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Lezioni d’inglese

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di Giorgio Mascitelli

L'incendio_delle_Camere_dei_Lord_e_dei_Comuni

( l’incendio della camera dei comuni e dei Lord e dei Comuni di William Turner)

Benché sia una fin troppo facile profezia che le turbolenze a cui la Brexit darà luogo alla fine verranno pagate dagli indifesi, dagli ultimi, da tutti coloro che non vogliono o non possono avere successo in questo mondo e l’unica incertezza consista nell’invenzione dell’acronimo con il quale l’apparato mediatico li ribattezzerà sarcasticamente, può essere una magra consolazione, o almeno lo è per me, provare a imparare qualcosa da questa vicenda.

Da questo punto di vista l’aspetto più interessante di questo referendum è stato lo spettacolo di sorpresa e di impreparazione per la vittoria del leave che hanno offerto i promotori dello stesso referendum, i quali, giova ricordarlo, non sono gli improvvisati capi di un movimento populista fondato da un ex comico o da un ex star televisiva o sportiva, ma i membri del governo britannico e del gruppo dirigente del partito conservatore: gente che ha studiato nelle migliori università del mondo, ha rapporti privilegiati con il mondo della finanza internazionale e conosce tutte le regole del gioco politico. In questo senso si potrebbe definire il risultato che essi hanno ottenuto, ossia quello di far ballare un intero paese intorno a un gioco di potere interno al loro gruppo, come il trionfo della meritocrazia.

L’aspetto più sorprendente della loro sorpresa, sia quella di Cameron sia quella di Boris Johnson, è che tutti i sondaggi parlavano di distanze risicate e di incertezza sull’esito finale della votazione, dunque era abbastanza evidente che potesse vincere anche il leave e non solo il remain. Non sono in grado di dire sulla base di quali elementi fossero sicuri di quest’ultimo esito ( sondaggi riservati considerati più attendibili oppure una cieca fiducia nell’attendibilità dei sondaggi pubblici), ma il fatto che non fosse stato previsto neanche un abbozzo di linea politica nel caso avesse vinto il leave è indicativo di un certo modo di pensare.

Si potrebbe dire che la scelta di convocare un referendum sulla Brexit si basava sulla scommessa che la maggioranza della popolazione inglese razionalmente non avrebbe rinunciato ai vantaggi che l’appartenenza all’Unione Europea comporta, consentendo però ai leader conservatori di giocare il ruolo spericolato dell’euroscettico moderato e pragmatico ( Cameron, Osborne, Theresa May) o di quello duro e puro ( Johnson, Gove, Leadsom). E’ una tipologia di ragionamento molto vicina a quello probabilistico che fa un broker di borsa quando decide di puntare sul ribasso o sul rialzo di un titolo o dell’intero indice, contando sul fatto che il normale risparmiatore, quello che alla borsa di Milano veniva chiamato il parco buoi, agirà secondo linee razionalmente prevedibili, senza preoccuparsi particolarmente delle conseguenze sociali o politiche della sua scelta se il calcolo si rivelerà sbagliato, grazie alla convinzione che tale opzione d’investimento sia reversibile o agevolmente compensabile con altre occasioni. E’ verosimile che un modo di ragionare siffatto si basi su un senso di onnipotenza determinato dalla consapevolezza di appartenere a un’élite, ma siccome non sono particolarmente esperto nella psicologia dei conservatori britannici può darsi che mi sbagli; quello che invece è evidente è che esso è possibile in virtù di un senso di irresponsabilità rispetto alle conseguenze sociali delle proprie scelte, come se esse fossero solo fatti individuali, e di una profonda ignoranza della prospettiva storica, ossia dell’irreversibilità di certe azioni e delle loro ripercussioni sul medio periodo. Niente di strano in tutto ciò: è una cultura abbastanza diffusa nella globalizzazione neoliberista, specie tra le élite,  che ha anche delle curiose ricadute nella mentalità collettiva: il successo della petizione on line che chiedeva di rivotare perché forse qualcuno non aveva capito o si era pentito è un interessante esempio di questa incapacità di pensarsi storicamente.

La propensione di un gruppo dirigente a giocare d’azzardo con i fondamenti di un sistema che favorisce già la propria classe sociale è classificabile a pieno titolo come una forma di avventurismo delle élite. Tra l’altro quella dei conservatori inglesi non è  l’unico esempio, perché anche in Germania Schäuble e la Bundesbank si dimostrano sempre  più attratti da una prospettiva di distruzione dell’euro e dunque del sistema europeo, che è stato letteralmente costruito sui bisogni e gli interessi dell’industria tedesca.

Per spiegare i motivi di questa propensione delle élite all’avventurismo si potrebbero elencare numerose ragioni culturali e sociologiche, tutte assolutamente pertinenti, ma in un’ottica un po’ veteromilitante,  forse però più realistica di tante altre, essa appare come il sintomo più eloquente di una difficoltà politica strutturale. Quelle classi dirigenti che avevano promesso ricchezza e libertà per quasi tutti grazie al neoliberismo, ora che è assolutamente chiaro ai più che questi beni saranno goduti da una piccola minoranza, per mantenersi in sella non possono che ricorrere al mito: sia esso quello di una contea rurale in cui la vita scorrerebbe deliziosamente tranquilla se non fosse minacciata da orde di forestieri, come già in Tolkien,  o quello di un laborioso artigiano tedesco che deve mantenere milioni di sfaccendati sulle rive del Mediterraneo.

Usare il mito significa giocare con il populismo, regolarmente prodotto dall’apparato mediatico, che negli anni d’oro della società dello spettacolo, quando bastava la contemplazione delle merci, era uno scarto di lavorazione, che poteva essere tranquillamente gettato nei rifiuti; ora che la situazione si fa più vacillante, diventa invece preziosa materia prima. Quindi l’avventurismo delle élite non è nient’altro che le forma che assume questo gioco obbligato per conservare il proprio primato.

Molti commentatori, all’interno di una crescente nostalgia neoliberale e tecnocratica per il suffragio per censo, hanno ricavato dal referendum inglese la lezione che su certi argomenti è meglio che il popolo non si pronunci ritenendo evidentemente che il popolo bestia pazza per eccellenza non debba disturbare chi sa più di lui. Al contrario, se si vogliono evitare nuovi scoppi irrazionali come la Brexit, l’unica possibilità è quella di una ripoliticizzazione della cittadinanza che dissuada le élite dall’intraprendere altre iniziativa avventuristiche sulla pelle degli altri.

Il tardo-moderno (1989-2050?) -parallelismi necessari

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di Daniele Ventre

 

Caratteristiche essenziali della tarda antichità:

sul piano sociale, incapacità di gestire i flussi migratori crescenti delle popolazioni barbariche, incapacità di integrare stabilmente i barbari nella società, permanenza e ingravescenza di atteggiamenti elitari razzistici, che portano all’eliminazione di personalità chiave, come Stilicone, vincolismo delle caste sclerotizzate e fine degli ascensori sociali che avevano caratterizzato l’alto impero, azzeramento del potere contrattuale dei lavoratori, diffusione dell’analfabetismo e restrizione dell’accesso all’istruzione, regressione della parziale emancipazione femminile che aveva caratterizzato l’età tardo-repubblicana e l’età imperiale fino ai Severi, dilagare della criminalità;

sul piano militare, l’espansionismo incontrollato a oriente ai danni dei Parti determina il crollo di questi ultimi, che vengono sostituiti, a partire dal 224 a.C., dai persiani Sasanidi, una teocrazia aggressiva; in contemporanea, si assiste alla pressione montante dei barbari, si riscontrano porosità delle linee di difesa, costi crescenti e invadenza dell’esercito, che è più inefficiente;

sul piano politico, moltiplicazione dei centri di potere (governo di più augusti) e dei costi collegati, crescente instabilità, progressiva recessione del controllo territoriale, perdita di credibilità della classe politica, capace solo di vuoti proclami;

sul piano economico, crisi produttiva, crisi monetaria, effetto della crescente instabilità politico-militare, iperfiscalismo, diffusione della disoccupazione, crollo del potere d’acquisto dei salari, conio di monete forti in pro dei grandi patrimoni e a svantaggio dei piccoli risparmiatori (il solidus aureus di Costantino);

sul piano sanitario, oltre alla sempre più diffusa insicurezza alimentare e alle sue conseguenze, si riscontra la comparsa di nuove malattie epidemiche legate alla crisi delle città e occasionate da un’espansione militare senza accurata pianificazione (l’ingresso in occidente del vaiolo, portato dalle truppe di Marco Aurelio e Lucio Vero dopo la campagna partica);

sul piano culturale, declino della conoscenza scientifica e abbandono della tecnologia, stigmatizzazione sociale della conoscenza razionale, crisi del politeismo civile, dilagare di religioni fanatiche (cristianesimo, manicheismo), di sette religiose con connotati criminali, di esoterismi truffaldini, porosità delle filosofie e delle visioni del mondo, persecuzione della diversità culturale e religiosa (persecuzione dei cristiani da parte delle autorità politeiste; poi assassinio ed emarginazione di intellettuali politeisti da parte dei fanatici cristiani venuti al potere), abbandono delle politiche di sostegno alla cultura -a fronte dell’indifferenza crescente della classe dirigente romana, se ne fanno occasionalmente carico personalità eccezionali di origine barbarica (Stilicone con Claudiano).

Caratteristiche essenziali della tarda modernità:

sul piano sociale, incapacità di gestire i flussi migratori crescenti delle popolazioni extra-comunitarie in Europa, asiatiche in Australia e sudamericane negli USA, incapacità di integrare stabilmente i migranti nella società, permanenza e ingravescenza di atteggiamenti elitari razzistici, creazione di caste chiuse e crisi degli ascensori sociali, criminalizzazione o delegittimazione del dissenso e delle ideologie di riscatto sociale che avevano caratterizzato i secc. XIX e XX, messa in discussione dell’emancipazione femminile, azzeramento del potere contrattuale dei lavoratori, diffusione dell’analfabetismo funzionale e abbassamento progressivo della qualità dell’istruzione pubblica;

sul piano militare, crescenti problemi nelle aree di confine e di marginalità sociale, in cui dominano mafie e organizzazioni terroristiche transnazionali, porosità delle linee di difesa, costi crescenti e invadenza degli apparati di controllo, che sono sempre meno adatti ad arginare la marea montante del terrorismo; inoltre, una strategia egemonica avventuristica in medio-oriente determina come contraccolpo il nascere di movimenti politici e dittature improntati al fanatismo integralista;

sul piano politico, moltiplicazione dei centri di potere e dei costi collegati, crescente instabilità, progressiva recessione del controllo territoriale, perdita di credibilità della classe politica, capace solo di vuoti proclami, azzeramento della sovranità e del primato della politica, in presenza di poteri economici transnazionali fuori controllo;

sul piano economico, crisi di iper-produttività, crisi finanziaria, causa e poi anche effetto della crescente instabilità politica, prevalenza dell’economia virtuale e del formalismo gestionale sull’economia reale, effetti devastanti dell’iperfiscalismo, diffusione della disoccupazione, crollo del potere d’acquisto dei salari, conio di monete forti in pro dei grandi capitali e a svantaggio dei piccoli risparmiatori (l’euro);

sul piano sanitario, oltre alla sempre più diffusa insicurezza alimentare e alle sue conseguenze, si riscontra la comparsa di nuove malattie epidemiche legate a un’espansione demografica incontrollata e a una distruzione cieca delle foreste pluviali, senza alcun rispetto per gli equilibri ambientali;

sul piano culturale, declino della conoscenza scientifica e stigmatizzazione sociale della conoscenza razionale, a fronte della centralità fattuale della tecnica (tecnicismo acritico), compromissione del politeismo culturale dei valori (definizione di Popper -e peraltro l’occidente è figlio di un politeismo pratico, imperfetto), dilagare di varianti fanatiche delle religioni tradizionali, di sette religiose con connotati criminali, di esoterismi truffaldini, porosità delle filosofie e delle visioni del mondo, persecuzione della diversità culturale e religiosa (persecuzione dei cristiani e dei musulmani dissidenti da parte delle autorità di molti paesi islamici; emarginazione ideologica o economica di masse di islamici -migranti allocati nelle periferie urbane- da parte dei populismi venuti al potere o dei regimi iperliberisti in occidente), abbandono delle politiche di sostegno alla cultura e alla ricerca scientifica.

Ecco perché questa è la tarda modernità. Non la modernità liquida, non l’ipermodernità, non la postmodernità: semplicemente, la tarda modernità*.

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* Paradossalmente, l’unica vera differenza sostanziale fra il tardo-antico e il tardo-moderno è data dal fatto che la civiltà tardo-antica era molto più esposta ai cambiamenti climatici naturali che connotarono i secoli III e IV, di quanto non siamo esposti noi ai cambiamenti climatici di origine antropica che connotano il secolo XXI. Nella tarda antichità, i nemici primari erano la natura e le invasioni; nella tarda modernità il peso che schiaccia la civiltà è da riconoscersi essenzialmente nelle tare culturali e politiche di una élite politico-finanziaria intimamente immobilista, autoritaria e timorosa del cambiamento.

Modello Butterfly

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di Noemi De Lisi

Non aveva dormito per tutta la notte ma aveva comunque deciso di rimanere sdraiato sul letto, immobile. Quando finalmente sentì la porta d’ingresso chiudersi, accese l’abat-jour sul comodino, si alzò e guardò il cellulare: erano le 8:00. Si girò a guardare il letto: le grinze del lenzuolo e il solco sul cuscino facevano sembrare tutto diverso, come se avesse dormito davvero. Aprì la porta della stanza, fece un passo in avanti e la richiuse dietro di sé. Rimase fermo nello stretto corridoio in penombra: «Buongiorno», disse anche se non c’era nessuno. Sua madre gli aveva insegnato a salutare la casa: “Le case vuote si salutano sempre”, gli diceva. Andò in cucina, spinse l’interruttore del lampadario a neon che singhiozzò tre volte e poi si illuminò. Il piccolo televisore sopra al frigorifero; i pensili sopra al lavello, l’armadio delle pentole, la libreria usata come dispensa, la cucina a gas attaccata alla bombola, la lavatrice, e al centro, l’ampio tavolo rustico rettangolare circondato da quattro sedie con la seduta di paglia. Erano mobili vecchi, diversi fra loro, raccattati dalle case di parenti defunti; perché come diceva sua madre: era un peccato buttarli. A lui non piacevano, lo facevano diventare una bestia. Una volta aveva urlato a sua madre: “Lurida accattona!”, le aveva detto che un giorno avrebbe preso i mobili e li avrebbe fatti volare dal balcone, anzi, che un giorno li avrebbe bruciati, avrebbe bruciato tutta la casa. Eppure, adesso non gli capitava più di innervosirsi in quel modo, si era distratto, non ci pensava così tanto. I mobili fradici, spaiati, il disordine; solo ogni tanto tornavano a disturbarlo, ma sempre meno, ci si era abituato: non c’era nulla di male in questo.

I suoi genitori erano usciti come tutte le mattine. Sua madre puliva le case di diverse signore delle quali lui non ricordava i nomi ma solo le lettere finali: Etta, Dia, Esa, Ela. Suo padre, invece, aveva perso il lavoro da quattro anni, faceva l’operaio. Così, adesso, per tenersi occupato, andava in giro per la città fino all’ora di pranzo: andava al sindacato, a fare la spesa, a fare la fila alle poste; oppure ogni tanto faceva l’autista a una signora anziana, che lui chiamava “Ursula” come la strega del mare.

Aprì uno dei pensili sopra il lavello: se non fosse stato per le lunghe antenne che si muovevano, non si sarebbe accorto dello scarafaggio fermo sull’anta. Prese un bicchiere, guardò ancora lo scarafaggio, e richiuse piano. Aprì il frigorifero, prese una bottiglia d’acqua, riempì il bicchiere fino all’orlo, lo portò alle labbra, bevve e strizzò gli occhi perché ebbe una fitta ai denti. Sapeva bene qual era il pensiero. Non aveva dormito due notti per quel pensiero. Lo sapeva ma voleva fare finta di niente. Scrocchiava le dita stringendo il pugno, ridacchiava e si diceva: «Ma no… non sarà mica per quello!». Lucia lo aveva lasciato e lui la amava ancora. «È mai possibile?», diceva scuotendo la testa con gli occhi sgranati, «è mai possibile?». Erano stati insieme otto mesi, non faceva che ripensarci. Ci pensava così tanto che i fatti cominciarono a mischiarsi fra di loro. Così, lui non sapeva più ricordare se il Primo Maggio avesse cominciato a piovere sul loro picnic. Se avessero dovuto raccogliere tutto in fretta, se fossero corsi in auto imprecando. Se chiusi là dentro, con i capelli umidi e scombinati, avessero comunque deciso di mangiare quello che avevano preparato; restando a masticare in silenzio, senza guardarsi. Oppure, se stesse già diluviando fin dalle prime ore mattutine, nonostante fosse maggio; e loro avessero deciso di rimandare il picnic a un altro giorno. E quando per la prima volta ricordò la festa di carnevale, non aveva dubbi sul fatto che Lucia avesse indossato un lungo kimono a fiori e lui una ridicola divisa da marinaretto con un fiocco blu sul petto. Ma già la seconda volta che lo ricordava, non ne era più sicuro. Fra i coriandoli e la musica della festa, ricordava bene i baffi finti sotto il naso di Lucia, e quanto lui avesse sudato sotto la parrucca che lei lo aveva costretto a indossare. Strizzava gli occhi nello sforzo di capire cosa fosse vero. Forse era stato tutto in un altro modo, forse era stata Lucia a travestirsi da marinaretto; mentre lui, invece, aveva indossato l’elegante kimono, e tutti alla festa gli avevano fatto i complimenti.

Nelle ultime due settimane, da quando si erano lasciati, aveva continuato scriverle su Whatsapp tutti i giorni. Poi lei lo aveva bloccato; così lui aveva cominciato a inviarle sms. Le aveva scritto tutti i loro ricordi, li aveva descritti uno per uno, e quando finirono, ricominciò daccapo, anche se ormai Lucia non rispondeva più. Cinque volte aveva provato anche a chiamarla, e dopo aveva smesso, perché non voleva disturbarla. Quelle volte, aveva sperato che rispondesse fino all’ultimo squillo, finché non era caduta la linea. Se lei avesse risposto, lui avrebbe cominciato a parlare subito: “Amore mio, senti qua: tu ti ricordi il Primo Maggio cosa abbiamo fatto? E com’eravamo vestiti a carnevale? Io com’ero combinato, te lo ricordi?”. Quando non muoveva i pollici veloci sul display del cellulare, trascorreva lunghe ore chiuso nella sua stanza, con la luce spenta, davanti al computer. Guardava e riguardava le loro foto insieme; leggeva e rileggeva le conversazioni della chat di Facebook. La schiena curva, la faccia vicinissima al monitor: l’unica parte di sé strappata dal buio.

Quella mattina era il 19 ottobre. Uscì dalla cucina, aprì la porta del bagno, la richiuse dietro di sé, fissò lo specchio e cominciò a strizzarsi i brufoli con due dita avvolte nella carta igienica. Si voltò, aprì il primo cassetto in alto del mobiletto bianco, prese la crema contro l’acne e lo richiuse; poi spinse anche il secondo cassetto, perché sporgeva un po’ in fuori rispetto agli altri: “Succederà qualcosa di terribile se non lo faccio”, pensava. Spalmò la crema sul viso, insistendo in massaggi circolari sui bozzi arrossati. Poi spalancò la bocca e cominciò a guardarsi la lingua come faceva da bambino. La piegava tenendo la punta sull’arcata superiore dei denti per guardarne la parte inferiore: i filamenti bluastri, lucidi di saliva. La mordeva, la sollevava, l’abbassava, l’allungava a destra, a sinistra, finché non si stancava. Lucia usciva da scuola alle tredici. Aveva deciso di aspettarla davanti al portone di casa. Finalmente l’avrebbe rivista dopo quelle settimane. Le avrebbe detto di nuovo che l’amava, glielo avrebbe detto in faccia: non c’era nulla di male in questo.

Tornò nella sua stanza e cominciò a vestirsi: la sensazione del tessuto sulla pelle la percepì lontana; come se a vestirsi fosse qualcun altro, come se lui fosse affacciato alla finestra e stesse guardando un ragazzo che si veste nel palazzo di fronte. «Lucia, Lucia, Lucia, Lucia», cominciò a ripetere, cambiando ogni volta il tono con cui pronunciava il suo nome: ora supplicante, ora infastidito, ora commosso, ora eccitato. Finì di vestirsi, indossò l’orologio e il giubbotto nero di cerata, quello che si chiudeva al collo con una fibbia. Prese il pacchetto di sigarette dalla scrivania, lo aprì per contarle e lo infilò nella tasca sinistra del giubbotto; prese l’accendino e lo mise nella stessa tasca dei jeans. Prese le chiavi dello scooter dal porta oggetti di legno a forma di mano; una volta gli era caduto a terra e si erano rotte due dita, lui ci aveva messo lo scotch ma continuavano a staccarsi. Prima di uscire dalla stanza si voltò indietro, spense l’abat-jour, aprì l’ultimo cassetto in fondo del comodino, ne estrasse il serramanico modello butterfly e lo richiuse.

Uscì per strada. La luce e l’aria fresca lo stordirono. Si strofinò gli occhi, non dormiva da due giorni. C’era stato quell’incubo e da allora non si era più addormentato per paura che continuasse. Aveva sognato di correre per strada, e di sentire la fatica dei muscoli scomparire mentre si trasformava in un animale: una bestia verde, forte, veloce, della quale poteva vedere solo le zampe che si allungavano e ritiravano nella corsa. Poi si era fermato ed era tornato a essere un uomo. Aveva visto Lucia in una chiesa vuota, l’aveva raggiunta accanto al confessionale, e aveva cominciato a urlarle in faccia che sapeva del suo segreto, che ci doveva essere per forza un segreto, che lei doveva dirglielo. Lucia aveva cominciato a piangere, e sottovoce gli aveva detto di avere avuto una bambina quando aveva sedici anni, e che questa bambina le somigliava molto, che questa bambina era come lei da piccola. Lui allora aveva cominciato a picchiarla: «Come puoi avere una figlia?», urlava. Allora tutto quello che si erano detti quando stavano insieme non era vero. Chi aveva badato a questa figlia per tutto il tempo? Come faceva Lucia a stare con lui come se non avesse una figlia? Lui piangeva, urlava e stava perdendo la voce. Lei aveva il viso tumefatto e gli aveva detto: «Mi fa impressione quella bambina ma le voglio bene lo stesso». Si era svegliato con gli occhi bagnati e le lenzuola sudate.

Mentre camminava, la strada cambiava a ogni passo. C’erano persone che gli venivano incontro, che lo seguivano, che lo superavano: “Sono tutti molli, sembrano ancora addormentati”, pensava. I passanti andavano a destra, a sinistra, alzavano le braccia, parlavano fra loro, sorridevano. Ma nonostante questo, lui non era in grado di cogliere in loro nessuna voce, nessuna espressione che non fosse disumana. Raggiunse lo scooter, tolse il bloccasterzo, aprì il bauletto per prendere il casco, lo indossò, divaricò le gambe per salire su, si diede una pacca sulla tasca destra del giubbotto, e accese il motore con un colpo di polso.

Aveva sempre avuto paura di perdere o dimenticare qualcosa. Ricordava bene, fin da bambino, le scenate che faceva sua madre quando non trovava il mazzo di chiavi. Buttava in aria tutta la casa per cercarlo: prima imprecando, urlando, con le vene del collo rosse e gonfie, poi piangendo sempre più sommessamente. Finché il lamento non si trasformava in una filastrocca, ma anziché recitare: «Gesù mio, vorrei fare un grazioso discorsino ma son tanto piccolina che ho paura di sbagliare. Io lo so che tu sei buono e sai leggermi nel cuore, Gesù mio, chiedo perdono se ti ho dato del dolore… », diceva: «Gesù mio, per favore non mi devi più punire, altrimenti poi mi viene subito di morire. Sono io la peccatrice e dai cani son mangiata. Gesù mio, non farmi più soffrire, tanto all’inferno sono destinata.» Lui a quei tempi era piccolo, si andava a nascondere nello spazio stretto fra il letto e il comodino, e rimaneva lì con le ginocchia contro il petto, la testa bassa e le mani premute sulle orecchie. Finché sua madre non si calmava, e con il viso tutto scombinato dal pianto, lo andava a cercare, lo trovava, lo prendeva in braccio e gli diceva: «Le ho trovate, vita mia, guarda, guarda dove sono! Mi pareva di averle perse. Non è successo niente, non è successo niente… ».

Spense lo scooter in via Uditore, davanti il portone di Lucia. Immaginò di vederla arrivare come sempre, come quando stavano insieme e lui l’aspettava proprio lì. Poteva fare finta di non ricordare più che lei lo avesse lasciato. Se lui avesse cominciato a parlarle come quando stavano insieme, allora forse anche lei lo avrebbe fatto. Avrebbe vinto la sorpresa, l’imbarazzo iniziale, e avrebbe anche lei detto frasi come: “Dobbiamo passare in quel negozio dell’altro giorno, ti ricordi? Quello dove c’era quella maglietta scontata. Dai, dai, non ti seccare.”, oppure: “Allora stasera sali a mangiare da me? Ti piace il cuore con la cipolla e il pelato, vero?”. Scese dallo scooter e si mise ad aspettare. La scuola di Lucia era vicina e lei sarebbe arrivata una decina di minuti dopo le tredici. Cominciò a passeggiare nelle vicinanze. Si allontanava dal portone, si fermava e tornava indietro. Si appoggiava al cofano di un’auto posteggiata, ma subito dopo si alzava. Si guardava attorno, si allontanava nuovamente, fantasticava, parlava da solo. Tirò fuori il pacchetto di sigarette dalla tasca, lo aprì e lo avvicinò alle labbra per prenderne una. Prese l’accendino e si toccò l’altra tasca. Bruciò la punta della sigaretta e aspirò il fumo profondamente. Sentiva gli occhi asciutti, come se le palpebre nel chiudersi sfregassero sulla pupilla. Un signore si avvicinò e gli domandò qualcosa, lui sobbalzò:

«Come?»

«Che ore sono?»

Guardò l’orologio: «L’una, adesso», rispose, gettò a terra la sigaretta, e la calpestò.

Fissò il signore allontanarsi. Fra poco avrebbe rivisto Lucia. Sentì lo stomaco scombussolato, come se avesse dentro qualcosa. Così, si ricordò di quel vecchio libro di favole senza copertina e con la rilegatura sfilacciata che c’era in casa. Da bambino lo andava a sfogliare spesso anche se le storie e le illustrazioni gli facevano impressione: una principessa con l’enorme testa di rospo dai bulbi sporgenti; una regina che partoriva un serpente. Si avvicinò al portone, si chinò a guardarsi nello specchietto di un’auto posteggiata, e si pettinò i capelli con le dita. Poi pensò che avrebbe potuto nascondersi dietro l’angolo del palazzo. Così, avrebbe potuto calmarsi senza che lei lo vedesse; poi avrebbe aspettato che si fosse avvicinata, avrebbe fatto un balzo in avanti e detto: “Buh!”. Lei prima si sarebbe spaventata, lo avrebbe chiamato “scemo”, poi sarebbe scoppiata a ridere e lo avrebbe abbracciato.

Si appoggiò al muro accanto al portone e rimase immobile. Nell’attesa, si preparò il dialogo in testa, tutto quello che lui e Lucia avrebbero detto. Decise le battute e le volle provare. Da una parte c’era la sua voce normale, dall’altra la sua voce in falsetto per fare Lucia. Mise una mano davanti alla bocca e cominciò a parlare freneticamente, in un mormorio; tossendo qualche volta, per non fare capire ai passanti cosa stesse facendo:

«Ciao, Samu ma com’è che sei qui?»

«Ma niente. Stavo passando, stavo sbrigando delle cose… e mi sono ricordato che uscivi da scuola.»

«Sì. Ti ricordi quando mi venivi a prendere sempre?»

«Certo che me lo ricordo.»

«Che ne so. Magari ora hai la tua vita… dopo che ci siamo lasciati.»

«Che c’entra la mia vita? Mica si possono scordare queste cose.»

«Lo so. Però non ci pensavo che te lo ricordavi.»

«E secondo te che altre cose mi ricordo?»

«Non lo so.»

«Dai, Lu… dinne una.»

«Non lo so… Ti ricordi che mi ami?»

«Me lo posso scordare mai?»

«Manco io, Samu.»

«Però mi hai lasciato.»

«Ma che vuoi, sono stata una cretina. Me ne sono pentita due giorni dopo, te lo giuro. Ma mi vergognavo a chiamarti, a dirtelo… che poi mi prendevi per pazza, che prima ti lascio e poi ti voglio di nuovo.» Quando finì di dire l’ultima battuta, sentì qualcosa negli occhi. Ci passò su il dorso della mano e vide che era bagnato. Incrociò le braccia sul petto, alzò gli occhi e vide Lucia arrivare in lontananza. Era magra e alta, sembrava un filo di fumo. Lui sorrise e si trattenne dal farle un cenno di saluto, dall’andarle incontro; continuò ad aspettare fermo, ancora.  Lucia camminava insieme a Carmela, sua sorella. Frequentavano la stessa scuola ma in classi diverse, viste da lontano o di spalle, sembravano uguali. Avevano anche la stessa voce, e certe volte, lo avevano preso in giro; lui chiamava Lucia ma rispondeva sua sorella, e lui continuava a parlare senza accorgersene finché Carmela non scoppiava a ridere e lo rimproverava: “Ma com’è che non riconosci la tua fidanzata?”.

Lucia indossava una maglietta che lui non aveva mai visto: era bianca con dei fiori rossi e gialli sul petto, circondati da piccole farfalle nere. Appena Lucia lo vide, diventò seria e abbassò gli occhi. Lui aspettò che le due sorelle fossero a pochi passi dal portone prima di infilare la mano nella tasca destra del giubbotto. Lucia gli passò accanto senza guardarlo, cercò in fretta la chiave del portone nello zaino, la trovò, la infilò nella serratura, ed entrò, seguita dalla sorella. Lui diede una spinta a Carmela ed entrò nell’androne del palazzo insieme a loro. «Che cazzo vuoi, Samuele?», gli gridò Lucia, afferrando per un braccio la sorella e indietreggiando, «non l’hai capito, mi devi lasciare stare!». Lui tirò fuori la mano dalla tasca, mosse tre volte il polso per aprire il coltello e lo sollevò sopra le loro teste.

Vedeva le ragazze agitarsi, e le loro braccia colpirlo sul petto, sulla faccia. I loro occhi erano sgranati e le bocche spalancate. Quando Lucia cercava di scappare, lui la afferrava per i capelli e affondava di nuovo il coltello nella schiena. Carmela gli tirava calci, gli afferrava la mano che stringeva il coltello, lo strattonava, lo picchiava sul braccio, gli si aggrappava al collo, lo graffiava. Mentre lui tutte le volte la spingeva via, facendola cadere davanti all’ascensore, e abbassava il coltello su Lucia continuamente. Carmela gridava, si rialzava, e si metteva fra di loro: una coltellata le finì nel collo, così profonda che un fiotto di sangue lo colpì in faccia. Lui strizzò gli occhi e si asciugò con la manica del giubbotto; Carmela cadde al centro dell’androne, e non si mosse più. Anche Lucia era per terra, ma scossa ancora da singhiozzi. Lui la guardò: era supina, il volto anemico, il labbro squarciato, una guancia bucata, i capelli lunghi sparsi sul marmo tutto sporco di sangue. Le si inginocchiò accanto, alzò ancora una volta il coltello ma si fermò. Sentì delle voci provenire dalle scale: alzò gli occhi e vide che qualcuno stava scendendo, e che la pulsantiera dell’ascensore era accesa. Allora, si alzò, scivolò, si rialzò, e uscì correndo fuori dal portone, mentre qualcuno dal palazzo gli urlava: «Che hai fatto? Fermo! Fermo!». Salì sullo scooter e partì. Sceglieva le vie a caso e accelerava. Gli bruciavano gli occhi, i denti gli battevano, sentiva le braccia molli: «Se come gli altri vorrai sembrar, questa rima dovrai recitar…», prese a ripetere, cercando di tenere i piedi paralleli fra loro, la schiena dritta, il mento sollevato e i denti fermi. Quando si trovò davanti lo svincolo per l’autostrada, lo imboccò.

Raggiunse la stazione di Bagheria nel tardo pomeriggio. Aveva buttato il giubbotto e il coltello dentro un cassonetto isolato, si era lavato la faccia in una fontana, aveva strofinato forte per fare sparire quell’alone rossastro sulla guancia. Si sentiva stanco. Aveva l’urgenza di dovere pensare a qualcosa, qualcosa che aveva perso, forse, e che doveva ritrovare: «Ce l’ho sulla punta della lingua…». Comprò un biglietto del treno e si mise ad aspettare insieme alle altre persone, dietro la linea gialla. Controllava spesso il tabellone sopra la sua testa; doveva partire, aveva fretta: “Ma perché me ne devo andare…”. Poi la gente attorno a lui cominciò a gesticolare, a spostarsi e a voltarsi incuriosita verso un gruppo di poliziotti che stava arrivando. Anche lui si girò e non appena notò le divise, cominciò a correre. I poliziotti lo raggiunsero, lo bloccarono e lo ammanettarono urlandogli di stare fermo: “Ma perché stavo correndo…”. Al suo passaggio la gente sgranava gli occhi e si domandava: «Maria santa, ma che ha fatto? Chi è? Tu lo conosci? No, manco io». Lui camminava a testa bassa tra due poliziotti. Pensò che poteva fare finta di essere anche lui fra la gente che lo stava fissando. Era la prima volta che vedeva un arresto dal vivo. Avrebbe telefonato a Lucia per raccontarglielo: «Indovina che mi è successo? Ero alla stazione di Bagheria e ho visto che arrestavano a uno! Lu, ma tu t’immagini, che ce lo avevo messo accanto mentre aspettavo il treno? Poi si è messo a correre, quelli ci sono andati dietro come pazzi, due l’ hanno buttato a terra, e lui pareva tutto mollo, in faccia era bianco, bianco, ti giuro pareva già un’altra persona. Ora gli hanno messo le manette e se lo sono portato. Ma tu t’immagini se questo aveva una pistola e si metteva a sparare? Ci ammazzava a tutti. Uno non può stare tranquillo appena esce di casa, succedono troppe cose brutte. Lui chissà che ha fatto, forse per cose di droga. Stasera lo diranno al Tgs». I poliziotti lo trascinarono fuori dalla stazione, lo spinsero sul sedile posteriore di una volante e partirono. Mentre osservava la città scorrere sui finestrini dell’auto, finalmente si addormentò.

Sguardo sottratto, dunque doppio

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di Marco Giovenale

La mostra Faccioni, di Eva Macali, installa e dispone a Roma, nelle stanze del Centro Luigi Di Sarro (dal 16 giugno, e ora fino al 22 luglio su appuntamento), e poi in autunno presso la Casa internazionale delle donne, un numero parco ma tutt’altro che avaro di opere: grandi sagome di visi di donne; figure per lo più sottratte alla cartellonistica pubblicitaria, icone dagli occhi sfuggiti-sfuggenti.

 

“Gli occhi, tradizionale sito semiotico dell’unicità, sono in parte tolti” (Jonathan Mullins, in un breve imprescindibile testo sulla mostra).

 

Il taglio del supporto di cartone o plastica, infatti, e dunque la sagomatura del volto femminile esposto, staccano-eludono-elidono gli occhi dalla nostra visione dell’immagine. Gli occhi, tolti o intaccati, vengono inoltre privati di un ulteriore ventaglio di materia, in modo che questa assenza di sguardi finisca per mimare in negativo il darsi di (quasi) fasci di luce irraggiati proprio dagli incavi orbitali.

 

Pudicizia post-pop o/e irraggiamenti anti-pop, suggerisce questo Fayyum accecato: comunque una raffica di laser mancanti. (La suggestione dei laser è evocata da Roberto Gramiccia).

 

Sguardi in meno, tracciati ed esaltati dal più di evidenza dato dalla sagomatura. Al punto da non offrire chiarezza sullo statuto di quell’osservare (il) (volto) femminile: c’è ironia su queste sottrazioni di sguardo (e materia)? Ironia sul guardare ed essere guardati? O frontalità e affermazione? “Messaggio”? (Qualcosa del genere: dopo esser state ‘salvate’ dalla pubblica anzi pubblicitaria impiccagione, le teste di veneri si vendicano negando la fascinazione degli occhi per sostituirla con un’assenza raggiante, quindi con una diversa modalità del positivo). (Che dialoga con lo spazio che le contiene e sostiene, cioè il muro, suggerisce Mullins). (E l’artista stessa precisa: “Restituisco lo sguardo a queste donne e quello che vedono è il mondo intero che abbraccia lo spettatore. In questo modo ribalto la relazione gerarchica tra chi guarda e chi è guardato”).

 

Non tutto, però, è detto, è dato, così. E negli spazi del non detto/dato sta una ulteriore parte – appunto ambigua polisemica sfuggente – del senso della mostra. Da rintracciare forse nel silenzio definitivo dei visi, definitivamente parlante, interrogativo.

 

Il senso e silenzio non afferrato si accresce forse – e si reimposta – in forma di prassi-performance suggerita da altri elementi aggiunti, non meramente accessori. Eva Macali ha infatti conservato le scocche degli sguardi, le sagome arcuate dei pannelli, dov’era ed è immaginabile il fascino-”fascio laser” originato dalle occhiate. E di queste ondulazioni ha fatto maschere, mascherine asimmetriche per coprirsi (occhi, viso) con non diversa …pudicizia di spettatori.

 

Oppure ha ricavato – dalle stesse scocche – delle lenze-macchine celibi, multimateriche, da azionare daccapo in guisa di (più articolate) maschere. Canne da pesca per acciuffare o celare o disturbare – oscillando – il gesto del vedere. Che, come si sa, sempre risponde ad altro sguardo: legge e scrive ciò da cui è letto e scritto.

 

faccione 3

 

Sul sito dell’autrice:

http://www.evamacali.info/index.php/faccioni

http://www.evamacali.info/index.php/faccioni/centro-di-sarro/

 

Album:

http://www.evamacali.info/index.php/faccioni/album/

 

Centro Luigi Di Sarro:

http://www.centroluigidisarro.it/eva-macali-faccioni-2/

 

 

I passeggeri invisibili

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di Jacopo La Forgia

I sogni esagerano sempre.

La notte prima ho sognato la capitale di uno stato molto povero, e la guerra civile. I combattenti arrivavano a mangiarsi a vicenda, per quanto si odiavano, o per altre motivazioni che non conosco. I palazzi erano ammantati da una polvere ocra e le donne si vendevano per un dollaro. Io ero intrappolato in un bus. Era invisibile, ma i guerriglieri lo vedevano lo stesso, e uccidevano tutti i passeggeri. Tranne me. Sfuggivo al massacro grazie all’aiuto di un uomo che mi veniva a prendere e mi sussurrava di seguirlo, per condurmi, attraverso uno sporchissimo mercato di carni, a un ampio ascensore dalle pareti blu. Lì ci sdraiavamo e andavamo giù.

Cinque matti alle crociate: un islamista e un medievista provano a capirci qualcosa

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di Lorenzo Declich e Anatole Pierre Fuksas

(Il dialogo aiuta. Ci siamo messi a parlare, ci siamo dati una grammatica. Che poi da piccoli volevamo essere Wu-Ming pure noi. Di recente abbiamo scoperto che invece eravamo Arya Stark, ma non ci abbiamo più l’età per fondare un collettivo)

Lorenzo. Stavolta l’assassino ha detto “Allah akbar” proprio alla fine, prima di venire ucciso. Beveva, amava la salsa, non faceva il digiuno, nessuno l’ha mai visto in moschea, a Nizza. Era un violento che picchiava la moglie, era stato in prigione per reati comuni, aveva debiti. Ciò che lo lega all”integralismo islamico” sarebbe suo padre. Il quale, rivelano, in Tunisia è iscritto a Ennahda, cioè quel partito che dopo la rivoluzione del 2011 ha governato la Tunisia per qualche anno, ha perso le elezioni, è passato all’opposizione, ha formato un governo di coalizione coi vincitori, ha sancito nelle ultime settimane la propria separazione dalla famiglia dell’islam politico, da cui proviene. O sarebbero non meglio identificati “parenti” – con i quali non aveva più rapporti da anni – che “sarebbero stati condannati durante il regime di Ben Alì, e avrebbero poi approfittato dell’amnistia per uscire di prigione” (cit.). Incidentalmente dal padre dell’assassino veniamo a sapere qualcosa che un padre generalmente sa: suo figlio era un depresso. Forse avremo contezza di cosa c’era in casa sua, nel suo computer. Troveremo certamente qualcosa che riguarda lo Stato Islamico, il suo “percorso di radicalizzazione” che, ancora da quanto dichiarava ieri Cazeneuve, sarebbe avvenuto “très rapidement”.

Anatole. Il profàilin del terrorista che emergeva già nelle prime ore di venerdì da un articolo del Guardian lascia in effetti piuttosto disorientati. Innanzitutto non si capisce bene se Lahouaiej Bouhlel fosse cittadino francese di nascita tunisina o tunisino con permesso di lavoro in Francia. Secondo poi emerge che trattavasi di avvenente criminale da strapazzo, vagamente somigliante a Clooney, con una confermata passione per la salsa e la figa. In terza istanza, ma forse è il dettaglio fondamentale, scopriamo anche che “non salutava mai”, anzi era spesso piuttosto imbronciato.

Lorenzo. Né la cosa ha preso un aspetto più spiegabile col tempo. Alla fine si è capito che era tunisino con ex-moglie francese di origini tunisine. Divorziato e incazzato per questo. Ma appunto diciamo che il profilo non cambia di molto. Capiamo che andare a vedere cosa diceva nel 1938 il fratello di suo nonno non porta a granché, cioè, non viene fuori il ritratto morale di Saladino tracciato da Ibn Shaddad nel Nawadir Sultaniyya, diciamo. Forse serve a rafforzare il pregiudizio di conferma di qualche islamofobo. Certo potremo provare a farne letteratura, a un certo punto, con risultati sicuramente discutibili. È la sindrome del cronista che voleva fare lo scrittore di gialli hard boiled.

Anatole. Nel disperato tentativo di collegare questo personaggio equivoco al Califfato, a poche ore dai fatti e senza alcuna rivendicazione pervenuta, Le Figaro si affretta a spiegarci che «en septembre 2014, un important cadre de l’Etat islamique appelait ses partisans à utiliser n’importe quel moyen pour tuer, y compris des véhicules-béliers». Quello che a noi sembrava una versione sbroccata debbrutto di GTA San Andreas, è in realtà quasi una fatwa di un importante “quadro” dello Stato Islamico, che con tutta probabilità scoatta pure lui al celebre videogioco sul telefonone. La notizia è l’Isis e ce lo devi mettere per forza, roba che davvero, paradossale quanto possa sembrare, Guglielmo di Tiro nel XII secolo mantiene margini di maggiore obiettività deontologica, fin dal titolo, forse proprio perché mette i fatti in prospettiva storica.

Lorenzo. Di sicuro se in Francia fosse in ruolo il reato di “integralismo islamico” così come viene definito da Meloni&friends in una petizione popolare che avrebbe l’ambizione di essere discussa in parlamento, propagandata in pompa magna con tanto di poster giusto il 14 luglio, non avremmo evitato la strage. Certamente avremmo dato un argomento in più a uno come Mohamed Lahouaiej Bouhlel. Avrebbe pensato che questa sua radicalizzazione lampo poteva avere ancora più senso. Avesse connotati di realtà, a fronte di un crimine che stava per commettere.

Anatole. Comunque la Francia, nel suo tentativo di voler somigliare all’idea che la Francia vorrebbe avere di sé stessa, se ne avesse una, coniuga la Marianne con Luigi IX, in un sincretismo che definirlo postmoderno è riduttivo. Secondo la scaletta della narrazione a una certa Méssier le Presidànt deve orientare lo storitèllin dei tragici fatti, spiegandoci nei seguenti termini come un corriere sui trent’anni alla guida di un TIR abbia ammazzato circa ottanta persone: «la France a été frappée le jour de sa fête nationale, le 14-Juillet, symbole de la liberté, parce que les droits de l’homme sont niés par les fanatiques et que la France est forcément leur cible». Siamo già apertamente nel campo dello scontro di civiltà, anzi, della civiltà conquistata liberando la Bastiglia, contro la barbarie di chi nega la validità della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Fa seguito un rinnovato appello allo stato di emergenza, prolungato oltre il 26 luglio: «j’ai également décidé de faire appel à la réserve opérationnelle, c’est-à-dire à tous ceux qui à un moment ont été sous les drapeaux ou dans les effectifs de la gendarmerie pour venir soulager les effectifs de policiers et de gendarmes, a-t-il ajouté». Ad esso si abbina con pertinenza veramente labile un discorso sulla sicurezza delle frontiere: «nous pourrons les déployer sur tous les lieux où nous avons besoin d’eux et en particulier pour le contrôle des frontières». Pareva infatti di capire che l’attentatore avesse regolare permesso di lavoro, mentre quelli quelli operativi contro Charlie Hebdo, al Bataclan, al Carillon, allo Stade de France avevano proprio il passaporto. Sennonché, con tutta evidenza, l’associazione tra il terrorismo dell’Isis e l’emergenza dei profughi che scappano dalla guerra in Siria è troppo ghiotta perché anche il presidente di uno degli stati più potenti del mondo possa sottrarsi. È questo il trampolino logico che Hollande impiega per tuffarsi nel proclama della guerra santa: «nous allons renforcer nos actions en Syrie et en Irak». Sottolineando che «nous allons continuer à frapper ceux qui nous attaquent dans leur repaire», ci ricorda che noi europei stiamo facendo questa cosa da un bel po’ di tempo, così da aver qualcosa da dire quando ci domandano cosa si stia facendo per impedire che ottanta persone trovatesi là per caso muoiano così, senza un vero motivo che le riguardasse davvero, neanche remotamente, come d’altra parte centinaia di migliaia di altre in ogni parte del globo terraqueo, soprattutto in Siria e in Iraq. E bisognerebbe ricordare a Hollande che Luigi IX avrà anche conquistato Damietta, ma è morto di diarrea nel 1270, dando battaglia all’emirato di Tunisi per dar retta a Carlo d’Angiò.

Lorenzo. E chiaro che la Francia, nonostante le mutatissime caratteristiche di questo suo popolo, non è riuscita a definirsi mai altro che una Nazione compatta e coesa su ideali e concetti cristallizzatisi ormai da troppo tempo: patriottismo, laicité ecc. Il coro francese era già stonato dopo Charlie Hebdo, quando alcuni facevano notare che in certe aree di Parigi, e anche altrove, le marsigliesi non risuonavano affatto e le retoriche unitarie proprio non facevano breccia. In questa cosa Hollande o Figaro sono uguali. E spasmodicamente cercano in qualche paffuto criminale che si diverte a fare i Bignami del terrore una conferma al loro argomento. Il ché finisce per dare un rilievo gigantesco al criminale stesso, il quale poi se la ride sapendo che domani potrà ruttare su Twitter trovando un certo riscontro. E comunque tutto ciò non significa che abbia ragione chi dice che questa non conformità debba essere cancellata. Significa invece che occorrerebbe uscire da un vicolo cieco in cui gli unici a giocare sono i Le Pen e i terroristi.

Anatole. Certo i picchi di svalvolamento che si toccano in Italia, da nessuna parte mai. Esempio top è il mirabile scambio twitter tra Paola Ferrari, giornalista sportiva, e Rita Dalla Chiesa, presentatrice e giornalista, forse, pure lei. La prima delle due s’inalbera affermando che “loro fanno a pezzi donne e bambini, noi rispondiamo con le cerbottane”. Loro chi? Gli “slamici”? Noi chi? Veramente boh… Poi arriva a proporre di revocare il passaporto europeo ai magrebini arrivati negli ultimi vent’anni, figli compresi, senza che sia chiaro cosa sia il passaporto europeo (ogni Stato rilascia un passaporto nazionale, poi l’accordo di Schengen regola il transito transfrontaliero), né quando e in quale paese europeo si sia deciso di conferire così, scialla, la cittadinanza a un magrebino sopraggiunto negli ultimi vent’anni. È il paradigmatico caso raccontato da Guzzanti nel famoso sketch de Il caso Scafroglia, al telefono col solito ascoltatore che confonde una parola per l’altra, nel caso specifico “la Fallaci” con l’ipotesi che la guerra al terrorismo “la fa l’ACI” (ma anche le “leggi laziali” invece che “razziali” in altro meraviglioso analogo sketch).

Lorenzo. Se anche volessimo prendere per buoni questi vaneggiamenti, che peraltro riecheggiano cose dette da Donald Trump, se cioè anche ci si mettesse con la tigna a cacciare tutti i musulmani o supposti tali dall’Europa ci ritroveremo un tedesco squilibrato che accoltella gente nella metropolitana di Monaco urlando “Allah akbar”. E allora, forse, procederemmo alla eliminazione di qualsiasi “contenuto islamico” (qualsiasi cosa ciò voglia dire) dal web, dal mondo dell’informazione, dai libri. Bandiremmo qualsiasi cosa che potenzialmente serve a una donna per coprirsi la testa, anche. Non so, fate voi, il fatto è che così non si va da nessuna parte, o meglio: si dà ragione a una infame banda di criminali che ha capito come farsi pubblicità a gratis. E, in cambio, si diventa Israele.

Anatole. Ad ogni modo, non si fa in tempo a provare tutto lo scoramento del caso che, fermi tutti, alle 12:30 arriva a Uno Mattina l’intervista al classico “italiano a Nizza”. Secondo la sua rivelazione scùp pare che non sia per niente bello trovarsi inseguiti da un TIR guidato da uno che spara, mettendo sotto chiunque trovi sulla sua strada. E comunque, se non ce ne fossimo accorti, la polizia è intervenuta male e in ritardo. Grazie, era venuto anche a noi il sospetto che altrimenti il “camion della morte”, già così battezzato a quel punto, difficilmente sarebbe arrivato sulla Promenade des Anglais durante la festa del 14 luglio (dopo averla perlustrata col camion nei giorni precedenti, come si scopre in seguito) così, andando a passeggio, in una città che il sindaco ha trasformato nella casa del Grande Fratello, installando 1000 telecamere. Dopodiché, nel pomeriggio, il sistema infomediatico ci giudica pronti per le analisi sociogeopolitologicomilitari, tra le quali merita certamente una menzione Bremmer, che intervistato dal Corriere della Sera, ci spiega come «circa l’8% della popolazione non si sente francese». Viene fatto di pensare che a Castropignano, invece, si sentano tutti molto molisani e per questo nessuno ammazzi ottanta persone alla festa del santo patrono col trattore.

Lorenzo. Ma dice che bisogna fare qualcosa, sennò non sai cosa ti puoi aspettare quando esci di casa. Ma come fai a prevenire il fatto che magari uno, a una certa, decide di andarsi a suicidare in maniera stragista chissà dove? Semplice: lo devi integrare. Integra l’integralista. A forza proprio: adesso ti integro, faccio proprio una legge, speculare rispetto a quella che vuole Meloni. Che così arriviamo a fare come in Israele: “un Paese democratico dove però popoli di diversa origine vivono in modo separato” (cit.). Stranissima idea di integrazione, ma se ci evita di morire sotto un TIR, e non lo so se funziona eh, che ti devo dire, stiamoci…

Anatole. … (riflette)

Lorenzo. Altri ancora riportano che il modello israeliano “va per la maggiore”. Dopo gli attentati di Bruxelles il mantra era la debolezza del Belgio, stato fallito che fa finta di essere Europa. Stavolta il coniglio dal cappello è il “modello Israele”. Come dice l’esperto di sicurezza Carlo Biffani, “bisogna sviluppare una mentalità diversa per la propria sicurezza, proprio come avviene in Israele”. Diciamo che di fronte al rischio Eurabia si paventa un rimedio: Eusraele. Ma davvero?

Anatole. Ad ogni modo, a concludere questo delirante percorso nell’infotainment di un comune venerdì estivo, uno dei tanti possibili nella giungla digitale, tutti ugualmente deliranti, ecco che arriva il video di quando la polizia spara il terrorista, presentato con entusiasmo dal New York Post, ma probabilmente da infinite altre testate di analogo spessore in giro per il mondo.

Lorenzo. … (riflette)

Anatole. Quando tutti hanno detto tutto, cioè praticamente niente, e si profila l’arrivo della sera, con l’inevitabile profluvio di demenza politica televisiva, ecco che provvidenzialmente piove la notizia del colpo di stato in Turchia. È come quando stai per rassegnarti al Processo del lunedì e invece scopri che la Roma gioca il posticipo. Folle che sia, pare che la cronaca permanente sta sostituendo l’approfondimento giornalistico e la politica. È una continua emergenza, alla quale non si fa neanche a tempo a rispondere. Dacca, Brexit, Nizza, la Turchia e adesso qualcosa d’altro, speriamo, così da poter evitare di pensare. Mentre a quel punto si rincorrono le speculazioni sul colpo di stato turco, si rimane di fatto con l’impressione che si aveva ieri o l’altrieri, o il giorno prima e quello prima ancora, almeno da quando abbiamo scoperto che potevano spararti per strada mente cazzeggiavi così con una birra in mano, al Carillon, per esempio. Che cioè questo terrorismo, forse tutto il terrorismo, funziona che il terrorista afferma una cosa non vera sparando a qualcuno o tirando giù un palazzo con una bomba o un aereo o in tutti quei modi molto terroristici. Se nell’ambito del consesso democratico colpito dall’azione terroristica si fosse tutti d’accordo che la cosa affermata dal terrorista è falsa, non perché affermata in maniera terroristica, ma perché proprio falsa, si potrebbe catturare il terrorista, punirlo secondo la legge e la cosa con grande probabilità finirebbe là. Invece all’interno del consesso democratico comincia un dibattito surreale tale che, paradossalmente, quelli che si presentano come i maggiori avversari del terrorista sostengono che il terrorista abbia ragione.

Lorenzo. E qui torniamo a Meloni. Seguendo la sua fine logica giuridica potremmo promuovere una legge sul reato di Meloni. Torniamo anche a Trump, le cui immaginate espulsioni di nonsisacchì, sono auspicate dal portavoce del Neocaliffo proprio per eliminare tutto quello che c’è in mezzo fra Trump e Stato Islamico, cioè noi. Come dice Francesco Strazzari: ”Vogliono fare di tutto l’Occidente un gigantesco Israele”. E noi che facciamo? Diciamo: “Sì, in effetti è una buona idea”. Ma questa visione del terrorista che vuole israelizzare il mondo è una cosa mezza matta, come se il terrore avesse come scopo il terrore e basta, la vendetta magari. Da GTA San Andreas a Game of Thrones, praticamente.

Anatole. Certo, tanto da questo dibattito il terrorista è completamente escluso, non solo come interlocutore, la qual cosa è inevitabile, ma anche come soggetto portatore di un argomento dotato di una qualche concreta validità, o meno. All’interno del consesso democratico che era originariamente l’obiettivo del terrorismo si creano due partiti che configgono tra di loro. Da una parte si schierano quelli che danno ragione al terrorista, anche se in apparenza sembrerebbe che stiano dandogli contro, dall’altra quelli che dicono tutto il resto, qualunque cosa pensino, ma vengono etichettati come coloro che sono dalla parte del terrorista, anche se dicono che ha torto.

Lorenzo. I leggendari buonisti. Il cancro dell’Occidente. Quelli che Breivik vuole genocidare avendo già dato prova di saperlo fare. Oggi su Facebook mi è capitata una tipa che, sotto sotto, mi riteneva responsabile del massacro di Nizza perché ho scritto un libro divulgativo sull’Islam. Le spiegavo che nel libro si racconta dei primi attentati suicidi ma niente, era fissa su Nizza, anche osare un argomento rimontante al giorno prima era per lei una specie di dichiarazione di colpevolezza, di correità. Come se non avesse senso ragionare su come tutto ciò ha avuto inizio. Come se il terrorista non lo si debba studiare, per provare a sconfiggerlo bene. Sempre che il vero nemico continui ad essere il terrorista, perché dopo un tot, quando la minaccia si abbassa, viene più spontaneo prendersela col buonista.

Anatole. Il terrorista, volendosi mettere per un istante dalla parte sua, se non altro per capire come possa confrontarsi con questa paradossale situazione, non aveva naturalmente capito nulla del consesso democratico che egli ambisce a terrorizzare, che cioè si trattasse in ultima istanza una gabbia di matti, ed è altamente probabile che rimanga molto disorientato lui stesso. Sulla base della reazione ai suoi gesti, può fare una cosa e una sola, cioè ripetere la cosa falsa che aveva detto allo stesso modo in cui l’aveva detta, magari tirando ottanta persone sotto a un camion mentre spara a quelli intorno, alla maniera di uno di quei videogiochi che l’iconoclastia del suo mal recepito credo, ben abbinato, si diceva, alla salsa e alla fica, dovrebbe vietargli, ma, come anche s’è accennato, una botta di GTA San Andreas sul telefonone di sicuro ogni tanto gliela dà. Dagli e dagli, coloro i quali si sono costruiti un personaggio schierandosi ferocemente contro di lui, anche se in realtà gli danno ragione, vincono la battaglia all’interno del consesso democratico, dimostrando, paradossalmente, che l’argomento falso sostenuto dal terrorista è invece vero.

Lorenzo. E quindi va a finire, ripeto, che dobbiamo fare come Israele, Bremmer appunto. Cioè, sempre ammesso che il terrorista abbia davvero come finalità il terrorismo e nient’altro, cioè, non è che gli diciamo “fatti una vita” in qualche modo. No, anzi, gli creiamo il contesto ideale per continuare a fare il suo terrorismo, come se piacesse anche a noi. Cosa che in un certo qual senso è anche vera. Cioè, non a noi, ma a quelli che di casa non vogliono proprio uscire, animati dallo stesso rosico sociale del terrorista nei confronti di chiunque abbia una vita.

Anatole: Certo, il terrorismo è la situazione ideale per quello che “ci aveva judo”, che alla festa non l’avevano invitato. Quindi questa di “e noi fare-emo / come Isdraele”  è una nuova, che va ad aggiungersi alla grandissima al conflitto di civiltà, alle nostre donne da difendere, allo scandalo del velo, all’isolamento delle periferie, all’islam moderato che non si schiera, alla minigonna, al crocefisso in classe e tutti i santi in colonna, alle abitudini alimentari difformi, al colonialismo, al postcolonialismo, al transpostcolonialismo, alla barbetta del profeta, alla tunica e i jeans del ricchissimo armamentario degno di un sussidiario delle elementari degli anni sessanta. Solo noi non avevamo capito che erano chiari indizi di una guerra di religione, che in realtà nessuno sta veramente combattendo. Però suona così facile al pubblico dei canali generalisti, alla gente comune, a coloro i quali, in ultima istanza, non hanno idea di cosa si stia parlando, né gliene frega niente, perché trattasi di fenomeno che riguarda nei fatti solo chi esce di casa sua ogni tanto, cioè pochissimi, che alla fine “vabbene, dai, facciamo che era una guerra di religione e diciamo che la stavamo combattendo davvero”. “Io ero Goffredo di Buglione e tu Pietro l’Eremita, andiamo a liberare il Santo Sepolcro”, anche se non sappiamo chi fossero né l’uno, né l’altro e trattasi di fatti capitati circa mille anni fa’ (“e comunque Pietro l’Eremita fallo te, che io voglio lo spadone +5, tu pigliati la mazzarocca +3 contro gli infedeli o il bastone che diventa un zerpente”).

Lorenzo. Certo, i martiri di Otranto, l’assedio di Vienna, Marco da Aviano, la battaglia di Lepanto, la Lega santa. Tutta roba che ritorna in circolo al netto della critica storiografica, che in questo presente non esiste più (con eccezioni come questa). Se vuoi raccontare una crociata deve essersi svolta una crociata, o almeno dovrà essere in corso, altrimenti devi inventarti una serie di cose che ci somigliano, senza nemmeno sapere come dovrebbe essere una crociata. E se vuoi raccontare una crociata che non c’è, se proprio vuoi cimentarti nell’arte dello storitèllin, almeno leggiti come la raccontavano i professionisti, che ne so, Usama bin Munqidh, Ibn Wasil. Abu Shama al-Maqdisi e così via: c’è la traduzione di Gabrieli per Einaudi, si tratta di aprire un libro, daje…

Anatole.  Ma anche Guglielmo di Tiro, o la sua traduzione francese nel manoscritto francese 22495 della Bibliothèque Nationale de France, ci sono pure le figure. Evidentemente la vulgata postmoderna si figura e rende meglio la crociata come il mischione del videogioco d’azione in cui corri forte sul camion, possibilmente armato, con un’avventura di Dungeons & Dragons narrata male. Forse se te la devi leggere sul telefonone a colori viene meglio così. Certo, se vuoi raccontare una crociata che non c’è senza nemmeno sapere cosa sia, è naturale che fai fatica, ecco. E qui si apre una volta ancora il capitolo dell’emarginazione dei saperi storici dal dibattito su tutto, dunque dello schiacciamento sul presente di ogni riflessione sul presente, esclusivamente spiegato sulla base del presente, col risultato che le minacce del presente certo ci appaiono molto presenti.

Lorenzo. Mmmsì… Effettivamente questa cosa di trovarsi a dover raccontare una crociata che non c’è senza saperla spiega molto dell’affanno giornalistico. La cosa ha a che fare anche coi tempi dell’infotainment e i tempi della storiografia, che sono ormai asincroni. Chi scrive sul giornale, oggi, non si sogna nemmeno di poter fare della storia, la cosa non è alla sua portata, e neanche una sua ambizione. Non era così prima dei telefononi. Quanto ai destinatari della monnezza che ne deriva sono immersi in una situazione paradossale: la globalizzazione li sovrasta, li determina, e loro possono solo incazzarsi con le persone sbagliate, ad esempio i politici, che effettivamente decidono ben poco e quindi, by the way, fanno al massimo storitellin. La scappatoia esistenziale che rimane, quando non ci si vuole raccontare questa verità, è teorizzare complotti. Ma vabbene, questa cosa esula un po’. Bisognerà tornarci però.

Anatole. Si, c’è anche, forse, la questione del genere letterario. La cronaca succede in sostanza quando devi fare storia di fatti contemporanei, presenti. Evidentemente il divorzio tra lo storico e il cronista non viene bene quando devi parlare di crociate, un fatto storico, che ti proietta di necessità dentro la storia. La cosa del genere letterario va approfondita perché anche la cronaca, come tutti gli altri generi, nasce nel medioevo e, come il romanzo, è una degenerazione del racconto storico. Lo storico e il cronista e il romanziere erano tipo la stessa persona. Solo adesso il cronista non sa la storia, e il romanziere non sa niente.

Lorenzo. (dopo una lunga pausa) Vabbene. Pare a questo punto che il colpo di stato in Turchia sia stato sventato. C’è chi inneggia alla democrazia salvaguardata dal popolo, chi invece tifava golpe, chi parla di autocolpodistato (tutta una parola come autogol?), chi suggerisce che sia stato organizzato dal think-tank di Fassino, mentre il Ministro del Lavoro di Erdogan dichiara pubblicamente che sono stati gli amerikani.

Anatole. Per oggi facciamo che stiamo?

Lorenzo. Ci possiamo stare. Il complottismo e anche questa cosa del genere letterario la facciamo quando ci abbiamo un attimo. Mo gna famo, veramente.

Di cosa è fatto il niente

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lecture_on_nothing28042016153340Lecture on Nothing di Robert Wilson al Festival dei 2Mondi

di Maria Anna Mariani

Lecture on Nothing: quali aspettative si schiudono per lo spettatore davanti a un titolo così, un titolo che ostenta il niente come tema di una conferenza presentata a teatro? Chi compra il biglietto e poi una sera di luglio si incammina su per le salite di Spoleto verso il teatro Caio Melisso, perché lo fa? Forse perché sa che c’è Robert Wilson a portare in scena quel testo di John Cage che pretende di articolare il nulla, di plasmarlo con le parole e srotolarlo nel tempo. E dunque anche se il contenuto della rappresentazione minaccia di essere vuoto, il contenitore – il corpo sonoro di Bob Wilson – dovrebbe valere, di per sé, la scalata su per i vicoli puntuti di sassi e la sosta a teatro per un’ora e poco più, a slogarsi il collo da un posto disgraziato, da dove non si vede nulla, nulla.

Bracciate # 5 – Manuel Maria Perrone

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Il quinto racconto della rubrica  Bracciate è «Il polpo in insalata», testo vivo e fresco di Manuel Almereyda Perrone, svizzero di origine napoletana, di stanza a Marsiglia, dove ha fondato l’Agence de l’Erreur (www.lerreur.fr), con cui sviluppa i suoi progetti teatrali e cinematografici.

 

Il polpo in insalata

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Mia nonna non la chiamo tutte le domeniche.

E quando la chiamo, so che prima devo fare stretching, rilassare la respirazione, sorridere allo specchio, dopodiché prendo la cornetta, compongo, dico “ciao-nonna-sono-io-Manuel” tutto d’un fiato e ascolto, per dieci buoni minuti, un flusso ininterrotto di lamentele.

Sono momenti in cui mi sento responsabile dei mali del pianeta, anche se i mali in questione sono solo quelli di mia nonna.

“Tu non chiami mai. ”

Sto chiamando- penso.

“Tu mi fai morire! ”

Strana forma di omicidio l’assenteismo- penso.

“Pensa alla buon’anima di tuo padre! ”

Ancora? Son venticinque anni che è morto, è vero non lo chiamo mai neanche lui, ma c’è un perché.

“E di tuo nonno !”

Ci sto pensando e mi viene il magone e un sentimento di colpa anche per cinque milioni d’ebrei, gli armeni, i curdi, i palestinesi, e tutti gli oppressi del pianeta.

“Mi sono fatta vecchia vecchia, na vecchiarella”

A occhio e croce conosco mia nonna da quando sono nato, tolti alcuni anni di coscienza informale da bebè, sono una trentina d’anni che la conosco e che sta inesorabilmente diventando vecchia vecchia: quanto può durare l’invecchiamento? Una vita intera?

“Ho fatto solo la quinta elementare, però l’educazione la so.”

Su questo non me la prendo: lo so che ha diritto a vendicarsi su di me per aver lasciato i quaderni per la zappa a dodici anni.

“Non sono intelligente ma la so.”

Mi dispiace che mia nonna confonda istruzione con intelligenza: vorrei presentarle tutta una serie di professori e luminari perché chiarisca questo qui pro quo.

A questo punto in genere si rilassa, mi racconta i cancri delle sorelle con un piacere morboso per i dettagli, la cecità di Velia, la sua preferita che vive in Inghilterra da sempre, e che la chiama due o tre volte al giorno

“Uh quanto chiama quella, ma non ha niente da fare? Mi fa morire! ”

Ma come: anche lei? Ma si sa: gli estremi si toccano.

Poi, in apnea, continua per altri dieci minuti sulla vita, morte e miracoli degli abitanti del paese – per fortuna che è uno di quei paesi quasi fantasma di vecchi e bambini in cui quasi tutti sono emigrati da tempo – e alla fine mi fa ridere con i suoi proverbi e le sue dicerie che mi fanno capire che in fondo tutto funziona uguale da sempre.

Ho trovato una tecnica, per schivare questa sua inclinazione a incriminarmi di tutte le nefandezze del pianeta, che funziona anche quando non la chiamo da mesi.

“Nonna – dico subito- sto cucinando. Mi chiedevo… i calamari meglio chiuderli con lo spago o con uno stuzzicadenti? Sì, non li riempio troppo, certo, se no esplodono.”

Come per magia in quei casi non esiste nient’altro, nessun conflitto ci separa e anzi una sottile linea si disegna e ci ricongiunge nel tempo e nella distanza: non siamo più rivali ma diventiamo complici, gomito a gomito, davanti ai fornelli.

Se una ricetta si interpone tra di noi tutto il resto scompare.

Mi è successo vivendo a Buenos Aires, a diecimila chilometri e cinque fusi orari di distanza. Mi succede anche in Francia. È successo così per il polpo in insalata.

 

Purtroppo, o per fortuna non so, l’ho chiamata giusto quando Elvira, la sua vicina – amica e nemica del cuore – era passata a trovarla.

“Passa sempre quella”

“Meglio, no?”

“Meglio cosa? Viene qui per controllare.”

“Controllare cosa?”

“Quello che cucino, poi torna a casa e lo fa pure lei.”

Mia nonna da poco ha messo una telecamera di sorveglianza sopra il portone.

Anni di Raiuno riescono a convincere l’ultimo dei sottoproletari che condivide gli stessi problemi di un Rockefeller.

E la telecamera, a circuito chiuso, si affaccia su un monitor, che lei può riuscire a controllare anche mentre cucina. È così che ha scoperto chi da anni le fa lo scherzo del campanello; chi suona e poi scappa.

Si: Elvira… Ma non le darà mai il gusto di dirle che lo sa.

Penso che sia amore il loro. Amore vero.

Comunque ai tempi di questa telefonata ancora non aveva la telecamera e Elvira era lì.

E quando ha sentito mia nonna dire “polpo” le ha strappato la cornetta di mano e ha preso i comandi della conversazione.

“Per ogni chilo di polpo tu ne metti il doppio di patate. Dopo aver bollito le patate, le metti sul fondo e le copri col polpo e il suo succo, che vedi che prendono il sapore e poi tutti ti dicono che buono e mangiano le patate credendo che è polpo! ”

Ha riso: era contenta. Fiera di quell’intelligenza meridionale che trasforma un problema in una soluzione. Quella stessa intelligenza che fa si che per una stessa zucchina o melanzana esistano centinaia di pietanze diverse.

Ho ringraziato, mi ha ripassato mia nonna, che ha borbottato qualcosa, stranamente taciturna, e ho appeso.

 

Un paio d’ore dopo mia nonna mi ha richiamato in panico.

“Lo fa per umiliarmi.”

“Ma cosa?”

“Le patate.”

“Che patate?”

“Come che patate? Quelle del polpo. Ti ha detto così per trattarti da straccione, per umiliare me.

Tu non devi mettere così tante patate che se no sembra che sei un morto di fame.

Non avrebbe mai detto una cosa così ai suoi di nipoti ! Mai ! Ma me, mi voleva umiliare.”

“Ma nonna….”

“Niente ma. Le patate non devono mai essere più del polpo. Se no che figura ci fai?”

L’ho rassicurata che avrei immediatamente cambiato la ricetta, adattandola alla verità che mi aveva appena rivelato: non potevo deluderla e l’ho sentita contenta.

Però io le patate le avevo già messe e già le avevo ricoperte di polpo, non potevo più tornare indietro.

Non so se era vero: se Elvira l’aveva detto per umiliarla o se era solo un complesso di mia nonna. Però devo dire che era buono, e alla gente è piaciuto.

Da allora l’insalata di polpo continuo a farla così.

Le polpette, la parmigiana, le lasagne, le zucchine alla scapece, i calamari ripieni, i peperoni al forno, i cannelloni, la pasta fresca: tutto, tutto glielo devo a mia nonna e alle nostre conversazioni telefoniche.

Il polpo in insalata no, quello è di Elvira.

 

 

Parole sotto la torre – X edizione

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Parole-2016

Nόστοι, i ritorni

Da un approfondito esame delle sceneggiature delle pellicole di produzione hollywoodiana sembra che la battuta più ricorrente della storia del cinema di tutti i tempi sia “Back home”. “Tornare a casa”.

Tutta la narrazione occidentale è fatta, in buona sostanza, di due storie: una guerra fratricida durata dieci anni, e un ritorno a casa durato altrettanto. Da tremila anni a questa parte non facciamo altro che combinare questi due elementi primari per raccontare la nostra storia, la nostra identità culturale.

Il ritorno, in letteratura, significa molte cose. Per tornare bisogna innanzitutto essere partiti. Aver lasciato la terra natia, o le proprie idee, i pregiudizi, il mondo conosciuto, sempre identico a se stesso, per poi scoprire l’altro mondo, nella sua molteplicità e nelle sue differenze. Farsi straniero, conoscere la solitudine, intrecciare amori, amicizie, gioie e dolori. Tornare, poi, vuol dire scoprirsi diversi. La patria tanto amata non ci somiglia più, noi siamo cambiati e forse il nostro sguardo e la nostra esperienza saprà cambiare, in parte, la terra dei nostri padri.

“I ritorni”, in letteratura, non implicano necessariamente un viaggio fisico. Può avvenire anche nell’animo. Ogni romanzo in fondo è il percorso di un essere umano attraverso la scoperta del suo vero io. Le identità non sono mai fisse. I protagonisti che abbiamo conosciuto nelle prime pagine del libro, saranno differenti nelle ultime. Leggere resta il modo più semplice e più avventuroso di conoscere se stessi, conoscendo al contempo il mondo intero. Leggere. Tornare a leggere.

Programma

MERCOLEDÌ 20 LUGLIO

Ore 21
Proiezione del cortometraggio: L’amore… tutta un’altra cosa
Di e con Ignazio Vacca e Petula Farina
Conduce Andrea Contu

GIOVEDÌ 21

Ore 21
Tornare al territorio
Giacomo Sartori, Sebastiano Venneri
Conduce Lello Caravano
In collaborazione con Legambiente Sardegna

Ore 22.30
Il ritorno a scuola
Edoardo Albinati
Conduce Gianni Biondillo

VENERDÌ 22

Ore 19.30
Partire è tornare
Ilario Carta, Anna Maria Falchi
Conduce Stefania De Michele

Ore 21
Non si fugge dalla storia
Alessandro Mongili, Giorgio Todde
Conduce Nicolò Migheli

Ore 22.30
Il Vento – Storia di Gavino e di altri dispersi
Spettacolo teatrale di e con il Theatre en vol

SABATO 23

Ore 21
Il ventre molle della nazione
Roberto Costantini, Francesco Recami
Conduce Gianni Biondillo

Ore 22.30
La fine della storia
Marco Balzano, Gigi Riva
Conduce Marco Zurru

DOMENICA 24

Ore 21
L’isola dei sogni ricorsivi
Cristian Mannu, Gesuino Nemus
Conduce Marco Zurru

Ore 22.30
Il ritorno delle stagioni
Samuel Bjork
Conduce Anna Rita Briganti
Interprete Virginia Dessì

Ho ucciso l’Anticristo

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di Matteo Pascoletti

l43-cagliari-mostra-marco-130613182501_bigQuando Luciano decise di rubarmi i pensieri avevo diciotto anni e lui quaranta. In paese l’ammiravano tutti perché faceva il chirurgo, ma siccome non poteva aprirmi la testa e prendermi i pensieri dal cervello, trovò un’altra via. Eravamo poveri, così una domenica mattina andò al campo, da mio padre, a dirgli che voleva sposarmi, e lui acconsentì. Quella sera, a cena, quando dissi che non volevo, perché Luciano era vecchio e gli puzzava l’alito, mio padre mi prese a schiaffi davanti a mamma impietrita. Allora mi piegai.
Da sposati, Luciano prese a frugarmi i pensieri. La prima volta provai paura, ribrezzo e dolore, e infatti persi sangue; poi solo paura e ribrezzo. M’invadeva e cercava, sbrigandosi: quando trovava un mio pensiero lo sradicava e fuggiva, lasciando dentro i propri, come immondizia abbandonata di notte per strada. I suoi erano pensieri sudici, perché poi mi diceva sempre “vatti a lavare”. Solo che, per quanta acqua e sapone usassi, lo sentivo che mi restavano dentro. E se provavo a resistere Luciano mi prendeva a schiaffi e pugni, e se picchiava troppo forte e finivo all’ospedale, un suo collega scriveva che ero caduta per le scale o inciampata. E quando uscivamo in paese e parlavamo con le persone, Luciano mi prendeva in giro dicendo che ero maldestra.
Dopo un anno trascorso a rubarmi i pensieri, ho capito cosa sarebbero stati quelli di Luciano dentro di me: sarebbero diventati l’Anticristo. Così sono andata in Chiesa per chiedere aiuto a Gesù, ma lui non ha detto nulla, e nemmeno suo padre. Mi raccoglievo sul legno freddo della panca, piangendo li imploravo che scacciassero l’Anticristo prima che mi deformasse la pancia, altrimenti non avrei più potuto nasconderlo a Luciano. Ma loro niente, e intanto Luciano continuava a nutrirlo coi suoi pensieri sudici. Allora ho parlato col prete, ma lui m’ha cacciata via dicendo che aiutarmi non sarebbe stato esorcismo, ma omicidio. Tornata a casa Luciano era ancora all’ospedale, così ho usato i pensieri rimasti per preparare da me l’acquasanta, e l’ho bevuta. Ma l’Anticristo ha iniziato a lottare dentro il mio corpo: mentre si dibatteva ho sentito le fiamme nella gola e nello stomaco, ho avuto paura di morire e ho chiesto aiuto. I vicini sono arrivati e hanno chiamato l’ospedale, così Luciano ha scoperto che avevo ucciso l’Anticristo. Insieme ad altri maschi, dottori come lui, m’ha chiusa in un carcere a forma di reparto, da cui non si poteva uscire.
In carcere noi detenute avevamo la divisa bianca, come un sacco coi buchi per la testa e gli arti. Le guardie semplici avevano la divisa verde, mentre le guardie capo avevano la divisa bianca come noi detenute, ma aperta davanti. Le detenute e le guardie erano tutte femmine, gli unici maschi ammessi erano i parenti da fuori, durante le visite. Mio padre è venuto una volta sola, con mamma. Quando l’ho visto gli ho sputato in faccia e non è più tornato, e nemmeno mamma.
I capi venivano a visitarmi tutte le mattine, mentre un pomeriggio a settimana lo passavo discutendo con un capo solo, che mi chiedeva “Lo sa perché è qui, Bruna?”, e io dicevo “perché ho ucciso l’Anticristo e mio marito è Satana”, e lei mi guardava severa, anche se era femmina. Da principio non capivo il motivo, poi ci sono arrivata. Era un trucco: solo noi detenute eravamo femmine, infatti usavamo un bagno diverso dalle guardie, che in quei giorni ci guardavano con disgusto, come fanno i maschi. Le guardie e i capi si travestivano da femmine per raggirarci: infatti le detenute che stavano lì da più tempo o parlavano poco, o per niente, o dicevano frasi senza senso. Perciò avevo sbagliato a dire la verità sull’Anticristo: rischiavo informassero Luciano, e non volevo sapesse che m’erano rimasti dei pensieri. Così un giorno, a colloquio privato con la guardia capo, gli sono saltata addosso, a quel truffatore, aggrappandomi alla parrucca riccia. Poi l’ho graffiato per strappargli la maschera da femmina, però le sue urla hanno fatto arrivare le altre guardie. M’hanno presa di forza e buttata in una cella senza sbarre o letto, con le pareti che sembravano cuscini. Addosso avevo una divisa diversa: sempre bianca, ma con le cinture che si allacciavano dietro. Non potevo muovermi bene, avevo paura che Luciano entrasse da un momento all’altro, così ho iniziato a gridare, ma poi mi sono stancata e ho smesso. Non so quanto tempo è passato, però a un certo punto mi hanno riportata nella camera e legata al letto; anche lì ho avuto paura, perché da immobile se veniva un maschio e provava a rubarmi i pensieri mica potevo difendermi. Così appena avevo fiato gridavo “ladri, vigliacchi”. Allora le guardie semplici mi hanno messo uno straccio bianco in bocca e le parole le potevo solo pensare. Poi hanno iniziato a farmi le punture, e giorno dopo giorno mi sono resa conto che le punture mi facevano sparire i pensieri.
Così il carcere funziona che prima provano a rubarti i pensieri, e poi se non ci riescono te li ammazzano uno a uno, come fossero mosche. Io però sono riuscita a prendere questo pensiero e a nasconderlo bene, dove nessuna siringa e nessuna guardia potrà trovarlo, e nemmeno Luciano. Quando muoio lo do alla Madonna, perché è femmina.

Allons enfants de la Patrie

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https://www.youtube.com/watch?v=lu3eSNi__4w

Hannah Sanghee Park, 4 poesie

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Empusa_pennata_redpit

Spoglia

Come una cornice incorniciata il fossile
conteneva una carcassa, una corazza,

e il proprio cofano in un altro cofano,
il proprio, naturale sarcofago.

Non ho mai raccontato a nessuno questa storia:
un’estate come questa mangiai una nettarina

fino al nocciolo grezzo di velluto a coste, seguitai
a rotolarlo e a masticarlo finché non si

schiuse, e un ragno inerte, seduto
in un ciuffo bianco, era all’interno come un gioiellino.

Com’è che una cosa si sente reale. Gli strati
che mi costituiscono sono, riduttivamente, soffici

duri, soffici, una facile separazione fino alla verità,
ma la vendita diretta e l’inghiottire vanno fatti lo stesso.

 

 

Il corpo elettrico

Tracciami: (x, 0) (0, x) sul corpo

il corpo che pompa: gruppo sanguigno O (si spera) il corpo

che elabora: O (elemento)

 

facciamo x (moltiplicazione) racchiudiamo x (moltitudini)

 

o me: XXX (orcio del moonshine marcato) o
te: la O accesa della tua sigaretta

 

Perché non roviniamo insieme i nostri organi in un modo lento

annerendoci nella o del tuo colosseo e nella x del mio sacrificio

 

 

Q

Posso domare amore, disfare ardore
far fuori ciò che ci fa ardere?

Posso sfrecciare per i tendini
all’osso? O la fatica fa parte

di guadagnare fiducia? Posso sbucciare
e limare il tuo corpo, aprendolo alla mia

freccia cupìda? Posso trovare
la risposta alla chiamata del corpo

(se la voglia ti lascia volere)?

 

 

E una bugia

La domanda era dubbiosa.
E il dire tutto detto.
E quindi, in tandem,

Anatema, ed antifona.
La verità era sospesa,
Sforzarsi troppo stancante.

E la lana fu tirata
All’insù da isolante.
Nessun occhio si tenne aperto.

Il mio iride, ignorai
La verità, ora diffido
Di tutto ciò che si vede, e questa

Sfiducia, segnale sfrenato di strazio
Chiamato e chiamato e procurato dalla tua dama.

 

 

*

 

 

Strip

Like a frame within a frame the fossil
carried a carcass, a carapace,

and its own casket in another casket,
its own natural sarcophagus.

I never told anyone this story:
in a summer like this I ate a nectarine

until its rough corduroy pit, continued
rolling and chewing it until it hinged

open, and an inert spider, sitting
in white wisp, was inside like a small jewel.

How does a thing feel real. The layers
comprising me are, reductively, soft

hard, soft, an easy sift to the truth
but the hard sell and swallow done anyway.

 

 

The Body Electric

Plot me: (x,0) (0,x) on the body

the body pumping: blood type O (one hopes) the body

processing: O (element)

 

we can x (multiply) we contain x (multitudes)

 

or me: XXX (jug of marked moonshine) or
you: the burning O of your cigarette

 

Why don’t we ruin our organs together in a slow way

blackening in the o of your coliseum and the x of my immolation

 

 

Q

May I master love, undo its luster
do in the thing that makes us lust?

May I speed through the body’s sinew
to marrow? Or is toiling a part of

the gaining of trust? May I pare and narrow
your body down, and open it to my

cupidity’s arrow? May I find my
response to body’s unanswered call,

(if the want leaves you wanting, at all)?

 

 

And a Lie

The asking was askance.
And the tell all told.
So then, in tandem,

Anathema, and anthem.
The truth was on hold,
Seeking too tasking.

And the wool was pulled
Over as cover.
No eyes were kept peeled.

My iris I missed
The truth, now mistrust
All things seen, and this

Distrust, the sounded distress signal
Called and called and culled from your damsel.

 

 

*

 

Hannah Sanghee Park (Tacoma, 1986) ha vinto il Walt Whitman Award 2014 con il libro inedito The Same-Different, giudicato così pieno di “chiasmi, giochi di parole, rime che le figure si avvitano su se stesse come filamenti di DNA o scalinate di Escher”. Tra le altre cose Park scrive per il cinema e la televisione. Queste traduzioni sono di Isabella Livorni.

 

 

Atti osceni in luogo privato

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missiroli di Gianni Biondillo

 

Marco Missiroli, Atti osceni in luogo privato, Feltrinelli, 249 pagine

C’è un punto di non ritorno fra l’infanzia e l’adolescenza. Per alcuni può diventare un trauma. A Libero Marsell, dodicenne franco-italiano, capiterà di scoprire il tradimento della madre, una sera a cena, col migliore amico del padre. Il sesso per il non più bambino si svelerà un mondo incomprensibile, un polo di attrazione e di mistero, di dolore più che di liberazione.

Quello raccontato da Marco Missiroli in Atti osceni in luogo privato è a tutti gli effetti il classico romanzo di formazione borghese. Dove più che gli avvenimenti, le avventure, gli incontri straordinari, saranno i sommovimenti del mondo interiore a far maturare il giovane Libero.

Il protagonista cerca nel suo corpo una spiegazione al mistero della sessualità, trova nello sfogo onanista una sorta di affrancamento dal trauma infantile. Negli anni incontrerà amori, amicizie, mentori che gli daranno una mano a liberarsi dai suoi tormenti.

La scrittura è controllatissima, incapace di colloquialità, letteraria. Spesso fatta di sentenze e aforismi freddi e perfetti. La narrazione è in prima persona, come una sorta di memoriale. Forse anche per questo Missiroli decide di spostare gli avvenimenti di questo romanzo che cerca un respiro “europeo” fuori dai confini geografici e temporali della sua biografia. Libero, sembra dirci, non è Marco, non si fa voyerismo in queste pagine. È fra Milano e Parigi, nel cuore degli anni Ottanta, che si muove il protagonista. Anche se potrebbe essere dieci anni prima o dopo, dato che la Storia sembra essergli indifferente. Chiuso fra i libri che legge e le donne che frequenta, Libero sembra involontariamente inconsapevole che tutto in quegli anni stava cambiando, non solo lui.

(pubblicato su Cooperazione n° 17 del 21 aprile 2015)

Il doppio sguardo di Sophia

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di Susanna Mati
doppio sguardo di Sophia
Divagazione politico-filosofica a margine del volume: Carla Stroppa, Il doppio sguardo di Sophia, Moretti & Vitali, Bergamo 2016, pagg. 262, €20,00.

Da quando il femminile ha preso la parola, ed è cioè diventato capace di tenere il discorso (prerogativa riservata per millenni quasi esclusivamente al maschile), si sta recuperando con impensabile velocità il tempo perduto. Esiste attualmente in tutti i campi una grande ricchezza di contributi autointerpretativi da parte delle donne, tanto che oggi è piuttosto il maschile ad essere ormai ammutolito, e a rivelarsi nei suoi caratteri di estrema fragilità e, assai spesso, come le cronache testimoniano, di arretratezza – che sono poi la fragilità e l’arretratezza non tanto di singoli individui, ma di un intero sistema culturale di valori giunto al tramonto, con lo sconcerto e lo smarrimento che questa perdita degli orientamenti tradizionali comporta. La morte di Dio e del Padre genera poche volte nostalgia, talvolta violenza, più spesso lamento, incertezza e paura del nuovo.

Il maschile ha ormai poche parole, è oggi connotato da una povertà di discorso, perfino da uno sbandamento tangibile, e per lo più tenta ancora debolmente di identificarsi con i residui di quel discorso che il pensiero femminista ha definito patriarcale. Al contrario, il femminile ha avuto modo di rivelare sempre di più la sua natura generatrice, creativa, anche nel regno – finalmente – della parola e del pensiero; e se le prime scrittrici vere e proprie, consapevoli di questo ruolo, risalgono all’Ottocento, e le prime filosofe vere e proprie al Novecento, l’essenza affabulante e mitologica del femminile – che ovviamente è sempre esistita – è giunta finalmente in luogo pubblico. Anticamente, Diotima poteva sì parlare, ma in quanto donna, straniera, sacerdotessa (dunque invasata dal dio), poteva parlare proprio perché era esclusa dalla polis. Platone, nella cui città ideale anche una donna sarebbe potuta diventare filosofo-re (anzi, filosofa-regina), aveva avuto eccezionalmente il coraggio di darle la parola, per esporre il più eversivo dei discorsi, quello su eros. Potremmo ricordare pochi esempi di questo tipo – fino ad oggi.
Tuttavia: il discorso femminista – che prendiamo qui genericamente, nel suo complesso, senza distinzioni che pur sarebbero opportune -, che così tanto ha dato negli ultimi decenni, riuscendo a modificare – mai ancora abbastanza – la società, può forse esaurire l”essenza’ del femminile, la sua immagine, la sua totalità? Ed esiste poi davvero questa ‘essenza’, al di là delle proiezioni che il maschile ha elaborato per secoli? Lasciamo stare le proiezioni, e poniamo che questa caratteristica peculiare, in qualche modo, esista, seppure in modo complesso, metaforico e anche ambiguo e contraddittorio (è per questo che la parola essenza è tra virgolette, essendo intesa in un significato antimetafisico del tutto improprio); e che riguardi in realtà, come cercheremo di dire più avanti, il futuro di entrambi i generi. Oggi la donna pare avervi la chance di un accesso privilegiato.
È appunto su questo terreno che, con una posizione di grande originalità, si pone il libro di Carla Stroppa – scommettendo temerariamente su un aldilà possibile rispetto al discorso esclusivamente sociologico e politico sul femminile. Un aldilà, naturalmente, anche rispetto al ‘semplice’ discorso biologico e perfino al discorso di genere. Una tensione verso l’alto percorre questo libro, come se Carla Stroppa ci dicesse: sì, va bene, nessuna di noi vuole tornare indietro, ma… ma, rispetto al piano delle rivendicazioni, c’è anche qualcos’altro, un elemento ulteriore, meno caratterizzabile, meno afferrabile, anche meno discorribile e categorizzabile, e tuttavia necessario a connotare la grande varietà e contraddittorietà del femminile, nonché le sue più intime risorse. C’è un in più, più sfuggente, più sottile, più profondo, che connota la donna – il femminile – come tale. Una specie di essenza, appunto, una caratteristica ineludibile, preziosa.
Il pensiero analitico junghiano, in questo caso, viene in aiuto nel tentativo di guardare una totalità – quella del femminile – nella sua interezza, senza nascondersi le sue ombre, con un “doppio sguardo” che ha origine nella complessità contraddittoria dell’inconscio. Lo scopritore dell’inconscio, Freud, si era arrestato davanti al presunto ‘mistero’ del femminile (che poi, magari, non era affatto tale: ma sconosciuto ed enigmatico rimaneva a questo sguardo maschile), facendo al massimo della donna un maschio manchevole, con peculiarità esclusivamente deficitarie – e ‘misteriose’, appunto. Ma nella mitologia archetipica esisteva invece da sempre una certa parità di genere, per così dire; le grandi dèe mediterranee, vicino-orientali, le “signore del labirinto”, stanno all’origine della nostra cultura. Prima di Dioniso, il più grande dio dell’Occidente, a Creta c’era già Arianna. E solo attraverso il loro temperato dualismo, talora convergente in uno, talora divergente, e la loro armonica differenza, la loro diversa eguaglianza, l’intero panorama dell’umano può trasparire e trasfigurarsi nello specchio ampio del divino. (Premesso che questo percorso è appunto un labirinto, un percorso mai in pace, forse mai concluso).
Continuando a parlare per immagini mitologiche, c’è una Sophia che è dentro entrambi i generi, insieme per unirli, dividerli e trascenderli. Possiamo dare un nome a questo elemento comune e ulteriore? Forse il suo nome – come l’antica sapienza filosofica occidentale ci avrebbe detto – è anima. L’autrice nota giustamente la significativa circostanza di come “l’accezione simbolica di anima sia da sempre ascrivibile alla fenomenologia femminile, e supponiamo che questo non sia un caso” (p. 11). No, non è un caso, perché appunto pare che il femminile sia portatrice, specialmente oggi, della possibilità di un diverso ordine del discorso, di una vera e propria rivoluzione. Ma da dove partirebbe questa rivoluzione?
Ridiscendiamo sulla terra, tenendo in mente questa immagine dell’anima: il femminismo, sempre benemerito, cerca di superare le debolezze storicamente patite, “ma troppo spesso”, scrive Carla Stroppa, “eludendo il confronto con il proprio mondo interiore e con i propri limiti” (p. 17); da ciò deriva il pericolo di “un’idea troppo sommaria dell’emancipazione femminile” (p. 34), se essa viene limitata a rivendicazioni sociali e politiche, in cui questo mondo interiore, in effetti, non trova alcuno spazio, alcuna voce. Per questo motivo, sostiene ancora l’autrice, rischiamo “di raggiungere la parità di opportunità nell’alienazione, nella scissione tra pensiero e corpo emozionale” (p. 59). Il pericolo, evidentemente, esiste. Questa ricerca di parità non deve essere basata “unicamente sulla dimensione sociale e orizzontale, ma su un sentimento di valorizzazione dell’umana dignità che si inoltra nel profondo e si protende verso la trascendenza” (p. 63), creando dunque un ordine, un cosmo davvero alternativo; altrimenti “la donna, a forza di prendere distanza dalle proiezioni d’anima che l’uomo fa su di lei e cercando di definire sempre meglio l’ambito del proprio Io, rischia di prendere le distanze anche dall’anima transpersonale, col risultato paradossale di assomigliare sempre di meno all’immaginario dell’anima che l’uomo proietta su di lei, questo sì, ma sempre di più all’Io evidente, mondano, arrampicatore dell’uomo” (p. 66).
Non importa essere addentro ai termini della psicologia junghiana per comprendere il nucleo di questo discorso: per non rimanere schiacciate (e schiacciati) sul modello maschile di potere, con i suoi risvolti negativi (cos’hanno mai di femminile, nella loro azione, le potenti governanti che, fortunatamente, stanno affacciandosi sempre più nella politica mondiale?), questo modello bisogna superarlo in altezza, in verticalità, e non certo pretendere di parificarsi ad esso. Perciò “la mia riflessione sull’anima”, scrive l’autrice, “oltrepassa quella relativa al genere sessuale” (ivi). Questa riflessione è infatti egualmente valida anche per l’uomo: sia l’uomo che la donna devono superare il modello maschile di potere, così decaduto e deprivato di anima.
Anima che è la più efficace immagine occidentale di memoria, desiderio, cultura, ricerca di significato. Rispetto all’adeguamento all’ordine del discorso ormai in sfacelo, e alla parificazione ad esso, il pensiero dell’anima può consentire l’accesso ad un totalmente altro, ad un novum.
Si sarà capito dove voglio arrivare: nel ricchissimo libro di Carla Stroppa si forniscono alcuni elementi inediti per rimettere tra l’altro in questione, con uno sguardo comprensivo e originale, nientemeno che i rapporti tra la politica e l’anima. Quello che è in fondo il problema platonico per eccellenza (come può darsi società giusta, quando è composta da anime ingiuste?) ritorna urgentemente alla nostra attenzione, declinato al femminile. Ma ritorna anche un altro punto fondamentale della riflessione platonica: cioè che, per cambiare la società e il mondo, e ancor prima noi stessi, dobbiamo ‘possedere’ un sapere, uno sguardo e una visione non orizzontali (per ripetere l’aggettivo usato dall’autrice), bensì che trascendano il mondo stesso – come avviene al filosofo della Repubblica platonica. Solo la “saggezza iniziatica” dell’anima (p. 67) – anch’essa, come la filosofia, assai più una ricerca che un possesso – ci dà questo potere alternativo, capace di futuro, per tutti i generi.
In questa direzione, tutta da percorrere e da scoprire, la psicoanalisi e la psicologia del profondo possono offrire un contributo importantissimo per una critica dell’appiattimento e dell’adeguamento ai vecchi modelli invalsi di potere – e per una reale fuga al di là di essi.

Il corpo del libro : La Steppa di Sergio Baratto

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di Mariasole Ariot

SteppaCi sono luoghi mentali – e fisici – in cui la parola si carica di peso, luoghi in cui l’estrazione  o la rimozione di una singola frase – anche solo una – aprirebbe un buco, un foro da cui sottrarsi o in cui cadere, ma con cui inevitabilmente sarebbe necessario fare i conti. E ci sono libri in cui quel peso si fa tratto distintivo, dove ogni frase appare (in un flusso che però  sorpassa il chirurgico per diventare carne – per mostrare la carne sottostante)  inserita nel testo in un processo quasicorporeo : un corpo duro, solido, in cui testa e arti si muovono all’unisono, coordinati perfettamente. Dove in quel corpo convivono diverse età, in un presente che è già passato e che sta diventando futuro : tutto è lì, di fronte e non di spalle, tre tempi concentrati in un organo pulsante.

La Steppa di Sergio Baratto, romanzo d’esordio con cui l’autore ha vinto il Premio Berto, è uno di quei libri : un libro-corpo, in cui tutto – dal movimento della narrazione al contenuto della stessa – porta il segno dell’autenticità e del necessario.
Ho letto il testo in un maggio di frontiera, in cui non solo io mi ritrovavo fisicamente confinata, ma in cui il silenzio dello spazio in cui arrancavo per sopravvivenza  si appoggiava alle pareti costruite dal testo : la lettura è diventata allora – ma lo sarebbe stata a prescindere – un corpo a corpo con il reale. Un reale in cui – per contraddire Sartre per il quale ” tutti gli autori sono concordi nel notare la povertà delle immagini che accompagnano la lettura d’un romanzo” – lo sguardo della parola è qui al contrario uno sguardo che non solo può vedere, ma produce esso stesso visione. I luoghi descritti – Arimiate, Ortonago, la Steppa – diventano allora produttori di Immaginario, i protagonisti della vicenda s’interfacciano con i luoghi in un continuo movimento di andata e ritorno : spazio, tempo, e persona(ggi) vivono l’uno nell’altro e l’uno dell‘altro, e ogni parola diventa fondante e fondativa, pietra e carne.

La Steppa, in cui, come scrivono i giurati del premio Berto ” un angolo della provincia lombarda si allarga a contenere il mondo intero” è esattamente questo: siamo nel microcosmo di una scena vicina, che ci appartiene biograficamente e generazionalmente, dove folle di corpi militarizzati e centurie sparano alla cieca nel tentativo di preservare una realtà “pulita”, da sterilizzare – ma siamo anche trasportati in un al-di-là che è già qui, in un mondo a tratti spaventoso, segnato dalla ferita, dal brutale e dalla paura che non è solo una rappresentazione di una realtà distopica, ma è pure qualcosa che già ci appartiene, che è già davanti agli occhi, solo sotterranea. Il velo con cui ci copriamo il volto per “non volerne sapere” si lacera, si aprono feritoie attraverso cui l’autore ci mostra qualcosa che già stiamo vivendo.

Un uomo correva in mezzo alla strada con la testa coronata di fuoco, stringendo sotto l’ascella un grosso raccoglitore, e a ogni passo le fiamme gli scendevano un po’ di più lungo la schiena e le braccia. Incrociandoci, mi ha fissato per un attimo con lo sguardo incredulo. Era il sindaco Due. Pochi metri dopo è crollato sull’asfalto e ha continuato a bruciare, immobile, finché non è stato che un puntolino ardente nello specchietto retrovisore.

Verso la periferia le strade erano disseminate di auto incendiate. Gente che aveva cercato di fuggire ma era stata raggiunta dalla colata lavica, forse qualche camerata non così coraggioso da farsi massacrare con onore in battaglia. Tra le vampe vedevo balenare all’interno degli abitacoli sagome annerite, ormai fuse con i sedili e i poggiatesta, o braccia carbonizzate sporgere come rami secchi dai finestrini esplosi.
Fuori città, all’imbocco dello stradone che attraverso i quartieri industriali virava a nord verso il canale, ci siamo fermati per un istante a guardare dietro di noi.
Arimiate bruciava. Una muraglia di fumo grigiastro si levava alta contro il cielo nero, sciogliendosi man mano nella luce vermiglia dell’immensa fornace che ardeva spalancata sopra i tetti dei palazzi in fiamme.

Eppure, in questo spavento, nello svelamento in cui Sergio Baratto ci accompagna, là dove lo scabroso del Reale riemerge, non c’è freddo : tutto resta delicato e commovente : l’amore e la scintilla della bellezza sono elementi altrettanto fondativi che aumentano la densità del romanzo, il suo peso specifico.

Sono i capelli bianchi di Aili, la fiaba infilata nella tasca interna del giubbotto del protagonista nel trascorrere degli anni, il volto e la mano di Fiammetta, gli occhi azzurri del figlio di Emelian morto di febbre, il corpo fumoso di Stragačić quando dice “Uno cerca di fuggire dal passato, crede di esserselo lasciato alle spalle, e invece il passato è lì che lo aspetta al varco. Davanti, non dietro”, l’allergia ai gatti, le risate adolescenziali (sì, perché La Steppa è anche un romanzo di formazione) l’amore di Zeno nei cimiteri di notte.

“Dove siamo?”
“In un posto sicuro. Sottoterra.”
“Sottoterra?”

“Scaviamo buchi e ci mettiamo lì, quando fuori fa troppo freddo o dobbiamo scappare”

La potenza di questo libro vive (anche) di questo : di questo parlarsi, di questo scavare buche nel dolore per potersi proteggere, del riemergere dallo scavo quando, con quel dolore, è necessario farci i conti per poter salvare la quota di bellezza che nonostante tutto riesce a sopravvivere. Come una pianticina che se muore in un punto rispunta dalla terra in un nuovo altrove, impossibile da sradicare del tutto. Perché nell’indicibile e nel terrore qualcosa fa scarto, una lucina continua incessantemente a brillare, ad illuminare un angolo di mondo che dev’essere – mi azzardo a dire per dovere etico – protetto come si protegge un figlio.

Quando mi sono assopito, disteso sull’erba umida, Aili e Fiammetta si stavano abbracciando in silenzio, e forse ridevano e piangevano insieme. O forse era solo il pigolio degli uccelli appena nati nei loro nidi sugli alberi del bosco, che piano piano si svegliavano e aprivano i becchi ancora molli, le ali ancora nude, gli occhi ancora ciechi.

E se Sergio Baratto, con una lingua viva e densa, nell’intenso, sembra dirci con perfetta lucidità e ancoraggio al quotidiano : guardatelo : l’orrore esiste, è già qui, è davanti e non dietro; guardatela : esiste l’ipocrisia, la violenza, il brutale, la volontà di mantenersi rigidi e risoluti nella volontà di far fuori “un nemico” e la sua marginalità;  guardatela : esiste la catastrofe e non è distante ma è anzi già abitata; sembra anche indicarci una zona residuale, un interstizio dove sotto le macerie, o forse sopra, permane il segno della parola e del nome, la commozione, la quota di bellezza che sporge da un corpo dilaniato, verso cui è altrettanto necessario e doveroso dirigere lo sguardo.

Eadweard Muybridge e le GIF di fine Ottocento

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di Ornella Tajani

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Philip Glass A Gentleman’s Honor

Nel 1872 l’allora governatore della California, Leland Stanford, sospettava che ci fosse un attimo in cui, durante il galoppo, nessuna zampa del cavallo toccasse il suolo. Chiese così al fotografo inglese Eadweard Muybridge di provare a verificare la sua ipotesi. Muybridge sistemò dodici fotocamere una dopo l’altra, lungo il percorso del cavallo, in modo da scattare in sequenza; dopo vari tentativi poté constatare che il governatore aveva ragione: c’era un momento in cui il cavallo al galoppo era sospeso nell’aria.

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Fu a partire da quel momento che Muybridge iniziò ad appassionarsi al modo di catturare in immagine ciò che non era possibile vedere a occhio nudo: si specializzò nel campo della fotografia in movimento e ideò lo zoopraxiscopio, uno strumento che permetteva la proiezione di scatti fotografici in sequenza: in sostanza, un antenato del proiettore cinematografico, dai risultati molto simili alle GIF di oggi.

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Nello stesso anno, Muybridge, cinquantaduenne, sposò la ventunenne Flora Stone. Due anni dopo scoprì che Flora, ormai incinta, aveva una relazione con il critico teatrale Harry Larkyns. Andò a casa di Larkyns e, dopo avergli detto “Buonasera, mi chiamo Muybridge, le ho portato la risposta alla lettera che ha inviato a mia moglie”, gli sparò.

Fu processato per omicidio e assolto dalla giuria per “justifiable homicide”.

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In seguito Muybridge proseguì le sue ricerche, sperimentando la cronofotografia e dedicandosi soprattutto allo studio del movimento negli animali e negli atleti; i frutti di queste ricerche hanno contribuito allo sviluppo della biomeccanica.
Il suo lavoro ha inoltre influenzato numerosi artisti di varie discipline, epoche e nazionalità, da Duchamp a Francis Bacon, a Jim Morrison. Il brano che state ascoltando è tratto da The Photographer, l’opera che Philip Glass ha composto nel 1982 ispirandosi alla sua figura e, in particolare, alla vicenda dell’omicidio di Larkyns; il libretto dell’opera ha tratto spunto anche dai verbali processuali e da alcune lettere di Muybridge alla moglie.

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Appunti su “Tutta un’altra storia” di Giovanni Dall’Orto

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di Carlo Alberto Frassanito

Quando ho letto per la prima volta Dall’Orto ero uno sbarbatello alle prese con l’etimologia dell’ingiuriativo “finocchio”. Non mi convinceva la vulgata, in auge allora come adesso, sui roghi sodomitici all’aroma d’anice. Tramite la rete, unico strumento di ricerca che potessi all’epoca permettermi, m’imbattevo casualmente nel checcabolario, dictionnaire raisonné dell’onomastica
omosessuale. E di lemma in lemma prima, di articolo in articolo poi, cominciavo ad avvicinare quel pozzo senza fondo di materiali e idee che era, ed è tuttora, giovannidallorto.com.

A secoli di distanza dalla pubertà, conclusa la lettura dell’ultima pubblicazione di Dall’Orto, Tutta un’altra storia. L’omosessualità dall’antichità al secondo dopoguerra (edito da Il Saggiatore), la sensazione che ho avvertito è stata inaspettatamente la medesima dei miei lunghi anni imberbi, vale a dire quella di chi si rende conto di essersi perso un pezzo della storia, un pezzo bello grosso per giunta.

Nel suo libro Dall’Orto racconta svariate cose interessanti. La sua personale idiosincrasia nei riguardi dei luoghi comuni lo induce a capovolgere cliché storici putrefattisi da tempo nella nostra privata Weltanschauung. E se alcuni di questi smascheramenti provocano istantanei sollievi – è il caso della presunta bisessualità grecoromana, oppure dell’ascendenza biblica del pregiudizio sulla contranaturalità omoerotica, di origine in realtà accademico-stoica – altri generano un certo fastidioso imbarazzo (se non altro nel sottoscritto), come le prove di un’aspirazione al matrimonio egualitario risalente almeno al XVI secolo e de facto più vecchia di quanto era lecito aspettarsi; Altri ancora, poi, non è difficile vaticinarlo, susciteranno ulteriori occasioni di dibattito, primo fra tutti il rinvenimento di una concezione innatista dell’omosessualità databile all’età antica.

Tutta un’altra storia è per sua esplicita ammissione uno “strano” libro di storia. Eppure, la sua “stranezza” non risiede nel programmatico rifiuto dell’impostazione per exempla, dell’immancabile, e invero un po’ voyeuristico, martirologio delle checche illustri, né tantomeno nello stile, lontano anni luce dalla prosa sedativa a cui ci ha reso avvezzi l’accademia e che, se non temessi di essere frainteso, definirei “frocio”, vale a dire ironico, franco e scintillante. Si tratta, invece, di un libro “strano” perché costantemente e volutamente polemico.

Fin dalle premesse del suo discorso, Dall’Orto ingaggia una mordace battaglia contro coloro chedefinisce, con intento più critico che semplificatorio, “invenzionisti”, ossia i sostenitori della tesi, di derivazione foucaultiana, per la quale l’omosessualità rappresenterebbe una costruzione sociale formatasi tra il XVIII e il XIX secolo, piuttosto che una realtà ontologica o un’immanenza umana.

Alla confutazione di Foucault l’Autore ha dedicato finanche un intero capitolo che, per discutibili ragioni editoriali, è rimasto escluso dal volume cartaceo, benché reperibile online.

C’è da dire che la polemica non è affatto pretestuosa, la questione che s’intende discutere è tutt’altro che gratuita e da essa dipende lo statuto stesso del saggio: se non si dà l’esistenza dell’omosessualità cade di necessità la ragion d’essere di una storia della stessa.

I termini della diatriba, nondimeno, appaiono come offuscati da alcuni fraintendimenti di fondo. Se è vero che Dall’Orto dimostra, prove documentarie alla mano, che concezioni essenzialiste e performative dell’omosessualità si sono sovrapposte in pratica da sempre e ben prima del XVIII secolo, dall’altro non si può omettere, in primis, che Foucault non era, a suo stesso dire, uno storico
stricto sensu e che più volte nelle sue opere si premura di chiarire che le sue ricerche sono funzionali più al sostegno di un ragionamento, che all’accuratezza della ricostruzione storica; in secundis che, proprio in virtù della sua atipicità, Foucault muoveva da presupposti (speculativi) già di per sé antiessenzialisti, a prescindere dal fatto che si occupasse di sessualità, di follia o di checchessia.

L’intento di Dall’Orto appare peraltro più che nobile e s’intreccia alle motivazioni che lo hanno persuaso a scrivere una storia dei finocchi occidentali. Il ricercare nel passato le tracce di un’antica frocietà palesa il disegno di rinsaldare quell’identità omosessuale tanto a lungo e faticosamente costruita a partire dagli anni settanta del secolo scorso e così indebolita negli ultimi decenni.D’altronde, un effetto della prolificazione dei discorsi post-strutturalisti circa le nozioni di sesso, genere e orientamento sessuale, emblematizzato secondo Dall’Orto dall’infinita sequela di lettere giustapposte quotidianamente all’acronimo LGBT, è stato in modo incontestabile quello di frantumare man mano l’unità e la forza politica di una comunità minoritaria, un tempo conscia dell’importanza della sua compattezza e ad oggi focalizzata pressoché soltanto sulla propria
parcellizzazione individualistica.

In questo processo di minorazione della minoranza, analogo a quello riscontrabile in altri gruppi “minoritari” come quello delle donne, dei precari, dei migranti e via dicendo, non è infondato scorgere una futura dissoluzione della stessa e quindi del suo potenziale oppositivo e antisistemico.

L’evidenza, in più, che certi discorsi di moltiplicazione identitaria provengano dall’accademia nordamericana, quelli di Butler innanzitutto, e che, come ben rileva Dall’Orto, denuncino una certa tendenza all’esportazione di modelli di contestazione estranei a quelli nostrani, porta a sospettare che stiamo forse saggiando, per dirla con Foucault, degli inediti dispositivi di sapere e potere.

Lungi dal voler offrire, in questa o in altra sede, alcuna proposta risolutiva circa la vexata quaestio se froci “lo si è” oppure “lo si fa”, mi limito a suggerire come la negazione di una realtà ontologica all’omosessualità non escluda a priori la costruzione di un’identità omosessuale contingente. In altre parole, non vedo perché in un contesto storicamente dato non possa comporsi senza sensi di colpa un profilo identitario, quantunque socialmente e culturalmente fondato, che accomuni fra di loro gli invertiti e con essi le lesbiche, i bisessuali, i transessuali e qualunque altro individuo sia portatore di una sessualità alternativa alla norma.

Si obietterà che un siffatto esperimento di artefatta integrazione possa risultare castrante e riduttivo per i soggetti che vi sono coinvolti, che sia pericolosamente simile ad alcuni tentativi di fondazione identitaria studiati a tavolino, come l’italianità neoromana di matrice fascista o la padanità pseudoceltica della Lega ante Salvini, che finisca per essere eterodeterminato dalla norma perché si realizza nella negazione della stessa. Eppure tutti questi vizi di forma sono compensati dalla forza oppositiva che una comunità coesa eserciterebbe, e al contempo attenuati dalla consapevolezza che il collante sarebbe in ogni caso un’identità ideologica e non “reale”.

Si tratterebbe, in sostanza, di sostituire ad un’identità gay tout court un’identità gay indebolita quel tanto che basti a non scadere, alla stregua di tutte le ideologie, in derive autoritarie, gerarchizzanti, escludenti e colonizzatrici (come quelle di chi tenta di sbiancare Stonewall). Un’identità che si collochi nella contingenza, nell’Italia, ad esempio, in cui una legge dello Stato, salutata come progressista, non soltanto istituzionalizza una discriminazione, ma impone che il riconoscimento giuridico dei rapporti interpersonali sessualizzati passi in maniera esclusiva dallo scimmiottamento della coppia eterosessuale; oppure, per dire, nell’Occidente che sullo sfondo di una strage omofobica proietta l’arcinoto spettacolo sullo scontro di civiltà, mentre tace sulla liberalizzazione, imposta dalle lobby transnazionali, del consumo della violenza armata.

Nessuno nega che si parli di una possibilità molto semplice sulla carta, ma oltremodo più difficoltosa nella pratica, una possibilità destinata gratia sui a parecchi compromessi, errori e scacchi. Se non altro, tuttavia, assumendo una teoria identitaria del genere, in una prospettiva, mi si passi la locuzione vattimiana, di “sessualità debole”, una storia come quella di Dall’Orto può addossarsi il significato di quello che in effetti è: un’azione politica, l’atto sovversivo di un movimento di interpretazione omosessuale.

Giovanni Dall’Orto
Tutta un’altra storia
Il Saggiatore
ISBN 9788842818748
Pagine 728
€ 27.00

 

Da “Fiore inverso”

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(È da poco uscito Il fiore inverso, ultimo lavoro – libro+cd – di Lello Voce e Frank Nemola. Pubblichiamo qui un estratto del saggio Per una poesia ben temperata, incluso nel libro, e una traccia audio.)

 

di Lello Voce

(…) Una delle ragioni per le quali la poesia ‘muta’ e gli integerrimi custodi della letteratura, i critici letterari e i filologi, hanno avuto cura di rifiutare con costante fermezza ogni rapporto possibile tra poesia e musica, pur dinanzi all’evidenza storica di un dialogo costante e di una condivisione sentita a lungo come necessaria da entrambe le arti, è probabilmente proprio il bisogno di cancellare ogni memoria di un rapporto che, al solo ricordarlo, avrebbe posto di nuovo la poesia di fronte alla sua natura sostanzialmente orale e sonora.

Phyla – invertebrati

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di Mariasole Ariot20150911_192816

 

Sono nata da un’assenza. I volti appesi alle pareti grondano sulle cose, spargono dolore sui movimenti, zittiscono. Di questo silenzio non ci diciamo che millenni, piccoli rimasugli di terra nelle bocche che occludono il passaggio : chinàti a raccoglierci non facciamo ombra, siamo come mantidi dello stesso sesso che sputano i resti nello spazio.
Eppure a volte, nella congiuntura immobile delle gambe, responsabilizziamo un futuro per accogliere il passato  : anni di non dire, del non fare dimenticanza né vuoto, di paesi che immensano cascate, un cerchio imperfetto del reale.

Quanto non sentito, quanto non finito : l’intervento dell’irremediabile è combustione.

Poi arriva il sonno delle cause, il debole chiudersi di una corolla poco prima del risveglio : se non siamo che questo indicibile svenire, origliamo il rumore della parola e della pietra, annusiamo i ricordi e ci fermiamo.

Il tempo è chiuso, la cinta delle rocce ci contiene.

***

Ma nei primi giorni di caldo, le nostre facce si mettono a seccare, ci piantiamo ulivi per non piangere vergogna. Di questo esperimento della fine, del fine che fa uno col finire, resta un buco nel costato, una debole cavità della parola. Nella stanza ha un luogo l’ombelico – e sotto lo sterno, che brilla di postura e di selciato, si aprono contesti matricidi :  un occhio dentro l’occhio che non cade, sospeso al terrore minaccioso, un incubo pensato nel mattino.

Urla : lo spazio del silenzio. Preme : un luogo di materia, un sasso fosforoso come il niente.

Quando arriva il sonno districhiamo gli arti : braccia a braccia con il vuoto accade il germinare : di quanta indegnità circondo, di quanto non valere è il mio stupore? Resto accovacciata sul bordo della vita, scardino una mensola di libri, m’intossico di Indegno.

I giochi dei bambini sono nudi, la testa si fa fossa e si pronuncia.

***

Nelle ore più fredde ci asciughiamo il viso, il pianto forestale di una cavità terrestre. La mia paura è la nostra paura, cieca come un cane disperato dalla luce, un comodo abbassarsi e ritornare, un fuoco che scolpisce la mia parte, che porta in seno una miseria : il resto di uno scarto di frattaglie.
La cura è cominciare l’inatteso.

Ma : madre di costola e di fiume, dove si arresta il termine comincia il tuo lamento : un falso brulicare della mente. L’angoscia è questo cadere dal basso, le pupille dilatate, il non stormire. Muovi un passo, fraseggia i miei conati.

***

Poi ci sediamo. Mescoliamo le parole per vendetta [umida figura dell’udire]. Se non siamo sguardo, se non siamo ombra, se l’ombra ricade come oggetto, se il gettito di cosa non annuncia : pietrifica.
A tratti separiamo, dividiamo il fogliame dalla morte, da questo incunerasi del tentare. L’esistere è già caduto, un pallido imitare l’esistenza, un gatto imbalsamato per il lutto. Di quanto mondo è un mondo? , di quanto non finisce il non finire?
I torturati hanno addosso un Assoluto, vestono i vestiti della nebbia, si chinano sul bordo delle cose.
Se il vero è il già parlato, di cosa è materia il non vissuto?

***

Sulla scena del mondo piangono le donne, detriti derisi dall’umore – e io mi affaccio, striscio come un verme sugli oggetti, mi cibo della terra, il particolato sottile in sospensione. Lui scrive : intestini del suolo.

***

Dico – dici che sia un peccato
Perdere questa casa, quantificare
la perdita, durare.
Dici che sia
Quando non è dire ma adornare
Di piccoli gesti i giudizi, i falsi giochi
Le giunture.
Dico – dici che sia peccato
Piovere sulle cose
Quando è un come, il derivato, la deriva
Dici che sia, di gesti ingiusti, vittima.
Dici – Dico che sia vita.

 

 

Tolleranti a tutto. Preparati a niente.

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chimiary brilli

di Alessandro Trevisani*

Ci vuole rabbia, ferocia, determinazione e probabilmente anche premeditazione. Ci vuole parecchio di tutto ciò per uccidere un uomo con le proprie mani. Pare che il colpo letale, a Emmanuel Chidi Namdi, 36 anni, sia stato dato con un palo della segnaletica stradale. Una botta alla nuca che gli avrebbe spappolato il cervelletto, riducendolo in coma irreversibile, nella serata di martedì. Fino alla morte, avvenuta ieri sera. Piange la compagna Chimiary, 24 anni, che nella colluttazione coi due “ultras” della Fermana le aveva prese anche lei. Piange l’anima di tutto il Paese, almeno quello che non si lascia abbrutire da sottilizzazioni e crudeltà che fanno gelare il sangue – per averne un saggio leggete i commenti a questo articolo del Giornale.

La storia di Emmanuel e Chimiary, poi, era già agghiacciante prima del fatto: avevano perso i genitori e una figlia di 2 anni in un attentato di Boko Haram a una chiesa, in Nigeria. Lei ha perso un altro figlio durante la traversata nel Mediterraneo, per raggiungere quell’Italia dove il marito ha trovato la morte. E mentre c’è un indagato – un fermano 38enne, tale Amedeo Mancini, stando a CM – la sola cosa certa è che è successo tutto qui da noi, nelle Marche, in un humus di razzismo e provincialismo nutrito a Facebook e Quinta colonna, dove un distinguo benaltrista (“E a casa loro, figurati, come fanno?”)  è la premessa di un sillogismo pratico che autorizza a tutto. E finisce con le botte che uccidono, senza che nessuno si accorga, prima, che c’è qualcosa che non va, in curva, a scuola, in palestra. Che c’è gente fuori controllo che si regola “per contro proprio”.

Intanto, però, diamo la parola a Don Vinicio Albanesi, presidente della Comunità di Capodarco, che da 8 mesi ospitava Emmanuel e quella che di fatto, pur non essendo sposati, era sua moglie. Prendiamo qualche frase da questa intervista telefonica a Radio Capital, pubblicata online da La Repubblica.

Sull’ambiente in cui si innesca l’episodio: “C’è un’arroganza gratuita nei confronti degli stranieri. Un mondo ristretto, ma violento, di una violenza gratuita”. 

Sugli autori del fatto: “Personaggi che si divertono a diventare coloro che salvano la patria, se la prendono coi preti che aiutano gli stranieri o fanno opera di accoglienza, approfittando della tolleranza che la gente ha. Teste calde che fanno una specie di circolo, coinvolgono i giovani…”.

Sulle Marche e il fermano: “Non è mai stata una terra di rifiuto e di razzismo. Chi sta al mare è sempre tollerante, ma questo fa da sostrato a questi picchi di arroganza che la passano liscia. Questa è gente conosciuta dalla polizia, condannata più volte. C’è una specie di sottovalutazione del fenomeno”.

Don Vinicio dice pure che gli autori del fatto sono del “giro delle bombe davanti alle chiese“. Noi ne avevamo scritto sulla nostra pagina Facebook: i luoghi di apostolato di Don Vinicio, da gennaio in qua, sono stati colpiti da quattro ordigni. Tre esplosi senza far vittime, davanti a tre chiese: Duomo, San Tommaso, San Marco alle Paludi, quella dove fa messa Don Vinicio. E un quarto inesploso, ma trovato sotto il portone della chiesa di San Gabriele dell’Addolorata a Campiglione di Fermo.

Partiamo da qui. Le bombe per Don Vinicio. Prete scomodo, criticato, prete dell’accoglienza. Prete che toglie le prostitute dalla strada, a Lido San Tommaso. Che organizza un’agenzia, Redattore Sociale, dedicata a emarginazione, handicap e integrazione, che ha fatto scuola nel mondo del giornalismo. Un prete che ricovera 124 profughi, tra cui 19 nigeriani, al seminario arcivescovile di Fermo (NB Emmanuel aspettava da almeno 7 mesi la risposta alla sua domanda di asilo – e fuggiva dagli islamisti tagliagole di Boko Haram, mica dalla Brexit, ne vogliamo parlare?). Ad ogni modo le bombe dirette a intimidire Don Vinicio avevano “conquistato” i titoli di apertura del Carlino, del Corriere Adriatico, dei nostri giornali. Ma questo sarebbe ovvio. E soprattutto non basta. Erano quattro bombe. QUATTRO. Sulle nostre chiese. Quanti, nelle Marche e fuori, conoscono questi fatti? Chi li ha messi a tema? Chi ci ha fatto un’inchiesta? 

Ma andiamo avanti. Noi Don Vinicio l’avevamo conosciuto due settimane fa, partecipando a un’affollata e bellissima serata de L’altro festival, alla terrazza di Capodarco. Si tratta di una kermesse di cinema condotta ogni anno dalla iena Andrea Pellizzari. Per farsi un’idea solo quest’anno c’erano ospiti Jasmine Trinca, la iena Pif, i Marlene Kuntz, in un pout pourri di lungometraggi, cortometraggi, degustazioni gratuite. Quella sera c’era Luca Marinelli, lo Zingaro di Lo chiamavano Jeeg Robot, che in mezzo a 400 persone si è rivisto un altro suo bellissimo film, Non essere cattivo, per poi concedersi a una cinquantina di entusiasti “selfisti”.

Con Don Vinicio, invece, avevamo scambiato due parole a fine serata. “Io la tengo d’occhio, Don Vinicio, per la prossima intervista che faccio”, fu il nostro approccio, “a proposito, le indagini?”. E lui: “Mah, i carabinieri di qui non hanno la logistica, non hanno i mezzi. Non ce la fanno”. Poi Albanesi aveva imboccato l’ingresso della Comunità e noi l’avevamo congedato con una frase amara: “Bene. Anzi, male”. Una chiacchieretta rachitica, che dice molto del nostro essere marchigiani, tolleranti, morbidi, cinici, e perciò, volendo, inclini ad ingoiare di tutto.

Proprio così. Stavamo parlando di bombe, e abbiamo fatto cadere il discorso. Come se un’intervista con Don Vinicio, per essere fatta, debba aspettare la prossima bomba – cosa che però è parte del giornalismo, che batte il ferro caldo, non ragiona a freddo, né fa dibattito su una bomba di 2 mesi fa, 2 settimane, anche 2 giorni fa, ma scherzi?, e infatti un settimanale aveva già declinato una nostra proposta d’intervista, a maggio. Non solo, Marchebbello su quelle bombe aveva preparato un post, Bomba o non bomba, che faceva un mazzo solo con l’ordigno inesploso trovato davanti al Tribunale di Ancona il 28 aprile scorso. Un pezzo che giace da due mesi nelle nostre “bozze”.

Eh già. Perché noi di Marchebbello siamo marchigiani pure noi, cosa credete. Mica stiamo lì col taccuino aperto e la videocamera carica 24h. Macché. Anzi. Sentiamo il terremoto all’alba nel letto, al largo di Numana, e ci giriamo dall’altra parte. Picchiano una ragazza incinta mandata a prostituire in pineta, a Porto Recanati, e lo lasciamo scrivere agli altri. L’Hotel House, 3mila abitanti, quasi 4 d’estate, è senz’acqua potabile da 7 mesi, e lo diciamo “di sbiffo” in un post di campagna elettorale. Perché ci vuole una bella dose di paciosa, criminogena, autolesionistica tolleranza, per dirsi marchigiani, oggi. Si indigna poco, il marchigiano, fa l’uomo di mondo. C’è puzza di riciclaggio intorno ai soldi dell’operazione “turistica”? “Evabbeh, chissà come li faranno gli alberghi, al giorno d’oggi! Eddaje!”, ti risponde un compaesano. “Oh, sarà pure la mafia, nomme frega: se fanne el resort io vojo sapè, venno più pizze?“, ci chiede un altro baldo conterraneo, due anni fa. E via languendo, tollerando. Uniformandosi.

Quindi ha fatto centro Don Vinicio, parlando alla radio. La nostra “tolleranza” non è comprensione. Ma il “sostrato”, lo sfondo dove tutto sta bene, tutto si incastra e convive: picchi di talento, generosità, inventiva, coraggio sportivo, ma anche squallore, violenza, ferocia, intimidazione. Tamberi, Di Francisca, Vale Rossi. Delitto Sarchiè, Banca Marche, strage di Sambucheto. Il marchigiano vede ma non contempla, sbircia ma non giudica, valuta, ma non apprezza, né condanna. “Strozza” tutto con la Passerina, con la crema fritta, con la Vernaccia.

E non si lascia colpire, il marchigiano, sfuggendo così alla teoria dello “choc”, enunciata da Walter Benjamin 100 anni fa, e diventata da tempo il principio regolatore della nostra società: per l’uomo moderno ogni esperienza è un piccolo knock out, un urto senza il quale non ci accorgeremmo di nulla (da cui la cultura della discoteca, la società dello spettacolo, il culto del corpo e dell’immagine). Ma il marchigiano “medio” – similmente a tanti italiani, per carità – è già oltre: non va mai KO, non si impressiona, metabolizza senza crescere, diventa “grande” senza fare imprinting, quindi senza prepararsi. Ha il pentagramma “alto”. Mette tutto tra le righe. Perdona. Anzi, dimentica. Anzi, fa finta de gné, fin dall’inizio. Gli occhi a mezz’asta, il fare scocciato, non si compromette, non si manifesta, non si espone. Non critica, si adatta. Non vive, sopravvive. Si comporta ammodo. E mal sopporta chi diverge dall’andazzo generale, anzi lo bacchetta, lo avverte, lo biasima a forza di co’ te frega?

Così stamattina verrà Angelino Alfano a Fermo. E si farà un giro “riverginante” tra i profughi, per aggiustarsi l’immagine stropicciata dal caso delle “nomine” e farsi bello coi giornalisti “de sinistra” e i partner di governo. E con Alfano ci rivergineremo anche noi: gli indifferenti, i malavoglia, i lassa ‘ndà. Ci sarà un bel po’ di “cinema”, altro che Marinelli, e i giornali confezioneranno qualche reportage su “Fermo violenta”, sulle frange del tifo impazzito. Qualcuno si offenderà, obietterà che “non siamo così, è un’immagine distorta”. E poi via come prima. Duri di testa, come gli scogli. Morbidi di atteggiamenti, come il ciauscolo. Fino al prossimo Emmanuel.

 

 

*L’articolo di Alessandro Trevisani è apparso su Marchebbello https://frontedelportoblog.wordpress.com/
TOLLERANTI A TUTTO, PREPARATI A NIENTE. PRATICAMENTE MARCHIGIANI
(7 luglio 2016)

La foto di Chimiary è di Ennio Brilli.

 

Extraterrestrial activity #3: Oscurità

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solar-darkness-8 copertina di reflector 2012 rivista di astrofotografia

Lord Byron*

Ebbi un sogno, che non fu per nulla un sogno