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I morti reclamano il pianeta

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di Giorgiomaria Cornelio

 

«Con l’inchiostro, col giaietto, con la fuliggine, con l’asfalto e il bitume, la notte mi ricorda i suoi crediti. Con la polvere fine delle ossa calcinate, con la fumaggine delle erbe incancrenite, con la cenere dei libri condannati, la notte mi ricorda la mia nascita. Io sono figlio della notte.»

Roger Caillois, Aveu du nocturne

Poco suolo.   Sempre meno.

 

A cosa fa la guardia un cane

se manca la terra?      A chi?

 

I conquistatori, poppando

la frontiera,  dicevano che

non sarebbe  mai esaurita.

L’elenco delle risorse

era sempre più lungo delle

perdite.

 

Petroliere, cisterne, grossi

serbatoi, levigati e rotondi.

Senza fondo.

 

Le ragioni dell’usura

stirate a millenni, come giro

interminabile         di sabbia.

 

In troppi, tra gli uomini,

trovavano niente serrato.

Bastava volerlo, annusare

da lontano     lo scasso di

ogni sigillo.

 

Ora non più.

Ovunque

si riduce il suolo, non solo qui.

Si consuma

il governo dei viventi, mentre

i morti,          a grandi falcate,

reclamano il pianeta.

Le cose s’aggregano   a loro,

si fanno clima micidiale, gas,

forma   di tossica atmosfera.

 

Tra poco

non ci sarà posto per nessuno.

Nessuno.     Neppure un cane.

 

***

[Quando il dominio dei morti, dell’eredità, diventa occupazione, forma atmosferica del vivere? Come ci si ostina a vivere con la fumaggine, con la scrittura della notte? Non esiste una formula d’assoluzione della scrittura, e neppure del mondo. Comunque, c’è da proseguire]

L’altro volto della resistenza

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Di Yousef Elqedra 

È qui
e ovunque.
Nelle pieghe della via,
nel passo fiacco,
e nello sguardo che precede una domanda mai posta:
questa è la fame.

La fame non è una belva
ma uno sconosciuto che bussa alla tua porta,
siede al tuo desco,
e imparziale divide con te l’aria.
La scorgo negli occhi delle pietre in agguato
nel fatuo garrire degli uccelli
e nel riflesso della mia ombra sul muro spoglio
come fossi uno spettro
che scava una via di fuga sotto la pelle.

Canto senza melodia è la fame,
danza in un vuoto finale,
poesia scritta da un corpo
con la lingua legata.

 

 

La tenda, corpo fragile,
di tela logora, sua pelle,
esili le costole
oscillano con ogni soffio di vento.
Il vento non chiede,
ma penetra ovunque,
spalanca le porte su un vuoto infinito,
carpisce il tepore dell’attimo
lasciando alle spalle un silenzio che trema.
La tenda non è casa,
è promessa d’attesa
e ogni refolo di vento
ti rammenta che non sei che un passante
su una terra che non porta il tuo nome.
Poi arriva la pioggia
greve come un’antica malinconia
batte sul tetto della tenda
come a provarne la resistenza.
Si insinua all’interno,
disegna una mappa di macchie d’acqua
su un suolo che mai si prosciuga.
Il vento scuote la tenda,
la tenda culla la pioggia
e la pioggia tutto lava,
tranne la memoria di chi ci vive dentro.
Così resta in piedi la tenda,
a testimoniare che la fragilità
non è che l’altro volto della resistenza.

 

*

Poesie e foto di Yousef Elqedra, poeta palestinese residente a Gaza, nella traduzione di Sana Darghmouni. Su Nazione Indiana sono già apparsi testi di Elqedra nella serie “Memorie da Gaza”.

TLC

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Di Federica Defendenti

 

NFT

su tinder la vetrina propone
mullet, si vede il cambio di decennio.
stiamo invecchiando anche se non ci sembra e il gusto
dentro i match non è lo stesso:
nemmeno l’umorismo, il boom dei nomi.
lo so che sembro antica a dire queste cose
ma è che tu sei in rubrica un non-fungible token,
tra i tanti in testa al mazzo non replicabile







pornhub deepfakes

saremo al buio da un pezzo, senza riscaldamento:
ci scalderemo a legna non importa
ma senza il pc con tutto sopra come faremo,
specialmente le tue foto nuda di anni fa
ci vorrebbe un bot automatico un’IA.
con faceapp le genererò in video
un podcast asmr con la tua voce;
potremmo spartirci la password allo streaming che apriamo entrambe
e lo sappiamo prima di partire in solitaria in cima al materasso
per qualche ragione col tasto play
sempre allo stesso ricordo







key to your door

per sbloccarti l’istinto dell’eroe
come da consiglio nel video life coach sponsorizzato,
ti guarderò il cell mentre trascini il pollice
unisci i puntini in un disegno che ti schiuda.
non va la forza dello sguardo per fregarti,
del tocco digitale in basso
dimmi tutti i tuoi segreti a cosa pensi
come un file protetto da password
esteso a .zip: secretato
come estrarti? e anche a saperlo
cosa cambia, dovrei hackerarti per leggerti in pieno ma ora
scegli un’altra app, file non eseguibile
ancora ancora un’altra volta riprovare
mentre ti guardo e non mi dici niente
per venti minuti almeno









banco salumeria

in piedi tutta la notte per tradurre un pezzo su commissione
inventato un costo al servizio
per il C1 inglese promesso ma ho mentito nel cv.
pazienza: il suggerimento era di gonfiare un po’.
intanto il futuro, il piano che va scelto:
un dottorato, un lavoro d’ufficio chissà, il freelance lo hai già sperimentato
basterebbe finire tutto almeno con un minimo di senso:
Serviamo il numero 84, sento solo dire dal commesso







androidi

di cosa parliamo quando parliamo
di lavoro,
un passo avanti e uno indietro il piano del futuro
contraddicendoci.
con l’incrocio delle agende è facile mentirsi,
facile il falso in bilancio della giornata.
si va per tentativi ed errori dopotutto,
quello che conta è non fermarsi
anche a casa davanti alla cena alla tivvù al cell
a una qualsiasi immagine codificata:
fissare tutto come una cometa immobile che ci dica dove stiamo andando


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Testi e immagine tratti da TLC di Federica Defendenti (collana Obtorto Collo diretta da Riccardo Frolloni, Industria & Letteratura 2025)

 

Wols scrive aforismi su whatsapp

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di Leonardo Canella

  1. Ti sento. Sento che premi le dita sulla rotella dell’apriscatole e la dopamina che ti spara gioia nel cervello. Io TI SENTO, Wols. SEMPRE. IO SENTO che SENTI il bisonte che hai cacciato quando premi le dita sulla rotella dell’apriscatole e il vento gelido del nord sui peli della schiena. E la scatoletta di sardine come un fiore si apre (come sono poetico!).
  1. Tu scrivi aforismi, Wols (1913-1951). Duecentosessanta nell’edizione Pendragon 1994. Le Nughette non c’erano ma c’eri tu. Ho sentito allora anch’io dentro di me il bisonte che ho cacciato. Io sento il bisonte che ho cacciato quando premo le dita sulla scatoletta di alluminio luccicante che alla Despar vicino casa. E il vento gelido del nord sui peli della schiena, dopamina sparata nel cervello. Leobisonte.
  1. Leobisonte ti rileggo trent’anni dopo. Freddo sole pocket coffee due euro dopamina sparata nel cervello, Leobisonte:

Io dormo meglio

sul Water

che nel letto

è l’Universo.

  1. Ti rileggo e sento di nuovo il vento gelido del nord sui peli della schiena, trent’anni dopo: Si raccontano i propri piccoli racconti / terrestri / attraverso piccoli pezzi / di carta. Brevità ironia leggerezza, Wols. Su piccoli pezzi di carta (da te mai pubblicati). La sera in cuffia su YouTube io spalmato sul divano tu mi mandi messaggi su WhatsApp, brevi ironici leggeri. Che sento di nuovo il vento gelido del nord sui peli della schiena. Un minuscolo foglio per contenere il mondo, mi scrivi. Trent’anni dopo.
  1. E che bello è pizzicarti qua e là. Senza un inizio, senza un fine. Dopamina sparata nel cervello. Bisogna restringere ancora lo spazio / i movimenti delle dita e della mano / bastano a esprimere tutto. E sento che senti le dita che premono sulla rotella dell’apriscatole, lamiera luccicante. Felice.
  1. E ti pizzico, ti mescolo. Pizzico taglio incollo Canellawols i tuoi foglietti messaggini su WhatsApp: 1. Quando il mio piccolo peto / torna / a riportare la sua pace / questo provoca della scenatacce 2. E il mio pidocchio / non mi guarda mica mai / bene negli occhi 3. mi piacerebbe / essere / al corrente / dell’importanza / delle imposizioni/ imposte / ai proprietari / di STRUZZI. Microrgasmi, Wols, dopamina sparata nel cervello.
  1. Wols è schiattato nel 1951 perché ha mangiato carne dentro un barattolo di lamiera luccicante che alla Despar vicino casa. Avariata, dita che premono sulla rotella dell’apriscatole. Dai che andiamo alla Despar vicino casa! c’ho detto io! (che la Polly se no rompe). E guardiamo i barattoli che io li guardo sempre. Fin da bambino, Wols ed io. A me piace guardare i barattoli. SEMPRE!! Che sento il bisonte che ho cacciato e il vento gelido del nord sui peli della schiena, dita che premono sull’apriscatole. E nascono così nuove nughette, avariate.

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Kit di autodifesa nell’era Trump 2 #2. La guerra alla scienza e al giornalismo

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[I tempi sono oscuri e spaventosi. Non basta più stare dentro i ruoli assodati e fare bene il proprio lavoro. Ci sono strumenti da condividere e ci sono stili di pensiero e d’azione da salvaguardare. Non sappiamo ancora chi si servirà di cosa. Ma prepariamo il terreno. Ho cominciato la serie con questo pezzo, pubblicato il giorno dell’investitura di Trump. a. i.]

di Andrea Inglese

  

Il Trump del secondo mandato non è solo il nome del declino palese dell’egemonia statunitense e dell’ordine mondiale a essa connesso, ma ne è probabilmente anche il precipitatore, il fattore accelerante. Questo è almeno il quadro entro cui è leggibile la politica estera dell’attuale presidenza. Io vorrei, però, mettere in relazione questa gesticolazione imperialista degli Stati Uniti e una tendenza di fondo che emerge nella sua politica interna, ossia l’attacco nei confronti delle istituzioni scientifiche e del contropotere costituito dai media cosiddetti mainstream. Su tale fronte, di guerra dichiarata nei confronti dei “nemici interni”, l’azione di Trump indica una più generale modalità di governo, che potremmo anche chiamare di “populismo autoritario”, ma che s’iscrive, in sostanza, in una concezione neofascista dei rapporti tra potere dei governanti e popolazione. Pur emergendo all’interno delle istituzioni di una democrazia liberale, l’autoritarismo populista alla Trump aspira allo smantellamento puro e semplice dei vincoli legali e dei contropoteri effettivi, sociali e culturali, che prevengono e ostacolano un esercizio dittatoriale del potere. (Spiegherò in una glossa, perché non ho nessun imbarazzo a parlare di neofascismo, e a identificarlo come una tendenza manifestamente presente nell’azione di tutta una serie di capi di governo attuali – da Putin, ovviamente, a Netanyahu o Erdogan – che agiscono, “ufficialmente”, all’interno di regimi più o meno democratici.)

Se nel corso del Novecento, le istituzioni scientifiche (università, laboratori di ricerca, ecc.) sono state sottoposte a critica sociale, e più in generale a una critica delle loro inevitabili matrici ideologiche, ciò non toglie che la libertà accademica e tutta una serie di procedure, collettivamente discusse, di verifica e di prova, hanno permesso alle varie discipline di evolvere, rettificarsi, e creare anche i propri anticorpi nei confronti dei diversi poteri (economici, politici, religiosi, ecc.) che le possono condizionare. Ma questo è vero anche per il “quarto potere”, quello dell’informazione attraverso i media di massa (stampa e televisione). Nella storia della controcultura statunitense degli anni Sessanta e Settanta, ad esempio, i mass media sono rappresentati sia come delle macchine condizionanti e di propaganda, sia come degli strumenti di controllo democratico, in grado di denunciare le derive autoritarie sempre in agguato nelle politiche di governo. (Il caso Watergate rivelato dai giornalisti Woodward e Bernstein del quotidiano nazionale “Washington post” portò alle dimissioni di Richard Nixon dalla presidenza. L’inchiesta cominciò nel 1972, non impedì la rielezione di Nixon, ma lo scandalo che suscitò costrinse alla fine il presidente a dimettersi nel 1974.) Né la ricerca scientifica, né l’attività giornalistica sono di per sé baluardi della democrazia o pratiche al servizio della popolazione, ma lo possono diventare in seguito al diffondersi di una cultura democratica. E in ogni caso, la loro autonomia è sempre stata, almeno in linea di principio, difesa dalla maggioranza della classe politica affermatasi nel Dopoguerra.

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Il New Deal internazionale e l’affermazione dell’egemonia statunitense

In un libro da poco uscito (Pensare dopo Gaza, Timeo, 2025) e di cui Nazione Indiana ha pubblicato un estratto, Franco Berardi “Bifo” scrive: “Pensare dopo Gaza significa anzitutto riconoscere il fallimento irrimediabile dell’universalismo della ragione e della democrazia, cioè il dissolversi del nucleo stesso della civiltà”. Possiamo essere del tutto d’accordo che il massacro da parte israeliana della popolazione di Gaza e il progetto di pulizia etnica che lo accompagna costituiscano il fallimento completo del progetto dei paesi occidentali e degli Stati Uniti, in particolare, di farsi garanti, politicamente, economicamente, militarmente di un “universalismo della democrazia”, ossia di un diritto internazionale basato su principi democratici. È importante, però, al seguito di una tale affermazione, ricordare due cose: “l’universalismo della democrazia” s’impone in realtà a partire da una provincia specifica del mondo (gli Stati Uniti) e in un periodo storico preciso (dopo il 1945). In altri termini, con l’affermarsi a livello mondiale dell’egemonia statunitense su quella britannica, vi è anche un modello di “democrazia” (la democrazia cosiddetta liberale) interna agli Stati e nelle relazioni “interstatali” (basate sui principi del diritto internazionale) che si diffonde dal centro alla periferia, dal Nord al Sud del mondo. Che ci piaccia o no, questa forma di “democrazia” è storicamente legata alle vicissitudini dell’egemonia degli Stati Uniti, e non è un caso che, proprio questo paese, oggi la ritenga “sacrificabile”, dal momento che la sua supremazia mondiale è messa in discussione, almeno sul piano economico, sociale e culturale.

Mi riferisco qui al lavoro che Giovanni Arrighi e altri studiosi del capitalismo hanno realizzato intorno alla nozione di “economia-mondo” e alla sua evoluzione storica in relazione alla teoria dei cicli egemonici. Per quel che m’interessa qui mettere in luce è sufficiente rinviare a un libro che è stato recentemente ripubblicato: Caos e governo del mondo. Come cambiano le egemonie e gli equilibri planetari, a firma di Arrighi e Beverly J. Silver. Nel 2024, Mimesis ha reso disponibile l’edizione italiana di questo lavoro apparso per la prima volta negli Stai Uniti nel 1999. Non ho intenzione di addentrarmi né nell’armamentario teorico-metodologico di Giovanni Arrighi né nella presentazione generale del libro appena citato. È sufficiente ricordare che, in controtendenza rispetto a quanto decantavano gli analisti di geopolitica in quella fine secolo (le Torri gemelle svettavano ancora solidamente nel cuore di Manhattan), i due autori annunciano i rischi di caos sistemico che sono inerenti alla perdita di egemonia delle superpotenza statunitense, nel momento stesso in cui essa sembra trionfare su qualsiasi altra nazione e modello politico-economico del pianeta.

La perdita di egemonia ovviamente non significa un indebolimento immediato della supremazia militare degli Stati Uniti. Per Gramsci, l’egemonia è quel sovrappiù di potere che un gruppo sociale dominante può accaparrarsi, quando convince che il perseguimento dei propri interessi favorisce anche gli interessi dei gruppi subordinati. Quando questa credenza viene meno nei gruppi subordinati, si ha un “dominio senza egemonia”. Il gruppo dominante s’impone sul resto della società in virtù esclusivamente della sua forza. Nel contesto dell’economia-mondo e della leadership internazionale, l’applicazione di tale teoria permette di descrivere come uno Stato riesca a persuadere gli altri non solo della sua maggiore forza (economica, militare), ma anche dei vantaggi “universali” che una sua leadership garantirebbe. Così Arrighi e Silver: “il termine ‘leadership’ è usato per descrivere il fatto che uno stato dominante guidi il sistema in una direzione voluta, e che sia opinione comune che facendo ciò persegua un interesse generale”[1].

Quando, dopo la Seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti soppiantano l’Europa e in particolare il Regno Unito nella “guida” del mondo, non lo fanno vendendo il semplice “sogno americano”, come pacchetto puramente inconsistente di illusioni. Se il sogno è stato venduto per almeno mezzo secolo, ciò vuol dire che esso riposava su qualche elemento concreto. Il sogno, in effetti, è accompagnato da alcune importanti istruzioni per l’uso, istruzioni che gli stessi Stati Uniti applicano in casa loro e s’impegnano ad applicare nei paesi che accolgono quel medesimo sogno. “L’esatta natura della riforma globale sostenuta dagli Stati Uniti fu molto influenzata dall’esperienza del New Deal. Il cuore della ‘filosofia’ del New Deal ‘stava nel fatto che solo un governo forte, benigno e tecnico poteva assicurare al popolo ordine, sicurezza e giustizia’ (Schurmann 1980, p. 56)’”[2].

Potremmo notare, rispetto alla citazione di Franz Schurmann, che il governo Trump 2 si presenta come debole (alcuni suoi decreti sono immediatamente ostacolati dalla giustizia a e dalla stessa amministrazione americana), malevolo (colpisce esplicitamente alcuni gruppi sociali che fanno parte della popolazione) e incompetente (l’équipe di governo ha già suscitato scandalo per attitudini dilettantesche e persino rischiose sul piano della sicurezza nazionale). Ma questo rovesciamento di attitudine è altrettanto palese sul piano della politica estera: minacce di estensioni territoriali, indebolimento o tradimento delle alleanze storiche, rappresaglie commerciali per trionfare nella partita della competizione mondiale. La classe politica che si è schierata con Trump ha preso atto che non solo il “New Deal” non è più realizzabile né a livello nazionale né a livello globale (la competizione sui mercati mondiali non lo permette, a fronte, per altro, di nuovi sfidanti), ma anche la riserva di “credibilità” in una guida statunitense del mondo considerata come “vantaggiosa” per altri Stati (del Nord o del Sud) si è del tutto consumata. Il sogno americano, una volta che le istruzioni per l’uso si sono rivelate inservibili o anacronistiche, appare come una pura illusione, un’insopportabile impostura. Se questa è la situazione del paese, allora i trumpiani si dicono che il governo dentro e fuori casa si farà con la pura forza: la minaccia poliziesca o quella militare.

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Meno scienza e giornalismo, più Intelligenza Artificiale e piattaforme

Il secolo americano si aprì sullo sfacelo che il fascismo e la guerra mondiale avevano prodotto sia sulla borghesia capitalistica sia sulla popolazione dei lavoratori. A ciò si aggiungevano le tensioni non certo sopite che la rivoluzione comunista continuava a produrre nel mondo attraverso la sua portavoce principale, ossia l’Unione Sovietica. È solo in virtù di tale sfacelo, che le classi capitalistiche riconobbero l’utilità di tutta una serie di istituzioni scientifiche e giuridiche. Queste ultime potevano agire come elementi “risolutori”, sia sul piano delle politiche tra Stati (evitando nuove guerre mondiali) sia su quello delle politiche tra classi (evitando nuove rivoluzioni). Così Arrighi e Silver:

L’esperienza del New Deal non insegnò ai politici statunitensi soltanto l’importanza di un governo interventista; suggerì anche quale tipo di istituzioni governative fosse più adatto a disinnescare questioni sociali e politiche esplosive. La soluzione istituzionale preferita dal New Deal interno fu l’agenzia regolatrice “neutrale”, che reinterpreta i conflitti sociali e politici come problemi tecnici di efficienza e produttività. A livello globale, analogamente, gli Stati Uniti sostennero la proliferazione di organizzazioni regolatrici internazionali “neutrali” finalizzate ad affrontare una pletora di problemi sociali e politici potenzialmente esplosivi.[3]

Siamo alle origini, quindi, di quella che si chiama tecnocrazia, e che all’inizio del XXI secolo è diventata l’alternativa “di sinistra” all’autoritarismo populista, pronto scivolare verso il neofascismo. Fin dall’inizio – Arrighi e Silver lo ricordano – la “sinistra istituzionale”, ossia quella “responsabile” e non rivoluzionaria, è associata al nuovo patto tra capitale e lavoro istituito dal New Deal. E ancora oggi è la sinistra, negli Stati Uniti e in Europa, a difendere quel modello di sviluppo e di rapporti tra governo della società e saperi scientifici. Il problema, però, risiedeva (e risiede) a monte del sogno americano, e stava nella sua fisionomia specifica, non tanto e non solo nelle sue “istruzioni per l’uso”. Il New Deal e la tecnocrazia potevano funzionare fintantoché si applicavano alla classe operaia bianca e maschile del Nord del mondo e alle eventuali élites del Sud del mondo. La fine dell’egemonia era già inscritta nel tipo di progetto egemonico che gli Stati Uniti avevano avviato nel Dopoguerra:

Abbandonando la promessa egemonica dell’universalizzazione del sogno americano, l’élite statunitense dominante non ha fatto che ammettere che la promessa era ingannevole. Come dice [Immanuel] Wallerstein, il capitalismo mondiale, così come è attualmente organizzato, non può soddisfare simultaneamente ‘le richieste combinate del terzo mondo (relativamente poco a persona, ma per molte persone) e della classe lavoratrice occidentale (relativamente poche persone, ma molto a persona)’.[4]

A rafforzare la constatazione di Wallerstein, si è aggiunta la crisi climatica, nel momento in cui le istituzioni scientifiche sono finalmente uscite dalla condizione di pura neutralità, per reclamare delle azioni da parte della comunità internazionale. In altri termini, non soltanto il sogno americano è irrealizzabile a fronte delle diseguaglianze economiche e sociali che separano i paesi del Nord da quelli del Sud del mondo (e la considerazione del lavoro maschile rispetto a quello femminile), ma esso non è comunque ecologicamente (o climaticamente) sostenibile. Il vicolo cieco è doppio. E questa consapevolezza la dobbiamo alla prima conferenza mondiale sul clima di Ginevra del 1979, dove gli scienziati di più di cinquanta nazioni si sono trovati unanimemente d’accordo sulla necessità di prevedere e prevenire i cambiamenti climatici che dipendessero dall’attività umana e i cui effetti fossero negativi per il benessere dell’umanità. Da allora sappiamo che il sogno americano di un “consumo mondiale di massa” è impossibile, senza condurre a catastrofi che potrebbero avere una portata molto superiore a quelle della Seconda Guerra Mondiale. Ma sappiamo anche che la lotta per preservare il consumo di massa nei soli paesi del Nord del mondo, non si limiterà a perpetrare le disuguaglianze attuali, ma le aggraverà di molto. In un tale contesto, è chiaro che il negazionismo e lo scetticismo climatico sono una componente ideologica fondamentale del “dominio senza egemonia” dell’era Trump 2.

Il modello “tecnocratico”, ossia l’idea che la scienza potesse svilupparsi in modo autonomo e interagire con le decisioni politiche dei governanti, è oggi abbandonato, perché venendo meno “il sogno” universalista, vengono meno anche “le istruzioni per l’uso” (lo sviluppo dei saperi per risolvere conflitti e problemi). D’un tratto, gli stessi scienziati statunitensi realizzano che il loro modello di scienza è frutto di specifiche circostanze storiche e ideologiche. Il 31 marzo, 1900 scienziati hanno firmato un appello pubblico (Public Statement on Supporting Science for the Benefit of All Citizens – Documenti Google), volto a denunciare lo smantellamento delle istituzioni scientifiche volute dalla nuova presidenza. Scrivono:

Per oltre 80 anni, saggi investimenti da parte del governo degli Stati Uniti hanno costruito l’impresa di ricerca della nazione, rendendola invidiabile nel mondo intero. Sorprendentemente, l’amministrazione Trump sta destabilizzando questa impresa, tagliando i fondi per la ricerca, licenziando migliaia di scienziati, eliminando l’accesso pubblico ai dati scientifici e facendo pressione sui ricercatori affinché modifichino o abbandonino il loro lavoro per motivi ideologici.

Non è un caso, che gli scienziati oggi parlino di una continuità progettuale durata 80 anni, ossia risalente a quel New Deal avviato nel Dopoguerra. I licenziamenti massici di funzionari e ricercatori (siamo nell’ordine delle migliaia), assieme ai tagli sui finanziamenti delle università e delle agenzia statali, produrranno conseguenze gravi e difficilmente calcolabili, e non solo per gli Stati Uniti. Una delle agenzie più colpite è la NOAA, l’Amministrazione nazionale per l’oceano e l’atmosfera, che svolge compiti di sorveglianza climatica. La radicalità di Trump non ha precedenti. Fino a oggi, i conservatori guardavano con grande sospetto l’universo delle scienze sociali, accusato di rinunciare alla neutralità scientifica per ideali dubbi e perniciosi come l’uguaglianza sociale, la parità tra i sessi, l’interesse per le minoranze, ecc. E l’offensiva di Trump si è subito diretta contro questo settore della ricerca, attraverso la messa all’indice di circa 700 parole chiave, che sarebbero la spia dell’ideologia “woke” soggiacente ai programmi di studio. Ma nelle parole incluse nella lista oltre ad esserci “diversità”, “genere”, “trauma”, “donna”, “segregazione”, troviamo anche “cambiamento climatico”, “biais [nel senso di distorsione] implicito”, “energia pulita”, ecc. Le conseguenze riguardano anche programmi legati all’epidemiologia o al controllo delle specie invasive nell’ambiente. Per il presidente e i suoi seguaci tutta la scienza, sia quella sull’uomo sia quella sulla “natura”, va subordinata alle esigenze della sua politica estrattiva (“drill, baby, drill”). D’altra parte, egli ha già ripetuto più volte che il riscaldamento climatico è un’invenzione cinese, per rallentare nei paesi occidentali la crescita economica.

Bruno Latour, in un libro del 2017, aveva già individuato la concezione di fondo del gruppo sociale che si riconosce in Trump. In Où atterir ? Comment s’orienter en politique (Dove atterrare? Come orientarsi in politica), uscito per La Découverte, scriveva:

Per la prima volta, un movimento di grande ampiezza non pretende più di affrontare seriamente le realtà geopolitiche, ma si situa esplicitamente al di fuori di tutti i vincoli, letteralmente offshore – come i paradisi fiscali. Ciò che conta prima di tutto, è di non dover condividere con gli altri un mondo, che sappiamo non sarà mai più comune.[5]

Il neofascismo ha quindi ha che fare con due movimenti congiunti: la secessione dei ricchi, che pretendono di godersi il “fiore” del pianeta e delle risorse in esso custodite, e la negazione delle prove di realtà, che potrebbero mostrare come non soltanto questo progetto è iniquo socialmente, ma anche catastrofico sul piano ambientale. Si potrebbe pensare che un tale progetto sia alla lunga condannato, perché – salvo mettere Marte a disposizione – i ricchi di domani si troveranno seduti su un ramo ampiamente segato. In realtà, il progetto è fin dall’inizio irrealistico: una società, anche molto meno complessa della nostra, non può durare 30 giorni senza precipitare nel caos, se una eterogenea popolazione sociale fatta di giovani e meno giovani, donne e uomini, lavoratori qualificati e non qualificati, autoctoni e immigrati, miliardari e poveracci, non la manda avanti e la mantiene in piedi giornalmente, con lavoro remunerato (poco o tanto) e attività non remunerata. La secessione dei ricchi può funzionare realisticamente solo se riesce a reintrodurre un regime schiavistico non metaforico, secondo il vecchio stile coloniale. Ma ottanta anni di democrazia, seppure limitata, hanno diseducato gli spiriti, per cui non ci sono più gli schiavi di una volta: ci sono riottosi immigrati illegali, che alla fine è più semplice deportare che controllare. Le donne sono certo un altro grossissimo problema: nel corso soprattutto della seconda metà del Novecento, le quote di forza-lavoro femminile sono aumentate dappertutto, dal momento che il capitale andava in cerca di manodopera a basso costo. E questo fenomeno si è accompagnato con quello increscioso del femminismo. Insomma, è chiaro che la secessione dei ricchi rischia di essere un progetto chimerico. Nonostante tutti gli sforzi per realizzare delle perfette gated community, c’è sempre un povero che rientra dalla finestra, perché c’è da pulire il cesso, tagliare l’erba, aggiustare le telecamere di sorveglianza.

Bisogna inserire ora una terza componente per illustrare appieno il sogno neofascista che anima Trump e i suoi sostenitori: l’intelligenza artificiale. I soldi che Trump sottrae alla scienza, sospetta di fornire prove di realtà, li dirige, attraverso investimenti privati, nello sviluppo dell’Intelligenza artificiale (il piano “Stargate” prevede l’investimento di 500 miliardi di dollari nei prossimi quattro anni per realizzare le infrastrutture che supporteranno i progressi nel campo dell’IA). E ha ben ragione: se si hanno piani irrealistici e catastrofici come la secessione dei ricchi, attraverso il consumo “per pochi” dell’intero pianeta, meglio dotarsi di schiavi “affidabili”. E su questo punto, almeno, Trump conserva un’innegabile lucidità: nonostante tutti siano intenti a elucubrare sul giorno in cui lo scenario Matrix si realizzerà, il presidente conosce uno per uno gli imprenditori che tengono la macchina dalla parte del manico (OpenI, Oracle, Microsoft, ecc.). L’IA, almeno per ora, ha dei padroni certi e precisi. E un giorno robottini docili potranno pulire i cessi, tagliare il prato e aggiustare le telecamere di sorveglianza, senza che mano di povero, di lavoratore o lavoratrice non qualificata, intervenga. L’obiettivo ultimo dell’intelligenza artificiale generale forse non è un super Einstein, che mi aiuti a investire in modo più fruttuoso qualche milione di euro nel mercato azionario mondiale o un super oncologo che mi liberi genialmente da un tumore maligno, ma una super Esmeralda che gestisca con efficacia assoluta tutti i miei bisogni e capricci domestici, quelli sessuali inclusi ça va sans dire.

Disorganizzata la scienza, rimane da screditare il contropotere giornalistico dei media mainstream, che negli Stati Uniti, ricordiamolo, sono molto meno docili, prudenti e filogovernativi di molta stampa e TV europea. Anche su questo terreno Trump ha degli alleati “oggettivi”: le piattaforme e i social network che hanno aperto la strada a nuove forme di propaganda. Queste si basano su di un presupposto tipicamente populista: se i media di massa nascondono a volte delle cose, se mentono su alcune questioni (e non c’è dubbio, che sia così), allora i media di massa mentono sempre, nascondono tutto. La verità va cercata altrove, presso coloro che hanno il coraggio di gridarla e che ne sono i testimoni diretti. Qualsiasi sentore di mediazione, di articolazione discorsiva, di cautela, di pretesa neutralità e di messa a distanza del proprio oggetto d’interesse, viene percepito come la spia di una verità “debole”, poco affidabile. Più, invece, i propositi sono difesi violentemente, più sono autentici. Più l’opinione personale si esprime libera dal regime complesso della prova e dell’indagine, più essa è vicina al cuore pulsante della verità. In questo nuovo scenario, che vede prevalere l’intensità della comunicazione sull’ampiezza dell’informazione, l’estrema destra trionfa, favorita dagli algoritmi, dalla mancanza di moderazione, dall’uso spregiudicato dell’intelligenza artificiale. È la stessa Media Matters for America a confermarlo, una ONG statunitense fondata nel 2004. Uno studio recente ha sottolineato che alla propaganda più faziosa e apertamente politica, l’estrema destra ne affianca una più subdola, portata avanti da personalità che realizzano video, podcasts, trasmissioni di vario tipo in rete non apertamente politiche, ma sportive e d’intrattenimento. Esistono anche quelle orientate a sinistra, ma l’estrema destra vince in modo evidente la battaglia delle cifre. Essa raggiunge un numero molto maggiore di followers.

In questi giorni, esimi economisti si sforzano di trovare o meno una coerenza nello scontro tra Trump e il resto del mondo sui dazi doganali. Quanto alla battaglia contro la ricerca scientifica e il giornalismo, essa presenta una rara coerenza. In ogni caso, nell’era (molto traballante) del “dominio senza egemonia” la tecnocrazia e la fabbricazione del consenso sono lussi che l’impero in declino non si può più permettere. La scommessa è la secessione dei ricchi verso un pianeta solo per loro. Ma perché il piano abbia successo, bisognerebbe che i poveri si limitassero, come fanno in parte ora, a sbranarsi fra di loro o a restare a casa impauriti di perdere quel poco di terreno che si sentono ancora sotto i piedi. Non è detto, però, che questo continui ad accadere. Non è detto che i movimenti sociali di contestazione, come hanno già fatto nel corso del Novecento, non siano in grado di guastare il delirio dei nuovi fascisti.

[1] Giovanni Arrighi, Beverly J. Silver, Caos e governo del mondo, introduzione al testo di S. Mezzadra, nota al testo di A. Arrighi, Mimesis, 2024 (1999), p. 57.

[2] Idem, p. 263.

[3] Idem, p. 266.

[4] Idem, p. 278.

[5] Bruno Latour, Où atterir ? Comment s’orienter en politique, La Découverte, 2017, p. 51.

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Glossa sul “neofascismo”

Molti si lamentano dell’affievolirsi, nella cultura italiana, dello spirito antifascista che è inscritto nella nostra costituzione e che dovrebbe aver orientato il progetto di società, in Italia, nel Dopoguerra. Altri, in seguito a questa constatazione, hanno concluso che l’antifascismo è sorpassato, è una postura nostalgica o anacronistica. In principio è bene essere antifascisti, ma i problemi attuali poco c’entrano con il passato storico, con le vicende del Ventennio fascista. Quindi richiamarsi a quel fascismo, oggi, non ha vero impatto, né mobilita delle forze vive. È una strana concezione dell’antifascismo, in quanto lo vede in un’ottica fondamentalmente retrospettiva. Io non comprendo perché l’antifascismo inscritto nella nostra Costituzione democratica dovrebbe avere senso solo nei riguardi di una minaccia fascista che prendesse le stesse forme del fascismo italiano del Ventennio. Ho avuto una discussione proprio qui, su NI, con Giorgio Mascitelli intorno a questo punto. E continuo a sostenere che l’antifascismo dev’essere retrospettivo (lavoro di memoria sulla nostra storia nazionale) e prospettivo, ossia capace di guardare alle forme di regime antidemocratico, che possono emergere all’interno delle nostre democrazie incompiute e limitate, ma comunque democrazie. (Non affronto qui il discorso del rapporto tra oligarchia e democrazia. Alcune cose fondamentali sono state dette in proposito da Jacques Rancière in un libro del 2005, intitolato La haine de la démocratie (La Fabrique). Le oligarchie del Nord del mondo devono fare costantemente i conti con un progetto democratico, che s’incarna in una cultura diffusa e in una serie di lotte sociali che a quella cultura fanno riferimento e che, nello stesso tempo, ridefiniscono continuamente.)

Tornando a Trump: una spia della tendenza neofascista è quella di trasformare chi contesta la sua politica e la sua visione ideologica, in nemici dello Stato e della Nazione, nemici quindi non riconosciuti né come avversari politici né come soggetti sociali legittimi con cui giungere a qualche forma di compromesso. Il nemico è una semplice minaccia da neutralizzare in tutti i modi che la gestione del potere governativo e il monopolio della violenza rendono possibili. I limiti di questa gestione e di questo monopolio non dipendono più, in questo scenario, dalle istituzioni o dalle leggi, ma dalla semplice volontà del capo e dei suoi accoliti.

La distinzione: «alla radice del linguaggio»

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                                                                                     di Paris Bordon

Nell’affrontare una nuova opera di poesia, preferisco avvicinarla, per quanto possibile, senza mediazioni, ignorando prefazioni, postfazioni, commenti sulle fascette o sul retro della copertina: blurb. Aprendo dunque il recente volume di Gilda Policastro, intitolato La distinzione, uscito per Giulio Perrone Editore all’inizio del 2023, sono partito risolutamente dalla prima pagina del testo, occupata da una citazione del poeta francese Olivier Cadiot, posta in esergo, che recita: «Une maladie est guérissable / Un malade est inguérissable». In seguito ho cominciato a leggere i testi uno dopo l’altro, nell’ordine in cui mi si presentavano: metodo che qualcuno riterrà puerile. Quasi mai, infatti, un tale modo di procedere risulta privo di intoppi. Mano a mano che prendeva forma sotto i miei occhi l’articolazione del libro, senza ancora poterla afferrare nella sua interezza, una serie di interrogativi mi spingeva a ritornare su qualche pagina già letta, come quando si è costretti a compiere due passi indietro prima di spiccare un salto. In particolare, giunto a pagina 40, la necessità di guardarmi indietro, di ricapitolare il cammino percorso, spiazzato da un’improvvisa e (per me) faticosa incursione nella lingua inglese, ha avuto come esito quello di ricordarmi che, tutto preso dalla fretta di entrare nel vivo dell’opera, avevo scordato di fare attenzione al titolo. Grave mancanza.

Sarà che a pagina 40, superata la poesia introduttiva, intitolata Precari, che da sola compone la prima sezione (Antefatto) e oltrepassati i sei testi successivi, compresi nella sezione Sala d’attesa (vera anticamera dell’opera, che introduce uno dei temi dominanti del libro: l’ospedalizzazione), ero ormai entrato nel cuore della terza parte (i nove testi di Dispositivi), il cui tema dominante gravitava sempre intorno alla morte, alla fatalità, alla violenza e alla malattia. Sorgeva quindi spontanea, almeno per me, la domanda sulla ragione che giustificasse tali raggruppamenti, tali – appunto –  distinzioni. Il titolo non sembrava fornire molti appigli: chi/cosa si distingueva da chi o da cosa e, soprattutto, sulla base di cosa? Sotto il titolo della copertina, dopo il nome dell’autrice, una citazione dall’ultimo lapidario testo che conclude la Suite depressiva (p. 88), sembrava volermi offrire qualche indizio: «Io, forse, non sono nemmeno qui ad ascoltare». L’assenza di un soggetto? Sì, ma quale? Nei testi che avevo letto, di soggetti ce n’erano addirittura troppi, onnipresenti, ingombranti: dal soggetto femminile di Precari, che si rivolgeva alla propria madre e che sembrava saperne molto di poesia e di letteratura; da quelli di Sala d’attesa, tra cui l’eterno paziente in attesa di guarire o di morire, ricercatore compulsivo di descrizioni di malattie su internet, destinato in ogni caso a restare malato; a Giovanna, nel testo intitolato Workout (in Dispositivi), vittima della fatalità di “una tonnellata secca sul cranio”. Se si doveva parlare di assenza, dunque, in tutte queste storie di dolore, ciò che mi colpiva di più era, semmai, la loro mancanza di pathos, la loro lucida, oggettiva, a tratti grottesca, rappresentazione: come se l’io parlante non fosse il soggetto attivo della locuzione, bensì un soggetto parlato attraverso la messa a punto di vari dispositivi testuali. Un soggetto in ascolto, ma, forse, non qui, non del tutto coincidente col contenuto dell’enunciazione. L’effetto che ne derivava era la percezione di una frattura talmente netta tra corpi e linguaggio, da impedire, come ha notato acutamente Beatrice Magoga[1], «di far aderire la propria voce di lettore all’evento», introducendo «uno scarto, rispetto al testo, tale da indurre a un’osservazione critica del fenomeno». Simile intuizione era confermata immediatamente dai due testi successivi: GP(T)-3 e Poesia ASMR: il primo costruito attraverso la successione di tre “esercizi” eseguiti dall’omonimo programma di intelligenza artificiale e il secondo attraverso l’introduzione dell’altro tema portante di tutto il libro, ossia la riflessione sulla scrittura poetica.

Accanto infatti alle “serie ospedaliere” (Gite ospedaliere e Histoire d’H) oppure all’Intermezzo di Suite depressiva, si susseguono altre sezioni in cui l’attenzione dell’autrice si rivolge in misura determinante alla natura del linguaggio poetico (come in Inattualissime, testi costruiti a partire dall’«ascolto casuale in situazioni di vita sociale») e allo statuto della poesia, inteso sia come fenomeno editoriale (si veda Blurb, in Libri (anche poesie), serie di citazioni tratte dagli slogan promozionali in uso nel mercato librario), sia in riferimento al suo valore intrinseco, sentito però  in modo sempre più precario o problematico («non ci credo più alla poesia se non faccio i versi sul dolore del mondo questo angusto atomo di dolore catafratto», p. 97), eppure ostinatamente affermato, fino all’esasperazione (e basta!), nell’unica poesia (poesia e basta) dell’ultima sezione, Appendice, definita «giochino di annegamento della poesia / nei bei versi del gran mare di niente» (p. 183) e costruita attraverso una lunga enumerazione il cui principio compositivo viene dichiarato, riflessivamente, all’interno del testo stesso: «Poesie lista, cataloghi, elenchi (come questa)» (p. 184).

Questo divorzio tra la vita organico-psichica e il linguaggio approfondisce ulteriormente quella frattura di cui si è detto tra vita reale e testo. In questa distinzione tra vitalità e dimensione linguistica, si spezza il rapporto di coappartenenza dei due piani l’uno con l’altro (garanzia del senso dell’esperienza e del suo godimento) per istituire invece un nuovo rapporto esclusivamente univoco: il linguaggio riflette l’esperienza senza rinviare a quest’ultima la sua immagine, la sua rappresentazione. Dimensione sadica del linguaggio che enuncia ciò che accade in una forma opaca, amorfa e, paradossalmente, indifferenziata, sempre narcisisticamente frustrata. Nel turbinare delle voci che si accavallano, si scambiano le parti, in una parola, nella fredda ilarità dell’enunciazione, i corpi precipitano nell’astenia, nell’orrore del cibo, sono abitati dalla depressione, che non è solo «un diritto / che ti conquistavi con la sfiga materiale» quando «non ti alzavi dal letto» (p. 75), ma una condizione permanente e pervasiva. Il loro luogo emblematico diventa, di conseguenza, l’ospedale, dove si assiste a una continua messa in scena pornografica della malattia: dalle immagini grottesche dei corpi esposti allo sguardo («Te spogliano, te tolgono le scarpe, manco ar bagno te fanno anda’», p. 63), o nutriti a forza («Possiamo per cortesia interrompere? Forza ingoi», p. 155), fino alla loro equiparazione a cose morte («Pazienti, a letto, come pennarelli nelle bustine: se non li estrai stanno», p. 62). Indicativa della studiatissima articolazione del libro è la sezione Bravure, posta, non a caso, in posizione centrale: cinque virtuosistiche prose che effettuano una ricognizione di ognuno dei cinque sensi nel loro rapporto col mondo. La disforia della percezione («non ti ho capito ripeti devi ripetere non ho sentito», p. 91; «pensavamo a cosa mangiare ma non c’era niente», p. 93; «nei nostri rifugi sporchi che puzzano», p. 96; «Sono belle le case di chi non abita le case di lusso», p. 99) si scontra (si distingue) con l’euforia pettegola, onnipervasiva e sintatticamente sregolata del linguaggio; come nell’ultima prosa in cui il titolo Con-Tatto culmina in un incidente mortale: «sfortunato è stato molto sfortunato contro un palo andava piano era uno scooter proprio sfortuna» (p. 102).

La vera malattia, dunque, quella da cui non si guarisce, che rende il malato inguaribile, che non è più solo «il passatempo dei sani» (p. 148), non consiste tanto nell’affezione di un corpo (come spiegare altrimenti i fenomeni depressivi?) o nelle cosiddette “passioni dell’animo”, ma nel suo rapporto col linguaggio. Ne deriva che, per andare alla radice della malattia, bisogna andare prima di tutto alla radice del linguaggio. Non tanto per curare (il passatempo dei sani non sembra essere tra le priorità del libro), quanto per capire: e solo la letteratura (e in particolare la poesia) è in grado di sondare la frontiera sempre mutevole tra corpo e parola. Se in un’estetica che, per semplicità, potremmo definire tradizionale o classicista, la coincidenza tra veste linguistica e suo contenuto definiva il carattere del “poetico”, La distinzione sposta, distingue, divarica ancora di più di quanto già non accadesse, questi due termini. La poeticità, che siamo ancora abituati a considerare intrinseca a un testo, nonché l’unica prospettiva da cui dipende il suo valore artistico, diventa ubiqua: il linguaggio, sottraendosi alla rappresentazione del senso di un fenomeno (alla sua dimensione spirituale, per usare i termini dell’idealismo) e non rinviando più che a se stesso, resta prigioniero della contraddizione tra il proprio silenzio, tra la propria separatezza e autonomia e la propria in-distinzione, il proprio restare comunque sulla bocca di tutti. Paradosso che rimanda a quanto già notato da Platone nel Fedro a proposito della scrittura, e che il filosofo Jacques Rancière ha individuato come l’elemento più proprio, ma contraddittorio e inafferrabile, della letteratura moderna; elemento che, tra l’altro, va di pari passo col «principio stesso di un ordine politico, quello della democrazia» (Rancière, La parole muette, p. 85).

A questo punto torniamo brevemente alla terza sezione del libro, intitolata Dispositivi. Una nota dell’autrice a conclusione del volume ci spiega che SwiftKey, il testo su cui si era arrestata la mia prima lettura, «è un esempio di scrittura automatica personalizzata che prende il nome dalla tastiera virtuale per Android e iOS». Di GP(T)-3 abbiamo già detto, ma vale la pena aggiungere (traendolo sempre dalla nota) che «al momento il GPT-3 scrive le poesie che scriverebbe un bambino di undici anni». Ma si può individuare una prossimità anche tra quest’ultima sezione, così ben caratterizzata a livello tecnico-sperimentale, e le altre che compongono il libro. Vi è infatti, tra i testi in cui il poeta cede in parte o interamente la propria autonomia e gli altri, una sorta di affinità di base a livello compositivo. Il modo di procedere di un sistema informatico, dopotutto, funziona per ricerca, prelievo di dati e loro disposizione secondo logiche che possono essere di volta in volta predeterminate. Molti dei testi de La distinzione (pensiamo alle sezioni Inattualissime, Libri (anche poesie), così come al montaggio in forma di elenco dell’ultima poesia (poesia e basta), si caratterizzano per un uso spiccato del montaggio di materiali eterogenei, in molti casi prelevati di peso dalla realtà e ospitati sulla pagina. Da ciò, appunto, quella dizione straniata, artificiale, quella voce doppia o “distinta” di cui si parlava: oralità spettrale, come il suono di una nota passata al sintetizzatore, più che recupero di un’originaria vitalità organica dell’orale. Il ricorso a tali tecniche, che a qualcuno potrebbe apparire gratuito o nient’affatto poetico, in realtà non è privo di legittimità, poiché permette di ipotizzare un ulteriore (auspicabile?) sviluppo a cui la scrittura poetica contemporanea sembra essere destinata, per una sorta di fatale attrazione derivante dalla propria natura, ossia dal progressivo allargamento di quella “distinzione” che abbiamo visto operante nel libro di Gilda Policastro.

Quando la macchina, i dispositivi si saranno sostituiti al soggetto poetico umano, sempre più sofferente per la mancata corrispondenza tra il linguaggio e la propria sensibilità, non si sarà in fondo realizzato definitivamente quel processo di liberazione del linguaggio dall’uomo e dell’uomo dal linguaggio che solo ora può apparirci, nella sua piena luce, come il compimento necessario di tutta la letteratura moderna? Letteratura che, fin dalle origini, testimoniava, nella tragica sorte dei suoi primi “martiri” (dalle ultime, imbambolate, poesie di Hölderlin, alle imprecazioni afasiche di Baudelaire sul letto di morte, allo spasmo di glottide di Mallarmé, al silenzio di Rimbaud) questa vocazione al progressivo ammutolire dell’umano. E allora, forse, non ci sarà davvero più nessuno ad ascoltare.

[1]Si veda la tesi di laurea (inedita) di B. Magoga, La poesia, la performatività e l’evento. Un’ipotesi teorico-critica sulla poesia italiana degli ultimi anni, Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica dell’Università di Bologna, p. 79.

Manuel Perrone – La casa

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La Casa

Un giorno, davanti a casa mia, hanno costruito una casa.

Non penso avessero il diritto.

Non cosi.

Penso, anzi sono sicuro che ogni casa debba rispettare una certa distanza dall’altra.

E chiaramente questa regola spetta rispettarla alla nuova casa, non certo alla vecchia.

Non dico questo perché credo che chi arriva primo ha sempre ragione, sarebbe ingiusto tacciare la mia riflessione di immobilismo – anche se è una questione qui puramente immobiliare- o di esagerato rispetto dell’antico, penso, anzi sono sicuro, che una casa che è già li non può spostarsi solo perché ne arriva una nuova. Non può spostarsi, semplicemente, perché casa.

Anche la nuova casa, siamo d’accordo, non si può spostare, proprio perché casa, ma è quindi intera responsabilità di chi la progetta, la casa, di chi la costruisce, di stare attenti alle distanza dagli altri.

Il problema con questa nuova casa è che è un prefabbricato. Un modello svedese, ed è arrivata qui già fatta. Quindi l’architetto, dal nome esotico che sicuramente nella sua lingua vuol dir poco più che ingegnere, è all’oscuro di tutto, lontano, e soprattutto preoccupato da altro, non certo dalle distanze di questi suoi prefabbricati, che come figli illegittimi, vengono su un po’ ovunque, ben al di là del suo controllo o del suo volere.

Anche per i costruttori vedi come sopra: operai sudcoreani (cosi ci hanno promesso ribadendo il veto delle nazioni unite a adoperare manovalanze del nord della corea, pena sanzioni) hanno assemblato quel modello di casa svedese in un hangar molto lontano da dove poi, impunemente, senza rispettare le giuste distanze, è stata poi installata.

Ma qui viene il grosso del problema. Perché se non si può dare la colpa all’architetto, perché svedese e ignaro, al capomastro e i suoi operai, perché coreani e ignoti, non restano che i trasportatori.

Trasportatori che giustamente – giustamente per loro ma comunque con una certa logica oggettiva- rispondono che loro mica sono architetti e che un indirizzo è un indirizzo che la consegna è fatta e arrivederci al secchio. E op. Scomparsi anche loro. Non perché portoghesi ma perché trasportatori: si sono trasportati altrove.

E da li, l’increscioso evento è ricaduto tutto sulle spalle mie e del mio nuovo vicino. Più mie che sue le spalle perché casa sua, la nuova, la rea, affaccia comunque sulla strada, da dove una porta, prefabbricata in corea su un disegno svedese e consegnata con fermo pugno portoghese, permette la cosa più consona a una casa : entrare e uscire.

Mi si può contestare che una casa è anche un sentimento, quel nido mentale in cui riposarsi dalle malvagità del mondo fuori, che casa è concetto, e come concetto è un dentro : non un fuori e dentro.

È vero. Però come con tutto, se togli una parte anche il resto traballa. Non posso dire che abbiano cambiato la mia casa ma si che hanno modificato il resto, la sua relazione con il mondo. La sua e la mia. Perché la mia porta, che adesso apre su un muro di compensato di abete siberiano – importato in corea via il mar baltico, su disegno scandinavo e riportato da un lusofono tir – non solo non è più porta, ma non è più mia.

Dicevo le nostre spalle, mie e del mio nuovo vicino, perché in un primo tempo la situazione è stata anche in parte condivisa da entrambi.

Il vantaggio di queste case è che hanno pareti poco insonorizzate. Vantaggio non assoluto – forse un compromesso tra un sogno scandinavo e il materialismo sudcoreano- per l’evidente scomodità in casi normali, ma vantaggio per noi, o per me, perché ho potuto far parte della mia perplessità, e della mia cattività, al vicino. Perplessità – e non cattività- che ho condiviso attraverso la porta, che in questa situazione funziona come un telefono senza fili: si apre e si parla, e l’altro, dietro il compensato premeditato in fabbrica, sente e risponde.  Basta non chiuderla e una discussione può avere una durata indefinita senza costi aggiuntivi.

Il vicino ha preso a cuore la mia incapacità a uscire di casa. Devo dire che con impegno ha rimontato tutta la filiera. A mia sorpresa l’ho sentito, al telefono, litigare in un ottimo portoghese con i trasportatori, inveire in un fluido sudcoreano con – immagino- il direttore della pre-fabbrica e insinuare rappresaglie in uno svedese che tradiva, se non delle origini, almeno una padronanza da lingua imparata in tenera età.

Insinuare in svedese, mi ha anche spiegato, è il massimo che si può fare per dimostrare il proprio disappunto.

Il problema è, abbiamo capito in seguito, quando era troppo tardi, che la responsabilità ricade, non sulla casa, ma su chi vive nella casa.

Una casa – sia ribadito qui anche se a priori sembra un’ovvietà senza conseguenze- in quanto immobile non ha responsabilità sui propri movimenti.

Neanche chi ci vive, potrete ribattere, e cosi ha fatto il mio vicino.

Solo che esiste una legge che definisce che ogni essere umano ha diritto a un cerchio ipotetico di almeno un metro e mezzo di diametro, dal suo baricentro, in cui nessuno ha il diritto di entrare, se lui non lo vuole.

Non potendo controllare il mio vicino tutto il tempo che passa in casa sua, e, avendo stabilito che io non posso più allontanarmi da casa mia, la legge ha stabilito che lui, e non la casa, doveva essere allontanato. È stato quindi sfrattato.

Tutto è bene quel che finisce bene, dirà qualcuno. Ma non certo io, perché da quando se ne è andato, tolto il fatto che sono stato privato del mio unico interlocutore, casa sua resta comunque tra me e il mondo. E, per giunta, è vuota.

Per questo mi permetto di scrivere a lei. Lo so che la nostra relazione non è delle migliori. E so anche che ha tutte le ragioni. Da quando io, cioè casa mia, siamo venuti a istallarci proprio sul suo selciato, lei non ha più potuto avere un accesso al patrimonio pubblico, cioè al fuori, al resto, oltre alla sua porzione privata di mondo. So anche che non è stato bello da parte mia costruire un muro in fondo al mio salotto per evitare di continuare a sentir le sue lamentele. Ma cosa ci vuol fare ? Non ero pronto.

Questa storia, a modo suo, mi ha educato.

Non lo dico con falsi sentimenti e mi scuso già se in questo mio “mea culpa” lei possa – a ragione- vedere un opportunismo. Ha ragione. Ma vedrà, che nell’aiuto che le chiedo, esiste già una punizione al mio comportamento.

Le chiederei gentilmente di denunciarmi alle autorità. Mi descriva come qualcuno di invadente. Qualcuno che non ha una vita propria: sempre in casa, ingombrante, immobile.

Dica che lei, cosi, non ce la fa proprio più.

Anche se ho paura che nel nostro caso l’incidente sia forse caduto in prescrizione, spero che cosi facendo vengano a sfrattarmi, quanto prima.

Non ho pagato il parcheggio da 7 anni ormai e vorrei almeno controllare che l’auto sia ancora li. Poi non potrò tornare e forse la casa mi mancherà, ma è un rischio che oggi sento che devo prendere.

Se non per me, per l’auto.

Le prometto che non le chiederò altro. E da li, almeno le nostre vite, se non le nostre case, si separeranno.

Illustrazione di Ettore Tripodi

 

 

STAFFETTA PARTIGIANA gli esiti del concorso

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di Redazione

Come molte lettrici e lettori sapranno, Nazione Indiana ha deciso di onorare l’ottantesimo anniversario della Liberazione italiana dal nazifascismo con un concorso per testi inediti. Un concorso rivolto agli under 35 perché (citiamo dalla nostra call di autunno) “pensiamo sia importante un passaggio del testimone, che quindi una nuova generazione di italiane e italiani assuma il compito di ricordare e raccontare la Resistenza“.

A fine gennaio abbiamo ricevuto i racconti, e ringraziamo tutti per i contributi inviati. In questi tempi bui, in quest’onda autoritaria, essere controcorrente non è una cosa scontata e raccogliere il testimone di valori e storie è sempre più importante e significativo.

I testi ricevuti condividono un pregio non irrilevante, una volontà civile di raccontare quelle storie di antifascismo che, di per sé, va premiata e merita il nostro ringraziamento. Ma il nostro è pur sempre un concorso. Quindi abbiamo valutato i testi dividendoci in due giurie, e ne abbiamo selezionati 12 che ci sono sembrati i più meritevoli di pubblicazione su Nazione Indiana. In realtà 11 testi + uno: c’è una menzione speciale a un’autrice (Alice Ghinzani, 2010), una ragazza che ci ha colpiti per la sua giovane età e che abbiamo voluto premiare.

E così anche Nazione Indiana ha un concorso letterario e una… dozzina. Ci voleva l’ottantesimo della Liberazione per spingerci a tanto.

Le giurie (composte da: Mariasole Ariot, Gianni Biondillo, Silvia Contarini, Francesco Forlani, Lisa Ginzburg, Andrea Inglese, Renata Morresi, Davide Orecchio, Orsola Puecher, Ornella Tajani) si sono poi unite e hanno individuato il racconto vincitore: Sotto la terra di Claudia De Angelis. Il testo si ispira alla storia di un borgo tra Terra di Lavoro e Ciociaria, San Pietro Infine. I suoi abitanti, nel dicembre 1943, cercarono scampo dai bombardamenti nelle grotte della valle. Lo pubblicheremo il 25 aprile.

Ecco l’elenco dei vincitori con il calendario di pubblicazione sul sito.

  • 14 aprile
    Jenide Russo (Alice Ghinzani, 2010)
  • 15 aprile
    La staffetta (Federica Grasso, 2000)
  • 16 aprile
    Il canto (Sean Ashmore, 1993)
  • 17 aprile
    Nascondino (Nicola Maria Fioni, 1996)
  • 18 aprile
    Nun si parti (Sofia Rigoli, 2003)
  • 19 aprile
    Galline di Montagna (Rodolfo Sgro, 1994)
  • 20 aprile
    Vattinne (Giorgia Giuliano, 1994)
  • 21 aprile
    Nebbia di guerra (Chiara Cassaghi, 1998)
  • 22 aprile
    Io sottoscritto Parmigiano racconto e rinvengo il mio operato (Alessandro Tesetti, 2000)
  • 23 aprile
    Il brutto male (Camilla Pasinetti, 1994)
  • 24 aprile
    Nelle retrovie (Linda Farata, 1994)
  • 25 aprile
    Sotto la terra (Claudia De Angelis, 1992)

“Racconti vincitori”… ma dovremmo usare il femminile prevalente. Dovremmo parlare di “vincitrici”, visto che in 8 casi su 12 si tratta di autrici. Nel nostro concorso, insomma, c’è stata una piccola Resistenza delle donne, anzi delle ragazze, ed è forse un elemento virtuoso in più entro un’iniziativa che è sì culturale e letteraria, ma è soprattutto civile e politica.

Un aspetto comune ai testi ricevuti – che li abbiano scritti donne o uomini – è che pressoché nessuno (a parte qualche eccezione) ha scelto di mostrare la guerra vera e propria, né la violenza resistenziale. Ci sarà da riflettere su questo dato più esistenziale che estetico. La guerra resta sullo sfondo. Si incarna in un fratello, o in un padre, o in un figlio che combatte al fronte o in montagna, o che è già morto. In un’assenza. I fascisti e i nazisti ci sono, certo, eccome se ci sono, con le loro torture, con i loro rastrellamenti e i lager. Ma il racconto del combatterli (o del resistere nel sopravvivere, nel durare più che nel fare la guerra) predilige i sotterfugi, le astuzie e le manovre clandestine. E poi l’attesa ctonia in grotte e nascondigli.

Che sia un sintomo del nostro tempo, a suo modo attonito e impotente, più che del tempo che ci liberò ottant’anni fa? Avremo modo di tornarci sopra e rifletterci ancora.

Buone letture e buon anniversario della Liberazione.

Xun, Simone Pollo e l’Accademia come pratica reazionaria

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di Giorgiomaria Cornelio

«Vorrei dire qualche parola sull’invenzione del finto filosofo Xun e del libro “Ipnocrazia”, scritto con l’intelligenza artificiale dal tlonista Andrea Colamedici e pubblicato dalla casa editrice Tlon. La vicenda è ormai ampiamente nota e, pertanto, non è il caso di riassumerla neppure a grandi linee; vado quindi diritto al punto: si tratta di un’operazione intellettualmente misera e moralmente deplorevole» scrive oggi Simone Pollo in un post pubblico, dove attraversa la vicenda di Xun. Ogni volta è molto utile leggere il professore Simone Pollo perché ci dimostra quanto ancora reazionaria sia una parte dell’accademia nell’affrontare processi come Xun; reazionaria ed esclusivamente reattiva (cioè capace solo di reagire, senza immettere forze generative). E ancora: difensiva dei propri confini, delle proprie trincee, paternalista proprio nell’individuare in ogni progetto il vettore della morale e non della potenza, del possibile che spalanca (anche e soprattutto quando decide di attraversare l’ambiguo – di abitare “l’inganno”, per trasformarlo in urto di riflessione, in “scottatura”). I difensori della verità hanno i propri contesti – e sono chiari, univoci, non mischiati con l’impuro; non è un caso che Pollo arrivi a scrivere: «l’antidoto è difendere i contesti e i modi di pensiero che fiducia e veridicità li praticano davvero». Non importa se poi l’IA sia tacitamente usata in moltissimi paper, come dimostrato in diversi approfondimenti;  ciò che conta è la professione di purezza: difendere e difendersi, appunto.

 

Esiste però un dibattito universitario avventuroso, come quello esplorato recentemente da La Rivista di Engramma sulla questione del  copyleft e copyright, del plagio e del furto come pratica anche di conoscenza, disseminazione e di “performance” accademica:”Copyleft & internauti pirati”. Dibattito, questo, che qualche mese fa affrontammo proprio con Pollo, il quale era chiaramente critico di questo approccio. E anzi si trovò a scrivere: «riconoscere l’autorialità delle opinioni e delle idee è una garanzia della veridicità e della sincerità di quelle stesse opinioni e idee. […] Alla fine torniamo sempre a quello che mi sembra il tema centrale del nostro tempo: dobbiamo superare l’Illuminismo o possiamo ancora dirci illuministi? Ecco, per quanto mi riguarda, non solo possiamo dirci ancora illuministi, ma dobbiamo con tutte le nostre forze».

A tal proposito, qualche giorno fa, allo IED Roma, durante la presentazione del collettivo Xun, ci è stata posta una domanda molto interessante: che posto vacante occupa oggi Xun nella filosofia? Ho provato a rispondere così: dopo secoli di convinzioni illuministiche, di rapporti tra filosofia e trasparenza della realtà, e dopo la decostruzione di questo paradigma negli ultimi decenni, Xun finalmente ci dice che la genealogia di oggi è la stessa dell’uomo-mago, di colui che opera sulla realtà manipolandola con i propri vincoli, creando narrazioni formidabili (e terribili) che inverano il proprio tragitto. Per questo, invece che rifiutare i fantasmi, dobbiamo imparare a riconoscerli e manipolarli, in direzione però di un’altra ecologia del dibattito.

Forse il posto vacante del mago è stato sempre segretamente “vegliato”, e oggi riemerge, esattamente come nel finale della Rosa di Paracelso di Borges: “e la rosa risorse”.

 

Una richiesta di aiuto

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di Massimo Parizzi

Su Nei dintorni di Franco Fortini, di Ennio Abate, Milano, Edizioni Punto Rosso, 2025, euro 24

È un libro estremamente ricco, anche troppo, eccesso che mi sembra in parte dovuto alla tendenza di Abate, a volte, a dissezionare i problemi, porli e affrontarli punto per punto (si trovano spesso, in queste pagine, argomentazioni per punti, divisioni in categorie ecc.) Questo, ovviamente, non è un male in sé, ma in qualche caso può indurre a non cogliere il nodo, quello che conta, e ostacola l’intuizione, l’illuminazione, il colpo, come si dice, d’ala, che è quanto mi attrasse in Fortini nei lontani ultimi anni Sessanta e, pur con riserve crescenti nel corso del tempo, me l’ha sempre fatto amare. Inoltre, dall’accumularsi e succedersi di temi e figure della cultura e della politica dell’ultimo mezzo secolo e oltre i lettori, temo, possono rischiare di sentirsi frastornati, specie se, com’è ormai per la maggior parte, non hanno personalmente vissuto il periodo di lotte studentesche e operaie che va sotto il nome di Sessantotto. Non che in questo libro si parli unicamente di quegli anni, anzi: se il Sessantotto è un punto di riferimento sempre presente, il lungo rapporto di Ennio Abate con la figura e l’opera di Franco Fortini, di cui si trova qui, come scrive nell’introduzione lo stesso Abate, un «resoconto», inizia un decennio dopo, nel 1978, da una richiesta d’aiuto. Un gruppo di amici-compagni di Cologno Monzese, fra cui Abate, decide di pubblicare una rivista politico-culturale e scrive a Fortini chiedendo indicazioni, consigli. Lui risponde giudicando «assolutamente necessario» il progetto e offrendo i suoi consigli su di che cosa, come e per chi scrivere.

Queste pagine e quelle che le precedono e seguono sotto il titolo «Un filo tra Milano e Cologno Monzese» (pp. 9-34) coprono un periodo che dal 1967 arriva al 1994, l’anno della morte di Fortini, e sono a mio parere, se non le più interessanti del libro, le più intense: hanno al centro le attività, i progetti, i problemi, le speranze, le sconfitte, le delusioni di quegli anni, e ne vibrano. Ma temi e problemi politici e culturali tuttora di grande rilievo per chiunque ritenga indispensabile cercare una via d’uscita da quello che si deve continuare a chiamare capitalismo e dalla rovina cui esso conduce l’essere umano, almeno nella visione «alta» che ne hanno Abate e Fortini (e anch’io), temi e problemi del genere percorrono tutto il libro e informano la maniera di Abate di guardare a Fortini, che non è quella dello studioso, bensì del militante politico e culturale. Questo è per me il pregio maggiore di questo libro, che non è una biografia (anche se non manca di parlare, oltre che del Fortini intellettuale, saggista e poeta, del Fortini insegnante, marito e padre), e non è uno studio sull’opera di Fortini (anche se vi si trovano molte osservazioni sulla sua opera saggistica; meno, invece, su quella poetica). Si potrebbe quasi chiamare «una richiesta d’aiuto», cioè di ricerca nell’opera di Fortini di indicazioni, prima per combattere una battaglia politico-culturale, poi, nel «vuoto lasciato dalla sconfitta delle speranze di libertà riapparse nel ‘68-’69» (p. 7), per resistere e proteggere «le nostre verità», espressione fortiniana che ricorre frequentemente in queste pagine.

Ma, oltre al capitolo «Un filo tra Milano e Cologno Monzese», di pagine di grande interesse se ne trovano parecchie anche altrove. Mi limito a segnalare quelle che, a una prima lettura, mi hanno più colpito. Fra di esse c’è un capitolo datato 1996 su Fortini traduttore che, per il tema, potrebbe sembrare per specialisti, ma non lo è affatto. Consiglio, per rendersi conto di come vi si trovino osservazioni acute e d’interesse anche politico, di leggere «La traduzione del Faust» (pp. 40-42), in cui Abate osserva che Fortini «legge l’opera di Goethe come allegoria o “anticipazione e profezia” della nostra condizione contemporanea, che è una sorta di “paesaggio con rovine”, in cui convivono gradi diversi di autenticità e di vita, di forme cristallizzate e fluide, di esseri semivivi e semiferini, di idoli, di apparenze umane e inumane» (p. 40). Interessanti sono però tutte le pagine sul Fortini traduttore, in particolare quelle su Fortini e Benjamin (pp. 42-45). Ma si leggano anche le pagine in cui Fortini, muovendo osservazioni critiche ad alcune poesie di Abate (che, nel pubblicarle, dà prova fra l’altro di un’onestà intellettuale non comune), parla di «quel di più che l’a capo di solito dà in poesia» (p. 29).

Quella che ho chiamato «una richiesta d’aiuto» finisce tuttavia spesso, a partire dalla morte nel 1994 di Fortini, per rovesciarsi in quella che si potrebbe chiamare «un’offerta d’aiuto». Come se Abate avesse iniziato sempre più a sentire il dovere di aiutarlo lui, Fortini, contro quelli che gli sono sembrati l’oblio e la distorsione della sua figura e opera. E queste sono le pagine che, per varie ragioni, ho apprezzato meno. Ne sono un esempio un testo del 1996 (pp. 35-39), in cui vengono presi in esame interventi in morte di Fortini apparsi su vari quotidiani. Sono di una decina di intellettuali che Abate distingue in categorie «mettendo agli estremi le posizioni più contrapposte», quelle di Rossana Rossanda e Cesare Garboli. A leggerne il resoconto, non si salva nessuno, tranne, in parte, Rossanda (la quale, tuttavia, «ha dovuto giocare di cesello»). A me è parso che qui Abate, anziché il «cesello», abbia usato la scure, esibendo lo spirito polemico che, chi lo conosce bene, conosce bene. Quei dieci intellettuali, accusati di «cinismi, saccenteria, diplomatismi e animosità», finiscono tutti per sembrare, nel suo resoconto, nient’altro che lacché della «cultura massmediale italiana», complici in un complotto inteso a neutralizzare il Fortini comunista. «Eccezionale per cinismo e sufficienza» è giudicato l’articolo di Garboli. L’ho riletto: inizia dicendo «oggi, 28 novembre», il giorno della morte di Fortini, «è un giorno di dolore», e prosegue esponendo le opinioni di Garboli su Fortini, opinioni che si possono condividere o meno, ma non mi sembrano testimoniare «cinismo e sufficienza». A mio parere, avrebbero meritato un giudizio meno frettoloso e tranchant.

Ma anche altri capitoli mi hanno poco convinto. Uno, del 2017, è «La Cina di Mao e Solženicyn» (pp. 145-150), risposta di Abate a un post in cui Roberto Buffagni aveva accusato Fortini di essere stato, riguardo alla Cina e a Mao, un «credulone». Lo fu? No, dice Abate. E risponde a Buffagni punto per punto, ma mancando a mio parere, per la tendenza a dissezionare i problemi, come dicevo all’inizio, e anche, credo, per il desiderio troppo dominante di difendere Fortini, di cogliere e affrontare il nodo della questione. Che, secondo me, sta nell’affermazione di Buffagni secondo cui «il celeberrimo fine superiore di riscatto dell’umanità eccetera, è sbagliato». A questo «fine superiore» Fortini credeva (come vi crede Abate e vi credo anch’io) e, se fu un «credulone», lo fu su questo, non sulla Cina: sapeva benissimo quello che vi succedeva. Se sulla Cina e Mao prese degli «abbagli» (la parola è di Buffagni), fu perché rifiutava di credere che nella storia tutto dovesse sempre ripetersi, perché cercava di «strapparsi … alla ruota del sempre identico», parole che Fortini scrisse su «il manifesto» il 10 settembre 1976, il giorno dopo la morte di Mao, commemorandolo. Chi invece crede che la storia sia condannata a ripetersi non rischia, certo, di essere un «credulone», ma rischia, nel migliore dei casi, un blando progressismo e, nel peggiore, il nichilismo.

Ma, oltre a quelli citati all’inizio, meritano di essere segnalati per il loro interesse anche altri capitoli, tutti datati 2004. Uno è «La guerra, la pace» (pp. 123-126), in cui Abate ricostruisce il percorso di Fortini a partire dal suo richiamo alle armi nel 1941 e mostra bene come la guerra abbia costituito per lui un momento di svolta assoluto: «È solo con l’esperienza del servizio militare, l’incontro con i contadini italiani vestiti da soldati, da fanti, che ho cominciato a capire qualcosa» disse Fortini nel 1988 in un’intervista citata da Abate. A questo capitolo segue quello intitolato «Sulla “compresenza conflittuale di storia e trascendenza” in Fortini» (pp. 126-127), un tema chiave. Qui Abate cita le opinioni al riguardo di Sebastiano Timpanaro, Michele Ranchetti e Rossana Rossanda, giungendo, dopo diverse stimolanti osservazioni, alla giusta conclusione che Fortini, «con la sua inquietudine mai conciliata, la sua realistica attenzione alla storia e la capacità di tenere assieme le radicalità di due tradizioni (la cristiana e la marxiana), non ha mai sottovalutato l’aspetto tragico della lotta tra le classi, ricordando testardamente a illusi e pentiti che “il socialismo non è inevitabile”». Di grande interesse è anche il capitolo immediatamente successivo: «La guerra nel tempo della pace: Fortini e il Vietnam» (pp. 127-129), in cui Abate cita, fra l’altro, un’intervista di Fortini a «La stampa» del 13 settembre 1991, tre anni prima della sua morte quindi, in cui si legge: «È caduta l’altra grande ipotesi antimperialista: quella di un accerchiamento delle città da parte delle campagne, dei paesi sviluppati da parte dei sottosviluppati. È venuto meno, cioè, il mito della Cina. I sottosviluppati si sono trasformati anch’essi in consumatori. Il grado di unificazione del mercato mondiale è incomparabilmente superiore a quello che prevedevamo». Come aveva, purtroppo, ragione!

Conclusione: nonostante le critiche che gli si possono muovere, e che gli ho mosso, Nei dintorni di Franco Fortini è un libro pregevole per diverse ragioni. Una, naturalmente, è che offre un’immagine ricca, sfaccettata e viva dell’opera e della figura di Fortini, che è stato un punto di riferimento per molti che nel Partito comunista italiano e tanto più, dopo, nei suoi discendenti, un punto di riferimento non l’hanno mai trovato, e che meriterebbe di essere letto e meditato dalle generazioni più giovani, al che questo libro può contribuire. Ma è pregevole anche, oltre che per l’interesse di molte delle sue pagine, quale frutto e testimonianza dell’impegno di Abate nel confronto con Fortini, un impegno intenso e ininterrotto. D’altronde, per la sua capacità di impegno e di iniziativa come poeta, pittore, promotore di riviste e blog, polemista, intellettuale, Abate l’ho sempre ammirato e sempre, lo confesso, invidiato.

Dona katta venia

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La Pietà di Tiziano
La Pietà di Tiziano
Andrea Gabrieli [1533 ca.-1585]
Concerti, libro 1 No. 2, Eructavit cor meum a 6
CONCERTO PALATINO Bruce Dickey
Ex tenebris ad lucem Venezia, musica in tempo di peste


di Greta Bienati

In Venezia la peste era entrata più di un anno prima, il venticinque di giugno del millecinquecento e settantacinque, con tanto di nome e cognome. A portarcela, era stato tale Matteo Farcinatore, venuto giù dalla Valsugana colla moglie Lucia Cadorina e i due figli, per andare a trovare Vincenzo Franceschi, che aveva casa in campo san Marziale.
Il morbo doveva essere corso alla fiera di san Giovanni, su a Trento, e adesso arrivava in città, con l’aria di un dispetto maligno, quasi una vendetta, dopo tutte le rapine che la Serenissima aveva fatto ai montanari. Da secoli, le teste e le braccia migliori lasciavano le valli, per correre in laguna, nella città ricoperta d’oro. Ma, soprattutto, dal Cadore venivano le migliaia e migliaia di abeti, una foresta intera, che le teste malate dei veneziani avevano messo sott’acqua per tener su le loro case. Perché solo una testa malata poteva aver avuto l’idea di mettere a gambe in aria l’ordine fatto da Nostro Signore, mettendo i boschi sotto il mare.
Nascosti sotto i canali, gli abeti si ostinavano a colorar di verde l’acqua, per far vedere che loro, a tanta umana follia, proprio non riuscivano a rassegnarsi. E chissà come gongolavano adesso, al pensiero che, proprio dal loro Cadore, veniva la tale Lucia con indosso la peste, che rischiava di spazzar via tutto quello che era appoggiato sopra le loro teste.
Dalla fiera di Trento, Matteo Farcinatore si era portato dietro anche un valigiotto di drappi, che pensò bene di vendere appena cadde malato, per pagar le cure del dottore. Cure o non cure, morì il due di luglio e lo seppellirono come fosse un morto uguale a tutti gli altri.
Invece, in capo a tre giorni, nella medesima casa ecco che muoiono anche tre donne. E diventa chiaro che di peste si tratta.
La voce corse d’un momento e subito vennero gli ufficiali di sanità a inchiodare con due assi in croce la porta della casa in campo san Marziale. Ma fu come chiudere il recinto a buoi già scappati: i drappi della fiera erano già corsi per mezza città, e in mezza città si erano portati con sé il morbo, tanto veloci da non riuscire a star loro dietro.
A completare il danno, vennero da Padova due gran dottori, il Mercuriale e il Capodivacca. Esaminarono di fino i malati, e dissero che no, quella non era peste, garantito sul loro nome. Poi tornarono di corsa a Padova a fare i luminari, lasciando Venezia in balia del contagio.
Anche senza il benestare dei cattedratici padovani, i signori si misero svelti a riempire i bauli, per spostarsi nelle ville in terraferma. Ma tornarono a disfarli da capo appena arrivò la notizia che le strade erano tutte bloccate dai villici, pronti a tener lontana la peste serenissima a colpi di roncole e falcioni.
Più rapida di un brigantino, la notizia dell’epidemia volò per la pianura del Po e per l’Italia intera. E tutti, di concerto, chiusero i commerci con Venezia e vietarono l’ingresso ai suoi viaggiatori.
Serrata tra i suoi canali, isolata dalla sua laguna, la città d’oro diventò tutt’a un tratto un borgo di fantasmi. Chiuse le botteghe, vuote le piazze, deserte le vie. Tutti prigionieri in casa, impediti a uscire dalle porte inchiodate dagli ufficiali di sanità oppure, più semplicemente, dal terrore. Per strada, solo qualche raro medico, con il cuore di leone e la faccia nascosta dalla maschera da corvo, affidato anima e corpo alla spugna imbevuta di aceto e succhi di erbe infilata nel becco. Nessun sacerdote, perché la peste è più forte della fede, e nemmeno cani e gatti, sterminati perché non sterminassero gli uomini.
Tra le botteghe chiuse nelle strade ammutolite, c’è anche quella di un pittore, venuto giù anche lui dal Cadore, come gli abeti e la peste. È ai Biri, in parrocchia di san Ganciano, in una bella casa, che, al tempo in cui il pittore l’ha affittata, era quasi nuova. S’è spostato qui dopo che gli è morta la moglie di parto, mettendo al mondo una bambina, la Lavinia, che crescendo è diventata il ritratto della madre, dipinto meglio di quel che avrebbe fatto lui.
La povera Cecilia era figlia di un barbiere di Perarolo, venuta giù anche lei dalle montagne, coi capelli color del grano e la pelle di burro, e la Lavinia era la terza figlia, dopo l’Orazio e il Pomponio, nati prima che il pittore si convincesse a sposare la sua amante e a trattarla come una moglie. Morta la Cecilia, nella casa in calle di Ca’ Lipoli il pittore non riusciva più a starci, figurasi a pitturare: a ogni momento gli pareva di vedersela davanti, con la faccia di pietra, senza espressione e con la bocca serrata, come quando l’avevano portata via con la gondola nera.
Nella bottega ai Biri, invece, ha ricominciato a lavorare coi pennelli. Prima gli dava una mano il fratello, poi l’Orazio ha fatto vedere di aver preso anche lui un po’ di talento dal seme del padre. Magari non proprio lo stesso, per la verità. Perché lui, il pittore, quando ancora era un bambino, senza aver mai studiato disegno né pittura, aveva dipinto sul muro di casa una Madonna, usando per colorarla il succo spremuto di erbe e fiori. E tale fu la meraviglia che suscitò in famiglia che lo spedirono di filato giù a Venezia perché imparasse il mestiere.
La bottega dei Biri è sempre stata piena di allievi, perché il lavoro era tanto e le commissioni ben pagate. Soprattutto da quando l’altra peste si era menata via il Zorzone, lasciando al dipintore venuto giù dalle montagne il posto di pittore ufficiale della Serenissima. Quella volta, il cadorino aveva fatto in tempo a scappare in campagna e, quando aveva saputo che era morto il suo maestro, gli erano venuti in mente tutti gli accidenti che gli aveva tirato quando avevano litigato per via delle pitture del Fondaco dei Todeschi, e avevano rotto malamente.
Sessanta e più anni sono passati da quella visita del morbo, e adesso il pittore ne ha più di cento. E stavolta è chiaro che la peste non gli porterà buono. Quando hai un secolo, però, la morte non è cosa che ti coglie impreparato. E infatti ormai è qualche tempo che lavora al suo ultimo quadro, che vuole farsi mettere sulla tomba. Tomba che dovrebbe essere ai Frari, nella basilica per cui il pittore ha già dipinto due Madonne, una più bella dell’altra. Ma ancora non è detto, perché tra lui e l’eterno riposo ci sono le teste dure dei frati e le norme di sanità, che dicono che i morti vanno tutti nelle fosse comuni, pittori o non pittori.
Per la sua tomba, il cadorino ha scelto di dipingere una Pietà, con la Madonna che tiene in braccio il Cristo morto. Ci lavora da più di un anno, ma oggi ha chiaro che non riuscirà a finirla.
Perché oggi, ventisette di agosto dell’Anno del Signore millecinquecento e settantasei, sulla porta della bottega ai Biri, ormai deserta, si è presentata la Morte in persona, con tanto di mantello nero e maschera col becco.
– Dammi il tempo di finire il quadro, – ha supplicato il pittore.
Ma lei ha fatto segno di no con la testa, ché non è tipo da farsi fregare tanto facilmente.
– L’ultima pennellata, – prova ancora il pittore.
La Morte guarda il quadro. La Madonna è la Cecilia, con la faccia di pietra di quando è morta di parto. Vicino a lei, la Lavinia ha i panni della Maddalena che chiama gente. Ha il braccio alzato e, dalla bocca aperta, le escono tutti insieme i pianti e i lamenti, le strida e gli spaventevoli ululati che riempiono le strade di Venezia al posto delle voci e dei canti di ieri.
Tra le braccia di sua madre c’è l’Orazio, verde e pieno di piaghe. Uguale a quando i monatti l’hanno menato al lazzaretto, senza neanche guardare la borsa di monete d’oro che il padre ha teso perché lo lasciassero lì con lui, che almeno davano a un vecchio la consolazione di non crepare da solo.
Al vecchio inginocchiato davanti al Cristo morto, il dipintore cadorino ha messo la propria faccia. Si è vestito di stracci, senza neanche lo zucchetto di tutti i suoi autoritratti, ché il Signore lo sa bene com’è fatto il suo cranio e a Lui non si nasconde niente, figurarsi la calvizie.
Il Pomponio non c’è. Tanto quelli come lui scampano sempre. E, con la testa che ha, sicuro si mangerà fuori in un momento tutto quello che il padre ha guadagnato in una lunga vita di lavoro.
Nello sfondo scuro, la luce lugubre di un agosto che sembra novembre, con le ombre agitate dai lumini del camposanto, e le statue che guardano dall’altra parte. Una mano di dannato si aggrappa alla Sibilla, ma neanche quella serve a farla voltare.
Non vuol farlo vedere, la Morte, ma è impressionata anche lei. E anche lusingata, perché il pittore ha dipinto tutta la vita papi e imperatori, e adesso l’ultimo ritratto è tutto per lei, e forse nessuno l’ha mai dipinta tanto bene.
– Solo una pennellata, – concede, perché anche la Morte è vanitosa.
Il pittore prende il vasetto del nero. Al pensiero di lasciare il dipinto non finito gli fa male il petto, e la cosa più difficile è decidere dove mettere l’ultimo tocco di una vita passata con in mano il pennello. Dalla finestra, entra il soffoco del cielo grigio di agosto, scurito dal fumo delle disinfezioni, odoroso di mirra e pece spagnola, di ginepro e di zolfo.
– Quell’angolo lì l’ha dipinto il tuo imbianchino? – lo scherza la Morte, e indica un ex voto, che il pittore ha messo al piede della statua della Sibilla.
Ci ha dipinto lui e l’Orazio, in ginocchio davanti alla Madonna, a impetrare pietà per una vita passata a rincorrere la fama e il denaro. E li ha dipinti davvero col pennello ingenuo di un imbianchino, perché davanti al Signore è meglio essere umili, e non farsi vedere ritrattista di papi e imperatori.
La Morte lo scherza, ma il pittore adesso sa cosa deve fare. Intinge il dito nel nero, e, sotto l’ex voto, scrive una preghiera alla Madonna. Nella testa, le lingue di una vita si impastano tutte insieme, e scrivere è una fatica uguale a spostare una montagna.
La Morte, curiosa, si avvicina per leggere meglio, e la mano del pittore perde forza. Neanche riesce a finire l’ultima parola.
– Le montagne… – mormora il moribondo, e si appoggia al braccio della Morte, indicando il giardino.
La Morte se lo scrolla di dosso, per leggere bene che cosa ha scritto.
– Dona katta venia… – si mette a sillabare come uno scolaretto.
Il pittore approfitta della sua distrazione. Zitto zitto, esce dalla porta di dietro, si trascina attraverso l’orto, sale al loggiato. Sono tre passi, ma il morbo gli fa le gambe di cera. In mezzo al giardino, un albero dalle foglie rotonde gli tende un ramo per appoggiarsi, per ringraziamento di averlo messo una volta in un quadro.
Dal canale, sale il marcio delle acque e dei morti, ammucchiati nelle barche insieme ai malati da confinare al lazzaretto. Il pittore guarda verso settentrione. Verso le sue montagne.
Per gli occhi deboli di vecchio, il mondo sono macchie di colore steso con le dita: il verde del mare, il rosa delle case, il grigio del soffoco di agosto, che ammorba l’orizzonte. E che nasconde le montagne, nella foschia pesante che sale dalla laguna.
E allora, per vedere il suo Cadore, il pittore chiude gli occhi. E chiama, nella lingua che ha succhiato insieme al latte.
Chiama così forte che, sotto le case, gli abeti lo sentono, esuli e marci come lui.
E gli abeti, risvegliati dai suoni della loro lingua, rispondono.
Prima è un profumo pulito di resina, sempre più forte, ad aprire i polmoni chiusi dall’aria impestata. Al profumo vien dietro uno stormire di fronde, e poi un cinguettare di uccelli, e un bramire di cervi in amore, come quando il larice mette le foglie nuove e verdine.
Resina e stormire, canti e bramiti, sono così forti che vanno sopra alle fumigazioni e ai pianti. Così forti che i monatti in barca si fermano per un momento, e si guardano intorno a cercare i boschi. Ma intorno c’è solo un vecchio su un loggiato.
– Qualcuno brucia erbe di strega, – brontola il monatto, e scaccia via con la mano il profumo degli abeti fantasma.
Dietro le palpebre chiuse, il pittore respira la resina e le voci che gli hanno insegnato a parlare, in quei boschi che Venezia, con tutto il suo oro, può solo tagliare per invidia e nascondere sotto il mare.
Sotto le dita, l’appiccicare ruvido di una corteccia; sulla testa un sole pulito di aprile, quello che scioglie l’ultima neve. Tra le foglie tenere del larice e le gemme color sangue degli abeti, compare una donna, coi capelli dorati e la pelle di burro.
– Cecilia! – chiama il pittore.
– Tiziano! – sorride lei, e gli prende la mano.
Nella bottega, la Morte si riscuote. Corre in giardino, sale a due a due i gradini del loggiato. Si affaccia sul canale, che quasi cade di sotto. E lo vede: sotto il pelo dell’acqua, in mezzo ai tronchi che tengono su le case, il pittore corre per mano alla sua Cecilia, come fosse in un bosco del Cadore. Nel loggiato, è rimasto solo un cadavere verde di peste, con le dita sporche di pittura nera.
– Dona katta venia nostra pecata bene pixit signatur, – recita la Morte, facendogli il segno della croce.
Madonna, abbi pietà dei nostri peccati perché ti dipinsi bene.

Su «Ore incerte» di Silvio Perrella

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di Francesco Iannone

Ore incerte, Silvio Perrella (Il Saggiatore, 2024)

Di Ore incerte di Silvio Perrella è forse possibile restituire l’eco di ciò che non è piuttosto che stabilire di cosa si tratti. Entra lettore, la porta è aperta, è l’invito del nostro come a volerci catapultare in una bolla dove i luoghi sono magici prima ancora che fisici e la parola cavalca ritmi miti come una maestosa e stordente onda mantrica che si abbatte contro i nostri corpi.

L’ora incerta è uno spazio vuoto che è sua volta struggente attesa di ciò che è agognato ma che attiene all’enigmatico inaccessibile e che perciò ci lascia fermi sulla soglia, nonostante lo stesso Perrella ci incoraggi a entrare, con l’imbarazzo degli uomini pratici, cioè sbrigativi (e perciò superficiali), di fronte a ciò che Lacan chiama la Cosa, la grande Cosa. I luoghi, amati o sconosciuti, vissuti profondamente o solo respirati, quelli dell’infanzia (che sono in noi eterni, immensi) o dell’età adulta, comprendono, ovvero prendono in sé, ciò che siamo o possiamo essere propagandoci infinitamente e aumentando la nostra capacità di capienza, ossia dilatando il vuoto in noi.

Il vuoto, come scrive bene Heidegger, questo niente della brocca, è ciò che la brocca è in quanto recipiente che accoglie. Perciò, sembra volerci suggerire l’autore, bisogna fare spazio, essere luoghi noi stessi e rinnovare capienze affinché altri paesaggi possano abitarci, o se non proprio trasfigurarci. Nessuna trama orienta l’azione, non il succedersi di eventi o l’alternarsi di personaggi. Nulla accade mentre tutto è già accaduto. Come una verità appena annunciata ma che esiste da sempre, non vista. Dalla Sicilia al Marocco, dalla mai smarrita Napoli all’amareggiata Roma, da Goffredo Parise ad Albert Camus, dalla selvatichezza del paesaggio agli sgargianti  conglomerati urbani, tutto è incerto nell’ora della precarietà del tempo. E se precario e preghiera hanno una comune semente etimologica, allora non ci resta che il viaggio, la mendicanza dell’uomo che sa di essere in perdita e che non smette di volersi raggiungere ogni volta.

Anche Perrella, come Pier Vittorio Tondelli, sa di non essere là dove lui scrive, sa che da qui a là è tutta intera la sua vita, spazio separato e a cui l’ora tende, carezzevole o violenta. Ore incerte si propaga come un prolungamento nello spazio dello stesso autore, quasi facendosene inghiottire fino al suo più aereo dissolvimento. Come a dire non è nostra la vita, ma siamo noi ad appartenere ad essa, inglobandoci nella sua sacca mistica. La prosa di Perrella ricorda a tratti Joris-Karl Huysmans e il suo Controcorrente, anche se in quel caso l’operazione è inversa: da un verso-fuori si procede ad un verso-dentro, esercizio non si estroflessione esistenziale ma di radicale introflessione del protagonista quando decide di sottrarsi a qualsiasi forma di relazione con il mondo. Ma in fondo lo spazio di entrambi non è altro che uno spazio interiore raggiunto secondo due diverse posture.

Ugualmente rabdomantica la scrittura di Ore Incerte come il Gozzano prosatore di Viaggio in India, la parola anche lì è mantenuta sull’acqua della poesia come un corpo in abbandono sulle spesse stratificazioni antropologiche del Gange. Scrive Perrella: I desideri quando ti spingono all’avventura della ricerca non sanno ancora che forma prenderanno. E a me questo sembra il monito dello scrittore avveduto che sa che la parola non inizia sulla pagina e non sulla pagina posa il suo fiato finale. È già iniziata altrove, ha già ribaltato le ritmie dei flussi ancora prima che lo scrittore ne abbia percepito l’urto. E dopo continuerà scavalcando la volontà dell’intenzione, insinuandosi come uno spiffero nelle fessure. Va e viene senza programmatiche schedature.

Irregolare come una musica di Miles Davis, uno dei tappeti su cui cammina questa narrazione, che inizia quando già è iniziata e termina senza finire mai. Come in un sogno fanno da cornice onirica al testo i quadri di Odilon Redon, per entrare ed uscire da sé senza eludere mai la realtà, rimbalzando da un’onda all’altra nel mare della mente e del cuore.

Il destino del primo figlio

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di Marzia Taruffi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Era impossibile determinare esattamente la sua età. Sfumavano gli anni in quel fazzoletto nero legato sotto la gola, nelle rughe appena accennate ai lati degli occhi dove il nero dell’iride sembrava mandare lampi di luce. Non era mai stata giovane e non era vecchia: era eternamente ferma in una dimensione artefatta.
Un maestrale di tempo aveva fermato lo scorrere delle lancette in un eterno attimo immemorabile che non permetteva ritorni: nè lacrime, nè rimpianti. Era stato già tutto e nulla poteva tornare, già scritto passato e futuro senza modifiche, senza una gomma da passare sulle parole scritte a matita, senza un temporale capace di spazzare le nubi delle giornate senza sole per donarle una nuova vita. Con il trascorrere degli anni lo scorrere dei giorni era diventato più comprensibile e accettabile, drammaticamente immoto e leggero. Aveva una sua linea demarcata e non poteva non seguirla. Lei era Caterina, la “pazza” per tutto il paese, pazza di dolore e al tempo stesso depositaria di straordinari messaggi.
Era la sacerdotessa di un rito pagano, che si perdeva negli anni senza magia ma al tempo stesso forte e tenace, una sicurezza per chi non poteva confrontarsi con il suo dolore e voleva percorrere un’ altra strada per incamminarsi in una realtà più impalpabile ed edulcorata. “Caterina, la pazza, poteva parlare con i morti.”
La voce si era diffusa strada dopo strada, sasso dopo sasso. Dopo l’alluvione che si era portato via il suo Gavino, aveva cominciato a dire che non era vero che era scomparso. Lei riusciva a vederlo, ad accarezzargli ancora i capelli neri, a stringergli le mani. Non era vero che i morti scompaiono: lei li vedeva, tutti, anche quelli del paese. Ecco il bimbo di Luisa che si era spento per un rigurgito in culla due anni fa. Ecco la nonna Tea e ancora Maria del boschetto, morta di parto per un’emorragia, che non aveva neppure una volta stretto al petto la sua bambina. Si soffermava sui volti e li descriveva anche quelli dei defunti nei paesi vicini, che non aveva conosciuto. La voce corse veloce e arrivarono da lontano per portare gli oggetti che Caterina avrebbe dovuto consegnare ai loro cari: un paio di scarpine per il bimbo, una cuffietta, la camicia preferita e ancora un tovagliolo. Era per lei una missione.
Nel conservare malinconie, storie di vite interrotte, di amori non vissuti e di esistenze strappate si sentiva meno sola, anzi la visitavano per parlare di chi non era più, per ricevere lettere, parole da consegnare come un postino tra due mondi. Legava due dimensioni, unite dall’amore e da lacci cosi forti da superare tempi ed angosce. Imparò nella sua lunga vita che i figli sono il cuore, ma senza cuore non si soffre. Chiese la grazia che lei non ebbe, chiese per la sua progenie un brandello di felicità per qualcuno: il dono di non dover respirare sempre a metà, lottando e sperando che figli e figlie avessero una vita migliore. Non era una minaccia e non era neppure una maledizione, sarebbe stato il destino del primo figlio.

Palinsesti

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di Alberto Comparini

 

2.1.

le strisce pedonali le auto sporgenti in doppia fila i semafori verdi lampeggianti
questa fretta adolescente di voler sconfiggere ad ogni costo l’attesa del giorno
dopo le convocazioni per i raduni invernali gli allenamenti le partite i suicidi
gli ultimi tagli tutto finisce in una curva stretta a ridosso dell’incrocio la forza
centripeta della strada non era più sufficiente l’attrito dinamico cede all’inerzia
della moto l’energia cinetica si conserva il tuo corpo diventa puro movimento
in un’istantanea veloce sei fermo colpisci prima la testa il ginocchio il petto

 

2.8.

componi a fatica lo 0103621526 si era fatto tardi a casa il telefono fisso della cucina aveva squillato
a lungo era ora di cena dall’altra parte della cornetta si sentiva in sottofondo la sigla di otto e mezzo
qualcuno ha abbassato il volume del televisore sullo schermo scorrono in silenzio delle pubblicità
mute fino all’esplosione improvvisa di una voce confusa di madre e di figlia pronto sì buonasera
non sono io Alberto è rimasto coinvolto in un incidente stradale è vivo non respira molto bene
dopo la caduta in moto deve aver perso il portafoglio adesso è sotto shock non riesce del tutto
a muovere le gambe è scosso irrequieto instabile ripete a tutti di voler giocare ancora a basket

 

3.7.

il kinetec a velocità regolabile lo sblocco progressivo
della ginocchiera le ripetizioni gli appoggi incrociati
l’adolescenza spesa a contare le piastrelle dal lettino
ti alzi con un atto meccanico puoi sentire il drenaggio
articolare si insinua nella carne come un filo spinato

 

3.8.

a un anno dall’intervento la riabilitazione del ginocchio sinistro
è terminata il tono la massa la mobilità dell’arto non sono adeguati
per ritornare in campo bisogna aspettare il parere dell’ortopedico
è positivo nell’altra gamba avverti un dolore acuto è intermittente
continua a crescere insieme a un’altra vita nella testa del femore

 

5.8.

le ossa hanno dei tempi di guarigione diversi dai legamenti i tendini persino i menischi
richiedono interventi più invasivi dei tumori le recidive i trapianti queste false illusioni
quanto possono durare le certificazioni di inglese hanno una data di scadenza i controlli
annuali i corpi gli effetti collaterali di quegli anni scivolati tra gli appunti delle segreterie

 

5.9.

tutto ha un prezzo anche i viaggi in regionale i voli last minute delle compagnie low cost quei digiuni
collettivi negli ambulatori le discussioni i silenzi le richieste per una seconda opinione dopo l’ultimo
controllo andato a vuoto capisci che cosa ne sarà del tuo corpo una volta ottenuto il prestito d’onore
dalla banca dell’osso questa cicatrice una vecchia ferita la tua memoria diluita in una flebo analgesica

 

8.7.

prima di procedere con la sesta operazione avevi frequentato qualche ragazza
gli accordi in rete sono più espliciti i desiderî dentro fuori dal letto si alternano
come i tremori muscolari e gli orgasmi femminili si confondono a piacimento
ogni sera potevi fingere di venire con loro stare bene agire senza uno scopo

 

8.8.

alle dimissioni ricevi il protocollo di uscita un sintomo costante del male
oscuro è la sindrome dell’arto fantasma ne percepisci subito la posizione
il dolore va e viene è episodico sarebbe rischioso agire ancora sul femore
le scosse tendono a crescere attraversano per intero il corpo del paziente

 

 

 

L’anima delle cose: dalla spada alla bacchetta

1

di Dario De Pasquale

Dal Furukotofumi agli shōnen, passando attraverso la classe militare dei samurai e ai film di Kurosawa, la spada ha sempre avuto un ruolo di primo piano nella storia culturale giapponese. Come accade anche nelle culture europee e in quelle del Vicino Oriente, ad un certo punto della sua storia la spada giunge ad un duplice punto di svolta: assurge a simbolo di potere e diventa un’entità dotata di anima. Il momento in cui in Giappone inizia questa “ontogenesi simbolica” è descritto nel Kojiki, opera scritta nei primi anni dell’VIII sec d.C e vede coinvolto Susano-ō, il dio della tempesta della religione shintoista. Esiliato sulla terra per non aver adempiuto al volere del padre, Susano-ō affronta Ya-mata-orochi, un drago dalle otto teste in procinto di divorare la figlia superstite di una coppia di anziani. Il dio, dopo aver ubriacato il mostro, riesce a decapitarlo integralmente. Infierendo sul cadavere ecco che:

mentre tagliava la coda di mezzo del mostro, la spada di Susano-ō si spezzò in due. Incuriosito, Susano-ō usò
la punta della sua spada per squarciare quella grande coda e all’interno di essa trovò la più bella spada che
avesse mai visto: la spada detta Ame-no-mura-kumo che mandò in cielo in dono a sua sorella Amaterasu.

La dea del sole Amaterasu divenne così padrona della Spada del Paradiso. In seguito, la dea affidò l’arma, insieme alla gemma e allo specchio in suo possesso , al nipote Ninigi che disceso sulla terra fondò la dinastia degli imperatori. Tutt’oggi i tre sacri tesori vengono donati all’imperatore durante la cerimonia d’insediamento e solo a lui, e a pochissimi sacerdoti, è concessa la possibilità di mirarli.
È curioso notare come sia la divinità, nella fattispecie la divinità femminile, a concedere il potere all’imperatore poiché egli stesso, essendo discendente del nipote di Amaterasu, è un essere in parte divino.

È questo uno dei tanti punti di contatto tra la cultura nipponica e quella europea: l’essere ultraterreno che dona la spada all’eletto. Pensiamo a Durendal, che fu consegnata a Carlo Magno da un messo celeste; a Szczerbiec, la spada del re polacco che, esattamente come Durendal, fu affidata al futuro re da un angelo; o, per restare in ambito asiatico, le leggende vietnamite raccontano della spada magica che Lê Lîi ricevette dagli dei con l’obiettivo gli scacciare gli invasori. L’altro elemento sul quale reputo sia opportuno soffermarsi è relativo alla personalità della katana.
In Giappone la testimonianza che dimostra come la spada venisse intesa come un essere vivente ce la concede la cerimonia della “firma della spada”. Nei mesi di Settembre e di Maggio le lame venivano forgiate presso i templi shintoisti. Qui, i fabbri indossavano abiti sacerdotali bianchi e, nei giorni antecedenti la forgiatura, dovevano aver purificato lo spirito e il corpo pregando presso un santuario e chiedendo la tutela delle divinità. Avendo seguito questi precetti, gli artigiani erano in grado di donare alla spada un’anima attraverso delle invocazioni. Capiamo bene come il fabbro divenga a tutti gli effetti non solo un sacerdote, ma quasi un dio terreno poiché plasma il corpo di un oggetto e concede ad esso un’anima attraverso il verbo, generando un essere vivente a tutti gli effetti. Nel momento della forgiatura, la fucina diveniva un luogo di culto in cui appendere i shimenawa e il cui ingresso veniva vietato agli estranei e alle donne. L’arte della produzione della spada era ed è tutt’oggi una vera e propria cerimonia religiosa e ‹‹il ritmo del martellare è scansione liturgica››

Alimentato anche da questo rituale, il topos della spada dotata di carattere è sfociato sul piano folklorico e leggendario. In Giappone è nota la leggenda di Muramasa, un fabbro vissuto nel periodo Sengoku (1467-1603). Durante la forgiatura di una spada, nel momento di temprare la lama, Muramasa le augurò una grande potenza distruttrice. La preghiera fu accolta dalle divinità le quali liberarono uno spirito di estrema ferocia che s’impadronì dell’arma. Da quel momento essa divenne avida di sangue caldo, richiedeva di esserne imbevuta entro un tempo limite che se superato costringeva il suo possessore al suicidio. Non solo questa, ma tutte le spade forgiate da Muramasa furono in seguito giudicate maledette in quanto artefici della morte di Kiyoyasu e Hirotada, rispettivamente nonno e padre di Tokugawa Ieyasu, shogun dal 1603 al 1605. Oltre a ciò lo stesso Ieyasu fu ferito da una Muramasa e quando suo figlio Nobuyasu fece seppuku, l’arma che pose fine alla sua vita era, ancora una volta, una Muramasa. Le storie relative a queste lame si incrociano con quelle narranti le armi prodotte da colui che viene considerato il più grande fabbro di sempre: Masamune. Una leggenda narra che, a differenza di Muramasa, Masamune aveva invocato gli dei affinché la sua arma divenisse una gran protettrice. I due artigiani s’incontrarono un giorno per stabilire chi fosse il fabbro migliore. Portarono con sé le loro creazioni e le conficcarono nel letto di un fiume. Subito notarono come alcune foglie che vi galleggiavano furono attratte dalla spada di Muramasa e da questa tagliate; al contrario, altre foglie passarono incolumi attorno alla lama di Masamune il quale così si rivolse al rivale: “you behold the superiority of my sword in that it does no wanton damage”.
Questo retaggio culturale, che vede l’importanza della spada sia come arma sia come oggetto espositivo e pertanto esteticamente bello, è molto forte e sopravvive nel Giappone odierno.
Faccio riferimento non solo alla spada come oggetto sacro e consueto ma, in maniera specifica, all’idea che la spada disponga di un’anima. È una concezione che si è radicata nella cultura giapponese tant’è che negli shōnen e negli anime ne troviamo ampio riferimento. Prendo come esempio due casi che ritengo rilevanti per motivi diversi: il primo è il bellissimo cortometraggio diretto da Osamu Tezuka intitolato Muramase, del 1987. Questa breve opera riprende la leggenda della spada maledetta di Muramase: un uomo trova in un bosco un fantoccio con una spada conficcata nel petto. Recupera l’arma ma una volta divenutone proprietario, intraprende una serie di uccisioni che la spada esige. Di fronte a un bambino però, con estrema fatica, l’uomo trattiene lo spirito dell’arma la quale, bramosa di sangue, pretende ugualmente il suo tributo di morte costringendo l’uomo al suicidio.
Il secondo caso riguarda il manga più venduto della storia, estremamente popolare anche in Occidente. In un capitolo di questa vastissima opera il pirata spadaccino Zoro decide di acquistare una katana che il venditore si rifiuta di cedergli in quanto maledetta. Noncurante dell’avvertimento, il pirata sfida la maledizione lanciando la katana in aria e ponendo il braccio parallelo al terreno,
lungo la traiettoria della lama, ma questa, miracolosamente, non lo ferisce. Lo spadaccino ha così raggiunto il suo intento: dimostrare come la sua ambizione sia superiore alla volontà della spada e di meritarne il possesso.) Ritengo che fare riferimento ad opere così popolari sia necessario oltreché importante. Il tema della spada in possesso di un’anima, antico più di milletrecento anni , viene riproposto all’interno di un genere “giovanissimo” e popolare come il manga. È la dimostrazione di come fatti, situazioni, personaggi possono diventare topoi, entrare nell’essenza culturale dell’uomo e partendo dal IV sec a.C sopravvivere, innovandosi e duplicandosi, sino al XXI secolo all’interno di opere diversissime tra loro. Da parte dell’autore potrebbe anche non esserci la consapevolezza del riutilizzo di una tematica così antica, tuttavia proprio questa ignoranza ci fa capire quanto radicate siano certe storie, come se queste fossero creature vere e proprie, indipendenti dall’uomo che funge solo da mediatore. Ora, per quanto possa sembrare inappropriato, vorrei fare riferimento ad Harry Potter. Anche nella celebre saga della Rowling viene messo con grande evidenza l’esistenza di oggetti possessori di anima. Pensiamo agli Horcrux, che contengono frammenti dell’anima del loro creatore o, caso ancora più specifico e pertinente, alle bacchette. Le bacchette, come le katane per i samurai , sono armi identitarie, indicano la natura sociale, o in questo caso magica, del possessore. Come nelle leggende che descrivono il carattere delle nippon-tô, anche in Harry Potter vi sono numerosi passi in cui si fa riferimento all’anima della verga. Nel primo libro, il venditore magico Olivander si rivolge ad Harry affermando: ‹‹ […] ma in realtà, è la bacchetta a scegliere il mago, naturalmente›› .
La bacchetta ha qui un’identità, è un oggetto che vive poiché dimostra una sua volontà, nello specifico quello di scegliere il proprio possessore. Nel settimo libro il protagonista viene attaccato da Voldemort e proprio quando sta per essere ucciso ecco che ‹‹la sua bacchetta agì di propria iniziativa. [Harry Potter] Si sentì tirare la mano come da un enorme magnete, intravide uno schizzo di fuoco dorato attraverso le palpebre socchiuse, udì un crac e un grido di rabbia›› . Anche in questo caso si ha la dimostrazione di come la bacchetta abbia un carattere, agisca di propria iniziativa e il motivo per il quale ciò accade lo spiega Albus Silente alla fine del libro: ‹‹la tua bacchetta riconobbe un uomo che era insieme fratello e nemico mortale, e rigurgitò parte della sua stessa magia contro di lui›› .
Sempre in Harry Potter, ma qui non approfondiremo la questione, la spada di Grifondoro appare solo a coloro che ne sono degni; anche in questo caso un oggetto, una spada, dimostra di avere una volontà. La leggenda della spada di Muramase, o quelle ancora più antiche presenti nel Wu Yüeh ch’un ch’iu, sono intimamente legate a questi libri tramite tematiche che posseggono una longevità che fanno parte del nostro retaggio culturale, una longevità difficile da spiegare e di cui non sembriamo renderci conto appieno. Se volessimo usare un’espressione scientifica potremmo dire che certi temi sono dei “geni letterari” costituenti unità ereditarie che si trasmettono attraverso le storie nel corso dei secoli e che sopravvivono sino ai giorni nostri. L’esempio sopra riportato è la testimonianza di come questa sopravvivenza non si protrae solo attraverso lo studio delle culture passate ma si rinnovi, anche involontariamente, tramite opere del presente, innovandosi. La “mitogenìa” dell’arma detentrice dell’anima, antica da secoli, e proprio per questo assorbita dalla coscienza dell’uomo, viene mantenuta viva nella cultura contemporanea anche mediante una trasmigrazione oggettuale del topos: dalla spada alla bacchetta.

1 http://bifrost.it/Sintesi/Kojiki.html
2 Credo sia opportuno, per spirito di completezza, citare anche il brano narrante la storia di questi due oggetti. A seguito delle azioni riprovevoli intraprese da Susano-ō ai suoi danni, la dea del sole Amaterasu si nascose all’interno di una grotta facendo sprofondare il mondo nell’oscurità. Nel tentativo di scovarla ‹‹il dio fabbro Ama-tsu-mara forgiò un enorme specchio metallico, che fu disposto dinanzi all’ingresso della grotta. Poi giunse Ame-no Uzume, la dea della
danza, che rovesciò un calderone di legno accanto alla grotta, vi salì sopra, e dopo essersi fatta una ghirlanda d’edera, cominciò a danzare. Sotto i suoi piedi il calderone rimbombava e tutti gli dèi battevano il tempo. L’atmosfera cominciò
a riscaldarsi. Travolta dalla frenesia della sua stessa danza, Ame-no-Uzume prese a spogliarsi: dapprima scoprì i seni, poi abbassò il perizoma lungo le cosce. Le ottantamila divinità risero tanto da far traballare la Pianura dell’Ampio Cielo.
Le risate giunsero all’interno della caverna e Amaterasu levò il capo furibonda. Il cielo e la terra erano immersi nelle tenebre: perché le ottantamila divinità ridevano, invece di piangere e disperarsi? Si avvicinò alle porte della caverna e ne aprì un sottilissimo spiraglio per sincerarsi dell’accaduto. Allora gli dèi Ame-no-koyane e Futo-tama tesero lo specchio verso la fessura, cosicché gli occhi di Amaterasu incontrarono la sua stessa immagine riflessa e la dea credette per un istante che una nuova dea del sole stesse illuminando il mondo. Amaterasu aprì ancora di più lo spiraglio e il dio Taji-kawa-ō, che era particolarmente forzuto, la afferrò e la trasse fuori dalla caverna. Allora la luce del giorno si distese nuovamente sulla Pianura dell’Alto Cielo.››
http://bifrost.it/Sintesi/Kojiki.html
3 I mesi di Settembre e Maggio erano ideali per le operazioni di forgiatura visto la stabilità della temperatura atmosferica
4 G. Fino, La spada giapponese, Edizione Sannô-kai, Padova, 1998, p. 14
5 The Japanese Sword. Katana wa Bushi no tamashii (The Sword Is the Soul of the Samurai), in Museum of Fine Arts Bulletin, Vol. 4, No. 21 (Aug., 1906), p. 30
6 A riprova di questa tesi riporto alcuni dati presentati da Natsuo Hattori e Tomohiro Nakamori in La spada giapponese: dimora degli dei, Nuinui, Chermignon, 2019. Al momento sono circa 110 le katane considerate Tesoro Nazionale
7 https://www.youtube.com/watch?v=f1ZkgPdJWtg
8 https://newsgeek.com.br/wp-content/uploads/2023/01/Sandai-Kitetsu-Zoro-1536×864.jpg.webp (la lettura delle pagine è alla giapponese, pertanto da destra verso sinistra)
9 Il tema dell’anima della spada è stato analizzato da Carlo Donà nel suo L’anima della spada, pubblicato ne HOMO INTERIOR, Presenze dell’anima nelle letterature nel Medioevo – Atti delle V Giornate Internazionali Interdisciplinari
di Studio sul Medievo (Torino, 10-12 Febbraio 2015). Tra i brani riportati si evidenzia un frammento del Wu Yüeh ch’un ch’iu, un corpus di leggende cinesi sulle spade dei regni di Yüeh e di Wu, redatti intorno al VI sec a.C. Nel suddetto brano vi è scritto come la spada Zhanlu abbandona il sovrano nel caso in cui egli abbia offeso il Principio. Successivamente va alla ricerca di un nuovo signore che segue la Via.
10 Per quanto riguarda la katana come oggetto identitario dei samurai, rimando al capolavoro di Akira Kurosawa, I sette samurai; nella parte conclusiva del film appare, a mio modo di vedere, uno dei fotogrammi più belli della storia del
cinema. Ai piedi di una collinetta sono presenti tre samurai che osservano sulla cima del rilievo quattro tumuli in cui sono confitte delle katane. Appare chiaro, anche senza aver visto il film, come l’arma rappresenti il samurai.
11 J.K. Rowling, Harry Potter e la pietra filosofale, Salani Editore, Milano, pag. 82
12 J.K Rowling, Harry Potter e i doni della morte, Salani Editore, Milano, 2008, pag. 63
13 Ivi, pag. 653

BIBLIOGRAFIA

  • G. Fino, La spada giapponese, Edizioni Sannô-kai, Padova, 1998
  • N. Hattori – T. Nakamori, La spada giapponese: dimora degli dei, Nuinui, Chermignon, 2019
  • The Japanese Sword. Katana wa Bushi no tamashii (The Sword Is the Soul of the Samurai),
    in Museum of Fine Arts Bulletin, Vol. 4, No. 21 (Aug., 1906), p. 30

Post in translation: Shakespeare

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Nota del traduttore

di

Massimiliano Palmese

 

Faccio la guerra al tempo per tuo amore,

e più ti strappa, più ripianto il fiore.

Sonetto 15

C’è questa foto che ho in casa. Sullo sfondo Napoli 1944 da poco liberata e al centro una bambina con i capelli tenuti in cima alla testa da un nastro fermato in un gran fiocco bianco. Ha un abito a quadretti con le manicucce lunghe e corto sulle ginocchia, e ai piedi scarpette con gli occhielli. Ha una mano sul fianco in una posa sfidante, ma forse le è stata semplicemente suggerita dal fotografo.

La bambina è nata nel 1940 da un veloce matrimonio, e il padre, subito richiamato alle armi, tornerà a casa una volta a guerra finita soltanto per prendersi la valigia e scomparire. Lei, che per mancanza di mezzi non ha potuto finire la scuola, a quindici anni inizierà a lavorare in fabbrica per poi imparare a usare la macchina da scrivere e guadagnarsi occupazioni migliori. A vent’anni ha già un buon lavoro e un proprio appartamento e, sia per amore della lettura che per rivalsa, riempie la casa di libri. Romanzi, saggi. E poesia, tanta poesia. Sono nato in una casa piena di poesia. E la bambina nella foto è mia madre.

Molto piccolo mi sono avvicinato a questi strani libri dalle pagine bianchissime semivuote, con poche parole appoggiate su brevi righe e queste l’una sotto l’altra a formare quadrati o rettangoli di lettere. Che enigmi certe parole desuete, che fascino quelle combinazioni di sostantivi e di verbi. E di aggettivi e di avverbi. E poi gli explicit, questi fuochi d’artificio con cui sempre si chiude una festa.

Una festa di parole, di sensi e suoni, questo è stata da subito la poesia per me. E oggi, dopo aver scritto versi per molti anni, è ancora in una festa di parole che mi sono ritrovato traducendo i 154 Sonetti di William Shakespeare per le edizioni Marcos y Marcos. Questa bibbia dell’amore. Questo vangelo in 154 atti.

Ordinati per dedicatari – un giovane nobile di grande bellezza, il fair youth, e una misteriosa (o)scura donna, la dark lady – sistemati in gruppi tematici e pubblicati nel 1609, probabilmente senza il consenso dell’autore, i Sonetti di Shakespeare sono considerati a ragione tra le vette più alte della poesia lirica di tutti i tempi.

È, infatti, in uno stupefacente ventaglio di immagini che si dispiega la grazia di un amore omosessuale che, pur arroventato, sa riconoscere le necessità della natura e mettersi in attesa e in secondo piano davanti alla primaria esigenza che il ciclo della vita non venga interrotto: nei primi diciassette sonetti cosiddetti ‘matrimoniali’, Will, io poetante e probabile alter ego dell’autore, declina in vari modi la richiesta al fair youth, di sposarsi e fare un figlio, per non sprecare quel seme che dalla natura ha avuto in dono (o meglio, in affitto) come lo stampo stesso della bellezza. E quello stampo – modello, stampiglio, sigillo – non va usato egoisticamente ma per produrre eredi “perché rosa bellezza mai non muoia / e quando il fiore sarà declinato / un bocciolo ne porti la memoria”.

E già dal primo sonetto, nell’invito a procreare come a fiorire e rifiorire, entriamo nel rigoglioso mondo naturale che il poeta coltiva per noi come un raffinato giardiniere, tra boccioli, viole in fiore, alberi perfetti, semi e primizie; un mondo contadino dove le ragazze sono terre vergini in attesa dell’aratura; un mondo scaldato dal giovane amante come il grazioso sole sopra i colli ripidi del cielo, lui che ha negli occhi altre due stelle fisse, da cui possono trarsi ispirazioni e sapere.

La causa della procreazione è portata avanti sfogliando ogni buon argomento: s’invoca l’amore materno, per cui ogni madre in tarda età sarà consolata rivedendosi in un figlio come in uno specchio; si ricorda l’inesorabile cammino del tempo facendo balenare al ragazzo pericolose immagini invernali, tra fiori sfatti, alberi spogli e fasci di grano portati via sui carri insieme ai buoi, mentre il severo orologio segna il giorno spento nella notte scura ricordandogli che se non lascia un erede anche lui andrà a finire tra i rifiuti del tempo.

Il tempo, questa divinità nemica della giovinezza. Questa necessità che corre in direzione contraria alla vita. Questa disgrazia e questa maledizione. Occorre dunque restituire i doni di natura prima che quaranta inverni possano scavare trincee profonde sul viso della bellezza. E che cos’è un figlio se non un’estate distillata, la spremitura del meglio, sapore e profumo dei giorni che furono?

Nel sonetto 15 Will s’innalza filosofico: “Se penso che ogni cosa di natura / resta perfetta solo brevi istanti, / che sulla scena siamo figuranti / a cui le stelle fanno una fattura”; e se pensa che le creature siano come erbe, che si fanno marce ed erano superbe; se pensa che il tempo e la morte complottino perché anche il bello invecchi e si perda; se pensa che in questa finitudine non resti alcun senso per l’esistenza umana; se, insomma, l’amante vede l’amato sottoposto anche lui come chiunque alla severa legge dell’universo, Will si inquieta e si angoscia; ma l’angoscia, invece che abbatterlo, lo elettrizza, indicandogli la missione: “Faccio la guerra al tempo per tuo amore, / e più ti strappa, più ripianto il fiore”.

La guerra al tempo. A me pare il tema principale del canzoniere scespiriano e il senso più profondo della sua poetica. Ma, se il fair youth può combattere l’inverno disseminandosi in giardini e terre vergini, quale è la possibile guerra al tempo di Will?

Se il primo gruppo di sonetti suggerisce nella procreazione la modalità di sopravvivenza a disposizione del ragazzo, nel più ampio corpus di testi che arriva al sonetto 126 Will ci dice che al pari di un figlio solo l’arte – nel suo caso la poesia – ha lo stesso potere di distillare il meglio di un’anima e di sbancare l’eternità. “Dovrei dire che sei un giorno d’estate? / Tu sei molto più amabile e più lieve”, scrive nell’indimenticabile sonetto 18. L’estate è breve e col tempo ogni gemma si sciupa e la bellezza perde il suo smalto: non così per il fair youth, la cui eterna estate non sarà oscurata all’ombra della morte, ma difesa da Will in un’inespugnabile fortezza di parole: “E finché esisteranno occhi e sospiro, / tu vivo in questi versi avrai respiro”.

Perché la poesia, alchimia di emozione e linguaggio, ha conoscenze esoteriche: l’arte della distillazione. E se una rosa selvatica ha bellezza e colori, diverso è il destino della rosa più fragrante del giardino: la sua stessa morte sarà solo apparente, perché ne sarà estratta l’essenza. Se prima si trattava di un distillato genetico, un figlio – “Ma un fiore distillato non va in fumo / si disfa al freddo e poi vive in profumo” –, ora il distillato è tutto artistico e sono i versi a sfidare la morte: “Così sarà per te, giovane amato: / tu vivrai nei miei versi distillato”. Il perché resta l’enigma e la potenza della poesia: “Questo dà la mia penna quando tocca: / vita ad ogni respiro, ad ogni bocca”.

“Come le onde a una pietrosa riva / corrono alla deriva i nostri istanti, / scacciano i precedenti nella fila / e con affanno spingono in avanti”, così all’alta marea non sopravvivono né il marmo né i dorati monumenti: le statue vengono buttate giù con le guerre e i muri crollano ai colpi della Storia. Ma l’amore no. L’amato può vivere tranquillo perché regnerà eterno, custodito “qui”, in un castello di rime: “Qui c’è il tuo monumento per domani, / persi il bronzo e corone di sovrani”.

Figli e arte. Due vie di fuga dal tempo che a ben vedere sono una soltanto: in entrambi i casi l’arma in mano agli umani sembra essere quella di tramandare se stessi, sporgendosi come corpo biologico o come patrimonio culturale oltre il burrone del tempo, per provare a vincere l’orologio e l’incessante flusso delle stagioni.

E se da un lato è tutta filosofica questa visione tragica dell’esistenza come un’ìmpari guerra al tempo, sul rovescio della moneta Will fa comparire altri personaggi che completano il lato romanzesco di una complicata, spesso triangolare, storia d’amore, con i drammi della gelosia, la parte di commedia costruita da tradimenti e pentimenti, con la farsa di fughe e di subitanei ritorni (“viaggio ma torno poi tutte le volte”, “con l’acqua che mi lavi dalle colpe”), fino all’apparizione di comprimari, il poeta rivale e la dark lady.

Questa misteriosa donna è la dedicataria dei sonetti che dal 127 giungono al termine della raccolta. Oggetto d’amore e d’odio, di ammirazione e di lirici insulti (“Ti pensai bella e ti ho giurato pura: / sei nero inferno, sei la notte oscura”), la dark lady è la protagonista di una passione seconda ma intrecciata alla prima, storia di un amore meno ideale e più carnale ma non meno mareggiata di quella per il ragazzo. Ma è un triangolo che trova Will ormai stanco, ingannato da un furbo amore che gli abbaglia la vista a forza di lacrime, e lì sul punto di arrendersi: “Ma se m’hai quasi ucciso, tuttavia, / finiscimi di sguardi e così sia”.

Ed è a un’immagine di donna che anch’io voglio tornare. Alla bambina che ha tramandato se stessa in biologia e in cultura, lanciandosi oltre il limite del tempo nell’impresa di offrire con un figlio ancora vita alla vita, e con una biblioteca l’amore per la poesia. È il tentativo sovrumano di guerreggiare il tempo che appartiene alle madri, la decisione di mettere al mondo un figlio e circondarlo di bellezza: gesto enorme, insieme necessario e incosciente, artistico e avventato, provocazione al Nulla e urlo di speranza.

Poi ai figli subentreranno figli e poi altri figli, fino alla fine del tempo.

Noi senza eredi, invece, altro non possiamo fare che recitare la parte che ci è toccata: lo sforzo di coltivare e tramandare una nostra biblioteca interiore, fatta di passioni e studi, letture e scritture e riscritture. La mia biblioteca interiore comprende questo omaggio all’arte di William Shakespeare, nel tentativo di tradurre i suoi intraducibili Sonetti, provando a offrire una musica italiana alla musica inglese e i miei versi ai loro, così come di un grande immortale spartito ogni musicista offre ai contemporanei una propria personale esecuzione.

In ricordo di Claudia Tarolo, cui sarò sempre grato di aver offerto una casa alle mie traduzioni scespiriane.

*

 

30

Quando in dolce silenzio io talora
chiamo il ricordo delle cose andate,
piangendo quelle che ho desiderate,
lo spreco della vita mi addolora.
E annego gli occhi, insoliti a inondarsi,
per amici in notte eterna seppelliti,
dolori per amori ormai finiti
e tutti gli orizzonti ormai scomparsi.
Bruciano le ferite che ho da tanto,
e di dolore in dolore sembro andato
al conto delle lacrime che ho pianto,
come se non l’avessi già pagato.
Ma se in un attimo ti penso, amico,
nulla è perduto, e il dolore è svanito.

34

Perché hai promesso gran bella giornata,
senza mantello poi m’hai fatto andare,
sorpreso dalle nuvole per strada
che hanno nascosto tutto il tuo brillare?
Poi irrompi tra le nubi e vuoi venire
la pioggia alla mia faccia ad asciugare,
ma un farmaco non solo può cucire
la mia ferita: sa guarire il male.
Vergognarti non cura il mio dolore
che se ti penti ancora resta atroce.
Fai le tue scuse, ma non ha valore
se resto appeso a tanta dura croce.
Però, che perle lacrima il tuo amore,
e, preziose, riscattano il dolore.

55

Né il marmo né i dorati monumenti
dei re vivranno oltre questa rima,
tu invece sarai qui in versi lucenti
più di una pietra che il tempo sfarina.
La guerra poi rovescerà ogni statua,
il muro crollerà sotto la Storia,
ma il fuoco o di Marte quella spada
non bruceranno mai la tua memoria.
Su morte e oblio tu vincerai sicuro
e la tua lode non avrà confine
agli occhi delle età che poi in futuro
consumeranno il mondo fino in fine.
Fino al Giudizio in cui sarai tra i santi
tu vivrai qui e negli occhi degli amanti.

 

 

 

 

 

Downstream, rassegna di poesia e prosa ultra-contemporanea

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«Prima» e «dopo» sono relativi.
Noi comunque lavoriamo tra loro.
(Giulia Niccolai)
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𝐃𝐨𝐰𝐧𝐬𝐭𝐫𝐞𝐚𝐦  è uno spazio dedicato a testi di poesia e prosa ultra-contemporanea: progettato per leggere, ragionare e dialogare, Downstream punta ad essere un luogo aperto e plurale nel confronto, nel lavoro culturale e nella discussione critica delle posizioni e visioni delle prassi dello scrivere.
Per i primi 4 incontri Downstream mette in relazione poesia e prosa, esordi e conferme, case editrici e autori e autrici di diverse città.
Dal 10 aprile, presso la Libreria Ubik Napoli (via Benedetto Croce, 28), a cura di Chiara De Caprio, Giorgia Esposito e Valeria Rocco di Torrepadula.
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Mattia Tarantino: «la coda dell’Ircocervo è una stella di cenere»

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di Mattia Tarantino

L’ircocervo di Mattia Tarantino è il nuovo titolo delle Lepri, collana di scritture poetiche che curo insieme a Giuditta Chiaraluce all’interno del progetto Edizioni Volatili.

«Libri come laboratori, primi confronti, materie pensanti, montaggi e scavi attraverso la carta; libri senza profitto, in tiratura limitata, consegnati interamente agli autori e alle autrici, che ne gestiscono liberamente il transito (esoeditoria); libri evidenti nella loro invisibilità, indirizzati a chi saprà ospitarne l’implicita consegna; libri col solo intento di essere vigilie per una geografia del dopo-diluvio.»

Pubblico qui alcuni estratti in anteprima. Le partiture visive sono di Giuditta Chiaraluce.

 

La testa

La testa dell’Ircocervo è un piccolo e caldo esagono. Ai lati, un tempo, era inciso qualcosa. Pare dopo la terza nascita l’incisione sia svanita e ancora, tuttavia, capita appaia e abbagli, brilli. La calotta cranica è tatuata: qualcosa è impresso come un codice fosforescente, o l’orma di un antico animale. Nella testa dell’Ircocervo si inscrive la Storia, la Storia come intermittenza. Scricchiola, il cranio, e striscia e traballa, come stretto da uno spago di fortuna. Ruota di pochi gradi, si arresta, poi svanisce. Si nasconde, oppure, come un indizio tra la fine del collo e l’inizio di qualcos’altro. Riappare accecando.

 

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Le zampe anteriori

Le zampe anteriori dell’Ircocervo sono delle vagine colme di ventose. Risucchiano il terreno che dovrebbero calpestare, lo nascondono e rigettano come un’altra e inaccessibile dimensione, una fisica squassata. Capita si inumidiscano, e allora diventano mani.

 

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Le zampe posteriori

Le zampe posteriori dell’Ircocervo sono una geometria rosa e gommosa. Non zoccoli, alle estremità, ma bocche: senza estensione, tuttavia profondissime, dentate ai bordi, si annidano, tra le arcate e le gengive, gli incubi dei primi uomini. Ogni cosa assume consistenza, si addensa, poi sprofonda e riemerge, bruciacchiata, vibrando tra la coda e il mondo. La coda La coda dell’Ircocervo è una stella di cenere lunga un mondo e mezzo. Pelosa, trema e fa la muta all’inizio dell’estate. Capita cada, e cadendo una costellazione lontana, impenetrabile, collassi fragorosamente. Diventa spesso un corno, più raramente una cometa

 

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La coda

La coda dell’Ircocervo è una stella di cenere lunga un mondo e mezzo. Pelosa, trema e fa la muta all’inizio dell’estate. Capita cada, e cadendo una costellazione lontana, impenetrabile, collassi fragorosamente. Diventa spesso un corno, più raramente una cometa.

 

The Sun Weeps for the Land And Calls from the Garden of Stones

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di Valentina Cabiale

“I colori sono eguali per tutti. Soltanto io, Blu di Prussia, sono parziale, spesso per puro amor di polemica; e non perdono quei mediocri che mi amano. Ma soffro egualmente”. Così faceva dire Ennio Flaiano al Blu di Prussia, protagonista di una “autobiografia” pubblicata postuma nel 2003 (Autobiografia del blu di Prussia, Adelphi, Milano). Un colore schietto, maleducato, figlio irredimibile dell’età moderna e della chimica dei colori. Un blu di una sbruffonaggine che subito si macchia di malinconia.
Non è un caso che sia il colore delle 730 repliche fotografiche cianotipiche della statua della dea Sekhmet realizzate dall’artista Sara Sallam per l’installazione The Sun Weeps for the Land And Calls from the Garden of Stones (2024), esposta dall’autunno scorso al Museo Egizio di Torino, a chiusura del percorso della rinnovata Galleria dei Re.
Sara Sallam è un’artista contemporanea egiziana, che vive nei Paesi Bassi, e che attraverso i suoi lavori riflette in modo estremamente critico sulle collezioni museali, in particolare archeologiche: non solo su come si sono formate e sono state composte dai regimi coloniali del XIX e primo XX secolo, ma anche sul significato del perdurare, nelle nostre società, di queste collezioni, pur in contesti ormai consapevoli (se non altro per political correctness) della necessità di assumere un approccio decolonialista e dove le pratiche museali e di acquisizione sono mutate. Ma i reperti, nella maggior parte dei casi, restano lì dove sono – e con essi, spesso, una buona dose della nostra inadeguatezza di fronte a un passato scomodo. In questo spazio quasi irrisolvibile, dove è difficile entrare con coscienza sincera, Sallam si muove con severa semplicità, come già ha fatto in precedenza in altre sue opere, anche nel Museo Egizio stesso.
Nell’ultima installazione, in una stanza interamente dedicata, utilizza la fotografia, il video e materiali d’archivio (fotografie e stampe) per metere in scena una critica fortissima alla decontestualizzazione museale dei manufatti.
The Sun Weeps for the Land and Calls from the Garden of Stones ha come soggetto le 730 statue della dea Sekhmet realizzate per il tempio funerario di Amenofi III, presso Tebe (circa 1350 a.C.). Sekhmet, divinità della guerra ma anche della medicina, temibile quanto necessaria, era rappresentata come una donna con la testa di leonessa. Oggi le statue colossali della dea, scolpita seduta o in piedi, sono sparse per le grandi collezioni egizie del mondo, dal British Museum al Louvre al Vaticano al Metropolitan Museum of Art, e ancora a Berlino, Tokyo, Liverpool. Il Museo Egizio di Torino ne ospita 21: nel 1824 furono vendute dal console francese, di origine italiana, Bernardino Drovetti, insieme al resto della sua collezione, al re Carlo Felice, andando a costituire il nucleo del museo torinese.
La narrazione di Sallam prende avvio dall’atto violento degli occidentali che hanno estratto le statue dalla sabbia e dalle rovine del tempio e le hanno deportate altrove. Una ferita mostrata in un collage fotografico (Shifting Sands, Carving Scars), dove gli europei, Drovetti in primis, e le loro mani avide, i loro corpi estranei, sono colorati di rosso, sullo sfondo bianco e nero dell’immagini d’epoca del sito.
La storia delle 21 statue, esposte nella Galleria dei Re, è raccontata come un mito, in un video che passa su due grandi schermi, A Broken Circle of Sisters. “C’erano una volta 21 sorelle”: sacre, con la funzione spirituale di proteggere il faraone. Oggi vivono la loro vita di angoscia nei musei, separate da tutto quello che sono state e dalle loro compagne.
Mentre le statue erano depositate temporaneamente nei deambulatori del cortile centrale del museo, durante le fasi di riallestimento della Galleria dei Re, Sallam ha messo in scena un rituale per ridare loro vita. Ha allestito un tavolo, con una attrezzatura degna di un alchimista, e ha prodotto 730 repliche fotografiche, cianotipiche, di un intenso blu di Prussia, delle statue, per ricomporre l’unità perduta delle “sorelle”. Poi, con l’antico rito egiziano dell’Apertura della Bocca, ha tentato di risvegliarle e di fare in modo che l’essenza divina della statua si trasferisse sull’immagine fotografica, così che la riproduzione potesse vivere una vita vicaria al posto del manufatto originale.
I due schermi riproducono un video molto simile ma non sono sincronizzati, e questo – insieme al fatto che il filmato è riprodotto a scatti, come una sequenza rapida di immagini sequenziali – esalta la ritualità della ripetizione e l’ossessività del rito, ricordando le preghiere e le litanie che tutte le religioni utilizzano per avvicinarsi al divino.
Le più di 700 riproduzioni cianotipiche sono esposte in due lunghe vetrine a tavolo che rimandano al processo ripetitivo della creazione delle statue (una produzione non del tutto terminata, come stanno dimostrando gli studi degli archeologi sulle sculture, dai dettagli e dalla lavorazione spesso non terminate).
Nell’ultimo atto del rituale, le 21 immagini che hanno assunto lo spirito delle statue vengono riportate in Egitto, alla cava di Assuan dalla quale è stata estratta la loro pietra, e infisse nella terra a riprodurre lo stato originario.
L’opera di Sara Sallam fa riflettere su cosa manca agli oggetti in un museo; quasi sempre, e soprattutto a quelli archeologici: sulla totale perdita della funzione originaria e sullo strappo violento dal contesto di origine.
Sulla scia di alcuni antropologi quali Alfred Gell e Arjun Appadurai si parla e scrive molto, tra gli archeologi, di biografia e vita sociale degli oggetti, della loro agency nei nostri confronti, ma spesso i musei ci mettono di fronte al contrario di una biografia: per quanto con le didascalie tentiamo di dire qualcosa sulla vita di quei manufatti, in realtà avremmo molto di più da raccontare – e forse dovremmo sforzarci di farlo, per comprendere il significato del patrimonio materiale che conserviamo – sulla loro morte. La nozione antropologica di biografia dell’oggetto è insita nella cultura e nell’ontologia del museo ed è criticabile come ha fato Dan Hicks, che la considera intrinseca a un approccio irrimediabilmente colonialista. È un concetto che blocca quei manufatti in una visione limitata, che trascura le storie di perdita e di morte dei reperti prelevati; le storie delle ruberie, dei prelievi (autorizzati e non), dello strappo dalla terra che per secoli li aveva sepolti, ovvero tutto ciò che Hicks ha definito la necrography di un oggetto.
Sara Sallam in un certo senso sembra fare questo, raccontando la perdita di senso delle statue e la lunga vita vacua all’interno di un museo. Un filone narrativo che manca, nella sua opera come nella narrazione di quasi tutti i musei, è quello relativo a cosa succede a partire dall’abbandono, dalla perdita di funzione, dal seppellimento delle stratigrafie e dei manufatti archeologici, sino alla loro riscoperta da parte degli archeologi. Il tempo dell’abbandono è generalmente ben più lungo di quello dell’esistenza e della rinascita archeologica, ma è la storia più difficile da raccontare. Quando gli occidentali estraggono le statue di Sekhmet dalla terra, il tempio era già stato in buona parte smantellato. Sallam non si interessa a questo aspetto ma cerca di rimettere in moto la storia di questi manufatti e con un gesto poetico, artistico e creativo, mete in atto delle pratiche per ridare ad essi un significato autonomo rispetto alla vetrina museale.
La critica all’etica museale è senza sconti. Eppure Sallam a ben vedere propone una alternativa, una possibilità altra, rispetto alla restituzione fisica dei manufatti, spesso intesa come l’unica via attraverso la quale un museo può decolonizzarsi, liberarsi del peccato originale e salvarsi l’anima. Ma la pratica della restituzione coinvolge fattori niente affatto scontata e spesso è strumentalizzata, inquinata dal politically correct, ammantata di pretese nazionaliste e sovraniste. Anche perché non ci si sofferma quasi mai sul “dove” della restituzione. Restituire significa nella stragrande maggioranza dei casi destinare i manufatti a un museo del paese di origine. Si restituisce al luogo di provenienza, quindi a una geografia, ma è impossibile restituire (questo è particolarmente evidente per l’Egitto, ma vale in molti altri casi) alle comunità originarie, alle culture o civiltà, per il semplice fato che non esistono più. Il legittimo proprietario, il contesto reale di provenienza (fisico culturale e antropologico) sono perduti o sono conservati in modo precario o parziale, senza contare che le atuali legislazioni di tutela impedirebbero quasi sempre la ricollocazione originaria dei manufatti.
Il lavoro rituale di Sara Sallam con delicatezza rimette a posto le cose, seppure in modo paradossale in quanto critico. Dà un colpo netto all’idea di “contesto” cara agli archeologi ma sovente tanto ristretta. Il contesto non è solo quello del ritrovamento (la tomba, l’abitazione, …) ma incorpora secoli e secoli di modificazione del paesaggio culturale difficilmente riducibili in una didascalia; come un buco nero, ha deformato lo spazio-tempo al quale siamo abituati. E la sua perdita, la sua incomprensione nel contemporaneo, è qualcosa – come Sallam ha dimostrato in altri lavori – che di solito non piangiamo. I perduti Egizi sono solo un oggetto di studio.
È una narrazione fortemente destabilizzante – ospitata dal Museo Egizio con coraggio e onestà critica – che non solo e non tanto biasima le modalità passate di acquisizione dei reperti archeologici, ma si interroga sui dilemmi e sulle fragilità delle atuali pratiche di conservazione ed esposizione.
La diversità del blu di Prussia informa di una storia altra, presente e futura, che disarma le narrazioni storiche rettilinee e consuete, le origini e i punti di arrivo, la stabilità di quello che è già accaduto.

Quaderni impossibili (o discorso attorno a un’opera apparentemente irrealizzabile)

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di Sergio Oricci

Mio padre tra la seconda metà degli anni ’80 e i primi anni 2000 ha riempito decine, se non centinaia, di quaderni. Nel 2002, ma potrebbe essere stato il 1999 come il 2005, me ne ha donati alcuni, circa una ventina. Nel 2024 ho deciso di realizzare un’opera intitolata “Esercizio di copiatura (da un quaderno di mio padre)”. Con questo testo proverò a spiegare per quale motivo non verrà pubblicata.

Le poche righe di cui sopra sono l’unica premessa che sento il bisogno di condividere, e nel testo che segue non entrerò nello specifico del contenuto dei quaderni di mio padre, contenuto che in ogni caso è assimilabile all’idea che chiunque potrebbe avere di ciò che è possibile o meglio probabile trovare sfogliando dei quaderni: testi e immagini, i primi scritti e le seconde disegnate interamente a mano. E, oltre a non parlare di quello che è stato scritto e disegnato su quelle pagine, non parlerò neanche di diagnosi.

Ricordo il giorno in cui mio padre mi ha donato i quaderni; mi ha detto magari riuscirai a tirarne fuori qualcosa, un giorno; lo ricordo nello stesso modo in cui Vitaliano Trevisan ricorda il luccio che afferra al volo la rondine al parco Querini[1] a Vicenza; Trevisan ne parla, attraverso il personaggio di Thomas, in Un mondo meraviglioso[2] e ne parla dichiarando di non essere sicuro, o meglio di non poter essere sicuro, che si tratti di un ricordo e non di qualcosa che è avvenuto solo nella sua testa, anche per via di un’illustrazione praticamente identica alla scena in questione – un luccio che afferra una rondine – che ricorda, in questo caso con certezza, di aver visto un certo numero di volte in un libro illustrato sugli animali[3]. Dunque ecco, anche io in effetti sono abbastanza sicuro di ricordare mio padre pronunciare proprio quelle parole mentre mi porge il faldone con i quaderni, quindici o venti: magari riuscirai a tirarne fuori qualcosa, un giorno; eppure anche io – pure in assenza di illustrazioni relative a un padre che passa un faldone per documenti a un figlio in un ipotetico ma in questo caso inesistente libro illustrato sugli esseri umani – mi trovo costretto a dubitare del mio essere abbastanza sicuro e quindi a dover rivalutare non tanto la mia sicurezza in quanto tale ma il fatto che sia una sicurezza sufficiente per farci affidamento. C’è un certo margine di dubbio soprattutto relativo alla possibilità che, a distanza di almeno vent’anni, abbia costruito questo ricordo – non il ricordo di mio padre che mi dona i quaderni, che non è in discussione, ma quello delle parole da lui pronunciate – per trovare una giustificazione al fatto che oggi voglia appropriarmi dei quaderni di mio padre e intervenire su di essi, e soprattutto per convincere prima me stesso e poi gli altri che questa opera, questa idea di opera, questa volontà di intervento che in parte si è già concretizzata in un intervento che a questo punto non credo vedrà mai la luce se non nell’oscurità della mia sporca coscienza e delle mie stanze, non abbia bisogno della firma di mio padre, non abbia bisogno della sua autorizzazione, non abbia bisogno del suo nome.

Come accennavo, non ho alcun interesse a parlare qui del contenuto dei quaderni, perché il mio intervento resterebbe esattamente lo stesso qualsiasi fossero le parole messe in fila e le immagini e i grafici e gli elenchi puntati eccetera eccetera; ma ho interesse a parlare invece della mia opera, quella che avrei voluto realizzare ma che non realizzerò per questioni che riguardano il muro su cui mi sono scontrato quando ho provato a mostrare il mio lavoro, o meglio parte di esso, a chi pensavo potesse capirlo, perfino per accoglierlo; e non mi sbagliavo, o meglio non mi sbagliavo al 50%: erano le persone giuste per capirlo, e infatti l’hanno capito, ma non le persone giuste per accoglierlo, e infatti non l’hanno accolto. Le questioni etiche che l’appropriazione del lavoro altrui apre sono diverse e sono complesse, e ho compreso le obiezioni che in fondo neanche ci sono state, le perplessità che in fondo neanche ho dato il tempo di esprimere fino in fondo, perché sono stato io il primo a fermarmi quando ho capito che il mio intervento era stato frainteso, e che era stato frainteso per colpa mia.

L’opera avrebbe dovuto o almeno potuto essere realizzata e fruita da due diverse prospettive: performativa e testuale. La dimensione performativa doveva consistere in una situazione in cui un soggetto (il figlio) chiuso per un certo numero di ore in uno spazio espositivo insieme all’oggetto (i quaderni del padre) si produceva in un esercizio di copiatura. Riga dopo riga, pagina dopo pagina, quaderno dopo quaderno, avrebbe dovuto copiare interamente tutto quello che era contenuto nei quaderni su altri, differenti, simili, perfino identici, supporti. Il soggetto e l’oggetto avrebbero dovuto essere in qualche modo isolati da un pubblico, qualora ce ne fosse stato uno, per esempio chiusi in un cubo di plexiglas all’interno di una delle stanze dello spazio espositivo, in modo da permettere a chiunque fosse entrato di avere una visione completa del gesto, dell’atto performativo in sé, ma una visione solo parziale degli oggetti (i quaderni del padre e le copie dei quaderni del padre realizzate dal figlio) e del loro contenuto. Gli oggetti quindi sarebbero rimasti a margine dell’azione, perché quello che al soggetto interessava mettere in movimento era la relazione tra soggetto e oggetti e magari la distanza tra soggetto-figlio e soggetto-padre, cioè il modo in cui l’assenza reciproca dell’uno per l’altro agiva sull’azione stessa. Questo per quanto riguarda la dimensione performativa, che di fatto è stato il punto di partenza da cui è scaturita l’idea dell’intervento, ma che comunque si sarebbe, se mai fosse stato possibile, concretizzata solo in un secondo momento, perché l’azione performativa si scontrava con una serie di difficoltà esterne al soggetto che sarebbe stato necessario prima affrontare e poi provare a risolvere ma che avrebbero potuto perfino mandare a monte l’intero progetto se il soggetto, cioè io, avesse deciso di andare prima in quella direzione e solo in un secondo momento in quella della realizzazione di un secondo oggetto testuale o meglio documentale. C’era questo rischio perché avrei dovuto trovare un luogo, uno spazio espositivo a cui interessasse ospitare l’azione di uno sconosciuto, senza nessuna esperienza pregressa nel campo della performance art; questo avrebbe richiesto del tempo, e mentre il tempo passava avrei potuto perdere contatto con l’idea, demoralizzarmi, cosa che avrebbe messo fine alla questione prima ancora di aver compiuto anche solo un piccolo passo. È per questo motivo dunque che ho scelto un approccio credo controintuitivo e, invece di documentare la performance con il risultato dell’esercizio di copiatura o con un lavoro di sintesi successivo all’esercizio di copiatura, ho scelto di realizzare prima la sintesi, prima il documento, o almeno una parte del o dei documenti, una parte necessaria intanto ad avere qualcosa tra le mani, che è sempre d’aiuto quando non si riesce a liberarsi di un’idea. Era importante spostarmi il prima possibile in un laboratorio, sperimentare, mettermi e mettere l’idea in movimento per poi in qualche modo fermarne almeno un segmento, una parte, in un determinato momento e in un’unità di spazio concettuale ma anche fisico, anzi direi più fisico che concettuale in quanto è lo spazio fisico (un foglio di carta, un file) che aiuta a mettere ordine al caos mentre lo spazio concettuale è tanto caotico quanto il numero di volte in cui è possibile immaginare qualcosa dandogli forma e sviluppi che sono certamente possibilità del linguaggio, della messa in scena, dell’espressione di una certa manualità che l’autore o chi per lui può avere o non avere quando si troverà a uscire dal pensiero e a entrare nell’azione. Il laboratorio e l’esperimento sono i luoghi in cui le cose accadono prima di accadere o perfino i luoghi in cui alla fine le cose accadono e basta. E quindi è proprio uscendo dal pensiero, dall’unità di spazio concettuale, ed entrando nell’agire e nell’unità di spazio fisico, che è possibile capire se un’idea sia o non sia realizzabile e se sia o non sia possibile metterla in atto come la si era pensata, e quali sono le reali possibilità e i limiti, propri e dell’idea stessa.

Ho allora iniziato con uno dei quaderni, il mio preferito se così si può dire, e ho scelto di copiarne il contenuto mettendo tra me e l’oggetto degli strumenti formali e tecnologici, dove per strumenti formali intendo le mie decisioni in merito a cosa trascrivere e cosa non trascrivere, a quali immagini copiare e quali non copiare; li chiamo strumenti formali perché le scelte dovevano riguardare l’oggetto di partenza e quello di arrivo in termini di struttura e di quanto la sintesi fosse formalmente aderente alla fonte da cui veniva estratta, e fare una sintesi era un passaggio assolutamente necessario in questa fase perché per capire se il progetto potesse essere portato avanti avevo bisogno, ripeto, di avere qualcosa tra le mani, qualcosa che però fosse significativo e non una selezione casuale di testi e immagini: una sintesi appunto che avesse una forte corrispondenza formale e strutturale con ciò che alla sintesi aveva dato origine; mentre per strumenti tecnologici intendo il computer che ho utilizzato per l’esercizio di copiatura, lo scanner che ho utilizzato per digitalizzare alcune delle immagini, la connessione Internet e lo spazio di archiviazione in cloud che ho utilizzato per assicurarmi che il lavoro non andasse perso, i software di ritocco fotografico che ho utilizzato per capire se fosse il caso di lavorare sulle immagini acquisite per fare in modo che anche quelle scansioni non fossero solo digitalizzazioni delle immagini originali ma miei interventi sulle digitalizzazioni delle immagini originali eccetera eccetera. La necessità di avere qualcosa tra le mani non era, in ogni caso, l’unico motivo per cui ho deciso di fare una sintesi, una selezione: a differenza del momento performativo, durante il quale il pubblico non avrebbe avuto accesso, se non in maniera parziale, al contenuto dei quaderni di mio padre e al contenuto del mio esercizio di copiatura, nel momento in cui avessi terminato la realizzazione del mio oggetto, del mio testo, del mio esercizio di copiatura, e lo avessi fatto non durante la dimensione performativa in cui la distanza tra me e il pubblico, tra il pubblico e l’oggetto, consisteva nella gabbia di plexiglas o in tutto ciò che avrebbe impedito al pubblico di leggere nel dettaglio i quaderni, ma nella solitudine del dialogo tra me e mio padre o meglio tra la mia assenza per lui e la sua assenza per me, ecco in quel caso era indispensabile mettere una distanza tra me e i suoi quaderni e in un certo senso tradurre i suoi quaderni nella mia lingua, che non significava dover modificare la lingua di mio padre ma fare in modo che la lingua di mio padre, nella quale comunque trovavo e trovo una corrispondenza con la mia lingua adulta (la lingua dei miei anni più recenti, in altre parole) in termini di sintassi, di costruzioni ipotattiche e anche per alcuni tic linguistici che sembrano essere passati da lui a me attraverso il materiale ereditario, attraverso la genetica, cosa che peraltro appare del tutto probabile, ecco volevo fare in modo che questa lingua fosse filtrata in qualche modo da me, da me che leggevo e da me che copiavo non copiando tutto ma scegliendo cosa copiare (sì, sì, no, ancora sì eccetera) e come farlo (testo barrato, apice, pedice, corrispondenza nei colori, nei grassetti, e poi ancora copiare a mano, con uno scanner, ridisegnare i suoi disegni, digitalizzarli eccetera). C’era poi un’altra questione, rimasta in effetti irrisolta fino al confronto con, per così dire, il mondo esterno, che riguardava il modo in cui mio padre si avvicinava ai suoi quaderni quando non erano ancora stati riempiti, durante la sua azione di scrittura insomma, e allo spazio fisico e concettuale da loro delimitato. Sì, perché mio padre sovente iniziava a scrivere dalla prima pagina di un quaderno e continuava fino ad arrivare a metà, per poi girare il quaderno e riprendere a scrivere da quella che in teoria sarebbe dovuta essere l’ultima pagina, quindi ruotando l’orientamento del testo di 180 gradi; non riesco a essere certo della sequenza delle sue azioni perché a lavoro finito, a quaderno riempito, il testo dell’ultima pagina orientata in modo X (dall’alto verso il basso) andava a toccarsi con il testo dell’ultima pagina orientata in modo Y (dal basso verso l’alto) e – contrariamente a quanto si potrebbe immaginare – l’ultimo frammento di testo iniziava nelle ultime righe dell’ultima pagina Y e terminava, a testa in giù per così dire, a testa in giù rispetto al suo inizio, nell’ultima pagina X; quindi il modo in cui mio padre metteva in sequenza il ribaltamento doveva essere insomma un modo tutto suo che forse riuscirò a risolvere leggendo e rileggendo tutti i quindici o venti quaderni in mio possesso. Questo testo però si concentra sulla sintesi del primo quaderno e si limita a raccontare del perché l’esercizio di copiatura dei quaderni di mio padre, se pure potrà essere realizzato in modo clandestino e per uso privato, non vedrà mai la luce fuori da me, almeno fino a quando la situazione sarà questa e non cambierà in modo tanto drastico da non rendere neanche più necessario ragionare intorno alla o continuare a lavorare sulla opera in questione, e a quel punto, il peso di questo intervento, la gravità di questa azione, si alleggerirà così tanto da mettere questa idea, questa possibilità del linguaggio, sullo sfondo di qualcos’altro che allora apparirà urgente come adesso appare urgente l’esercizio di copiatura che non potrò realizzare, almeno non come l’avevo pensato, ma che dovrò limitarmi a rinchiudere in questo blocco di testo in cui la mia sintassi e quella di mio padre forse si sfiorano, ma in cui poi tutto si riduce all’impossibilità di toccarsi davvero. La questione dell’orientamento del testo, dicevo, non si è risolta perché dopo alcuni tentativi e alcune prove ho deciso di creare due file differenti: da una parte un file Word in cui il testo, per questioni di leggibilità, sarebbe stato organizzato in modo normale, tutto orientato dall’alto verso il basso e messo in una sequenza che più o meno mi sembrava fosse quella voluta da chi aveva scritto e disegnato, quindi da mio padre; dall’altra un PDF con lo stesso orientamento del quaderno originale, quindi con la necessità, per chi lo avesse letto – se mai qualcuno lo avesse fatto –, di ruotare di 180 gradi il file una volta arrivato a metà, a meno che non si fosse trattato di qualcuno in grado di leggere anche un testo capovolto; in quel caso avrebbe tranquillamente potuto continuare senza ruotare ma sarebbe comunque dovuto andare all’ultima pagina e tornare indietro di pagina in pagina fino a raggiungere di nuovo il centro; il modo più naturale per avvicinarsi a un testo del genere comunque è di farlo così come ci si è avvicinato chi lo ha scritto, dunque ruotando il PDF così come mio padre si era girato il quaderno tra le mani per riprendere a scrivere, presumibilmente, dal fondo.

Una volta terminata la sintesi del quaderno, di cui ero piuttosto anche se non del tutto soddisfatto, ho iniziato a pensare a chi potessi inviarlo per un parere, per un confronto, anche con, magari, l’idea di pubblicarla. Le prime persone a cui ho mandato i due file, capovolto e non capovolto, sono state Nicoletta De Rosa e Roberto Cuoghi, artisti visuali con cui da qualche tempo intrattenevo una sporadica ma intensa corrispondenza e con cui avevo avuto occasione di pranzare, tempo addietro, nel loro studio di Milano un volta, o forse ancora, chiamato Retrobalera, occasione che mi aveva permesso di incontrare anche Alessandra Sofia, altra artista visuale con cui Cuoghi e De Rosa lavorano. Nicoletta De Rosa ha definito la lettura delle pagine faticosissima, cosa che mi è sembrata molto positiva, anche perché secondo lei era proprio la fatica richiesta, anzi imposta, dal testo a essere il suo principale motivo di interesse. Ho poi inviato gli stessi file, Word e PDF alla redazione di GAMMM[4], la rivista di letteratura, critica, installazioni, post-poesia, scrittura asemica e di ricerca, fondata nel 2006 da Gherardo Bortolotti, Alessandro Broggi, Marco Giovenale, Massimo Sannelli e Michele Zaffarano, tutti autori – ad eccezione di Massimo Sannelli – che al momento dell’invio già conoscevo piuttosto bene, non personalmente ma attraverso i loro testi e i libri da loro scritti e pubblicati. L’invio a GAMMM mi sembrava in effetti l’unica possibilità sensata per il mio intervento, che a quel punto aveva un titolo, Esercizio di copiatura (da un quaderno di mio padre) – a cura di Sergio Oricci, e una sua forma più o meno definitiva seppur duplice, almeno per quello che riguardava la sintesi del primo tra i quaderni. Inviare a GAMMM mi sembrava l’unica soluzione sensata per tre motivi: il primo era che avevo già pubblicato, con l’eteronimo Emanuela Gatti, su GAMMM, una installazione testuale, che di fatto poteva considerarsi un altro esercizio di copiatura, intitolata Una nota su Autoritratto automatico di Umberto Fiori (Garzanti, 2023)[5], che non era solo una nota su Autoritratto automatico di Umberto Fiori[6] pur potendo in effetti essere letta anche come tale: si trattava di un testo installativo in cui avevo usato il pretesto del titolo di un’opera di Umberto Fiori e che consisteva nell’esercizio di copiatura di una serie di indicazioni apposte su una macchina automatica per fotografie in cui mi ero imbattuto a Roma; avevo copiato i testi e sostituito alle immagini dei falsi tag  <IMG>  </IMG>, e l’idea era quella di far parlare tra loro le macchine automatiche per ritratti che ancora si trovano in giro con una certa frequenza con gli autoritratti automatici di Fiori, facendo forse perfino intuire al lettore quanto poco avessi apprezzato l’opera di Fiori; quindi insomma in qualche modo GAMMM mi aveva già capito e già accolto. Il secondo motivo era che i fondatori di GAMMM erano e sono persone con cui mi faceva e mi fa piacere confrontarmi e dialogare, perché apprezzo le cose che scrivono e perché riconosco quello che fanno e hanno fatto per tutto il grande insieme di scritture definite di ricerca, che è secondo me la zona in cui la scrittura è riuscita a frammentarsi e a espandere sé stessa quanto l’arte visuale. C’è infine un terzo possibile motivo per cui poteva avere senso pubblicare quel testo su GAMMM: Arthur Danto, critico d’arte statunitense, parlando delle Brillo Box di Andy Warhol (a loro volta un esercizio di copiatura), sosteneva che la differenza tra una Brillo Box che chiunque poteva trovare al supermercato e una di Andy Warhol era una certa teoria dell’arte che definiva il significato delle Brillo Box di Warhol al di là del loro aspetto, e che fosse proprio la teoria dell’arte a impedire che l’opera collassasse nell’oggetto che sembrava essere[7]. C’è però un modo per riconoscere un’opera d’arte senza conoscere la teoria dell’arte su cui l’oggetto si poggia? Una risposta, ma non la risposta, si può trovare in una frase attribuita a Marcel Duchamp (ma secondo qualcuno di André Breton), presente alla voce Ready-Made del Dictionnaire abrégé du Surréalisme, curato da André Breton e Paul Éluard[8], secondo la quale un oggetto di uso comune può diventare un’opera d’arte anche soltanto grazie alla scelta dell’artista, cosa che può portare alla possibilità, per il pubblico, di demandare la conoscenza della teoria dell’arte a chi gestisce gli spazi in cui l’arte avviene. E dunque se una Brillo Box si trova in un supermercato, tra asciugamani e casse di birra, probabilmente sarà soltanto un bene di consumo, mentre se si trova alla Stable Gallery di New York, dove l’opera di Warhol è stata esposta per la prima volta nel 1964, allora è probabile che, oltre a quello che è possibile vedere a un primo sguardo, possa esserci qualcos’altro. Non è importante capire cosa ci sia al di là di quel primo sguardo, non è importante sapere quale sia la teoria dell’arte che impedisce all’opera di collassare nell’oggetto che sembra essere, questi dettagli in fondo non ci interessano; la cosa importante è sapere che qualcosa c’è, che una teoria dell’arte può o almeno potrebbe esserci. Non sono completamente d’accordo né con l’affermazione di Danto – le Brillo Box di Warhol differivano da quelle che si trovavano al supermercato anche per materiale e peso, per esempio – né con quella attribuibile a Duchamp – credo che un’opera abbia un valore estetico e una capacità di mettere l’osservatore in relazione con l’oggetto che vanno al di là del contesto in cui viene posizionata e al di là della persona che l’ha realizzata – e sono comunque questioni su cui varrebbe la pena riflettere ancora un po’, ma prendendole per un attimo per vere e lasciando da parte le sfumature, un esercizio di copiatura che resta in un cassetto ha quindi un certo significato, mentre lo stesso esercizio di copiatura pubblicato su GAMMM ne ha un altro, o quantomeno insinua il dubbio in chi lo guarda o in chi lo legge che un altro significato possa esserci, cosa già più che sufficiente per decretare la riuscita, o perfino il successo, di un intervento di questo tipo.

Nel mandare il testo alla redazione di GAMMM però commetto quasi subito il primo errore. Non nella prima mail, in cui spiego brevemente che l’opera è un esercizio di copiatura dei quaderni di mio padre e che è un lavoro che apre per me una serie di riflessioni sia personali sia sulla questione dell’appropriazione dell’altrui frammentazione del pensiero, ma nella seconda in cui, dopo una risposta positiva della redazione in cui mi viene detto che il testo è stato ritenuto molto interessante e dunque meritevole di pubblicazione, in coda al mio messaggio dico che questa volta – a differenza di quando ho usato l’eteronimo Emanuela Gatti per pubblicare Una nota ad Autoritratto automatico di Umberto Fiori (Garzanti, 2023) – se si dovesse pubblicare l’esercizio di copiatura dovrei usare il mio vero nome, per una questione di correttezza nei confronti di mio padre. Con questa mia richiesta, anche se non me ne rendo ancora conto, sto già alimentando il o perfino dando vita al fraintendimento che da questo momento in avanti avrà luogo: il mio esercizio di copiatura (da un quaderno di mio padre) da adesso in avanti inizierà a essere l’opera di qualcun altro o un’opera realizzata in collaborazione con qualcun altro. Un qualcun altro che però è assente. Assente e vivente? Mi viene chiesto. Assente e vivente, rispondo. E che l’errore abbia generato un fraintendimento o meglio il fraintendimento, quel fraintendimento definitivo che non è e non sarà possibile risolvere e da cui non è e non sarà possibile tornare indietro, non a uno stato precedente al fraintendimento se non altro, perché il fraintendimento ormai c’è stato ed è irrimediabile, qualunque cosa io dica o faccia o provi a spiegare, insomma che il fraintendimento ci sia e sia gigantesco e finale è chiaro quando Marco Giovenale di GAMMM mi chiede il nome di battesimo di mio padre e io rispondo scrivendo il suo nome di battesimo e dando quindi a mio padre, assente e vivente o perfino assente ma vivente, una sorta di diritto di firma su un’opera che non è sua ma che adesso non è più neanche mia o che, se anche fosse ancora mia almeno in parte, è altrettanto almeno in parte anche sua e questo significa, così mi dice Marco Giovenale, che avremo bisogno di una sua autorizzazione per pubblicare la mia opera, di un suo consenso per pubblicare queste pagine, che davvero meritano di uscire, mi dice. Io a questo punto non posso fare altro che prendere atto degli errori madornali che ho commesso: avrei dovuto presentare l’opera sì come un esercizio di copiatura, sì come un esercizio di copiatura dai quaderni del padre, ma non come un esercizio di copiatura dai quaderni di mio padre in cui fosse il contenuto dei quaderni a fare l’opera; avrei dovuto presentare il mio lavoro spiegando come l’opera fosse la copiatura in sé e nient’altro, e avrei dovuto subito mettere in chiaro che qualunque cosa avessi copiato, che fossero i quaderni di mio padre, le istruzioni di una macchina fotografica automatica, gli ingredienti di qualche merendina industriale, erano l’esercizio di copiatura e il modo in cui avevo deciso di realizzarlo a contare, molto più dell’oggetto della copiatura. Nel caso specifico, certo, non direi però che si possa completamente ignorare l’oggetto dell’esercizio, perché qualcosa racconta, ma questo semmai è un altro motivo per il quale non c’era, secondo me, bisogno di nessun consenso, di nessuna autorizzazione; provo a spiegarlo così come l’ho spiegato nella mia ultima mail a GAMMM, mail inviata non per convincere Marco Giovenale e il resto della redazione che il testo si dovesse o si potesse pubblicare – quella ormai per me era già una questione chiusa per via degli errori di cui sopra da cui non avrei potuto in nessun modo, ma se è per questo neanche avrei voluto, tornare indietro – ma solo per iniziare a ragionare attorno a un’altra possibile opera, non all’esercizio di copiatura ma all’opera che sto scrivendo adesso, a questo testo: nel momento in cui avessi chiesto il consenso, l’autorizzazione, a mio padre, al massimo lo avrei fatto per aiutarlo a pubblicare i suoi testi magari lavorando con lui, una cosa che certamente potrebbe anche essere interessante e potrei anche voler fare, ma che al momento non posso, o non voglio, ancora fare e che comunque non potrebbe essere fatta in relazione a questo esercizio di copiatura che alla fine non si farà, che non farò. Perché nel momento in cui dovessi chiedere un’autorizzazione e lavorare con lui alla pubblicazione dei suoi testi, si tratterebbe appunto dei suoi testi e non del mio esercizio di copiatura; non esisterebbe più nessun esercizio di copiatura, nessuna necessità di un esercizio di copiatura, perché ci sarebbero già i testi e potremmo pubblicare direttamente quelli, e perché quindi copiare dei testi e pubblicare un esercizio di copiatura di testi e immagini quando si hanno a disposizione già i testi e le immagini originali e c’è perfino il consenso dell’autore a pubblicare quelli? Inoltre non esisterebbe neanche più il tentativo da parte mia di parlare della reciproca assenza di me per mio padre e di mio padre per me, in quanto nel momento in cui dovessi riuscire a parlare con mio padre per chiedergli il consenso alla pubblicazione, perfino ottenendolo, non ci sarebbe più nessuna assenza reciproca ma invece ci sarebbe una presenza, per quanto breve, per quanto più o meno significativa, ma certamente non sarebbe più un’assenza reciproca, ecco, ma ci sarebbero invece due persone che collaborano per rendere dei testi e delle immagini un’opera, che è forse l’opposto di un’assenza reciproca, o se non  è l’opposto è comunque qualcosa di lontanissimo da un’assenza reciproca e non credo ci siano dubbi in proposito. Sarebbe come aver preteso che Richard Prince, fotografo statunitense nato a Panama nel 1949, chiedesse l’autorizzazione agli autori delle fotografie che lui ha fotografato nel suo personale esercizio di copiatura; non l’ha fatto, non ha chiesto nessun consenso, perché, proprio come nel caso del mio esercizio di copiatura, se lo avesse fatto, il suo esercizio di copiatura non avrebbe avuto più nessun significato. E, ma è solo una nota a margine, nel 2008 qualcuno (il fotografo francese Patrick Cariou) ha provato a denunciare Prince per violazione del copyright, ma il processo si è concluso con l’assoluzione di Prince perché la corte d’appello ha riconosciuto il rispetto da parte di Prince del fair use[9]. Al di là dei precedenti e delle questioni legali, in ogni caso, Esercizio di copiatura (da un quaderno di mio padre) – a cura di Sergio Oricci, che sarei io, consisteva nell’appropriazione da parte mia dei quaderni che mio padre mi ha donato venti anni fa e che sono oggi, almeno per quella che è la mia percezione, diventati dei documenti di archivio che testimoniano la nostra reciproca assenza, e che io avevo deciso di copiare mettendo tra me e loro, tra me e mio padre, degli strumenti formali e tecnologici. Ci ho provato ma non è stato possibile, un po’ per gli errori di cui ho già detto, un po’ per la natura stessa dell’intervento, che è forse irrealizzabile almeno così come l’avevo concepito, e penso a questo punto di aver detto tutto, che non ci sia altro da aggiungere, e adesso dovrò soltanto fare pace con questa impossibilità e farmene prima o poi una ragione.

[1]     “il luccio uscì dall’acqua improvvisamente, senza alcun preavviso, nessuna increspatura, nessun rumore, niente, uscì semplicemente dall’acqua e si contorse nell’aria per poi distendersi in tutta la sua spaventosa e luccicante lunghezza, le fauci spalancate, a ghermire una rondine che, incautamente, si era abbassata un po’ troppo sul pelo dell’acqua.” Un mondo meraviglioso, Vitaliano Trevisan (da Trilogia di Thomas, Einaudi, 2024; pag. 36)

[2]     Theoria, 1997; Einaudi, 2003; infine inserito in Trilogia di Thomas, Einaudi, 2024

[3]     “Una delle mie illustrazioni preferite era appunto l’illustrazione riguardante il luccio, e tante volte l’avevo guardata e ci avevo fantasticato sopra, che ora non sono affatto sicuro di questo ricordo, non sono affatto certo che questo ricordo, che è comunque un ricordo, sia il ricordo di qualcosa di reale, di un fatto successo, o piuttosto il ricordo di una fantasticheria.” Un mondo meraviglioso, Vitaliano Trevisan (da Trilogia di Thomas, Einaudi, 2024; pp. 36-37)

[4]     https://gammm.org/

[5]     https://gammm.org/2024/02/22/una-nota-su-autoritratto-automatico-di-umberto-fiori-garzanti-2023-emanuela-gatti-2024/

[6]     Garzanti, 2023

[7]     “Quello che alla fine fa la differenza tra una Brillo Box e un’opera d’arte costituita da una Brillo Box è una certa teoria dell’arte. È la teoria che la porta nel mondo dell’arte e le impedisce di collassare nell’oggetto reale che è.” The Artworld, Arthur C. Danto, 1964

[8]     Domaine français, 1938

[9] “Il fair use (in italiano, uso o utilizzo lealeequo o corretto) è una disposizione legislativa dell’ordinamento giuridico degli Stati Uniti d’America che regolamenta, sotto alcune condizioni, la facoltà di utilizzare materiale protetto da copyright per scopi d’informazione, critica o insegnamento, senza chiedere l’autorizzazione scritta a chi detiene i diritti.” Wikipedia

Vivere per sottrazione. Su “L’anniversario” di Andrea Bajani

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ph. Luigi Ghirri, Viva il 25 aprile ! (Modena, 1978)

di Valeria Merante

Nel libro La fine degli amori di Claire Marin, l’autrice scrive: «Certe lealtà non sono più legami, ma un cappio che si stringe attorno al collo». La costanza nelle relazioni, dice Marin, quando certi assetti per forza di cose saltano a causa degli eventi della vita, diventa una costruzione artificiale e non l’effetto di un desiderio intimo. Più avanti ancora scrive che se essere fedeli a sé stessi – dove per sé stessi qui intendiamo l’io, non l’es – ci costa troppa fatica, allora bisogna darsela a gambe e venire meno agli impegni presi. Qui la fuga non si considera mancanza di responsabilità, bensì il gesto estremo di chi la propria vita se la prende finalmente in mano.

Il protagonista della storia narrata ne L’anniversario di Andrea Bajani risponde a questo impulso compiendo un gesto “scandaloso”, che è quello della fuga e della postuma dissezione della propria famiglia.

Per alcuni la fuga è un nascondiglio, ma per altri è una presa di coscienza, soprattutto quando è l’inizio di un lavoro di scavo interiore finalizzato all’individuazione: mi distacco da te per essere me. Chiunque decida, a un certo punto, di grattare via la patina superficiale che fa da involucro alle nostre esistenze deve attraversare l’oscurità che deriva dal passare al vaglio la propria famiglia di origine (dove per famiglia si intende anche, in senso lato, affetti), colta in alcune movenze o posture, e si trova costretto a osservare certi terribili fotogrammi della memoria che si credevano rimossi, e che a un tratto assumono un senso diverso, epifanico, a tal punto che la nuova luce mette a nudo un groviglio prima non visto. Non sempre è possibile scioglierlo, ma nel tentativo di venirne a capo si ripercorre un pezzo di strada che accresce la consapevolezza con cui ci muoviamo nel mondo. Il qui ed ora, posto e assodato che esista, ha un prima e un dopo. E la nostra vita, per usare la metafora della matassa, si dipanerebbe svelando a un certo punto una qualche interruzione, un nodo. Lì dove si annodano i fili è il segreto di ognuno di noi. Il groviglio è l’interruzione, il momento in cui lungo la strada priva di ostacoli dell’infanzia si impongono le figure di riferimento – in questo caso i genitori – con le loro personalità e le loro necessità egoiche, interrompendo la libera espressione di innocue creature alla scoperta del mondo.

Per un pezzo lungo il percorso ambiguo del mondo adulto si procede a tentoni, spesso in preda a  lesivi automatismi ma del tutto inconsapevoli: particelle senza attrito. Vorremmo essere noi stessi, ma siamo ancora intrappolati nel desiderio di soddisfare le aspettative, subdole o dichiarate, di qualcun altro, quindi continuiamo a orbitare attorno al nucleo, senza apparente conflitto.

Certe domande, oggi più che mai, sorgono spontanee: perché mettere al mondo un figlio se poi bisogna addestrarlo, reprimerlo, contenerlo, terrorizzarlo, inibirlo? Perché arrestare l’infanzia, ancora prima che un bambino possa sentirla nel corpo e goderne, e allevare futuri adulti interrotti, il cui meccanismo a un certo punto – a volte presto, a volte tardi – si inceppa? Quale genitore, davanti alla paternità o alla maternità, si interroga con coscienza su come ha intenzione di esercitare il proprio ruolo? Quale genitore, davanti al proprio figlio, è pienamente consapevole di essere davanti a una persona che è altro da sé, di non possederlo?

L’anniversario si inserisce nella falla aperta da queste domande. Pur non parlando esplicitamente di infanzia, si intuisce la ferita inferta al protagonista, un tempo anche lui bambino e poi adolescente, dai suoi caregivers, due personalità ipertrofiche a modo proprio: da un lato il padre patriarca, dall’altro una madre granitica che resiste all’abuso.

Le due citazioni in esergo rimandano al trauma e a quello che Tove Ditlevsen ha abilmente messo a fuoco e scritto nel primo volume della sua Trilogia di Copenaghen: «Io so che ogni persona ha una propria verità, allo stesso modo in cui ogni bambino ha una propria infanzia». La ferita dell’infanzia altera la nostra percezione del mondo, diventa il nostro occhio; il protagonista del libro di Bajani è uno dei tanti adulti interrotti, figlio di un sistema malato la cui morsa stringe ancora oggi molte coppie, anche se certa violenza strisciante, fisica e psicologica, non si vede mai a occhio nudo, mai per strada e in pubblico. Per vederla devi entrare in casa e chiuderti la porta alle spalle, perché è lì che si consuma. È lì che l’infrastruttura del nostro carattere, formatasi in risposta al trauma, incontra il suo palcoscenico migliore.

Tra le mura domestiche del condominio piemontese, sotto lo sguardo attento di un figlio che si mette in disparte e osserva, si muovono due figure, due carnefici: un uomo traumatizzato e privo di autoregolazione emotiva – un uomo che sta lì a rappresentarne molti – e una donna che avrebbe potuto vivere un’altra vita e invece si ritrova al confine con un paese straniero con due armi potentissime in mano: il silenzio e una certa forma di tenacia. E che tenacia, che determinazione a proteggere quegli uomini – «emotivamente automutilati e sconnessi», per dirla con le parole di bell hooks – dal male che loro stessi provocavano. Del resto, un uomo traumatizzato e affamato d’amore non può che traumatizzare e far morire i propri cari – i figli, più di tutto – di fame emotiva. La donna complice che ha di fianco aggrava soltanto il dramma già in essere. Perché, tornando a bell hooks, «l’accettazione collettiva da parte delle donne della violenza maschile nei rapporti di coppia, anche se maschera la rabbia, la paura […] rende difficile mettere in discussione e fermare quella violenza». Davanti alla violenza dei padri, e al silenzio complice delle madri, i bambini traumatizzati si interrompono; il tumulto interiore impossibile da decifrare diventa un cappio con cui strangolare i bisogni. Possiamo immaginare che al protagonista de L’anniversario sia successo proprio questo, e che per questo si sia fatto osservatore, facendosi da parte. In perfetto accordo con quello che ipotizziamo sia stato il suo meccanismo di difesa, ha lasciato la scena a sua madre e a suo padre. Ipotizziamo che abbia controllato le emozioni durante gli accessi di ira del padre (lo si intuisce quando rientra a casa dopo l’episodio di violenza), ha comunque lasciato che fosse la madre a decidere di restare a rimettere in ordine: un mansueto (forse schivo?) aiutante di una madre ferma sulle sue posizioni. Il perché non è dato saperlo, né al figlio né a noi lettori.

Ci sono misteri della coppia che rimangono occulti e che nella maggior parte dei casi non coinvolgono i figli. E il senso di tradimento che proviamo quando ci accorgiamo che i nostri genitori non sono adeguatamente venuti incontro ai nostri bisogni, perché impreparati, e perché noi non avevamo ancora la parola, è un altro colpo inferto. Il colpo che spinge il protagonista del romanzo a dileguarsi. A darsi, appunto, alla famosa fuga elogiata da Claire Marin.

Restiamo legati alla famiglia perché, come dice lo stesso Bajani in un’intervista, è il sangue a imporcelo. Ma il sangue dev’essere ridimensionato. Se è possibile lasciare amanti e amici, perché non sentirsi liberi di lasciare un familiare, o un genitore, o entrambi? Molti genitori lasciano i figli non solo materialmente, bensì sottraendosi al coinvolgimento emotivo. La domanda che dovremmo porci, oggi più che mai, è: perché non può succedere il contrario?

Può succedere. Se prima i condizionamenti bastavano a tenere saldi i legami senza discuterli, oggi non è più possibile. Per decenni, secoli, l’impossibilità o l’incapacità di stabilire confini faceva sì che la famiglia strabordasse, e noi strabordassimo in lei, in un invischiamento simbiotico spesso patologico. Oggi un’inversione di tendenza è possibile, e dopo aver letto il romanzo di Andrea Bajani si ha la sensazione che lo sia ancora di più.

Non ci è dato sapere se il protagonista abbia risolto o meno il garbuglio della sua vita. La sua vita privata è a margine di questa storia. Verso la fine si sente il pianto di un bimbo, suo figlio, come l’eco di un dolore antico. Grida “mamma” cinque o sei volte, dice chi scrive. Cinque o sei volte vuol dire che ha proprio bisogno di essere visto e riconosciuto, che ha paura e ha bisogno di qualcuno che lo aiuti a scoprire che non c’è alcun pericolo. Se è vero che il protagonista ha rinunciato all’eredità paterna e patriarcale, ha aderito a quella materna sottraendosi a sua volta. Il “bambino interiore” che chiama la mamma alla fine, così come le immagini tenere di un padre che tiene il figlio in braccio mentre prepara da mangiare e mostra la cartina dell’Italia, riportano all’origine di tutto, la famiglia, come in un cerchio che si chiude. La speranza che resta, a fine lettura, è che il protagonista non si sia sottratto al suo, di ménage, rimanendo un introverso osservatore ma, avendo imparato a riconoscere i propri bisogni, si sia messo in gioco andando incontro a quelli del figlio, restando sempre a guardia del bandolo della matassa.