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La famiglia su YouTube. Dai bagnetti ai prediciottesimi

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di Alberto Brodesco

Un estratto dall’ Archivio Trentino, 1/2014, numero speciale “Pratiche del film di famiglia. Memorie amatoriali dall’archivio alla rete”.

«Emerson – Mommy’s Nose is Scary! (Original)» riprende per 58 secondi un bambino su un seggiolone. La descrizione del video, caricato dalla madre, recita: «My five-and-a-half-month old son Emerson isn’t sure what to think when I blow my nose. Sometimes he’s terrified, then he can’t stop laughing». Il video conta in data 15 luglio 2014 quasi 56 milioni di visualizzazioni e 216.000 ‹like›. «Baby Laughing Hysterically at Ripping Paper (Original)» mostra un bambino che ride mentre il papà strappa una lettera: 70 milioni di visualizzazioni e 236.000 like. Un altro video assunto alla celebrità è «David After Dentist». Mostra un bambino che delira sotto l’effetto di un sedativo ed è stato visto da 125 milioni di persone. Il video dei record, infine, riprende due fratellini. Il più piccolo morde l’altro, che esprime il commento eponimo «Charlie bit my finger». Si contano qui 740 milioni di visualizzazioni e 1 milione e 300 mila like.

Queste sono solo le piccole star familiari di YouTube, le stelle più brillanti di un universo sconfinato di autorappresentazioni familiari di cui cercheremo di individuare e analizzare alcune sedimentazioni discorsive in grado di segnare i punti cardine della vera e propria mutazione socio-culturale avvenuta nella transizione dal passato analogico al presente digitale.

Il salto da un’epoca di scarsità, in cui la pellicola era un bene prezioso che andava risparmiato, alla suddetta era dell’abbondanza o dello «spreco iconico» (Gilardi, 2000, p. 311) produce una prima distanza tra lo ieri e l’oggi. Non è più necessario impegnarsi in quella che era la vera questione chiave per il cineasta amatoriale, ovvero l’accurata selezione di specifiche porzioni di realtà. Venendo meno il bisogno di preoccuparsi dell’esauribilità del supporto materiale, cioè di delimitare una frazione di tempo, la durata di osservazione si estende, le riprese si allungano, lo sguardo si sofferma e permane.

I modi con cui viene rappresentato su YouTube un momento canonico del film di famiglia, il ‹bagnetto› del neonato, forniscono un buon punto di osservazione su questo primo effetto. Bisogna intanto prendere atto dell’enorme disponibilità di bagnetti su YouTube: digitando in italiano ‹primo bagnetto› (fra virgolette) il motore di ricerca restituisce 7.310 video; utilizzando l’inglese ‹first bath› come parola chiave si trovano circa 140.000 filmati. I primi trenta risultati delle ricerche nelle due lingue, raccolti come campione, mostrano che i video con ‹primo bagnetto› nel titolo o nella descrizione hanno una durata media di 4 minuti e 37 secondi (mediana: 3’48”), mentre i video taggati ‹first bath› durano in media 7’52” (mediana 6’36”). A volte i genitori riprendono integralmente il bagnetto, con durate che giungono fino ai 19 minuti. Al di là dell’esigenza di risparmiare, all’epoca della pellicola la stessa durata fisica delle bobine rendeva impossibile girare delle sequenze di tale lunghezza.

Strettamente associata a questa, una seconda conseguenza della digitalizzazione del video di famiglia ha a che fare con i contenuti, con ciò che viene registrato dalla videocamera. Ai momenti canonici che continuano a essere filmati (matrimoni, compleanni, primi passi…) si sommano ora i fatti più minuti, considerati un tempo scarsamente rilevanti, non meritevoli di essere ripresi. Entrano nell’inquadratura i piccoli momenti del quotidiano. I video esplorano senza fretta i territori dell’effimero.

[…]

Le parole svolgono una funzione fatica, servono a ribadire l’esistenza di chi le pronuncia. È facile per lo spettatore porsi in una posizione di superiorità rispetto a tale esposizione ingenua del quotidiano più minuto e alle considerazioni verbali che la accompagnano. Eppure i numeri dimostrano che vlog come questi richiamano un interesse di massa. PepperChocolate84 è una ‹fashion e make-up guru›, una partner di YouTube, una professionista in grado di guadagnare grazie al suo canale, la star di uno «star system tutto interno a YouTube» (Nencioni, 2013, p. 75). In data 6 giugno 2014, PepperChocolate84 è autrice di 687 video – tutorial, consigli di abbigliamento e di stile, racconti di viaggio e di vita privata. Il suo canale ha 137.677 iscritti. La concezione di ‹famiglia› che viene così a stabilirsi assume evidentemente una forma particolare: PepperChocolate84 non solo condivide pubblicamente la sua vita familiare, ma la vende.

La somma tra prolungamento dello sguardo sull’oggetto inquadrato e ripresa dell’effimero finisce per estendere il territorio del filmabile, la cui capienza abbraccia ora tutti gli spazi e tutti i luoghi, come se la realtà fosse divenuta un lunghissimo piano sequenza. Dal punto di vista tecnologico tale apertura degli orizzonti del possibile è simbolizzata dall’invenzione dei Google Glass e dalla progettazione della videocamera GoPro. La camera diventa un terzo occhio, raddoppia la percezione, conserva traccia registrata di tutto ciò che l’individuo ha percepito. La rassicurazione psicologica fornita da questa opzione ne decreta il successo: «la memoria privata è ormai perfettamente controllabile grazie al suo spostamento dalle incertezze dell’organico alla sicurezza dell’inorganico» (Eugeni, 2009, p. IX).

Se, prima, la presenza della cinepresa stabiliva un’eccezione, ora l’ubiquità della videocamera o del videofonino è la regola, l’ordinario. La registrazione (o la registrabilità) del quotidiano fa parte dell’orizzonte degli eventi della società contemporanea.

[…]

La disponibilità costante di dispositivi mobili a portata di mano dell’individuo produce inoltre degli effetti legati alle modalità stesse della rappresentazione o dell’autorappresentazione. Si può infatti osservare la perdita dell’«afflato corale e inclusivo» (Cati, 2013, p. 106) che contraddistingueva l’home movie, con un conseguente passaggio enunciativo dal ‹noi› all’‹io›. Oggi i racconti di sé ‹familiari› o collettivi sono decisamente minoritari rispetto all’enorme mole di video concentrata non sulla famiglia ma sull’individuo.

[…]

Il cineamatore in pellicola svolgeva un ruolo sociale, filmando la famiglia per la famiglia, per lasciare un lascito al nucleo domestico o ai propri figli. La visione collettiva nel corso delle serate di proiezione rinsaldava l’unità degli affetti. Di preferenza, i video sono invece oggi destinati alle pagine o ai canali personali di FaceBook, YouTube, eccetera. Se prima la comunicazione mirava a un ‹noi› condiviso e voleva sedimentare anche una testimonianza per le future generazioni, ora ci si indirizza prevalentemente al presente parlando in prima persona singolare. Lo stesso payoff di YouTube, «Broadcast Yourself», è da intendere come un ‹tu› più che come un ‹voi›. La celebre copertina di Time del 2006 che celebra l’avvento del web 2.0 eleggendo ‹You› come «person of the year» si può interpretare alla luce della stessa connotazione. La copertina mostra lo schermo di un computer ricoperto di una superficie riflettente, lasciando già spazio alle interpretazioni culturali che puntano l’indice contro la presunta «epidemia di narcisismo tra i giovani» – ormai un luogo comune segnalato con toni preoccupati da quotidiani felici di pescare tali dati dal mare magnum della ricerca accademica («ben il 70% dei ragazzi è ‹malato› di narcisismo, fenomeno che sta dunque raggiungendo dimensioni epidemiche»). Eppure sin dagli anni settanta, scrivendo di videoarte, Rosalind Krauss (1976, p. 50) suggeriva che una deriva narcisistica fosse interna a un medium come il video che induce l’artista a cercarvi uno specchio. Il videofonino, portatile, agile e personale, non ha fatto altro che accentuare (mcluhanianamente) questo aspetto.

I processi di mediazione e di auto-mediazione, prerequisiti essenziali per la soggettivazione, attraversano dunque un’evoluzione tecnologica. La costruzione del sé si ricalibra all’interno dell’interazione sociale offerta dai Social Network Sites. La presentazione o rappresentazione del sé – un’operazione drammaturgica, concepita per una pluralità di palcoscenici e per una molteplicità di audience (Goffman, 1969) – è calata in un’era di vetrinizzazione sociale (Codeluppi, 2007), di auto-spettacolarizzazione o di confezione del sé a fini spettacolari. I SNS sono luoghi dove formulare, moltiplicare e negoziare identità, dove essa viene ‹messa in forma› o inventata. Giorgio Agamben (2006, p. 23) parla di una «disseminazione che spinge all’estremo l’aspetto di mascherata che ha sempre accompagnato ogni identità personale». Rappresentarsi vuol dire anche ri-presentarsi, ri-conoscere se stessi dopo aver attraversato un processo di oggettivazione: lo specchio della foto o del video serve a vedersi a distanza, a creare un gap, una separazione tra il sé e il mondo esterno. Tale piazzamento a distanza del sé presuppone tuttavia una separazione minima. Il selfie prevede che la fotocamera si collochi a distanza di braccio o di selfie stick. Non ci si allontana mai davvero troppo da se stessi.

Riferimenti bibliografici

Agamben, Giorgio

2006 Che cos’è un dispositivo? Roma: nottetempo.

Cati, Alice

2013 Immagini della memoria. Teorie e pratiche del ricordo tra testimonianza, genealogia, documentari. Milano-Udine: Mimesis.

Codeluppi, Vanni

2007 La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società. Torino: Bollati Boringhieri.

Eugeni, Ruggero

2009 «Mrs. Bathurst. Il cinema come operatore della memoria privata». Prefazione in: Pellicole di ricordi: film di famiglia e memorie private (1926-1942). Di Alice Cati. Milano: Vita & Pensiero: VII-IX.

Gilardi, Ando

2000 Storia sociale della fotografia. Milano: Bruno Mondadori.

Goffman, Erving

1969 La vita quotidiana come rappresentazione. Bologna: Il Mulino (ed. orig. The Presentation of Self in Everyday Life. Garden City, NY: Doubleday, 1959).

Kraus, Rosalind

1976 «Video: The Aesthetics of Narcissism». October. Cambridge, MA, v. 1: 50-64.

Nencioni, Giacomo

2013 «I make up tutorial di YouTube e il caso Clio make up: gli stardom di Internet e i transiti tra web e nuova tv». In: Factual, reality, makeover Lo spettacolo della trasformazione nella televisione contemporaneaV. A cura di Veronica Innocenti e Marta Perrotta. Roma: Bulzoni: 75-84.

Lo Sciame Digitale, i Big Data e la Psicopolitica

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di Domenico Talia

La nuova folla senza animo e spirito è lo sciame digitale. Così la pensa Byung-Chul Han, il filosofo nato a Seul che insegna filosofia e teoria dei media a Berlino. Negli ultimi anni Han ha pubblicato alcuni saggi sulla globalizzazione e sugli effetti delle nuove tecnologie sugli esseri umani e sulle loro società. Nello sciame. Visioni del digitale (ed. Nottetempo) è l’ultimo suo breve libro pubblicato in Italia. Le riflessioni di Han stavolta sono dedicate al nuovo popolo che vive nel mondo dei media digitali e che lui ha definito, appunto, “sciame digitale”. Una comunità composta da individui anonimi che solo apparentemente condividono pensieri e azioni, ma che spesso si perdono nella conta dei “mi piace” e dei preferiti e non riescono a trovare modalità efficaci per esprimere le loro energie collettive.

Femminismi: teoria, critica e letteratura nell’Italia degli anni 2000

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di Margherita Marras

(Introduzione al volume Femminismi: teoria, critica e letteratura nell’Italia degli anni 2000, “Narrativa”, n. 37/2015)femminismi

Da cosa nasce l’esigenza di questo volume? Perché i Femminismi?

Si potrebbe partire dalla riattualizzazione su parafrasi di una celebre canzone del femminismo militante degli anni 70: “Noi siamo stufe”. In questo caso, però, non si tratta di rimettere in discussione la dominazione maschile nel quotidiano delle casalinghe, ma piuttosto di rivoltarsi al significato, al senso e all’uso mortificato (e corrente) attribuito al femminismo; innanzitutto, dai molti (troppi) dei non addetti ai lavori: circoscritto temporalmente a un periodo cominciato e conclusosi negli anni ’70, il femminismo è da costoro generalmente dipinto con dei tratti che, scolpiti in una (a)memoria storica deformata, rimandano alle forme sminuenti e grottesche di un’espressione gridata (se non isterica) e di opposizione virulenta al “maschio”, tendenzialmente androfobica o misandrica che dir si voglia.

Non meno fastidioso è l’appiattimento essenzialistico e distorto del femminismo: scarnificato, ridotto ai minimi termini e giocato a suon di slogan da tuttologi opinionisti nei vari talk show, da presentatrici “specialiste” della comunicazione televisiva con milioni di spettatori al seguito (si veda Barbara D’Urso) che liquidano la loro “militanza” in battute da bettola e, finanche, da cantanti e autori[1] di testi in cui la “specificità femminile” si perde nei meandri della facile e non problematizzata questione/equazione donna uguale donna. Una specificità Donna, dunque, conclamata con assurda fatuità e giustificata sulla base di una “natura” femminile di biologica ascendenza che, oltre a spazzare con frivolezza il salutare concetto della diversità tra donne, viene continuamente misurata su una contrapposizione stereotipica all’uomo: Donna dispensatrice di pace contro l’uomo guerriero, sensibilità femminile contro arroganza maschile, romanticismo contro nichilismo, sentimentalismo contro sessualità, educazione contro trivialità, ecc. E queste sono solo alcune delle tante facilonerie costernanti che alimentano i “pensieri” pseudo-femministi, creando disagio e disappunto presso tutti coloro i quali portano con sé la coscienza e la memoria della combattuta e contrastata storie delle donne e conoscono il prezioso apporto politico e culturale del femminismo. La constatazione prima che ne deriva è la leggerezza imperdonabile di chi, proclamandosi femminista senza conoscerne minimamente contorni e sfumature, dimostra di ignorare il fondamento stesso del femminismo: la complessità!

Il femminismo non è un fenomeno confinabile in semplicistici schemi, come dimostrato dal suo andamento carsico, dalla pluralità delle sue manifestazioni e forme, dalla sua capacità di attraversare e muovere nuovi saperi da un territorio all’altro e di situarsi e di confrontarsi con specifici contesti culturali e geografici. Il femminismo è un fenomeno all’interno del quale ci si muove (anche da esperti conoscitori) sempre con una certa cautela: per il funambolismo che sottende la sua vocazione a una differenza affermata e la sua volontà di distruggere le barriere; per le rivendicazioni avanzate di una diversità che si vuole precisa nelle sue connotazioni ma fluida se ricondotta alle sue multiple versioni; per la sua configurazione impura dovuta all’infinità dei pensieri e delle teorie nei quali si è espresso e si esprime (da cui il sempre più corrente uso plurale di “femminismi”), implacabilmente e forzatamente sottomessi alla variabilità e all’effimero temporale.

Il femminismo ha dunque fallito? Sì, se ci dovesse limitare alle facilonerie sopra menzionate e se si estendesse la nostra riflessione, rincarando la dose, a quella porzione di campo letterario/editoriale in cui a vincere sono gli stereotipi di genere – spesso ricuciti sulle basi del più becero fallogocentrismo –, trasformati in improbabili marcatori identitari e tesi ad affermare un “femminesco” essenzialismo (che niente ha a che fare con lo storico femminismo della differenza), chiamato a codificare un genere letterario minore – “femminile” per l’appunto – dispensatore di rosee vedute, di sciacquatissimi intrecci sentimentali e di amori controversi per “anime semplici” (si veda in questo volume l’intervista a Maria Rosa Cutrufelli). Difatti, a fronte di case editrici capaci di considerazioni lucide, obiettive e non sessualmente discriminanti, è copiosa la schiera di editori per i quali la promozione di questa edulcorata idea di “femminile” è del tutto speculare a una sua spendibilità sul mercato, giacché perfettamente corrispondente ad attese e bisogni di una fetta di pubblico ammansito e tautologicamente abituato a nutrirsi delle sue aspettative comode e rassicuranti. Purtroppo, declinare la grammatica dei ruoli allo sminuente ritmo della negoziazione commerciale significa orientare e disciplinare le scelte testuali, di ricezione e promozionali su un’identità di genere imbalsamata in anacronistici stereotipi che, all’origine di pericolose asimmetrie, scadono immancabilmente nell’assoluto discriminante, danneggiando le donne, alcune delle quali, peraltro, non sono sempre candide e innocenti in questa speculazione (si vedano le interviste ad Antonio Moresco e a Maria Rosa Cutrufelli).

Inutile negarlo: ci troviamo oggi nel pieno di una re-mistificazione del concetto Donna, circoscritto in un fortino anche se di sabbia, che per superficialità si iscrive nella chiave anti-femminista più radicale e, cioè, in un sistema stereotipato che supporta e alimenta non solo la marginalizzazione ma anche l’inconsistenza delle donne, la cui natura, costruita su una differenza biologica dozzinale, ritrova il peggio di quel senso universalizzante e universale della tradizione occidentale che molti femminismi, soprattutto dopo gli anni ’70, hanno tentato di demistificare e combattere.

Benché tutto ciò mostri chiaramente l’effetto “muro di gomma” del femminismo in Italia, sarebbe quanto mai ingiusto parlare di un suo fallimento. La sua poca penetrabilità e la conoscenza distorta di cui è oggetto si potrebbero invece ricondurre all’arroccamento di molte delle sue esponenti storiche nei circoli e luoghi ristretti delle loro formulazioni teoriche (prevalentemente fruibili a un pubblico di nicchia), ma soprattutto alla sua banalizzazione mediatica, alla poca sensibilizzazione sulle questioni di genere nelle scuole, alla scarsissima rilevanza e diffusione nell’istituzione accademica italiana di Women’s e Gender Studies[2] dalla quale dipende, d’altra parte, il ritardo degli studi accademici in materia di femminismo, e tanto altro. Da qui l’urgenza e l’esigenza di questo volume.

Tuttavia, malgrado ritardi e semplificazioni, sono comunque percettibili in Italia, negli ultimi anni, una pratica e una teorizzazione femminista sempre più feconde e di alta qualità, come confermato tanto dagli studi a opera di intellettuali e accademiche consolidate – sociologhe, linguiste, filosofe –, disciplinarmente sensibilizzate all’urgenza di rivedere i riposizionamenti nelle relazioni di genere alla luce dei nuovi schemi culturali e sociali profilatisi all’interno dello spazio femminile, quanto dalle pubblicazioni di giovani studiose formatesi in luoghi storicamente più consoni e inclini agli studi di genere e, quindi, alla costruzione di identità mobili, intersezionali, transessuali, queer, ecc.

Ed è proprio a questo femminismo, criticamente più attento alle nuove configurazioni della realtà e della società italiane, che abbiamo voluto guardare facendo appello ad alcune delle sue rappresentanti, consolidate e nuove.

A coloro i quali conoscono la rivista Narrativa, e dunque la sua vocazione prioritariamente letteraria, parrà strano ravvisare in questo volume lo sbilanciamento percentuale tra i testi di matrice sociologica, quantitativamente superiori, e gli studi di critica letteraria. Esistono delle precise motivazioni e altrettante risposte a questa evidenza. In primis, la vistosa carenza (praticamente assenza) in Italia, di studi critici o problematizzazioni letterarie che, in congiunzione con i pensieri femministi, abbiano abbracciato l’insieme della produzione delle donne. La seconda ragione, a essa strettamente legata, è la nostra profonda consapevolezza che i saggi e contributi di natura sociologica, filosofica ecc. offrono, in prospettiva interdisciplinare e comparata, spunti analitici indispensabili per comprendere la complessità della produzione letteraria delle donne e per suggerire l’adozione di possibili posizionamenti e prospettive critiche: da dove partire, come e cosa cercare. Ma esistono anche altre ragioni che saranno sviluppate nel corso di questo percorso introduttivo.

L’apertura del nostro volume è affidata a due studi, quello di Karine Bergès e quello di Alessandra Montalbano, che ci proiettano nelle peculiarità e conflittualità dei femminismi della terza ondata, rispettivamente in Francia e in Italia. Abbiamo voluto iniziare con la Francia per ragioni di prossimità socio-culturale e per i legami storici di stampo femminista con il nostro paese (la pregnanza teorica del femminismo della differenza in Italia, ancora ai nostri giorni, ne è esempio tangibile). In ambedue i testi, a emergere sono le ramificazioni multiple del femminismo, la sua eterogeneità e la sua plurivocalità, che mostrano chiaramente quanto esso sia poco incline all’immutabilità e refrattario a eterne categorizzazioni. Le due studiose pongono le basi per una riflessione che, se volessimo estendere in ambito critico-letterario, aiuterebbe sicuramente a una migliore valutazione delle articolazioni varie e possibili tra femminismi e creatività.

E di queste congiunzioni parla nel suo articolo Giovanna Zapperi riferendosi alla ripresa sperimentale dei testi di Carla Lonzi, icona del femminismo italiano degli anni ’70, effettuata da alcune giovani artiste. Zapperi rileva quanto il riadattamento di questi testi abbia consentito un’interessante attualizzazione dialogica con le pratiche del femminismo del terzo millennio e sottolinea la suggestiva proposta di cui è portatore: l’intreccio possibile tra arte, femminismo, creatività, linguaggio, soggettività.

Nonostante la persistenza di un’etica minimale comune rispetto al femminismo del passato, sono evidenti, come già precisato, i suoi adattamenti e le aperture alle nuove sfide che si sono imposte e si impongono in termini di mutazioni politiche, sociali e culturali. Infatti, molte delle particolarità dei femminismi della terza ondata riposano sulla complessità di fenomeni soggiacenti alla compressione-spazio temporale e all’intrecciarsi di reti e relazioni transnazionali specifici all’epoca globale, tra i cui effetti diretti si può menzionare il moltiplicarsi delle letture di problematiche contestuali su base trasversale e trans-storica. Così emerge dallo studio di Patrizia Violi che problematizza il fenomeno del femminicidio contestando l’interpretazione patriarcale – che lo riconduce a singole, diffuse e parcellizzate storie individuali – e indagandolo nella sua dimensione politica e transnazionale. Violi ci offre, in tal modo, una lettura geograficamente e culturalmente globale del femminicidio presentato come una sorta di costante universale, un filo rosso che ha le sue radici proprio nel patriarcato e, più precisamente, nel dominio del maschile sul femminile, individuando la misoginia come causa scatenante, trasversale e trans-storica, di queste uccisioni di donne perché donne.

L’infittirsi di reti e di relazione transnazionali propri alla globalizzazione è altresì dovuto al moltiplicarsi delle migrazioni dai Sud al Nord del mondo, che è all’origine, oramai da tempo, dell’arrivo massiccio anche in Italia di cittadini stranieri. La riflessione critica di Franca Balsamo porta alla luce i punti di forza e i punti nevralgici dell’incontro tra femminismi e donne “migranti”. A fronte dei risultati di integrazione e di collaborazione tra donne ottenuti dal femminismo attivista, politicizzato, associazionista e dall’apporto delle nuove generazioni di femministe militanti formatesi nelle università europee a sensibilità neo-femminista, la studiosa fa osservare che continuano a permanere per le “migranti” dei problemi di auto-rappresentazione ma anche di rappresentazione, visto che, nei luoghi preposti alle riflessioni teoriche e politiche dei femminismi italiani, esse sono ancora paradossalmente costruite come “‘straniere o immigrate’, anche quando siano nate in Italia e magari sono già cittadine italiane”.

Questa difficoltà italiana di rappresentatività sottolineata da Franca Balsamo, ci aiuta a comprendere le rigidità che sottendono, in ambito letterario, l’eccessiva categorizzazione critica delle scritture definite “migranti” che è oggetto, da tempo, di una rimessa in discussione proprio per l’evidente ambiguità di attribuzione indiscriminata dello statuto “migrante” a scrittori e scrittrici, spesso cittadini/e italiani/e o nativi/e di seconda generazione e/o culturalmente a cavallo di più culture. Tale questione si complica ancora di più se analizzata dal punto di vista delle autrici che, oltre a condividere con i loro corrispettivi di sesso maschile l’assimilazione a una data zona letteraria determinata da vincoli geografici e/o di anagrafe (o di presunta “non italianità”), devono fare i conti con altri accorpamenti legati, questa volta, a ragioni di identità biologica. La distinzione tra autrici italiane e italofone, spesso praticata, spinge di fatto verso la loro catalogazione nello spazio di un’identità al femminile fissa e gerarchicamente asimmetrica (rispetto alle scrittrici “italiane”) e, quindi, a un loro imprigionamento in un limbo letterario, una sorta di paradossale enclave dell’indistinto – perché si rischia di semplificare l’importanza delle diverse provenienze e esperienze, il talento e lo stile di ognuna di loro –, e del distinto – perché viene frequentemente applicata nei loro testi una compulsiva ricerca di elementi classificatori che possa giustificare l’esistenza di un marchio, di uno stile comune e quindi di un genere associabile alla doppia etichetta “migrante/femminile”. In tale procedere, ad apparire evidente è la mancanza di un’appropriata conoscenza delle dinamiche di variazione del genere e della soggettività femminile ripensata alla luce della complessità, della molteplicità, della contraddittorietà, della fluidità (si vedano Donna Haraway, Monique Wittig, Rosi Braidotti, Teresa de Lauretis, Susan Stanford Friedman, ecc.) che potrebbe indubitabilmente offrire un utile e giusto supporto d’analisi.

Con Krizia Nardini entriamo, invece, nel pieno di un dibattito che, soprattutto in questi ultimi anni, apre nuovi varchi all’interpretazione del femminile e del maschile. A ragion veduta, la studiosa sottolinea che gli uomini – benché analizzati sotto differenti angolazioni, criticati o ignorati – sono sempre stati indissociabili da tutte le teorizzazioni e le riflessioni critiche dei femminismi. Allontanandosi dai pericoli di essenzialismi al maschile, Nardini precisa che, nonostante l’indubbio avvicinamento degli uomini a problematiche femminili e femministe, esistono ancora delle difficoltà di dialogo rilevabili, in particolar modo, presso coloro i quali rispondono o si avvicinano maggiormente ai modelli normativi di maschilità, dominanti nelle società fondate sul sex/gender system eteronormatico di struttura patriarcale: biomaschio etero, bianco, occidentale e borghese.

E sulla non semplice questione relativa a “femminismo e uomini” ritorneremo per argomentare le nostre intenzionalità progettuali e le attese originarie – profondamente e pragmaticamente tradite – riposte in questo volume, concepito agli inizi sulla base di tre sezioni di cui la seconda avrebbe dovuto comportare una serie di studi incentrati su una lettura della produzione e della creazione letteraria delle donne.

Intenzionalità progettuali e attese originarie che avrebbero dovuto rispondere a due esigenze in particolare: da un lato, volevamo produrre dei materiali critici che, temporalmente, inglobassero la prima ondata femminista e si estendessero fino all’epoca iper-contemporanea e che, spazialmente, fossero circoscritti all’Italia giacché, come si è detto, mancano critici e teorici della letteratura che abbiano unito i femminismi a un’analisi dell’insieme della produzione letteraria italiana delle donne, e questo malgrado si sia registrata in questi ultimi tempi l’apparizione di monografie e di encomiabili studi prodotti dalla Società Italiane delle Letterate, e malgrado il proliferare di antologie e di collane di studi femministi; dall’altro lato, nutrivamo l’ambizione di poter apportare nuove riflessioni critiche che coniugassero i femminismi e la letteratura delle donne, naturalmente nella piena consapevolezza dei rischi che una tale impresa sottende.

Chiunque si interessi di letteratura sa bene che a ogni nozione di genere corrisponde una ricorrenza misurata sull’esperienza letteraria da cui, sovente, emerge la difficoltà di una sua schematizzazione e di una sua codificazione normativa. A giusto titolo, Alastair Fowler[3] attribuisce al genere le costanti della mobilità e della trasformazione e precisa l’impossibilità di racchiuderne l’identità tra un’origine e un punto di arrivo. Il risultato non cambierebbe se si cercasse di utilizzare come essenza normativa, in letteratura, l’appartenenza di genere. La stessa Virginia Woolf, quando in Una stanza tutta per sé (1929) affermava l’esistenza di una scrittura femminile sollecitando le donne a impegnarsi per una sua definizione, era ben conscia dei pericoli insiti nelle spiegazioni e attribuzioni di senso risolutive.

Non abbiamo, dunque, mai avuto la pretesa di “canonizzare” stili e modi di scrittura “propri” alle donne, né di proporre un “genere (letterario) del genere”, dato che è sempre stata forte in noi la convinzione dell’impossibilità, nonché inutilità, di definire una “letteratura femminile” in opposizione a presunte modalità di “scrittura maschili”, ben consce dei rischi di caduta secca nell’indistinto universalizzante e/o dell’attivazione di nuovi luoghi comuni. Nelle nostre intenzioni iniziali si intendeva piuttosto interrogare i testi sul vasto crinale delle relazioni di genere con l’obiettivo di individuare pratiche di scritture antagoniste o convergenti rispetto a modelli egemonici patriarcali, con uno sguardo possibilmente diacronico che permettesse di tracciare evoluzioni e cambiamenti; ed anche di valutare l’incontro/scontro tra pensieri, scritture e pratiche narrative/artistiche delle donne e le teorie femministe, nonché di sottolineare i rapporti possibili tra genere e creatività artistica anche alla luce delle preziose acquisizioni delle revisioni postulate dal gynocritism o dai nuovi femminismi interculturali.

Insomma, volevamo cogliere nell’esperienza letteraria e nella critica aspetti e sfumature del genere, facendolo valere euristicamente, senza snaturare la variazione insita e intrinseca alla sua dinamica evolutiva, come criterio possibile di leggibilità della letteratura delle donne.

Ma l’ambizione più coraggiosa è stata sicuramente, come già accennato, quella di aver voluto affidare questa seconda sezione quasi esclusivamente a mani maschili. Non sarebbero mancate donne di esperienza, competenti in materia e capaci di affrontare questi discorsi, ma per una serie di ragioni abbiamo voluto puntare soprattutto sui critici uomini. Intanto perché molti colleghi hanno prodotto studi letterari di grande interesse su autrici o personaggi femminili (eroine, madri, figlie ecc.), mentre negli studi relativi ai femminismi la loro è una (quasi) totale assenza. Con Silvia Contarini ci chiedevamo, da tempo, se dietro quest’assenza si celasse un’esclusione dovuta a retaggi culturali o, seppure, si trattasse di una volontaria auto-esclusione. Coinvolgere i colleghi uomini è stata quindi una sfida, con sottesa però l’ingenua certezza che l’avremmo vinta: ai nostri occhi appariva paradossale che i femminismi potessero (ancora) scoraggiare gli otto colleghi sollecitati a partecipare al volume. Tanto più che la scelta dei critici in questione è stata mirata e cioè rivolta a studiosi di letteratura italiana contemporanea di grandi capacità, muniti di strumenti teorici e di conoscenze critiche spesso, fatto da non sottovalutare, “imparentati” con i femminismi: specialisti di postcoloniale, di postmodernità, esperti conoscitori delle critiche post-strutturaliste e decostruzioniste o di letteratura della migrazione. Con grande candore, già immaginavamo il loro fruttuoso apporto epistemologico di revisione ispirato al New Historicism o applicato a quell’abietto “orientalismo” che è stato presente anche in casa nostra, evincibile non nella forma imperialista (o non solo) denunciata dalla critica saidiana, ma negli assiomi di un sistema letterario – organizzato, per lungo tempo, sulla base della più classica delle dicotomie: centro (i maschi) e margini (le donne) – in cui tanto indecorosi quanto numerosi sono stati gli ostracismi e gli sbarramenti all’accesso alla scrittura subiti e posti alle donne, dei cui destini sono state costanti ricorrenti l’inespugnabilità dei territori di produzione culturale e la derubricazione del femminile, evidente nella moltitudine di rappresentazioni stereotipate e di formule generalizzanti, quando non disumanizzanti (tra mostro e madonna, diceva Woolf a proposito dell’immagine deformata della donna data dall’uomo).

Ci sarebbe piaciuto conoscere il punto di vista dei colleghi più vicini al post-strutturalismo riguardo alla controversa questione dell’identità autoriale che ha opposto i teorici fautori della morte/rimozione/neutralità dell’autore (“Cosa importa chi parla?” diceva Michel Foucault) e le femministe dei saperi situati e della politica del posizionamento (Adrienne Rich, Donna Haraway, Susan Stanford Friedman, ecc.) che, consapevoli dell’importanza referenziale a un’identità femminile così come dei pericoli insiti nelle teorizzazioni di un io dato universale ed essenzialista, si schierano per il mantenimento di un’idea di soggettività femminile, ma sempre in divenire e ripensata sulla base della plurivocalità e della pluridimensionalità.

Ci sarebbe piaciuto se i colleghi, in prima linea su questioni letterarie afferenti al postcoloniale e/o alla migrazione, avessero portato il loro contributo allo studio del fenomeno letterario italiano delle cosiddette “scrittrici migranti”, valendosi, per esempio, delle numerose suggestioni provenienti dai femminismi postcoloniali, intersezionali, transnazionali – di cui sono state promotrici Kimberlé Williams Crenshaw, Chandra Talpade Mohanty o Caren Kaplan – epistemologicamente definiti dall’idea di un’alleanza al femminile tesa alla valorizzazione delle differenze tra donne (genere, razza, etnia, ceto sociale, livello culturale, storia personale, orientamento sessuale, ecc.).

E queste erano solo alcune delle nostre attese che, tradite, hanno portato a un ridimensionamento dei disegni iniziali. Un solo studio generale appare in quella che sarebbe dovuta essere la seconda sezione di critica letteraria. E la firmataria, guarda caso, è una delle rare donne invitate a partecipare, Lucilla Sergiacomo, che ci offre una dettagliata cartografia letteraria indagando particolarità e contraddizioni di donne-personaggio create da donne-scrittici dell’Italia novecentesca.

Ritorniamo ora ai colleghi che hanno declinato il nostro invito, con tempi e ragioni diverse: c’è chi, oberato di lavoro, ha detto no già da subito; chi ha dovuto fare i conti con impegni improvvisi abbandonandoci a metà percorso; e chi ha dimenticato di onorare i tempi preposti alla consegna. Il risultato finale è la non presenza in questo volume della seconda sezione, un’assenza che, tuttavia, non resta priva di significato, ma, al contrario rappresenta ossimoricamente un silenzio che parla. In effetti, come è spesso accaduto nella storia delle donne, a parlare è anche l’assenza. Senza cadere nelle facili trappole di un essenzialismo al maschile e senza mettere in discussione la buona fede di parte dei colleghi riguardo a reali impedimenti materiali, la percentuale massiccia di abbandoni ci autorizza a interrogarci, a mettere in luce e a toccare con mano il fatto che non si possa categoricamente escludere l’esistenza di una reticenza maschile, cosciente o inconsapevole, da addebitarsi alla generale difficoltà di dialogo degli uomini con i femminismi, tra l’altro ben rilevata da Nardini.

Nel 1979, Sandra Gilbert e Susan Gubar in The Madwoman in the Attic[4] mettevano in evidenza il doloroso percorso intrapreso dalle donne per giungere a una scrittura autonoma, indicando come difficoltà prime il superamento dell’angoscia dei “padri fondatori” (“the anxiety of influence”), i condizionamenti sociali e le frustranti complicità che i ruoli maschili hanno loro imposto (“the anxiety of authorship”). Parafrasando, si potrebbero trarre delle ipotesi di lettura sul diniego e sull’abbandono dei nostri colleghi e lasciare aperte una serie di questioni e conclusioni.

Esiste forse presso taluni uomini un’ansia di confronto con il femminismo e con le sue “madri fondatrici”? O forse è possibile credere che, ancora oggi, alcuni retaggi storici e condizionamenti socio-culturali continuino ad alimentare un’idea “separatista”, ossia un’idea di distinzione sessuata dei ruoli (in questo caso intellettuali) e della praticabilità o meno di certi campi? O si tratta, forse, semplicemente di condizionamenti dovuti all’accezione riduttiva e negativa del femminismo che ancora in alcune menti campeggia sovrana?

Comunque sia, almeno un critico ha fatto eccezione. Si tratta di Massimo Onofri, il cui contributo su Grazia Deledda trova spazio, insieme a quello di Silvia Lutzoni sulle Madri, madonne e premi Nobel: ipotesi di un itinerario deleddiano nell’opera delle narratrici sarde degli anni Duemila , in una rubrica appositamente dedicata a studi sul caso sardo; a scanso di equivoci, è bene precisare che la presenza di questo piccolo spazio sardo non è da mettere sul conto di sensibilità anagrafiche (le mie) o di affinità a un campo di ricerca ampiamente battuto da molti studiosi del laboratorio a cui fa capo la rivista Narrativa. Entrambi i saggi rispondono, invece, all’esigenza di offrire delle letture testuali su tematiche di genere, a complemento dei percorsi letterari, inizialmente previsti, più analiticamente centrati sul rapporto tra autrici/creazione artistica e femminismi.

Il volume si conclude con una significativa apertura alle questioni di genere affidata a sei scrittori, scelti sulla base della diversità di sesso, età, provenienza, formazione, e di poetiche, che abbiamo voluto sollecitare nella triplice veste di autori, lettori e di soggetti (in)direttamente coinvolti nelle politiche editoriali. C’è sembrato interessante conoscere il punto di vista di chi i libri li scrive attraverso delle interrogazioni d’ordine generale tese a misurare la loro sensibilità su considerazioni inerenti al genere, alternate a altre domande più pragmaticamente orientate a conoscere i loro posizionamenti sul rapporto tra genere e creazione artistica.

Non abbiamo voluto risparmiare agli autori domande spinose, talvolta maliziosamente finalizzate a oltrepassare la semplice ammissione (o non ammissione) dell’esistenza del genere e a entrare nel merito dei paradossi del “femminile e maschile”; altre volte, calcando provocatoriamente la mano sulla polivalenza del genere, inteso come dispositivo legato alla creazione ma anche alla negoziazione del rapporto tra sessi in termini di ricezione, di politiche di marketing e di strategie editoriali.

Senza togliere ai lettori di queste interviste il piacere della scoperta, ci limiteremo a segnalare che in tutti gli autori è unanime l’allarmismo sui pericoli determinati dalle perniciose cristallizzazioni culturalistiche (considerate alibi per pregiudizi) o sui facili paternalismi psicologici e culturali dovuti alla tendenza d’uso di ricondurre la natura “femminile” al biologicamente determinato e normato.

 

Come si è più volte detto, nei progetti iniziali questo volume avrebbe dovuto essere più ampio, ma non si è mai avuta la presunzione di potere affrontare in maniera esaustiva il femminismo. Troppe le interrogazioni, troppe le teorie e poco lo spazio a disposizione.

A volume ultimato possiamo però dire di essere un po’ meno “stufe” e più ottimiste. Forse perché rassicurate nella convinzione che il femminismo, o meglio, i femminismi possano ancora federare nella diversità di opinioni, nella condivisione ma anche nella speranza. Nella speranza che si possa arrivare a distruggere le idealizzazioni senza ideali, i pensieri senza pensare, i discorsi sull’altra senza conoscenza dell’altra, ossia quelle perversioni di senso che ancora sussistono riguardo al femminismo e alle donne.

Fermo restando che non tutti i femminismi sono portatori di progresso né di aperture, come è spesso il caso di quelli più radicalmente nazionalistici e conservatori[5], possiamo solo augurarci che, in Italia[6], la diffusione e la presenza pubblica[7] sempre più capillare di femminismi progressisti, dalle tante forme e variabilità direzionali, oltre a rompere quel continuo e insidioso scivolare nell’antico ordine simbolico, continuino a offrire nuove risorse concettuali e politiche e a creare nuove dinamiche d’interlocuzione per il dialogo nazionale e transnazionale, che saranno sicuramente salutari anche per una migliore e più proficua comprensione dei nuovi (o meno) fenomeni letterari.

 

 

[1] A questo tipo di essenzialismo piatto non sfuggono neanche celebri e stimati cantautori (Gianna Nannini, Giorgio Gaber, Zucchero Fornaciari, Luciano Ligabue, ecc.). Sicuramente, la più conosciuta e emblematica delle canzoni che riflette questa tendenza italiana è Quello che le donne non dicono (1987) di Enrico Ruggeri.

[2] Secondo Raffaella Baccolini e Vita Fortunato, questa mancanza “ha provocato ritardi non solo nel processo di visibilità e di legittimazione della ricerca in campo femminista, ma anche gravi disfunzioni nella reta didattico-scientifica europea ed internazionale che le donne italiane hanno, in questi anni, cercato faticosamente d’intrecciare. Al pericolo più volte sottolineato da alcune donne che l’istituzionalizzazione degli studi femministi provoca inevitabilmente una perdita della loro radicalità, si può controbattere che la loro mancanza ha voluto dire in Italia un pericoloso ritardo da parte dell’accademia dei presupposti teorici della critica femminista”; Raffaella Baccolini e Vita Fortunato, “Metamorfosi e permanenze nella critica femminista”, in Baccolini, Raffaella, Fabi, M. Giulia, Fortunato, Vita, Monticelli, Rita (a cura di), Critiche femministe e teorie letterarie, Bologna, CLUEB, 1997, p. 15.

[3] Cfr. Fowler, Alastair, Kinds of Literature. An Introduction to the Theory of Genres ans Modes, Clarendon, Oxford, 1982.

[4] Gilbert, Sandra, Gubar, Susan, in The Madwoman in the Attic: The Woman Writer and the Nineteenth-Century Literary Imagination, New Haven, Yale UP, 1979, p. 17.

[5] Sugli effetti devastanti del femminismo nazionalista e conservatore potremmo citare l’esempio italianissimo relativo all’indisponente recupero realizzato da certune esponenti della destra italiana (per esempio Daniela Santanché), esperte in concettuali manipolazioni dei diritti delle donne finalizzate a cristallizzare differenze gerarchiche su base etnico/sessuata.

[6] Così come emerge da alcuni contributi, il femminismo in questi ultimi tempi, anche in Italia, sembra aver conquistato una nuova visibilità e così come si evince anche dal moltiplicarsi di archivi, di centri e di associazioni culturali, di libri e di gionali culturalmente orientati a favorire le politiche di genere.

[7] Il riferimento è al proliferare, in quest’ultimo decennio, di manifestazioni e incontri, tra i quali ricordiamo la costituzione nel 2011 di Se Non Ora Quando (SNOQ), l’incontro femminista di Paestum dei primi di ottobre 2012 o quello di aria femminista transnazionale tenutosi a Firenze nel novembre 2012.

Criteri esterni per una poetica non conforme

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di Daniele Ventre

1. Ogni oggetto estetico costituito da materiale non linguistico, quale che sia il segno o la forma che lo costituisca, per quanto sia esteticamente legittimo, non è classificabile come poesia. Questo ci permette di fare economia. O se si vuole, ci permette di fare giustizia di ogni fenomeno che si proclami puramente installativo – o sempre se si vuole, del momento installativo come tale.

2. Qualunque cosa si voglia o si possa argomentare al riguardo, l’incomunicabilità o la non assertività sono una pura leggenda. Ogni frammento di materiale linguistico, per quanto residuale, è portatore di significazione. Ogni forma di significazione implica un coefficiente di assertività. A livello sistemico: non esistono piccole narrazioni, né l’assenza di narrazioni, soltanto narrazioni -per forza di cose- logicamente incomplete.

3. Il grado zero della scrittura o l’azzeramento retorico sono illusori: ogni frammento di materiale segnico, per quanto residuale o (illusoriamente) depotenziato, implica un tessuto metaforico, dunque è per definizione un costrutto retorico. Lo stesso vale per il problema del ritmo. Ogni materiale linguistico, in quanto fonabile, soggiace a fenomeni prosodici, che determinano un ritmo. L’atonalismo è una pura leggenda, o un equivoco.

4. Non esiste una via regia dei costrutti retorici, o in altre parole, tutte le forme retoriche sono equipollenti; a far prevalere l’una o l’altra è solo la prossimità a un centro di potere, piccolo o grande che sia.

5. La prossimità a un centro di potere non rappresenta di per sé stessa un criterio di validazione estetica, ma solo un indizio di conformismo letterario; il perché è auto-evidente.

5.1. L’unico criterio di validazione estetica è fornito dal perseguimento coerente, e tecnicamente strutturato, di un lavoro sullo stile che non si esaurisca solo e soltanto nel virtuosismo critico auto-proclamato (e dunque auto-riferito) della ricerca per la ricerca.

5.2. In modo strisciante o palese, sia che si manifesti come silenzio o come insulto, il conformismo letterario è implicitamente violento, dunque illegittimo.

6. Nel tempo dell’editoria spazzatura, c’è il serio rischio che le poetiche dell’incomunicabile e del non assertivo, come poetiche del mutismo, si rivelino a conti fatti ideologiche.

7. A ben vedere l’equivalenza fra petrarchismo e conformismo letterario è impropria e fuorviante.

Da “Atlante”

2

di Ivan Schiavone

Tavola n. 09

che il patto di sicurezza prevalga sul patto di stabilità —
questa sarà la decostruzione dell’Unione Europea — signore e signori parlamentari
i volti dei morti, dei feriti, delle famiglie in lutto non mi danno tregua —
qual è stato il loro unico crimine? — questa guerra che è cominciata da diversi anni —
perché siamo legati alla libertà e all’influenza della Francia nel mondo —
ieri sera ho dato l’ordine
a dieci cacciabombardieri francesi
di sganciare le loro bombe sulla roccaforte dell’Isis a Raqqa —
i barbari che l’attaccano vorrebbero sfigurarla? —
coloro che hanno voluto uccidere colpendo deliberatamente persone innocenti
sono vigliacchi che hanno sparato su una folla disarmata
ed è per questo che non siamo impegnati in una guerra di civiltà
perché questi assassini non ne rappresentano alcuna —
quelli che ci hanno sfidato sono da sempre i perdenti della storia —
dobbiamo dunque difenderci nell’emergenza e a lungo termine — ma dobbiamo andare oltre l’emergenza
dobbiamo poter impedire a una persona con doppio passaporto di tornare sul nostro territorio —
dobbiamo poter espellere rapidamente gli stranieri — dobbiamo essere spietati —
noi dobbiamo combattere —
oggi bisogna colpire più forte — continueremo a colpire nelle prossime settimane —
non ci sarà in questa azione né sosta né tregua —
l’Europa non può vivere con l’idea che le crisi che la circondano non abbiano effetto su di lei —
perché il nemico non è un nemico della Francia
è un nemico dell’Europa — non è quindi per contenere
ma per distruggere — così che si possa vivere
e che i nostri figli, i nostri nipoti possano continuare ad avere il mondo che hanno ereditato —
voi siete i rappresentanti di un popolo libero che è invincibile quando è unito e compatto —
la Francia è in guerra —
viva la Francia

La tesa fune rossa dell’amore. Madri e figlie nella poesia femminile contemporanea di lingua inglese.

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Pochi mesi fa presso l’editore La vita felice è uscito questo bel progetto antologico, a cura di Loredana Magazzeni, Fiorenza Mormile, Brenda Porster, Anna Maria Robustelli. Il libro raccoglie un’ampia scelta di poesie di lingua inglese, dove nella voce delle poetesse le due figure di madre e figlia si mescolano e si confondono, si denunciano, si ritrovano e perfino si perdono l’una nell’altra, articolandosi in tre macrosezioni che hanno a che fare con il vincolo affettivo, il recupero della memoria, le eredità (Mariasole Ariot e Francesca Matteoni).

Ho selezionato Scelta di Imtiaz Dharker e Donna che pattina di Margaret Atwood, perché sono fra le poesie antologizzate che più richiamano un mio vissuto personale – il legame intensissimo, ma anche pieno di  confronti aspri con mia madre, che più invecchio e più si risolve nello scoprirmi una nuova lei, nei tratti fisici, nelle rigidità, nei desideri. E poi l’immagine antica della pattinatrice (sebbene nel mio caso lontana dal gelo nordico e su rotelle invece che sulle ben più evocative lame), una me che sono stata per moltissimi anni e di cui ora sono a mia volta quasi madre. In entrambe le poesie il senso di protezione di una madre verso la figlia prende la misura della distanza, dell’accettare che la figlia sia colei che sfugge necessariamente al controllo materno, che conosce la sua solitudine perfetta di donna indipendente, che è infine capace di accogliere quella madre come il più prezioso dei vari io nel suo corpo. (Francesca Matteoni)

La mia prima scelta è per Poem di Lucille Clifton : una poesia breve,  dura come dura sono le ossa sepolte nell’oceano, come le ossa che  si ripetono diventando un braccio ossuto del canto tradizionale che la precede, dove quel “terribile che risponde” del verso finale mostra una disperazione che mi sento di conoscere, come se anch’io, in una zona separata, fossi laggiù, saltata in mare, o forse gettata da sempre.
La seconda, di Paula Meehan, per quei “eyes seapools, reflecting lichen”, per gli occhi azzurri di mia madre, per la sua lingua che ho sempre faticato a capire (o per la mia, incomprensibile a lei) – e poi i secondi occhi,”ferite spalancate”, come vedo i miei quando mi fermo e aspetto che si formi un’autobiografia a cui manca il “sentiero stellato”. E per questo continuo, reale mescolarsi da madre a figlia, di figlia in madre. (Mariasole Ariot)


Choice
Imtiaz Dharker

I

I may raise my child in this man’s house
or that man’s love,
warm her on this one’s smile, wean
her to that one’s wit,
praise or blame at a chosen moment,
in a considered way, say
yes or no, true, false, tomorrow
not today...
Finally, who will she be
when the choices are made,
when the choosers are dead,
and of the men I love, the teeth are left
chattering with me underground?
Just the sum of me
and this or that
other?
Who can she be but, helplessly,
herself?

II

Some day your head won’t find my lap
so easily. Trust is a habit you’ll soon break.
Once, stroking a kitten’s head
through a haze of fur, I was afraid
of my own hand big and strong and quivering
with the urge to crush.
Here, in the neck’s strong curve, the cradling arm,
love leers close to violence.
Your head too fragile, child,
under a mist of hair.
Home is this space in my lap, till the body reforms,
tissues stretch, flesh turns firm.
Your kitten-bones will harden,
grow away from me, till you and I are sure
we are both safe.

III

I spent years hiding from your face,
the weight of your arms, warmth
of your breath. Through feverish nights,
dreaming of you, the watchdogs of virtue
and obedience crouched on my chest. “Shake
them off” I told myself, and did. Wallowed
in small perversities, celebrated as they came
of age, matured to sins.
I call this freedom now,
watch the word cavort luxuriously, strut
my independence across whole continents
of sheets. But turning from the grasp
of arms, the rasp of breath,
to look through darkened windows at the night,
Mother, I find you staring back at me.
When did my body agree
to wear your face?

Scelta
traduzione di Brenda Porster

I

Potrei crescere mia figlia nella casa di quest’uomo
o nell’amore di quell’altro,
riscaldarla al sorriso di questo, svezzarla
con l’ingegno di quello,
lodare o rimproverare in un momento scelto,
in modo ponderato, dire
sì o no, vero, falso, domani
non oggi...
Alla fine, chi sarà lei
quando le scelte sono fatte,
quando chi sceglie sarà morto,
e degli uomini che amo rimangono i denti
a chiacchierare con me sottoterra?
Solo la somma di me
e di questo o di quell’
altro?
Che altro può essere se non, senza difese,
se stessa?

II

Un giorno la tua testa non troverà il mio grembo
così facilmente. La fiducia è un’abitudine che lascerai presto.
Una volta, carezzando la testa di un gattino
dentro una bruma di peluria, avevo paura
della mia stessa mano, grande e forte e tremante
dal desiderio di schiacciare.
Qui, nella forte curva del collo, nel braccio che culla,
l’amore sbircia vicino alla violenza.
La tua testa troppo fragile, bambina,
sotto una nebbia di capelli.
Casa è questo spazio sul mio grembo, fin quando il corpo si riforma,
i tessuti si stirano, la carne si fa soda.
Le tue ossa di gattino diventeranno dure, crescendo
si allontaneranno da me, finché non saremo sicure entrambe
di essere in salvo.

III

Per anni mi sono nascosta dal tuo volto,
dal peso delle tue braccia, dal calore
del tuo respiro. Attraverso notti febbrili,
sognandoti, i cani da guardia della virtù
e dell’obbedienza mi si acquattarono sul petto.
“Liberati di loro” mi dissi e così feci. Sguazzavo
in piccole perversità, festeggiai quando raggiunsero
la maturità, cresciute in peccati.
La chiamo libertà ora,
guardo la parola che se la spassa sontuosamente, sfoggio
la mia indipendenza tra continenti interi
di lenzuola. Ma voltando le spalle alla stretta
delle braccia e allo stridore del respiro
per guardare la notte attraverso vetri scuri,
madre, trovo il tuo sguardo che risponde al mio.
Quand’è che il mio corpo ha accettato
di portare il tuo volto?

***
Woman Skating
Margaret Atwood

A lake sunken among
cedar and black spruce hills;
late afternoon.

On the ice a woman skating,
jacket sudden
red against the white,

concentrating on moving
in perfect circles.

(actually she is my mother, she is
over at the outdoor skating rink
near the cemetery. On three sides
of her there are streets of brown
brick houses; cars go by; on the
fourth side is the park building.
The snow banked around the rink
is grey with soot. She never skates
here. She’s wearing a sweater and
faded maroon earmuffs, she has
taken off her gloves)

Now near the horizon
the enlarged pink sun swings down.
Soon it will be zero.

With arms wide the skater
turns, leaving her breath like a diver’s
trail of bubbles.

Seeing the ice
as what it is, water:

seeing the months
as they are, the years
in sequence occurring
underfoot, watching
the miniature human
figure balanced on steel
needles (those compasses
floated in saucers) on time
sustained, above
time circling: miracle

Over all I place
a glass bell

Donna che pattina
traduzione di Fiorenza Mormile

Un lago affondato
tra colline di cedri e abeti neri;
tardo pomeriggio.

Sul ghiaccio una donna che pattina,
giubbotto improvviso
rosso sul bianco,

si concentra nel muoversi
in cerchi perfetti.

(in realtà è mia madre, sta
all’aperto sulla pista di pattinaggio
vicino al cimitero. Su tre lati
ci sono strade di case in mattoni
marroni; automobili passano; sul
quarto lato c’è l’edificio del parco.
La neve ammucchiata intorno alla pista
è grigia di fuliggine. Non pattina mai
qui. Indossa un maglione e
uno sbiadito paraorecchie rosso scuro,
si è levata i guanti)

Ora vicino all’orizzonte
il sole rosa ingrandito ruota in giù.
Presto sarà zero.

A braccia aperte, la pattinatrice
volteggia, rilasciando il respiro come la scia
di bolle di un tuffatore.

Vedere il ghiaccio
per quel che è, acqua:

vedere i mesi
come sono, gli anni
in sequenza presentarsi
sotto i piedi, osservare
la figura umana in miniatura
in equilibrio su aghi
d’acciaio (quelle bussole
galleggianti sui piattini) su un tempo
prolungato, oltre
il tempo che ruota: miracolo

Sopra a tutto metto
una campana di vetro

***
Poem
Lucille Clifton

                          them bones
                          them bones will
                          rise again
                          them bones
                          them bones will
                          walk again
                          them bones
                          them bones will
                          talk again
                          now hear
                          the word of the Lord.

                           Traditional

atlantic is a sea of bones.
my bones.
my elegant afrikans
connecting whydah and new york,
a bridge of ivory.
seabed they call it.
in its arms my early mothers sleep.
some women leapt with their babies in their arms.
some women wept and threw the babies in.
maternal armies pace the atlantic floor.
i call my name into the roar of surf
and something awful answers.

Poesia 
traduzione di Loredana Magazzeni

                               le ossa
                               le ossa risorgeranno
                               ancora
                               le ossa
                               le ossa cammineranno
                               di nuovo
                               le ossa
                               le ossa parleranno
                               di nuovo
                               ora ascolta
                               la parola del Signore.

                           Canto tradizionale

l’atlantico è un oceano di ossa
le mie ossa.
i miei eleganti africani
collegavano whydah e new york,
un ponte d’avorio.
lo chiamano fondo del mare
nelle sue braccia riposano le mie antenate
alcune vi saltarono coi bambini in braccio
alcune vi versarono lacrime e vi gettarono i loro figli.
eserciti di madri percorrono il fondo dell’atlantico.
io chiamo il mio nome fra il ruggito dei frangenti
e qualcosa di terribile risponde.

* Il regno di Whydah, situato sulle coste occidentali
dell’Africa, nelle vicinanze dell’attuale Stato del Benin, 
con capitale Savi, fu dalla seconda metà del Seicento uno 
dei maggiori centri attivi nel commer­cio degli schiavi. (NdT)

Autobiography 
di Paula Meehan

She stalks me through the yellow flags.
If I look over my shoulder I will catch her
Striding proud, a spear in her hand.
I have such a desperate need of her –
Though her courage springs
From innocence or ignorance. I could lie with her
In the shade of the poplars, curled
To a foetal dream on her lap, suck
From her milk of fire to enable me fly.
Her face is my own face unblemished;
Her eyes seapools, reflecting lichen,
Thundercloud; her pelt like watered silk
Is golden. She guides me to healing herbs
At meadow edges. She does not speak
In any tongue I recognize.
She is mother to me, young
Enough to be my daughter.
The other one waits in gloomy hedges.
She pounces at night. She knows I have no choice.
She says: «I’m your future.
Look on my neck, like a chicken’s
Too old for the pot; my skin moults

In papery flakes. Hear it rustle?
My eyes are the gaping wounds
Of newly opened graves. Don’t turn
Your nose up at me, madam.
You may have need of me yet.
I am your ticket underground». And yes
She has been suckled at my own breast.
I breathed deep of the stench of her self –
The stink of railway station urinals,
Of closing-time vomit, of soup lines
And charity shops. She speaks
In a human voice and I understand.
I am mother to her, young
Enough to be her daughter.
I stand in a hayfield – midday, midsummer,
My birthday. From one breast
Flows the Milky Way, the starry path,
A sluggish trickle of pus from the other.
When I fly off I’ll glance back
Once, to see my husk sink into the grasses.
Cranesbill and loosestrife will shed
Seeds over it like a blessing.

Autobiografia
traduzione di Anna Maria Robustelli

Mi tallona attraverso le bandiere gialle.
Se mi guardo alle spalle la sorprendo
che cammina fiera, una lancia in mano.
Ho un bisogno così disperato di lei –
sebbene il suo coraggio spunti
dall’innocenza o dall’ignoranza. Potrei sdraiarmi con lei
all’ombra dei pioppi, rannicchiata
in un sogno fetale sul suo grembo, succhiare
dal latte di fuoco perché io possa volare.
Il suo viso è il mio viso senza macchie;
i suoi occhi pozze di mare, che riflettono licheni,
nubi minacciose; la sua pelle come seta cangiante
è dorata. Mi guida verso le erbe salutari
ai bordi dei prati. Non parla
alcuna lingua che possa riconoscere.
Mi è madre, giovane
abbastanza da essere mia figlia.
L’altra aspetta nelle siepi cupe.
Spicca un balzo di notte. Sa che non ho scelta.
Dice: «Sono il tuo futuro.
Guardami il collo, come quello di una gallina
troppo vecchia per la pentola; la mia pelle fa la muta
in scaglie di carta. La senti frusciare?
I miei occhi sono le ferite spalancate
di tombe appena aperte. Non storcere
il naso per me, signorina.
Potresti ancora aver bisogno di me.
Sono il biglietto per il sottosuolo». E sì,
lei è stata allattata al mio seno.
Ho inalato profondamente il tanfo di lei –
la puzza degli orinatoi delle stazioni,
del vomito dell’ora di chiusura dei pub, delle code
[per la minestra
e delle vendite di carità. Parla
con una voce umana e io capisco.
Le sono madre, giovane
abbastanza da essere sua figlia.
Sto in piedi in un campo di fieno – è mezzogiorno,
[metà estate,
il giorno del mio compleanno. Da un seno
fluisce la Via Lattea, il sentiero stellato,
un lento filo di pus dall’altro.
Quando volerò via guarderò all’indietro
una volta, per vedere il mio guscio affondare nell’erba.
Gerani selvatici e mazze d’oro vi spargeranno
semi come una benedizione.

* Bandiere gialle: Allusione alla bandiera storica dell’Ulster: su 
uno sfondo giallo campeggia una croce rossa con al centro una 
mano, sim­bolo araldico riferito alla conquista normanna. Servì di modello base 
all’Union Flag irlandese usata con valore legale dal 1953 al 1972. 
Dal 1972 il Governo britannico ha conferito valore politico legale
 solo all’Union Jack, ma la “Red Hand Flag” viene usata come
 bandiera provinciale, e nelle competizioni sportive. (NdT) 

 

Due estratti da Fabio Greco, «Genti a cartapesta»

2

mare

 

(A seguire pubblico due estratti da Genti a cartapesta, di Fabio Greco. Il romanzo è stato finalista al Premio Calvino 2014 ed è ancora inedito)

***

PRIMO ESTRATTO

E anzi, girando lo sguardo verso l’orizzonte, verso quel confondersi di mare a cielo e cielo a mare, verso i gabbiani che volteggiavano eleganti, gli parve che dall’isola, anziché la malasorte, gli arrivasse in quel momento una buonasorte anzi una buonissima sorte camuffata da donna, un donnone salentino, donnone inteso per altezza e larghezza, un’erculona tanta, boterosa, con spalle larghe, larghi i fianchi, larghissime cosce e petto assai, che s’appressò alla costa da dietro all’isola delle Pazze. Masello la vide sbucare al remo d’una barchettina mezz’affondata con la linea di galleggiamento a livello sponda, un’eccezione a qualsiasi legge fisica, che c’era da chiedersi come potesse quella barchetta di legno, esile e fradicia, sostenere tutta quella massa senza sprofondare, come potesse non incamerare acqua a ogni beccheggio, a ogni ondata, a ogni movimento di braccio e di spinta di remo, pericolosamente s’inclinava pelo pelo all’acqua, s’inchinava al mare e all’onda e subitamente si rialzava, ripigliava contegno per poi prostrarsi dall’altro lato e ripigliare posizione una volta ancora, a farci venire in mente a Masello quei pupi da prendere a pugni che ritrovano sempre l’equilibrio. Da lontano pareva sissignore una balena, non a modo di dire grossa come una balena, cicciona come una balena, grassa come una balena, proprio una balena vera, pareva un dorso di balena che faceva il paio con quel dorso di balena ch’era l’isola delle Pazze, forse un po’ più piccola, un’infante di balena al seguito della balena madre, e la cingeva torno torno, le faceva il giro e il rigiro in cerca della mammella, la barchetta navigava come un vaporetto trascinata dal ritmo della remata, tagliò quel latte ch’era diventato il mare, intra un’unica linea di nero, la barca avanzava a sobbalzi e sovvertimenti, emergeva la prua con quel suo nome pittato, Mariabbondanza, si sganciava dall’acqua e ricadeva, pareva fosse la barchetta a farci tutta la fatica, a sbuffare e crocchiare intra a quel cambio di fase tra acqua e aria, a darsi la spinta e lo sforzo per sfuggire all’onda: Masello se l’osservò quella barca e quella donna, a mezza voce mormorò, Ma che ci starà a pescare la Mariabbondanza? senza sapere che nominando la barca diede pure nome alla donna – se ne stava sopra alla barchetta con le anche aperte per tenere l’equilibrio e, a ripetizione, come pigliata da un astio contro l’acqua marina, gettava le reti e le ritirava a bordo. A Masello, quel nome gli faceva una tavolozza di colori intra alla capo, un quadro a meraviglia si faceva, se l’azzuccherava a destra e a manca, s’accavallavano pensieri che partivano dal suono che faceva quel nome, quasi sentiva una musichetta a pronunciarlo, a scivolare su quella legatura tra nome e opulenza, Mariabbondanza, che pigliava la rincorsa all’inizio della parola e poi si lasciava trasportare fino alla fine, come fare un salto e ricadere, a una a una unì altre parolette per assonanza, Mariabbondanza/ ci chiudemmo intra alla stanza/ ti spogliai con crianza/ tutta culo tetta e panza/ tu m’attizzi Mariabbondanza e sebbene ancora non la conoscesse di persona, già gli faceva il rimbambimento d’innamorato, una con quel nome, che da sola se ne andava per mare, che donna era questa donna, a sé stessa bastante, la Mariabbondanza? Gli era talmente familiare e reale e presente intra a se stesso che si convinse fosse, non già uguale, ma molto simile a una statua di madonna che aveva fatto l’anno prima, quasi che n’avesse fatta prima la statua e poi la persona, quasi l’avesse immaginata prima ancora d’incontrarla.

Una normalissima questione privata
cui s’era ritrovato ad assistere
manco ci stesse spiando dal buco della serratura,
un gesto, per dirla, che quasi lo fece crollare al suolo

Intra a tutta quella vastità che voleva essere, tutta quell’acqua, quell’apertura, Masello c’ebbe l’impressione a un impicciolimento di tutto, un restringimento come intra a un catino, il mare rimaneva sullo sfondo e invece la Mariabbondanza s’ingigantiva al confronto: Masello non riusciva a scorgerne il volto, ne sentiva solo lo sforzo intra a quella remata, faceva tale e tanto movimento che le onde s’irradiavano dalla barca trascinando quel biancheggio di medusa intra al saliscendi d’acqua e di schiuma. Il nome di Mariabbondanza sulla fiancata, d’un chiaro simile al pallido di mare, risultava più evidente intra al contrasto con il nero pece dello scafo. La barca aveva percorso un centinaio di metri ed era quasi scomparsa alla vista, dietro uno spuntone di roccia che apriva a un’insenatura più avanti, un piccolo porto che prendeva il nome di Posto Rosso. Prima di raggiungere la costa, che ci bastava quasi tirare la fune per essere portata a secca, disegnò un occhiello intra a mare, girò lentamente su se stessa e rimise la prua verso il largo per poi fermarsi dopo pochi minuti. Pareva che la barchettuzza c’avesse fatto tutta la manovra per assistere a uno spettacolo, che dopo essersi pigliata popcorn e limonata c’avesse messo i piedi distesi sopra a un puff. Ancora più strambo gli arrisultò quello che fece la Mariabbondanza, la femmina e donna. Si levò, per dirla, in piedi sopra alla barca, quasi maremotando il mare intorno, intra a un gran sollevarsi d’onde e di schiume, si sistemò a prua, sollevò la veste fino alle cosce e s’assittò pizzo pizzo alla paratia della barca, con il culo strabordante fuori bordo e la gonna a calare lungo la fiancata, che anziché Mariabbondanza, ora si leggeva Mari e danza, a dire danza di mari, un balletto che ci facevano le acque, acque sopra e acque sotta, con la spumarola a movimentare la barca o viceversa la barca a provocare la marea, intra all’impresa di non affondare lei e lei, Mariabbondanza e Mariabbondanza: che ci starà a fare quella benedetta donna, dopo essersene andata mare mare, ora decide di piantarci le tende, la Mariabbondanza Rimase tutto fermo intra a quella maniera per alcuni minuti, la barcuzza in obliquo a rischio di catapultarsi e la donna assittata con la faccia rivolta all’isola e il culo all’acqua. Masello camminò lungo un sentiero inghiaiato tra rocce e arbusti di mare, tenendo un occhio al terreno per non capitombolare e un occhio sopra a quel mistero di donna e di barca. La Mariabbondanza si rimise in piedi, s’allisciò la gonna lungo i fianchi e rimase a rimirarsi il mare da quel lato. Masello s’accorse allora che una parte della scritta Mariabbondanza s’era passata da bianca candida a giallastra, intra a una macchia che partiva dall’alto e finiva intra all’acqua: eccolo lì il grande misterio glorioso, misterio naturale e normalissimo, una pisciatina a mare aperto della Mariabbondanza, acqua intra acqua, a sbeffeggiarlo lo Ionio ammedusato, una normalissima questione privata cui s’era ritrovato ad assistere manco ci stesse spiando dal buco della serratura, un gesto, per dirla, che quasi lo fece crollare al suolo, giacché se l’era disegnato uguale sputato intra alla capo per tutta la vita, d’una donna sicura e fragile allo stesso tempo, capace d’andarsene da sola per mare e di trovarsi naturalissima col culo di fora accasciata sopra all’acqua, e quella donna siffatta, quella donna sarebbe stata per l’appunto la donna della sua vita. Gli parve pertanto, intra a quella intimità che gli aveva offerto, intra a quella sua raffigurazione precisa identica della statua della madonna, gli parve di conoscere quella donna da sempre pure che nella realtà l’avesse vista una volta sola e da lontano, che magari quello era per l’appunto amore – hiii che parole Masello! Amore…

***

SECONDO ESTRATTO

Vedete là?
Terri d’Otranto
Feline, Tugli e Parabìta
la città bella
kalè polis
e poi
Aquaricca e Alissano
Tre Case, Prisicci e Patù
Li vedete li fuochi
di Matino?
Non viene voglia d’esser lì?
Tra i cispi e le cirase
spampanando fiche
intra a un sol gesto
mangiarle
intra a un sol boccone,
intra alla vocca vorace
rotolarvi la verd’oliva
passarvela di là e di qua
come a un pinsiero lieve
ballare
cantare
dondoliare
cotolare i fianchi
‘mmenz’i campi fare all’ammore,
non vi manca tutto questo?
Vedete là
subra la tierra ficonda
c’assotterra li morti e rivivisce li vivi
ommini
sgubbare aggubbati
subra a pommi doradi
lucidarseli
subra a pantaloni terragni
mozzicarli
infrisellarli
ringraziari d’essere vivuti
e là
donne
figliare
mammane
nascìre
intra alla grazia di vita
patire
gioire
leggère pregare
vedete là
il faro
la torre campanara
l’orologio
la cattedrale,
casa nostra.
Mò venite con me
da st’altro lato
solo alto mare
noi simmo genti semplice
genti acqua e sale
mò ditemi:
che vedete a qua?
Acqua
acqua di mare
acqua e sale
a qua ci sta solo acqua
vastità
terribili, sinz’aria
e noi
noi simmo genti semplice
genti acqua e sale:
a qua sparimmo
simmo nenti a qua.
Mò di nuovo con me
una volta ancora
là, vedete?
Fiammelle sulla plaia
di là c’è qualcuno
le vedete le lanterne
e le fiaccol’alte
c’è qualcuno
c’è qualcuno!
Amiche
gridiamo insieme
Ehi di costa
Ehi!
Brave
ammenatevi
braccia all’aria
scapigliatevi
come pazze
gridate
con speranza
con ardore
Ehi di costa
siamo qui
da sta parte
da sta parte
matri mia
la speranza
come germe
come verme
come pianta
come seme
come creta
come terra
come prece
come perla
come spiro
come rivo
come strazio
come lodo
la covo
come ovo
intr’al tempio
intr’al tempo
la speranza
carni a sanguo

sanguo a carni

matri mia
matri mia
la speranza ho nel grembo
aspetto un figlio
aspetto un figlio
sarò
matri.
D’intra a una notte scurosa
addò no iantò gallo
addò no lucì luna
m’insognai
per ogni dove
niuro fumo
affumacato
soffocante
puzzoliente
come zurfo alla zurfara
come fumo di focara
per lo ‘nvierno
tra foco e fiamme
grandincendio
ferro ardente
e là dintra
là nascosto
intr’all’ombra, malombra
un diavolicchio
piccoletto
rachitello
un animalo
cogli occhi abbracciolati
i fiammelle sui capiddi
co’i pedi da cabrone
la coda
‘mmenz’ i gambe
m’agguardava
dalle nari
suspiroso
il respiro abbruciacchiato
li cornicchi
spunteolati
e che parole ci diciva
parìa un toro
e che cavuto ci faciva
uno squaglio
un bollore
una vampa
d’intra a me
fora a me
d’intra a me
fora a me
d’intra a me
fora a me
d’intra a me
fora a me
d’intra a me
fora a me
uno ‘nfierno
un solo attimo
poi scomparve
poi un gran friddo tutt’intorno
un gelo bianco
luminoso
come morte
come vita
un brivido
m’arrisvegliai così
da quel sogno insonnolato
indiavolata
sudacchiata
e ingravidata.
Che fanno?
Sinni vannu?
Farabutti
ehi
spittate
dove andate?
Amiche
non piangete
la speranza ci sostiene
là vedete
la tierra non è distante
è uno sfioro
una carizza
a natare ci s’arriva
Nisciuno sa natare?
Non sarà difficile
l’acqua è amica
io ci provo.
S’alza l’acqua
l’acqua è fridda
la notte è fridda
friddo è il core
chi ci viene?
chi mi segue?
Voi continuate a gridare
brave così
io chiamo aiuto
arriverò
verso costa
arriverò.
S’alza l’acqua
l’acqua è fridda
la notte è fridda
friddo è il core
i pedi sprufondano
nonn’è difficile
ce la fò
ancora tocco.
Pè sto figlio mio
pè sto figlio mio
pè sto figlio mio
la speranza
sarò matri.
S’alza l’acqua
l’acqua è fridda
la notte è fridda
friddo è il core
Ehi di costa
per di qua
da sta parte
verso st’isola
di pazze:
noi
isolate
impaurite
solitarie.
S’alza l’acqua
l’acqua è fridda
la notte è fridda
friddo è il core
accorrete
ch’i m’affoggo
sto sinz’aria
respir’acqua
acqua e sale
acqua di mare
s’alza l’acqua
l’acqua è fridda
la notte è fridda
friddo è il core
s’alza l’acqua
l’acqua è fridda
la notte è fridda
friddo è il core.
Matri
matri mia
‘maro mare
‘mara me
mirami:
mi moro.

 

(foto di Unsplash)

Farsa comica e farsa tragica. Una meditazione berlinese

9

di Marco Viscardi

Prime coordinate

Berlino, Repubblica Federale di Germania, Mitte: il primo distretto della città che, come suggerisce il nome, ne è anche il centro. Angolo fra la Zimmerstraße e la Friedrichstraße, Checkpoint Charlie: un cubicolo bianco che oggi è insignificante ma un tempo è stato uno dei pochi varchi consentiti fra mondi chiusi e incomunicabili. Mondi – l’Occidente e l’Oriente, la democrazia e il socialismo, la complicata geopolitica delle due Germanie – che ventisei anni dopo la caduta del muro ci paiono lontanissimi dalle nostre esperienze quotidiane, sbiaditi nella memoria.
Oggi il Checkpoint Charlie somiglia a un ultimo baraccone dimenticato, al residuo di un circo smembrato e dismesso. C’è il viavai dei turisti che hanno da poco visto la Porta di Brandeburgo (una delle più commoventi e astratte incarnazioni dell’idea prussiana di eleganza), ci sono manifesti cui è demandato il compito di spiegare e tramandare quanto è avvenuto, un museo del muro in cui comprare anche qualche pezzetto degli anni ’80. E l’immancabile McDonald che fa da sfondo al tutto. Ci sono poi due falsi comprimari, quasi due gladiatori della guerra fredda. Comparse vestite da soldati americani che si fanno fotografare accanto al turista cui impongono un copricapo nostalgico: e si può scegliere fra l’America reaganiana e l’USSR della Perestrojka, o magari la piccola DDR, la migliore DDR del mondo, come la definivano ironicamente i suoi grigissimi abitatori.
Il passante di buone letture che vede la scena pensa al vecchio Marx che commentava, scuotendo la testa, il colpo di stato liberticida di Napoleone II; ritorna, questo passante, all’incipit di quel micro-capolavoro che è Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte: «Hegel nota in un passo delle sue opere che tutti i grandi avvenimenti e i grandi personaggi della storia si presentano, per così dire, due volte. Ha dimenticato di aggiungere: la prima come tragedia, le seconda volta come farsa» (così nella traduzione – nientemeno – di Palmiro Togliatti). Guardando la casupola bianca del Checkpoint Charlie, sembra di leggere queste parole per la prima volta. Viviamo in tempi di farsa. Una farsa sempre in procinto di capovolgersi in tragedia.

Berlino, Museumsinsel, centro della città che non ha centro. Oltre il fiume c’è una cupola aperta, di cemento armato, su un edificio lungo ma tozzo, sempre di cemento armato. Struttura nuda e geometrica; cartesianamente bianca e vuota di contenuto, scostante rispetto alla dolcezza dei bei musei del lungo secolo prussiano. Su quell’isola-parco, gli Hohenzollern vollero dotare gli amati sudditi di un pratico abrégé di storia dell’architettura occidentale, raggruppando in pochi metri quadrati il classicismo inquieto e la solennità barocca, filtrati sempre da visioni romantiche e aspirazioni neomedievali. Di fronte alla solennità onirica dell’Altes Museum di Schinkel, questo ipertrofico rettangolo è uno degli edifici che meglio ci raccontano gli anni che stiamo vivendo.
Stiamo guardando l’antico Stadtschloss, il castello dei re di Prussia e degli Imperatori tedeschi, mentre rinasce dalle ceneri; il visitatore ne ha davanti lo scheletro, poi verranno le carni e la meraviglia delle finestre, delle dorature, dei risvolti, dei rilievi: tutte le decorazioni e la pomposità di una dinastia che ha gestito male la sua fortuna ma che non ha mai disdegnato grandeur e perentorietà delle forme: la verticalità categorica dei concetti e la maestosità delle facciate, canoni ossessivi di una estetica che ha ispirato tanto gli architetti della cattedrale di Colonia quanto i parrucchieri dell’ultimo Kaiser che sovraintesero alla cura dei suoi mitologici, mitopoietici, baffi a punta.
Il fantasma dello Stadtschloss prende di nuovo corpo e non lo fa in territorio neutro, cresce di giorno in giorno nel vuoto di una precedente grandezza, definitivamente sconfitta. È una storia appassionante: negli anni cinquanta, in una Berlino ancora ossessionata dalle proprie macerie, la residenza dei sovrani, semidistrutta, viene buttata a terra per fare spazio al trionfante sogno comunista, al Palast der Republik, finito nel 1976. Il cuore della neonata DDR, la sede del governo, del parlamento, del Partito, delle attività culturali di quel mondo irrimediabilmente scomparso. Solo un pezzo dell’antico Stadtschloss venne salvato: il bellissimo balcone da cui, nel 1918, Karl Liebknecht proclamò la repubblica e che oggi si può vedere incastonato in quello che fu lo Staatsratsgebäude, il consiglio di stato della DDR. Il Palast der Republik, dinosauro dell’architettura di regime, ha resistito per qualche anno al crollo del muro, ma poi è stato sommerso e distrutto – i lavori sono finiti nel 2006 – dalla normalizzazione che ne è seguita. La pacificazione dell’Europa post-sovietica ha portato alla decisione di abbattere il vero per riedificare il finto.
In quel vuoto ora si edifica un nuovo Stadtschloss dall’anima di cemento armato. La prima volta come tragedia e la seconda come farsa. Ci aveva preso il vecchio Marx, che era pure allievo di Hegel e sapeva che la prosa del mondo ha bisogno di coprirsi di nuove e fascinose mitologie, che il grigiore ha bisogno del fuoco di qualche utile retorica per persistere indisturbato e rassicurante; che le rivoluzioni borghesi – si perdoni l’anacronismo –, di fronte alla loro inadeguatezza, necessitano di “reminescenze storiche per farsi delle illusioni sul proprio contenuto” . Illusioni, grandi illusioni collettive, sui cui da poco è intervenuto, in pagine tanto ostinatamente lucide, Guido Mazzoni, con una riflessione sui nostri Destini generali che proprio da un viaggio berlinese ha preso l’avvio.
La nuova edificazione dell’antica residenza reale non ha molto da spartire con la rinascita dei monumenti a Dresda. Lì era stata la Storia a distruggere tutto, a polverizzare quella città dall’aspetto fiabesco e irreale. Dresda era un sogno tracciato sul cristallo, non poteva resistere. Ora è rinata esattamente come una Firenze del nord: una macchina fagocita-turisti, ma questa è un’altra storia. Berlino, per sua e nostra fortuna, non ha subito bombardamenti in questi miracolosi decenni di pace europea. Su Berlino, come su tutto il resto, si è solo alzata la nebbia. La mistificazione ideologica travestita da crollo delle ideologie è la dèa che presiede alla costruzione di questo nuovo, anacronistico castello.
Le prime pagine del 18 Brumaio di Luigi Bonaparte ci parlano dell’inadeguatezza dei regimi democratico-capitalisti di fronte alle grandezze passate, del loro bisogno di impossessarsi delle mitologie di tempi eroici per nascondere la mediocrazia dei tempi di privazioni. Lo spettrale palazzo dello Stadtschloss non è, o almeno non è solo, la celebrazione delle ambizioni imperiali della Germania – che in questi ultimi anni paiono pienamente realizzate – quanto una desolante pietra tombale sul diverso da noi. La materializzazione del silenzio che grava sulla storia dei vinti, la cancellazione dell’altro, dello straniero, di colui che ha una voce differente dalla nostra e per questo incresciosa, invisa, se si potesse usare questo aggettivo per una voce. La presenza dell’altro in questo caso prende l’aspetto della vecchia Germania socialista e della sua in gran parte deprecabile storia. Quella DDR che oggi sopravvive nella magia capitalistica del feticcio e che nell’arco dei decenni si è evoluta dalla vendita di reliquie e frammenti del passato alla più complessa strategia di marketing della Ostalgie; la ricerca di un clima, di una atmosfera in cui noi uomini della sonnacchiosa Europa post-ideologica possiamo per qualche ora vivere immersi in una stereotipata DDR risorta dalle rovine.
Se pure la contrapposizione fra capitalismo trionfante e comunismo sconfitto ci pare paradigmatica in questi anni del post-89, la storia dello Stadtschloss non è solo la storia della sconfitta del socialismo reale, è il monumento dell’annientamento del diverso, di quanto non si incasella nelle nostre categorie; dell’altro che non si lascia arrotondare dal nostro metro e dai nostri valori.

Intermezzo: suggerire la profondità

In una celebre poesia, Jacques Prévert ha raccontato la libertà della Senna, felice nel suo scorrere, accanto alle guglie accigliate e solenni di Notre-Dame; attorno a questo spettro di cemento armato scorre invece la Sprea, e lì si concede uno dei momenti più dolci del suo sinuoso percorso berlinese. Stefania Migliorati, giovane artista italiana che – come si dice – vive e opera a Berlino, trasforma il fiume in «strumento critico di investigazione urbana» come si legge nella presentazione del suo progetto Die undichte Stadt, la città permeabile, che è possibile vedere qui. Le cinque fotografie che fissano altrettanti punti differenti del lungofiume non si accontentano della bidimensionalità delle forme presentate ma si aprono ad inaspettate profondità. Sono paesaggi cittadini consueti, noti a chiunque abiti in quella città bella e povera, e tuttavia le didascalie che l’artista aggiunge – esiste un eroismo della didascalia – elencano i luoghi dove si prendono decisioni di tipo economico, politico e culturale, destinate a influenzare le vite di molti, in Germania e in Europa. Scoperchiare le case per guardarci dentro è uno dei gesti romanzeschi per antonomasia. Il Diavolo zoppo, protagonista dell’omonimo romanzo seicentesco (El diablo cojuelo [1641]) di Luis Vélez de Guevara – che tradotto in francese da Lesage nel 1707 invase le biblioteche di mezza Europa – l’aveva già fatto con le case di Madrid per mostrare alla vittima delle sue tentazioni quanto nascondono le finestre e le porte delle case rispettabili: la miserevole condizione della natura umana e la sua incostanza. Ma qui i tetti restano saldamente attaccati alle strutture, si tratta di intuire quanto avviene dentro, negli spazi segreti e a pochi accessibili. Le foto che ritraggono con raffinatezza e razionalità i profili della Undichte Stadt danno luogo a una piccola topografia del potere. La didascalia è un timido gesto che, come avveniva nelle antiche carte, avverte l’osservatore: «hic sunt leones».
Siamo passati insomma dalla cancellazione di un passato ingombrante (la farsa grottesca del Checkpoint Charlie e quella tragica dello Stadtschloss) a una giovane artista italiana che con le sue opere ci lascia intuire la presenza di una profondità dietro l’apparente uniformità del landscape urbano. Profondità è la parola chiave di questo ragionamento: è il contrario di superficiale ma è anche lo spazio delle voci dimenticate. La profondità delle differenti stratificazioni storiche viene negata, nel cuore d’Europa, dall’orizzonte piallato dell’ideologia dominante che, in quanto dominante, è sempre ideologia suadente e dissimulata, tanto trasparente da confondersi con le linee stesse del paesaggio: tanto trasparente da volerci convincere che è essa stessa natura e non scelta, opzione razionale, costrizione semi-obbligatoria.

Lo sguardo del Duca

«Il venticinque settembre milleduecentosessantacinque, sul far del giorno, il Duca d’Aube salì in cima al torrione del suo castello per considerare un momentino la situazione storica. La trovò poco chiara. Resti del passato alla rinfusa si trascinavano ancora qua e là. Sulle rive del vicino rivo erano accampati un Unno o due; poco distante un Gallo, forse Edueno, immergeva audacemente i piedi nella fresca corrente. Si disegnavano all’orizzonte le sagome sfatte di qualche diritto Romano, gran Saraceno, vecchio Franco, ignoto Vandalo. I Normanni bevevan calvadòs». Les fleurs bleues di Raymond Queneau, messe in italiano da Italo Calvino, iniziano con questo straordinario ammasso di illustri detriti che si accumulano nei feudi sterminati del signor Duca. Confusione cacofonica delle età dell’uomo in cui sembra culminare la grande tradizione del romanzo storico. Nel Novecento, la narrazione ottocentesca del romanzo storico si è suddivisa in molteplici rivi e rigagnoli. Nella linea che conta (Tomasi di Lampedusa, Yourcenar, Garcia Márquez) l’occhio attento del romanziere è sempre capace di uno sguardo verticale. A questa tradizione appartiene Wilfred G. Sebald: lo scrittore nomade e metafisico degli Anelli di Saturno, della Storia naturale della distruzione. Fra i suoi ultimi scritti, quello pubblicato in Italia come Le Alpi nel mare è un meraviglioso esempio di una scrittura che procede per estensioni, raccontando la Corsica in tre capitoli rispettivamente dedicati alle memorie napoleoniche di Ajaccio, a quelli che un tempo si sarebbero chiamati gli usi e i costumi e – infine – alla conformazione del territorio. Più che un filosofo della storia, Sebald sembrerebbe, come a suo tempo furono Manzoni e Walter Scott, un geologo della storia.
Mi è capitato di recente di partecipare a un convegno sull’epica nella modernità e lì ho avuto modo di fare qualche riflessione su Sebald che qui sintetizzo per chiudere il mio ragionamento. Austerlitz, il capolavoro postumo dello scrittore, è il punto di arrivo di questo saggio su un possibile uso virtuoso della storia. Austerlitz è un ipnotico viaggio nella memoria, dove la voce dell’individuo che cerca di ricostruire il mosaico di un passato sfuggente si allarga fino a coincidere con una dimensione epica. Un canto in prosa che assorbe e conserva le vicende degli altri in un racconto capace di narrare l’esistenza nel suo procedere instabile e serpentino (quanto conta ancora la tua lezione, reverendo Sterne!), nel suo continuo interrogarsi sulle proprie fondamenta. Austerlitz è il nome di una battaglia, ma le battaglie sono confuse e – dice Carlo Ginzburg – persino invisibili; è il nome di una stazione parigina, ma le stazioni sono luoghi di passo, dove domina il vuoto, il transitorio (nel romanzo però sono anche luoghi di spaesanti epifanie, come succede nell’archetipica stazione di Dublino, all’inizio di tutta la nostra vicenda romanzesca); Austerlitz, infine, è il nome di un uomo che ricostruisce la sua vicenda. Nella sua voce si sedimenta un secolo di storia europea, la sua identità è un viaggio a ritroso nei decenni sanguinosi di un’età di guerre e pacificazioni.
La voce isolata amplifica la propria inquietudine fino a raggiungere il destino di una collettività sterminata, più grande di una singola nazione. Il canto epico si distende, abbandona la verticalità numinosa del poema e accetta le strettoie della prosa, scava fra le collisioni dell’anima, indaga nelle molteplici sfumature del trauma.
In Austerlitz questa consapevolezza delle stratificazioni del passato che lascia tracce è un’immersione nei territori, sempre più profondi e opachi, della coscienza. La struttura monolitica del passato si sfalda nel procedere del racconto del protagonista, emergono crepe e incertezze. Il tempo non somiglia alle rocche studiate dal protagonista del libro: fortini a stella, sempre più complicati, cui gli ingegneri militari aggiungono in modo paranoide spuntoni su spuntoni, ma è una realtà viva e imprendibile, aperta al movimento e alla permeabilità.
Pochi anni prima di Austerlitz, nel suo romanzo cartografico, Mason & Dixon, Thomas Pynchon aveva scritto che la Storia non è semplice Cronologia (History is not Chronology): non una catena composta da singoli anelli (single Links) ma un «assai disordinato Garbuglio di linee, lunghe e brevi, deboli e salde, che vaniscono nella Profondità Mnemonica, avendo in comune solo la Destinazione». Sebald, a sua volta, rovescia la struttura del tempo europeo, passando dalla precisione mercantile degli orologi alla permeabilità quasi magica della temporalità interiore. Per Jacques Austerlitz, che non ha mai posseduto un orologio, la rivelazione finale è proprio la permeabilità del tempo: «A mio giudizio, disse Austerlitz, noi non comprendiamo le leggi che regolano il ritorno del passato, e tuttavia ho sempre più l’impressione che il tempo non esista affatto, ma esistano soltanto spazi differenti, incastrati gli uni negli altri, in base a una superiore stereometria, fra i quali i vivi e i morti possono entrare e uscire a seconda delle loro disposizioni d’animo e quanto più ci penso, tanto più mi sembra che noi, noi che siamo ancora in vita, assumiamo agli occhi dei morti l’aspetto di esseri irreali e visibili solo in particolari condizioni atmosferiche e di luce».
Il Novecento si è aperto con un racconto che aveva mostrato la presenza dei morti nella vita dei viventi, il Secolo breve si chiude ad anello con pagine che sembrano tornare all’originale dei Morti di Joyce, ma – si ricordi che epica crea con etica una perturbante coppia minima – stavolta la presenza delle ombre ci riporta a vicende più ampie, che hanno toccato moltitudini di uomini e donne. E non è un caso che questo libro sia stato scritto dopo il ritorno della guerra in Europa, mentre la parte orientale del continente tentava – e ancora tenta – di trovare e di inventare, fra le molteplici possibilità, un’identità a lei confacente. La memoria riallaccia la storia di Jacques Austerlitz alla storia del suo, e del nostro tempo; è il rivo, la particola minima, della dolorosa totalità di quanto è universalmente umano. Ha scritto Hans Magnus Enzensberger che il mondo è tenuto insieme solo da quanto non lo abita più, e che «senza gli assenti, nulla ci sarebbe / senza gli esiliati, nulla sarebbe saldo, / senza gli incommensurabili, nulla di commensurabile / gli scomparsi sono giusti / così anche noi, in un’eco»
Al cemento armato dello Stadtschloss si contrappongono gli ectoplasmi del passato: stratificazione è consapevolezza dei fantasmi. Disposizione a riconoscere e accogliere nel nostro campo visivo le tracce di storie invisibili e pure persistenti e in qualche modo vive attorno a noi. Non l’intellettualistica epifania del romanzo sperimentale, ma la dolorosa presenza degli scomparsi, la loro voce ostile ancora presente. Voci di vittime e di carnefici che si confondono nei paesaggi consueti, ma che sono ancora perfettamente distinguibili per l’uomo che volesse coglierli e in qualche modo conservarli. E non sono uguali, non hanno la stessa dignità, didascalicamente ripeto che non sono uguali, non si possono assommare i carnefici e le vittime ma, allo stesso tempo, non si possono eliminare i carnefici, perché le vittime perderebbero parte della loro verità storica per incarnare una dolenza dolce e morbosa, senza scandalo, senza contatto con la nostra realtà. Presenze e screziature che l’occhio preferisce non vedere, disarmonie per l’orecchio. Voci che si vorrebbero ridurre ai cerimoniali dei giorni della memoria che consentono poi trecento e sessantaquattro (o cinque se bisesto) giorni di dimenticanza. Disse Goethe da qualche parte che chi non vuole vivere alla giornata deve darsi conto di migliaia di anni di storia; ed è una dannazione perché vivere alla giornata è bellissimo e non possiamo concedercelo. Non possiamo se non vogliamo restare schiacciati dal cemento armato dell’anima di questo inutile castello che mentre scrivo e mentre voi leggete si costruisce a Berlino, capitale d’Europa.

Controfinale

Berlino, non lontanto dalla Ostbahnhof, il più grande club d’Europa, dove club non sta per elitario ritrovo per uomini silenziosi foderato di poltrone di pelle, ma per trionfo della musica elettronica. Berghain. Il nome fonde i due quartieri di Kreuzberg e di Friedrichshain, al cui confine sorge. Un tempo anche lì ci passava il muro, anche lì si opponevano i due mondi. Oggi moltitudini in fila, dal venerdì alla domenica. Nella città in cui per decenni la felicità è stata sperata oltre un muro, a Charlottenburg e non a Prenzlauer Berg, e la speranza prendeva la forma di una via d’accesso, di un varco, oggi la coda davanti al Berghain è l’ambizione di entrare fra gli eletti, passare il portone oltre il quale non si fanno fotografie. E naturalmente non ci sono criteri, decidono gli impiegati del club, decide Sven il capo dei selezionatori. Uomo che incarna lo spirito del nostro tempo come Napoleone a cavallo lo incarnò per Hegel, quando vide l’imperatore per le strade di Jena. Sven: uomo dell’ibridazione e della mescolanza delle razze e dei destini. Artista, fotografo, omosessuale, nato a Berlino est, Sven è oggi il padrone dei due mondi, l’uomo sul confine del desiderio e dell’appagamento, è il Minosse che giudica una folla venuta apposta fin lì per farsi giudicare, una folla disposta a disumanarsi, a diventare merce e profitto, pubblicità vivente per l’oscuro regno dei balocchi. Disumanarsi in merce per entrare, per superare il muro. Gente che fa guadagnare il Berghain molto di più stando in attesa sotto il gelo dell’inverno berlinese che pagando il biglietto e consumando il lecito e l’illecito al suo interno. Sven è l’estremo alunno di Lutero che certifica la nostra propensione al servo arbitrio, alla servitù volontaria. E forse fra qualche anno il Berghain andrà a Varsavia, e forse il prossimo decennio tutti conosceremo qualcuno che abita a Varsavia come abbiamo conosciuto qualcuno che era a Barcellona, qualcuno che ora è a Berlino. E ancora lì, fra le memorie del ghetto e di Solidarność, le file per entrare, e ancora le misteriose decisioni di Sven che determinano chi può e chi, davanti alla legge, è escluso.
La prima volta come tragedia, le altre come farsa.

Townscape (2)

0

I

1.1

Partendo da una grigia sera di Stoccolma
in cui ci si incontrò fra noi -per lo più immigrati nati a Roma
e a Milano -rimpatriata del dispatrio dei pensanti senza patria
-mi ricordo che non c’era poi granché da ricordare:
mi sembra si parlasse tutto il tempo a cena,
e poi in albergo del non essere in un certo modo
piuttosto che in un altro o in altri ancora che non so
nemmeno immaginare nel dominio dell’alterità.
Ma poi se pure me li immaginassi, resterei di base sul chi vive,
perché non li conosco, gli assertori, e dunque mi persuaderei
della necessità di non considerarli, benché forse infine
potrebbero anche dirmi qualche cosa. Ma non mi interessa
e non ci interessava in quella grigia sera di Stoccolma,
che stranamente poi non nevicava molto -anzi per niente,
ma freddo sì ce n’era -un freddo cane che abbaiava muto
fra i palazzi ben disposti e la socialdemocrazia ordinata
che qui da noi ce la sogniamo. Eppure fra di noi
quel continuare a non parlare d’altro che di niente
funzionava, in quella grigia sera di Stoccolma
che il cielo non aveva più il coraggio di gettare neve
su un’algida materia di esistenti infreddoliti.
Ma dopo tutto si cercava di parlare di qualcosa,
in quel parlare di nient’altro che di niente -il paradosso
del buscar el levante por el poniente, salvo il piccolo dettaglio
che noi non si era né Colombo né Copernico, ma figli
dell’èra degradata dei contratti co.co.co
e co.co.pro. che non progetta e non produce
niente di definitivo, niente d’importante: solo
vacuità d’importazione, che ciascuno in ogni luogo
importa dappertutto, senza che a nessuno importi
che non si importa nulla di concreto -solo vacuità diffusa
che si intrattiene col reale, perché poi il reale
in realtà si fa reality -real-Italy della realtà in disuso
-e l’intrattenimento è assicurato “Ma cioè non posso mica
vederla sempre come dici tu ‘sta cosa!” Questo si diceva
fra noi in albergo e al ristorante in quella grigia sera
di Stoccolma che le idee del vuoto si passavano in rivista
con marcia militare e battere di tacchi senza suono.

1.2

“Tu affermi di non affermare nulla” “Affermo che qui il pane
è raffermo” “Lo confermi?” “Fermamente” “Fermi tutti” “E il vino?”
“Non siamo mica a fare qui la prima comunione” “Dico l’etichetta”
“Non sembra poi di marca” “Di cartina forse” “Tornasole?”
“Mica siamo al circolo polare: qui è Stoccolma: il tempo è grigio,
però non è faccenda di Lapponia e sole a mezzanotte e notte
di sei mesi: il sole torna” “E il vino?” “Di cartina: ma importato”
“Ma importa?” “Importa molto” “Sa di vuoto: è freddo” “Come tutto
il resto, dopo tutto” “Di principio” “Ci importasse più qualcosa”
“Di tutto” “Cosa importi-esporti?” “Tutto” “Expo?” “Non so: che vuoi
che esporti?” “Tutto” “E il vino?” “Di cantina? Già esportato”.
“Ma esporta?” “Esporta molto” “Sa di vuoto: è freddo” “Come tutto
il resto, innanzitutto” “In fin dei conti” “Si esportasse più qualcosa”.
“Però l’ipotesi che fingi…” “Hypotheses non fingo” “Ma chi credi
d’essere? Un inglese”? “Un fisico?” “Un lettore di universi
in lingua matematica?” “Lo spazio non è certo l’assoluto
che credi!” “E il tempo in fin dei conti…” “…Di principio”
“Ma se non siamo in questo modo stabilito certo siamo
in tutti gli altri modi che nessuno stabilisce” “L’establishment
è sempre stabilito” “Ma l’ipotesi…” “Non regge” “Ma la protesi”
“Dentaria?” “No, non regge” “Ma chi legge?” “Nemo”
“Il capitano, mio capitano?” No. Nessuno” “Ulisse?” “No:
nessuno, in nessun luogo: Nemo.” “Turpe et miserabile!”
“Amico, qui non parlano latino: in fondo siamo
in una grigia notte di Stoccolma” “Logico e proficuo
e profittevole e profiterole (che dolci pessimi stasera,
in questo ristorante di Stoccolma) è togliere ogni tratto
di affermazione e vedere se un’attività rileva…”
“Chi ti rileva quell’attività?” “La multinazionale
del vuoto”. “Che rileva quell’attività?” “La multi-irrazionale
del vuoto”. “Che rivela quell’attività?” “La multa irrazionale
dell’auto lungo il marciapiede vuoto” “Non ricordi? Siamo sempre
in una grigia sera di Stoccolma: qui i tutori sono sempre
vigili: non sono mica come il vigile incurioso del paese
sulla grande piazza vuota (ti ricordi?)” “Mi ricordo il prete
alla prima comunione: da mihi animas cetera
tolle”. “Mica siamo a fare qui la prima comunione?” “Dico
l’immagine” “L’immagine è rafferma” “E il vino?” “E il pane?”
“Di cartina”. “Di cartone”. “E il sarago servito per la cena?”
“Mutante: sa anche quello di cartone” “E tutto il resto?” “Cartapesta”.
“Ma che ti toglie tutto questo al tuo rapporto con il mondo?”
“Tu affermi?” “Tu raffermi?” “Ferma mente”. “E il firmamento?”
“Non ci sono stelle, amico, qui la sera è grigia: abbiamo solo
lampioni e nebbia e poca neve e strade sdrucciolevoli”

Pauli e la psiche #1

3

di Antonio Sparzani

La "torre" che Jung si costruì a Bollingen, sul lago di Zurigo
La “torre” che Jung si costruì a Bollingen, sul lago di Zurigo

Il 24 aprile 1948 fu creato – il progetto era cominciato prima della guerra, ma si dovette rimandarlo – a Küsnacht, sobborgo di Zurigo, il Carl Gustav Jung Institut, come fondazione dedicata alla ricerca e alla cura in psicoterapia, senza scopo di lucro. Ne fecero parte, come membri fondatori, oltre ovviamente allo stesso Jung (1875–1961), Carl Alfred Meier (che ne divenne il primo presidente), Kurt Binswanger, Jolande Jacobi-Székács e Liliane Frey-Rohn, tutti seguaci del tipo di analisi psicologica proposto e fortemente promosso da Jung. Questi formarono una specie di Consiglio direttivo dell’Institut, che si chiamò Curatorium.
D’altra parte Jung da una quindicina d’anni conosceva il grande fisico (v. ad es. qui) Wolfgang Pauli (1900–1958), che in un primo tempo (1932-34) aveva curato e col quale poi aveva mantenuto una straordinaria, e del tutto unica, corrispondenza tesa a cercare e costruire un vero ponte di comunicazione tra fisica e psicologia – loro dicevano, usando una parola inesistente in latino ma creata ad hoc, una “correspondentia” – e tale era la fiducia e la stima che ormai legava i due che Jung gli chiese di fungere da “patron” scientifico dell’Institut, con il compito di garantire che nella pratica analitica seguita al suo interno non si perdessero quei criteri di scientificità che Jung, dopo l’interazione con Pauli, riteneva ormai fondamentali.
Pauli dal canto suo aveva caldeggiato la fondazione dell’Institut, come si può leggere in una lettera del 23/XII/1947 a Jung,

Egregio professor Jung,
in risposta alla sua lettera del 9 dicembre, vorrei confermarLe per iscritto, ancora una volta, che accolgo con grande piacere la fondazione di un Istituto che ha lo scopo di coltivare e promuovere la direzione di ricerca da Lei inaugurata, e do il mio consenso a mettere il mio nome sulla lista dei fondatori. Il convergere delle Sue ricerche verso l’alchimia è per me un importante segno che lo sviluppo tende a una stretta fusione della psicologia con l’esperienza scientifica dei processi nel mondo dei corpi materiali. Probabilmente si tratta di un cammino piuttosto lungo, del quale noi esperiamo solo l’inizio e che sarà connesso con una costante critica relativizzatrice del concetto di spazio-tempo.

e volentieri accetta di diventarne ufficialmente il garante scientifico.
Passano alcuni anni, nel 1956 il presidente è ancora Meier, che si dimetterà dalla carica l’anno seguente. Ma Pauli è assai preoccupato: nell’Institut non si è abbastanza scientifici, dato anche che Jung, ormai ottantunenne, si sta ritirando dalla pratica professionale. Così Pauli prende carta e penna e scrive, in data 22/VII/1956:

Egregio signor presidente,
con grande preoccupazione sono venuto a conoscenza che in questi ultimi anni lo standard scientifico presente nei problemi e nell’attività riguardanti il Curatorium è stato sempre meno applicato.
Nella mia veste di garante scientifico dell’Institut, ritengo mio compito far valere il punto di vista delle scienze della natura, e sono quindi a richiedere ufficialmente a Lei, quale Presidente, alcuni chiarimenti.
Mi e ben noto che accanto all’aspetto scientifico della psicologia vi sia quello delle scienze dello spirito, ma non ritengo sia mio compito occuparmi di questo. E a questo proposito vorrei far osservare che mentre prima la psicologia veniva senz’altro annoverata tra le scienze dello spirito, è stato proprio C.G. Jung che ha sottolineato il carattere scientifico delle proprie idee e che proprio seguendo queste ha potuto costruire con i suoi lavori una contiguità tra la psicologia dell’inconscio e le teorie scientifiche. È mia opinione che questo passo in avanti sia ora messo in pericolo dal comportamento pratico della direzione del C.G. Jung Institut. Prendiamo per esempio la questione della valutazione dei risultati dell’attività didattica accademica del Presidente. Ho dovuto constatare con sorpresa che è stato seriamente preso in considerazione il criterio aritmetico-formale del numero di frequentanti, indipendentemente dalle richieste che il docente pone al frequentante. Un’idea così assurda richiede una urgente correzione, da qualsiasi fattore sia stata provocata. È infatti un’ovvietà per qualunque scienziato, o matematico, che l’unico criterio sensato per il successo di un’attività didattica sia il numero e la qualità degli studenti che di quell’attività hanno beneficiato. Le chiedo dunque anzitutto di informarmi su quali siano gli studenti in grado di utilizzare in maniera autonoma, praticamene o teoricamente, la psicologia appresa da Lei. (Non parlo qui degli analisti, dato che la loro formazione non proviene dal Suo corso). Sarebbe poi di particolare interesse sapere se tra questi ve ne siano alcuni che Lei raccomanderebbe per lavori scientifici che Lei non ha tempo di eseguire. Un’altra domanda riguarda il livello intellettuale generale della prassi psicoterapeutica. Qui sta il maggior pericolo, che essa si abbassi a una produzione in serie completamente ascientifica, che sia governata solo da un principio formale-aritmetico (a sfondo economico), nel quale – nel tempo a disposizione – si riesca a trattare (o “sbrigare”) col minimo dispendio di pensiero e il maggior numero possibile di pazienti. Prima si presentava ancora, per il terapeuta, la necessità di pensare, nel caso il paziente non facesse facilmente progressi. Cosa che oggi è scarsamente necessaria, dato che col metodo della produzione in serie il medico può ben permettersi di mandar via con decisione quei pazienti che minacciano di chiedere troppo al suo apparato pensante. Così, a causa della forte richiesta di medici, si instaura, al posto di una personalità individuale del medico, sempre più una sorta di coscienza di gruppo degli psicoterapeuti. Per quel che sono le mie esperienze (nella misura in cui ciò sia in linea di principio possibile con i terapeuti fuori dal loro gabinetto di studio) tutto questo si risolve in un atteggiamento egocentrico del medico nella “sua” – rispettivamente “nostra” – relazione con il paziente e nella sua (del medico) totale estraniazione dai normali e naturali prodotti dell’inconscio (sogni, fantasie, ecc.) che non si verificano nella “sua” relazione. Ma è proprio il loro studio scientifico che dovrebbe formare la base per la conoscenza dei disturbi nel normale svolgersi di questi fenomeni nelle neurosi e in altri diversi casi patologici. Trascurando completamente questa zona di normalità nell’uomo moderno (e non parlo qui di miti, fiabe, storia delle religioni o altro) il C.G. Jung Institut appoggia una progressiva completa eliminazione del carattere scientifico delle di idee di C.G. Jung in fatto di psicologia nella pratica psicoterapeutica reale, che dunque assume il carattere ascientifico di una produzione in serie. Pongo perciò ancora – con preghiera di chiarimenti in merito – il problema generale di quali misure l’Istituto C.G. Jung intenda prendere per combattere – almeno per ciò che attiene ai suoi membri – le aberrazioni e in generale gli abusi dell’odierna pratica analitica.

Da un lato queste righe mi sembrano stranamente moderne – anche nel campo analitico esiste il pericolo della “produzione in serie” – dall’altro mi sembrano testimoniare la forza con cui un fisico teorico di livello altissimo come Pauli sosteneva la possibilità di un modo “scientifico” di affrontare i problemi psicologici.
Il seguito di questa lettera alla prossima puntata.

Elogio cinematografico del suicidio

1

di Emanuele Canzaniello

 

Edipo a Nazareth (1981) – Werner Maria Schroeter

 

«L’arte è una vendetta contro la vita, non ho ancora trovato nulla che riesca a respingere quest’ipotesi nella mia testa», questo dichiarava Schroeter in un’intervista degli anni ’70. E la sua vendetta migliore è consumata oggi con l’uscita del suo Edipo.

Il posto di Tiresia ( leggendo il Tiresia di Giuliano Mesa)

4

di Giorgio Mascitelli

Romolo_e_Remo

Se, come è stato scritto ( da Paolo Zublena in Alfalibri n.5  supplemento ad Alfabeta2 n.13, ottobre 2011), Giuliano Mesa è stato l’ultimo dei modernisti, allora è molto probabile che il Tiresia sia il suo lavoro più ultimativamente moderno. Di questo poemetto è già stata sottolineata la centralità nel percorso poetico di Mesa, oserei dire anche di carattere cronologico, risalendo la sua composizione al biennio 2000/01 e dunque non solo agli albori del secolo nuovo secondo il calendario, ma anche alle soglie della caduta delle Due Torri nel quale avvenimento tramonta politicamente e simbolicamente una serie di ottimistiche premesse ideologiche della globalizzazione post guerra fredda.

Tiresia è in realtà una figura arcaica, l’indovino al tempo stesso uomo e donna, cieco e condannato a vedere e capire l’orrore del mondo, che viene evocato fin dall’esergo del poema (“ devi tenerti in vita, Tiresia/ è il tuo discapito”), ma nella mia ipotesi di lettura il Tiresia di Mesa è più in stretto rapporto con quello di The Waste Land che con la tradizione greca: in Euripide, infondo, Tiresia rappresenta la consapevolezza della persistenza delle forze ctonie del mito a fronte del delirio, solo apparentemente raziocinante, della ragione strumentale del potere. In Eliot, invece “benché semplice spettatore e ‘carattere’, è, tuttavia, il personaggio più importante del poema” perché la “sostanza del poema è, insomma, quel che vede Tiresia” ( nota d’autore al v.218 di T.S. Eliot La terra desolata, trad.it, Einaudi, 1983). In altre parole il Tiresia moderno di Eliot è il testimone che dà senso alla visione desolata ossia il poeta ormai deracinè dai processi produttivi capitalistici.

La proposta di questa figura in un poeta come Eliot, teso a rappresentare la decadenza spirituale della modernità in nome di una sensibilità religiosa conservatrice, se non francamente reazionaria, è chiaramente spiegabile, mentre può apparire paradossale che essa diventi una figura di riferimento non solo in Mesa, ma in una tradizione poetica  che riconosce gli aspetti emancipatori della modernità in una battaglia contro i suoi aspetti deteriori. Il Tiresia eliotiano, d’altronde, si inserisce in quanto testimone critico in una linea aperta da Baudelaire e Rimbaud che vede nella modernità un luogo di disastro ma anche di lotta. Dentro questa prospettiva è possibile leggere Eliot come una manifestazione della critica alla società borghese e al capitalismo anche se in questo autore vi è sfiducia nella modernità come progetto di emancipazione; così, a titolo di esempio, si può leggere anche in una prospettiva marxista lo spiritualismo di Eliot come “catalizzatore poetico della crisi dei valori morali laici tradizionali, borghesi, già precipitanti in seguito alla prima guerra mondiale” ( Galvano Della Volpe Critica del gusto, Feltrinelli, 1960, p.58).

Questa precisazione spiega perché il Tiresia di Mesa, lungi dall’avere uno sguardo iniziatico od oracolare, rivolge innanzi tutto uno sguardo politicizzato che ben conosce i rapporti di forza nella società e da dove nascono gli orrori del mondo. Le cinque divinazioni di Tiresia sono altrettante prove della guerra che le leggi del profitto e dell’imperialismo con  implacabile impersonalità conducono contro l’umanità ( la discarica nelle Filippine, la fabbrica di bambole in Thailandia, il commercio di organi umani in Brasile, il progetto Manhattan, le fosse comuni che nei ruggenti anni novanta della pacifica globalizzazione fioriscono un po’ ovunque).

E tuttavia il Tiresia politico di Mesa non ha più a disposizione nessun progetto moderno di liberazione e di progresso entro cui collocare la propria parola poetica e non ha nemmeno una società letteraria che voglia ascoltare la storia della decadenza della civiltà raccontata con stile barbarico/raffinato come per il Tiresia eliotiano. Il testimoniare con lo sguardo e con la parola sono le uniche possibilità anche per il militante politico senza più campo d’azione e sono contestualmente una condanna per il poeta che sa che la sua testimonianza è lettera morta perché si va estinguendo la tradizione letteraria che le attribuisce un senso e un ruolo. Ne segue un appello a una dimensione etica della parola poetica, che mette in scena da un lato l’assenza di sbocchi nella prassi storica e dall’altro il vorticoso cadere delle stesse istituzioni letterarie, volta a instaurare una sorta di agire comunicativo senza canali di comunicazione garantiti a priori. Non a caso le prime due divinazioni, ornitomanzia, la discarica di Sitio Pangako e piromanzia, le bambole di Bangkok, si chiudono con versi esortativi alla dimensione della testimonianza ( Prova a guardare, prova a coprirti gli occhi, la prima; Tu se sai dire, dillo, dillo a qualcuno la seconda).

Questa tensione tra l’impulso etico-poetico a dire e l’impossibilità di uno spazio sociale per dire è la tensione tragica che percorre il poemetto di Mesa e che si manifesta in una parola sempre vicino o meglio sempre strappata al silenzio:  le prime due poesie successive alla prime due divinazioni, pronunciate da una voce poetica più recitativa e sommessa rispetto a quella divinatoria di Tiresia,  si aprono con formule dubitative sull’utilità del dire ( a ridirti che cosa? 1,1 e a chi ne darai conto? 2,1).  Si potrebbe aggiungere che qui vi è una consonanza  con la poetica dell’amato Celan quale viene espressa nel discorso Il meridiano ( contenuto in P.Celan La verità della poesia, trad.it, Einaudi, 1993).

Il tema dell’impossibilità a dire viene ripresa nella poesia 6, posta dopo la terza e la quarta divinazione e sempre dalla seconda voce poetica: “e dire le ultime parole?/ e quali?/ e portarle via con sé?/ e dove?”. A quest’ultima domanda nel testo risponde direttamente, girando pagina, la quinta divinazione, Necromanzia, οἱ ἂταφοι, Massengräber, indicando il dove nella terra  sommersa dalla neve, dove ci sono le fosse comuni. Dunque, l’estrema destinazione delle parole di Mesa o meglio di Tiresia è nelle fosse dei morti ammazzati, dove, nella migliore delle ipotesi e a voler credere a un altro poeta, ci cresce sopra l’erba, oppure verso il nulla. “Ti lascio qui” sono le parole con cui si apre e si chiude il testo che chiude l’intero poemetto. Questo congedo è finalmente il riposo dell’indovino? Non credo in quanto, nella mia lettura, infatti, non  è Tiresia, ma la seconda voce poetica a congedarsi e ad andarsene e a lasciare l’indovino alla sua condanna di continuare a vedere. Questa seconda voce può essere identificata con l’aspetto progettuale o addirittura utopico del poeta moderno  e dunque il suo congedo è quello da un mondo che non è più suo ed è un congedo dalla parola verso il silenzio ( “ questo silenzio che sentiamo insieme/ adesso- è adesso che sappiamo/ in questo momento che divide”). Resta solo lo sguardo rabbioso e terrificato di Tiresia ( rabbioso perché terrificato)

E’ evidente che è presente nel Tiresia un aspetto profetico, comune alla grande poesia moderna, a patto di ricordarsi che nell’accezione biblica il profeta non è colui che prevede il futuro, ma che constata il male del presente o, per essere più precisi, “La profezia nell’Antico Testamento rappresenta sostanzialmente la contestazione del potere politico e sacerdotale dominante da parte di un personaggio escluso o- diremmo oggi- esterno al sistema, che sa leggere i segni dei tempi al di là degli interessi consolidati e rappresenta la voce di Dio per la condanna dell’ingiustizia e la proclamazione di un cammino di redenzione…” ( da Paolo Prodi Il tramonto della rivoluzione, Il Mulino, 2015). Ora ciò che toglie la parola al poeta profetico è l’impossibilità di indicare un cammino di redenzione, perlomeno in questo mondo, dopo il grande scacco del progetto moderno. Eppure egli è condannato a parlare.

Questa parola profetica va intesa come il prodotto di una sconfitta storica, è un ‘parlare nonostante’ e la prova di ciò è che il linguaggio di Mesa non è contraddistinto da alcun orpello formale oracolare né tanto meno è un picnic in cui l’autore porta il testo e il lettore il senso. In questo senso valgono assolutamente le considerazioni fatte da Andrea Inglese proprio su Nazione Indiana: “La parola poetica ‹di Mesa› non sarebbe dunque un al di là del linguaggio comune, un super-linguaggio attraverso cui parlare meglio e in modo più autentico, come voleva la tradizione simbolista, ma un linguaggio pienamente consapevole dei propri limiti, dei rischi di falsificazione, un’esperienza insomma in cui qualcuno vede male e dice male affinché altri, a partire da questa consapevolezza dolorosa, possano dire meglio e vedere meglio.” ( qui)

Come è noto, il verso rimbaudiano bisogna essere assolutamente moderni è diventato nel Novecento, specie presso le Avanguardie ma non solo, una sorta di imperativo etico ed estetico, nel quale  si coniugavano l’avversione per ogni specie di accademismo tradizionalista e museale e la chiamata a un impegno storico che giustificava tale avversione. Del valore parenetico di questo verso è prova la conclusione del saggio sulla modernità di Jameson che a esso si richiama come elemento irrinunciabile nella sua programmaticità ( cfr. F.Jameson Una modernità singolare, trad.it. Sansoni 2003), anche se viene ammessa dallo stesso autore statunitense l’incapacità di tutto l’Occidente di pensare il grande progetto collettivo. Ora pochi anni prima della stesura del Tiresia, Debord nel suo ultimo libro affermava che “quando ‘essere assolutamente moderni’ è diventata una legge speciale proclamata dal tiranno, ciò che l’onesto schiavo teme sopra ogni cosa è che lo si possa sospettare di essere passatista” (cfr. G. Debord Panegirico, trad.it Castelvecchi, 1996, p.44). Per quanto Debord come scrittore abbia sempre amato le batture a effetto, bisogna ammettere che fa specie trovare una dichiarazione del genere nella pagina di un autore che ha consacrato buona parte della propria vita artistica e intellettuale a cercare di realizzare al meglio l’imperativo rimbaudiano.

Una simile affermazione è spiegabile soltanto con il venir meno della possibilità di una collocazione entro un orizzonte di senso storico dell’attività artistica a sua volta legata a una perdita di progettualità complessiva nella società. Insomma non è più necessario essere assolutamente moderni  in ogni attività artistica o letteraria quando non c’è più un soggetto che lotta per l’emancipazione. Se poi l’essere moderno diventa sinonimo di un continuo adeguamento alle dinamiche sociali, tecnologiche ed economiche della classi che detengono il potere, ecco che tale imperativo nell’ambito estetico significa riconoscersi nella moda o nella pubblicità. “La moda ha il senso dell’attuale, dovunque esso viva nella selva del passato. Esso è un balzo di tigre nel passato. Ma questo balzo ha luogo in un’arena dove comanda la classe dominante”, scrive Benjamin nella quattordicesima Tesi di filosofia della storia alla fine degli anni Trenta, che peraltro calza a pennello nel descrivere anche la situazione odierna. Dunque la frase di Debord è, nella sua maniera polemica e paradossale, la constatazione che è finita la speranza delle avanguardie che una rivoluzione dei linguaggi corrispondesse idealmente e storicamente ad altre rivoluzioni.

Il Tiresia di Mesa va letto alla luce di questa frase di Debord nel senso che a ogni suo singolo verso è sottesa questa forma di consapevolezza. C’è in più la volontà di continuare a dire  nonostante non ci siano più i luoghi sociali deputati a esprimere la parola e c’è la consapevolezza che chi sa dire e prende la parola si trova a occupare l’imbarazzante ruolo del profeta. Un ruolo arcaico senza dubbio, che è il prodotto di una sconfitta storica, come del resto è arcaica  sotto la rassicurante apparenza tecnologica una delle facce del tiranno  che ha fatto sua la legge dell’ ‘essere assolutamente moderni’.

N.B.: le citazioni del Tiresia sono tratte dal testo riportato nel volume G.Mesa Poesie 1973-2008 La Camera verde, Roma, 2010

 

 

 

Tanto baccano per una strage

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di Andrea Inglese

Perché tanto baccano per le stragi del 13 novembre a Parigi, che hanno fatto solo 130 morti? La domanda è legittima, se uno considera che la copertura mediatica di queste stragi è stata particolarmente intensa a livello mondiale. A ciò bisogna aggiungere le reazioni di solidarietà espresse sia dalle istituzioni sia dai cittadini di un gran numero di paesi, e ulteriormente amplificate dai media. Certo, una strage di civili inermi realizzata da un’organizzazione terroristica è una fatto che suscita sempre emozione, e solleva una quantità di questioni sulle conseguenze politiche e sociali, ma l’impressione che alcuni hanno avuto è che a Parigi una strage terroristica abbia uno statuto speciale. Ci si è chiesto, insomma, se l’attenzione mediatica, l’empatia e le espressioni di solidarietà non siano selettive, e non finiscano, in questo modo, per delegittimarsi o, addirittura, per apparire un po’ oscene. Questa critica può assumere svariate forme. Elenchiamone alcune.

150 anni di Alice : Del cadere

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150 anni fa veniva pubblicato Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll. Ho chiesto a scrittori, studiosi, appassionati di pensare un loro contributo personale per celebrare questo capolavoro del linguaggio e dell’immaginazione. I post si susseguiranno a cadenza irregolare fino all’autunno e saranno contraddistinti dal tag: 150 anni di Alice, presente anche nel titolo. I post già pubblicati si possono trovare QUI(NDF)

di Mariasole Ariot

Di identificazione in identificazione Alice diventa il diventabile delle grandezze. Piccola come una coda di topo, grande come il cannocchiale più grande, piccola come formica, o becco, diventa lago, si perde nella pozzanghera, in muta perenne dodici volte. Il corpo vivente si trasforma e parla, mentre la testa, staccata, resta stesa sul prato, o forse seduta, accovacciata, una testa mozzata : ma come mozzare una testa a chi non ce l’ha? – chiede il Re.

Non si può tagliare una testa se non c’è un corpo a cui tagliarla

Qualunque cosa abbia una testa può essere decapitata

                                                                                                 Una testa
si può tagliare comunque1
– chiude la Regina.

***

La mia prima lettura è stata di paura, è rimasto un terrore a sottofondo, come dev’essere quel dire l’incerto al di là di ogni scientismo, come dev’essere la fiaba. Alice si trasformava e io mi trasformavo : come un elefante – l’oggetto/corpo più grande che potessi immaginare, piccola come un ago – l’oggetto/corpo minore che faceva del corpo una miseria, uno scarto scartato dal gioco della stanza da letto : a pancia in su, le gambe alzate per camminare sul soffitto. Ma come può un ago camminare? Come può un elefante occupare una stanza, occuparla tutta?

***

Eppure era la caduta ad ansimare, quando l’identificazione di Alice poteva passare non per l’Altro ma per la caduta stessa : diventare la caduta, diventare non l’essere che cade ma il pozzo senza fondo, il cilindro che continua a precipitare. Come nella melancolia il corpo è già morto e non può morire, così nel sogno il corpo è già caduta e non può non cadere, diventa l’essenza stessa di ciò che lo trascina a fondo. Alice – e sembrava passassero millenni – trova infine un suolo. Ma il suolo non è un suolo, è una tana da cui ancora è possibile cadere.
Alice caduta 1

Quanto cadere è dato nella caduta, quando cadere è codificabile, animabile, animale e dimostrabile?

***

A pancia in su, a gambe alzate, percorrevo strati di soffitto invertendo i sensi del pavimento, le strutture dello spazio : dov’è l’alto è il basso, dove il basso è l’alto. E questo gioco infernale mi diventava, come una parola detta troppo forte, urlata nell’urlo che la mastica e la sforma fino a formare un nuovo corpo. Corpo di parola che incarna e si incarna nel soggetto. Avevo paura, alla prima, alla seconda lettura, ho paura anche adesso, mentre il libro è aperto e la caduta è libera, un vuoto pieno che continua incessante nel suo vuoto.

***

Explain yourself! – dice il Bruco : spiega te stesso, alla lettera. Ma la spiegazione è impossibile e impensabile, un appello che scaraventa nel peggiore degli incubi : dire se stessi, conferire un nome ad uno spazio vuoto, ad una piccola miseria, un resto di sé che infinitamente resta resto e infinitamente resta in vita. Explain yourself! Non spiegarti ma annunciati, non annunciarti ma denuncia un’esistenza. Mentre il Bruco parlava nella pagina, io mi cancellavo, trovavo parole per poter scartare l’appello :

un ago di pino
un gatto
una figlia
una mano
la mano di una figlia
la figlia di una mano

[nel sogno le mani figliavano : mille mani in un corteo in mezzo al bosco, mani partorienti, da un’unghia nasce un dito, da un dito nasce un figlio]

***

Poi le parole cadono nel vuoto : parole che cadono, che non arrivano, che non riescono ad incidere la pietra, che non sono pietra. Ma la caduta di Alice non è una parola che cade, è un corpo in divenire che si prepara alla mutazione : Alice cade e la trasformazione è già nella caduta, tutto è annunciato, è già tutto lì : nella caduta gli organi si mescolano ai vicini. Il corpo diventa allora caduta di organi, precipitare stesso della materia all’interno della materia.

 

***

Mi chiedevo cosa sarebbe accaduto all’interno di un corpo che fosse precipitato, se ogni organo per spinta gravitazionale risalisse alla testa. Mi rispondevo urlando, con la testa piena d’uovo, la spina dorsale incrinata, la schiena ancorata alla superficie per nulla liscia del letto adulto. Alza le gambe : cammina, smettila con le domande, falla finita con la decomposizione, accetta la resa. Mi alzavo e tornavo a giocare con Alice sulla spalla destra come un pappagallo.

La mia paura si chiamava Alice, si chiamava caduta, si chiamava senza fine.

***

Diventare caduta è allora l’opposto del cadere : là dove c’è un inizio e una fine del precipitare, dove un piede cede e aspetta l’atterraggio, qui – nell’essere stesso del cadere – si tratta di compiere un passo verso la disidentificazione di un soggetto (se c’è soggetto) per mutare nell’attorno, nell’atto stesso che viene compiuto. Alice cade, e nel cadere assume la forma, seppur non ancora mangiata o bevuta, del cadere stesso. Uno scivolare che non si cura particolarmente del cosa l’attende, piuttosto si fa attesa, vuoto che cade. La mia paura si chiamava, di nuovo, Alice : la caduta della caduta.

***

Alzavo nuovamente le gambe per attraversare un corridoio invisibile, con la corazza di tartaruga sul dorso mi muovevo immobile per sentire un aggancio, ma il letto sprofondava sotto la superficie terrestre – arriverò al centro della terra, pensava Alice – e il centro non arrivava mai. Nel frattempo, l’aria intorno , come fumo, come follia che non più paragonabile all’acqua diventa allora fumo2, si faceva palpabile ma arresa anch’essa al vuoto. Un incontrollabile deformità delle zone interne ed esterne, un continuo palpitare del corpo che nell’affondare assume le sembianze di ogni forma vivente e non vivente. Alice era la lì con me, e detestavo la sua noncuranza. Lei, capace di precipitare sapendo di atterrare, io, senza fondale.

***

Per uscire dalla caduta perenne si tratta allora di considerare uno spazio delimitato, confinato : riprodurre bordi, bordature, cornici, dare la forma di una pagina o di una casa, fare della pagina una casa. Nell’atto della scrittura è possibile rintracciare un fondo, un pavimento che regga. Non più morto che non può morire perché già morto, ma morto che continua a morire perché mai morto, perché non ancora morto, perché non ancora caduto, perché nell’ultima pagina si rintraccia la fine del verbo in movimento. Un punto smette di essere superficie.

Alice superficie 2

***
Alice, fa’ che la testa mozzata non sia testa, di’ che ad un corpo senza testa non è possibile mozzare, di’ la voce, di’ che un pozzo ha sempre un fondale, di’ che mi spezzerò le gambe ma avrò steccati per ricostruirle, di’ che una tazza di tè raccolta al volo è la prova dell’esistenza di un muro, di’ che ho bisogno di muri, di’ che gli angoli sono angoli e non spigoli, di’ che ho paura, di’ che la paura passi, di’ che un passo non è un testimone, di’ che i libri non sono oggetti chiusi, di’ che i conigli non escono dai cilindri, di’ che ho bisogno di tremare, di’ che tremare non è perdere in vita, di’ che la vita è immonda, di’ l’immondo del vuoto, di’ che ho fame di questo mondo, di’ che ho paura, di’ che il mondo ha un fondale : di’ il fondale.

 

 

1Lewis Carrol, Alice nel paese delle meraviglie, trad. Di Masolino D’Amico, Classici BUR, 2015

2Michel Foucault, Follia e discorso – Archivio Foucault 1. Interventi, colloqui, interviste. 1961-1970, Universale Economica Feltrinelli 2014

Breaking news: la verità sull’ISIS e Raqqa

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 Breaking-News-NI

di David Remnick

Traduzione di Barbara Waschimps

 

L’organizzazione Raqqa is Being Slaughtered Silently è sotto costante minaccia da parte dell’ISIS poiché riporta clandestinamente informazioni su quello che accade nella città siriana.

(articolo pubblicato sul sito del New Yorker il 22.11.2015 con il titolo “Telling the Truth About ISIS and Raqqa”)

Sabato sera cinque giovani siriani si rilassano in un piccolo locale di New York e ordinano da bere. Quando il barista chiede se può servire loro una vodka di seconda scelta hanno un sorriso forzato . Sono tutti esuli provenienti da Raqqa, città di provincia nel nord della Siria che l’ISIS ha scelto come base operativa e capitale di fatto dello Stato Islamico. Nessuno di loro ha bisogno di roba di prima classe, solo di bere qualcosa.

Lavorano tutti per Raqqa is Being Slaughtered Silently (RBSS – Raqqa viene massacrata silenziosamente – ndt), una sorta di organizzazione giornalistica clandestina di attivisti che, sotto la spada di Damocle di una fine orribile, fa uscire immagini e resoconti sull’ ISIS da Raqqa, distribuiti poi dai suoi alleati all’estero. I colleghi postano a turno i reportage sui social network e sul loro sito. L’ISIS controlla Raqqa da circa due anni e la stampa estera fa riferimento al RBSS per le notizie di prima mano riguardanti la vita quotidiana e le devastazioni che hanno luogo a Raqqa. E poiché hanno avuto il coraggio di denunciare crocifissioni, decapitazioni, abusi sessuali e altri crimini, alcuni membri del RBSS sono stati uccisi dall’ ISIS a causa del loro lavoro, sia all’interno della città di Raqqa che all’estero.

Abdel Aziz al-Hamza, un uomo esile di ventiquattro anni, fa da portavoce. Non più tardi di qualche anno fa era studente di biologia presso l’Università di Raqqa e sognava di studiare farmacologia in Giordania o in Turchia, per poi rientrare a casa e costruire una carriera e una famiglia. “Ero un ragazzo normale”, dice dopo il primo sorso di vodka&sprite. “Passavo il tempo con gli amici al caffè o al bar. Nessuno di noi era politicamente impegnato. In Siria prima della rivoluzione era un crimine essere impegnati, in qualsiasi modo “. Raqqa era una città relativamente fiorente, con risorse energetiche ed una base agricola. Inoltre le grandi dighe della zona rappresentano un’importante fonte di energia per la Siria.

Quando le manifestazioni anti-regime scoppiarono nel marzo 2011 a Dara’a, una città del sud, e si seppe in tutta la Siria che le forze di sicurezza di Bashar al-Assad sparavano sui civili, Hamza e molti altri si unirono alle rivolte. “Volevamo essere liberi”, dice. “Ci sembrava una cosa ovvia.” Man mano che la rivolta contro Assad si diffondeva in tutto il paese e il conto delle vittime aumentava, decine di migliaia di persone lasciarono Aleppo, Homs, Idlib e altre città e paesi sotto attacco e arrivarono a Raqqa, che si trova sulla riva settentrionale del fiume Eufrate. La città crebbe e divenne nota per un po’ come “l’hotel della rivoluzione.”

Nel marzo 2013 l’Esercito Siriano Libero (FSA) insieme alle forze ribelli islamiste, tra cui al-Nusra, acquisì il controllo della città e per festeggiare abbatté una statua del padre di Assad, Hafez al-Assad. “Raqqa fu la prima città liberata in Siria”, dice Hamza. Ma all’incirca nello stesso momento membri dell’ ISIS (o Stato Islamico), sventolando le loro bandiere nere hanno cominciato a raggrupparsi nella vicina città di Slouk. “In un primo momento non si trattava che di quindici persone all’incirca”, racconta Hamza. “Nessuno di noi se ne rese conto “, fino a quando i combattenti di al-Nusra non cominciarono a passare all’ ISIS – che aveva la sua origine in Iraq. “Nel corso del tempo circa il novanta per cento dei combattenti di al-Nusra della zona divenne parte dell’ISIS, e solo il dieci per cento di essi si rifiuto’”.

A maggio del 2013 i combattenti dell’ ISIS iniziarono a compiere incursioni per sequestrare e attaccare i leader dell’Esercito Siriano Libero, ed entro la fine dell’estate si verificarono scontri di vasta portata con le truppe del FSA. Quando quest’ultimo inizio’ a subire le sconfitte, le autobombe, i rapimenti e le esecuzioni, ci dice uno dei giornalisti al tavolo, alcuni dei suoi soldati piombarono “in uno stato di totale terrore” e si unirono all’ ISIS. La popolazione di Raqqa poté vedere che l’ISIS diventava sempre più forte, acquisendo armi pesanti provenienti dall’Iraq e soldati esperti che avevano combattuto nell’esercito iracheno sotto Saddam Hussein. All’inizio del 2014 l’ ISIS aveva il controllo assoluto della città. Moschee invase, la popolazione cristiana scacciata dalla città, i principali edifici comunali trasformati in quartier generali. La campagna di propaganda che lo Stato Islamico mise in campo in seguito alla presa di Raqqa ebbe come conseguenza un’ondata di arrivi stranieri.

“Nessuno considerò realmente il califfato fino al 2014, quando dichiararono Raqqa la loro capitale e questi tizi cominciarono ad arrivare da tutto il mondo,” mi dice uno dei giornalisti del RBSS. “Era come a New York, una seconda New York! Persone provenienti dall’ Australia, dal Belgio, dalla Germania, dalla Francia! Una marea universale! ” “Forse la prossima Coppa del Mondo sarà a Raqqa”, dice con sarcasmo un altro giornalista.

I giovani combattenti stranieri erano, e rimangono, dei personaggi privilegiati in città. Ce ne sono migliaia a Raqqa, uno dei giornalisti aggiunge, “per strada li vedi dappertutto. Amano i fast food e gli internet-café. Adorano la Nutella e hanno lattine e lattine di Red Bull. Cioccolata, cheesecake! Con la gente in miseria che vede tutte queste cose costose! Ma l’ ISIS tiene a mantenere di buon umore le reclute occidentali “

La prima crocifissione è arrivata all’inizio della primavera – un evento orribile da rievocare, ancora adesso; tutti al tavolo ricordano lo shock. In seguito accadde di peggio: due persone colpite alla testa da carnefici dell’ISIS, crocifisse, esibite per giorni nella principale rotonda della città come monito per tutta la popolazione. “E’ stato qualcosa di nuovo che non avevamo mai visto, questo tipo di violenza”, dice Hamza. “Hanno cominciato a tagliare teste, a crocifiggere, diffondevano il panico ovunque. “C’erano editti contro gli alcolici e il fumo. Le donne, assoggettate ad una ‘polizia morale’ femminile chiamata Brigata Khansaa, furono costrette ad indossare il velo, e più avanti, a calzare solo scarpe nere. Vengono picchiate se il loro niqab è in qualche modo troppo rivelatore, o se il velo è troppo sottile, o se vengono beccate a camminare da sole per la strada.”

“Credo che le donne siano coloro che soffrano maggiormente sotto l’ ISIS”, afferma un membro del RBSS. “Non possono mostrare i loro volti. L’ISIS crea loro molti problemi; per strada prendono i bastoni e le colpiscono se il velo permette di vedere i loro occhi. Le chiamano, ‘ehi, ehi, vuoi sposarmi?’ La gente è diventata così povera, le famiglie così deboli, che alcuni danno le loro figlie all’ ISIS. E loro accettano. A volte è l’ISIS che le costringe a farlo, come nel caso degli Yazidi (popolazione di lingua curda che abita soprattutto nel nord dell’Iraq – ndt): lo Stato Islamico sostiene che questa gente crede in Satana, e per questo le loro donne passavano da un uomo all’ altro, vendute, violentate, abbandonate.

Le scuole furono chiuse. Gli Imam dello Stato Islamico presero il controllo delle moschee. Molti bambini furono mandati in istituti religiosi dove venne loro inculcata la fede islamica nella sua forma più fanatica, e da lì in campi di addestramento militare, dicono gli attivisti. “Non tutti coloro che hanno aderito all’ ISIS lo hanno fatto perché credono in quell’ ideologia”, afferma Hamza. “Ho un amico che è andato con Ioro, ma a cui l’ ISIS non piace affatto. … L’ho chiamato e gli ho detto: ‘Perché ti sei unito a loro? Tu li odi! ‘ Ha risposto:’ Io sono un medico e loro non mi lasciavano lavorare. Mi hanno detto ‘se vuoi lavorare devi unirti a noi.’ Non potrei vivere altrimenti, ho dei figli … ‘”

Secondo i membri del RBSS lo Stato Islamico si rivolge per il reclutamento alla gioventù locale. Con le scuole chiuse i ragazzi perdono tempo per strada. I membri dell’ ISIS fanno amicizia con loro, fanno loro dei regali – a volte dolci, a volte un telefono cellulare. Chiedono ai bambini di unirsi all’ ISIS ma, aggiunge un giornalista, ” gli dicono, ‘Non parlarne ai tuoi genitori.’ So di un bambino che era scomparso da mesi. I suoi genitori lo cercarono dappertutto. Un ragazzino di tredici anni. Alla fine il padre si rivolse ad uno dei capi dell’ ISIS: ‘Dimmi dov’è mio figlio, ti pagherò.’ Si scoprì che il ragazzino era in un campo di addestramento. Loro rapiscono i bambini e li inviano alla moschea per istruirli in modo che subiscano il lavaggio del cervello, indottrinati in una forma estremista dell’Islam. In seguito vengono inviati in un campo militare dove insegnano loro come combattere, come costruire e trasportare bombe. Al termine degli studi gli viene ordinato di giustiziare qualcuno – a volte si tratta di una decapitazione, a volte tagliano la testa ad una pecora “.

Non si può verificare facilmente ogni affermazione fatta dai giornalisti del RBSS, ma i racconti di estrema crudeltà che hanno fornito sono coerenti con quanto riportato da giornalisti come Rukmini Callimachi e Azadeh Moaveni sul Times, da Ben Taub sul New Yorker, e da molti altri che hanno ampiamente intervistato membri del ISIS e varie vittime in Iraq, Europa, e lungo il confine turco-siriano.

Il più potente strumento di indottrinamento dell’ISIS è Internet. Lo Stato Islamico magnifica sia la santità dei propri scopi morali, storici e politici , sia i suoi atti di vendetta contro tutti quelli che marchia come infedeli, e pubblicizza il tutto senza vergogna. “Se googlavi ‘Raqqa’ in quei primi giorni, come primo e unico risultato usciva il loro materiale,” mi raccontano. “Questa fu una delle ragioni per cui un sacco di combattenti stranieri (i cd. foreign fighters – ndt) lasciarono i loro paesi. Ed è per questo motivo che noi abbiamo cominciato. “

A metà aprile 2014, appena un mese dopo le prime crocifissioni in città, un gruppo di sei giovani con le stesse idee iniziarono a scambiarsi opinioni su Facebook. Il gruppo ebbe modo di ampliarsi per breve tempo prima di essere scoperto dall’ISIS, ma nel giro di due o tre settimane un imam locale dichiarò che chiunque avesse collaborato con i RBSS sarebbe stato rintracciato e giustiziato. Alcuni civili sono stati arrestati semplicemente perché hanno messo un “like” ad un post sui social network.

Imperterriti, gli attivisti hanno postato sui network fotografie e resoconti della vita quotidiana a Raqqa; l’idea era quella di combattere la propaganda dello Stato Islamico sul campo digitale. Nel mese di maggio 2014, RBSS ha subito la sua prima vittima. Un attivista al bar mi racconta: “Uno dei nostri reporter è stato fermato ad un posto di blocco e il suo equipaggiamento è stato confiscato e perquisito.” E’ stato imprigionato per tre settimane e infine giustiziato in una piazza pubblica di Raqqa.

“All’inizio non pensavamo fosse così pericoloso”, dice Hamza. “Non pensavamo che ci avrebbero giustiziati. Tutti noi eravamo stati arrestati dal regime di Assad più di una volta durante la rivoluzione. Ma dopo questa esecuzione ci siamo incontrati ed abbiamo iniziato a dirci che non volevamo perdere più nessuno, ed abbiamo cominciato a considerare l’idea di smettere. Però alla fine abbiamo deciso che le nostre vite non erano più importanti della vita del nostro amico che era stato ucciso. “

Gli attivisti si sono organizzati secondo modalità che sperano essere più sicure e meno tracciabili. Alcuni di loro hanno lasciato Raqqa e la Siria per poter essere di aiuto “dall’altra parte”; Hamza ad esempio prese un autobus fuori Raqqa diretto in Turchia ed ora vive, come la maggior parte degli altri al tavolo con noi, in Europa. Altri sono partiti dopo l’esecuzione del loro compagno ma sono rimasti attivi, e ricevono fotografie, video, resoconti dai loro colleghi sotto copertura a Raqqa che poi postano sui social media.

I membri del RBSS si sentono totalmente delusi dai tentativi dell’Occidente di sconfiggere da un lato Assad che ha respinto l’opposizione finora, e dall’altro lo Stato Islamico, che ha subito recenti perdite in Iraq e in Siria ma che si è dimostrato capace di infliggere ingenti sofferenze nel Sinai come a Beirut e a Parigi . “Il problema che noi siriani abbiamo con gli Stati Uniti è che subiamo da cinque anni gli attacchi con le barrel bombs (bombe imballate in grossi fusti – ndt)”, afferma uno dei giornalisti. “Quando Assad ha ucciso tanti innocenti molte persone hanno perso la speranza. Gli Stati Uniti hanno preso le armi solo dopo l’attacco chimico, quando Assad ha oltrepassato la cosiddetta ‘linea rossa’. Questo ha fatto apparire l’America bugiarda e debole.”

“Quando si dice Raqqa la prima cosa che la gente pensa è: ISIS”, ha continuato. “Dimenticano centinaia di migliaia di civili, persone normali come noi. Io non sono un terrorista. Ci sono così tante persone, persone comuni, che vogliono vivere in una Siria libera e democratica. Vogliamo ricostruire la Siria, e l’unico modo in cui possiamo farlo è attraverso la nostra organizzazione di società civile e altre simili. Nel momento in cui gli Stati Uniti e altri governi vogliono combattere l’ ISIS sui social media i loro account di Twitter sono visti solo come propaganda; ma quando la vita quotidiana viene mostrata attraverso di noi e si vede come realmente la si vive, la gente inizia a crederci. “

Parlando al di sopra del frastuono del jukebox e delle rauche conversazioni da bar del sabato sera, Hamza invita gli Americani a cercare di immaginarsi una città in cui “tanti 11 settembre continuano ad accadere mese dopo mese, anno dopo anno.” “La vita quotidiana sono gli aerei da guerra 24 ore al giorno sopra la tua testa”, racconta un altro membro. “La popolazione teme ancora di più l’idea che tutto il mondo voglia bombardare questa piccola città. La gente ha paura. La città di Kubani è stata completamente distrutta, la gente di Raqqa non vuole questo; noi amiamo la nostra città. L’Occidente dice: ‘Lasciate fuori i civili e bombardate l’ISIS.’ Ma non possono riuscirci. E ‘ come una grande prigione, le donne sotto i quarantacinque anni non possono partire senza un permesso speciale. E’ diventata un’area tribale, e le donne non possono andarsene senza gli uomini. L’ ISIS usa il popolo di Raqqa come scudo umano. “

I membri del RBSS hanno raccontato che i caccia americani hanno lanciato la maggior parte delle loro bombe su obiettivi alla periferia della città, e che il bersaglio dei loro droni sono stati i leader dell’ ISIS. Sostengono tuttavia che gli aerei russi hanno colpito un ospedale, due importanti ponti ed un’università. “Il problema che abbiamo con gli attacchi aerei (russi – ndt)”, sostiene uno di loro, “è che i loro aerei sono molto stupidi, non sono bombe intelligenti. “

Il pericolo per l’organizzazione è continuo. Quando l’ISIS arresta o giustizia un membro del RBSS – o qualcuno che credono possa essere un simpatizzante del gruppo – ne dà spettacolo sui social network. “Un video”, mi dice, “mostrava due nostri amici accusati di lavorare per noi, il che non era vero. Quelli dell’ISIS li hanno legati ad un albero e gli hanno sparato. Un secondo video mostra l’esecuzione di un altro nostro amico accusato di lavorare per noi. Lo hanno appeso ad un albero in un luogo isolato e gli hanno sparato alla testa; poi hanno fatto un video per dire che era morto ‘ silenziosamente’ (silently, come nell’acronimo del gruppo – ndt).’ Ci inviano in continuazione messaggi di questo tipo. “

Hamza riceverà a breve un premio dal Comitato di Protezione dei Giornalisti (CPJ) in nome dei suoi compagni, vivi e morti. (David Rednick fa parte parte del board del CPJ che ha organizzato questo incontro – ndA). Egli dedicherà il premio “ai nostri martiri”, agli “eroi anonimi” di questa campagna e al popolo di Raqqa. “Ognuno di noi riceve diverse minacce ogni giorno”, dice Hamza finendo il suo drink. “L’ultima contro di me proveniva da qualcuno in Germania. Il tizio ha detto che sarei stato il prossimo. Ma quando penso ai nostri reporter all’interno di Raqqa, io che sono fuori … io vivo una vita normale, facendo cose normali. In qualche modo, non mi interessa cosa ne sarà di me. Rispetto a loro, io non sto facendo nulla. “

  

El Chalten

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El_Chaltendi Pierpaolo Lupo

L’intensità del vento sembrava essersi placata. Le nuvole nere che per tutto il pomeriggio, con movimenti vorticosi, avevano giocato con le cime delle montagne, andavano diradandosi e in una zona più elevata del cielo avevano fatto la loro comparsa soffici strato-cumuli di un bel colore cangiante tra il rosa e l’arancione.

Xavier ne aveva approfittato per sedersi sulla sedia di vimini, in veranda, e godere un po’ dei tiepidi colori del tramonto. Intanto verso est l’immensa distesa desolata diventava sempre più preda del manto scuro della notte. Solo chi sapeva quanto vasto fosse l’orizzonte poteva percepire la profondità di quel buio che avanzava.

Poco dopo, come Xavier si aspettava, era arrivata Isabela: camminava con un passo ciondolante, come di chi è stanco ma non vuol darlo a vedere oppure di chi è semplicemente soddisfatto della passeggiata compiuta e la celebra accentuando i movimenti della camminata, fino a farli sembrare passi di danza.

Appena aveva alzato gli occhi e si era accorta di Xavier, lo aveva salutato con la mano e un ampio sorriso aveva illuminato il suo viso. Quel suo solito sorriso aperto, sincero, così sereno da lasciare in Xavier l’ombra del dubbio, l’incertezza se fosse davvero così spontaneo, così bello e così vero.

Ma subito dopo si vergognava di averlo dubitato e incolpava se stesso, la propria innata diffidenza, la propria stolta incapacità di pensare che davvero una persona potesse essere così semplice e solare senza nascondere alcunché.

Isabela portava sulla spalla una tracolla che reggeva un piccolo cesto in cui sembrava aver raccolto fiori, foglie, muschi, bacche e chissà cos’altro.

“Salve” aveva detto, con un tono allegro, poi si era avvicinata alla veranda e aveva salito i due gradini fino ad accomodarsi di fronte a lui. Un “oohhh” prolungato era stato il suo commento nell’appoggiarsi di schiena al legno della staccionata.

“Allora, Xavier, che hai fatto oggi? Hai visto che bella serata?”

“Sì” aveva risposto lui, osservando distrattamente le maniche della giacca che teneva in grembo. “Proprio una bella serata… cosa ho fatto oggi? Ho fatto una passeggiata, come te, ho camminato un po’ verso le montagne, fin quasi a raggiungere il sentiero che comincia a salire verso il lago, ma a quel punto sono ritornato sui miei passi, c’erano delle nuvole nere che non promettevano nulla di buono. Domani ci riprovo, più in su ho visto un bivacco, un rifugio, chissà forse c’è su qualcuno. Poi, sulla strada del rientro ho incontrato un vecchio indiano, era seduto su una pietra, è stato molto gentile, abbiamo parlato un po’… e… be’ ora eccomi qui, mi godo questa bella serata, il silenzio, i colori del tramonto…”

“Tolhuin…” aveva detto lei, spostando per un attimo lo sguardo altrove. Mentre pronunciava quel nome Xavier l’aveva guardata e aveva notato come nel parlare le labbra di lei avessero formato per un istante un piccolo cuore e si era quasi intenerito.

“Come… scusa…”

“Tolhuin: è il nome del vecchio indiano che hai incontrato… vecchio, ah ah, è un aggettivo forse insufficiente… nessuno qui sa davvero quanti anni abbia… chissà, potrebbe anche averne più di cento!”

“Già… anche più di cento… è vero… quest’aria buona, questo clima secco… le persone sono longeve.”

“Potresti essere longevo anche tu: ti ci vedo, fra altri quarant’anni, seduto su questa veranda, pieno di rughe e con una lunga barba… a distribuire perle di saggezza ai viandanti che passano.”

“Lo prendo come un augurio” aveva sorriso Xavier, mentre un brivido freddo come la lama di un coltello gli percorreva la schiena. “Lo prendo come un augurio”.

Poi, come se fosse naturale conseguenza di quell’augurio di una lunga vita, si era voltato appena verso est, guardando con apprensione verso quel buio profondo e gelido che avanzava, quel nulla che pareva volerlo fagocitare. Era meglio tornare a guardare il viso di Isabela, quel sorriso rassicurante, quasi ipnotico. Ma rassicurante.

“Perché continui a tormentare la manica della tua giacca, Xavier?”

“Già ..la mia giacca…, oggi ho trascorso un’oretta nel cercare di rammendarla, qui sul gomito, vedi, è una bella giacca, tiene caldo e ci sono affezionato, mi spiace buttarla… e poi, qui, mi sono abituato all’idea di poter vivere col poco che si ha, il tempo non mi manca per fare piccoli lavori domestici, per cercare di abbellire questa casa: mi piace, è spartana ma è bella, ha l’essenziale.“

“Ah, un rammendo …vedo… – Isabela aveva posato il suo cesto e ghermito la giacca di Xavier – un rammendo fatto un po’ così così… perché non me l’hai detto, questo è un lavoro da donna, e poi qui francamente più che un rammendo ci metterei una bella toppa di pelle, ci penserò io domani Xavier, una toppa di pelle qui ed una identica sull’altro gomito e la tua giacca sarà come nuova”, e ridacchiò. “Piuttosto ora guarda cosa ho portato, questi fiori sicuramente daranno una nota di colore alla tua casa …che dici, posso entrare ?”

Naturale che lui aveva detto di sì: se non fosse stato per Isabela, il suo soggiorno in quei luoghi sarebbe stato di una solitudine insopportabile. E poi Isabela non era soltanto un ‘ottima compagnia ma anche una donna più che graziosa.

Pochi istanti dopo Isabela si aggirava per la casa cercando una collocazione per la sua composizione floreale, mentre Xavier era andato ad accendere il generatore per fare un po’ di luce in vista della sera imminente.

Più tardi avevano cenato insieme, al fioco lume della lampadina, mentre fuori già era buio. Avevano parlato delle loro passeggiate, dei colori della natura, dei grandi spazi, dello splendido scenario di montagne. Xavier si stupiva di quanti argomenti potessero sorgere da una giornata di ozio trascorsa semplicemente a contemplare il paesaggio.

Mentre Isabela rassettava e lavava le stoviglie, Xavier aveva acceso il fuoco nel camino.

Poi Isabela aveva sistemato sul tavolo le tessere del domino aspettando che Xavier si sedesse di fronte a lei. Amavano trascorrere qualche quarto d’ora in quel gioco semplice e rilassante. Le tessere del domino piacevano a Xavier, le trovava esteticamente molto eleganti, amava maneggiarle, sentire al tatto la consistenza del legno, percepire gli intarsi coi polpastrelli. Era stata Isabela, fin dai loro primi incontri, a introdurre, quasi come una rito, la partita a domino.

Xavier non aveva bisogno di proporre o di suggerire quando era con Isabela. Le iniziative che lei prendeva parevano sempre collimare perfettamente coi suoi desideri .

Arrivava un momento in cui cominciavano a muovere un po’ più svogliatamente le tessere, le loro mani stese sul tavolo cominciavano ad accarezzarsi ed i loro occhi ad indugiare sempre di più gli uni negli altri.

Poi Isabela sceglieva il momento, sorridendo spostava le tessere con un braccio, prendeva entrambe le mani di Xavier tra le sue e senza bisogno di parlare lo invitava ad alzarsi.

A Xavier piaceva Isabela. La osservava mentre si stava spogliando. Era meno magra di quello che sembrava da vestita, il suo corpo esile e ben fatto non presentava particolari spigolosità. I suoi seni erano piccoli. Fisicamente aveva conservato le fattezze morbide e regolari del corpo di un’adolescente benché dovesse avere senz’altro più di trent’anni. Xavier non le aveva ancora chiesto quanti anni avesse.

Anche lui si era spogliato, per un po’ si erano accarezzati stando in piedi, poi si erano messi a letto e avevano fatto all’amore.

Dopo erano rimasti ancora a lungo in silenzio.

Xavier rifletteva su come fosse totale l’abbandono di Isabela, a quanta emozione gli dava ogni volta il suo calore. Avrebbe dovuto provare struggimento, la sensazione di non darle abbastanza. Ma sentiva anche che in lei non c’era ciò che comunemente si definisce amore, c’era solo un puro istinto. Isabela non aveva mai parlato d’amore o di sentimenti e ciò lo tranquillizzava. Così come lo inquietava. Come tutto ciò che gli era dato senza un perché, il tramonto sulle montagne, il buio che si stendeva sull’ immensa pianura, i suoni portati dal vento.

Xavier era supino sul letto, le mani dietro la nuca; Isabela, prona, aveva appoggiato un braccio sul suo petto e lo guardava sorridente:

“A cosa pensi Xavier? O sei triste, o hai qualche nostalgia…”

“Nostalgia … forse. Sai, quando hai un oceano intero fra te e la tua casa è normale provare un senso di smarrimento. Penso alla città, al traffico, alle luci, alle voci concitate, tutte cose che non sopporto beninteso, ma ci penso, è inevitabile …qui è tutto così diverso, così calmo, così…irreale…”

(Pensava ai suoi amici, pensava a Nora, soprattutto… perché era andato via da lei, così lontano? Perché l’aveva abbandonata per venire fin lì? Voleva rivederla… oppure, nel frattempo, anche solo sentirla, parlarle, rassicurarla…ma lì non c’erano neanche i telefoni…)

Cosa è irreale Xavier?” gli aveva risposto Isabela. “Questo è il reale, irreale è quello che non c’è . Questa casa è reale, questo letto, tu che fai all’amore con me è reale… la vita è questa, non la confusione che vaga nella tua testa…”

Xavier, per un attimo, chissà perché aveva pensato a quel camion abbandonato visto qualche giorno prima. Un camion ormai arrugginito, abbandonato nel deserto dell’altopiano. Lo immaginava avvolto dal manto della notte, diventato forse la tana di una coppia di volpi, due volpi strette l’una all’altra per scaldarsi. Un camion arrugginito e cigolante per il vento. In mezzo al nulla. Che domande potevano porsi quelle volpi nel loro dolce far niente, nel buio della loro tana di fortuna? Perché lui e Isabela non potevano essere come le due volpi? Forse quello volevano suggerirgli le parole di Isabela?

Xavier guardava verso il soffitto e pensava : ora sposto lo sguardo, fisso Isabela e magari mi trovo davanti gli occhi di una volpe. Lei era sempre appoggiata sul suo petto, ma ora aveva chiuso gli occhi e adagiato la testa, canticchiando sommessamente una canzone o una nenia popolare che Xavier non riusciva a decifrare.

Vicino a Isabela non provava disagio, non poteva dare credito al sospetto che le nascondesse qualcosa. Pensava che con lei avrebbe potuto aprirsi, confidarle tutto ciò che lo inquietava. Ma di Nora no, di Nora non osava certo parlarle.

Ora Isabela si era sollevata dal corpo di lui e si era sdraiata a sua volta supina, come per addormentarsi .

Lui si era girato su un fianco, dandole le spalle. Nel buio quasi totale della stanza percepiva il suo respiro leggero, mentre da fuori veniva il cigolio sommesso dell’altalena, mossa dal vento. Gli piaceva quel cigolio, non lo infastidiva, anche fosse durato tutta la notte.

(Quando aveva visto quel camion abbandonato e dove? Percorrendo una strada, su una corriera, su un altro camion, o camminando col suo zaino in spalla? Allora da qualche parte c’era una strada, c’era una direzione, c’era un senso…)

“C’è un’altra cosa che non capisco Isabela.”

Lei in quel momento aveva inspirato profondamente, non gli aveva detto nulla, ma il suo respiro tornato regolare sembrava un paziente invito a continuare, come di una madre verso la timida curiosità di un bambino.

(E se c’era una strada, una direzione, allora c’era una sequenza temporale… una causa ed effetto… una concatenazione… un suo “partire e arrivare lì”?)

“C’è una cosa che non capisco. Riguarda il vecchio indiano… Tolhuin hai detto che si chiama…Oggi non era la prima volta che lo incontravo. E’ sempre seduto su un masso, non sempre nello stesso luogo, ma quando lo incontro lui è sempre seduto, come se mi aspettasse e quando gli passo vicino mi invita a fermarmi e si mette a parlare con me. Sempre con la sua grande cortesia, una persona mite ma al tempo stesso capace di incutere rispetto con il suo carisma… Ecco, dicevo, lui ogni volta mi ha parlato a lungo, ed io ricordo che dovevo essere davvero interessato a ciò che mi diceva, mi sedevo accanto a lui e mi sentivo non soltanto rapito dai suoi discorsi, ma alla fine me ne andavo con in più un grande senso di benessere e di quiete. A mia volta gli facevo delle domande e lui rispondeva . Ora… Isabela, il problema è: che cosa mi diceva? Sai, per quanto cerchi di sforzarmi non riesco a ricordarmi nulla di ciò che mi ha detto, nulla Isabela, neanche una parola, come chi è sicuro di aver fatto un sogno complesso e pieno di eventi strani ma non ne ricorda neanche un’ immagine … Di cosa parla il vecchio indiano, Isabela?”

Isabela aveva sospirato un po’, Xavier continuava a darle le spalle ma si era figurato che in quel sospiro ci fosse un mezzo sorriso, come se lei fosse divertita da una domanda che si aspettava.

Poi, seria, “ Tolhuin…” gli aveva detto, “Tolhuin parla di … uhmm…parla di alberi neri contorti” e qui si era messa quasi a scandire le parole. “Parla di acquitrini gelati, di ossa bianche che affiorano… parla di altalene che cigolano nel vento… di questo parla il vecchio…”

“E’ molto poetico… e sicuramente è in parte come dici tu, ma non ne sono convinto sai, Isabela, credo che invece mi dicesse cose molto importanti, ma molto importanti per me, benché lui non mi conosca. Io credo che lui abbia dato tante risposte alle mie domande, ma forse sono come le parole di uno stregone, sul momento sono convinto di seguirlo ma in realtà non ho ancora gli strumenti per capire davvero cosa mi suggerisce. Sì, perché sono sicuro che lui mi da’ dei suggerimenti. Ma è come… non so, buffo a dirsi, è come se, mentre parla, le parole escano davvero come qualcosa di fisico dalla sua bocca e galleggino nell’aria sopra di lui, ma alla rinfusa, mescolandosi le une con le altre. Io alzo gli occhi e guardo quelle parole e annuisco, ma in realtà non le capisco veramente… forse non dovrei farmi distrarre da questa illusione visiva che lui crea e concentrarmi solo su ciò che sento. Forse dovrei fare così.”

“Forse… Xavier, tu insisti e vedrai che un giorno riuscirai a memorizzare quello che dice il vecchio…ma ora, ad esempio, facci caso: lo senti il cigolio dell’altalena? Tu credi che non ti dica niente, ma ti parla e anche senza volerlo, anche senza che ti sforzi, capisci e interiorizzi gran parte di quello che ti dice. Anche questo semplice suono che si ripete sempre uguale, o con qualche variazione, come una litania… ti sta raccontando tante cose… tante cose piene di significati… è come te in questo momento… è la voce di mille persone, è una sequela di domande che cercano una risposta e qual è il momento migliore se non la quiete della notte? In ogni lamento di quell’altalena ho già sentito tantissime domande, e poiché l’altalena è un attrezzo per bambini molte delle cose che dice sono proprio buffe, come le domande di un bambino e mi hanno fatto sorridere…credimi Xavier, non ti sto prendendo in giro…”

“Sei una maga anche tu Isabela? Come il vecchio indiano?”

“Chissà, del resto anch’io, sai, devo avere almeno un quarto di sangue indiano.”

Poi erano rimasti in silenzio. Tra un cigolio e l’altro dell’altalena a Xavier era parso di sentire il frinire delle cicale.. ma no, gli era solo sembrato: lì non c’erano cicale. Questo pensiero lo aveva pervaso ancora un po’ di un senso di tristezza, come un ricordo lontano che non riusciva a focalizzare, ma era anche molto stanco e aveva finito con l’addormentarsi .

Al mattino, appena la luce del sole aveva cominciato ad invadere la stanza, si era girato verso Isabela, ma lei non c’era più, era già uscita, con la sua solita delicatezza, senza svegliarlo.

Era rimasto solo un profumo di fiori.

Era già successo le altre volte che aveva dormito con lui: prima dell’alba (o nel cuore della notte, chissà) lei si era dileguata senza far rumore. Dove andava? Andava a fare una delle sue misteriose passeggiate, o tornava a casa sua ? Già, a casa sua: ma dove abitava Isabela? Xavier non glie lo aveva mai chiesto.

Era rimasto ancora un po’ a letto, ripensando al sogno che aveva fatto: aveva sognato di camminare, di intraprendere una passeggiata impegnativa, un vero e proprio trekking in montagna, si sentiva nel pieno delle forze ma nonostante ciò non riusciva a coordinare i movimenti, ogni passo richiedeva un grande sforzo come se ogni volta il suo cervello dovesse spiegare alle gambe come dovevano muoversi. Di conseguenza tutto ciò avveniva con una grande lentezza, come se stesse camminando sott’acqua o sul suolo lunare, o in un luogo privo di gravità. Nel sogno provava rabbia, che diamine, perché tanta fatica per fare qualcosa di così semplice come camminare! Allora cercava disperatamente di forzare l’andatura e cercava di correre ma il risultato era ugualmente sconfortante, era come una corsa al rallentatore!

Poi si era scrollato dal torpore del dormiveglia, deciso a darsi una rinfrescata con l’acqua, mangiare qualcosa, preparare lo zaino ed uscire per una passeggiata. Si era proposto di ripetere il cammino del giorno precedente, ma di raggiungere il lago e, se il tempo lo permetteva, spingersi anche oltre, su verso le cime.

Così era partito con passo spedito, voltandosi ogni tanto indietro per vedere la sua casa, sempre più lontana, come per sincerarsi che fosse sempre lì, al suo posto. Per vincere il senso di solitudine si inventava semplici giochi mentali basati sui punti di riferimento visivi, oppure contava i passi o immaginava di parlare con Isabela o col vecchio indiano. Al di sotto, come un quieto oceano sotterraneo, c’erano presenze più o meno nitide e tra queste Nora. Per il momento lasciava che queste presenze rimanessero in una situazione di stand by, le controllava da lontano, le accarezzava appena con delicatezza, non voleva lasciarsele sfuggire ma, per il momento, nemmeno farle affiorare.

Camminava ormai da un’oretta e non aveva incontrato anima viva. Soltanto un branco di guanachi aveva fatto un’apparizione fugace, di pochi secondi. Spuntati dal nulla avevano risalito con un trapestio di zoccoli in corsa un declivio a un centinaio di metri da lui, lasciando una scia di polvere. Poi una folata di vento l’aveva dispersa. Ogni tanto la sua attenzione era attratta da voli sporadici e circolari di grandi uccelli da preda contro la luce del sole. Erano condor? – si chiese.

(Vedono lontano… pensava, forse vedono il vecchio indiano seduto che lo aspetta, forse il vecchio indiano vede con gli occhi del condor. Vedono un camion abbandonato nel deserto sferzato dal vento, vedono Isabela quando lui non può vederla nelle sue misteriose assenze, Isabela alza gli occhi al cielo, vede i condor che vedono Xavier).

Aveva raggiunto il lago finalmente, un lago blu cobalto nell’anfiteatro solenne delle cime innevate.

Non si era fermato più di tanto, aveva trovato finalmente un sentiero ben tracciato e aveva deciso di seguirlo. La presenza di un sentiero gli infondeva sicurezza, era un indizio di presenza umana.

A un certo punto, dopo che il sentiero che costeggiava il lago aveva ripreso a salire, aveva visto più in alto la figura di un uomo . Era un fatto talmente raro da quando lui era lì che ebbe un sussulto. (“da quando” lui era lì? quando sapeva ancora di mete e di strade e di tappe e di destinazioni ?)

L’uomo lo precedeva di qualche centinaio di metri, andava nella sua stessa direzione lungo il sentiero. A tratti spariva dietro una curva o una roccia o un avvallamento assecondato dal sentiero, ma poi ricompariva. Impossibile per Xavier perderlo di vista, facevano la stessa strada. Decise di affrettare il passo, di raggiungerlo, ma non era semplice perché anche quell’uomo camminava spedito.

Forzando l’andatura era comunque riuscito ad accorciare di molto le distanze e ora ne scorgeva distintamente la figura e grande fu la sorpresa quando gli parve di riconoscere in lui Florian, suo amico da tanti anni.

“Florian – pensava quasi ad alta voce – ma è davvero lui?” Cominciava ad ansimare ma nonostante ciò allungò ancora il passo, facendo una ventina di metri in salita quasi correndo. Quando rialzò gli occhi vide il volto dell’uomo di profilo, e lì ebbe la quasi totale certezza che proprio di Florian si trattasse.

Ora l’uomo aveva raggiunto un tratto pianeggiante che conduceva visibilmente verso un rifugio. Xavier sperò che si fermasse lì per una sosta, così non avrebbe più dovuto correre per raggiungerlo.

Poco dopo infatti l’uomo aveva raggiunto la costruzione in legno ed era entrato . Xavier rallentò il passo, tanto ormai non poteva più sfuggirgli, anzi ad un certo punto si fermò per valutare la situazione. Entrare subito dopo di lui… chiamarlo a gran voce… come se lo stesse inseguendo, no… differire il suo arrivo di cinque o sei minuti, questo aveva deciso di fare.

Così riprese a camminare adagio, ciondolando un po’ e guardandosi intorno, senza tuttavia perdere d’occhio l’ingresso del rifugio . Era una costruzione più piccola di quello che gli era sembrato o che si aspettava ma aveva un aspetto dignitoso e curato. Una seconda serie di finestrelle sotto il soffitto di pietra gli suggerì che doveva esserci anche un primo piano con delle stanze per dormire.

Finalmente anche lui fece il suo ingresso, certamente pervaso dall’emozione ma senza volerlo far vedere. Vide per prima cosa il gestore che, in piedi dietro il bancone, stava strofinando un bicchiere con uno straccio pulito, e si salutarono con un cenno cordiale. Poi si guardò intorno, lo colpì in un angolo in penombra la sagoma fulva di un puma impagliato. Sulla destra c’era un tavolo e lì vide il supposto Florian, ancora di spalle tuttavia. Era seduto e sembrava intento a consumare un pasto che presumibilmente aveva appena ordinato. L’oste, dopo aver guardato Xavier, sollevò il bicchiere davanti agli occhi, come per controllarne la brillantezza. Questo gesto parve buffo a Xavier, per lo meno in quel contesto decisamente rustico.

Poi, proprio mentre stava avvicinandosi all’uomo seduto, questo si era finalmente voltato verso di lui, rivelandosi essere davvero Florian, il suo amico.

“Xavier” aveva detto, con un tono di semplice constatazione, senza far trasparire emozioni.

“Florian….ti avevo riconosciuto salendo per il sentiero e ti ho seguito fin qui…come mai anche tu da queste parti?”

“Siediti Xavier, mangia qualcosa anche tu.”

Era sempre il bel volto affilato di Florian, un po’ indurito forse dalla barba scura che si era fatto crescere, dal colorito abbronzato, con qualche ruga di espressione in più. Sembrava un vero montanaro. Xavier era così stupito dell’incontro che rispose quasi con dei balbettii.

“No… ho già mangiato prima, qualcosa, lungo il cammino, forse mi prenderò da bere… forse..”

“Tutto bene Xavier? Ti vedo un po’ stanco…. o un po’ assente, decidi tu…”

“Assente? No… solo stupito… di incontrarti… proprio qui… ti vedo in forma, davvero… e tu, come mi trovi?”

“Te l’ho detto, sei sempre tu, ti ho ben riconosciuto subito, ma mi sembri strano . Tutto qui.”

“Tutto qui…già, capisco. E, dimmi, dove sei di stanza?”

“A El Chalten ovviamente, non ci sono molti altri villaggi nel raggio di chilometri…”

Xavier aveva leggermente sorriso, distogliendo per un attimo lo sguardo: “El Chalten certo, perché non ci avevo ancora pensato, siamo ad El Chalten… Lo dicevo, questi paraggi mi ricordavano qualcosa… e dimmi Florian, saresti in grado di darmi altre risposte? Perché, vedi, forse non ti ho incontrato per caso.”

“Mmmh… risposte, Xavier?” aveva detto Florian inarcando le sopracciglia e fissandolo negli occhi. “Se mi fai domande….io ti rispondo . Però scusami adesso, non per sembrare scortese ma, abbi pazienza, almeno finché non finisco la mia zuppa, finché è calda… mi capisci?”

“Certo che ti capisco Florian, non sono mica stupido… finisci in pace la tua zuppa…Cavoli? Fagioli? O cosa?”

“Dunque, direi entrambe le cose, più qualcos’altro, c’è anche della carne, montone credo, o agnello, è molto sostanziosa…Già, molto sostanziosa!”

Florian aveva ripreso a mangiare di gusto poi, forse infastidito dal sentirsi addosso lo sguardo indagatore di Xavier, aveva ripreso a parlare:

“Comunque: dico… venendo al sodo, Xavier, cosa vuoi fare? Io sto andando su in vetta, vuoi venire con me?” Florian aveva formulato l’ultima domanda quasi con un sorriso di sfida.

“Verso la vetta? Adesso? Ma hai visto che è completamente nascosta dalle nuvole? No Florian, non mi interessa, forse mi sarebbe interessato un tempo, ora non più.”

“Xavier, che diamine!” aveva esclamato Florian, allargando le braccia. “Si va su, passo dopo passo, appiglio dopo appiglio, non ti ricordi? Uff, ti facevo più coraggioso!… ah ah ah!”

Xavier aveva abbassato gli occhi e si era appoggiato con una spalla alla parete: “Coraggioso… ma cosa c’entra Florian… è una parola che non ha nessun significato per me. Ci siamo incontrati, dopo non so quanto tempo, avrei voluto semplicemente stare qui a parlare con te… a… ho un sacco di cose da chiedere, ci sono cose che vorrei capire… la vita, Florian, mi interessa la vita e tu mi parli della tua dannatissima montagna!”

“Ma cos’hai Xavier…” e intanto aveva cominciato a scuotere il capo con un ghigno canzonatorio, ma senza più guardarlo in faccia. “Prima mi hai chiesto cosa faccio io da queste parti, quando sei proprio tu a non sapere cosa ci fai! Mi sembri un fantasma, un fantasma che ha perso la memoria. Ma chi è che ti ha ridotto così? Ah, ho capito…” e qui aveva di nuovo girato lo sguardo verso di lui. “Forse la tua amica Isabela?”

“Isabela…” Xavier era visibilmente trasalito. “Come sai di lei, la conosci, e cosa sai di lei?”

“Oh… cosa so… sei tu che la conosci … bé, so che è proprio il tipo per te, ecco cosa so, la classica donna materna adatta a consolare chi spende la vita a farsi domande inutili, Xavier! Di cosa parlate tu e la tua bella, Xavier? Dei fiorellini del bosco? Della forma delle nuvole? Delle frasi portate dal vento ?”

Xavier aveva abbassato la testa, scuotendola leggermente, ma l’ultima cosa che avrebbe voluto era di mostrarsi mortificato di fronte alle stupide esternazioni dell’amico. Così si era alzato bruscamente, facendo quasi cadere la sedia ed era andato a sedersi dall’altro capo della sala, lasciando che Florian gli desse le spalle.

“Ok Florian, ok…finisci il tuo piatto e poi vai dove ti pare, tempo perso parlare con te…”

Seduto in fondo alla sala aveva per un po’ guardato la schiena dell’amico, che imperturbabilmente aveva ripreso a sorbire la sua zuppa e a bere il suo vino, poi aveva rivolto gli occhi all’unico testimone, peraltro molto discreto, della loro conversazione, l’oste, che, in piedi dietro il bancone con aria noncurante continuava a strofinare i bicchieri con una dedizione fin esagerata: che bisogno c’era – pensava Xavier stizzito – di far brillare i bicchieri come cristalli in un misero bivacco di montagna… per berci lo champagne?

“Mi porta un’acquavite, per favore?” gli aveva chiesto poi.

“Senz’altro signore… è sicuro che non vuole mangiare qualcosa?” aveva un accento strano, poteva essere un russo, o un polacco..

“Grazie… voglio solo un ‘acquavite.”

Mentre beveva aveva notato, a destra della credenza dei liquori, un telefono, un vecchio telefono a muro. Grazie a Dio, un telefono: era il primo che vedeva da quando era in quei paraggi, avrebbe voluto prendere in mano la cornetta, comporre il prefisso internazionale e poi subito il numero di Nora: sentire prima un lungo silenzio, poi un sibilo, e poi finalmente, da migliaia di chilometri di distanza, il flebile segnale di libero, una breve attesa con il cuore che batteva forte e infine il ricevitore che viene alzato, oh incredibile magia del telefono e la sua voce, la voce di Nora. Come stai Nora, sono qui, sono a El Chalten, è vero sono tanto lontano, non so neanch’io perché, ma so che torno presto Nora,è questione di giorni… Ma come poteva? Anche se Florian se ne fosse andato, c’era sempre l’oste che avrebbe ascoltato la sua conversazione. Con quel suo aspetto sornione non era il tipo che si sarebbe allontanato con una scusa qualunque per lasciarlo parlare a proprio agio. No, doveva aspettare, sarebbe ridisceso lungo il sentiero, il sentiero che lo avrebbe portato a El Chalten e lì sì, avrebbe trovato un telefono come si deve, in un luogo appartato o in una cabina, in un contesto più adatto al suo bisogno di privacy.

L’acquavite, quella ci voleva proprio, qualcosa che gli desse una scrollata, che gli permettesse di levarsi dalla testa senza rimpianti la delusione dell’incontro con Florian. Si era bevuto il bicchiere d’un fiato, era buona, era fuoco allo stato puro, ne aveva chiesta un’altra. Intanto Florian si era alzato, aveva pagato e mormorato qualcosa all’oste, poi si era messo su il giaccone e lo zaino sulle spalle e, avviandosi verso l’uscita non aveva potuto fare a meno di trovarsi ancora faccia a faccia con Xavier, il “vecchio amico” Xavier.

Che strana faccia gli aveva fatto: in piedi, già prossimo alla porta, si era fermato, aveva guardato in viso Xavier, ma non aveva più quell’espressione di sufficienza. Il suo sguardo era sempre duro, freddo, come dal momento in cui si erano incontrati, ma adesso sembrava voler far trasparire qualcosa di più complesso, qualcosa che veniva da lontano nel tempo, forse non uno sguardo di intesa, no quello era troppo, ma quanto meno di velata “complicità”. Un ‘allusione ad un passato che poteva ritornare o finire per sempre.

“Hai del tabacco con te?” gli aveva chiesto.

“No” era stata la risposta secca di Xavier. (Stronzo, tutto qui il tuo commiato? – aveva pensato. Ma poi aveva avuto come un flash di un istante – forse non mi ha chiesto se ho del tabacco, forse io ho inteso così ma la sua domanda era diversa, neri alberi contorti, forse… o il volo del condor, o Isabela…).

Poi Florian aveva aperto la porta facendo entrare per una manciata di secondi una folata di vento gelido: “Ahh Xavier, Xavier….” e se ne era andato.

Doveva essere cambiato il tempo, quella folata era davvero fredda.

L’acquavite alternava lungo la sua spina dorsale vampate di fuoco a fredde lame di coltelli.

(Aveva improvvisamente aperto le ali, divorato in volo chilometri di spazio fino alla sua casa, aveva aperto la porta, vi aveva sorpreso Isabela intenta a rammendargli la giacca, Isabela si era voltata di scatto, il suo volto era il muso di una volpe, occhi neri appuntiti come spilli…)

Aveva aspettato ancora dieci minuti, il tempo che Florian facesse un po’ di strada, poi si era alzato anche lui e si era congedato dall’oste ringraziandolo ed elogiando la sua acquavite.

Uscito dal rifugio aveva percepito subito che la temperatura si era notevolmente abbassata. Su, verso la cima, nuvole sempre più minacciose. Là in mezzo Florian, pensava. Aveva provato a cercarlo con lo sguardo per almeno cinque minuti, ma non lo si vedeva. Era ora di scendere, voleva seguire il sentiero fino in fondo, il sentiero che lo avrebbe portato al paese.

Poco dopo aveva già raggiunto il lago, se avesse svoltato a destra si sarebbe diretto verso la sua casa, seguendo il tracciato avrebbe dovuto arrivare ad El Chalten. Già: El Chalten, com’è che non gli era venuto in mente?

Era ancora scosso dall’incontro avuto con Florian, per fortuna anche quella sera avrebbe potuto trovare il conforto di Isabela e chissà, magari lungo la discesa si sarebbe imbattuto ancora una volta nel vecchio indiano. Aveva davvero tanta voglia di incontrarlo. Avrebbe voluto abbracciarlo, esternargli il suo bisogno di aiuto. Gli era anzi venuta un’idea. Per non correre nuovamente il rischio che le parole del vecchio venissero subito cancellate dalla sua mente, aveva pensato che avrebbe dovuto scrivere, prendere appunti mentre Tolhuin gli parlava. Il vecchio sicuramente glie lo avrebbe permesso o comunque nemmeno ci avrebbe fatto caso. Poteva sembrare una semplice stravaganza, non certo una mancanza di rispetto. Così si era fermato, si era tolto lo zaino e aveva cominciato a rovistare al suo interno alla ricerca di una penna e di un semplice foglio di carta. C’era un coltello, la borraccia, un cappello da pescatore, delle monete e… sì, c’era anche un foglio di carta, un unico foglietto mezzo accartocciato. Da dove veniva quel foglietto? Era scritto con una grafia nervosa e minuta, sembrava strappato da un agenda o da una moleskine. Un unico foglio strappato… e il resto del quadernetto… dov’era? Si era seduto ed aveva cominciato a guardarlo incuriosito. Sembrava facesse parte di un diario perché in alto sulla pagina c’era una data. La calligrafia era la sua, la riconosceva, anche se era il modo di scrivere che usava tanti anni prima. Era senz’altro la sua mano. Si mise a leggere, molte parti erano scarabocchiate ma tutto era perfettamente comprensibile:

15/1

Prima giornata piena trascorsa a El Chalten. Tempo splendido, quasi caldo. Fatto una bella passeggiata fino al lago. Saliti a coppie, Florian e Alice davanti, io e Nora un po’ più indietro. Chiacchierato con Nora….mi ha confidato una cosa che non mi aveva mai detto, che lei e Florian anni prima avevano avuto una mezza storia insieme.. niente di male, ho commentato, si conoscono da prima che arrivassi io…Credo che me lo abbia raccontato perché tanto ormai il nostro rapporto è ben consolidato, e anche Florian e Alice sembrano ben affiatati e felici insieme.

Arrivati al lago. Maestosa vista sulle montagne. Nora e Alice si son fermate lì, io e Florian abbiamo continuato fino ad un rifugio. Lì abbiamo mangiato un’ottima zuppa di carne e verdure. Florian lunatico come al solito… in quel paesaggio splendido, degno di ben altre conversazioni, abbiamo finito per litigare per sciocche questioni riguardanti l’itinerario della nostra vacanza… sciocche per me, non per lui… che nervoso… non capisco perché si impunta su qualsiasi cosa come fosse una questione di principio… siamo o non siamo in vacanza? Non so mai se fare il superiore e dargliela vinta o impuntarmi anch’io… Comunque niente di che, siamo scesi giù un po’ rabbuiati, mia unica preoccupazione che Nora non interpretasse nostre facce scure come derivante dalla confidenza che mi aveva fatto… quella non c’entrava per niente… nessun problema, poi si è appianato tutto, niente strascichi, niente sospetti, io e Florian di nuovo scherzato e riso insieme… speriamo questo litigio non abbia conseguenze prossimi giorni… francamente avrei…

Lì finiva la pagina.

Xavier aveva riletto la paginetta più di una volta, aveva studiato attentamente anche qualche frase cancellata, ma era cancellata con molta cura. Anche quello era nel suo stile, se qualcosa andava eliminato non ne dovevano rimanere tracce. Nemmeno nella pagina di un diario privato, che nessuno avrebbe potuto leggere all’infuori di lui. Aveva riconosciuto se stesso, la sua scrittura, emozioni che gli appartenevano; gli sfuggivano tuttavia tante altre cose, il contesto, la storia, il prima e il dopo. El Chalten.

E poi c’era il retro. Qualche riga scritta e accuratamente cancellata e poi linee, segni, frecce, strani ideogrammi, greche, ghirigori nervosi e ossessivi. Sembravano i segni lasciati da chi ha una biro e un foglio tra le mani e sta riflettendo o si sta annoiando o aspettando qualcosa. Non era allora questo la vita, annoiarsi e riflettere ed aspettare qualcosa? Meglio allora un’ esistenza senza ricordi, un fluido scorrere, rammendare una giacca, una volta e un ‘altra volta ancora, guardare tramonti sempre uguali e sempre diversi, stare seduto davanti ad Isabela a collegare inutili tessere di un domino, che importava se la notte lei fuggiva per qualche misteriosa spedizione o se il suo volto si fosse di tanto in tanto trasformato in quello di una volpe?

(E se quei ghirigori erano già la trascrizioni delle parole del vecchio indiano? Allora il vecchio raccontava la vita di Xavier, gliela spiegava, quei segni erano gli unici fonemi in grado di renderne il senso profondo…)

Si era rimesso lo zaino in spalla, il foglietto in una tasca dei pantaloni, stretto nel suo pugno, per poterlo estrarre ogni volta che avesse voluto mentre camminava e rileggerlo e rileggerlo ancora e poi ancora.

Così aveva fatto, mentre nuvole sempre più minacciose scendevano dalle montagne. Il vento cominciava a turbinare e un po’ più a valle, sotto un cielo di piombo, si delineavano le case del villaggio.

Faceva decisamente freddo nel momento in cui Xavier si inoltrava tra le prime abitazioni. Case di legno, tetti di pietra, capanni di attrezzi con coperture di lamiera che stridevano al vento. Più avanti gli sembrava di vedere un rozzo campanile ma la visibilità era sempre più scarsa.

Ad un certo punto gli era sembrato, radente alle case, di scorgere una figura di donna con l’inconfondibile incedere di Isabela. Camminava dandogli le spalle davanti a lui di circa un centinaio di metri. Per un attimo aveva pensato di non richiamare la sua attenzione, si sentiva quasi indiscreto all’idea di coglierla alle spalle, quasi l’avesse spiata e seguita. Però era sempre più angosciato e aveva un disperato bisogno di una presenza umana in quel paese che sembrava abbandonato. O tutti erano chiusi nelle loro case a causa del tempo che volgeva al peggio? Doveva piuttosto cercare una locanda che gli avrebbe fornito riparo. Magari avrebbe anche trovato un telefono. Senza neanche rendersene conto aveva cominciato a camminare a strappi, ora lentamente sbirciando tra le imposte delle case, ora guardando all’indietro, incespicando persino, ora facendo piccoli pezzi di corsa. Per pochi secondi aveva svoltato in una strada laterale poi era ritornato sul viale principale e in quell’istante aveva rivisto Isabela, era ancora distante un centinaio di metri ma non gli dava più le spalle, era rivolta verso di lui e lo aveva visto. Stava per chiamarla, quando lei improvvisamente si era girata e si era messa a correre: Isabela lo aveva scorto e stava scappando… come era possibile? Non lo aveva riconosciuto? Allora lui subito a chiamarla a gran voce; lei si era girata un attimo, ma poi di nuovo aveva ripreso a correre fino a scomparire fra le case. Isabela che fuggiva da lui era qualcosa che non poteva concepire, stava respirando affannosamente, voleva gridare, si sentiva davvero perduto. Che lei fuggisse perché lì, in quel luogo, nascondeva qualche terribile segreto? Al di là dei momenti trascorsi insieme, Isabela rimaneva per lui totalmente misteriosa.

Adesso aveva cominciato anche a nevicare e il bianco vortice accecante gli turbinava intorno. Di colpo sentì come se tutto stesse per sprofondare in un enorme baratro buio senza ritorno, sentiva come una rovina incombente.

Forse se invece che dirigersi al paese fosse ritornato a casa sua, come le altre sere, ancora una volta il vento sarebbe calato e le nubi avrebbero assunto i colori del tramonto, Isabela lo avrebbe trovato seduto sulla veranda e avrebbero trascorso ancora una tranquilla notte insieme.

Ma tutto ormai sembrava compromesso per sempre. Pensò a Florian, lassù in mezzo alla tormenta, pensò al vecchio indiano, forse anche lui aveva bisogno di aiuto, pensò anche al gestore del rifugio, lo immaginava ancora imperturbabile a strofinare bicchieri… e poi a Isabela, probabilmente anche Isabela era in pericolo. Ma di tempo per riflettere non ce n’era più. Ora era entrato in quella che sembrava una fatiscente locanda, naturalmente deserta e piena di polvere e sul bancone aveva subito notato un telefono, un vecchio telefono grigio, ah il telefono – pensava – quel cordone ombelicale di migliaia di chilometri che ancora lo legava debolmente al mondo. Tremando aveva alzato la cornetta, “con molta calma – diceva fra se – con molta calma”, non doveva commettere errori; aveva composto il prefisso internazionale, per fortuna lo ricordava bene, poi finalmente il numero di Nora che mai avrebbe dimenticato ed era rimasto in attesa, prima un lungo silenzio, una serie di scatti, impulsi che correvano chissà dove su cavi scossi dal vento, misteriosi allacciamenti nelle tenebre degli abissi, e infine il suono intermittente e un po’ stonato del segnale di libero, finché qualcuno dall’altra parte del mondo aveva alzato il ricevitore…

“Nora, sono io, sono Xavier, sono a El Chalten, Nora, ti ricordi di El Chalten? Non ho tempo di spiegarti, ma volevo dirti che sto tornando Nora, che torno presto… ma perché non parli… Nora… parlami, non mettere giù!”

La battaglia di Karl Ove Knausgård

1

[Dopo Emmanuel Carrère, Julian Barnes e Donna Tartt, quest’anno il Premio Malaparte, giunto alla XVIII edizione, è andato a Karl Ove Knausgård, autore di Min Kamp, La mia battaglia, un’opera autobiografica in sei volumi, tre dei quali sono già editi in italiano per Feltrinelli: La morte del padre (2014), Un uomo innamorato (maggio 2015) e L’isola dell’infanzia (ottobre 2015).
Quello che segue è il testo scritto da Giuseppe Merlino, membro della giuria presieduta da Raffaele La Capria, e letto in occasione della premiazione; dato che L’isola dell’infanzia usciva in Italia in quegli stessi giorni, qui di seguito si fa riferimento ai soli primi due volumi dell’opera.
Per gentile concessione dell’autore. ot]

 
di Giuseppe Merlino

Quel che ora dirò dei libri di K.O. Knausgård – «La morte del Padre» e «Un uomo innamorato» – lo dirò con prudenza e con la tacita riserva che potrei smentirmi e rinnegare il discorso tenuto oggi, se i prossimi volumi della sua grande opera, intitolata «La mia battaglia», dovessero mettere in luce l’inconsistenza delle mie osservazioni.
K.O. Knausgård è norvegese, nato nel fatidico 1968, e da alcuni anni residente in Svezia. Come ha scritto egli stesso, la sua vita è stata determinata da due soli fattori: suo padre, e il fatto che egli non è mai appartenuto a nessun luogo. Una irrequietezza costante; e viene in mente che san Tommaso, elencando i sintomi dell’accidia – ovvero la malinconia dell’intellettuale –, indicava la instabilitas loci, ovvero la non appartenenza, la inquieta mobilità. Vedremo poi se questa accidia speciale riguarderà, o meno, Karl Ove Knausgård.
Dichiaro subito quale è, a mio parere, il tema dominante di questi due primi volumi.
Roland Barthes dedicò nel 1976 il suo primo corso al Collège de France al tema, immenso, del Comment vivre ensemble? (e scelse come traccia costante il monachesimo orientale, con la sua dialettica tra cenobiti ed eremiti). Il suo corso voleva rispondere alla domanda: «a che distanza devo stare dagli altri per instaurare con loro una socievolezza non alienata, e una solitudine che non sia un esilio?». La domanda di Barthes assilla anche Knausgård che ha scritto di considerare “i pasti, l’intimità e la vicinanza come dei mali necessari”. Dunque il grande tema, che tocca anche i temi più circoscritti, è la prossemica, e cioè la scienza che studia le diverse forme della distanza e della vicinanza tra gli umani, e che cerca un dosaggio di lontananza e di prossimità che non raffreddi troppi i rapporti, né li renda soffocanti.
K.O. Knausgård ha un’inclinazione, un desiderio o una necessità di solitudine che lo spinge fuori dalla casa verso una simbolica cella, ovvero una “stanza solo per lui”. La sua cella è la trascrizione spaziale dell’interiorità e non tollera intrusioni (neanche la familiarità dei camerieri dei caffé di Stoccolma!). Questi primi due libri sono insomma il resoconto di un’ansiosa e insoddisfatta ricerca di un’ars vivendi.
Il primo libro, «La morte del Padre», è dominato dapprima dal corpo indecifrabile e imprevedibile del Padre; da questo corpo – e dai suoi poteri, quasi magici, di rendersi impenetrabile, di conoscere le cose accadute al di là del suo sguardo, di comparire senza fare il minimo rumore di passi, di registrare l’invisibile – deriva l’osservazione costante e ansiosa da parte del figlio. Il Padre condivide alcune caratteristiche con Dio, l’onniveggenza e l’onnipresenza e, come lui, agita il cuore del figlio (anxietas cordis) intimorendolo. Timor Patris, come timor Dei.
Questo primo libro è dominato dal corpo morto, e ormai legnoso, del Padre; dai segni escrementizi lasciati dal suo lungo disfacimento, abbandono e tracollo fino all’agonia e alla morte. Il Padre resterà insepolto, in un deposito, per dieci anni, quindi non sarà del tutto morto, e sarà vendicativo come sapevano bene gli Antichi, per i quali il non-sepolto scatenava le Erinni. Accanto al corpo del Padre, come suo riflesso secondario, ma memorabile, c’è il corpo scarnito e non lavato della Nonna, compagna incolpevole della caduta del figlio, testimone unica e silenziosa di quell’evento innominabile.
Il secondo libro, «Un uomo innamorato», tiene insieme molte rubriche.
L’apparizione di Linda e la passione impetuosa che ne scaturì; un’apparizione feconda di felicità: una folgorazione con beatitudine; è il discorso amoroso.
La vita domestica vissuta – a intermittenza – come una tirannia gravosa, e come esercizio ascetico per il miglioramento di se stesso; è la colluttazione etica.
Il cambio di Nazione – dalla Norvegia alla Svezia – che implica un’esperienza nuova di ipermodernità, di ipercorrettezza civica e di iperintellettualizzazione della vita; è il discorso sulle ideologie e i loro decaloghi.
La consuetudine di incontri con l’amico Geir Gulliksen, brillantissima voce saggistica e critico insuperabile delle forme sociali svedesi, formatosi alla migliore cultura antiliberale; è il discorso dell’amicizia.
E il rovello della propria scrittura, dapprima paralizzata e infelice, e poi fluida e abbondante come un fiume fragoroso; è il discorso delle Muse: inaffidabili e poi munifiche.
L’opera di K.O. Knausgård è apertamente autobiografica, laddove Proust, al quale è stato più volte accostato, chiede insistentemente di non giudicare mai il suo romanzo come un’autobiografia mascherata, e si affretta a scomparire dietro un Eroe ingenuo, un accudito da un Narratore perspicace.
Knausgård dichiara il suo intento autobiografico, senza alcun cedimento all’autofiction, così diffusa oggi, e cioè, a una autobiografia semifittizia. Knausgård, autobiografo, non scrive le Confessioni, come fece sant’Agostino, perché la sua non è una lunga lettera a Dio; non scrive un autoritratto, umanistico ed erudito, come Montaigne; né scrive un Mémoire al modo seicentesco perché non si cura della propria immagine presso i posteri; né scrive un’autobiografia che lo proponga come modello esemplare a un’Europa malata di troppa civiltà come fu il meraviglioso, settecentesco e spudorato libro di Jean-Jacques Rousseau.
E che cosa è, allora, questo lungo libro di K.O. Knausgård? E’ una battagliera Ricerca sulla propria esistenza, che, procedendo, imbarca ogni genere di materiali, di mezzi e di forme; che è narrativa, digressiva, retrospettiva e saggistica. Knausgård, un vero protestante, come gli dice il suo amico Gulliksen, tiene fede al duro patto dell’autobiografo con il lettore: ti dirò tutto di me.
La sua è una Ricerca della parte di verità che si annida in alcune parole che lo riguardano molto da vicino: paternità (vissuta da figlio e da padre), coniugalità, socialità, letteratura, finzione, morale, e altre ancora. K.O. Knausgård, come Proust, è un cercatore di essenze, ma che differenza tra le essenze dell’uno e quelle dell’altro! Proust cerca le grandiose essenze del Tempo e del Bello, intraviste nel dormiveglia, fugacemente emerse dall’oblio, e infine offerte nei momenti di estasi, cortocircuiti di sensazioni e memoria. La grande dimostrazione di questa Recherche finita bene si trova nel Tempo Ritrovato dove si proclama l’avvio dell’opera che abbiamo appena finito di leggere. Avvio fragile perché incombe la Morte.
Karl Ove Knausgård, come un filosofo medievale, cerca i realia, le realtà corporee e materiali, i volti, i gesti, i climi, i paesaggi, le evidenze millenarie, le realtà indiscutibili eppure svanite ora nel predominio delle immagini e nel primato moderno dello “spirito”: non più corpi, ma solo idee sui corpi. Egli cerca rocce nel mondo che è diventato liquido.
Le duecentocinquanta pagine del primo volume dedicate alla morte del Padre sono un formidabile esempio di questa sua ricerca. Il lordume sparso in tutta la casa dove il Padre è morto gonfio di alcol e di solitudine, la putredine, il fetore, l’alterazione mentale della Nonna, tutto è raccontato in termini visivi, tattili, olfattivi, corporei, materiali: anche lo strano dolore che prova Karl Ove si materializza in lacrime irreprensibili e copiose, senza discorsi.
E materiale sarà anche il racconto della ostinata purificazione della casa, grazie ai detersivi nominati di continuo e usati in abbondanza. I detersivi puliscono e riparano lo sfacelo, ma sono anche gli agenti insidiosi della contemporaneità: spalmano sul nostro mondo un identico olezzo, gradevole e falso; uniformano e confondono.
Ho detto del genere autobiografico della grande opera di Knausgård; ora direi una parola sul genere diario (nato del resto negli ambienti del pietismo nordico), che la riguarda e che piace all’autore. Del Diario, Knausgård abolisce la regola dell’annotazione quotidiana, ma accetta pienamente l’altra: la coesistenza di episodi e descrizioni minime, irrilevanti e impercettibili, con fatti memorabili e avvenimenti gravidi di conseguenze. Il risultato è un flusso, non una composizione gerarchica. Come il diarista, egli è un osservatore tenace del quotidiano e della ripetizione; un annotatore che verbalizza il vissuto e il pensato, che è cronista e analista. Come il diarista egli pratica la digressione, ma in maniera ampia e connessa col testo, e non stenografica come richiede il diario la cui misura è la pagina. La forma diario funziona anche da pro-memoria, aiuta il ricordo che in Knausgård è fluttuante e soggetto a profonde e vaste dimenticanze. Il diario è anche un’umile prova della esistenza di chi lo scrive, e forse perciò Knausgård si obbliga a osservare l’antico precetto del nulla dies sine linea, accompagnato da un cogito che suonerebbe così: scribo ergo sum.
Molte cose ancora mi piacerebbe poter dire sull’imbarazzo sociale di Knausgård, sulla sua imbranataggine maschile; sulla strategia della compiacenza da lui scelta, ovvero l’assunzione della mitigata menzogna, il mendacium officiosum come la chiamavano i moralisti, scusandola perché favoriva le relazioni sociali; sull’orrore provato per la propria femminilizzazione di padre casalingo, mentre in lui “si agita un furibondo maschio dell’Ottocento”; sull’innocenza che gli attribuisce l’amico Gulliksen; sui quadri da lui preferiti, che sono scandagli di strati dell’esistenza: Il Baro di Caravaggio, l’ultimo autoritratto di Rembrandt e un paesaggio di nuvole di Turner; e così via.
Ma non posso dilungarmi oltre e concludo con un’ultima, rapida osservazione. Definirei, provvisoriamente, l’opera di Knausgård come l’opera di un anti-moderno. Chi è l’anti-moderno, oggi? e restringo la parola alla vita intellettuale. E’ colui che sa che un mondo, una cultura o un’arte sono finiti, ma li ama ancora e li frequenta. Come disse Barthes di se stesso, essi sono la retroguardia dell’avanguardia.
L’anti-moderno stenta a uscire dal lutto per il passato e vive, in una tonalità malinconica che lo rende lucido e libero rispetto al moderno. Gli anti-moderni sono dei moderni sagaci e disillusi. L’esempio più lampante è Baudelaire che inventa la prima idea di moderno e si distoglie da essa.
A me sembra che Knausgård racconta e vive le sue tribolazioni morali dentro questa condizione intellettuale ed emotiva, e ha scritto perciò un’opera singolare, dissidente, avvincente e lungimirante.

“Dal corpo abitato”

7

copertinacorpo

di Matteo Pelliti

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Sistema cardiocircolatorio

Era l’ansia di avere
questo sistema cardiocircolatorio
perennemente fuori norma, fuori legge,
la caldaia è il cuore malato della casa,
l’ictus, l’infarto, il blocco improvviso.

Da alcuni mesi l’acqua calda non partiva più
se non stavano accesi pure i riscaldamenti,
eravamo già in piena estate.

ROBERTA BORSANI Il labirinto e il Minotauro

5

ganse1649a

Kurzer Bericht dieses Gänse Spieles [1649]

di Roberta Borsani

da ⇨ Sul dorso di un’oca
Il simbolismo iniziatico del Grande Gioco
ed. Moretti&Vitali [2015]

    Il Labirinto attende il giocatore alla casella numero 42. Finirci dentro significa regredire di un bel salto, fatto di 9 caselle all’indietro e finendo così al numero 33. Quarantadue: se si sommano le sue unità si trova il 6, lo stesso che si ottiene sommando 3 + 3: sei, il numero del ponte. A volte – ci viene spiegato allegoricamente – occorre tornare indietro per ritrovare lo slancio e correggere il tiro inseguendo la giusta misura tra entusiasmo e sacrificio. trentatré è un numero che parla da solo. Il numero della passione e della dedizione assoluta, resa fino alla morte. Al trentatré Dante ha dedicato nella Divina Commedia (narrazione poetica di un grande viaggio iniziatico) un’attenzione particolare: è infatti il numero dei canti che compongono ogni cantica (nell’Inferno sono 34 per la presenza di un canto introduttivo) e il numero dei versi di ogni terzina (strofa di tre versi endecasillabi).
Il labirinto è un simbolo potente, la cui origine si perde nella notte dei tempi. L’età antica mise la nascita della civiltà, una nascita drammatica e oscura, nel cuore di un labirinto. Posti al centro di un inestricabile groviglio, si trovarono faccia a faccia l’uomo e il mostro. Il primo trafisse con la spada il mostro e celebrò sotto gli occhi del cielo la vittoria dell’umanità sull’istinto, dell’ordine sul caos, della tecnica sulla forza, dell’intelligenza sul sangue.
La vicenda ha origine sulle coste del Libano, dove la bella Europa, fanciulla dagli occhi grandi e lucenti, viene amata e rapita da Zeus, il quale l’avvicina assumendo l’aspetto di un giovane toro. Europa lo incontra mentre gioca sulla spiaggia con le compagne. L’aspetto mansueto e giocoso dell’animale vince la sua naturale ritrosia, tanto che gli si spinge accanto per ornargli festosamente le corna di una corona di fiori freschi. Ecco che il toro dà uno scatto, la prende rapidamente sul dorso e incurante delle sue grida si getta nelle acque del mare, nuotando fino alle coste dell’isola di Creta. Qui, riassunte le divine sembianze, Zeus sfoga la sua passione e si unisce alla vergine.
Minosse, il primo re di Creta, è il frutto di questa unione. Divenuto adulto sposa Pasifae (“la luminosa”), una donna piena di nobiltà ma poco incline alla passione amorosa, se è vero che trascura il culto di Afrodite fino a farla infuriare. la dea, suscettibile e vendicativa, la punisce ispirandole una mostruosa attrazione per un toro. Bellissimo di aspetto, fa parte di una coppia di tori che il dio del mare Poseidone ha donato a Minosse perché li destinasse ai sacrifici celebrati in suo onore (Il dio del mare è potente a Creta). Minosse però, ammirata la possanza delle bestie, decide subdolamente di destinarla alle proprie mandrie, piuttosto che “sprecarla” per un sacrificio. I tori sacri vengono sostituiti con altri esemplari, sani e prestanti finché si vuole ma certo di valore inferiore a quelli di Poseidone. Colpevoli per ragioni diverse (per freddezza apollinea Pasifae, per avidità Minosse), i due sovrani vengono puniti attraverso la inaccettabile ferinità della passione di cui cade vittima Pasifae.
Decisa a sedurre il toro di cui si è perdutamente invaghita, la regina di Creta trova nel geniale Dedalo un valido aiuto “tecnologico”: una vacca artificiale, di legno, all’interno della quale la regina si posiziona di nascosto. Il risultato dello spaventoso accoppiamento è la nascita di un individuo dall’aspetto in parte umano in parte animale: il minotauro, toro dalla cintola in su e solo per il resto uomo. Ricorda forse altri esseri mitologici, come i centauri: ma il minotauro ha una caratteristica agghiacciante: la parte animale infatti domina laddove hanno sede ragione, linguaggio e sentimenti (testa, cuore, bocca), annullandoli.
Il Minoaturo è un essere bestiale, posto sulla linea di confine che separa le due nature, umana e animale: non è pienamente responsabile dei suoi desideri e delle sue azioni come lo è un essere umano e tuttavia, a causa della sua origine in parte umana, nemmeno innocente. l’ambiguità e la confusione (ricordo del connubio orrendo), lo caratterizzano intimamente, dilatandosi a comprendere anche lo spazio in cui vive. Il labirinto irradia intorno al Minotauro quel viluppo di passioni mostruose che la civiltà respinge come inaccettabili, facendone oggetto di divieto assoluto, un tabù. Chi lo infrange cade nel baratro di una maledizione eterna, senza perdono, che le generazioni scontano via via. Il labirinto racchiude al suo interno l’essere ripugnante, di cui Pasifae e Minosse si vergognano perché ricorda loro sia la caduta al di sotto del margine minimo di civiltà commessa da Pasifae, sia la disonestà con cui il re ha cercato di beffarsi del dio.
Il labirinto è stato ideato da Dedalo, responsabile agli occhi di Minosse di quanto è accaduto: senza il suo contributo, la sua techne, forse Pasifae non avrebbe potuto soddisfare le sue voglie e il Minotauro non avrebbe mai visto la luce, rimanendo come una cupa ombra a livello delle pulsioni larvatiche che popolano i cattivi sogni. Il figlio tarato, portatore delle peggiori degenerazioni, rappresenta simbolicamente il viluppo di istinti socialmente inaccettabili, radicati in parte in una natura ancora animale, su cui però la storia ha impresso il marchio dell’uomo. Tali istinti non possono essere considerati vitali, immediati e innocenti: un barlume di consapevolezza li illumina e li rende contorti e mostruosi. La strada che corre tra l’animale e l’uomo è lunga (milioni di anni dirà la dottrina dell’evoluzione delle speci): chissà quante volte si è avvitata su se stessa, chissà quanti ghirigori e giravolte. Quanti labirinti e degenerazioni.
Il Minotauro non ha normali appetiti: non umani e neppure naturali. Sono fatti di cerimoniali psicotici, da serial killer: domandano un regolare tributo di vergini, maschi e femmine, che ogni sette anni vengono inviati dalla Grecia per essere gettati nel labirinto e dati in pasto al mostro. Il tortuoso percorso attraverso cui insegue le sue vittime prima di divorarle, fa pensare a una danza, come scrive nel 1985 Friedrich Dürrenmatt («e quando lui cominciò a danzare, cominciò a danzare la fanciulla e le immagini di entrambi danzarono anche loro (…) Danzarono, e danzarono le loro immagini, e lui non seppe di prendere la fanciulla, non poteva nemmeno sapere che l’uccideva, perché non sapeva che cos’era vita e cosa morte»). La danza ci porta all’immagine della cerimonia sacra, della rappresentazione e quindi del gioco come mimicry. La natura del gioco che l’insieme delle vicende assume, configurandosi come complesso cerimoniale con regole, ritmi suoi propri (il sacrificio avviene a intervalli regolari di tempo, il numero dei sacrificati e le loro caratteristiche non mutano) smorza il senso di realtà, spogliando le coscienze di quanto di spaventoso e irreparabile sia l’evento delittuoso. È quel che accade nei delitti seriali, almeno come ce li raccontano i giornali o gli scrittori di genere. La serialità, i cerimoniali, l’allestimento preciso delle scene in cui si consumano i delitti, fanno pensare al gioco: in quel gioco, come dentro un labirinto, una mente già compromessa si smarrisce del tutto. La realtà tramonta dietro l’orizzonte dell’angosciosa finzione in cui tutto è possibile. Il rito smette di essere ponte salvifico tra l’umano e il divino, trascinando al contrario verso il basso dove il diabolico (principio di lacerazione) tesse la nera tela di un mistero che fa impazzire gli adepti.

Teseo e il minotauro
Teseo combatte il Minotauro, assistito da Atena
[430 a.C] Museo Archeologico Nazionale di Madrid

L’eroe infido e la coppia celeste

A uccidere il Minotauro sarà un giovane ateniese, Teseo, figlio del re Egeo, giunto volontario insieme ai suoi coetanei destinati al feroce pasto. Porta con sé una spada e l’orgogliosa consapevolezza di essere l’eroe predestinato a uccidere la Bestia. Il giovane però non conosce le insidie del labirinto: la sua audacia può condurlo ad assaltare l’avversario, colpendolo in un punto vitale, ma nulla sa dei disegni tortuosi dove la forza può ben poco e solo la sottigliezza della mente salva. Potrà uscire vittorioso dal labirinto se qualcun altro gli verrà in aiuto. Qualcuno che conosce la natura ingannevole del labirinto in cui sa destreggiarsi resistendo a false tracce e inviti bugiardi. Qualcuno che ha la danza così ben intimamente fissata da poterla danzare a occhi chiusi, senza perdere l’orientamento, conoscendo il centro e l’uscita. Questa figura di danzatore primario è rappresentata da Arianna, la figlia di Minosse. Disgustata dagli appetiti sanguinari del fratello e innamorata dell’eroe, metterà in guardia quest’ultimo dai pericoli che lo attendono e gli offrirà un filo da tenere legato al polso e da svolgere lungo le infinite giravolte del cammino. Dall’esterno del labirinto lei terrà stretto l’altro capo e permetterà a Teseo, una volta ucciso il Minotauro, di trovare la via d’uscita. In questa storia salvarsi significa infatti uscire, venire all’esterno, alla luce: emergere dalla confusione di pulsioni ossessive e mostruose alla chiarezza delle forme ben delineate, collocate nel giusto ordine. Il contrario del labirinto è il cosmo la cui bellezza sta nella misura, principio di proporzione e armonia. L’uomo garantisce mediante la proporzione della sua figura e la simmetria delle parti che lo compongono il modello attraverso cui giudicare la bontà dell’esistente. L’uomo di Vitruvio giudica il Minotauro e tutte le creature fuori misura o asimmetriche come inadeguate, primitive, malriuscite.
L’unilateralità di questo punto di vista, insieme ai pericoli a essa connessi, viene denunciata simbolicamente dallo stesso mito. Arianna ha aiutato Teseo nella sua impresa e non può restare presso la casa del padre e della madre che ha tradito mettendosi contro il suo stesso sangue (Arianna la luminosa e l’oscuro Minotauro sono entrambi figli di Pasifae). Pertanto decide di partire con il giovane principe ateniese che per ottenere il suo aiuto ha finto di corrispondere al suo amore.
Teseo è bello, valoroso, ma la sua apparenza solare non lo salva dall’insincerità e dalla freddezza di un animo opportunista e calcolatore. Il suo chiarore corrisponde al disegno lineare del gesto che compie l’arciere quando punta il suo obiettivo senza vedere nient’altro intorno a sé. Pura progettualità, in opposizione alla confusione brutale in cui si dibatte il Minotauro, afferra da Arianna il filo, espressione di razionalità ma anche del legame che unisce le creature fra loro. Lo afferra ma non lo accoglie: lo considera solo uno strumento, privandolo di tutte le valenze simbolico– affettive che il filo può avere.
Infatti, giunto all’altezza dell’isola di Nasso, l’astuto ateniese fa fermare la nave e sbarca insieme alla principessa. Attende che lei si addormenti e poi la abbandona senza apparente rimorso, facendo rotta per Atene, dove un’altra vita lo attende, una vita in cui per Arianna non c’è posto.
Fortunatamente, al risveglio, la giovane ha appena il tempo di disperarsi: giunge infatti in suo aiuto Dioniso. L’imprevedibile dio beve con viva partecipazione il doloroso racconto della sua storia infiammandosi di nobile passione. Subito le chiede di divenire sua sposa e la introduce nelle alte sfere degli immortali, donandole in pegno di amore eterno la corona gemmata che porta sul suo capo biondo di dio. Il gioiello, lanciato in aria, va a formare la corona astrale boreale. Le nozze vengono celebrate alla presenza dei numerosi personaggi che viaggiano al seguito di Dioniso recando in mano i magici tirsi. Infine la coppia svanisce su un carro d’oro trainato da sei pantere.
Spicca il contrasto tra Teseo, eroe solare dai risvolti così meschini, e Dioniso, dotato di grande empatia e impulsivamente generoso, capace di giurare un amore eterno. Tra le molte versioni del mito, alcune raccontano che sia stato Dioniso a ordinare a Teseo di abbandonare Arianna. La sostanza non cambia: quello che conta infatti non è la natura psicologica o morale dei personaggi, ma le ragioni per cui la coppia Teseo-Arianna non funziona e quella Dioniso- Arianna invece sì.
È evidente che Teseo tratteggia le caratteristiche di un maschile immaturo e incompleto: realizza il compito di uccidere la bestialità che ambiguamente sopravvive nell’uomo, uccidendo anche tutto ciò che di empatico e non riducibile alla razionalità finalizzata al successo, vive nell’uomo: emozioni, solidarietà umana, pietà. Chi ha ucciso il Minotauro ha brillato di un eroismo marziale inadeguato agli alti compiti del regno. Non può regnare chi non sa accompagnarsi a una sposa come Arianna, colei che con il suo filo fa nascere (facendo uscire dal un mondo tutto intestino e sotterraneo). Spumosa incarnazione della dea madre.
Nel labirinto ci si può perdere per sempre e perire, ma per chi ne conosca i segreti uscire è possibile. L’uscita però non è meno pericolosa dell’entrata: ne sa qualcosa Dedalo, ideatore del labirinto e perciò condannato da Minosse a rimanere prigioniero all’interno della costruzione con il figlio Icaro, affinché non riveli a nessuno la via di fuga. È per scampare all’orrenda prigionia che escogita lo stratagemma delle ali di cera, a causa del quale Icaro perisce miseramente cadendo in mare. Infatti, preso da eccessivo entusiasmo, si avvicina troppo al sole, i cui raggi scaldano e infine sciolgono la cera. Anche Icaro, come Teseo, viene punito da un principio luminoso e solare che per essere “maneggiato” va mescolato con giuste parti d’ombra.
Teseo è bruciato dalla sua ragione astuta e finalizzata all’utile, capace di frodi e raggiri (versione astratta del labirinto): incontrerà la sua punizione perdendo il padre, che prima di partire, incerto del risultato dell’impresa, gli aveva chiesto, in caso di successo, di tornare ad Atene con vele mutate e di colore bianco. Nella fretta di abbandonare Arianna, Teseo dimentica di cambiare le vele e torna in patria con quelle nere utilizzate all’andata, quando la nave portava il triste carico di giovani da sacrificio. Scorgendole il padre Egeo si getta disperato in mare: Dedalo perde il figlio e Teseo il padre. Entrambe queste tragedie hanno a che fare con l’astuzia umana che sfida l’ordine naturale delle cose: Dedalo permette a Pasifae di unirsi con un toro costruendo la macchina a forma di vacca, Teseo raffredda le corde del cuore e abbandona colei che lo ha tratto in salvo e lo ha fatto nascere come eroe – eroe non di una semplice avventura, ma fondatore di civiltà. È infatti propria della civiltà la repressione della brutalità e del commercio di sangue implicito nei sacrifici umani.
La figura di Teseo sbiadisce nelle foschie del tradimento. Non è su uomini semplicemente agili e ambiziosi che può fondarsi una civiltà. Per farlo ci vuole profondità, quella che Dioniso ha in abbondanza. Nel mito Dioniso raffigura un maschile positivo, “alternativo”: solare e lunare insieme. È lui lo sposo ideale di Arianna, bella genitrice di eroi ed evocatrice di destini, rappresentati simbolicamente dal filo che, come Cloto, essa genera dallo stame della vita. Lo stame è la parte fertile maschile del fiore: come Dioniso ha in sé il femminile, così Arianna porta con sé la forza generativa del maschile. Entrambi costituiscono una coppia particolarmente riuscita, fatta dell’unione di elementi complementari e ciascuno abbastanza completo e maturo da non creare un rapporto simbiotico.
Chi ha conquistato l’equilibrio interiore e la libertà dello spirito, integrando tutte le energie fisiche e psichiche, maschili e femminili, centripete e centrifughe, può superare il rischio mortale del labirinto e scoprire, nell’atto del fare dono di sé, l’accordo profondo tra avere ed essere.

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Guscio dello spirito

Uno dei luoghi più importanti della Cristianità, centro d’attrazione attraverso i secoli per migliaia di cristiani e inestimabile tesoro per gli storici dell’architettura religiosa, è la cattedrale di Chartres. Sul suo pavimento fu collocato un labirinto, composto da un percorso ondulante, fatto di giravolte che si snodano attraverso centri concentrici. Seguendolo non ci si perde, ma si ritorna al centro, al punto in cui partenza e ritorno, alfa e omega coincidono – Dal centro si può quindi ripercorrere il cammino e ritrovare l’uscita.
Nessun immagine di disordine quindi, solo complessità. «Attraversandone le giravolte… si scopre che non si tratta di un labirinto, nel senso che offre una confusione di scelte, ma piuttosto un tracciato ondulante attraverso cerchi concentrici, che porta inevitabilmente a casa».
Il Medioevo ha una naturale avversione per il disordine, che non combatte con la misura e la proporzione nel modo della cultura e dell’arte classica, ma con la gerarchia, fatta di livelli diversi, ciascuno correlato agli altri, anello di congiunzione fra gradi distinti. Del resto anche il labirinto cretese ha un suo ordine: è unicursale, presentando un unico percorso che, svolgendosi attraverso sette spire, porta al centro e poi di qui, ripercorrendolo all’indietro, nuovamente all’entrata.
Sul labirinto della cattedrale di Chartres i bambini giocavano, come i bambini di ogni tempo hanno giocato e saltellato su tracciati del “mondo”, a forma d’albero o a spirale. Disturbavano forse il momento serioso delle omelie, tanto che nel 1799, quando ormai il senso potente della rappresentazione simbolica era andato perduto, sostituito anche in ambito religioso da una visione più razionale della realtà e da una morale utilitaristica, il labirinto fu rimosso dal pavimento.
I percorsi labirintici tracciati sui pavimenti delle cattedrali medievali erano considerati validi sostituti dei pellegrinaggi nei luoghi santi, per questo venivano chiamati anche “Chemins à Jérusalem”: il devoto doveva percorrerli in ginocchio, pregando, con un rosario attorno al collo.
Il labirinto viene così a costruire una sorta di guscio all’interno del quale si nasconde l’essenza del sacro, che va protetta dalla superficialità e dalla faciloneria di chi pretende di ridurre anche il dialogo con Dio al frasario convenzionale dei manuali di catechismo.
Luogo di smarrimento, come i boschi delle fiabe in cui bambini e fanciulle si aggirano cercando il sentiero verso casa o un lumicino, il labirinto rappresenta una esperienza indispensabile per chi voglia maturare la pazienza, l’umiltà, la prudenza: virtù necessarie in ogni apprendistato, anche in quello dello spirito. Il mistico può saltare le tappe perché tutto in lui arde e vola verso l’alto come la punta estrema della fiamma. Chi invece varca per la prima volta le porte del mistero che circonda il divino deve muoversi con circospezione, sviluppando una nuova sensibilità: una esclamazione affrettata, un gesto troppo brusco, una parola di troppo potrebbero dissolvere la nube su cui posa il dio e annullare il viaggio. Il labirinto può parere una inutile perdita di tempo a chi pensa al fine come a una conquista e cerca passaggi e scorciatoie per arrivare più presto. Ma all’uomo di spirito il labirinto insegna le giuste movenze, tra introversione ed estroversione, riproducendo il percorso di ogni nascita: quello che il nascituro prossimo alla luce compie, strisciando nello stretto canale uterino, tra fibre che si contraggono e si rilasciano (contrazione ed estensione), polmoni che inspirano ed espirano, avanzando e – in misura minore – tornando, combattendo palmo a palmo contro la paura e la tentazione della rinuncia (il risucchio).
Il cervello umano, rinchiuso come una preziosa reliquia nella scatola cranica, presenta una struttura un po’ labirintica, determinata ad esempio dalle circonvoluzioni cerebrali, protuberanze di forma ondulata delimitate da solchi. la corteccia cerebrale appare come tutta accartocciata, con l’aspetto dei gherigli di una noce, contrassegnati da sporgenze e irregolarità, molto simili ai due lobi del cervello. A sua volta questo prezioso frutto, che in passato forniva la giusta riserva di serotonina, vitamina E e B6 e di grassi omega 3 (tutti ingredienti indispensabili al nutrimento del cervello) alle popolazioni contadine, ricorda nell’aspetto variamente segnato da rientranze e rilievi ondulati, il labirinto. Con il suo guscio la noce richiama inoltre il tabernacolo in cui si nasconde il corpo di Dio divenuto pane, nutrimento e salvezza dell’anima (e la noce è stata appunto definita il “cibo del cervello”, organo del corpo in cui ha sede la mente). Il senso è sempre quello di uno spazio sacro ben raccolto e protetto, in cui il profano non deve guardare. Il guscio rappresenta per analogia gli ostacoli da superare, la difficoltà del cammino, evocando le virtù dell’umiltà e della pazienza, indispensabili a chi voglia tornare a casa (il centro) e nutrirsi del pane di Dio. Pane per tutti gli uomini di buon volontà.

CHARLES PERRAULT Le Labyrinthe de Versailles [1677]
Incisioni di Jacques Bailly [Crédit: Petit Palais/Roger-Viollet]

MARIN MARAIS [1656-1728] Le Labyrinthe [Jordi Savall]


Il Labirinto di Versailles

Negli ultimi decenni dell’epoca rinascimentale si diffonde in Europa una particolare architettura labirintica, di natura vegetale: il labirinto di siepi. Fu costruito nel 1677 nella reggia di Versailles durante il regno di luigi XIV, il “Re Sole”, fautore dell’assolutismo monarchico. Lo corredavano trentanove fontane, arricchite di particolari scultorei in metallo dipinto raffiguranti gli animali della favole di Esopo, dalle cui bocche sgorgavano getti d’acqua e fontane, a rappresentare la forza vivida della parola con un effetto, stando alle testimonianze, di straordinaria efficacia. Gli animali, tratti dalle più note favole di Esopo, scelte dal re in persona, parevano vivi. Una placca portava inciso un riassunto in versi della particolare favola cui la scultura era dedicata.
Ideatore di questa originale versione del labirinto era stato lo scrittore di fiabe Charles Perrault, il quale aveva suggerito al re di utilizzarlo per l’educazione del delfino, il primogenito di 7 anni, il quale, pare, imparò a leggere decifrando i segni incisi sulle placche di bronzo.
Perrault lasciò ai posteri una minuziosa descrizione del giardino (sostituito nel 1778 per ordine di Luigi XVI con un più pratico giardino all’inglese) nel libro Le Labyrinte de Versailles, illustrato da magnifiche incisioni. Sappiamo così che l’organizzazione dello spazio era davvero insolita: non c’era un punto centrale verso cui dirigersi, le siepi erano alte addirittura 5 metri: smarrirsi per i cortigiani non era affatto impossibile. Tuttavia, a chi sapeva decifrare il significato allegorico degli animali e imparava a ponderare scelte e soluzioni, il labirinto rivelava i suoi segreti e si lasciava esplorare. Segreti, non più misteri. Intimità di anime annoiate e complicate, tortuosità psicologiche e morali cui occorreva insegnare lo spavento del disordine, la paura di non farcela a ritrovare la strada del ritorno, il pericolo insito nel fascino dell’illusione. E tutto questo perché l’uomo di corte andasse a rifugiarsi nelle braccia del re: principio unico, lui, di ordine e misura, garanzia di certezza e realtà. Il labirinto è la riproduzione artistica della selva, in cui il cortigiano di Versailles non corre certamente il rischio di perdersi, irretito com’è nel gioco di luci della reggia: un caleidoscopio di eleganza, stupore ed emozioni, ideato dal sovrano. Un labirinto in cui gentiluomini e dame smarriscono il sentimento della propria irripetibilità passeggiando in su e in giù, senza andare in alcun posto, conducendo una vita fatta della trama di cui sono fatti i sogni. Il regista luigi XIV intanto pensa allo Stato, disegna le strade, costruisce i ponti, predispone carrozze su cui possano viaggiare gli uomini d’affari e i forzieri pieni di monete ricavate dalle imposte, i soldati e le casse di polvere da sparo, gli ordini del re e le merci.
Scintillante di meraviglie, affollato di cuori palpitanti d’emozione e di esclamazioni allarmate e poetiche, con le sue fontane alimentate ad arte dall’acqua della Senna, e i suoi animali parlanti, il labirinto di Versailles ha perso legami con il sacro. È toccato anche a lui di diventare instrumentum regni. l’iniziazione a esso connessa è pertanto perduta e si è trasformata in insegnamento moralistico. Lo scopo non è più il centro (che infatti non c’è più): non Dio e neppure il Bene. Semmai l’adattamento sociale, frutto dell’obbedienza, scambiato per il bene dal senso comune. Restano tuttavia le testimonianze di un’opera artisticamente ammirevole, che ha ispirato anche il noto musicista dell’epoca, Marin Marais, il quale al bel labirinto ha dedicato una sapiente composizione, in grado di riprodurre attraverso le note lo stupore, lo smarrimento e il sollievo finale del visitatore.

Anteprima Sud. 23 novembre 1980

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L’Ottanta

di Giusi Marchetta

L’ultima volta che sono tornata a Caserta, è venuto pure lui per conoscere mamma. È stato bravo: ha bevuto il caffè e ha detto che era buono, si è tenuto il gatto addosso e ha fatto finta di niente quando lei mi ha fatto notare che gli restano pochi capelli. Alla fine della visita è sceso in cortile a fumare e a lasciarci un po’ da sole per dirci le cose che davanti a lui non avremmo detto.

Più tardi l’ho trovato sulla panchina di fronte a fissare il palazzo.

– E quella?

È una crepa sottile, un lungo ghirigoro che rompe la monotonia rossa della facciata.

– L’Ottanta – dico e basta. Sono trentacinque anni che sento questa risposta e non c’è mai stato bisogno di aggiungere altro. Fa sì con la testa. Ha capito.

Pensa al terremoto, ai morti sepolti sotto le proprie case. Lo pensa perché non sa niente di Carmela e non sa che tutto è crollato per colpa sua.

Abitava nel nostro palazzo, al piano di sotto, con la madre e un padre che quando Carmela era molto piccola avevamo visto salire su un’ambulanza e che non era più tornato. Sapevamo che era vivo perché la moglie andava a trovarlo in clinica una volta a settimana, lasciando la figlia a chiunque si offrisse di tenerla, ma di che malattia si trattasse a noi bambini non era dato saperlo. Del resto ci sembrava normale e perfino giusto. Molti di noi già avevano già capito che il mondo degli adulti era molto simile al teatro della parrocchia: dietro le quinte Calabrò era il salumiere che se capitava bestemmiava con trasporto; quando usciva sul palco con la tonaca di don Bosco gli cambiava pure la voce.

In compenso conoscevamo molto bene lo spazio tra le panchine del cortile e il campo giochi, quel morso di terra invaso dalle erbacce dove i ragazzi buttavano le cartelle per fare le porte e giocare a pallone. Passavamo interi pomeriggi sedute sui marciapiedi grigi tra le palazzine: inventavamo storie o vendevamo paccottiglia ai passanti. Qualcuna portava le sue bambole, a qualcun’altra non era permesso e dovevamo darci appuntamento sotto il suo balcone a un’ora precisa per darle la possibilità di mostrarci da lontano l’ultimo acquisto. Qualche volta non andavamo per non darle soddisfazione. Eravamo tranquille, buone, educate tranne quando smettevamo di esserlo. Sempre meglio dei maschi, comunque.

I miei genitori si erano sposati a diciott’anni e io ero arrivata poco dopo, troppo poco agli occhi di chiunque. Li avevano perdonati, però, perché erano innamorati e bellissimi con occhi nocciola e capelli neri e folti come criniere. Col passare degli anni i vicini perdevano il lavoro, avevano figli da allattare o mantenere, cominciavano a tenersi la barba o la pancia, si sformavano in viso e sui fianchi. I miei no.

Mio padre andava al lavoro fischiando. Gli piaceva l’edicola e l’odore dei giornali appena stampati. Quando passavo a trovarlo mi dava la settimana enigmistica da portare subito a casa; era appena arrivata, non ce l’aveva ancora nessuno, diceva e mi faceva pure l’occhiolino, ma io lo sapevo che anche quello era per lei. L’amavamo moltissimo tutti e due, ma era naturale, un sentimento dovuto: nessuna donna delle palazzine era come Caterina.

All’uscita di scuola, le altre madri mi fermavano per chiedermi sorridendo della bella ragazza che mi aspettava al cancello. Era mia sorella grande? La raggiungevo di corsa, ci allontanavamo insieme, mi sentivo il loro sguardo sulla schiena che ci seguiva, serio.

Carmela, invece, la odiava. Aveva solo un anno più di me, ma già sapeva mescolare la perfidia ai gesti quotidiani in piccole dosi per renderli abbastanza amari da sopportare senza che sconfinassero in un’aperta ostilità. Quando Caterina passava per le scale, rimaneva seduta con il libro tra le mani, come se fosse stato impossibile interrompersi per farsi da parte. Se la incontravamo dal fruttivendolo, cercava di incrociare il mio sguardo poi increspava le labbra, baciando il nulla. Accanto a me Caterina scherzava con Michele per farsi mettere più odori nella busta.

C’era in quell’ostilità e in quelle smorfie un’accusa non detta e che neanche capivo. Qualcosa che aveva a che fare coi tacchi di Caterina o l’attenzione che il mondo le riservava.

Ricordo anche pomeriggi di pace, certo, quando giocavamo in cortile unendo i nostri pochi giocattoli. Allora mi sembrava quasi che fossimo amiche. Altre volte mia madre attraversava in fretta il cortile inseguendo qualche incombenza; Carmela aspettava che si allontanasse, poi prendeva la sua unica Barbie, le allargava le gambe, la faceva ondeggiare in una camminata oscena.

– Chi sono? – chiedeva. Le altre ridevano.

 Stavamo in due classi diverse, ma pure la scuola mi doveva tradire.

La maestra Anna ci aveva insegnato La canzone del Piave: la conoscevamo tutti a memoria. Carmela si ritrovava una voce bellissima perciò la usava spesso, nei corridoi, in cortile o per le scale, cantando ovunque del Piave o così mi sembrava, finché non ho capito che il motivo era quello ma non le parole.

Michele mormorava calmo e placido al passaggio

di Caterina il 24 maggio

Era stupido. Era irritante. Ed era autunno quindi non c’entrava niente.

Eppure non lo raccontavo a casa perché di Carmela avevo paura. Non paura che mi picchiasse come capitava qualche volta con i ragazzi del rione quando pensavano che avessi due lire. Avevo paura per Caterina. A volte la sognavo che piangeva e mi chiedeva che voleva quella da lei.

Smisi di scendere in cortile. Bastava che mi vedesse sul balcone, però, che subito attaccava con la melodia senza parole e io sapevo che lo faceva perché tanto le parole ce le avrei messe io.

Poi, una sera.

Papà era a Macerata perché il nonno era caduto da una scala. Caterina aveva un che da fare, così, per non lasciarmi sola, mi ha spedito a casa di Carmela. Sua madre ci ha detto di finire i compiti e di fare le brave. Non è mai stato un problema per me.

Mentre cercavo di concentrarmi, lei ha ricominciato. Non mi è più capitato di sentirmi formicolare le mani così tanto, di afferrare qualcuno con la stessa forza. Con Carmela è stato facile: aveva ancora il grembiule addosso e il colletto sporgeva. Le ho sbattuto la testa sul pavimento e lei mi ha stretto i polsi. Ci siamo fissate per un po’, rancorose, ansimanti.

– Tua mamma è una zoccola.

– E chi lo dice?

Sua madre lo diceva.

Siamo salite per le scale di nascosto. Un po’ di sangue le macchiava il mento perché nella lotta s’era morsa un labbro. Non mi dispiaceva. Ci siamo sedute sulla rampa che andava al piano di sopra, dietro al muro, abbiamo aspettato. Dopo poco si è aperta la nostra porta di casa e Michele è uscito come se niente fosse. Gli sono andata dietro sul pianerottolo ma lui non se n’è accorto. Non riuscivo a muovermi e non ci sono riuscita neppure quando la porta si è aperta e Caterina è comparsa e ha fatto un piccolo salto all’indietro. Ci siamo guardate.

Allora ho sentito Carmela, la sua voce trionfante.

– Hai visto?

Poi tutto ha cominciato a crollare.

 Se mi chiedono dell’Ottanta dico che non ricordo ed è vero: ero piccola, non ricordo. So solo che per me è stata una domanda a dare il via a tutto.

Hai visto che la tua famiglia va in pezzi?

Ho visto.

Decido adesso, su questa panchina, che a lui dirò di quando la mia paura più grande si è realizzata e ha crepato il palazzo. Gli dirò anche che non capivo allora, ma che adesso, passati i quaranta capisco.

E gli racconterò di mia madre che ci ha tenute strette me e Carmela e ci ha salvato la vita. Gli racconterò quella notte passata in macchina noi due sole, delle scosse del mondo fuori e di quelle senza fine nel mio petto, della mano di lei sulla mia testa, di quando ha detto dormi e tutto ha smesso di crollare e io mi sono addormentata mentre Caterina vegliava sulla nostra casa e la teneva in piedi finché papà non fosse tornato.

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