seconda guerra punica. A proposito, Potentia nel 56 a.C. fu squassata da un tremendo terremoto, e fece fatica a riprendersi. Tanto per non dimenticare.

Poi ci sono strade, anch’esse antichissime, che servono per andare al di là. Le strade che valicano, e i paesi che fanno da sentinella. Siccome, come si è capito, io descrivo quello che vedo dalla finestra, per me la sentinella naturale verso l’altra valle è Montelupone, a guardia della mia Mesopotamia, e custode della Mesopotamia sorella, quella fra il Potenza e il Chienti.

Una strada antica è quella che congiunge Montelupone con San Claudio. C’è un posto magico, da quelle parti, fai cento metri e ti si apre ora la valle del Potenza, ora quella del Chienti, e tu sei lì, in alto, e vedi tutto, dal Conero fino ai monti d’Abruzzo, nessuna casa, ma, però, un’orribile carrozzeria (cofani arrugginiti pneumatici e quel senso d’incuria delle vecchie officine). Questi posti proprio non hanno la vocazione al sublime.

Il Chienti è proprio un grande fiume (nell’ordine delle misure nostrane, si capisce, mica sto parlando del Po; comunque nelle Marche è il secondo), deturpato, violentato, antropizzato quasi selvaggiamente. La zona verso il mare è quella più ricca di insediamenti industriali (zona di scarpari). Il suo corso è bloccato e irregimentato da due dighe importanti (formano i laghi di Polverina e Caccamo). Riceve le acque di un piccolo corso d’acqua con due nomi Fiastrone/Fiastra: alla confluenza sorge un’abbazia famosa. Anche sul Fiastrone c’è una diga. Il punto in cui comincia il Chienti segna anche il confine con l’Umbria: Serravalle.

Inutile dire che anche lungo questo fiume corre una strada parallela, una strada di grande comunicazione il cui tratto più recente, che arriva a Foligno, è stato inaugurato da Renzi nel luglio del 2016. La violenza perpetrata sul fragile territorio dell’entroterra dal lungo serpente d’asfalto è stata già raccontata da altri [2].

Proprio passando per quelle strade, più di quarant’anni fa, papà ci portava sui monti. Lui, che era nato e cresciuto in città, che aveva passato le estati della dolce vita a Riccione, ma aveva conosciuto le Dolomiti, scopriva la bellezza e il mistero delle nostre montagne. E scopriva con meraviglia la ricchezza delle acque, gli spazi intatti, e il silenzio. E decideva di costruire lì il suo secondo nido, in un piccolo borgo di cui dovrò parlare (per quanto sia doloroso, oggi).

Non so se la mappa illustra a sufficienza le mie parole: noi che stiamo qui, invece, abbiamo chiarissima l’idea di tutto quello che il terremoto ha mandato in malora. Perché non è affatto sicuro che “tutto tornerà come prima”.

Io di questo vorrei parlare, ora forse si capisce meglio perché.

 

 

 

1.

Diario di una testimone – Fiastra, 2016-2017

 

5 settembre 2016

Torno in paese per la prima volta. Noto crepe che prima non c’erano, qualche pietra per terra, oggetti caduti. La chiesa, la ragione di esistere di questo borgo, sembra integra (era stata riaperta nel 2015 dopo il restauro post terremoto ’97), ma un’ordinanza dice che è inagibile, chiusa. È comparsa una tenda blu della protezione civile, ma non ci dorme nessuno, perché, come disse la vicina di casa, “se nun dovemo dormi’, almeno sto nel letto mio”. Tutto quasi normale, insomma. È andata bene, un po’ peggio che nel ’97, ma è andata.

 

17 novembre 2016

Mi ricordo la fuga in montagna, dopo due settimane dalle scosse terribili, due settimane di totale paralisi e paura di fronte alla distruzione che non ha ancora trovato degne parole. Le strade interrotte, le deportazioni degli abitanti. L’urgenza che ho sentito, impellente, di raccontare. E mi ricordo il pudore che mi ha impedito di scattare foto delle macerie del paese, e della chiesa. Conservo l’immagine di una delle case di legno (senza acqua né riscaldamento né servizi igienici) donate dal comune di Cesate. Lì dormiranno i miei vicini per tutto il gelido inverno 2016/2017.

 

8 marzo 2017

Non provo rimorso per non aver scattato foto, a novembre. Quelle di marzo sono identiche: tutto uguale, salvo qualche pietra in più per terra, qualche buco più largo, qualche muro più imbarcato. Quando arrivo quassù, dopo un mese e mezzo, le strade hanno ancora, ai lati, cumuli di neve (e nevischio scende dal cielo in una giornata livida e fredda). Sono quattro mesi che “Cronache” racconta, e l’obiettivo si fa un po’ più coraggioso, spia fra le crepe. Non l’obiettivo, ma l’occhio torna a guardare la chiesa, osserva con rispetto e sconforto quel che rimane della casa del prete, che ha perso il tetto e la parete laterale. La vista oscena di un letto, un tavolo, una scansia con dei libri. Una trapunta rossa che il tempo sta pian piano facendo sbiadire Non pubblico niente, mentre i media sparano immagini di neve-neveemacerie-lupivaganti-pecoresottolaneve senza che sul fronte dei decisori pubblici cambi una virgola. Tanto i terremotati stanno al mare, fa freddo, cosa si potrebbe fare? Pochi, pochissimi resistenti trascorrono l’invernata così, in condizioni inimmaginabili, arrangiandosi e nel silenzio, perché intanto, sciolta la neve, di pecore&macerie non importa più niente a nessuno. Passa così, nel nulla, una primavera lunghissima di attese e ritardi.

 

24 agosto 2017

Qualcosa si muove, in effetti. E qualcuno, anche. Per esempio, si sono mossi in tanti, durante l’estate, per venire qua a fare festa, o a discutere e tentare di fare comunità, come è accaduto con “Terreinmoto” o “Borgo Futuro”. Ci sono stati momenti in cui folla e allegria sembravano quelle di trent’anni fa, quando tutte le seconde case erano piene di villeggianti. Nel prato dietro casa sono comparse due enormi tensostrutture, finalmente: una stalla e un deposito di fieno, già pieno fino in cima. La stalla è vuota: le bestie stanno sul Ragnolo al pascolo (e al fresco). Hanno passato l’inverno scorso in una stalla inagibile e rischio crollo perché non c’era un’alternativa. Ora andrà meglio. Qui, tra Fiastra e Acquacanina (fusi da gennaio in un unico comune) sono due le aree già urbanizzate in cui i lavori per le abitazione d’emergenza sono a buon punto. A Fiastra le prime case sono state consegnate il 23 agosto, e già nelle settimane precedenti era stata completata la piccola area commerciale nella parte alta del paese. Il sindaco ha annunciato il restauro di San Paolo e San Lorenzo, due delle chiese storiche. Dell’Abbazia di Santa Maria di Meriggio, e di altri monumenti di qui, non si parla ancora. Come non si parla -perché è tutto vago e fumoso- dei tempi di recupero di prime e seconde case, come torna incerta l’apertura della scuola di Fiastra, visto che le indagini geologiche pare che non siano incoraggianti. E intanto i cronisti che il 24 sono tornati qui continuano a parlare di “casette” e ricostruzione come se fossero sinonimi, come se la consegna dei villaggi SAE fosse la pietra tombale che chiude questa storia di gente “rancorosa” [3].

Sul sagrato della chiesa in dieci minuti si fermano due macchine: gente che scende, fa le foto alle macerie, e se ne va. Forse non è solo turismo macabro, forse è un bene che si cominci a guardare. Forse. Il nastro biancorosso che circondava la chiesa si è sciolto. Ci sono rifiuti, e un vago odore di urina. Qualcuno ha lasciato sotto l’arco della porta una bottiglia di birra.

 

Ottobre 2017, a quasi un anno dalle scosse tremende.

Consegnano SAE col contagocce, ma le inaugurazioni fanno molto rumore. Ne mancano due terzi: più di duemila case provvisorie da consegnare, e la Corte dei Conti che comincia a invocare chiarezza, e ditte costrette a lavorare 14 ore al giorno, e operai sfruttati in subbuglio. Perché le colpe dei politici ricadono, come sempre, sui soggetti più deboli. È cambiato il commissario straordinario, a settembre, ma quasi nulla è cambiato, nemmeno fossimo a Donnafugata. Sono cambiate le persone, le persone hanno cambiato luoghi e abitudini, nel frattempo. Siamo cambiati noi che raccontiamo. Non è venuta meno la voglia di testimoniare, con onestà, e con ostinazione.

 

[…]

 

 

Note

[1] Monaldo Leopardi, Serie dei vescovi di Recanati, con alcune brevi notizie della città e della chiesa di Recanati raccolte dal conte Monaldo Leopardi, Recanati, 1828

[2] Loredana Lipperini, Questo trenino a molla che si chiama il cuore. La Val di Chienti, le Marche, lungo i confini, Laterza 2014

[3] http://www.cronachemaceratesi.it/2017/07/06/symbola-stringe-sulla-ricostruzione-nellarcipelago-del-sisma-carancini-servono-leggi-chiare/984502/

Della poesia fatta a macchina, e anche di Sergio Rotino

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di Daniele Barbieri

A home transformed by the lightning
the balanced alcoves smother
this insatiable earth of a planet, Earth.
They attacked it with mechanical horns
because they love you, love, in fire and wind.
You say, what is the time waiting for in its spring?
I tell you it is waiting for your branch that flows,
because you are a sweet-smelling diamond architecture
that does not know why it grows.

 

È attraverso una segnalazione di Enzo Campi su Facebook che arrivo a questo articolo di Salvatore Luiso, “La poesia che (non) si doveva scrivere”. L’articolo inizia citando una (discreta, anche apprezzabile) poesia in lingua inglese (qui sopra), rivelando poi che non è stata scritta da nessuno, bensì composta da un algoritmo, un’Intelligenza Artificiale insomma, intorno al 2010. Ora cito io dal medesimo articolo (più veloce, onesto, e comodo che riassumere – per vedere il contesto vale il link sopra) che sviluppa il discorso a situazioni ancora più recenti:

 

Venendo a qualcosa più vicino a noi, Galileo.net ha pubblicato un articolo molto interessante sul lavoro di Jack Hopkins, fondatore della Spherical Defence Labs LLC di Londra ed ex ricercatore presso il laboratorio di Informatica di Cambridge. Hopkins sta sviluppando alcuni algoritmi per “insegnare” ad una rete neurale artificiale a comporre poesie paragonabili a quelle dei poeti umani. Il suo sistema è molto più “professionale”: sono stati caricati nel programma ben 7,56 milioni di parole ricavate da libri di poesie del ventesimo secolo. Questa IA, inoltre, avrebbe una speciale memoria sia a breve che a lungo termine, “esercitandola” alle emozioni. Il risultato è che il nuovo sistema riesce a scrivere poesie in diverse forme ritmiche, adoperando soluzioni formali e strutture retoriche, persino la rima.

L’IA di Hopkins è in grado di scrivere poesie su molte tematiche: proponendogli una poesia sull’estate, il sistema troverà tutti i termini che richiamano la stagione più calda e ci comporrà una lirica. Nel 70% dei casi in cui l’IA ha composto una poesia “sensata”, gli esseri umani non sono stati in grado di distinguere fra queste poesie e quelle composte da autori umani, trovando spesso le prime addirittura più belle, dunque emozionanti.

 

Ci sono alcune precisazioni da fare. Quando si dice “in cui l’IA ha composto una poesia sensata” si implica che c’è stato qualcuno, presumibilmente umano, che l’ha giudicata sensata. Quindi è stata compiuta una scelta sui risultati della produzione automatica. Di questa scelta ignoriamo i criteri, ma potrebbe anche trattarsi di criteri minimali di coerenza semantica – non di qualità estetica. Il problema sollevato da questa storia non cambia però di molto: comunque, un algoritmo ha generato poesie (non tutte, non sempre – ma quale umano lo fa?) che alcuni lettori hanno apprezzato (e tra questi, in qualche misura, anch’io).

Ora, il problema non è – come sembra credere Luiso, o anche Hopkins – se i computer davvero comprendano o sentano emozioni (o possano essere “esercitati” alle emozioni). Il computer non ha fatto che seguire regole che derivano dalla combinazione frequente di parole frequenti. Se invece di sottoporgli un corpus di poesie, gli avessimo sottoposto un corpus di ricette culinarie, il computer avrebbe prodotto ricette culinarie. Non lo avrebbe fatto, presumibilmente, con altrettanto successo: una ricetta culinaria deve certamente parte del suo successo al modo in cui viene scritta, ma se poi la ricetta, al momento di metterla in pratica, non funziona, la correttezza linguistica si rivela insufficiente, e il criterio dominante rimane un altro.

Una poesia non è però una comunicazione pratica con diretto effetto sul mondo, e la sua valutazione dipende unicamente da come è scritta. In più, proprio per questo, il lavoro che su di lei compie chi la sta leggendo è assai più importante che in qualsiasi altro tipo di comunicazione verbale. Potremmo dire che una poesia è un oggetto di proiezione, una specie di macchia di Rorschach su cui ogni lettore proietta ciò che può proiettare (senza che questo, evidentemente, si traduca in un giudizio sulla sua psiche); e la qualità di un componimento poetico è la qualità delle proiezioni che permette o suscita. Questo meccanismo può funzionare così bene da produrre un attaccamento anche molto forte da parte del lettore (e io stesso, come lettore di certe poesie, non faccio certo eccezione).

Ma questo meccanismo permette anche che, attraverso identificazioni potenzialmente molto diverse tra loro, lettori diversi si trovino accordati sul medesimo andamento, sul medesimo ritmo poetico (che è anche, ma non solo, quello prosodico-rimico: ci sono un sacco di altri ritmi in gioco in un testo poetico!). In questo modo, la situazione di fruizione collettiva prende la forma di una situazione rituale: benché lo facciamo in momenti diversi del tempo (e dello spazio) tutti noi lettori stiamo seguendo lo stesso andamento ritmico, stiamo vivendo un’esperienza accordata – come quella del ballo, o dell’ascolto musicale. Se la poesia prodotta dal computer, per ragioni qualsiasi, produce nei suoi lettori questa esperienza, allora è una poesia che in qualche modo funziona, ed è comunque una poesia di valore: anche se siamo ingannati, si tratta di un inganno positivo, fruttuoso; abbiamo davanti comunque un oggetto interessante.

La questione che questa storia pone non riguarda tanto, a mio parere, la supposta umanità del computer e la sua capacità di provare emozioni (semmai solleverebbe il problema di cosa sia l’umanesimo, ma sarebbe troppa carne al fuoco per questo post). Io la vedo diversamente: se la poesia composta a macchina può essere preferibile, più interessante, di poesie composte da umani veri, perché non domandarci come lavorano gli umani veri?

Cosa vuol dire essere un poeta? (Non faccio questa domanda da fuori: sono anch’io, comunque, un poeta.) Vuol dire cercare di rientrare, da autori, in un universo di testi di cui siamo stati in precedenza, e ancora siamo, lettori. Non c’è altro modo: se la poesia non ci ha affascinato come lettori, non potremo mai sentire il desiderio di riprodurre direttamente quella fascinazione – nemmeno se il nostro corpus di letture fosse quello banalmente scolastico. Se così fosse scriveremmo poesie altrettanto limitate, ma staremmo comunque riproducendo il meccanismo.

Per riconoscere come poesia quello che scriviamo (e se non lo riconosciamo noi certo non possiamo pretendere che lo riconoscano altri) quello che scriviamo dovrà assomigliare a quello che già abbiamo letto; quello con cui speriamo di affascinare qualcuno dovrà assomigliare a quello che già ha affascinato noi. Se vogliamo perpetuare il mito, dobbiamo riprodurlo: da quest’obbligo non si scappa.

È per questo davvero interessante che la poesia non rimanga nella Storia sempre uguale a se stessa, cioè che sia oggetto di un’evoluzione. È cioè davvero interessante che ci sia ogni tanto qualcuno (oppure più spesso, in minima misura, tanti) che nelle poesie mette dentro qualcosa che prima non c’era.

Ora, perché dovremmo stupirci che questo meccanismo di riproduzione inevitabile possa essere riprodotto artificialmente? Ormai le intelligenze artificiali sanno scrivere in linguaggio corretto. Addestrale con le ricorrenze delle parole e delle loro relazioni in poesia, aggiungi un po’ di regole metriche (non necessariamente canoniche – anche il verso libero ha le sue regole) e il risultato potrà essere non peggiore di quello della maggior parte di coloro che scrivono poesia. Il criterio di produzione, di fatto, non è molto diverso. Quel po’ di selezione che sta a monte della produzione automatica farà il resto.

Quello che viene messo in crisi, semmai, dalle capacità poetiche di un algoritmo è il mito della poesia come espressione dell’io. Certo, se siamo convinti che la poesia sia questo, dovremo pensare che la macchina possieda a sua volta un io (il che aprirebbe un fronte pesante su che cosa possa essere l’io), o arrampicarci sugli specchi in qualche modo che non riesco nemmeno a immaginare (e non ho voglia di farlo).

 

Una caratteristica che la poesia fatta a macchina certamente possederà è quella di assomigliare a tanta poesia che già esiste. Del resto tantissima poesia (per certi versi tutta) assomiglia a tanta poesia che già esiste; e ciò vale sia per la lirica che per la poesia cosiddetta “di ricerca”. A questo non c’è scampo, e non è necessariamente una caratteristica negativa; per essere considerato poesia, un testo poetico non può che ricordare altri testi poetici. Tante volte questa somiglianza è banale, così banale che se quello che cerchiamo è la novità non riusciamo a trovarlo; ma qualche volta le differenze sono davvero sottili, e passano a lungo inosservate: rimangono solo una vaga, inquietante sensazione sino a quando qualche lettore intelligente non è in grado di individuarle e descriverle (e questo è, per esempio, uno dei compiti cruciali della critica). Chi legge poesia e si trova a far da giudice nei concorsi letterari sa anche bene come esistano somiglianze disprezzabili e somiglianze apprezzabili, e che il giudizio da produrre in tempi brevi rimane comunque un’operazione complessa e discutibile, in cui l’originalità è sì un valore, ma non a tutti i costi. “C’è del bello e c’è del nuovo nella sua musica, ma il bello non è nuovo e il nuovo non è bello” si trovò a dire un caustico Rossini a un giovane che gli proponeva la propria musica.

Per coincidenza spazio-temporale, mi trovo a confrontare queste riflessioni con quelle fatte in questi giorni a proposito di un libro di Sergio Rotino, Cantu Maru, un libro scritto in un dialetto pugliese costruito – in realtà di nessun luogo preciso delle Puglie. Si tratta di un libro particolare, sia come libro di poesie sia come libro dialettale. Quando si pensa alla poesia dialettale, si sta il più delle volte facendo riferimento a una forma di lirica in cui l’uso di una lingua diversa dall’italiano, più vicina alle origini, permette una sorta di svincolo dal ritorno dei luoghi comuni incrostati nella lingua poetica. Il poeta dialettale, insomma, potrebbe permettersi di essere davvero poeta, nel senso tradizionale, quasi popolare del termine (almeno per gli ultimi due secoli), ovvero poeta lirico, senza dover troppo pagare lo scotto verso il già detto, il già udito, che rischia di pagare chi scrive in lingua italiana. Poiché la lingua si carica dei propri usi precedenti, il lettore di poesia in italiano è carico di tutte le espressioni, le frasi fatte che ritornano – e inevitabilmente le ritrova quando legge lirica in italiano (che essa sia scritta da un vero umano o da un algoritmo intelligentemente programmato). La poesia dialettale ha invece una storia molto più limitata, e i dialetti sono tanti quante le zone dell’Italia, e quindi è inevitabilmente poca la poesia scritta in ciascuno di loro: una competenza analoga da cui possa derivare un’analoga stanchezza non avrà mai il tempo di formarsi. Ecco dunque perché la poesia dialettale finisce per essere un possibile porto di approdo per chi – consapevole della stanchezza poetica dell’italiano – non possa rinunciare alla lirica.

E questo – di passaggio – stende un’ombra inquietante sulla nostra capacità di leggere poesia in lingue diverse dalla nostra. Questa poesia o la incontriamo tradotta (e allora si ricade nelle problematiche dell’italiano, se proprio non siamo capaci di liberarci dell’illusione che la traduzione ci dia accesso pressoché diretto all’originale) oppure la leggeremo secondo la competenza che abbiamo non solo della lingua, ma anche dei suoi usi poetici – quella competenza che nessun manuale, per ottimo che sia, potrà mai dettagliarci in maniera consapevole, ma che può entrare in noi solo per l’accumulo progressivo prodotto da una lunga e fedele frequentazione.

Cantu Maru non è questo. Come poesia dialettale è incongrua, forse sbagliata. La parola viene utilizzata all’interno di forme che non hanno rapporto con forme della tradizione: né versi canonici, né frasi tipicamente dialettali, né un argomentare che un parlante pugliese possa riconoscere come familiare. In realtà, dunque, non è poesia dialettale: Cantu Maru è poesia che usa il dialetto come forma verbale base per costruire il proprio discorso. Se confrontate (negli esempi riportati sotto) l’originale pugliese con la traduzione di servizio in italiano, vi accorgerete di come la secchezza, la brevità, la durezza delle parole e dei suoni dell’originale costruisca una sonorità che l’italiano non conosce, né potrebbe conoscere, per la sua stessa natura fonetica.

Questo ritmo prosodico e fonetico duro, quasi brutale, per certi versi primitivo, trasmette un effetto straordinario di impotenza del dolore, di difficoltà nel dirlo, nel comunicarlo. Lo trasmette attraverso i suoni ancora prima che attraverso il senso delle parole, proprio come un brano musicale. Ma a differenza che in un brano musicale, benché il senso arrivi dopo e in subordine al suono, in poesia esso non può comunque non arrivare – e quando arriva gioca a sua volta, e anche questa posticipazione di quello che normalmente, quando si legge nella propria lingua, è immediato e diretto contribuisce all’effetto di straniamento mitico. Rotino ci trasporta in una sorta di rito funebre che, pur avendo somiglianze solo remote con i riti della sua terra, viene percepito come non meno rituale e non meno arcaico. L’effetto che questa poesia produce è quello di una sorta di proto-rito, un rito precedente e più profondo di quelli di qualsiasi Terra del rimorso.

Qualche giorno fa mi è capitato anche di riascoltare la musica di un gruppo pugliese che conosco e grandemente apprezzo da lungo tempo, che si chiama Faraualla (su Youtube, per esempio qui e dintorni). Mentre ascoltavo queste bravissime quattro interpreti, che cantano (quasi sempre) a cappella, mi sono reso conto quasi di colpo di una somiglianza formale forte con l’operazione di Rotino: nell’uno come nell’altro caso c’è un lavoro sulla lingua e sulle sue particolari sonorità per produrre qualcosa che con la tradizione intrattiene comunque un rapporto controverso; e questo viene fatto per mezzo dell’inserimento di forme non tradizionali, magari moderne, che noi sentiamo come contemporanee, e quindi nate in contesti del tutto differenti. Questa introduzione forzata, questa violenza che si fa alla lingua della tradizione, introduce a sua volta uno scarto, ed è questo scarto che ci permette poi di vedere, di sentire, quello che altrimenti non vedremmo, non sentiremmo più, perché sommerso dalla tradizione stessa e dai percorsi fruitivi che essa stessa inevitabilmente ci suggerisce.

 

Ora, potrebbe una poesia come quella di Rotino essere stata scritta da un algoritmo? Certamente sì, date le opportune condizioni. O perlomeno, adesso certamente sì. In altre parole, adesso che qualcuno ha mostrato come si possa seguire questa via per produrre poesia, non dubito che un algoritmo sufficientemente ben costruito potrebbe produrre ottime poesie in questo stile, magari, talvolta, persino migliori di quelle di Cantu Maru.

Dato uno stile, è proprio la sua maniera quello che è imitabile tecnicamente. Ma l’imitazione della maniera è quello che si trova nella grande maggioranza dei testi poetici che vengono prodotti in qualsiasi tempo e luogo, tipicamente scritti da uomini, non da algoritmi. Fino a qualche secolo fa, questa imitazione non costituiva un problema: la qualità di un testo artistico veniva valutata per la sua aderenza al canone, non per la sua capacità di distaccarsene. Sino a quando l’idea di sublime non irrompe sulla scena della cultura europea, nel corso del XVIII secolo, il bello viene valutato in termini di aderenza, non di deviazione e conseguente novità. Siamo noi moderni a essere ammalati di novità, e lo siamo diventati proprio mentre ci ammalavamo di progresso ma anche di timore di essere ridotti a uomo-macchina: due grandi miti, contrapposti e paralleli, che crescono nel Settecento e finiscono per produrre il Romanticismo.

Ora, non sarebbe troppo difficile oggi, io credo, progettare algoritmi poetici che giochino sull’introduzione dello scarto, in modo da produrre autonomamente poesia interessante e nuova come quella di Rotino. Certo, il successo dei testi prodotti da questi algoritmi innovativi sarebbe probabilmente minore di quello dei testi prodotti per assomigliare al mainstream: questa è una regola generale valida indipendentemente da chi o cosa sia l’autore dei testi. Ciò che è innovativo è più difficilmente riconducibile al canone, e ci vuole capacità e decisione e amore del rischio da parte del lettore per deciderne il valore, separando quello che “è nuovo ma non è bello” da quello che resta bello pur essendo nuovo. Dal punto di vista commerciale, produrre testi non canonici (soprattutto quando lo spazio di manovra economico è così piccolo come nel caso della poesia) è certamente molto meno remunerativo che produrre testi canonici.

Ma il guadagno che i testi poetici possono portare all’autore di un algoritmo è davvero così minimo (anche quando ci sia) che non sarà per quello che si potrebbe costruire un programma che tenti di innovare in poesia. Magari lo si farà per il semplice gusto della sfida. In un caso di questo genere probabilmente dovremmo considerare poeta, autore, proprio chi scrive e mette in opera l’algoritmo, perché l’eventuale innovazione ce l’avrà comunque messa lui (o lei che sia). In fin dei conti l’operazione provocatoria che Nanni Balestrini compiva negli anni Sessanta (pubblicata alla fine di Come si agisce) andava proprio in questa direzione: il poeta è colui che costruisce la macchina che produce il testo, qualunque cosa ne sia poi il prodotto. E, andando ancora più in là, la prima di queste macchine veniva proposta da Tristan Tzara quando diceva (non ricordo più dove e quando) che per scrivere una poesia basta prendere un articolo di giornale, ritagliarne le singole parole ed estrarle a caso da un sacchetto.

Se la poesia fatta a macchina dovesse raggiungere davvero il livello di originalità e indistinguibilità che sto descrivendo, quali ne sarebbero le conseguenze? La poesia non è un genere da intrattenimento come altri. Credo che per molto cinema hollywoodiano, se lo spettatore scoprisse che viene interamente realizzato da un algoritmo, non cambierebbe nulla: nella misura in cui lo spettacolo c’è, e mi avvince, e ne godo, che importanza ha il modo in cui viene prodotto? Questo potrebbe valere anche per la musica e per molta letteratura.

Dovrebbe cambiare, probabilmente, il modo in cui ne parla la critica. Eppure, nella misura in cui la critica non si limita a dire se il suo oggetto è bello o brutto, e divertente o noioso, ma cerca anche di estrapolare il cosiddetto messaggio, questo cambiamento non farebbe che spostare l’istanza umana (ovvero chi ha detto queste cose) più a monte: dall’autore del film (musica, romanzo…) all’autore del programma che lo ha realizzato, o a chi ha comunque impostato i parametri per far funzionare l’algoritmo.

Il punto è che – e in poesia particolarmente – questa roba funziona perché noi la percepiamo come umana, cioè come discorso da uomo a uomo. La classica distinzione tra bello naturale e bello artistico sottolinea proprio questo; e se a monte della produzione di un oggetto artistico qualsivoglia non si potesse individuare un soggetto umano (e lo cercheremmo, in ogni caso, fino allo spasimo) avremmo sempre la chance di apprezzarlo come si apprezza un tramonto, un paesaggio, il viso di una persona che troviamo bella.

Ora, io credo proprio che il tema della poesia realizzata interamente a macchina sia sconvolgente proprio perché alle spalle di tutti i recuperi autoriali che possiamo legittimamente tentare, rimane la prospettiva di doverla valutare come bello naturale, ovvero come un prodotto affascinante ma non umano. E poiché esso sarà privo anche di ciò che, in quanto naturale, sentiamo comunque in continuità – in connivenza, direbbe François Jullien – con noi umani, dovremo estendere il senso di accordo, di sintonia, di compartecipazione istintiva, a una dimensione inevitabilmente, intimamente razionale: quella della macchina, ovvero proprio ciò che, da qualche secolo a questa parte, sentiamo esattamente come la negazione dell’umano. Insomma, avremmo un bello naturale proprio là dove la natura non è nemmeno più la continuazione esterna dell’umano, bensì proprio un’alterità radicale; in quanto espressione esattamente di quello che il Romanticismo ci ha insegnato a riconoscere come nemico: la ragione estrema, con tutto il suo imperscrutabile inconscio.

“El sueño de la razón produce monstruos” è il titolo di una famosa acquaforte di Goya, che viene correntemente (e magari pure correttamente) tradotto come “Il sonno della ragione genera mostri”. Ma la parola sueño in spagnolo è ambigua, e può essere tradotta frequentemente anche come sogno: ecco quindi che non il sonno, bensì il sogno della ragione produce mostri (e l’acquaforte di Goya non contraddirebbe questa lettura). L’inconscio della ragione non è meno inquietante e mostruoso della sua vacanza: questo è il motivo profondo per cui l’ipotesi della poesia scritta a macchina sommuove tanto i nostri timori.

 

 

 

 

Sergio Rotino

Da Cantu Maru

Edizioni Kurumuny, Palermo 2017

 

 

 

mai cu te
basta cu
te a
tie mai
cu basta a

sempre picca ete

quiddru ca
sempre alli
sempre a
cine alli
muerti se
tae

 

mai che ti / basti che / ti a / te mai / che basti a // è
sempre poco // quello che / sempre ai / sempre a / chi
ai / morti si / offre

 

 

 

*

tienime
tienime
sangu

sangu tienime
sangu

tienime nu
me
lassare nu
me

menare
intra lu
jancu ancora
ancora nu

picca spetta

tienime
spetta
tienime
ancora tienime

sangu

tienime
ancora nu
me lassare

 

tienimi / tienimi / sangue // sangue tienimi / sangue //
tienimi non / mi / lasciare non / mi // gettare / dentro
il / bianco ancora / ancora un // poco aspetta /
tienimi / aspetta / tienimi / ancora tienimi // sangue //
tienimi / ancora non / mi lasciare

 

 

 

*

e puru
sangu simu
e terra
russa terra
ca

ca ni
esse

russa

fore la
ucca none
chiui none

mai arberi

mai fronde mai
chiui qua
bbasciu mai
chiati stamu
sementi simu
stati

simu sementi
fiacchi a
nui fiacchi

spundati

 

e siamo / anche sangue / e terra / rossa terra / che //
che ci / esce // rossa // dalla / bocca non / più non //
mai alberi / mai foglie mai / più qua / giù mai /
trovati stiamo / semi siamo / stati // siamo semi /
inutili a / noi inutili // spariti

 

 

 

*

comu ni
atte lu

sule

comu ni c
comu
comu ni
chiange la

ucca lu
core comu
ni
chiange ca
nienzi t
tene ca
nienzi s’ave
tenutu intru

piezzi

te
cose ave
lassatu cu
se ne
fucenu se

ne su
sciute
a gnaciu
a

 

come ci / colpisce il // sole // come ci p / come / ci
piange la // bocca il / cuore come / ci / piange che /
niente p / possiede che / niente ha / posseduto dentro //
pezzi // di / cose ha / lasciato che / se ne / scappassero
se / ne sono / andate / in giro / in
 

 

Non risponde mai nessuno – Simone Ghelli

1

VEDEVANO TUTTI IL SUO DOLORE

Estratto dalla raccolta di racconti  Non risponde mai nessuno  di Simone Ghellli

(Miraggi Edizioni, ottobre 2017)

 

 

 

Nell’ora in cui se ne andò, accadde un fatto incredibile: sbandando, un’auto aveva invaso la corsia tamponandone delle altre parcheggiate a spina di pesce, tranne la sua. Claudio chiamò subito a casa la moglie, con la voce che per lo spavento gli faceva tremare le parole in bocca.

«Io penso che sia stata lei,» gli disse infine Silvia, «lei che t’ha ringraziato».

«L’ho pensato anch’io, sai?»

«Sono sicura che se n’è andata da poco. Appena puoi mi chiami? Fammi sapere quando arrivi».

Claudio aveva rimesso in moto e guidato, con il piede che ogni tanto singhiozzava sul pedale, verso un turno serale di sei ore che l’attendeva. Guardava la strada, ma non vedeva che lei, così piccola e infreddolita e affamata; lei che arrancava per la salita e veniva a metterglisi vicino per una carezza, senza la contezza di essere arrivata alla fine dei suoi giorni. Continuava da ore a chiedersi perché, a sussurrarlo a denti stretti mentre s’immaginava di stringerla a sé, di darle almeno un po’ di calore. Continuò a chiederselo anche a lavoro, a stringere le dita a pugno sotto la scrivania mentre invocava un po’ di giustizia senza sapere a chi.

Eppure Silvia lo aveva avvertito: «Ho sbagliato a coinvolgerti. Quando la vedrai ti verrà male al petto come a me».

Il mattino precedente, mentre si metteva le lenti a contatto davanti allo specchio, gli aveva confidato di non averci dormito per tutta la notte. Aveva pianto così tanto che si era risvegliata con gli occhi opachi, come se fossero stati vuoti. Girando per casa, con lo zaino che doveva riempire con le cose che le sarebbero poi servite, il suo sguardo lo oltrepassava e lui non capiva dove fosse diretto. Claudio avrebbe voluto scuoterla e rimetterla a fuoco; così si era offerto di accompagnarla per darle un po’ di conforto.

«Andiamo,» le aveva detto facendosi trovare con le chiavi dell’auto in mano quando lei era uscita dal bagno.

Mentre lui guidava, con i vetri appannati e una nebbia leggera che nascondeva le cose, c’era stato un lungo silenzio tra loro. Non accadeva quasi mai, se non quando bisticciavano per qualche incomprensione; ma erano sempre questioni di pochi minuti, perché nessuno dei due riusciva a rimanere a lungo con l’idea di qualcosa d’irrisolto. Quella mattina, però, sembrava che tra loro ci fosse stato un grumo che non voleva saperne di sciogliersi e che mancassero anche le parole per definirlo.

A un certo punto, poco prima di arrivare, Silvia aveva dato un pugno sulla scocca interna; un piccolo pugno, poco più di una carezza, quasi al rallentatore.

«Forse dovremmo lasciare tutto così com’è», aveva suggerito.

«Ormai ci siamo. Provo soltanto a darle qualcosa da mangiare. Magari si fa prendere».

«Mi dispiace lasciarti da solo».

Silvia doveva dare delle ripetizioni di matematica a un ragazzino di terza media, la cui famiglia abitava in una strada senza sbocchi. Gli aveva raccontato che spesso, quando usciva da casa loro, le capitava di vederla che attendeva da una parte.

«Ogni volta mi viene da prenderla. Vorrei prenderla e stringerla forte, portarla via, ma non si può fare».

«Abbiamo già i nostri, di più non possiamo fare».

Claudio si accostò davanti all’ingresso del palazzo e attese col motore acceso che Silvia entrasse, poi proseguì più avanti di qualche metro e parcheggiò l’auto al termine di uno slargo dove la strada virava a sinistra per terminare davanti a un cancello chiuso da un lucchetto arrugginito, oltre il quale c’era una costruzione bassa in mattoni rossi circondata da una serie di turbine e di cavi dell’alta tensione che producevano un ronzio appena percettibile.

La gatta era proprio dove Silvia gli aveva detto di cercarla.

Dormiva su un cuscino tutto sudicio buttato lungo l’argine, vicino a un piattino di plastica vuoto.

La signora che le dava ogni giorno da mangiare – una gattara di cui non era stato possibile conoscere il nome, e che, a detta della madre del bambino a cui Silvia dava ripetizioni, non avrebbe acconsentito a farla portar via – usciva dal portone intorno alle nove e mezza con il sacchetto dei croccantini e alcune scatolette.

Claudio prese la bustina di umido che si era portato da casa e provò ad avvicinarsi a piccoli passi, cercando di fare meno rumore possibile, ma quando fu a circa un paio di metri da lei, la gatta tirò su la testa e lo fissò in silenzio.

Non le era rimasto che un occhio, vivo, ormai assediato da quell’orribile male che le aveva cancellato il resto del musetto.

Cercando di non guardarla, Claudio avanzò finché il cuscino non fu a portata di mano e fece cadere velocemente i bocconcini nel piatto. La gatta si avvicinò con circospezione, poi prese a mangiare senza quasi masticare. Si sentiva soltanto il brusio dei cavi elettrici e il rumore della sua gola che inghiottiva e del suo naso che si sforzava di inspirare aria per vivere ancora.

Claudio si allontanò velocemente, raggiunse l’auto e si guardò intorno. Non c’erano che loro due, circondati da palazzine basse con le finestre da cui non li guardava nessuno.

Aprì il portabagagli e prese un vecchio trasportino che non avevano mai buttato proprio per i casi di necessità. Dentro ci aveva messo un asciugamano, in modo che la gatta potesse stare su una superficie morbida che le avrebbe dato una sensazione di calore.

Fece scattare la sicura di due dei quattro ganci che tenevano chiuso lo sportello e provò nuovamente ad avvicinarsi al giaciglio, molto lentamente, ma era come se ogni cosa avesse deciso improvvisamente di mettersi a urlare. I sassolini che calpestava facevano drizzare le orecchie della gatta a ogni passo che faceva, e lo stesso effetto sembravano sortire il fruscìo dei suoi indumenti e lo scricchiolare delle sue giunture. Era arrivato appena al centro della strada quando l’animale, con una rapidità che non si sarebbe mai immaginato, si allontanò di un paio di metri.

Claudio provò a seguirla, senza però riuscire a diminuire la distanza che li separava, finché, in prossimità del cancello in fondo alla via, non decise di tornare sui propri passi.

Una signora, che stava rientrando dalla sua passeggiata con il cagnolino al guinzaglio, si fermò incuriosita.

«Poverina,» disse, «spesso va là dentro a dormire. Si sentirà più al sicuro».

Guardò poi il trasportino che oscillava nella sua mano sinistra: «Ha paura, non si farà mai prendere con quello».

«Deve essere visitata,» disse lui.

La signora scosse la testa: «È da tanto che sta male».

Claudio sentì le labbra tremargli e con esse i muscoli che controllavano le guance. Non riusciva più a parlare e sbatteva le palpebre più rapidamente per non piangere. Davanti ai suoi occhi c’era come un velo e gli ritornarono in mente le parole di Silvia: «Quando la vedrai ti verrà male al petto come a me».

Pur di toglierle dalla vista quel dolore che non la faceva dormire, aveva provato ad agire come in sogno, come se nulla avesse potuto realmente toccarlo, ma era bastata la parola di una persona a farlo precipitare nella realtà.

In un attimo capì che non avrebbe dimenticato per tanto, tanto tempo.

«Mi allontano,» disse la signora tirando il cagnolino per il guinzaglio.

Vide che la gatta stava risalendo verso di loro, ma come fece un passo quella scattò nuovamente indietro.

Claudio si mise uno dei guanti in lattice che aveva in tasca e prese il piattino dove erano rimasti ancora dei bocconcini.

«Micia, micia, micia,» la chiamò allungando il braccio con il cibo.

Provò anche con la busta dei croccantini, che andò a prendere in auto. Pensò che il rumore avrebbe potuto attirarla, ma ormai non si fidava, non avrebbe ottenuto niente neanche stando lì tutto il giorno. Avrebbe dovuto agire diversamente, magari la prima volta che le si era avvicinato, e invece aveva rovinato tutto.

Quando tornò indietro, un paio di minuti più tardi, trovò la signora che parlava con uomo di mezza età impegnato a tenere fermo un cane nero di grossa taglia che lo trascinava ansimando.

«Ah,» disse quello vedendolo, «finalmente hanno mandato qualcuno a prenderla. Non può mica più campare, così».

Claudio scosse la testa.

«Va fatta sopprimere,» disse con un filo di voce.

Non pensava che sarebbe mai riuscito a pronunciare quella parola, e infatti sembrò che gli altri non lo avessero sentito.

«Ce ne avete messo di tempo».

La signora ripeté soltanto: «Poverina».

Nel frattempo la gatta si era furtivamente avvicinata al cuscino, ormai era a non più di due metri, quando l’uomo si mosse col suo cane e per la paura quella saltò addirittura sul muretto alto quasi un metro e scomparve dietro l’inferriata.

«Mi sa che per oggi non se ne fa più di niente,» disse loro.

Attese che gli altri due se ne fossero andati, poi tornò verso l’auto e mise il trasportino sul sedile posteriore insieme al sacco dei croccantini. Si tolse il guanto in lattice e si voltò un’ultima volta a guardare, ma adesso era veramente da solo.

Chiuse la portiera e si lasciò andare sul sedile, poi iniziò a piangere in silenzio.

 

 

 

 

Simone Ghelli è autore della raccolta L’ora migliore e altri racconti (Edizioni Il Foglio, 2011) e del romanzo breve Voi, onesti farabutti (CaratteriMobili, 2012). Nel 2013 è stato tra gli autori selezionati per l’antologia Toscani maledetti (Piano B edizioni), curata da Raoul Bruni.  Alcuni suoi racconti sono inoltre comparsi su riviste e siti letterari vari, tra cui Minima et Moralia, Altrianimali, Poetarum Silva e Cadillac Magazine.

RIASSUNTO DI OTTOBRE

0

dodici voci della scrittura contemporanea

 

seconda edizione, 2017
​a cura
di Sergio Rotino

 

​Letture di ​

​testi editi e inediti di

Leonardo Canella,

Anna​​ Franceschini,

Marco Giovenale,

Alessandra Greco,

La gelosia delle lingue

2

 

[È uscito ad aprile La gelosia delle lingue di Adrián N. Bravi (eum edizioni università di macerata), un piccolo libro sul rapporto che tutti gli esseri umani – e moltissimi scrittori – hanno con la lingua materna e, alle volte, con altre lingue d’adozione. Ogni lingua è una fata gelosa, sembra dire Bravi, che spesso mal sopporta di dividere un parlante con un’altra lingua; questa occasionale coesistenza provoca dei cortocircuiti che non si finisce mai di esplorare.
Ne pubblico qualche estratto, ringraziando l’autore e l’editore.
La composizione in apertura è Suns from Sunsets from Flickr di Penelope Umbrico. ot]

di Adrián N. Bravi

La maternità della lingua I

È possibile, mi chiedo, abbandonare la propria lingua, dal momento che questa non è solo un modo di parlare, o meglio, non ha a che fare solo con un corpo grammaticale, ma anche con un punto di vista? Possiamo, per diverse vicissitudini, voltarle le spalle, abbandonarla o sostituirla, però forse non potremmo mai fare a meno della maternità di quella lingua, intesa come origine irrevocabile, anche quando vediamo il mondo alla luce di una nuova lingua. La maternità di una lingua non ci insegna solo a parlare, ma ci dà uno sguardo, un sentire, un punto di vista sulle cose. La sua sintassi è una prospettiva. Possiamo investire le nostre storie di altre lingue, ma la maternità che la nostra lingua d’origine rivendica su di noi, rimane; perché è un modo di essere, di vivere e di pensare, a prescindere da come la si esprime. È un’ermeneutica del mondo. Parliamo la nostra lingua madre in tante altre lingue.
Silvia Baron Supervielle, autrice argentina che scriveva anche in francese, ha sempre riflettuto sul mutare lingua. Nel 1998 pubblica a Buenos Aires un libro dal titolo El cambio de lengua para un escritor e nel 2007 esce in francese, tradotto in italiano, L’alfabeto di fuoco: piccoli studi sulla lingua. In quest’ultimo libro, l’autrice argentina, fa il suo punto della situazione: «Più ci rifletto più ho la sensazione che la prima lingua non muoia mai: essa permane silenziosa, ma viva, in fondo all’anima» [1]. Questo significa che mentre cresciamo e cambiamo lingua resta in noi un fanciullino pascoliano che confonde la sua voce con la nostra e che continua a guardare le cose attraverso quella maternità nascosta «in fondo all’anima». Ed è quella voce silenziosa, quel timbro velato dalla nuova lingua, che a volte continua a parlarci dentro. Se metto insieme queste riflessioni, capisco quel che scrive Bachelard nel già citato, La poetica della rêverie: «passando da una lingua all’altra si ha l’esperienza di una femminilità perduta o di una femminilità mascherata da suoni mascolini» [2]. Ed è lo smascheramento di questa femminilità, attraverso i nuovi suoni mascolini, che la maternità della lingua svela. Ogni volta che parliamo scopre il suo occultarsi nella lingua acquisita.
Nel primo trattato del Convivio (paragrafo XIII) Dante parla dell’amore per la lingua materna, che considera elemento di unione tra i genitori: «Questo mio volgare fu congiungitore delli miei generanti, che con esso parlavano, sì come ‘l fuoco è disponitore del ferro al fabro che fa lo coltello: per che manifesto è lui essere concorso alla mia generazione, e così essere alcuna cagione del mio essere» [3]. Una lingua che non rappresenta solo l’unione tra i suoi genitori, ma partecipa alla nascita ed è, allo stesso tempo, causa della sua esistenza. Una maternità, questa della lingua, che determina la vita e il rapporto con il mondo del figlio. La lingua dentro cui si nasce ci dà gli occhi con i quali continuiamo a guardare il mondo, anche quando non la parliamo più. Dice a tale proposito Italo Calvino in una nota biografica che si trova all’inizio di Eremita a Parigi: «Tutto può cambiare, ma non la lingua che ci portiamo dentro, anzi che ci contiene dentro di sé come un mondo più esclusivo e definitivo del ventre materno» [4].
A me, personalmente, è capitato di dover fare i conti con l’italiano che parlo da più di venticinque anni, ancora con parecchi errori, e nel quale scrivo solo da tredici o quattordici anni circa. Durante i miei primi dieci anni di permanenza in Italia ho continuato a scrivere in spagnolo. Mi sentivo troppo legato a quel modo di parlare, anche se la mia idea, quando ero salito sull’aereo che mi avrebbe portato in Europa, era di lasciarmi il passato alle spalle. Per dieci anni ho vissuto un rapporto ambiguo e doloroso con entrambe le lingue che avevo a disposizione, quella di partenza e quella d’arrivo, quella materna e quella del paese in cui avevo scelto di stare, almeno per un po’. Da una parte mi attaccavo ai ricordi, alle parole, alle metafore, al modo di parlare della mia lingua materna; allo stesso tempo, però, volevo liberarmene, non dimenticare, ma far parlare i ricordi con una voce diversa. Si vive dentro una lingua più che in uno spazio geografico. Questo mi sembra di averlo capito quando l’italiano ha iniziato ad avere il sopravvento.
Durante una conferenza del 1987, tenuta a Vienna, Brodskij dichiara che l’esilio è, prima di tutto, un evento linguistico. Chi si trova nella condizione di vivere espatriato, si ritira o si rifugia nella sua lingua; a quel punto «quella che era la sua spada, diventa il suo scudo, la sua capsula» [5], il luogo dove trovare un rifugio. La lingua madre come spada che nella lontananza diventa scudo, riparo, lo spazio dove potersi nascondere con i propri ricordi o con il proprio passato per trovare, in quel rifugio, l’intimità nascosta della nostra lingua. Un’intimità però che non riuscirà mai a rimanere nascosta come uno spazio chiuso, perché alla fine ci accorgiamo che quella capsula della lingua madre era un abitacolo pieno di finestre, aperte a tante contaminazioni.

[note]

1 Silvia Baron Supervielle, L’alfabeto di fuoco, traduzione di Anna Bertaccini, Capriasca, Pagina d’arte, 2010, p. 59.
2 Bachelard, La poetica della rêverie, cit., p. 40.
3 Dante Alighieri, Convivio, a cura di Franca Brambilla Ageno, Firenze, Le Lettere, 1995, vol. 2, 1, 13, pp. 56-57.
4 Italo Calvino, Eremita a Parigi, Milano, Mondadori, 1996, p. vii.
5 Iosif Brodskij, Profilo di Clio, a cura di Arturo Cattaneo, tradu- zione di Giovanni Buttafava, Gilberto Forti e Arturo Buttafava, Mila- no, Adelphi, 2003, p. 53.

*

L’ospitalità della lingua

Scrivo e parlo in italiano da molti anni, forse sogno anche in italiano, non lo so. Mi piace sentirmi ospite in questa lingua che ancora non riesco a padroneggiare come vorrei, anche se, fin dall’inizio, mi sono sentito accolto, come un invitato gradito. La lingua è sempre ospitale, aperta a ogni approdo. Non tollera muri divisori, non è proprietà di questo o quel gruppo. Appartiene a chi la parla, la legge, la scrive, senza distinzione di provenienza. Non tiene conto delle nostre origini. È la prima dimora che trova lo straniero, una specie di arco da attraversare. Un arco senza porte e sbarramenti, oltre al quale c’è una storia, una cultura, un’identità, che non sottraggono nulla alla diversità o alterità di chi lo attraversa. Ospitare significa accogliere l’altro nella sua singolarità.
Nell’ultimo libro scritto da Edmond Jabès, Il libro dell’ospitalità, lo scrittore ebreo egiziano, che aveva scelto il francese come lingua, prima ancora del suo esilio parigino, dedica un breve capitolo al tema dell’ospitalità che s’intitola, appunto, L’ospitalità della lingua. È un dialogo tra uno straniero e un ospite, nel quale si parla dell’importanza dell’accoglienza, dell’altro come un noi, che è anche un modo di essere e di stare al mondo. A un certo punto l’ospite ospitante (mi piace specificarlo visto che in italiano la stessa parola designa sia colui che ospita sia colui che è ospitato) chiede la nazionalità allo straniero e questo, ponendo l’accento sul fatto che la lingua che lo accoglie diventa ogni volta il suo paese, risponde che ora, il suo posto, è la lingua che si trovano a parlare in quel momento. Entriamo, da bambini o da adulti, in questa casa che ci ospita e durante il soggiorno creiamo al suo interno i nostri percorsi immaginari, i nostri progetti, i nostri smarrimenti. Impariamo a scoprirla, ad amarla o a odiarla. Seguiamo i suoi spostamenti interni, le sue variazioni. Alla fine però ci accorgiamo che quella casa ci ha trasformato, così come noi, in un certo modo, abbiamo trasformato anche lei, perché l’italiano, nel quale mi trovo a misurare ogni parola, è una lingua flessibile che acconsente le variazioni e le contaminazioni che ogni volta le vengono suggerite.
Dunque, l’ospitalità passa attraverso le parole. M’interessa segnalare il fatto dell’essere accolto, del sentirsi ospite in una lingua straniera, dell’essere uno straniero che piega la lingua che lo accoglie per dare un nuovo respiro allo sradicamento. L’accoglienza produce uno sdoppiamento nell’ospite che parla: da una parte, gli dà la possibilità di trovare una distanza rispetto alla lingua che lo ospita, riesce a vederla da fuori, capisce quante parole non trovano una diretta traduzione e quante altre gli aprono altri orizzonti linguistici; dall’altra, è questa stessa distanza a dargli la possibilità di entrare nella lingua, magari con pudore e in punta di piedi, ma entrarci, capirla, smarrircisi dentro. Crearsi una lingua straniera dentro la propria lingua: «I bei libri sono scritti in una specie di lingua straniera», scrive Proust. Deleuze usa questa frase come epigrafe a Critica e clinica e nelle sue Conversazioni con Claire Parnet precisa:

Dobbiamo essere bilingui anche in una lingua sola, dobbiamo avere una lingua minore all’interno della nostra lingua, dobbiamo fare della nostra propria lingua un uso minore. Il plurilinguismo non significa soltanto il possesso di più sistemi ciascuno dei quali sarebbe omogeneo in se stesso; significa innanzitutto la linea di fuga o di variazione che intacca ogni sistema impedendogli di essere omogeneo. Non parlare come un irlandese o un rumeno in una lingua diversa dalla propria, ma al contrario parlare nella propria lingua come uno straniero [1].

Sullo stare dentro la propria lingua come uno straniero Deleuze tornerà altre volte, insistendo sul movimento attraverso il quale ci si può aprire una linea di fuga nella propria lingua, come fa Bartleby con il suo enigmatico e agrammaticale «I would prefer not to», o lo scavo nei balbettii di Billy Budd.
Un mio amico, Alberto Coppari, a proposito di linea di fuga, mi aveva scritto in una lettera: «credo che uno comincia a fare qualcosa di buono con le parole non quando diventa abile con esse, quando gli viene naturale scrivere bene, ma, al contrario, quando comincia ad avvertire come estranea la propria lingua. Una lingua, insomma, diventa nostra quando la si perde». Un’affermazione simile la trovo in Hugo von Hofmannstahl, che mi ha suggerito il mio amico, quando afferma che il «vero amore per la lingua non è possibile senza ripudio della lingua».

[note]

1 Gilles Deleuze, Claire Parnet, Conversazioni, traduzione di Giampiero Comolli, Milano, Feltrinelli, 1980, p. 9.

*

Dal capitolo Casi di autotraduzione

Nel 1939 una compagnia di navigazione propone a Gombrowicz di partecipare al viaggio inaugurale della rotta Gdynia/Danzica-Buenos Aires. Durante il breve soggiorno a Buenos Aires scoppia la guerra e il suo soggiorno si prolungherà fino al 1963:

Solo, perduto, tagliato fuori, estraneo, sconosciuto, affogato. Allora avevo ancora i timpani straziati dal febbrile schiamazzo degli altoparlanti europei, mi tormentava ancora il ruggito bellico dei giornali, e già mi immergevo in un idioma a me incomprensibile e in una vita così distante dall’altra. Quel che si dice un momento incredibile [1].

Scrive in uno dei suoi diari, considerati da molti un’opera fondamentale. Durante questi ventiquattro anni Gombrowicz, nonostante continuasse a scrivere in polacco, diventa uno dei maggiori scrittori argentini. Ricardo Piglia dirà, per esempio, che Transatlantico è uno dei migliori romanzi scritti in Argentina; il primo romanzo che l’autore polacco scrive dall’esilio, nella sua lingua madre, che oramai usa esclusivamente nella scrittura, come una sorta d’idioletto. Cosa sarebbe successo, si chiede Piglia, se Gombrowicz avesse scritto Transatlantico in spagnolo? Sarebbe diventato il Conrad argentino? Del rapporto che Gombrowicz ha stabilito con entrambe le lingue, il polacco e lo spagnolo, rimane una traccia importante nella traduzione di Ferdydurke, uscita nel 1947 a Buenos Aires. La prima edizione era uscita a Varsavia nel 1938 ed era stata ben accolta nell’ambiente letterario polacco per la sua originalità stilistica. Nella prima bozza del Ferdydurke argentino, invece, si sperimenta una nuova lingua, uno spagnolo slavizzato e portato ai limiti della lingua, con l’intento di forzare le parole e la sintassi fino a costringerle ad accettare altri significati e slittamenti. Dunque, per Gombrowicz non si trattava di una ricerca d’ipotetici equivalenti del testo originale, considerato definitivo, ma piuttosto di un’elaborazione ulteriore, di una rivisitazione alla luce di una nuova lingua, un Ferdydurke parallelo a quello polacco: un libro diverso, una nuova versione, scritta sulla base dell’edizione originale. Gombrowicz voleva dare un altro respiro al suo testo, a partire dalla nuova esperienza dell’esilio («Questa traduzione è stata fatta da me e solo lontanamente assomiglia al testo originale», scrive nella prefazione del 1947), senza considerare l’originale come un punto d’arrivo, anzi, l’originale diventa la base per la conquista dello spagnolo. Questa particolarità specifica lo differenzia dalla tecnica e dall’orizzonte di pensiero fatti propri da Wilcock, che, come abbiamo visto, scrive nella sua lingua madre e si autotraduce in italiano mantenendosi fedele al testo originale.
Dentro questa traduzione c’è anche un’altra storia: nella sala degli scacchi del Café Rex di Buenos Aires, sull’Avenida Corrientes, si riuniva ogni giorno un «comitato di traduzione», di cui faceva parte anche il cubano Virgilio Piñera, che discuteva sulle varie versioni del testo, racconta Gombrowicz nella prefazione. Nessuno degli amici di Gombrowicz conosceva il polacco, però quando lo spagnolo non ammetteva più torsioni si passava al francese. L’eco di questa storia è raccolto e rilanciato da Piglia in Crítica y ficción: «Il romanzo argentino sarebbe un romanzo polacco: voglio dire un romanzo polacco tradotto a uno spagnolo futuro, in un caffè di Buenos Aires, da una banda di cospiratori capeggiata da un conte apocrifo» [2].

[note]

1 Witold Gombrowicz, Diario. Volume I (1953-1958), a cura di Francesco M. Cataluccio, traduzione di Vera Verdiani, Milano, Feltrinelli, 2004, p. xxiv.
2 Ricardo Piglia, Crítica y ficción, Buenos Aires, Siglo veinte, 1993, p. 51.

L’altro limite

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[Pubblichiamo due estratti da L’altro limite, LietoColle,
Collana Gialla curata da Augusto Pivanti, Pordenonelegge.it,
giugno 2017]

di Maria Borio

È quasi pronto, sta per passare
la vita nell’aumento
della proprietà con un distacco, una ricompensa
fedele a sé, solo il giglio viola nel prato
non vale perché dura un giorno.

Necrologi

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di Nadia Agustoni

poi si deve vivere

1

uno entra col fucile nel reparto. il factotum del padrone viene dalla caccia. si dà arie con tutti quanti. a casa ha una pistola. sempre armato. domenica caccia al negro e lo dice forte. la razza è il sangue. bisogna pulirsela dentro. si fa bello con l’impiegata. le spiega che spara alle lepri e ai fagiani. non li raccoglie nemmeno. gli basta sparare. ai suoi la selvaggina non piace. parla dei negri. ne arrivano come le frotte degli insetti. pesci mezzi morti i negri e gli operai morti di fame. non si spiega niente agli operai. nascono fottuti. la povertà gli sta dentro. ci guarda come il suo cane. gli occhi sono due cani anche loro.

2

va a dire tutto al padrone. lo chiama per nome. gli mette la mano sulla spalla. passano nel reparto. dicono dov’è l’africano, dov’è quello lì. deve lavorare di fuori. spianare la ghiaia. chiama una ragazza grassoccia. prendi in mano la carriola. va a tirare su la carta nel cortile, lo sporco. pulisci insieme al nero. se ti tocca lui bene, tu misuralo. ridono.

3

vomitare, stancare le braccia a non portargliele contro. parlano parole di grandine. dei malati di mente. le cose così dure le impariamo un giorno e un altro giorno. le impariamo come nuove. lo stesso male delle prime volte è un male sempre. ci scoppiano i polsi, le vene. aumentiamo il ritmo a non rispondere. bisogna fingere di stare tranquilli. la morte a rate senza scadenze quando poi si deve vivere.

 

queste cose appese a un armadietto

1

la visita medica ti spogli. la fanno nello stanzino in cima al reparto. ti metti senza maglietta e sporco. il medico dice non è niente, non si preoccupa nemmeno se sudi. ascolta il torace. dice di soffiare in un tubo. dà colpi sulla schiena. la schiena è la vita degli operai quasi tutta. in certi posti uno per assumerlo lo spogliano nudo. guardano le palle, il sedere. deve aprire la bocca, sembra un mercato delle bestie, sembra il cavallo. al cavallo si vede nei denti se sta bene.

2

qualcuno deve anche pisciare. controllano il sangue per via di tossine. un giorno c’è l’esame dell’udito dentro un furgone A.s.l con tutto il macchinario per le orecchie. l’esame lo fa una dottoressa. la stessa da anni e sorridente. c’è una collezione di foglietti a casa. ci scrive non sono sordo. ci sono le lastre fatte all’ospedale. la schiena come avessi giocato a pallacanestro con un sacco di carbone addosso.

3

giovani non ci si pensa vada tutto in vacca. bisognerebbe scappare prima. sono i pochi soldi o gli affetti che frenano. si scappa con la testa, ma lanciando le macchine come se la vita la tenessero loro incrostata dentro. un pezzo per volta viene quest’altra vita. diventare ferro non si riesce. sai sempre qualcosa che non sapevi. giorno per giorno impari com’è vivere un solo giorno. non guardare troppo in là. sono i nostri resti umani. sono queste cose appese a un armadietto. un blu che cura gli occhi. li lascia non ancora ciechi.

4

gli spogliatoi alcuni hanno i ganci alla porta. il lavandino grigio di pietra. il sapone nel barattolo per grattare via il grasso delle macchine. sono con le maniche alzate. porto in bocca un sapore di scatolette. mangio in piedi pane e tonno. bevo acqua come si beve la sete. pausa non consentita, ma mi fa male un piede. passo sotto le telecamere e mi vedono. dirò dei cerotti. li tengo nella borsa con un ricambio e la maglia infeltrita. i cerotti per un dito che sanguina. non ti tolgono la scarpa. il ferro nella scarpa è il peso nei piedi.

7

uno dei vecchi racconta. beccò due finocchi una mattina quando entrava. uno messo di dietro glielo sbatteva dentro. l’altro con la faccia di luna… bisognava vederli. le mani nei capelli a dirlo anche ora. in direzione le impiegate ridevano, i culattoni certo i culattoni. li chiamano uguale un po’ tutti. la vita nelle parole è un male raggiunto.

10

si rompe una macchina. i meccanici arrivano come una troupe del telegiornale. andare via subito. ti danno un’altra macchina o vai a pulire in terra. non stare mai fermo. pagano ogni minuto. i nuovi li mettono a togliere ragnatele, a vuotare i bidoni. le donne a pulire la mensa. lavare le piastrelle nei corridoi. i molti tempi della fabbrica sono veloci. li creano con la voce grossa.

 

Testi tratti da I necrologi (La Camera Verde, 2017).

Essere Ophelia Borghesan

1

 

di Ophelia Borghesan

 

ieri mia madre mi ha detto che ieri

all’area ristoro dell’autogrill

ha visto all’incirca quaranta monaci

buddhisti radunati per il pranzo

*

una rete di storie SCRIVERE LA STORIA

0


una rete di storie
SCRIVERE LA STORIA
Scrivere storie di Storia [letture e riflessioni]
SABATO 28 Ottobre ORE 16 Sala Ipogea
Mediateca Montanari di Fano [PU]

di Giacomo Sartori
I confini tra i testi degli storici e le narrazioni dei romanzieri sono ora molto meno netti di quanto lo fossero in passato. Pur nelle nette differenze di metodo e di finalità, i contributi vicendevoli sono innegabili, e i territori in comune numerosi. Se l’etichetta di romanzo storico porta con sé connotazioni di scialo quantitativo, piglio melodrammatico e sottofondo didascalico, le migliori narrazioni a tema storico sono in grado di cogliere e mostrare il mistero insito in ogni avvenimento, le componenti di contingenza e casualità sempre presenti, la miriade di dettagli anche contradditori che lo costituiscono, le diverse visioni che ne hanno i vari protagonisti, il ruolo e i vissuti dei protagonisti minori, i complessi rapporti degli accadimenti con le istanze profonde e le modalità di reazione degli individui, e tanti altri aspetti che la maggior parte delle narrazioni degli storici ignorano o lasciano in secondo piano. Sono contributi che non si limitano al riempimento dei silenzi della storia già messo in luce da Michelet, e all’illuminazione delle zone d’ombra. Perfino le finzioni che tradiscono la storia, che raccontano avvenimenti che non sono successi, che avrebbero potuto succedere se le cose fossero andate diversamente, possono aiutate a capire meglio quello è accaduto davvero, reintegrando in quest’ultimo la sua componente di contingenza, illuminandone il vero senso.
Anche nella narrativa italiana recente sono numerosi i romanzi, con diverse ambizioni qualitative, con una ambientazione storica, o anche che mettono in campo personaggi realmente esistiti. Alcuni, e non sempre i più interessanti, hanno avuto un notevole successo di pubblico.
Partendo dalle nostre rispettive esperienze di scrittura, molto diverse, e dai nostri testi (quindi con letture), e con un approccio più empirico che teorico, proveremo a ragionare sulle motivazioni che ci hanno spinto a occuparci di argomenti storici. E del lavoro di documentazione che abbiamo fatto, e dei rapporti con gli scritti degli storici. E delle problematiche che nascono dalla commistione di finzione e elementi documentati, dell’eventuale travisamento dei fatti che può nascere.
 
ORE 16
LetturaGianni Biondillo
Performance MultimedialeFrancesco Forlani
LetturaHelena Janeczek
Dibattito
 
Ore 17.30
Pausa
 
Ore 17.45
Lettura Giacomo Sartori
Presentazione MultimedialeOrsola Puecher
Dibattito

Prove d’ascolto #15 – Manuel Micaletto

3

Non esco granché molto e quando esco mi piace andare nei posti più migliori ed eccezionali del mondo. Non ce ne sono tanti di posti così migliori, per questo spesso posso farmi un tour completo, in quanto poiché, credo io, il caso volle che dio a sua volta volesse che questi posti trovassero ubicazione presso il mio quartiere. Un posto migliore del mondo che primeggia a livello ultimate è i ferramenta. Non è necessario farvi accesso, già dalle vetrine. Le infatti vetrine dei ferramenta sono estranee agli spot, prive di highlights, corner luminosi, la visione corre senza accenti, niente ha bisogno di essere evidenziato poiché tutto partecipa di una comune evidenza. Nessun faretto alogeno punta al bullone, nessun cacciavite supera nessun niente sull’onda del brand, non c’è nessuno schieramento strategico, e fatta eccezione per i magari trapani ciascuna cosa è innumerevole tra altre innumerevoli cose e fraterne, in un vuoto di marketing. Le vetrine dei ferramenta superano il concetto stesso di esposizione. Le merci sono invece sovresposte. Infatti quello che rende i ferramenta un luogo così speciale dell’universo mondo è come essi ferramenta elaborano la luce, come la conciano. La ricevono e la restituiscono sia incrementata (quantità) sia impreziosita (nella grana: qualità). Pensiamo ad es. alle colonie dei bulloni, con le loro sagomature, che prima accolgono la luce e poi la infrangono con un’azione prismatica.
Accade, in generale, qualcosa come un flipper.
Un’altra caratteristca che permette ai ferramenta di svettare sul creato è l’effetto wunderkammer. Dove la meraviglia non emana dal singolo tuttavia oggetto, ma da come la somma di moltissime unità a valore 0 produce invece, alla fine, un valore complessivo inestimabile. Sono luoghi esauriti, saturati dalla presenza diffusa, granulare degli oggetti: lo spirito è barocco, ma le linee sono nette, austere, votate allo scopo, razionali. Questi peraltro oggetti ancora non sono nati alla loro funzione (si veda: un chiodo: senza entrare in relazione con una superficie, non serve a niente), e quando lo fanno sono spesso destinati ad una vita appartata, sullo sfondo, si innestano sottopelle nei traffici umani, presiedono alla sintassi del mondo. Alcuni concorrono/occorrono a popolare un ambiente, a fissare un componente all’altro; altri ancora sono votati all’astrazione, si occupano di inventare uno spazio, misurarlo, svolgono compiti invisibili, come gli angoli o le pendenze, generano un’immaginazione. Le giunture, i tubi murati, i chiodi che stanno lì nonvisti a sostenere i quadri che invece bisogna guardarli, gli attrezzi nel buio concreto della loro cassetta. Ma intanto che abitano insieme il grande alveare, prima dell’acquisto che li disperde nell’universo, ingenerano in noi l’incanto e la perfino commozione. Questo è inevitabile.
Un altro posto più fantastico del mondo è i distributori di palline magiche. Le quali palline provviste di magia sono poi una tra le cose più mirabili dell’idem. Essi distributori nella forma evocano uno scafandro o una tuta spaziale, con particolare riferimento al casco per via di quell’oblò incaricato di mostrare al visitatore la portata vertiginosa dell’offerta e proprio grazie a questo accorgimento diventa impossibile resistere. Allora si appone il disco di una moneta nella fessura dedicata, si gira una manopola, avviene uno scatto e la pallina viene espulsa dalla sua bolla di autismo, piomba dal numero alla realtà del marciapiede con un’energia più che cinetica, con un bensì autentico entusiasmo. Ora può esprimere pienamente le sue facoltà.
Le palline magiche non sono palline convenzionali ma sono invece dotate di una particolare feature vale a dire la magia. La magia di cui sono capaci consiste che benché non lo diresti, esse sono in grado dei rimbalzi in gran copia. Hanno un nucleo duro roccioso e ferroso tipo Nettuno e una scorza, una crosta gommosa (lucida, nei casi più frequenti e felici) che consente la magia. Le inoltre palline magiche devono la di loro magia anche al fatto che in qualche modo compendiano l’intero universo. Infatti talune nell’apparenza possono essere accomunate a pianeti composti di nuove miscele vulcanizzate, satelliti, corpi opachi, oppure luminosi, stelle, o a intere galassie dove la curva dello spazio tempo realizza una sfera che racchiude formazioni celesti in numero di miriadi, ennesime ancora addirittura implementano più texture (opaca, lucida, trasparente, trasparente con l’innesto in profondità di filamenti inclini alla luce e moltissimi) e sono tutte queste cose allo stesso tempo. Beh che dire congratulazioni. Questo è ineludibile.
Un terzo luogo leggendario dell’orbe terracqueo si tratta dei bar. Intanto le insegne sono sempre struggenti, sia neon sia no, preferibilmente neon (quelle rosa di quel rosa proprio delle lavagnette che si trovavano nei cereali comandano saldamente la classifica). Specie se sulla vetrina la combo si completa con quella cornice led che recita proprio BAR a scanso di equivoci e qualcosa si versa all’infinito da una bottiglia a un bicchiere, pixel dopo pixel. I bar dentro si nota facilmente il ventilatore che aziona l’aria, come una dinamo innesca le vite che transitano dal bancone ai tavolini, gli impone un senso di rotazione, da il fuori a il dentro e viceversa, mescola le musiche dei totem videolottery come un cocktail, mentre la macchina dell’espresso sfiata la combustione dell’intero motore. Essi bar ricavati come sono nel vivo del cemento rendono i blocchi della città accessibili, visitabili, e dalla vetrina gettano come un alone prerender su tutte le cose le quali esse cose prima filavano come formaggio fuso dal per es. toast, e ora rientrano nel loro script, perdono spessore poligonale. I bar interni ai centri commerciali rivelano poi una particolare qualità cioè presentando come presentano comunque un dehor, che però è un dehor interno,quindi non solo contro l’evidenza ma forse contro precisamente il mondo, come a significare che può darsi un’alterità anche in assenza di mondo; questi specialissimi tra i bar mostrano come la forma di vita bar tenda ad organizzarsi sempre attorno a certi schemi, come le piante si sviluppa in direzione della luce, anche laddove questo significa fingere un fuori che non si dà realmente, e se si invece dà almeno sul piano della fantasia questo lo dobbiamo proprio allo sforzo di uscire da sé che ogni bar esprime perfino in condizioni di patente disagio. Questo è inaggirabile.
Un luogo che pure lui figura nell’hitparade del mondo è certamente gli androni, tutti gli androni di tutti i palazzi. Nella penombra indolore che li mostra, con un rendering progressivo, appaiono sacri, appaiono una benedizione. Grazie a questa invenzione rivoluzionaria che è gli androni l’interno del mondo è reso accessibile tramite le porte vetrate, e da questa teca si può avvistare la vita come gli insetti infilati da uno spillo: si cristallizza, perde colpi, il frame rate collassa, rallenta inesorabile fino a stabilizzarsi su una velocità congrua allo sguardo, alla pace.
Le edicole inoltre meritano una menzione in quanto se la cavano niente male grazie soprattutto all’odore dei mensili, che vantano quella carta lucida. Puranche ciò è fatale.
L’inconveniente è che tra tutti questi posti top élite pianeta, per quanto ravvicinati, intercorre il mondo fatto di centri estetici dove le genti esibiscono facce che vanno dal gradiente chitarra acustica in su e perfino peggio, discopub dove l’adolescenza prolifera come una coltura batterica, cinema dove chi non ha il talento di guardare il soffitto si espone a una narrazione e molte altre zone invise al signoriddio.
Comunque facendo la dovuta attenzione, attraversando i parcheggi vuoti che il tetris del traffico ha apparecchiato per il mio passaggio e seguendo il corretto pattern delle piastrelle per scongiurare la lava minimizzo i danni e torno alla casa. E tutto questo, per difetto o per accensione, certamente pertiene al dolore.

il rumore degli autocicli in manovra, quando nella sequenza di un parcheggio a più fiate si
soffermano, dedicano il peso a un’area circoscritta e sotto sfrigolano, oppressi, i coriandoli
dell’asfalto, che squama. a suo modo, riferisce.

congratulazioni stampanti. ok anche telefoni SIP in guisa di saponetta, con la scocca lucida. ma
certo la particolare grammatura, nonchédimeno porosità, delle plastiche in dote alla maggiorpiù
delle stampanti, le favorisce e così si distinguono primissime, nel volgere dei tempi, in quantità di
anni ragionevoli, consone all’umana durata, nell’assumere quel colore, quel tono ambrato
caratteristico delle rovine. (altrimenti, toner).

nelle macchinine (e già dire OK è dire poco) più modeste, ad esempio quelle di stanza nel buio,
incistate nelle uova di cioccolato, le cui quali ruote per loro neppure è stata prevista, in sede
progettuale, una chance di rotazione, oppure sì ma la realizzazione è scadente al punto di bloccarle
al loro perno, in queste macchinine i refusi, le eccezioni che la plastica muove allo stampo, le
sbavature, gli sticker SPEED, RACE, 85 (o altri numeri che garantiscono velocità elevate), così
pure i fanali da applicare o preapplicati spastici (cfr. gelati tartarughe ninja, che una volta separati
dall’involucro rivelano una configurazione facciale tradita a tutte le altezze, la delusione di un
raffaello trisomico): in queste, la serialità ben disposta all’errore. in queste, nessuna redenzione.
kinda (&kinder) related.

l’invincibile certezza di pancarré nell’aula vuota, tirata a lucido dal personale ATA, con l’alcol
fucsia e volatile che dai banchi sale, entra a forza nelle narici ancora disposte secondo i ritmi del
sonno.

la visione di supermarket inabitati, lo schieramento delle merci, i prodotti installati alle latitudini più
frequentate dall’umano sguardo e dall’umana attenzione, nel convesso dell’orario feriale, a più mai
nessuno rivolti, fuor di competizione, che vivono una tregua. bravi yogurt, alla grande merendine,
beate conserve lucide nel buio appena smentito dalle luci di emergenza.

l’unico modo di intraprendere le cose, che nonostante tutti gli sforzi e i tentativi di rimozione resta:
avvalendosi di un’epica povera, da spot BMW.

il rumore consueto del mondo, le stringhe casuali del traffico che avanza in impressioni continue di
scooter, autobus, accelerazioni, velocità congrue alla legge o che la legge eccedono, secondo
cadenze variabili ma dando l’impressione di un loop, dove la ripetizione trova varie sedi: 1) a
livello microscopico: alcune sequenze sono ribadite, opel corsa, xmax, 156. tra una sequenza
identica e la stessa, identica, ma ancora, possono intercorrere alcuni minuti, possono intercorrere gli
anni. indifferentemente. 2) a livello macroscopico: ma ad un ordine di grandezza troppo grande per
poter assistere, nel volgere di un’umana partecipazione al mondo et alle sue vicende, ad un’intera
esecuzione dello spartito. 3) per certo. 4) seguenti.

nelle gallerie, il finestrino che smette di filtrare LA TOSCANA, capovolge il vettore della visione,
facendo leva sul buio in attuale versamento, e ti restituisce la faccia spettrale e tua, installata tra
altre nell’ambiente di uno scompartimento, nel distretto di un vagone, nell’andare a linee di un
treno. altrimenti irrelate.

il di cui prima sottofondo del mondo sovrascritto dal phon che, avendo (dai pleonastici capelli)
estromesso l’acqua come si conviene, ed essendo perciò giunto a piena cessazione del suo esercizio,
di nuovo lascia campo agli effetti audio abituali, che però non si manifestano subito, ma solo dopo
un certo lasso di tempo, come se il rumore che fino a poco prima li aveva rimpiazzati avesse
scavato, al loro interno, una nicchia, un vuoto, avesse ricavato una distanza, che abbisogna di essere
colmata per ripristinare il contatto. archiviata sotto: situazione di sicura connivenza.
applausi i POLARETTI. meglio ancora in forma flebo, invece che solida, lockati nel loro astuccio,
pari ai pennarelli (prima dell’uso), con i colori a crescere, ordinati. barre di uranio, iridescenti, in
condizione di luce favorevoli. non è negoziabile.
in certa misura, i tatuaggi a tempo delle merendine, egregi trasferelli, ed emeriti. appena dapprima
applicati tirano la pelle e brillano, ma in un tuttavia subito cominciano a gravarsi della polvere,
anneriscono, somigliano a formazioni cancerose, sicché la finestra temporale in cui puoi vantare un
pinguino sul braccio è risicatissima, mentre quella della malaria sèguita nei giorni. nello stesso
subito o dintorni, peraltro, si dilatano, crepano, vanno alla deriva come la PANGEA, espongono i
propri pixel come immagini low-res sottoposte ad un’implacabile azione di zoom. non scompaiono
ma si scompongono a puzzle, assecondando le texture epiteliali, rivelandole. resta una frattura. qui,
piena complicità.

nel preciso quando di mario kart che ti vede – per effetto degli ENVIRONMENTAL HAZARDS o
di un corretto impiego, da parte degli avversari, degli ITEMS abilitati alla morte e alla sua
distribuzione – consegnato al vuoto, sia detto vuoto più o meno consueto, più o meno imprevisto:
non necessariamente un telefonatissimo baratro RAINBOW ROAD, con le curve che piegano a
precipizio sui pianeti, senza barriere a contenere la corsa, a scongiurare la partecipazione di KOOPA
al niente siderale che tutto intorno insiste, e preme; ma anche i vuoti hardcore, quelli ignoti perfino
ai level designer, i vuoti che naturalmente scaturiscono in assenza di progetto, laddove la
pianificazione langue, cui ottieni accesso per tramite di una serie di eventi sfortunati et esclusivi
(che cioè mirano all’esclusione), la deflagrazione di una BOB-OMB che ti ribalta la vita e la riporta
al suo normale incedere orizzontale proprio nel momento in cui un GREEN-SHELL muove
ciecamente nel tuo slot e di nuovo ti costringe ad avvitare l’aria, fino a che non superi una
recinzione apparentemente invalicabile (neppure può essere considerata, propriamente, una
recinzione, dato che non si pone come elemento di separazione tra due luoghi distinti, ma come
semplice limite all’azione) ed ecco che fai quell’esperienza di un vuoto inedito, un vuoto inatteso,
che esiste in virtù di te e te soltanto, e delle circostanze che ti hanno condotto fino a quell’oltre
cinetico il quale da bravo è l’esito di un sistema chiuso di regole, una rosa esauribile di possibilità,
che tuttavia collide al suo interno, si inventa, esce da sé come KOOPA ora differisce il tracciato,
deposto nell’abisso che presto vorrà restituirlo, estraneo ai radar del conflitto.
gli stormi che agiscono in torsione contro lo schermo del cielo, davanti ai dead pixel del pirellone.
hoc modo comunicando un’attesa, mentre in background un’intera città esprime uno schema,
esegue il suo script, si riduce alla consistenza di uno screensaver (di giorno: proliferazione di
volumi poligonali, a saturare il campo visivo; di notte: una striscia braille, o una scheda perforata,
con la luce che evidenzia i buchi).
le insegne dei bar, in prospettiva, che l’una all’altra si sommano, e dritto al cuore portano un
comeché di trafittura.
vicende relative all’acqua, specie in atteggiamenti concentrici, nei wallpaper di default.

l’alluminio leggero, sonoro (assumendo, per ipotesi, un urto), dei cartelloni recanti impressi i gelati,
opportunamente associati ai rispettivi prezzi, spesso arbitrariamente corretti tramite l’applicazione
di appositi talloncini adesivi, oppure presenti solo a chiazze, o assenti del tutto. l’azione erosiva che
il sole, con sorprendente facilità, opera sui pigmenti che accendono il colore originale, il quale nelle
intenzioni e negli effetti rende l’intero roster desiderabile (al biscotto di più). questa azione, va
notato, non incontra resistenza alcuna da parte dei soggetti presi in esame. facilmente, dei gelati
indicati, nessuno è poi disponibile all’acquisto, specie nei casi più nostalgici, cfr. SANSON: trattasi
di pure installazioni. essi cartelloni sono lo strumento più accurato e sensibile di cui disponiamo per
la misurazione della qualità dei bar che li ospitano: vere et proprie cartine tornasole: tanto più il
colore difetta, tanto meglio high rated sarà il bar. di lato: somigliano a quel compasso che è la
morte, quando gira attorno al suo perno. (una partnership? certo che a dire, dice).

le zone consacrate all’accumulo, negli uffici, dove sorgono concrezioni spontanee di fogli A4, scene
minerali avanzano alla di ciascuno insaputa, nella lentezza del gocciare, a forza di stille, e
producono mutazioni impercettibili, leggere variazioni di assetto. per crescita di buio.
le anche zone segrete che accolgono gli oggetti i quali quando si sottraggono alla nostra
disponibilità, il vuoto che imprimono nei luoghi che la memoria invece assegna loro, la traiettoria
dei centesimi prima morbida quando attraversano la porzione di mondo che separa la tasca dal
pavimento, poi impazzita dall’impatto fino all’esaurimento, all’ultimo scatto nervoso che li seda.
al tavolino di un bar switchare, nell’immaginazione, la telecamera: come in FIFA14, visuale a volo
d’uccello. il tavolo è allora quella puntina che fissa un tempo al sughero del giorno.

 

 

*
Una nota su [Non esco granché] di Manuel Micaletto

di Renata Morresi

 

Con la caparbia applicazione del geek Micaletto opera un close reading dei processi piccoli, questi non riconosciuti legislatori del mondo. Come in parte avvenuto altrove (vedi l’ultimo libro, Stesura) l’attenzione viene declinata spazialmente: i siti di interesse sono e non sono non-luoghi, la differenza ormai rifratta su di un arco di innumerevoli gradienti di in/abitabilità, assetto, contatto, postura, manipolazione, ecc. Chi scrive esplora “i posti più migliori” con ossessione surrealista (ho pensato per un attimo alla messa a fuoco iper-ravvicinata delle sculture involontarie).  E parte da quell’eleganza feroce per procedere, in un crescendo di accanimento, fino a un tessuto incoeso, ma in qualche modo coerente con la polverizzazione dell’esperienza. La sua smaterializzazione costituisce l’antefatto e l’innesco della scrittura: “Non esco granché molto e quando esco…”, si dice all’inizio. Tra androni, ferramenta e dehors, il narratore non incontra, in effetti, nessuno. Questo non significa che non attraversi (e sfidi) molti campi di forze, molte relazioni anche brutali. Innanzitutto quelle urbane, irreggimentate nelle pratiche consentite di consumo. (Penso all’organizzazione spaziale di certi megasiti, aree sviluppate da privati per i centri commerciali o gli uffici amministrativi, dove si impone una geografia levigata, privata di ogni tipo di gradino, per rendere impossibile la sosta se non nelle apposite aree, atte, ovviamente, a consumare).

Già nei due primi riferimenti qua sopra citati si noti la stortura grammaticale: la metterei tra i mezzi espressivi adottati ad aggirare la romanticizzazione delle “povere piccole cose”. O ad aggiornarla? L’affondo nella smagatura chirurgica delle merci e delle loro dimensioni distributive si mescola così bene all’immergersi radicale nella loro alterità, al godere indisciplinabile dell’intelligenza, che qui non trovo denuncia disillusa attraverso la mimesi, quanto resistenza creativa attraverso opportunistiche tattiche di anti-uso. Ciò che viene comunemente ridotto al suo effetto d’uso (il chiodo, la parte esterna del bar, la caramella, il videogioco), qui viene ripreso da un lussureggiante indugiare discorsivo. Ripenso a De Certeau e alla sua Invenzione del quotidiano: l’individuo non è solo il bersaglio passivo delle strategie dei produttori, ma anche l’attivatore di un repertorio di tattiche, spesso funambolesche, che interagiscono – in modo anche caotico, certo – con la quantità di categorie classificatorie elaborate dalle forze egemoniche (che qui sono: il capitale, la città).

Niente è preso per ‘buono’, niente è a-culturale e innocuo, e tuttavia tutto è marginale (“la marginalità diventa universale”, ancora De Certeau), iper-atteso e scansato da un narratore che sta tra il flaneur-quasi-fermo e l’Asperger ad alto funzionamento. Privato di mondo (di luoghi di azione) sa come perdersi in una sofisticata dimensione percettiva e affettiva (=che riguarda le affezioni) delle cose del mondo. Privato di interazione e di collettività sa eccitarne tanti registri e discorsi: il languaging pubblicitario e commerciale (“highlights”, “brand”, “rendering”, “items”, “feature”, “top”, ecc.), il colloquiale e i suoi anacoluti (“Un altro posto più fantastico del mondo è i distributori di palline magiche”, “Beh che dire congratulazioni”), l’iper-letterario o il finto tale (“un’umana partecipazione al mondo et alle sue vicende”, “a più fiate”), il tecnichese “gli sticker SPEED, RACE, 85 (o altri numeri che garantiscono velocità elevate), così pure i fanali da applicare o preapplicati spastici”), lo pseudo-amministrativo con i connettivi testuali messi a casaccio (“Questi peraltro oggetti”, “la perfino commozione”), e il filosofico (“può darsi un’alterità anche in assenza di mondo”, “un’intera città esprime uno schema”).

Certo, non c’è consolazione, ovunque si muova lo sguardo è choc cognitivo o riflesso “al niente siderale che tutto intorno insiste, e preme” (e assorbe, aggiungerei). Nell’ultima parte la partitura si fa più sincopata, in un assedio che non sembra sciogliersi neanche alla fine, quando l’ambiente si rovescia esplicitamente in installazione, e il capitale riprende, per un attimo, la sua concretezza banale e si materializza in soldi (i centesimi che cadono sul pavimento).

Per sua natura il testo, forse, non può finire. E non può neanche, forse, rimettere in cammino il suo narratore. Può solo riorientare lo sguardo in visualizzazione dall’alto? Tramutare la sua capsula di tempo, il suo posto al tavolino del bar, in spazio-puntina affisso a un altro spazio, anch’esso povero, morbido? Può solo proseguire a “switchare”? Credo invece che il narratore tornerà a ‘casa’, anzi lo spero. Perché è nell’esaurire un fenomeno, io credo, che si manifesta meglio la sua bravura nel manipolare (sabotare? esaltare?) attraverso l’esposizione.

 

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Prove d’ascolto è un progetto di Simona Menicocci e Fabio Teti

 

Foto non ne ho

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E’ uscito ormai da qualche mese Santa Mamma il nuovo romanzo di Giulio Cavalli. Pubblico volentieri qui su Nazione Indiana qualche pagina e ringrazio l’autore per la disponibilità. G.B.

di Giulio Cavalli

Domani portate una vostra foto da piccoli, ci aveva detto la maestra. Forse prima elementare: di solito è lì che si inizia con la perversione dell’inculcare la meraviglia per la natura col diventare grandi, con la polpa che si aggiunge a polpa e i peli che si fanno capelli. Portate una foto da piccoli, la maestra si chiamava Anna, che dobbiamo fare un lavoretto; e la classe già inebriata dal pensiero di forbici, carta a strisce e colla secca sui polsini del grembiule.

Io invece no. Io non ce l’avevo una mia foto da piccolo.

Non l’ho mai avuta perché sono stato piccolo al massimo a due anni e mezzo: prima niente foto, niente tutine, niente ciucci da tenere sotto teca e nemmeno le prime scarpine slacciughente e uncinettate. La mia prima foto sono io, verso i tre anni, seduto sui gradini di un giardino con la ghiaia al posto dell’erba mentre spingo una macchinina fuoristrada rossa con la ruota di scorta avvitata sul tetto. Indosso una maglietta a strisce orizzontali bianche e rosse, pantaloni rossi e lo sguardo abbacinato. Sarò stato colpito da tutto quel troppo rosso o forse dalla violenza di chi martella ruote sui tetti delle auto; mi sono dato questa spiegazione per giustificare la torvatura della faccia. Niente per cui strapparsi lacrime a inizio del capitolo, intendiamoci: la fotografia, pur tardiva, svolge serenamente la funzione delle nostre foto da piccoli e ogni sputata volta c’è qualcuno che mi trova perfettamente somigliante a uno a caso dei miei figli. Tutto a posto. Qualcuno spericolato vede anche qualcosa di spiccicato “alla mamma” e fa niente che io sia stato adottato: io e lei ci guardiamo e in silenzio ci diciamo che no, che non vale nemmeno la pena di dirglielo, e in silenzio ci diciamo che va bene così. Mica vorrai frantumargli l’eccitazione.

La foto per la maestra Anna comunque non ce l’avevo e già allora non avevo il fisico per inscenare un dramma che non mi sfiorava per niente. Piansi. Iniziai a piangere nel modo meno credibile di tutta la mia vita con un lamento bitonale come una sirena dalle batterie scariche. Per mancanza di lacrime mi misi anche le mani sulla faccia simulando una lentezza straziata e producendo singhiozzi con colpi di pancia: devo essere stato uno spettacolo orribile se è vero che la maestra Anna, con il solito fragore degli adulti che hanno paura dell’oscenità di un pianto in pubblico, si è alzata dalla cattedra per soffocarmi di consolazione. Era sempre abbronzata, Anna. Primavera, estate, autunno e inverno aveva quel colore di terra battuta dei campi da tennis e da vicino profumava di giglio. Mi chiese: “Cosa succede, Carlo?”, e aveva gli occhi blu come due orecchini persi durante una partita. Io sicuro non rispondevo, continuavo a piangere di diaframma. Mai rispondere durante la simulazione di una disperazione se non si ha tutta una tecnica e un’esperienza sulla voce. Ci vogliono anni per piangere e dire insieme.

Alla bidella che mi accolse portato fuori dall’aula dissi “Sono stato adottato”. Lei e Anna strizzarono un faccia contrita. Anna con i braccialetti che le si incagliavano tra l’orologio e i bottoni delle maniche e che disincagliava con uno scrollo schizofrenico e la bidella con il suo grembiule come se fosse intenta tutto il giorno a preparare minestre. Mi accarezzavano con la cautela che si usa per le bestie feroci, spizzicavano frasi fino alla seconda parola. “Non è mica brutto essere adottati”, fu la bidella a riuscire a finire una frase per prima.

Già, disse Anna. Già, anche la bidella.
“Però io non ho la foto.” Già.
In corridoio nuotava un puzzo di mensa e i muri soffia
vano vento. Avevo smesso di piangere, disattento, provai a riaccendermi e bastò per rinverdire l’allarme intorno. Anna mi strinse, finalmente. Con il naso tra i pelucchi del suo maglione e l’odore di giglio pensai che a simulare tristezza finisce che ci si intristisce per davvero. Deve essere liquida la tristezza se a versarne un po’ per gioco o simulazione poi si finisce per berla. “Ma la tua mamma è come una mamma vera”, la bidella me l’ha bisbigliato come se fosse un segreto di stato. “Lo so. Lo so.” L’avevo già sentito milioni di volte. “E poi”, mi disse Anna con la sua mano a farmi cerchi sulla schiena, “e poi non è mica colpa tua e nemmeno della tua mamma di adesso. Sei stato adottato ma sei un bambino normale.”

Sapeva di caffè, anche.

“Lo so.” “E perché piangi?” C’era un silenzio lirico, il mondo che s’era fermato con l’orecchio teso. Avevo vinto, a modo mio. E poi non lo sapevo perché mi ero buttato in quel lamento. O forse sì. Lo sentivo ma l’avrei saputo solo più adulto: piangere è il mio modo di partire e tornare, rassicurarmi di non essermi troppo indurito il cuore sformato dall’accidia che frequento. Mi capita ancora adesso di piangere, da solo, quasi di nascosto: è il mio grufolare cioccolato senza farmi vedere, mettersi il dito nel naso o imprecare contro qualcuno. Piango, mi prendo le misure e verifico di non essermi sformato. Un pianto ispettore.

“Ascolta Carlo, facciamo così…”

Quando gli adulti propongono soluzioni ai bambini indossano un servilismo cortese che stira le vocali.

“Adesso torniamo in classe…”

Si sente lontano un chilometro che hanno il terrore che gli si buchi il palloncino delle loro soluzioni.

“Parliamo con i tuoi compagni…”

Anna parlava come in chiesa. Con le parole pesanti, inzuppate.

“Gli spieghiamo che sei un bambino speciale…”

Speciale, normale. Fortunato ma come tutti. Si sarebbe fatta adottare anche lei, lì, per chiudere il discorso.

“E portiamo tutti una foto ma a tre anni. Da piccoli ma a tre anni. Tutti. Così siamo tutti uguali.”

“Ma io non lo voglio dire.”

“Non diciamo niente. Dico che ho deciso io. Sono la maestra, dico, e decido io. Va bene?”

Al rientro la classe non sembrò sfiorata dal melodramma consumato in corridoio: il solito vociare fitto come un ingranaggio in sottofondo di voci a punta non addomesticate si arrestò a bacchetta. Andrea mi ispezionava controllando che tornassi in classe tutto intero, vidi Roberta scimmiottare la contrizione osservata in chissà quali auliche nonne, tutti chi più chi meno cercavano di capire quel poco che basta per non sembrare disinteressati e scortesi spinti da quell’odiosa educazione fatta di posture affettate. Intanto io camminavo pieno di crepe ma la classe era troppo buia per vederle. Al mio banco Paolo, il compagno con cui avevo fatto il più bel pupazzo di neve della mia vita, si fece da parte anche se lo spazio non mancava e poi fu quel respiro prima della notizia.

Come succedono. Come succede la vita. Basta suonare le corde che stanno più in fondo la pancia perché tutto s’imbarazzi. Anni a progettare un pavimento solido e poi basta che si infiltri una lacrima, anche ammaestrata, e si naviga a vista sulle zattere.

Alla scuola di Tarrazza, paesino ai bordi della via Emilia, da quell’ottobre del 1983, fu regola portare a scuola la foto appena nati a tre anni per tutti i nuovi alunni della prima classe elementare. Poi la notizia si diffuse in qualche strascicata riunione provinciale e la norma dei tre anni prese piede fino a qualche istituto fuori regione. “È un’indicazione che ci viene da uno studio di psicologi dell’infanzia”, rispose qualche preside vestito marrone smunto di una piccola scuola borghese in Valtellina. Gli adulti sono così: se accade qualcosa di comodo diventa una regola; qualcuno a cui attribuirla al massimo si trova sempre. 

Ugo Mulas, Danimarca 61

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di Dario Borso

“Ho sempre avuto, prima istintivamente poi consapevolmente, una tendenza a riprendere quelle cose che sono banali” . Se a ʻcose banaliʼ sostituiamo ʻvita quotidianaʼ, otteniamo il profilo essenziale di Ugo Mulas da giovane: fotoreporter.

Cominciò nel 1954 con la vita degli artisti al Bar Jamaica e quella degli immigrati nelle periferie milanesi, e proseguì metodicamente profittando delle occasioni lavorative ossia delle riviste che gli offrivano nuove, malpagate opportunità . Tra queste “L’Illustrazione Italiana”, mensile diretto da Livio Garzanti, costituì l’ancoraggio più sicuro e continuo: un centinaio abbondante di servizi a partire dal 1955 fino all’anno di chiusura 1962.
In tale contesto, i reportage sui Paesi esteri sono un capitolo a sé, emblematico del modo di operare di Mulas davanti a realtà sconosciute; e ciò soprattutto verso la fine della collaborazione col mensile, quando più consapevole si era fatto il suo approccio. Così, tra il 1959 e il 1960, Mulas accompagnò nelle due Germanie Giorgio Zampa, accademico fiorentino che volentieri si prestava al giornalismo .

La coppia funzionò particolarmente bene, tant’è che nel giugno 1961 venne spedita in Danimarca . Il risultato furono due servizi apparsi sui numeri di luglio e agosto de “L’Illustrazione Italiana”: Appuntamento con Karen Blixen, resoconto di un pomeriggio in casa dell’illustre scrittrice che qui riportiamo , e Danimarca serena.
Nel secondo servizio il testo di Zampa, che spaziava dall’arrivo in aereo all’incontro finale col primo ministro socialdemocratico, era attento a illustrare la specificità del modo di vita danese, il suo equilibrio, in un momento in cui l’Italia avviava un miracolo economico che ne avrebbe accresciuto invece gli squilibri (tra Nord e Sud, città e campagna, capitale e lavoro). E dentro questa cornice si allineavano nel servizio i vari episodi partendo da Copenaghen: Tivoli, il parco giochi più antico d’Europa; una visita alla Permanente con le ultime novità esposte di artigianato e design; l’incontro con gli architetti più significativi di quella stagione; varie incursioni nella campagna del Seeland tra fattorie e Università Popolari, luoghi di continuo aggiornamento tecnico e culturale; la visita al Nobel per la fisica Niels Bohr nella residenza che i birrai Carlsberg da un secolo ormai assegnavano ai vari campioni danesi dell’intelletto – dove magia è frutto non dell’alea, ma di una predisposizione dello sguardo e della mente ad accogliere l’esperienza inquadrandola. Una fenomenologia dunque come viatico, con le sue brevi soste e le sue quattro scansioni: la vita, il lavoro, l’arte, il genio.
Questo l’itinerario compiuto dai due reporter, i quali pur nell’unità d’intenti seppero durante quella settimana mantenere la propria autonomia, o non seppero resistere alla propria vocazione più intima: Zampa si recò infatti da solo a Odense, città natale di Hans Christian Andersen e sede del museo a lui dedicato ; Mulas, anche se il compagno non ne scrisse, fotografò per conto suo il Louisiana Museum of Modern Art di Fredensborg .

La fotografia del Louisiana Museum, riprodotta grazie alla gentile concessione dell’archivio Ugo Mulas, accompagna la nota introduttiva del volume “Danimarca 61” uscito in questi giorni in edizione bilingue presso Humboldtbooks.

Fuori dalla Storia: adolescenza e spazio liberato

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Antonio vive dal 2006 a Pistoia, ma ci siamo conosciuti e incontrati soltanto dopo la disfatta politica delle ultime elezioni che hanno visto la destra prendere il posto della sinistra in cui entrambi avevamo creduto e continuiamo a credere. Poi, una mattina, sul treno per Firenze, mi ha raccontato del suo coinvolgimento attivo nel quartiere di Bari dove è cresciuto, ci siamo confrontati sul rapporto con gli adolescenti, sugli spazi liberati, difesi e a volte perduti, sul bisogno vitale di credere che quegli spazi siano riabitati, in modi a noi sconosciuti e sorprendenti dai più giovani. Gli ho chiesto di scrivere la sua storia per Nazione Indiana – cominciamo da qui, dal mettere in comune le esperienze e le speranze (f.m.).

di Antonio Sofia

Sono tornato all’oratorio dopo diversi anni, l’avevo lasciato alla fine della scuola. Il portone grigio di via Zuccaro è sempre semichiuso. Una catena permette il passaggio di un ragazzo alla volta. Capita che i più piccoli si contendano l’ingresso e finiscano per passare insieme, spalla a spalla. A questo prodigio segue una risata beffarda per aver violato la norma o la fisica, non lo so.

Non solo il portone è grigio, so che il grigio è ovunque: si stende per tutta la superficie dell’appendice parrocchiale, interrotto solo dai tracciati dei campi di calcetto, di pallavolo, di basket, dalle grate per lo scarico dell’acqua piovana. Superato il portone, c’è spazio per tutti e tutti insieme, quando ero ragazzo io, nei primi anni ‘90, eravamo più di cinquecento. Era stata l’intuizione di padre Mimmo, un prete assai basso e dalla chioma orgogliosamente corvina: tutto quello spazio poteva essere riempito, proprio perché non c’era spazio altrove. Bari era in continua espansione, i traffici nella buona e nella mala vita prosperavano, anche in virtù dell’improvvisa contrazione del Mediterraneo; un groppo in gola, una crisi di panico era stata l’urgenza albanese rivelatasi poi un affare per la Puglia, in mostra al mondo attraverso le immagini di un esodo drammatico, primi singhiozzi della globalizzazione di lì a poco a venire.

Nonostante la città crescesse e arrivasse a inglobare le frazioni vicine come fa la muffa ostinata su un solaio mal progettato, per bambini e ragazzi c’erano solo le strade, quelle sempre meno larghe. Le automobili erano un colesterolo di tracotanza e vanità, destinato a sedimentarsi nella rappresentazione di un corpo privato sempre più invadente lo spazio pubblico, eppure precarie, esposte allo sfregio ultrapop di un furto o all’aggressione tragica del fuoco minatorio. I bambini si annidavano sui cofani cercando quelli con gli allarmi meno sensibili. Stavano a guardare i ragazzi più grandi sciamare dietro un pallone di cuoio da poche lire, schierati in squadre variabili, composte intorno a pochi leader immediatamente riconoscibili per il tocco di palla o per la pettinatura aggressiva. I bambini aspettavano di esser convocati per fare numero, mentre le bambine giocavano per i fatti loro, impegnate in filastrocche infinite o in salti tra la terra e la luna; le ragazze più grandi si vedevano meno, comparivano incollate l’una all’altra come addobbi di una festa. Al loro passaggio la partita di calcio reagiva, come se di colpo tutto avvenisse su un piano privato d’equilibrio: allora occorreva un grande sforzo perché il pallone non scivolasse via, in una buca oppure oltre i bordi, verso l’ignoto.

Il prete aveva aperto l’oratorio, laddove la parrocchia affittava campi e campetti, l’aveva aperto ed eravamo arrivati da ogni parte, persino dalla provincia: tutti insieme, più di cinquecento, passavamo uno a uno da quel portone grigio di via Zuccaro, con un tesserino che costava cinquemila lire e serviva a contarci, a sapere da dove venivamo e a pagare le poche attrezzature. In questo oratorio avevamo un’altra città, dove si poteva fare tanto, molto di più di qualsiasi altrove mai visto prima, non perché ci fossero percorsi o attività, non per i campetti quasi rettangolari. Era quel grigio: quanto era bello, così vasto, così meravigliosamente vuoto!

Non ho dovuto aspettare molto davanti al fatidico portone.

Sono tornato all’oratorio poco più che ventenne, con un lavoro, anzi due, forse tre lavori temporanei che mi han permesso di andare via di casa e prendere una stanza non lontano da via Zuccaro. In questi anni ho studiato, viaggiato, mi sono innamorato, ho convissuto a Roma che da piccolo sembrava Marte e sono stato felice nello spazio, poi atterrato deluso e ferito, per questo sono tornato. Non ci sono più cinquecento ragazzi e ragazze, neanche cento, neanche cinquanta, spersi nel grigio saranno stati una ventina quasi tutti maschi, sparsi nel grigio a lambire i perimetri di gioco e a calciare pigne. Il portone l’ha aperto un prete che non conosco, si chiama Vincent e viene dalla Nigeria. Non c’è più il tesserino.

Facciamo due chiacchiere, gli dico chi sono e chi sono stato in quell’oratorio. Mi spiega dei problemi che ha con la parrocchia, che preferirebbe affittare i campi, mi dice che i ragazzi non sono tanti perché forse escono meno o hanno corsi e allenamenti, ma non ne è certo; in ogni caso per quelli che ci sono lui da solo riesce comunque a far poco. Non mi concedo tempo di esitare, gli prometto che, se lasciamo perdere discorsi su una mia improbabile conversione, gli darò una mano.

Ho mantenuto la parola. Per un anno e mezzo tutti i pomeriggi son stato presente dall’apertura del portone delle 15, alla chiusura per la cena; i miei lavori da cococo schiacciavano ogni progettazione del futuro e io mi rifacevo limitando il loro peso nel presente allo stretto necessario.

Aveva ragione Vincent: sembravano pochi quei venti ragazzi, ma non lo erano stati per lui, non lo sono per me. Non ho preso chissà quale iniziativa, hanno età diversissime, dai dieci ai sedici anni, come per la strada è il pallone che li fa stare insieme per tante ore. E riconosco le dinamiche di un tempo, tutti in fila spalle al muro, per fare le squadre: a dir il vero non tutti, c’è differenza tra chi sceglie e chi spera di essere scelto. Chi sceglie è il più bravo e si è guadagnato il diritto di stare faccia al muro, sono i capitani che scandiscono nomi a turno. Così nelle ultime battute si rivela chi nessuno vorrebbe in squadra, troppo scarso persino per quel palcoscenico, ma che, per una regola non scritta, potrà giocare come gli altri se garantirà l’impegno di limitare i danni e la pazienza di incassare insulti.

Li ho osservati e ho capito che, nonostante la turnazione, la composizione delle squadre si presta a derive subdole e accade quasi sempre che i migliori siano nella stessa compagine. Ho deciso di intervenire e capovolgere il meccanismo. Ho dato la scelta a quelli meno dotati tecnicamente, il muro dietro la schiena è toccato ai migliori. Poi ho iniziato ad arbitrare le partite stando sempre in mezzo al loro.

Possono giocare a calcio per ore e ore e non lo faranno mai senza impegno. Contestano, si arrabbiano, dal grigio emergono con le braccia alzate per chiedere un passaggio, urlano per un fallo e si promettono botte, anche se in palio non c’è nulla. Sono sorpreso da questa determinazione. Da quando vigilo sulla composizione delle squadre le partite sono più incerte negli esiti; io li mescolo in continuazione sperando invano di limitare un agonismo che sconfina in rabbia al primo urto. Ma c’è dell’altro. Per quanto se ne dicano e se ne diano in campo, per quanto si infurino contro di me, al termine dei giochi tutto finisce. Dopo i primi conflitti con alcuni di loro, per un rigore non fischiato o per una espulsione non compresa, io ci stavo male: li cercavo per controllare che nulla si fosse compromesso, logorato da quest’ansia sin da piccino, quando le buscavo dai miei e temevo di essere il peggior essere umano di tutti i tempi. Scopro che a loro non gliene importa nulla, che hanno già altro per la testa; anche se poco prima avevano i goccioloni agli occhi e minacciavano vendetta, terminato il gioco io scompaio, le loro liti si spengono, non importa neanche più chi ha vinto. Per certi versi è frustrante, per altri penso che stiamo facendo qualcosa di sano insieme. In questo spazio così privo di caratteristica, in questo enorme cortile senza colori, noi passiamo un tempo tra parentesi, siamo fuori dalla Storia. E con questa premessa si può anche immaginare di non giocare solo al calcio.

Possiamo provare a raccontarci delle cose; mi chiedono e gli chiedo di raccontare ciò che avviene all’esterno del portone grigio, rispondo e mi rispondono, ma siamo d’accordo sempre sull’eccezionalità del nostro vivere senza scopo, niente lezioni, niente da imparare, solo racconti. Difficile che qualcuno desideri fare male nel gruppo o ostacolare gli altri, persino la competizione sfuma, settimana dopo settimana: quella strabiliante intenzione alla contesa dei primi giorni, feroce pur senza premi da ottenere e priva di conseguenze fuori dal gioco, ha lasciato spazio a un’ambizione nuova, quella di far ridere. Ci provano tutti con coraggio: dicendo e mimando oscenità, reinterpretando peripezie scolastiche o successi musicali del momento; o solo ridendo, perché ridere fa ridere. C’è servito tempo, un tempo tra parentesi che tornava giorno dopo giorno, per iniziare un’altra Storia, questa tutta nostra.
Dalla scoperta di un tempo senza fini, né investimenti, siamo finiti un anno dopo a scrivere, a disegnare scenografie, a provare uno spettacolo per farlo bene anche se, per non contraddirci, avevamo a stento definito una struttura. Piuttosto vi si trovava una coerenza: ognuno di loro era impegnato a far ridere il pubblico oppure, più spesso, a ridere di se stesso. E l’allegria, ho pensato, si è presa una grossa rivincita sulla felicità.

Qualche settimana dopo lo spettacolo ho deciso di partire. Prima di salutarci siamo andati insieme al mare. Durante quel fine settimana ho assistito con loro a una messa, credo sia stata l’unica da allora. Li ho osservati nella piccola cappella mentre Vincent celebrava e mi sono chiesto cosa significasse per loro quel rito: un insieme di battute che stonavano nelle loro voci, le richieste di pietà e perdono a dio, la coscienza del bene e del male, l’astrazione necessaria a dichiararsi fratelli uniti da un sacrificio, l’amore universale e intangibile del miracolo. Come poteva appartenerci quel lessico e quella forma? Stavano tra i banchi e, per rispetto al prete e per abitudine, facevano quello per cui erano lì. Eppure credo di aver potuto apprezzare un ulteriore aspetto del nostro tempo tra parentesi: in quella liturgia, così come nelle brevi preghiere che Vincent faceva coi ragazzi prima di iniziare il pomeriggio insieme, avveniva di emettere tutti lo stesso suono nello stesso momento. Era stata quella l’accordatura, il legame tra i suoni prima della melodia, il coro come una sorgente. Le parole non erano importanti, quelle scelta da ciascuno sarebbero venute dopo.

Le mie giungono adesso, ho quarant’anni e sono padre. Quel tempo tra parentesi penso sia stata una grande scoperta, ma non potevamo far altro che viverlo e poi lasciarlo andare. Ne scrivo, incerto sulla verità di quanto mi dicono i ricordi, ma va bene così.

CROWDFUNDING non troppo educato [litote lenitiva]

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«HAVE A NICE DAY»: LA COAZIONE ALLA MIMESI IN ‘VERSO OCCIDENTE L’IMPERO DIRIGE IL SUO CORSO’

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di Andrea Corona

1. «Fondamentalmente non fanno altro che starsene lì in piedi». La generazione b(a)loccata di Mark, Tom e Drew-Lynn

Parlare di David Foster Wallace non può fare a meno di suscitare un entusiasmo prossimo a quello di chi si appresta a sfondare una porta aperta. Tale entusiasmo, tuttavia, è destinato a fare i conti con un’agrodolce presa di coscienza nel momento in cui si decide di passare dalle parole alla scrittura: scrivere di un autore complesso come Wallace è, infatti, un’operazione molto faticosa. Non c’è quasi pagina, nei suoi scritti – saggi e romanzi, come pure racconti brevi, articoli e interviste – che non sia in grado di far scattare dei meccanismi nella testa del lettore, per una gamma di stimolazioni intellettuali (in cui si accavallano riflessioni, associazioni con altri testi, collegamenti e ponti con altri autori) che si traducono in uno stato di sovreccitazione, prima di risolversi in affaticamento mentale. Le porte di cui si diceva, dunque, continuano a restare aperte; ma con la consapevolezza, adesso, di quanto fossero vere le parole di Robert Musil allorquando ne L’uomo senza qualità scriveva che «Se si vogliono varcare senza danno delle porte aperte, bisogna tener presente il fatto che gli stipiti sono duri» (Musil 1992: 16).
Varcare una porta aperta ma dagli stipiti duri significa, nel nostro caso, ritrovarsi a fare i conti con un autore i cui testi sono, da un lato, dei “libri-mondo” capaci di fornire su un piatto d’argento una quantità non numerabile di informazioni, spunti e rimandi, ma che, dall’altro, de-sistematizza continuamente il proprio sistema. Essendo il pensiero wallaciano totalmente libero (e, per l’appunto, non sistematico), esso è libero anche, per così dire, dall’obbligo di fornire delle risposte esaurienti e/o definitive. Pur seguendo un percorso di riflessione logico e progressivo, l’autore appare spesso (e proprio in virtù di tale libertà) non lineare e tortuoso. Per esprimere al meglio questo concetto teorico, sarà forse utile prendere in prestito un passo de I testamenti traditi in cui Milan Kundera chiarisce che:

Pur sostenendo la necessità di una forte presenza del pensiero in un romanzo, rifuggo da quello che viene definito «romanzo filosofico», asservimento del romanzo ad una filosofia, «messa in racconto» di idee morali o politiche. Il pensiero autenticamente romanzesco (quello che il romanzo conosce da Rabelais in poi) è sempre asistematico, indisciplinato; è simile a quello di Nietzsche; è sperimentale; apre brecce in tutti i sistemi di idee da cui siamo attorniati; prende in esame (specialmente attraverso i personaggi) tutte le strade della riflessione tentando di arrivare in fondo a ciascuna di esse (Kundera 2000: 168).

Ecco, dunque: Wallace è uno scrittore che apre brecce di continuo, che lo fa per mano dei suoi personaggi (ivi inclusi quelli di nome David Wallace ) anziché attraverso la mera edificazione di un apparato di teorie morali o convinzioni politiche, e che spinge le proprie riflessioni alle estreme conseguenze, ma in modo tale che “estreme” non significhi mai “ultime”.
E, ciò premesso, domandiamoci ora: quali tematiche veicolano, seppur in modo non sistematico e non lineare, le opere di David Foster Wallace? Ebbene, solo per citare alcune tra le più presenti, sono certamente da tenere in conto l’incomunicabilità, il solipsismo e la solitudine, il rapporto spesso ossessivo con il proprio corpo (e dunque con la dismorfofobia), la relazione tra il mercato e le paure collettive, il legame tra il divertimento e la pubblicità, l’analisi dei grandi spettacoli d’intrattenimento di massa (e dell’influenza di questi sui loro fruitori, ossia gli spettatori), l’interdipendenza di realtà e fiction.
È evidente che ci troviamo dinanzi a un autore che affronta temi di grande attualità. Ma il punto è un altro: chi legge Wallace ne ricava, più propriamente, una sensazione di familiarità. Come se lo scrittore riuscisse a farci sentire tutti chiamati in causa, e lo facesse dicendo cose che ci riguardano. Molto interessante, in tal senso, è una dichiarazione di Luca Bargagna, attore e regista teatrale, nonché autore degli spettacoli Verso Occidente l’Impero dirige il suo corso (tratto dal romanzo omonimo) e Il dono (tratto stavolta dalla raccolta di racconti Brevi interviste con uomini schifosi). Nella sua dichiarazione, Bargagna ha spiegato le ragioni che l’hanno spinto a portare Verso Occidente a teatro, affermando che si tratta di

“un romanzo assolutamente attuale perché scritto alla fine degli anni Ottanta ma che riesce a declinare quelle che sono ancora oggi le paure della generazione fra i trenta e i quarant’anni. In qualche modo, dietro l’impalcatura del romanzo, c’è un’impostazione fotografica, ossia il tentativo di fotografare una generazione come la nostra, che si ritrova in mezzo, che non ha più dei riferimenti, non ha più dei padri, ma non ha neanche la possibilità di strutturare o ipotizzare un futuro, per cui una generazione bloccata” (Bargagna 2014) .

In effetti, in questo romanzo (lungo circa duecento pagine nelle varie edizioni, e dunque piuttosto breve rispetto agli abituali standard dello scrittore di Ithaca) sono presenti praticamente tutti gli spunti di cui sopra e che, nell’ottica di un volume sul mondo di oggi visto attraverso il filtro wallaciano, si rivelano assolutamente funzionali allo scopo. Seguendo uno schema di allontanamento e riavvicinamento al testo, andremo dunque a toccare questioni di forte pregnanza contenutistica, e lo faremo a partire proprio dalla stasi di una generazione bloccata (e, come si vedrà, baloccata).
Un’immagine che immortala in modo molto efficace la situazione di stallo in cui si trovano i protagonisti del romanzo – Mark Nechtr, Drew-Lynn Eberhardt e Tom Sternberg – è infatti quella che li vede letteralmente impantanati e incerti sulla destinazione che li attende. Una destinazione, sia chiaro, meramente geografica; ma che reca nondimeno l’emblema di un destino simbolico, condiviso e collettivo:

Perciò fondamentalmente non fanno altro che starsene lì in piedi, come farebbe chiunque, in mezzo a una montagna di bagagli; si sentono un po’ impantanati, stanchi, con la tipica tensione da “ci siamo quasi ma non ancora”, con la sensazione che ci sia un posto preciso dove devono trovarsi a un’ora precisa, ma senza aver raggiunto alcun consenso sul modo di arrivarci […] sono emblematicamente incerti su dove andare da questo punto in poi (Wallace 2001: 57-58).

E l’adagio si ripeterà quando, più avanti, ritroviamo una irritabilissima e infantilmente imbronciata Drew-Lynn (moglie – incinta – di Mark e antico oggetto di un timido amore adolescenziale da parte di Tom) alle prese con mille borbottii e lamentele: «E non siamo nemmeno sicuri di dove si trovi Collision rispetto a questo aeroporto. A ovest di qui, ma quanto? Ci si arriva a piedi? C’è una strada? Non abbiamo visto altro che granturco. Disorientante […]. Tutta questa regione mette paura» (ivi: 82-83).
Si tratta di personaggi spaesati e vulnerabili che risultano, per molti aspetti, simili a dei bambini che chiedono incessantemente quando si arriva a casa.

2. «Per chi è una casa la Casa Stregata? E perché costruire una Casa Stregata in ogni grande città, secondo le leggi del marcato?». J.D. Steelritter e il potere “oikonomico”

Verso Occidente l’Impero dirige il suo corso è il secondo romanzo di David Foster Wallace. Curiosamente, in quanto comparve per la prima volta nella raccolta di racconti del 1989 La ragazza dai capelli strani, è da molti considerato a sua volta un racconto. Ad ogni modo, indipendentemente dalla definizione che se ne vuol dare , si tratta di una narrazione che si rapporta, dialogandovi a distanza ma soprattutto prendendone in chiave ironico-polemica le distanze, con un testo sperimentale del 1968 di John Barth dal titolo La casa dell’allegria. Storie da stampare, incidere su nastro, recitare.
Quel che ci preme è fare innanzitutto presente che, se nell’orbita di un discorso più marcatamente critico-letterario (ma anche storico-letterario), Verso Occidente nasconde, al di là dell’evidente rivisitazione in chiave parodica, delle importanti riflessioni sulla teoria letteraria, sulla metanarrativa e sul racconto postmoderno, dal mero punto di vista dei contenuti si distacca dall’opera di Barth per fotografare, come appunto si diceva, i disagi di una generazione bloccata.
Non che l’incomunicabilità o la difficoltà a relazionarsi fossero aspetti assenti ne La casa dell’allegria, ma la generazione degli anni Ottanta, descritta da Wallace in maniera così esageratamente “imbambolata” e quindi facilmente malleabile e governabile, risulta agli occhi del lettore odierno talmente vicina alla nostra da meritare un approfondimento in primo luogo sociologico. Vediamo ora perché.
Si inizi col dire che l’episodio che dà il via agli eventi narrati in Verso Occidente è la realizzazione di uno spot televisivo della catena di fast-food McDonald’s. E si aggiunga, poi, che non si tratta di una réclame come tante.
Siamo a Collision, una sonnolenta cittadina dell’Illinois, dove l’intraprendente pubblicitario J.D. Steelritter ha organizzato una riunione con tutti gli attori, comparse incluse (tra cui i nostri Mark, Tom e Drew-Lynn), che abbiano mai recitato in uno dei 6659 spot McDonald’s girati fino a quel momento. «E sentite questa: la Riunione è stata ideata e promossa così bene che tutti quelli che sono ancora vivi hanno promesso di partecipare. Il cento per cento di risposte positive, come J.D. sa bene, non è un caso». Veniamo così a sapere che «l’ideazione e l’organizzazione di questo gala sono da anni la passione principale di J.D. Steelritter», il quale «Fin dall’inizio aveva previsto un risultato del genere» (ivi: 70).
In altre parole, era tutto calcolato. E questo, come mostreremo a breve, costituisce un primo elemento di interesse. Ma andiamo avanti. Tra i principali punti di forza dell’operazione, che includono vari privilegi per gli accorrenti attori, ce n’è uno in particolare che sembra far gola agli invitati. Se è vero che non tutti possono usufruire ad esempio del «trasferimento a bordo di macchina da clown sul luogo della Riunione», in quanto servizio riservato esclusivamente agli ospiti più puntuali, è però vero che per tutti i quasi 44.000 ex attori in arrivo sul luogo è incluso nel pacchetto «[l’]accesso alla discoteca numero uno di una catena che promette di espandersi alla velocità di un carcinoma, di essere nel prossimo millennio il posto dove farsi vedere» (ivi: 70-71).
E che questa discoteca giochi un ruolo importante nei piani del pubblicitario lo si intuisce da un particolare: nelle sale d’aspetto dell’aeroporto dell’Illinois centrale, dove giungono gli attori prima che un’apposita navetta li conduca a Collision, campeggia un poster gigantesco, su cui appare un enorme J.D. Steelritter accanto a un enorme Ronald McDonald, un Ronald che assomiglia a J.D., sotto il cerone, nello stesso strano modo in cui, per dire, il rugby assomiglia al football; l’enorme Ronald tiene in mano un manifesto promozionale, solo leggermente meno enorme, del prototipo di una discoteca Casa Stregata […] sembra grosso modo una casa normale, come quelle che ti aspetteresti di vedere a decine in qualsiasi quartiere dormitorio, fatta eccezione per l’enorme ghigno da cadavere che sarebbe la porta della Casa Stregata. L’espressione di J.D. è congegnata in maniera tale da farvi già sentire privati di qualcosa per non essere lì con loro (ivi: 55).

Se il primo era relativo al calcolo, gli altri elementi che ci interessano riguardano rispettivamente il mercato, la paternità e il governo della casa. Andando con ordine: la grande Riunione dei 44.000 attori segnerà l’apice ma anche il superamento e la fine degli spot McDonald’s perché darà luogo, certo, al più importante spot di sempre, ma questo sarà tale in quanto la pubblicità numero 6660 è l’ultima in programma, l’ultima prevista, l’ultima che verrà mai girata. Parallelamente a ciò, avrà luogo l’inaugurazione della catena di discoteche “Casa Stregata”, con una «in ogni grande città, secondo le leggi del mercato» (ivi: 32).
J.D., apprendiamo poi, ha un figlio. E «Lo stesso figlio di J.D. Steelritter, DeHaven Steelritter, è un marchio di fabbrica umano. Un clown. Il clown. È il Ronald McDonald di questa campagna ormai da un anno» (ivi: 41-42). Ecco perché il pagliaccio del poster gigante assomiglia a J.D. come il rugby assomiglia al football: perché è suo figlio. Ma di «quel pagliaccio del figlio» (ivi: 43) parleremo più a fondo nel prossimo paragrafo.
Ora concentriamoci sull’elemento “casa”. Ricorrono, nel romanzo, passaggi che sottolineano come gli spot McDonald’s riescano a far sentire a casa chi li guarda, oltre che chi li interpreta – basti pensare che la politica aziendale prevede, per chiunque sia mai comparso in uno spot, «un coupon senza scadenza che gli dà diritto a un numero illimitato di hamburger gratis in ogni ristorante della catena, dovunque, in qualunque momento» (ivi: 51); ma ancora più illuminante ci sembra un passo in cui il narratore, ripercorrendo i pensieri di J.D., si domanda: «Una Casa Stregata deve essere qualcosa di più che un divertimento? Qualcosa di più che una forma di divertimento nuova e perfezionata? L’idea stessa di “casa” sta giocando un ruolo in questa campagna, invisibilmente?» (ivi: 36). Ebbene, la risposta è sì.
Stacchiamoci adesso dal testo wallaciano per tracciare una sintesi di questi primi spunti: il calcolo, il mercato, la paternità e il governo della casa.
In riferimento al potere del mercato, come ha rilevato il gruppo di filosofi napoletani Collettivo 33, i nostri tempi registrano un’immanenza della sovranità all’economia e viceversa, in quanto «Nell’economico agisce un’istanza di sovranità e nella sovranità un’istanza di calcolo. L’economico ha bisogno della sovranità – il politico – per funzionare e la sovranità si esercita per “calcolare” la società» (Collettivo 33 1997: 12).
Ma qual è l’esito di questo gioco? Un gioco assai simile a quello che, nel romanzo di Wallace, è praticato così abilmente dal personaggio di Steelritter? Come ci indica ancora il Collettivo, il diffondersi degli enunciati economici ha portato a una lingua depoliticizzante che sembra far ritorno a qualcosa di antico quanto la figura del pater familias, del responsabile del governo della casa (oikos) e, quindi, a quel responsabile dell’oikonomia che esercitava un potere e un controllo dispotico sui figli e in generale su tutti membri dell’oikos.
Ha dunque ragione Hannah Arendt quando in Vita activa afferma che l’attuale dominio dell’economia non è che l’estensione mondiale del governo della casa: «con il sorgere della società, cioè con l’estendersi della “comunità domestica” (oikia) o delle attività economiche al dominio pubblico, la gestione della casa e tutte le faccende che rientravano precedentemente nella sfera familiare sono diventate una questione “collettiva”» (Arendt 1989: 142).
La cosiddetta globalizzazione assume perciò, anche in Wallace, col cui testo ora ritorniamo a dialogare, un significato ontologico e linguistico: «Per chi è una casa la Casa Stregata? Forse per i bugiardi, i tipi creativi, i promotori di campagne pubblicitarie, i potatori alle prese con il grande albero della lingua» (Wallace 2001: 61).
Ecco allora che, se «il dominio dell’economico è tale che nessun luogo gli sfugge, anzi ogni luogo è continuamente preso e dislocato dal processo tecno-economico» (Collettivo 33 1997: 14), a maggior ragione, «con una Casa Stregata in ogni grande città, secondo le leggi del mercato» (Wallace 2001: 32), la comunità domestica proseguirà nel suo progetto di estensione su tutta la terra. Ma con una differenza: l’espansione avverrà non già più con «l’insegna del ristornate sotto casa per il mondo intero» (ivi: 52) o col sorriso di un clown che augura «una buona giornata» (ivi: 99), bensì con un «enorme ghigno da cadavere» (ivi: 55) stampato sulla porta d’ingresso.

3. «E quel pagliaccio del figlio». DeHaven Steelritter, i “consumati” e la produzione di adulti-bambini

Il capovolgimento da sorriso a ghigno non si manifesterà all’improvviso, perché sarà preannunciato dall’espressione intermedia, vacua e apatica, del novello (ma al contempo ultimo, si ricordi, dal momento che dopo di lui non ve ne saranno altri) Ronald McDonald. E la grottesca smorfia, sorta di equivalente orale di una palpebra a mezz’asta, pare sia sempre appartenuta a questo figlio neghittoso e indolente che si presenta come «Un bambino che è uscito dal grembo della madre infastidito» (ivi: 43).
In riferimento al «terzo Ronald McDonald nella storia del franchising americano» (ivi: 44), alias DeHaven Steelritter, leggiamo infatti che

“è chiaro che non apprezza l’occasione che gli è capitata, che non gli piace il lavoro che fa; e, ancora peggio, la sua antipatia per quel lavoro la dimostra come farebbe una persona addormentata, con un piagnucolio intorpidito e un broncio assoluto da bambino: espressione che ha in faccia ora, e da quel broncio J.D. è infastidito e innervosito, dal corrugarsi della pelle del figlio sotto quel folle sorriso dipinto… ha un’aria grottesca, le labbra e il rossetto formano una specie di cerchio grossolano, e l’impressione che danno (e che non dovrebbe mai dare una bocca che rappresenta un ristorante) è semplicemente quella di un buco, di una monetina senza nessuna incisione, di un’entrata vuota da cui vorresti solamente uscire” (ibidem).

Di indole diametralmente opposta a quella del genitore e contraddistinto da una cronica insofferenza al lavoro, come pure da una sistematica sottrazione preventiva a tutto ciò che «non è al cento per cento facile e piacevole» (ivi: 42), DeHaven, nel momento in cui «alza le spalle con quell’apatia alla “che ci vuoi fare?” con cui affronta ogni ostacolo» (ivi: 43), assume un atteggiamento di attesa e passività che non è poi così diverso, a ben vedere, da quello degli altri personaggi.
Così come per il disorientamento palesato dinanzi a un destino perennemente evanescente e aleatorio, anche per la fissità si può parlare di una componente letterale e non solo metaforica delle vite di Mark, Tom e Drew-Lynn. Si pensi allora, ad esempio, al momento in cui «tutti e tre questi bambini ormai sessualmente maturi» (ivi: 77) fissano lo schermo della tv. Che si tratti di quello posto nella sala d’aspetto e che trasmette le repliche del tanto amato telefilm Hawaii Five-O, o che sia quello del piccolo televisore a gettoni che distrae finalmente Drew-Lynn dai suoi rovelli mentali, i nostri protagonisti si rendono, a uno sguardo esterno, sottosviluppati e inamabili (cfr. ivi: 90-91).
E proviamo a comprendiamoli meglio, dunque, questi bambini sessualmente maturi (ricordiamo che Mark e Drew-Lynn stanno per diventare genitori) grazie all’identikit che il narratore traccia del loro coetaneo – e certamente non meno sottosviluppato e inamabile – DeHaven Steelritter:

Ma allora, DeHaven K. Steelritter? adulto? figlio putativo? possibile erede? usurpatore? Chi mai potrebbe amare questo DeHaven Steelritter? Età: dovrebbe proprio farsi la barba; altezza: sta sempre ingobbito, deliberatamente; peso: chi potrebbe dirlo, sotto i vestiti di pelle o questo costume a pois coi fianchi larghi e le scarpe a punta?; istruzione: dato che la scuola non è al cento per cento facile e piacevole “non vale un cazzo”; aspirazioni professionali: comporre musica atonale (a quanto dice), ricevere ottimi stipendi facendo il minimo indispensabile e passare il resto del tempo a cazzeggiare (a quanto pare). Lui rappresenta il Prodotto. È Ronald McDonald. Di professione. Questo figlio, questo orzaiolo sulla palpebra del cosmo, questo incomprensibile SHRDLU nello slogan pubblicitario del cosmo rappresenta “il ristorante sotto casa per il mondo intero” (ivi: 42).

Il quadro che emerge non è certamente dei più edificanti, eppure sarebbe crudele non tener conto del fatto che DeHaven sia fondamentalmente, come si diceva, l’incarnazione stessa del prodotto. Illuminante il flashback sull’episodio d’infanzia – risalente al tempo in cui frequentava la prima media – di colui che diventerà il futuro Ronald McDonald: «rimasto a casa da scuola […] per uno di quei misteriosi raffreddori senza febbre che chiedono a gran voce di essere stroncati sul nascere, augura a J.D., con la più completa innocenza, l’innocenza di un bambino davanti a una televisione, una buona giornata» (ivi: 99).
Eccoci giunti, dunque, alla radice del male, all’eziologia della malattia: l’innocenza di un bambino che, plagiato da un televisore acceso, al momento di salutare il padre ripete meccanicamente “Have a nice day”, la formula standard rivolta al cliente dall’impiegato delle grandi aziende. Non è difficile, a questo punto, immaginare cosa stesse guardando in quel momento (magari, e non è un azzardo pensarlo, stava guardando proprio lo spot McDonald’s del 1970 in cui il Tom bambino di nove anni s’infatuò della Drew-Lynn bambina di dodici anni).
E parimenti importante è il passo relativo al disturbo dell’umore di Mark. Caratterizzato da un temperamento immancabilmente serafico, Mark, nei rari momenti di sovreccitazione, diventa tuttavia simile a uno spettatore seduto in prima fila (cfr. ivi: 26). Che la genealogia della sua apatia coincida con quella di DeHaven non è dato saperlo con sicurezza; ma certo è che, allo stato attuale:

Non è che le emozioni di Mark siano distorte o disturbate, è che lui ha problemi a relazionarcisi. Ecco perché appare in genere sereno e distaccato, neutralmente cordiale. Quando le prova, è come se alle emozioni gli venisse negato l’accesso. Non sente mai di possedere le sue emozioni. Quando ne ha, se ne sente lontano; si sente fuori dal proprio corpo, estraneo (ivi: 121).

Non un broncio né una smorfia, ma nemmeno l’ombra di un sorriso in questo ritratto in carne e ossa dell’alienazione agli altri e a se stessi. Ma sul solipsismo si avrà modo di parlare più avanti, perché prima di passare in esame un’ulteriore tematica sarà bene allontanarci nuovamente dal testo wallaciano per vedere come le problematiche appena emerse siano state affrontate in anni più recenti.
A venire in mente, qui, è innanzitutto il bel libro del 2010 di Benjamin Barber Consumati. Da cittadini a clienti in cui si afferma che la quotidiana offerta di giochi a premi, concorsi, gratta e vinci, anche quando estesa alle pratiche più futili o alle interminabili raccolte di bollini e coupon, rappresenta di fatto la creazione di un comportamento infantilistico utile ad alimentare una cultura del consumo a ogni costo:

L’infantilizzazione tende a indurre comportamenti puerili in soggetti adulti e a preservare l’aspetto infantile nei bambini che cercano di crescere, persino quando sono “legittimati” a consumare […]. L’ethos infantilistico è straordinariamente abile nel creare una domanda di mercato incoraggiando la generazione di falsi bisogni nella società opulenta, in modo da garantire la vendita di tutti quei prodotti e servizi che il capitalismo, con zelo, sta producendo in eccesso (Barber 2010: 119-120).

Quella della produzione di adulti-bambini, dunque, è una strada intrapresa dal marketing per ovviare a tutta una serie di “resistenze” e obiezioni che solitamente fermano il consumatore adulto di fronte a un acquisto. Non si tratta solamente di produrre oggetti per bambini, quindi; ma di trasformare gli adulti in bambini una volta che li si è posti dinanzi all’oggetto/prodotto desiderato. Per questo motivo, l’utilizzo della forma ludica, ribaltata anche nel linguaggio della comunicazione commerciale, viene ad essere lo strumento privilegiato per la regressione verso l’infanzia di sempre nuovi bambini sessualmente maturi.
E si consideri, sempre in quest’ottica, la rilevanza assunta dalle discoteche, oramai importate all’interno dei contesti più disparati; così che, manifestazioni tradizionalmente riservate a un pubblico di persone mature, come le olimpiadi, si stanno trasformando sempre più in colossali operazioni d’intrattenimento. Si tratta di manovre dirette ai nuovi consumatori di ragazzi e appunto, ancora una volta, di adulti-bambini. È quanto ha ravvisato anche il giornalista Curzio Maltese quando, seguendo la cerimonia inaugurale delle olimpiadi di Londra 2012, parlò, e a ragione, di

“un allegro ripasso di tutti i miti della letteratura infantile, da Mary Poppins ad Alice, con al culmine della rappresentazione J. K. Rowling, la creatrice di Harry Potter, che legge Peter Pan. Senza dimenticare naturalmente il coro di bambini che intona “God save the queen”, sotto lo sguardo commosso di nonna Elisabetta. Per finire ovviamente con la trasformazione dello stadio olimpico in un’immensa discoteca” (Maltese 2012: 7).

4. «Dividere uno specchio con una massa di attori»: lo spettatore in controcampo e la coazione alla mimesi

Siamo ritornati alle immense discoteche, dunque, e l’abbiamo fatto con un’immagine che rimanda al “solipsismo da folla” (altrimenti detto “alone together”) di Mark Nechtr e della sua generazione. Sono proprio solipsismo e folla gli elementi fondanti di un passo collocato da Wallace al centro del romanzo (ma che rimanda direttamente alla sublimazione della scena finale):

tutti noi, e Mark lo saprebbe bene se si prendesse la briga di chiederlo a J.D. Steelritter, che in passato ha fatto ampie ricerche sulle paure derivanti da illusioni solipsistiche, tutti noi abbiamo le nostre piccole illusioni solipsistiche, spaventose intuizioni di una nostra assoluta singolarità: crediamo di essere gli unici della casa […] a provare, quando il sole tramonta, lo stesso tipo di panico che un bambino dell’asilo prova quando la mamma si allontana. Di essere solo noi ad amare i solo-noi. Di essere solo noi ad aver bisogno dei solo-noi. Il solipsismo ci tiene insieme, e J.D. lo sa. Sa che ci sentiamo soli in mezzo a una folla; senza fermarci a pensare a cosa ha dato vita a quella folla. Sa che siamo, sempre, volti in mezzo a una folla (Wallace 2001: 128).

Si tratta di un passo emblematico in quanto riferito alla medesima folla che compare nell’epilogo, ossia la «folla di coloro per i quali la casa è stata messa lì: quelli riccamente bisognosi, quelli che rifuggono fobicamente da ciò che è chiuso, quelli a cui serve un riparo. Bambini» (ivi: 216).
Prima di esaminare la scena conclusiva del romanzo, lanciamo una nuova occhiata al di fuori del testo narrativo per guardare a quella evaporazione delle sensazioni e delle emozioni paventata da Camille Dumoulié, intellettuale francese che in un saggio del 2004 metteva in guardia dal controllo dei godimenti operato dalla pubblicità. La tesi di Dumoulié è che l’immagine pubblicitaria, onnipresente, ha già realizzato ciò che essa propone al desiderio dello spettatore: una vita ricca di colori, di gioia, di originalità; ma pur sempre una vita virtuale.
Proprio come in quel vecchio spot della Kodak in cui tre piccole pesti – le “Kodakettes” – si aggirano per la città e, a mo’ di banda di criminali, rubano letteralmente i colori: scattando foto ad abiti, coppe di gelato e mazzi di fiori, non solo spogliano cose e persone della loro precedente vitalità cromatica, condannandole a un bianco vuoto e spettrale, ma privano di qualsiasi gusto o profumo tutto ciò che catturano su rullino, mentre sghignazzano divertite e lo slogan recita «Kodak il ladro di colori» .
Una vita virtuale, dicevamo per l’appunto, e non già più una vita activa, per quello che è un mero simulacro del godimento, ma che, nondimeno, ha come diretta conseguenza nel reale «Un’umanità trasformata in fantasmi che attraversano la vita come in un permanente Halloween, ridotta allo stato di corpi stravolti e vampirizzati dalle stesse immagini che devono imitare» (Dumoulié 2004: 97). Tale è l’operazione del virtuale mediatico sul mondo: esso vampirizza la vita anticipando il godimento. E non potrebbe del resto essere altrimenti dal momento che, con la pubblicità, «si gode per voi, si è già goduto. Non avete più nulla da desiderare» (ivi: 98).
Non è un caso, allora, che il finale di Verso Occidente si risolva in una sorta di godimento abortito, dal momento che Wallace ferma la narrazione prima di mostrare un qualsivoglia scorcio di appagamento, divertimento o allegria. Ed eccoli i nostri eroi, così come appaiono nell’ultima pagina, trascinarsi alla stregua di morti viventi alle soglie della Casa Stregata. Consumati dalla fatica del percorso (un percorso iniziato molti anni addietro e che li ha gradualmente, con un lento lavorio del tempo, trasformati da cittadini a comparse), quelli che vediamo sono dei volti ormai anonimi di una folla indistinta di 44.000 clienti

Che, stanchi, ma in tempo, arriveranno a ciò che è stato costruito. Che è di gran lunga troppo tardi per tirarsi indietro. E dunque avanti, verso la Riunione Di Tutti Coloro Che Sono Comparsi, verso la Via d’Uscita, verso la Casa Stregata, […] progettata secondo standard universali per essere – al di là di tutta la campagna propagandistica che la sosterrà – nient’altro che quello. Una casa (Wallace 2001: 216).

A questo punto, occorrerà pur dire qualcosa su come sia fatta questa casa all’interno. Ebbene, a tal proposito Wallace fornisce un unico particolare, ma assolutamente pregnante, nel momento in cui ci informa che «la Casa Stregata, dice il dépliant, è stata accuratamente progettata utilizzando soprattutto un sistema di specchi» e che si tratta perciò, in sostanza, di «Un posto affollato e pieno di specchi» (ivi: 90).
E non è una coincidenza che già nel romanzo d’esordio di Wallace, La scopa del sistema, vi sia spazio per ampie trattazioni relative a immagini riflesse, specchi e narcisismo, dismorfofobia e solipsismo (con un capitolo, il secondo, interamente dedicato al tema). Sono alcuni degli argomenti-chiave di uno scrittore che ha anticipato sin dai primi lavori degli anni Ottanta una serie di questioni che avrebbero caratterizzato i dibattiti sociologici dalla fine degli anni Novanta in poi.
Basti pensare alla “folla solitaria” di consumatori analizzata da David Riesman nel saggio omonimo o all’Homo consumericus di Gilles Lipovetsky, fino a quella “McDonaldizazione” del mondo presa in esame da George Ritzer e che fa il paio con le famose disamine sulla globalizzazione e sulla solitudine del cittadino globale proposte da Zygmunt Bauman, in cui il mondo si riduce a fabbrica di attrazioni passeggere, mentre il cittadino del mondo a “turista” della suddetta fabbrica (cfr. Riesman 2009, Ritzer 1997 e 2003, Lipovetsky 2007, Bauman 1999 e 2000).
Pur senza sviscerare in maniera esaustiva una tale quantità di spunti e rimandi bibliografici, possiamo valerci di un’immagine, stavolta cinematografica, che ci sembra assai pertinente nonché utile a sintetizzare gran parte del discorso wallaciano relativamente a questo secondo gruppo di punti – la fissità e il solipsismo, gli specchi e l’immagine speculare, il rapporto fra attori e spettatori – che sono venuti a delinearsi.
Quando in Verso Occidente si legge che «Sternberg non è affatto sicuro che gli piaccia l’idea di dividere uno specchio con una massa di attori» (Wallace 2001: 90), non può non venire in mente la sequenza d’apertura del film In girum imus nocte et consumimur igni di Guy Debord – frase palindroma che darà anche il titolo a un suo saggio – in cui il filosofo mostra che «L’attuale pubblico di una sala cinematografica, intento a guardare fissamente davanti a sé, sta di fronte, in un perfetto controcampo, agli spettatori, che dunque sullo schermo non vedono altro che se stessi» (Debord 1998: 7).
Ebbene, si sappia che in Verso Occidente questo fenomeno ha luogo letteralmente. Se infatti Tom Sternberg «ha con gli specchi un rapporto di amore-odio» (Wallace 2001: 90) è perché, da un lato, ambisce a diventare attore di professione ma, dall’altro, il suo aspetto è segnato da «un fatale difetto fisico. Ha un occhio completamente rivoltato verso l’interno della testa» (ivi: 49). E sappiamo che non si tratta di un occhio cieco, ma di un occhio che vede, sebbene Tom «di quello che vede l’occhio rivolto all’indietro non parla» (ibidem).
Lo sguardo di Sternberg, possiamo dunque affermare, è a sua volta palindromo, speculare nella misura in cui i suoi occhi non guardano nella stessa direzione, né in direzioni opposte ma entrambe esterne, bensì rispettivamente all’esterno e all’interno, separandosi là dove si toccano e toccandosi là dove si separano. In altre parole, i suoi occhi formano il medesimo gioco di campo/controcampo mostrato da Debord. E sarà lo stesso Wallace a trattare esplicitamente questo concetto nel suo romanzo successivo, Infinite Jest (1996).
Nella famosa nota 24 di Infinite Jest, quella relativa all’estesa filmografia di James Incandenza, oltre a non mancare un riferimento al regista Hollis Frampton (autore, aggiungiamo noi, di un film muto del 1969 intitolato Palindrome e che si chiude significativamente con la didascalia «Et consimumur igni»), compare un «pubblico come cast riflesso», insieme spettatore e attore protagonista di un bizzarro film, The Joke:

The Joke (La beffa). A.S. Latrodectus Mactans Productions. Pubblico come cast riflesso; 35 mm x 2 telecamere; lunghezza variabile, bianco e nero; muto. Parodia degli «eventi specifici del pubblico» di Hollis Frampton, due videocamere Ikegami Ec-35 riprendono nella sala il pubblico del «film» e proiettano sullo schermo le immagini risultanti – il pubblico della sala che guarda se stesso guardare se stesso mentre comprende la «beffa» e si mostra sempre più imbarazzato e a disagio e ostile, comprendendo di far parte dell’involuto flusso «antinarrativo» del film (Wallace 2006: 1187).

Questo sguardo in controcampo – o, se lo si preferisce, questo sguardo/controsguardo – assume, in Infinite Jest come già in Verso Occidente, i tratti di un’efficace metafora: se le passate generazioni di spettatori avevano da fare i conti con lo schermo cinematografico e con quello del televisore per affacciarsi ai mondi mostrati nelle pubblicità e nei film, la generazione attuale non si limita ad affacciarsi a determinati scenari, perché ha in aggiunta la possibilità di interfacciarsi costantemente con uno schermo – che sia quello di un televisore o di un monitor, di un tablet o di uno smartphone – fino, però, a rivoltare subito verso l’interno uno sguardo che non ha fatto in tempo a guardar fuori, condannandosi in ultima istanza a riflettere incessantemente se stessa e la propria immagine in un gioco vertiginoso di rincorsa, o perdita, di identità.
Volendo in conclusione individuare un senso complessivo che colleghi tutti questi spunti, possiamo dire che l’esito del nostro discorso sembra condurre a ciò che potremmo definire come coazione alla mimesi, intendendo con quest’espressione un processo che fa capo alla passività esasperata di quell’“Io minimo” che, mosso da impulsi ambivalenti, coniuga dentro di sé il sentimento di onnipotenza narcisistica con la percezione del proprio vuoto e della propria debolezza (cfr. Lasch 1981 e 1985, Lipovetsky 1995 e 2007).
Avendo inizio in età infantile con la ripetizione meccanica degli slogan pubblicitari, tale coazione alla mimesi ha il suo tratto distintivo nell’emulazione e nella riproduzione, e quindi nella mancata opposizione ai desideri seriali – di cui l’Io subisce la seduzione anche in età adulta – e nella mancata reazione alla forza livellante di un’indifferenziazione che, confinando le soggettività in un monadico isolamento, tutto uniforma senza nulla accomunare.
Per un mondo – e Wallace lo insegnava già trent’anni fa – omogeneizzato nei costumi e nei pensieri tanto quanto lo sono i burgers di McDonald’s.

Fonti citate

Bibliografia:

Arendt 1989: H. Arendt, The Human Condition (1958), trad. it. Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano.
Barber 2010: B. Barber, Consumed: How Markets Corrupt Children, Infantilize Adults, and Swallow Citizens Whole (2007), trad. it. Consumati. Da cittadini a clienti, Einaudi, Torino.
Barth 1974: J. Barth, Lost in the Funhouse. Fiction for Print, Tape, Live Voice (1968), trad. it. La casa dell’allegria. Storie da stampare, incidere su nastro, recitare, Rizzoli, Milano.
Bauman 1999: Z. Bauman, Globalization. The Human Consequences (1998), trad. it Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza, Roma-Bari.
Bauman 2000: Z. Bauman, In Search of Politics (1999), trad. it La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano.
Collettivo 33 1997: Collettivo 33, Per l’emancipazione. Critica della normalità, Cronopio, Napoli.
Debord 1998: G. Debord, In girum imus nocte et consumimur igni (1978), trad. it Id., Mondadori, Milano.
Dumoulié 2004: C. Dumoulié, Controllo dei godimenti e fascismo soft, in “L’espressione”, anno II, n. 1, Cronopio, Napoli, pp. 83-99.
Karmodi 2012: O. Karmodi, David Foster Wallace. Un’intervista inedita, Terre di Mezzo, Milano.
Kundera 2000: M. Kundera, Les Testaments trahis (1992), trad. it. I testamenti traditi, Adelphi, Milano.
Lanier 2010: J. Lanier, You’re Are Not A Gadget: A Manifesto (2010), trad. it Tu non sei un gadget, Mondadori, Milano.
Lasch 1981: Ch. Lasch, The Culture of Narcissism (1979), trad. it La cultura del narcisismo, Bompiani, Milano.
Lasch 1985: The Minimal Self. Psychic Survival in Troubled Times (1984), trad. it L’io minimo. La mentalità della sopravvivenza in un’epoca di cambiamenti, Feltrinelli, Milano.
Lipovetsky 1995: G. Lipovetsky, L’ère du vide. Essais sur l’individualisme contemporain (1993), trad. it L’era del vuoto. Saggio sull’individualismo contemporaneo, Luni, Milano.
Lipovetsky 2007: G. Lipovetsky, Le Bonheur paradoxal: essai sur la société d’hyperconsommation (2006), trad. it. Una felicità paradossale. Sulla società dell’iperconsumo, Raffaello Cortina, Milano.
Maltese 2012: C. Maltese, Harry Potter e discomix. Sono giochi da bambini i veri clienti di domani, in “La Repubblica”, 28 luglio 2012, p. 7.
Musil 1992: R. Musil, Der Mann ohne Eigenschaften (1933), trad. it. L’uomo senza qualità, Mondadori, Milano.
Riesman 2009: D. Riesman, The Lonely Crowd (1961), trad. it La folla solitaria, Il Mulino, Bologna 2009.
Ritzer 1999: G. Ritzer, The McDonaldization of Society. An Investigation into the Changing Characters of Contemporary Social Life (1993), trad. it. Il mondo alla McDonald’s, Il Mulino, Bologna 1999.
Ritzer 2003: G. Ritzer, Expressing America: A Critique of the Global Credit Card Society (1995), L’era dell’iperconsumo. McDonaldizzazione, carte di credito, luoghi del consumo e altri temi, Franco Angeli, Milano.
Wallace 2000: D. F. Wallace, Brief Interviews with Hideous Men (1999), trad. it. Brevi interviste con uomini schifosi, Einaudi, Torino.
Wallace 2001: D. F. Wallace, Westward the Course of the Empire Takes Its Way (1989), trad. it Verso Occidente l’Impero dirige il suo corso, minimum fax, Roma.
Wallace 2004: D. F. Wallace, Oblivion (2004), trad. it. Oblio, Einaudi, Torino.
Wallace 2006: D. F. Wallace, Infinite Jest (1996), trad. it. Einaudi, Torino.
Wallace 2008: D. F. Wallace, The Broom of the System (1987), trad. it. La scopa del sistema, Einaudi, Torino.
Wallace 2008: D. F. Wallace, Girl with Curious Hair (1989), trad. it. La ragazza dai capelli strani, minimum fax, Roma.
Wallace 2011: D. F. Wallace, The Pale King (2011), trad. it. Il re pallido, Einaudi, Torino.

Sitografia:

LiveJournal (www.livejournal.com)
The New York Review of Books (www.nybooks.com)
YouTube (www.youtube.com).

Filmografia:

G. Debord, In girum imus nocte et consumimur igni, documentario, Francia 1978, 100 min.
H. Frampton, Palindrome, film muto, USA 1969, 22 min.
J.-B. Mondino, The Color Theft, spot pubblicitario, Francia 1987, 1 min.

Teatrografia:

L. Bargagna, Verso Occidente l’Impero dirige il suo corso, Compagnia Blu Teatro, Italia 2014.
L. Bargagna, Il dono , Compagnia Blu Teatro, Italia 2016.

Rivoluzionare il sogno. Note su “Le giunture del sogno” di Sergio Finzi

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 di Gianluca Garrapa

Se ti dico “psicoanalisi”, probabilmente penserai a “inconscio” e la parola “sogno” la collegherai a “interpretazione dei sogni”. Invece “Le giunture del sogno” è tutt’altra cosa. Le giunture del sogno (Luca Sossella editore, 2016) è un saggio, ma a tratti ricorda un romanzo filosofico, dello psicoanalista Sergio Finzi che, lungi dal ripercorrere la chiave interpretativa freudiana del sogno, evidenzia la sua struttura geometrica connessa con le leggi della natura, del corpo e del pensiero. Un sogno, dunque, più vicino alla filosofia e all’etica, alla matematica e alla libertà dell’uomo.

Je so’ pazzo – un film di Andrea Canova

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di Mariasole Ariot

“Ogni realtà sociale è, per prima cosa, spazio”.

Braudel

 

Riabitare i luoghi di confine significa riscriverne la storia senza cancellarla –  là dove tutto sembra(va) votarsi proprio a questo: all’oblio. Significa dare alla storia precedente, per sottrazione, una nuova voce.

Riabitarli, riscriverli, e infine raccontarli: perché senza una narrazione che sappia entrare nei sotterranei di un passato dimenticato e di un presente riedificato, con occhio spalancato ma con la delicatezza che non sfonda i muri ma li apre come si aprono le maglie del sottile, il nuovo resterebbe confinato all’invisibile.

Il regista Andrea Canova, realizzando il film per la giovane etichetta Inbilico Teatro & Film – e con l’aiuto di una campagna di crowdfundig per sostenere le spese di post-produzione,  con un incedere largo ma in sordina, senza sovrapporsi ai rumori e alle voci del luogo ma posizionandosi dal lato della testimonianza, restituisce una visibilità per molto tempo mancata: ripercorrendo il territorio che si propone di raccontare, lo attraversa non solo nella sua dimensione spaziale, ma anche in quella temporale: è l’alternanza tra il movimento creativo dell’oggi e la staticità coatta di ciò che era ieri l’ex ospedale psichiatrico di Sant’Eframo, ora sede del collettivo Je so’ pazz che, occupandolo nel 2015, l’ha rifondato, dandogli una nuova possibilità di parola, di respiro, di libertà.

La struttura carceraria, ricavata dalle mura antiche di un vecchio monastero del ‘600, convertito in ospedale psichiatrico giudiziario nel 1978 a seguito della Legge Basaglia, e chiuso definitivamente nel 2008, è un’architettura imponente. Un’architettura abitata per anni da un mondo confinato e invisibile, in cui Michele Fragna, voce e corpo narrante che appare a tratti, nell’imprevisto della discorsività visuale, attraverso i suoi vecchi scritti poetici di ex internato, fa riemergere ciò che prima era – e ciò che prima non era – Sant’Eframo.

 

“Quand’anche fosse son pazzo, e allora?/Mi rimane un tanto per essere felice/ Mi rimane un tanto per le mie sofferenze/Mi rimane un tanto per dire ho un amico, per dire ti odio, ho paura/ed altro ancora/Mi rimane un tanto per dire: sono un uomo”
Michele Fragna

 

Dove il colore predominante era il grigio, ora sono murales e tinte forti, dove prima era silenzio, ora sono risa di ragazzini che giocano a pallone, dove prima erano detriti, ora spunta un sottile strato erbaceo, dove prima era muraglia di separazione, ora è palestra di roccia, dove prima erano letti imbrattati di umori, ora c’è il suono di un violino, dove prima erano grida soffocate, il battere di cucchiai sulle sbarre, ora c’è uno strumento che suona, le voci che l’accompagnano.

Perché un paesaggio in cui l’umanità si muove è anche questo: un paesaggio sonoro. E l’elemento sonoro è un’altra componente fondamentale del documentario che, in alcuni precisi momenti, ci riporta al precedente lavoro di Canova, Il vicino.

Riabitare luoghi infernali (“qui ho visto l’inferno”, recita una delle testimonianze appese alle pareti), permette anche (per i “sopravvissuti” e per la memoria collettiva) la rielaborazione di un lutto: il lutto dei dimenticati, di ciò che prima faceva scarto, dei residui corporei, dei vecchi plichi ingialliti, dei frammenti di vita gettati nelle macerie. L’abbandono assoluto, l’uscita dalla scena del mondo.

“Vengo qui perché nel quartiere non abbiamo un campetto da calcio”, dice un bambino.

E come lui, nell’ex opg, oggi trova casa e senso comunitario chi altrove non riesce a costruirlo e a farne parte. L’ambulatorio medico, le aule d’insegnamento, il laboratorio di teatro, le “pizzicate”, la stanza dei violini, l’accoglienza ai migranti, le tavole rotonde, la passeggiata, lo scambio pieno della parola, il riconoscersi, l’appartenenza: una scena che esonda in fermento, che s’interroga sui nuovi significati e i vecchi significanti:

“Non è che sono pazzi, sono persone normali, soltanto che hanno un piccolo problema. Se tu ti spezzi una gamba ti devono chiamare zoppo?”

Nel ricordare è sempre e necessaria anche una “perdita di ricordo”, una dimenticanza : non significa rimozione, negazione, al contrario significa dimenticare qualcosa per poter far rivivere qualcosa di nuovo.

Se questo è quello che il collettivo Je so’ pazz ha fatto concretamente nei fatti, l’operazione del regista si sposta in una zona simbolica pur restando a stretto contatto con un Reale ustionante: nel documentario non si tratta solo di descrivere lo stato attuale delle cose, né solo di tenere a mente ciò che in un tempo straziante è stato: si tratta piuttosto di  questo: raccontare il Possibile.

Non è quindi un’operazione che si limita a denunciare e svelare ciò che non è stato fatto, ciò che non doveva farsi, ma anche e soprattutto: ciò che si può fare, ciò che si può dire. Lì, come nei tanti altrove che ancora, sfortunatamente, permangono nel mutismo.

Come dichiara Werner Herzog “Per una civiltà così avanzata come la nostra, essere senza immagini che siano adeguate ad essa è un difetto così grave come l’essere senza memoria”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Cuori di seppia

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di Francesca Fiorletta

Filippo De Matteis ha scritto un libro delicatissimo e struggente. Cuori di seppia, il suo esordio narrativo per Elliot Edizioni, è un improvviso viaggio a rebours nei meandri più reconditi di mente, corpo e anima, attraverso un soliloquio ininterrotto popolato da presenze misteriose, personaggi lugubri e inquietanti rivelazioni.

Proprio di chi “va a fondo”, o quantomeno cerca di andare a fondo nelle situazioni, è il bisogno atavico, la spinta indomita che mette sempre l’uomo in contatto con la parte più oscura di sé. Ebbene, il “cuore di seppia” è proprio questa oscurità, è il più famoso “orrore” arguito negli occhi del Kurtz di Conrad, è il buio fitto in cui abitano le nostre fragilità, come l’ipocondria o la paura d’impazzire, e la palude stantia in cui proliferano i nostri più maniacali raccapricci, come la vergogna e la ripulsa verso un brutale omicidio.
La lingua scelta e qui utilizzata da Filippo De Matteis è musicalità leggera e spinta potente all’introspezione, e l’alternanza continua fra prosa e poesia ricalca bene, in ogni suo aspetto, il virtuosismo pericolante dell’esistenza che questo bel romanzo d’esordio racconta.
Di seguito, un estratto.

Un’altra scuola di Francoforte: gli anni Settanta di Jörg Fauser

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Di Daria Biagi

È il 17 luglio 1987 quando un uomo di quarantatré anni, poche ore dopo aver festeggiato il suo compleanno, viene travolto e ucciso da un camion lungo il tratto autostradale tra Feldkirchen e München-Riem, alla periferia di Monaco. Si tratta di uno scrittore francofortese noto per il momento più nell’ambiente delle forze dell’ordine che non nei circoli letterari: ad attirarlo fuori città, secondo alcuni, sarebbero stati presunti informatori con cui si era messo in contatto per un’indagine sui rapporti tra spaccio di droga e politica; secondo altri stava invece semplicemente barcollando verso casa, ubriaco come il personaggio di uno dei suoi libri. Le incertezze su questa strana morte avrebbero contribuito, negli anni successivi, ad alimentare il mito di Jörg Fauser, romanziere, poeta, giornalista, alcolista, testimone polemico della contestazione studentesca e di tutto quello che, in Germania e non solo, ne sarebbe conseguito.

“Pacific Palisades”. Un testo al confine

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di Stiliana Milkova

Pacific Palisades, il nuovo libro di Dario Voltolini, è appena uscito da Einaudi. Pacific Palisades racconta una vita attraverso la mappa di una città. Per specificare, il suo è un testo autobiografico che colloca la propria storia sulla pianta topografica di Torino (la città natia dello scrittore) per poi espandere la prospettiva dell’io narrante e dunque anche quella del lettore fino a comprendere territori lontani e definitivamente stranieri e fare un giro dalla California a Tokyo. Quei territori geografici vengono descritti anche come territori limitrofi, posizionati al confine tra realtà cartografica e immaginazione, tra presente e passato – territori che sono innanzitutto dentro di noi, luoghi che generano la nostra identità e per questo anche plasmano le nostre esperienze. In questo modo l’ottica testuale si muove vertiginosamente dal dettaglio personale alla panoramica globale, si sposta da paesaggi urbani a paesaggi psichici.