Home Blog Pagina 198

All Tomorrow’s Parties

3

di Anatole Fuksas

Gia dalle prime ore susseguenti si poteva intuire la natura degli attentati del 15 novembre a Parigi, si poteva immaginare chi fossero davvero gli attentatori, perché da subito era chiaro chi fossero le vittime.  Già leggendo Pierre Janaszak, 35 ans, animatore radio e TV che era al Bataclan vari pensieri venivano alla mente: «Ils étaient trois je pense et ils tiraient juste dans le tas. Ils étaient armés avec de gros fusils, j’imagine que c’est des kalachnikov, ça faisait un boucan d’enfer. Ils n’arrêtaient pas de tirer. Il y avait du sang partout, des cadavres partout. On entend hurler, tout le monde essaie de fuir, les gens se piétinaient, c’était l’enfer.» Soprattutto, se a questa testimonianza si ricollegava la tempestiva rivendicazione, in particolare nel passaggio che spiega come: «Huit frères portant des ceintures d’explosifs et des fusils d’assaut ont pris pour cible des endroits choisis minutieusement à l’avance au cœur de la capitale française».

Sembrava subito strano che l’attacco ai crociati non si fosse tramutato in un assalto a qualche simbolo cristiano o a qualche bersaglio istituzionale. Appariva soprattutto significativo che gli attentatori avessero assaltato un tempio parigino del rock, che avessero deciso di smitragliare alla cieca giovani usciti per sentire musica e ritrovatisi ammucchiati al suolo a fingersi morti per sopravvivere. Ancor più significativo appariva subito il fatto che avessero preso d’assalto luoghi tipici quel mondo urbano emancipato dai cosiddetti valori tradizionali, a due passi da Charlie Hebdo, dalla rue Oberkampf, Belleville, Ménilmontant, il Canal Saint-Martin, dove s’incontra di tutto, ma veramente di tutto, meno che il francese medio.

Veniva subito da domandarsi che razza di scontro di civiltà sia mai questo, da pensare se, piuttosto, non si potesse riconoscere il caratteristico odio di classe dei subalterni gramsciani, il Lumpenproletariat del 18 brumaio o dei ceti medi declassati dalla crisi della Germania post-Weimar, dei poliziotti celebrati da Pasolini dopo Valle Giulia, di quelli che massacravano giovani inermi alla Diaz a Genova. E così via. All’idea dello scontro tra Islam e Occidente subito si sovrapponeva l’immagine di una più profonda guerra mondiale, vittime della quale apparivano chiaramente i ceti urbani emancipati dai valori tradizionali, quegli edonisti dediti alla lussuria del rock, al piacere di uscire la sera, di esprimere liberamente le proprie opinioni. Un po’ il seguito di Charlie Hebdo, ma meno simbolico, più feroce e concreto. Il precipitato violento della classica frustrazione, malcelata dietro vaniloqui mal coraneggianti, non dissimile da quella di Brevik nei confronti di coetanei più fighi di lui.

D’altra parte, non è casuale che la prima vittima di questi orrendi individui sia il ceto medio siriano, ridotto alla fuga, profugo in giro per tutta europa. E nemmeno è casuale che le Pen, Salvini e tutti gli xenofobi occidentali abbiano come bersaglio polemico proprio quei ceti urbani emancipati dai valori tradizionali addosso ai quali sparano questi altri orrendi individui. Veniva da subito difficile sopportare i richiami ideologici allo scontro di civiltà tra Islam e Occidente, riecheggiato da campane che lavorano per polarizzare l’opinione pubblica in questa direzione, nascondendo la realtà della posta in gioco. Che è e rimane la libertà di essere e vivere seguendo il proprio desiderio, la propria libertà di essere come si vuole. A Parigi come a Damasco.

Il quadro appare oggi più chiaro e Libération ha evidentemente adottato posizioni molto chiare al riguardo, titolando “Génération Bataclan” e spiegando che la vittima degli attentati è la “jeunesse qui trinque”. Come spiega lo storico specialista di Medio Oriente Jean Luizard in un’intervista a Mediapart: «Dans les quartiers attaqués, on peut voir des jeunes, cigarette et verre à la main, sociabiliser avec ceux qui vont à la mosquée du quartier. C’est cela que l’EI veut briser, en poussant la société française au repli identitaire, […] que chacun considère l’autre non plus en fonction de ce qu’il pense ou de ce qu’il est, mais en fonction de son appartenance communautaire». La commovente testimonianza di Erwan le Gal apparsa sulla sua pagina Facebook illustra chiaramente la natura degli obiettivi, in particolare del Carillon: «ce petit bar de quartier en bas de la maison, dans le 10e arrondissement, à l’intersection des rues bichat et alibert. la famille d’amokrane (papi amo pour les intimes), émigre de kabylie après-guerre».

Dal racconto di Erwan, che veramente prende allo stomaco, emerge chiaramente che «autrement dit, le carillon c’était d’abord un lieu qui incarnait pour ces fanatiques tout ce qu’ils exècrent : une certaine idée de la vie». Questa idea della vita che gli attentatori hanno voluto colpire è «celle qui consiste à prendre le temps de boire un café en terrasse, de lire, de rire, de partager une bouteille de vin avec des amis avec qui on ne partage pas forcément les mêmes orientations (religieuses, sexuelles, politiques), de fumer, d’écouter de la musique». Dunque, a differenza di quanto si sente strombazzare in giro, non sono sotto attacco i valori occidentali. Non è sotto attacco la famiglia tradizionale. Non è sotto attacco il comune benpensante francese o europeo, magari cristiano, forse proprio cattolico. Non sono sotto attacco le sue chiese, il suo lavoro, le sue giornate in fila nel traffico. Non è sotto attacco la sua televisione perennemente accesa sul nulla, la sua casa spettrale, non è sotto attacco il suo vuoto interiore, la sua incapacità di ridere.

Sotto attacco c’è un’idea di libertà che abbraccia il mondo intero e si realizza in luoghi speciali come il Carillon, dove indipendentemente da chi tu sia, da dove tu provenga, da cosa tu faccia o non faccia, dal tuo orientamento sessuale, politico o calcistico, c’è una sedia sfondata e un bicchiere per te, una bottiglia da stappare, una sbronza rumorosa e il piacere di stare insieme. Questo è il bersaglio che questi assassini si sono dati ed è qui che sono andati a smitragliare persone inermi e pacifiche, solo colpevoli del fatto di non condividere la loro miope visione identitaria della vita, la loro incapacità di essere qualcosa che hai deciso da solo. Questi assassini sono francesi, occidentali anche loro da quattro generazioni, animati dalla stessa rabbia che fomenta i loro simili di tutto il mondo, figure che tutti quanti in una qualche misura abbiamo incrociato, nel nostro percorso di vita parallelo, che col loro non s’incontra mai, nemmeno all’infinito. E che la sorte ce ne scampi, dalla banalità del normale, del comme il faut, dei decerebrati che oggi inneggiano alla guerra di religione, all’odio raziale, alle frontiere da chiudere, ai rifugiati da rimpatriare.

È con loro che siamo in guerra, da sempre, indipendentemente dal loro sesso, dalla loro razza, dalla loro religione. Perché da una parte ci sono le persone che esercitano la loro libertà, che ne chiedono di più, che se non la trovano se la prendono, dall’altra le stragrandi maggioranze incapaci di farlo che vivono prigioniere dei valori tradizionali, schiumano rabbia per la propria incapacità e se la prendono con chi è invece capace. Questa è l’unica guerra che c’è. La razza, la religione, la nazionalità sono etichette di comodo e circostanza, stupidagini che solleticano la profonda crisi identitaria dei ceti medi, capaci di sentirsi protagonisti della propria vita solo quando si agita un idolo, si sventola una bandiera, si addita un nemico. Per costoro non si può nemmeno arrivare a provare pena, solo profondo disinteresse per la noia che esprimono. La noia di vite tutte uguali, trincerate dietro simulacri di normalità agitati con violenza appena possibile.

Sono tutti uguali. E noi siamo diversi, soprattutto da loro, ma anche tra di noi. Perché ci piace così. Ci piace essere e sentirci diversi, perché è proprio la diversità di ogni individuo che rende speciale la sua vita, unica, irripetibile, diversa, appunto, da tutte le altre. Come quella delle vittime di questi orrendi attentati, che sentiamo vicine come se le conoscessimo, non perché fossero uguali a noi, ma proprio perché non lo erano, proprio perché condividiamo il piacere di essere ognuno come cazzo ci pare. E proprio per questo beviamo alla loro, e alla nostra, con le lacrime agli occhi, questo sì, ma senza paura. Perché abbiamo ragione noi. E questa guerra la vinceremo.

Questo pezzo è apparso il 16 novembre qui: http://divertimentideldesiderio.tumblr.com/post/133335194739/all-tomorrow-parties

Paris is burning. Stato d’emergenza e tentazioni sinistre

3

Latufdi Jamila Mascat

A dispetto del titolo questo post è stato scritto a freddo e con umore raggelato. Non dice niente rispetto alla cronaca degli ultimi attentati che non sia già stato detto, in modi più o meno fortunati e più e meno condivisibili, altrove. Per intenderci: non ero, per mia fortuna, a tre tavoli dalle fucilate in rue de Charonne venerdì sera, né a due civici dal Petit Cambodge, non sono una habituée del Carillon, frequento raramente il 10ème e l’11ème da stupida fanatica del 18ème che sono e a un grado di separazione (ma solo uno, perché tra gli amici di Facebook non mancano i R.I.P.) tutte le persone che conosco sono salve. Per caso ho appreso quasi subito la notizia delle fusillades in radio (si parlava all’inizio solo di sparatorie e non di vittime, si capiva davvero poco) e la mia prima sciocca riflessione, mentre leggevo sul divano uno scritto soporifero è stata “vedi, alla fine Althusser, la disoccupazione e la neonata ti guastano la movida del venerdì sera, ma almeno ti risparmiano i proiettili” (ora me ne vergogno). Aggiungo che non ho fatto pellegrinaggi né perlustrazioni sui luoghi dei delitti in questi giorni. Sabato mattina verso le 11 sono uscita di casa, ho tentato “la prova del bar” per vedere che aria tirava e divorato frastornata un croissant in mezzo a gente ipnotizzata davanti alla TV che annunciava nei titoli a scorrimento la prevedibile rivendicazione degli attentati da parte di Daech, mentre un opinionista politico non meglio identificabile suggeriva prospettive inedite per una nuova stagione di lotta al terrorismo made in France evocando la metafora della disinfestazione delle cucine dagli scarafaggi (forse liberamente ispirata al bilancio sanitario di Marine Le Pen sull’immigration bactérienne di qualche giorno prima). Sabato ho camminato per le strade del mio quartiere, il 18esimo basso, Barbès, dove nulla somigliava allo scenario da guerra atomica che m’aspettavo: il negotium del marciapiede, tra pannocchie, sesso, telefonia mobile, sigarette, oro e stupefacenti, e poi le panetterie e le macellerie, i bar e i fruttivendoli, tutto all’apparenza – che magari inganna – era lì come niente fosse, come se per alcuni, affaccendati in altri affari e in altri affanni, la vita semplicemente continua alla meno peggio nel solito tran tran, senza resa e senza eroismo.

Ma se solo il giorno prima qualcuno mi avesse detto che a Parigi stava per succedere qualcosa di simile a quello che è successo venerdì, l’avrei accusato di paranoia e della peggior specie, islamofoba e razzista. Oggi purtroppo prevalgono la sensazione e il timore che non finiremo facilmente di stupirci. Non mi riferisco allo shock, la commozione, lo sdegno, le manifestazioni di solidarietà, i kamikaze, le dichiarazioni di Hollande sulla Francia impitoyable contro l’ISIS, né al profluvio del tricolore sui social network– che purtroppo (non smetterò di ripeterlo abbastanza) richiama più mattanze che rivoluzioni gloriose. Non mi riferisco ai Not in Our Name dei musulmani ‘per bene’ chiamati a smarcarsi dai fatti, né ai 115mila uomini in armi dispiegati in tutta la Francia, all’orrore di uomini e donne inermi, e nemmeno alla République che fa capolino come al solito o alle voci – le solite – di quanti non accettano di poterla tirare in ballo ogni volta che l’aria si fa pesante, come fosse l’innocuo deodorante per ambienti che non è.

E’ gia politica

Questo puzzle, che si è tristemente assemblato nel dopo Charlie, ricompare in una configurazione di poco mutata ora che di nuovo Je suis Paris e Pray for Paris. Lo stupore a cui accennavo, perciò, non deriva dalla somma di questi elementi, piuttosto dal bersaglio: qualunque, indeterminato, indistinto. Sono affiorati progressivamente i nomi e i volti delle vittime come cadaveri sull’acqua: Matthieu, Luis Felipe, Djamila, Valeria, Nohemi, Mohamed, Patricia, Halima e più di altri cento. Retrospettivamente né Charlie Hebdo né il supermercato Hyper-Cacher meritano di essere considerati per nessun motivo obiettivi giustificati, ma dieci mesi fa, costretti a misurarci con la logica dei simboli ignobilmente eletti a capri espiatori, potevamo ricostruire (e mai comprendere) le ragioni aberranti di quegli attacchi, pur senza farcene una ragione. Mentre le informazioni ancora scarseggiano e il web è cosparso di bufale, mentre le poche notizie che sono state appurate finora – il comunicato di Isis che rivendica “l’attacco benedetto” e l’identificazione parziale degli attentatori tra Parigi e Bruxelles passando per la Siria – bastano per che il coro infaticabile delle destre xenofobe d’Europa alzi il volume per intontirci di ritornelli insulsi, stavolta facciamo ancora più fatica a non considerare una follia quello che abbiamo tuttavia il dovere di politicizzare e non patologizzare. Stessi kalashnikov, stesso presunto Dio, stesso terrore, con molti morti in più rispetto a gennaio. Ma le vittime casuali – giovani e meno giovani, di decine di nazionalità, a cena fuori, a spasso vicino allo stadio, a bere, a un concerto metal – forse non sono un caso. Ed è ottimista chi pensa di poter fare di questo accidente infausto un semplice incidente, pura psicosi, roba da matti. E’ piuttosto la politica dell’Isis che piaccia o no, e il risultato (altrettanto politico) è la percezione diffusa, spaventosa e asfissiante che attacchi di questo genere siano sempre possibili perché imprevedibili e fuori controllo – non sto calcolando l’indice delle probabilità né additando il fiasco multiplo dell’intelligence francese in questo 2015 annus horribilis, ma penso alla restituzione di vulnerabilità assoluta che quest’ultima carneficina ha generato diffusamente. Il risultato di questo risultato è il rischio che di fronte alle schegge apparentemente impazzite del terrorismo, si finisca per impazzire tutti e ritrovarci senza bussola a ingoiare i deliri securitari di cui si nutrono in questi giorni il discorso del governo e le chiacchiere dell’opposizione.

Hollande ha dichiarato di voler prolungare, ammodernare e “consolidare” lo stato di emergenza (in vigore da sabato a mezzanotte), passando per un ritocco della Costituzione. Quando il Parlamento avrà votato a favore della proposta che verrà presentata mercoledì dal Consiglio dei ministri, sarà possibile estendere il perimetro e la durata di questo intramontabile residuato bellico del 1955 (bellico perché risale ai tempi della guerra d’Algeria) che l’ultima volta, non a caso, era stato resuscitato 10 anni fa, nel 2005 in risposta alla rivolta delle banlieues.

Ovviamente in Francia non mancano gli “strumenti” per la” lotta al terrorismo”. A luglio è entrata in vigore la loi relative au renseignement dopo il via libera del Consiglio costituzionale che il presidente aveva interpellato per sedare le polemiche sorte su più fronti contro questo provvedimento dal sapore vagamente liberticida.

Perfino il New York Times nell’editoriale del 1 aprile scorso, intitolato « The French Surveillance State », lanciava l’allarme sulle ricadute potenziali di una legge che conferisce all’esecutivo il potere straordinario di scavalcare i giudici nella gestione dei protocolli di sorveglianza. E per questo invitava il parlamento francese a difendere i diritti democratici dei cittadini contro le conseguenze di una politica di controllo e spionaggio “ingiustificamente espansiva e invasiva” che tra le altre cose prevede restrizioni sensibili alla libertà di stampa.

Lo Stato d’emergenza perciò acquista una dimensione squisitamente performativa, e non per questo meno reale o meno pericolosa: voglio dire che significa perfino qualcosa in più dei mille dispositivi tecnici che sappiamo  – i controlli delle frontiere, l’istituzione di zone di sicurezza, la possibilità di imporre il coprifuoco e i domiciliari, la semplificazione amministrativa delle procedure che consentono perquisizioni (più di 160 circa nella notte di domenica, 128 nella notte di lunedì), fermi e arresti, il divieto di riunioni in luoghi pubblici che, tra le altre cose, ci proibisce di commemorare le vittime, rispondere agli attentati e protestare contro i bombardamenti in Siria e l’état d’urgence). Significa, come ha spiegato Laurence Blisson, segretaria generale del Sindacato della magistratura, predisporre “una cornice sistematica in cui le decisioni non hanno più bisogno di essere giustificate singolarmente”, ovvero creare anticipatamente “una giustificazione assoluta”. A cosa? Alle parole, davvero poco rassicuranti di Manuel Valls in onda su RTL, per esempio: “Il faut, je l’ai rappelé depuis des mois (…) expulser tous les étrangers qui tiennent des propos insupportables, radicalisés contre nos valeurs, contre la République. Il faut fermer les mosquées, les associations, qui aujourd’hui s’en prennent aux valeurs de la République…c’est un combat de valeurs, c’est un combat de civilisations”.

906039_940215566058484_7727983206451669702_o

In un intervento più a caldo di questo Julien Salingue ricorda che la stima delle vittime in Siria da marzo del 2011 è di 250mila – ovvero 4500 morti al mese – per dire che lì “da 4 anni e mezzo è il 13 novembre ogni giorno”. Il conto delle vittime non vuole essere un pretesto per banalizzare l’accaduto e concluderne fatalmente che la ruota gira. Chi ha detto “oggi a Parigi e ieri a Beirut” (dove sono morte 43 persone assassinate nel quartiere sciita di Burj al-Barajneh), domandandosi per quale motivo ci siano vite visibilmente più degne di lutto e cordoglio di altre, benché perite a poche ore di distanza e per mano degli stessi mandanti, ha additato un fenomeno reale. Un deterrente alla percezione della prossimità autentica che sussiste tra i due episodi è naturalmente la distanza geografica. La quale tuttavia finisce per cristallizarsi in un’improbabile e non dichiarata ‘teoria dei due mondi’ che vorrebbe alcuni popoli più abituati a ingoiare sangue rispetto ad altri che al sangue preferiscono il bordeaux. Questa slittamento – dalla distanza al divario – si tramuta colpevolmente in distrazione e assenteismo e poi precipita nel compianto selettivo. Per quanto non sia affatto scontato emulare l’empatia da cento e lode di Che Guevara – “sentire nel più profondo di voi stessi ogni ingiustizia  commessa contro chiunque in qualsiasi parte del mondo”, la spirale delle stragi ravvicinate da Aden ad Ankara, da Baghdad a Boko Haram, da Beirut a Parigi a Raqqa, esige che la nostra solidarietà si elevi all’altezza smisurata delle tragedie che ci circondano per consentirci di resistere alla morsa di barbarie speculari e asimmetriche.

La paura c’è, è tanta e pure giustificata. Dice bene chi dice che dobbiamo combatterla, ma è quasi impossibile non pensare all’elefante, soprattutto quando assume sembianze decisamente mostruose. Ora, forse, non parlo a tutti, come scriveva Fortini – “Parlo a chi ha una certa idea del mondo e della vita e un certo lavoro in esso e una certa lotta in esso e in sé” – ma mi auguro lo stesso di parlare a molti: a chi condivide risolutamente la necessità di contrastare le aberrazioni che piovono da destra e dalle cime della Repubblica a ritmo ininterrotto – Hollande: «Il faut une véritable coalition pour l’Irak et la Syrie, mais aussi l’Afrique»;  Le Pen : « Il est indispensable que la France retrouve la maîtrise de ses frontières nationales définitivement »; B. Cazeneuve (ministro dell’Interno): «Celui qui s’en prend à la République, la République le rattrapera. Elle sera implacable avec lui et avec ses complices»; Laurent Wauquiez (segretario del partito Les Républicains, ex-UMP, presieduto da Sarkozy) : «Je demande que toutes les personnes fichées (alias “fichées S”, cioè schedate e sorvergliate in quanto ritenute, a diversi livelli di gravità, pericolose per la “sicurezza dello Stato”, si va dagli hooligans ai militanti politici ai sospettati di terrorismo e si stima che attualmente le fiches siano tra le 4 e le 11mila) soient placées dans des centres d’internement antiterroristes spécifiquement dédiés ».

Detto questo, un’ovvietà che merita di essere guardata in faccia e da vicino, senza scivolare nel pantano dell’islamofobia, è che il jihadismo esiste, miete vittime ma anche consensi, non smetterà di stupirci con effetti speciali, e effettua perfino servizi a domicilio. In modalità deterritorializzata e riterritorializzata, l’Isis cresce come un’organizzazione di cui stentiamo a comprendere le forme, nonostante gli sforzi (dubbi) degli specialisti nell’elaborare sofisticate mappature dei profili socio-psicologici dei “soldati del califfato” e minuziose analisi delle modalità di reclutamento virtuale. Per venirne a capo, scavalcando i ritratti sensazionalistici dei Jihadi John da copertina, dobbiamo filtrare la propaganda dell’odio, abitare la confusione e ragionare su dati incredibilmente incerti. Si legge un po’ ovunque che i jihadisti sono minorenni e maggiorenni tra i 15 e i 30 anni, uomini e donne, convertiti e non, di estrazione popolare e di classe media, cittadini, banlieusards e provinciaux, provenienti da famiglie numerose ma non solo, educati alla religione ma anche no, stranieri e naturalizzati, depressi ed entusiasti; desiderosi di radicalità (del resto lo sono in molti a quell’età, e per fortuna) incontrano la radicalisation, termine comparso nel lessico di cronaca francese da più di qualche anno e che rimbalza sui giornali per etichettare proto- pseudo- e potenziali jihadisti cartografati dalle forze dell’ordine.

Un’altra ovvietà che forse vale la pena sottolineare è che se un kamikaze non è mai solo un kamikaze, ma  una rete di supporto, sostegno, difesa, protezione e addestramento, e se un kamikaze, per quanto assurdo possa sembrare ad alcuni, è per molti versi un militante, l’Isis, di nuovo, non è follia, ma politica, oscena forse, e però pur sempre politica. Respinta l’ipotesi clinica, quindi, resta da demolire quella militare, rilanciata ieri dal discorso marziale di Hollande a Versailles– «La France est en guerre [..]. D’ici là, [..] intensifiera ses frappes contre Daech. [..] Le porte-avions Charles de Gaulle appareillera jeudi, pour se rendre en Méditerranée orientale, ce qui triplera nos capacités d’action ».

Dopo 14 anni di intensa e ininterrotta lotta al terrorismo con notevole dispiegamento di droni, armi e contingenti umani da parte del fronte occidentale, dopo aver cambiato i connotati ad almeno tre stati della regione (Afghanistan, Iraq, Siria) senza contare lo sfacelo della Libia e le sorti di stati carcassa come lo Yemen, e dopo aver favorito la mutazione genetica di Al Qaeda nell’Isis, sorge ragionevolmente il dubbio che qualcosa non sia andato per il verso giusto. Non solo il terrorismo prospera in Medio Oriente, ma è riuscito perfino a insinuarsi nel perimetro della vigile Europa costretta a fronteggiare oggi le premesse di una sciagurata e incivile “guerra di civiltà” che vede contrapposte le armi del terrore e quelle della xenofobia. Scarseggiano invece le armi della critica a volte anche nell’arsenale della sinistra che in Francia è doppia:  si colloca a sinistra del Partito socialista (non è così difficile) e si chiama gauche de la gauche o ancora alla sinistra di quest’ultima e cioè all’extrême gauche.

Cosa possa significare per queste due anime della sinistra fare i conti con il fenomeno del jihadismo, è una questione non da poco. Contestualizzare l’emergenza e l’espansione di Isis all’interno delle trasformazioni politiche e geopolitiche che interessano il mondo arabo-musulmano, pesantemente martoriato dagli interventi dell’imperialismo europeo e statunitense, non autorizza a ignorarne la portata europea.

E se risulta “facile” – almeno per l’extrême gauche – opporsi alla prosecuzione delle operazioni in Siria – che verrà sottoposta al voto dell’Assemblée nationale il prossimo 25 novembre – e ribadire che la strada da intraprendere non è certamente il neo-bushismo rivisitato e letale auspicato dal Finacial Times – ovvero la riaccensione in grande stile della macchina da guerra internazionale mai sopita, è meno scontato stabilire se e come una sinergia delle due sinistre (e quel che rappresentano) possa fabbricare una risposta politica a ciò che è successo, che sia non solo giusta ma efficace. Come possa in altre parole interagire con il senso comune e richiamarlo al buon senso, remare contro l’islamofobia diffusa (anche tra le proprie fila), respingere le manovre autoritarie del governo, evitare le scorciatoie di principio, dribblare il cinismo, farsi grande ma non ecumenica né tantomeno repubblicana, impegnarsi a contendere il terreno del terrore negli spazi sensibili, tenere alto il morale e sopratutto permettersi il lusso e il coraggio di pensare che tutto ciò sia praticabile.

Preferire di no

1047/1- Grve et manif ˆ l'intŽrieur de l'usine de Renault-Billancourt en Mai 1968 ©gerald Bloncourt
1047/1- Grve et manif ˆ l’intŽrieur de l’usine de Renault-Billancourt en Mai 1968
©gerald Bloncourt

Questa è una foto in cui mi sono imbattuta con una certa meraviglia qualche anno fa al Musée national de l’immigration (all’epoca Cité Nationale de l’Histoire de l’immigration), un sito espositivo nato e cresciuto dentro una serie di congiunture politiche più che infauste. Nel 2001 Lionel Jospin, allora primo ministro, aveva immaginato di consacrare il Palais de la Porte Dorée, che prima ospitava il Musée des Arts africains et océaniens, a un centro nazionale della storia e delle culture dell’immigrazione (l’idea originaria pare fosse di Mitterand). Silurato al primo turno delle elezioni presidenziali dalla vittoria di Le Pen padre, nel 2002, Jospin lasciò l’opera in eredità al nuovo presidente Chirac. Nel 2007, quando il museo fu finalmente allestito, il primo ministro Sarkozy si guardò bene dall’inaugurarlo essendosi da poco lanciato nella corsa all’Eliseo con una campagna elettorale che ostentava scarsia empatia nei confronti del tema dell’immigrazione. Abbandonato al suo destino, il museo aprì al pubblico senza alcuna cerimonia, e finì per essere inuagurato solo sette anni dopo, nel 2014, da Hollande, un po’ per caso, senz’arte né parte. La storia di questo progetto e la sua realizzazione – tra strumentalizzazioni propagandistiche, rigetto e tiepide accoglienze – è una metafora letterale del rapporto che il paese ha intrattenuto e continua a intrattenere con quella componente imprescindibile e costituiva del suo passato e del suo presente che è la popolazione francese di origine straniera. Le foto esposte (come questa e anche le due successive), nonostante le didascalie, erano riuscite a sedare il fastidio e la repulsione che provavo per quel luogo.

Sopra è il maggio 1968 e siamo a Renault Billancourt dove lavorano 21mila operai, di cui un terzo di origine straniera; si sciopera. Non è certo un’immagine del genere che può rendere conto della complessità e della durezza della questione razziale all’interno del movimento operaio francese. E ripescare questa foto, come anche quelle che seguono, non significa rifugiarsi nel mito né eleggere anacronisticamente quel modo a modello, a distanza di decenni.

643/5-3  Liquidation de la Siderurgie en Lorraine-  Vallee de Longwy -21 et 22/2/1979- immigrŽs syndicat grve ©Gerald Bloncourt
643/5-3 Liquidation de la Siderurgie en Lorraine- Vallee de Longwy -21 et 22/2/1979- immigrŽs syndicat grve
©Gerald Bloncourt

 

Manifestation des travailleurs algériens. Paris, 17 octobre 1961.
Manifestation des travailleurs algériens. Paris, 17 octobre 1961.

PoissyStabiliminento PSA- Peugeot-Citroën a Talbot-Poissy, atelier B3. 1984. Sciopero


Le uso piuttosto come un’allegoria: tutte ricordano, se ce ne fosse bisogno, che la storia dell’immigrazione in Francia non è stata solo una storia di emarginazione, ma anche una storia di lotte e di protagonismo. Evocano confusamente l’idea che c’è un lavoro imprevedibile da immaginare e da compiere per provare a tessere legami spuri, occasionali e non scontati, che contrastino l’apartheid del pensiero, della prassi e del quotidiano tra pezzi della società francese che potrebbero ambire a riconquistare terreni di comunanza.

Si tratta di misurarsi con spazi geografici, sociali e ideologici che molte delle organizzazioni della gauche tout court hanno lungamente disertato, in cui negli anni hanno perso credibilità dando prova spesso di razzismo, insolenza, cecità, sordità, vigliaccheria. Si tratta perciò di capire come riguadagnare sul campo il diritto di parola e il diritto di confliggere, e questo, nello specifico, proprio in relazione alla recrudescenza del terrorismo.

Il ragionamento che sto facendo sottintende la presunzione – ridiscutibile e rinegoziabile – che una strada del genere possa e debba essere percorsa. Sto provando a perorare una causa. C’è qualcosa di stantio quasi putrefatto nell’espressione ‘perorare una causa’, mi chiedo se sia colpa della causa o della perorazione e credo che alla fine sia colpa di entrambe. La causa nel 2015 soffre da ansia di prestazione perché non è mai l’unica, e per poter essere sposata deve sapersi dimostrare all’altezza di essere capace di interagire con altre cause. La perorazione ricorda la pastorale, suscita noia e pruriti, e anche lei a suo modo, induce il sospetto di follia quando somiglia troppo da vicino alla vocazione monomaniacale, all’ idea fissa. Ancora una volta opterei per chiamare semplicemente politica un’attività umile e ostinata che deve categoricamente e incessantemente porsi il problema di scovare alternative quando pare che non ce ne siano e impegnarsi a costruire nessi impensati.

In questo senso c’è bisogno di reinventare forme inaudite di prossimità tra mondi del dissenso che tendono a ignorarsi. Nei luoghi fisici – nelle scuole, sul lavoro e nei quartiers populaires – ma anche nelle parole d’ordine e nelle scelte di campo, come in questo momento. Non so se il momento è propizio, ma è un momento decisivo. Se quel che si prepara (il se è retorico) è un giro di vite accelerato sulla sicurezza e le libertà, è bene trovare le parole per dire che nella restrizione delle libertà di tutti, quelle di alcuni saranno minacciate più di altri; che il via libera alla caccia ai terroristi consisterà anche in un via libera agli abusi razzisti da parte delle forze dell’ordine; che migranti e rifugiati ne pagheranno le spese, insieme a chi intende stare dalla loro parte, e che di tutto questo, cioè dello stato d’emergenza e dei suoi derivati, non c’è bisogno. Quando, come nel dopo Charlie, la République incarnata da una sinistra che recita la parte della destra chiede al resto della gauche di stare dalla sua parte (con le sue bandiere e le sue bombe, con il suo esercito e il suo stato d’eccezione) in nome dell’Union nationale, sarebbe meglio preferire di no (come faceva Bartleby) e spiegare pazientemente (come suggeriva Lenin) le ragioni di una scelta impopolare (“people quite often do NOT know what they want, or do not want what they know, or they simply want the wrong thing”, nota Žižek, e non ha tutti i torti). Altrimenti non si vede come questa gauche possa candidarsi ad avversare e contrastare sul suo terreno la partita del jihad –  che per molti, secondo Olivier Roy, è la sola “causa disponibile sul mercato” – con un certo margine di credibilità ed efficacia. Per arrogarsi il diritto e dovere di contesa, per conquistare il diritto e il dovere di perorare altre cause, c’è bisogno di imparare ad assumere quel fenomeno che capiamo ancora poco e chiamiamo jihadismo non come un corpo alieno, come l’altro che è in noi, bensì paradossalmente come cosa nostra, figlia e non infiltrata, come una res tragicamente e orribilmente publica (da non confondere con la Repubblica).

Essendo il dentro un fuori infinito #7

1

di Mariasole Ariot

“La diffusa credenza che kangaroo significasse “non capisco”, risposta nella lingua aborigena a una domanda posta in inglese, è soltanto una leggenda

macropodidae

Roberto grande piede è un canguro. Macropodidae. La testa inclinata a est, la sacca marsupiale per i nuovi ospiti, i passi falcati, lenti se necessario, un salto dalla finestra quando è troppo. In ordine sparso appaiono tre rivelazioni notturne, le bussa al campo della mia porta, il tempo è caldo :

figliare tre parti

figliare tre parti plurigemellari

non figliare

Roberto dalla spina di pesce sul collo dice il Requiem di Mozart – prego, sissignore, un requiem per la testa, datemi una spina e una valvola di sfogo, Roberto non piange mai, Roberto ride se marcato a forza, Roberto sbatte le porte, vive tre volte da ventisei anni. E’ fuggito per tornare a casa – ma dov’è la casa, madre, dove un luogo che faccia copertura, dove un tetto, dove i muri?
Dove. A secco, i muri alti limitano ingressi ed uscite ma non bordano. Roberto dice : participio passato del verbo sentire, o forse imperfetto. Ora non sento più niente.
Diagnosi : domande infantili. Roberto ha la testa inclinata distonicamente, un’offesa dei farmaci, la sua controffensiva è la risata. Atterra il cranio verso il tavolo, cadono pezzi di cibo, azzanna il cucchiaio, Roberto è perduto è dice andremo, parleremo al futuro, scriverò a mio fratello.
Caro G.,
la casa di mamma è grande ma può ospitarmi. Ora che non c’è più una madre, io non sarò più figlio. Perché è morta? Posso essere un uomo come sei tu, uomo, essere umano senza essere, posso mangiare un gelato al bar all’angolo? Ho comprato gli spartiti di Mozart: suonavo il minuetto e sono sempre stato una frana. Qui una donna parla coi gatti, i gatti le rispondono. Dice dicano il vero del silenzio, la voce della muraglia, dice siano collegati coi computer del colle e la cucina : conoscono il menù dei pasti in anticipo.
Toglieranno le cabine telefoniche, l’ho letto sul giornale, G. Brutte notizie. Come si usano i nuovi dispositivi, G.?
Perdonami. Ho un cuore che non sente più, due gambe morte che continuano a saltare. Chiamami quando puoi, vieni a trovarmi. Posso chiedere una visita? Posso essere uomo se sono un bambino? Posso fare la patente se esco? Posso dire al parroco di andare a farsi fottere? E’ un peccato, lo so. Fratello che passi e senza requiem, parlami di macchinari a luci rosse. Qui tutto è cieco. Vengo da quindici milioni di anni fa.
Posso fare una domanda? Posso ancora una domanda?

ascolto

Roberto ha un sogno incastrato nell’occhio cisposo, s’intravede sfregandolo con la spugnetta verde, grattando fino all’osso. Un liquido trasparente attraversa la sua mano e urla e non si crede e credono se non crede, e non piange, Roberto non piange mai.

Al Castello si avvicina di nascosto, prende l’ascia dalla parte opposta, cade una mano come cadono foglie. E’ autunno e mancano marsupi per i figli, i farmaci uccidono il verbo che collega sinapsi a sinapsi, pensare, timpano a timpano, udire, tutto si trasforma in visione. Roberto ha due monconi per dispiacere, per aver chiesto un tramezzino di troppo, per aver domandato, per aver posto. Per aver chiesto un posto.
Ossigenarsi fino al midollo è una catastrofe : cadere da un pozzo e continuare la caduta, diventare la caduta per errore, balordo di polvere.

Madre, la mia testa è una zona marsupiale, un nido di piccole creature mai nate, si aggrappano alle mammelle, alle costole, spingono per avere un respiro, affondano sulle budella, suggono. Ho una testa piena zeppa di cadaverini in divenire, una scarsa funzionalità della placenta.

discinesia

Roberto inclina la testa a est, dice la terapia del movimento, dice la rabbia, dice la nebbia, dice le foglie che inciampano i bambini, dici la sabbia, dice le corse sui crampi, dice la testa, dice la rabbia, dice le grondaie piene di sangue, dice non dire, dice l’infante, dice il marsupio, dice luoghi d’origine e non origine, dice la nebbia, dice la rabbia, dice la nicchia ecologica mai avuta, dice il Mesozoico, dice le migrazioni, dice la testa inclinata ad ovest, dice la difficoltà del dire, il rallentato, Roberto l’uomo dai piedi giganti, l’uomo dei due tempi, Roberto che mastica coi denti innaffiati di involuzione, Roberto che ride, Roberto che non muove, Roberto che chiede : posso ancora una domanda?
Diagnosi : reparto infantile. Non c’è patente di guida, madre, non c’è una storia, ci sono le cadute, le centocinquanta cadute, centocinquanta cicale che fremono il giorno, disturbano il presente, Roberto che dice l’assenza, Roberto che cade, Roberto che è sempre caduto. Marsupiale, distonico, macropodidae.

Voglio colpire una cosa

5

di Silvia Tripodi 

 

[estratti dalla silloge vincitrice dell’edizione 2015
del Premio Elio Pagliarani, Sezione Inediti,
pubblicata in volume nel 2016 presso l’editore ZONA]

Voglio colpire una cosa
Mentre sto per colpire una cosa
Un’altra cosa si frappone tra la cosa che voglio colpire e me
Così non posso più colpire la cosa
Perché adesso tra la cosa e me c’è una cosa che sta in mezzo
La cosa che sta in mezzo
Tra me e la cosa che voglio colpire
Ha un nome che non so
Non le ho ancora dato un nome
Ha nessun nome
Il suo nome sta tra il nome della cosa e il mio
Si chiama la cosa non ancora colpita
Sta tra la cosa che voglio colpire e me
Hai dato un nome alla cosa che voglio colpire
Ma io non lo conosco
Non posso colpire la cosa alla quale hai dato un nome che non so
Posso colpire la cosa che le sta davanti
Prima di farlo le dò un nome
Il nome della cosa colpita
Alla quale ho dato un nome
Ha il suono di una pietra che cade in fondo a uno stagno
La cosa colpita pesa

François Jullien, la poesia, la critica

0

di Daniele Barbieri

 

Quando leggo François Jullien mi trovo frequentemente in convergenza col suo pensiero, riconoscendo comunque in lui l’invidiabile vantaggio di poter basare le proprie riflessioni su duemilacinquecento anni di pensiero cinese, nella sua fondamentale diversità dal nostro. L’assunto (wittgensteiniano) di base delle osservazioni di Jullien è che ciò che ci è troppo vicino, ciò che è alle basi stesse del nostro pensiero, ci sia per questo stesso motivo invisibile; ma che la sostanziale diversità del pensiero cinese (al di là del suo maggiore o minore valore rispetto al nostro, che non è in questione) ci può servire proprio come punto di vista esterno, dal quale vedere il nostro modo di pensare con maggiore chiarezza (e anche viceversa, ovviamente – però questo ci interessa di meno).

i cittadini

0

jean renoir la marseillaise 1938

 

jean renoir / la marseillaise (1938)

Tre montagne

1

di Matteo Meschiari

tre-montagneLa donna e il cacciatore salirono a Ospitale, a Croce Arcana, svalicarono il crinale, scesero nelle regioni deserte ed entrarono nel castagneto. Il verde era liquido, i rovi sembravano alghe.

Sara vide Enrico e il cacciatore le disse, guarda, è lui, ecco, spogliati, sciogliti i vestiti, va’ da lui.

Sara sciolse i vestiti, ed Enrico giacque su di lei. Per ore rimase su di lei, e lei lo abbracciava con forza, non respingeva il suo ardore, gli regalava tutto quello che sapeva.

Il verde era liquido, i rovi sembravano alghe, il seno era nudo, i fianchi battevano come onde.

Quando Enrico fu sazio guardò indietro, sopra la spalla. I merli schioccavano lontani, i daini intimiditi si nascondevano, nessun animale era sceso. Il castagneto, stanco, era un ciuffo di alberi vuoti.

Enrico guardò sopra la spalla, vide i castagni, ma quelli che vide erano alberi senza valore, il verde non era liquido, la donna sotto di lui era burro, molle, come il mare a Livorno.

Si alzò, le gambe erano dure. Perché questo silenzio? La forza del bosco si era sciolta come brina. Cos’era questo silenzio?

Enrico guarda la Sara che comincia a vestirsi, vede la donna nell’erba, le chiede di parlare. La Sara gli parlò.

Chinati verso di me, ascolta. Perché ti ostini a cercarli? Vedi? Non tornano a bere con te. I merli schioccano lontano, i daini intimiditi hanno paura del tuo odore. Perché vuoi mangiare con loro? Sono bestie. Ecco, tu sei un uomo, devi mangiare con gli uomini. Senti questo pane, bevi il vino rosso che ti manda Guglielmo. Giù a Fanano, nel villaggio dalle mille stalle, c’è lui, c’è l’uomo migliore del mondo, è Guglielmo, è forte come un toro selvaggio, tutti lo vogliono con sé.

Enrico ascoltava come chi ascolta le lodi di una donna. La ascoltava, perché voleva un amico, cercava qualcuno che potesse capirlo.

Sentimi Sara, portami da lui, voglio battere quest’uomo, vengo dai boschi, ho bevuto con gli animali, a Fanano crescerà il convolvolo, le mura di pietra crolleranno.

La Sara sorride, lo prende per mano, lo prende e lo porta via dai crinali.

Enrico si chinò sulla donna, le chiese di parlare.

Chi è questo Guglielmo, che faccia ha? Cos’è Fanano dalle torri come pollai e dalle donne che ti stringono con vigore? Chi è questo Guglielmo che sta sveglio nei letti degli altri e profuma di vino e formaggio? Portami da lui, vedremo se è più forte di Enrico.

La Sara sorride, lo porta giù dal crinale, gli mostra l’intreccio delle valli.

Vedi quella costa laggiù? Laggiù c’è Ospitale. E laggiù, dietro quel monte? Laggiù c’è Fanano, e a Fanano Guglielmo. Non cercare di competere con lui, lui ti aspetta. Questa notte farà un sogno, ti sognerà mentre scendi dalle montagne, domani sarà fermo in piazza, è là che ti aspetta. Non competere con Guglielmo, nessuno è più forte di lui.

Le ombre si allungavano tra le nevi. I boschi e i campi in pendio erano viola e scuri nella sera. Un vento gelato aveva spinto le cime, increspandole come onde.

 

NdR: questo frammento, rappresentativo di quella che mi sembra essere la scrittura particolarissima e molto bella di “Tre Montagne”, di Matteo Meschiari, è tratto dal secondo racconto della raccolta, Primo Appennino – Canovaccio di Piazza, e precisamente da (delizioso già questo): Tavola Seconda, 9. La civiltà di Sara.

Il libro è il secondo volume della collana dell’editore Fusta “bassastagione”, curata da Marino Magliani (e Fernando Guglielmo Castanar). Chi apprezza la scrittura di Magliani può secondo me apprezzare con ogni probabilità anche quella di Matteo Meschiari.

Qui sotto riporto un passo della postfazione di Gian Luca Picconi (Un deserto di segni: proustfazione geoanarchica):

2. Tre montagne si presenta come un trittico di racconti. Nel primo, Svernamento, un vecchio – così chiamato per tutta la narrazione – si accinge a una arrampicata, tra ricordi, descrizioni, paesaggi e frammenti di un taccuino. Da subito va detto che in uno studioso di paesaggio come Meschiari, diversamente da quanto ci si potrebbe attendere, le descrizioni di paesaggio non vanno assolutamente nella direzione di frammenti e squarci lirici che inframmezzano l’azione, secondo la misura classica della descrizione di paesaggio nel romanzo ot-tocentesco e novecentesco. Piuttosto, gli elementi descrittivi mostrano una sorta di autonomia ed evidenza del paesaggio che trascende la funzionalità di corrispettivo o correlativo delle emozioni dei personaggi: il paesaggio è dato, deleuzianamente, come se fosse lui a guardare i personaggi, e non come se ne fosse guardato. La base stilistica è la terza persona di un narratore esterno, ma a momenti la voce precipita nella prima persona, e questa mescolanza di istanze di enunciazione sembra quasi realizzare un passaggio dalla rappresentazione di un soggetto forte alla costruzione di una soggettività diffusa, che si fa carico, attraverso le varie posizioni della voce, di realizzare una correlato oggettivo dell’io autoriale. Ma il paesaggio non fa parte di questo correlato oggettivo: anzi, vi si oppone quasi, in una sua autonoma e assoluta potenza di essere sfida l’uomo ad esistere, guardandolo da fuori.

Nel secondo testo, Primo appennino, sorta di oratorio teatrale, una riconoscibilissima riscrittura dell’epopea di Gilgamesh ambientata nell’Appennino modenese (di cui Meschiari è originario) fa muovere Gilgamesh ed Enkidu al tempo dei partigiani. La scelta della struttura teatrale sembra impiegata con il fine di creare un enunciatore collettivo, simboleggiato nella figura del coro, e superato dialetticamente o comunque sussunto dalla dinamica degli spazi della vicenda; la scelta del mito dovrebbe dimostrare come il funzionamento della mente umana si basi su una serie di invarianti: se ne desume che la mente dell’uomo è abitata e modellata dal paesaggio; è una mente che, direbbe Meschiari, «si fa paesaggio».

Il terzo racconto, Pace nella valle, narra un’uscita a caccia di un uomo e del padre. L’enunciazione slitta continuamente dalla prima singolare (dell’uomo, e del padre, in quanto narratore di secondo grado) alla prima plurale. C’è, dietro questa problematizzazione della voce che la variabilità delle istanze di enunciazione produce, l’idea di enunciatore complesso.

Un passaggio dall’individualità solitaria del primo dei racconti – sempre in procinto di cancellarsi, presentandosi alla lettura come già scomposta e diffratta – alla capacità di dire noi dell’ultimo racconto induce a credere che Meschiari abbia voluto mostrare la parabola di una narrazione come sorta di dispositivo epico di costruzione di un’identità collettiva e comunitaria, parzialmente mutuato, anche nell’uso della prima persona plurale – in una personale declinazione tragica, tuttavia – da autori come Atzeni, Maggiani, Chamoiseau, Derek Walcott. Ma si tratta forse di una parabola a ritroso: dal vecchio, agli uomini adulti, al bambino, il punto di partenza è il punto di arrivo e in tutte e tre le storie l’unico elemento con cui veramente fare i conti fino in fondo è la morte. La conquista del noi è una conquista tragica, o che si basa su una determinazione tragica. Il minimo e sobrio sogno/desiderio di comunità sociale che Meschiari affida alla narrazione è sempre destinato a infrangersi contro la dimensione della morte. La morte è la sanzione di tutto ciò che il narratore può raccontare, direbbe Benjamin: una lezione da Meschiari appresa nel profondo, e applicata di seguito anche alla vita in comune: epica dunque, ma secondo una sua formulazione potentemente tragica.

 

E per finire riprendo dal risvolto anche la biografia dell’autore:

Matteo Meschiari (Modena 1968) è autore di saggi e testi letterari. Professore di Antropologia e Geografia all’Università di Palermo, ha studiato il paesaggio in letteratura (in particolare Campana, Biamonti e la Linea ligustica) e svolge ricerche sullo spazio percepito e vissuto in ambito europeo ed extraeuropeo. Ha formulato la Landscape Mind Theory, con cui sostiene che la mente dell’uomo è geneticamente e culturalmente paesaggistica, e ha proposto nuovi modelli interpretativi per l’arte paleolitica franco-cantabrica. La Wilderness, la città e il camminare sono al centro della sua scrittura. Scrive regolarmente su pleistocity.blogspot.it.

 

 

 

 

Il massacro nella Parigi che cambia

43

di Giacomo Sartori

bichat_826294-general-view-of-the-scene-with-rescue-service-personnel-working-near-covered-bodies-outside-a-restau.jpg modified_at=1447471532&width=1350

 

 

 

 

 

 

 

Solo qualche pensiero personale a caldissimo sulla “geografia”, ma forse sarebbe meglio di parlare sulla sociologia, di questi massacri, prima ancora che siano rivendicati e che se ne conoscano i dettagli (per ora se ne sa pochissimo), prima che sia digerita l’emozione, prima che parta la grande macchina delle

Vive la liberté, égalité, fraternité!

3

Care lettrici, cari lettori,
dopo ore d’angoscia, abbiamo avuto conferma che stanno bene Andrea Inglese, Jamila Mascat, Giacomo Sartori, Silvia Contarini, Francesco Forlani, Ornella Tajani, Giuseppe Schillaci – i membri di Nazione Indiana che vivono o gravitano su Parigi.

Il rabdomante e il tribunale

2

di Nicola Fanizza

18th_century_dowser

 

Vitantonio Ruggeri era un individuo oltremodo stravagante, era un folle particolare, un matto che diceva il vero. La madre, piccola di statura, era una donna colta e intelligente, aveva studiato e sapeva declinare a memoria tutti gli articoli del codice civile. Uno sviluppo esteriore modesto caratterizzava anche il figlio, il quale aveva ereditato dalla madre la mania per la lettura. A differenza di quest’ultima, però, non rivolgeva la sua attenzione al passato, bensì al presente. Era attento alla vita, era attento a tutto ciò che resisteva alla morte,  ai flussi di energia che animavano le forze in campo, agli equilibri instabili e coglieva in ogni attimo il non ancora. Ogni istante per lui conteneva una sorta di potenza, una potenza che non si esauriva mai completamente nell’atto.

Ruggeri si guadagnava da vivere facendo il rabdomante. Si era accorto di avere la capacità di avvertire la presenza dell’acqua nel sottosuolo allorquando, improvvisamente, sentì una scossa proveniente dal basso. Raccontò questo episodio a suo padre, il quale lo invitò a individuare una vena d’acqua nel fondo di famiglia.

L’aspirante rabdomante impugnò i lembi laterali di un ramo d’ulivo che aveva la forma di Y e attraversò per diversi giorni in lungo e in largo il podere di circa tre ettari. Si fermò solo quando si convinse di aver trovato il punto in cui aveva avvertito più volte un flusso di energia che aveva spostato la bacchetta verso l’alto. Si dice, però, che in quell’occasione non doveva essere molto convinto di aver trovato l’acqua, poiché invitò suo padre a reiterare l’esperimento. Il padre impugnò la bacchetta biforcuta …, ma asserì di non aver avvertito alcun flusso di energia. Nondimeno quest’ultimo di lì a poco si convincerà che Vitantonio era un autentico rabdomante. Fece scavare il pozzo proprio nel punto che gli era stato indicato dal figlio e trovò una ricca vena d’acqua.

E’ accaduto allo scrivente di riflettere non tanto sulle presunte doti dei rabdomanti, quanto sui luoghi che essi indicavano per scavare i pozzi. Ebbene, questi luoghi si trovavano sempre a monte e mai a mare: ossia sempre nella parte più alta dei poderi e giammai nella parte bassa. I rabdomanti sceglievano tale punto poiché era congeniale per l’irrigazione del fondo medesimo. Dalla cisterna, alimentata dalle norie e coestensiva al pozzo, l’acqua poteva arrivare, attraverso appositi canali, in qualsiasi parte del terreno!

Allo stesso modo in cui fiutava la presenza dell’acqua, Ruggeri prefigurava gli eventi che in un futuro più o meno prossimo avrebbero riguardato il suo Paese. E quando ciò accadeva, avvertiva l’esigenza e, insieme, l’obbligo di dire il vero agli altri. Tuttavia Ruggeri viveva in un mondo che da tempo aveva consumato la sua rottura con la verità del discorso profetico. Si esprimeva con delle oscure profezie che la sua città – Mola – non era disposta a recepire. Per i molesi non aveva che parole di sdegno e ricorreva nei loro riguardi allo scherno e all’invettiva. Diceva che non credevano alle sue profezie, avevano la capa tosta, erano troppo sensibili alle sirene del potere di turno.

Dal suo fascicolo personale* – conservato presso il Casellario politico centrale –, apprendiamo che tre mesi dopo l’entrata del nostro Paese nella seconda guerra mondiale, Ruggeri andava dicendo in giro che l’Italia avrebbe perso la guerra e profetizzava la fine del fascismo. Per di più nella notte del 12 ottobre 1940 scrisse sulla fontana monumentale, che signoreggia al centro della piazza del paese, alcune frasi disfattiste e denigratorie nei confronti del regime fascista.

Sulla scorta delle soffiate dei delatori, il giorno dopo Ruggeri fu arrestato. I dirigenti dell’Ovra di Bari si resero subito conto che non ci sarebbe stato bisogno di una perizia per sincerarsi in merito  alla sua fragilità mentale. Ciò nondimeno, nascondendo la sua pazzia, lo denunciarono al Tribunale speciale per difesa dello Stato per «disfattismo politico», ossia con l’accusa di «aver tracciato iscrizioni antinazionali e disfattiste su una fontana pubblica».

Tre mesi dopo si tenne a Roma il processo a suo carico, presso il Tribunale speciale per la difesa dello Stato. Il reato di cui Ruggeri era stato accusato era oltremodo grave, poiché prevedeva molti anni di carcere. Nondimeno il tribunale accolse solo in parte le richieste dell’accusa. Ecco qui di seguito il dispositivo argomentativo della sentenza: «Il Tribunale, in considerazione della menomata responsabilità dell’imputato (…) dimostrata da attestazioni mediche e da testimonianze a discarico, ha ritenuto – accogliendo la richiesta del P. M. – che nelle circostanze del fatto si integrassero gli estremi del reato meno grave di propaganda sovversiva, applicando il minimo della pena in mesi sei di reclusione». Di fatto quel Tribunale fu più crudele dell’Ovra poiché, pur non nascondendo la follia dell’imputato, lo ritenne comunque colpevole di un reato minore.

Il giorno dopo la sua condanna, Ruggeri chiese di poter tenere la corrispondenza con i suoi genitori e solo a partire dal mese successivo gli fu consentito lo scambio epistolare. Il Nulla Osta fu concesso solo quando le autorità di polizia appurarono che i suoi genitori erano «di buona condotta morale e politica, immuni da precedenti pendenze penali, di razza ariana e di religione cattolica». Questi ultimi cercarono in tutti i modi di ottenere le libertà del loro figlio e in questo senso si attivarono per rivolgere un’istanza di grazia al Tribunale speciale. Ma il 30 marzo 1941 il Ministero degli Interni respinse l’istanza di grazia in merito alla residua pena, tenendo presenti sia le «risultanze degli atti» sia il «parere contrario concordemente espresso dall’Autorità di P. S. e dall’Arma dei Carabinieri Reali».

Le dinamiche che portarono all’arresto e alla successiva condanna del Ruggeri le troviamo ottant’anni prima anche nella rivolta che ebbe luogo a Bronte nell’agosto del 1860, dopo lo sbarco dei Mille in Sicilia. Una jacquerie che Giovanni Verga ricostruisce, insieme alla successiva repressione, nella novella Libertà, mettendo in atto, però, una vera e propria mistificazione letteraria.

Ecco il passo della novella da cui questo particolare vien fuori: «Il generale fece portare della paglia nella chiesa, e mise a dormire i suoi ragazzi come un padre. La mattina, prima dell’alba, se non si levavano al suono della tromba, egli entrava nella chiesa a cavallo, sacramentando come un turco. Questo era l’uomo. E subito ordinò che gliene fucilassero cinque o sei, Pippo, il nano, Pizzanello, i primi che capitarono». Abbiamo messo in corsivo il nano: poiché è questo il punto.

Qui lo scrittore siciliano trasforma il matto, fatto fucilare da Nino Bixio dopo un processo sommario, in un ridicolo nano. Leonardo Sciascia dice che Verga non voleva turbare la sensibilità del lettore scrivendo «il pazzo»; e scrisse «il nano», dissimulando così in una «minorazione fisica la minorazione mentale». Eppure Verga sapeva benissimo che non si trattava di un nano ma di un pazzo: il pazzo del paese, un innocuo pazzo colpevole di aver vagato per le strade del paese con la testa cinta da un fazzoletto tricolore profetizzando, prima che la rivolta esplodesse, sciagura ai galantuomini e la fine del regime borbonico. I delatori lo avevano denunciato, proprio perché era un folle, era il più debole e, pertanto, correvano meno rischi.

Le motivazioni che spinsero i delatori a denunciare «il nano» sono – come abbiamo già visto – in larga parte identiche a quelle che porteranno ottant’anni dopo a promuovere l’arresto e poi la condanna del Ruggeri. In ambedue i casi ci troviamo di fronte alla medesima mistificazione messa in atto nei confronti del folle che dice il vero e, insieme, nei confronti di chi è più debole.

Ciò che sappiamo con certezza è che, dopo la fine della guerra, nessuno chiese conto ai giudici del Tribunale speciale in merito alle loro nefaste sentenze. Sappiamo altresì che uno di quei giudici, Gaetano Azzariti, che era stato Presidente del tribunale della razza, divenne nel 1957, addirittura, Presidente della Corte costituzionale.

I delatori che avevano denunciato Ruggeri continuarono a spiare i potenziali sovversivi non più per conto delle istituzioni fasciste, bensì per conto delle istituzioni repubblicane.

Per quel che riguarda Ruggeri, sappiamo che, dopo aver scontato la pena, tornò nel suo paese. Negli anni successivi – finita la guerra e caduto il regime fascista – continuava a rammaricarsi per il fatto che, benché dicesse il vero, nessuno credeva alle sue profezie!

 

* Vedi Archivio centrale dello Stato, Casellario politico centrale, Ruggeri Vitantonio, busta 4488.

 

 

Ieri & Oggi. 1992.

1

di Michele Fianco 

[inediti, da: La Confezione]

forse quell’angolo maledetto
tra la parete che rientra le
tue intensità dove la sco
pa non passa, non passa proprio o
una misurazione altra al
tre orologerie la lampa
da spenta che spegne anche me la
lampada accesa che accende
anche me o sugli autobus che
mi vanno verso di te poi tor

nano indietro poi di nuovo
intanto che provo la profondi
tà di un pensiero almeno set
te/otto centimetri sotto il
livello del mare a isola
re a spostare la composizio
chimica del tempo la rea
zione il reagente (a propo
sito di me reagente di te)
e mi fa allergia la marea

la teoria memorìa e un lun
go discorso d’amore che si af
faccia sul mare (una frazione
di secondo appena) e si al
larga la macchia del tempo e re
sta qualche riferimento sparso
una voce esaurita dagli
anni un cuore il cuore un cuo
re che si stempia e tracce d’affet
to fin nelle urine e la geo

grafia dei gesti che si ri
compone e ininterrotta vo
ce e la luce rotta una voce
per voce solipsista e si ac
cende e si spegne dentro l’impianto nervo
so dei nervi la terra la fret
ta la terra riorìgina ri
mugina rinvàgina non esi
ste non è questo non è terra e

fuoriuscirsi è forse più fa
cile oppure non so da uno
spiffero di luce che batte il
tempo che a proposito di tem
po non batte più sul ticchettìo
regolare delle ore si spac
ca un silenzio si scopre l’ulti
mo nervo quello matto che parla
urla gratta la gola che ninna
nanna bestemmia dentro i passi […]

[continua, continua, ma non poteva, / non poteva tutto ora. Si ferma.]

Pasolini, ragazzo a vita

3

pasoliniparisdi Gianfranco Franchi

Pasolini è diventato un totem, nelle patrie lettere. È uno dei due totem della vecchia Scuola Romana: oggi, forse, è diventato più carismatico e influente di quanto fosse mai stato in vita; tanto che forse ha finito per surclassare il totem primo, Moravia. Il professor Renzo Paris, l’irrequieto cane sciolto dei sessantottini, è sempre stato il biografo, e per certi aspetti l’irrisolto erede, del totem Moravia: un Moravia sentito come una figura paterna a rovescio, sentito come una misura di grandezza inconciliabile con certi aspetti del nostro tempo. Adesso, simbolicamente e direi inaspettatamente, Paris si mette a raccontare Pasolini: succede nel memoir Pasolini ragazzo a vita (Elliot, 2015), un libro di ricordi, di meditazioni, di evocazioni negromantiche e di pellegrinaggi laici, una restituzione di atmosfere rivoluzionarie studentesche e borghesone e borgatare romanesche, un saluto al totem pasoliniano che non sconfina nell’agiografia e non rimastica il pettegolezzo, non sprofonda nella paranoia e tendenzialmente non cede ai nostalgismi. Cosa s’è ricordato di ricordarci, Renzo Paris? Che non dobbiamo dimenticare che c’è qualcosa di Pier Paolo Pasolini che continua a fare spavento, e che dobbiamo sforzarci di tenere presente, quando rileggiamo i suoi versi, i suoi scritti corsari, i suoi romanzi giovanili, il suo incompiuto Petrolio. Non è soltanto la sua morte truculenta, maturata in un contesto allucinante, per dinamiche perverse: è la sua doppia anima, quella che il totem odierno sta finendo per oscurare e rinnegare, è il Pasolini notturno, aggressivo, prepotente, violento, quello che probabilmente aveva sconcertato il giovane poeta Dario Bellezza per il suo estremismo. Quello che probabilmente non aveva nessuna intenzione di essere raccontato o riconosciuto pubblicamente. Ma proprio nessuna. “Hai presente San Sebastiano, crivellato di frecce? Ecco, Pier Paolo oscilla tra la croce e le frecce”, spiegava Bellezza a Paris, prendendo una certa distanza dal suo mentore. L’adorato cugino Nico Naldini aveva parlato chiaro nel suo “Come non ci si difende dai ricordi”: “Da tempo Pasolini aveva adottato il sadomasochismo anche con rituali feticistici: le corde per farsi legare e così immobilizzato in una sorta di scena sacrificale farsi percuotere fino allo svenimento. Non ne aveva mai fatto mistero, sia nelle ultime poesie, sia in quelle giovanili dove si era raffigurato come Cristo-giovinetta nel martirio della Croce”. Oscillava tra la croce e le frecce. Oscillava.

 “Io qui sto parlando di un uomo che, se era estetizzante e un po’ dannunziano nell’opera, nella vita era tutto il contrario, spaccato in due, il borghese diurno e l’amante notturno, travestito da borgataro, ‘ragazzo a vita’” – scrive Paris. Il borghese è il Pasolini cittadino, letterato di chiara fama e ripetuti scandali, incontrato da Paris nel 1966, quando lui era ventiduenne e il poeta friulano aveva più del doppio della sua età. “Non che il borgataro dei romanzi ‘Ragazzi di vita’ e ‘Una vita violenta’ non mi interessi. Mi piaceva di quei libri l’atteggiamento materno del narratore in terza persona, nei confronti dei suoi ragazzini”. Il Pasolini borghese aveva impressionato Renzo Paris per via dei suoi ripetuti silenzi, della sua esibita estraneità. “Di Pasolini ce n’erano almeno due, quello amicale e socievole della teppa di borgata e quello silenzioso dei salotti borghesi. Bellezza sosteneva che il salotto era l’ambiente borghese dove Pier Paolo recitava la parte dell’intellettuale, del poeta, del cineasta, del critico, dove, in giacca e cravatta, non si sarebbe permesso mai di uscire fuori dal seminato. Meglio tacere il vero pensiero che gli passava per la testa. E infatti tutti a esclamare: ‘Ma com’è dolce e buono Pier Paolo, parla poco e niente e invece…’. Tutt’altra cosa era Pasolini quando lasciava gli amici artisti e correva a cercare le marchette di Termini. E qui Dario rideva di gusto. ‘Quando lo vedo compunto a casa delle Madame Verdurin romane e poi lo confronto con l’omosessuale in azione, mi confondo e penso che sono due persone diverse, diversissime. La madre non dorme più, tutte le mattine lo aspetta, guardando se ha i segni delle botte sul corpo, le macchie di sangue sulla camicia”. Forse il totem sta oscillando. È questo che la nostra epoca trova difficile da decifrare, da accettare, da metabolizzare: questa schizzata ambiguità, questo comportamento autodistruttivo, questa metamorfosi etica ed estetica. Questa segreta cattiveria: si può dire che Pasolini menava? Si può accettare come idea che un poeta fosse così aggressivo e rude? Si può pensare che, come altrove ripete Bellezza, con i figli del popolo fosse, in quelle sue nottate feroci, “pedagogo alla rovescia”? Quando ero molto giovane – sono nato comunque tre anni dopo la morte del poeta Pier Paolo, e la sua assenza, a via Fonteiana e dintorni, si sentiva forte, lancinante, irrisolta – ho potuto parlare con qualcuno degli ex ragazzi di Donna Olimpia, nel quartiere Monteverde, per domandare perché di Pasolini mi sembrava non si potesse parlare troppo, nel quartiere, o comunque perché si faticava tanto a riconoscergli quella grandezza che certi suoi versi e tanti suoi scritti critici chiaramente raccontano. La risposta di quasi tutti loro, a parte uno, era nervosa, qualche volte proprio parecchio rabbiosa, molto simile, in certi accenti e per certi aspetti, ma con molta meno educazione, a quella che il poeta Dario Bellezza dava, negli anni Settanta, a Renzo Paris. Io questa cosa non sono mai riuscito compiutamente a metterla a fuoco. Non l’ho mai trovata possibile, non aveva linearità. La accetto, o meglio ne ho preso atto, ma non la capisco. “Pasolini ragazzo a vita” va spesso a sbattere addosso a questa risposta qui, come una falena su una lanterna: senza nessun intento di profanazione, senza nessun giudizio morale, si capisce, perché anzi questo libro è, sin dall’incipit, non soltanto un atto di profonda amicizia e di memoria, ma un’evocazione negromantica: Paris va sulla tomba del poeta, nel suo adorato Friuli, a Casarsa, e sulla tomba trova segni e simboli di chi cerca di richiamare alla vita uno spettro. È uno spettro carismatico, ma molto più complesso e contraddittorio di quello che potevamo sospettare. È un ricordo autentico, durissimo.

“La memoria è tutto, mi dico” – scrive Paris. “Ma ci sono nomi che non mi vengono in mente nemmeno sotto tortura. Ed era gente con cui ho passato diversi anni della mia vita, gente con cui ho condiviso le lotte. Quando incontro uno di loro in transito nel mio quartiere, svicolo. Poi mi accorgo però che anche quello sembra svicolare. Forse è dovuto all’idea dell’immortalità, di cui ci si nutre in gioventù. Con la vecchiaia quell’idea si frantuma e dunque crolla anche il nome di chi doveva rimanere eterno. Da bambini la vita era una pagina bianca tutta ancora da scrivere. Da vecchi quella pagina, tutta scritta, si cancella a poco a poco”.

Cos’altro c’è di notevole in “Pasolini ragazzo a vita”? C’è un discreto coraggio nello schierarsi, a distanza di tempo, con la stessa ostinazione e la stessa naturalezza, da certe parti. Ci si schiera con gli studenti contro tutto, ci si schiera con Nuovi Argomenti contro il Gruppo 63, ci si schiera a fianco di Laura Betti nonostante tutto (e soprattutto, nonostante “Qualcosa di scritto”, lettura che Paris tiene ben presente), ci si schiera contro Pasolini per la sua tirata reazionaria di Valle Giulia, ci si schiera contro i fascismi e contro i fascisti di ogni ordine e grado, con il lessico d’antan; ci si schiera contro la nostra epoca che sta trasformando il poeta Pier Paolo in un’icona pop, ridotta a due battute o giù di lì, a un amuleto, a un passepartout. Ci si schiera contro la degradazione della memoria, contro la corruzione della memoria. Ci si schiera contro l’ipocrisia di non ammettere che certi comportamenti erotici pasoliniani, certe sue amicizie ragazzine, oggi sarebbero considerate disastrose. Ci si schiera contro le semplificazioni cretine di intelligenze tanto complesse, e contraddittorie.

E ogni tanto, a disorientarci parecchio, appare il Totem. “Lui non fumava neppure le sigarette, e io mi chiedevo come faceva a scrivere e filmare così tanto, senza una spinta. Elsa Morante si imbottiva di psicofarmaci, invece, per scrivere. Pasolini era, come Moravia, un igienista e un salutista di vecchio stampo. Voleva scandalizzare con le sue opere. La sua musa non lo abbandonò mai, neppure per un istante. Scriveva versi di getto, poi quelli che pensava di pubblicare li riscriveva più volte. Le sue gloriose terzine, con il passare del tempo, erano diventate pura prosa, come nella migliore tradizione del secondo Novecento. E la prosa era sempre più legata al diario delle emozioni provate nei suoi continui viaggi all’estero. Titolava ‘Comunicati all’Ansa’ i versi del suo diario di viaggio. Voleva sporcare di prosa la sua poesia, fino a renderla irriconoscibile, voleva renderla ‘pratica’”. Così.

C’è un’ultima cosa che vorrei riferire. Questo libro è così profondo, come scavo nella memoria e sondaggio nell’inconscio, che finisce per restituire frammenti intensissimi del movimento studentesco che fu; c’è una scena in cui Paris racconta di una biglia, scagliata dai neofascisti, che gli spacca gli occhiali, poco prima un banco ha spaccato la schiena a qualcuno, c’è nell’aria una normalità della violenza, delle ferite e della morte che sconcerta, c’è un freddo da guerra civile che per la mia generazione è irragionevole, mai sperimentato. Ma qualcosa è successo anche a me, mentre leggevo certe scene e ritrovavo certe considerazioni di Paris, certi strascichi polemici e così via. Ho rivisto papà. Mio padre, caro Paris, aveva praticamente la tua età, era del 1945. Si chiamava Sergio Franchi, studiava Filosofia alla Sapienza, aveva gli occhiali, somigliava a Mastroianni, si definiva vigliacco praticante ma aveva le sue idee. Nella sua adolescenza, e in giovinezza, era comunista. Era sessantottino, era dalla tua parte. Probabile che vi siate conosciuti. Leggendo il tuo libro, a un tratto, mentre pensavo al sangue – perché questo libro è pieno di sangue – mi sono ricordato una scena di quando ero ragazzino, tredici anni. Papà stava nel suo studio, un pomeriggio, circondato da buste e bustoni. Stava buttando via un sacco di cose. “Papà, che fai?” “Lascia stare”. “Dimmi che stai facendo”. “Non voglio, non è il caso”. “Cosa fai?” “Butto via cose che tu non devi vedere, cose che non dovrai mai trovare. E le butto adesso, che ancora non capisci”. “E che cose sono?” “Sono le cose del mio Sessantotto. Lettere. Giornali. Ritagli. Cazzi miei. Cose che tanto tu non potrai mai capire”. “Aspetta, dai…”. “Lascia stare. Non ti immischiare. Non ti riguarderanno mai. Tu non puoi capire”. C’ero rimasto male, me n’ero andato dietro la porta e ogni tanto tornavo a controllare cosa faceva. Smaniava, sbuffava, fumava come un turco e buttava via di tutto. Ricordo però un bastone nero che si apriva e aveva una strana punta acuminata. Ricordo un’agenda con su scritto “1968” con diverse macchie di sangue sulla copertina. Non ricordo altro. Non ho potuto guardare quelle carte. Non ho potuto aprirle, non mi ci sono mai potuto confrontare, di certe cose mio padre, Sergio, non ha mai voluto parlare. Non s’è mai laureato in Filosofia, la Sapienza la considerava un luogo di sventura, invecchiando è diventato borghese, ha lavorato per un accordo storico tra Democrazia Cristiana e comunisti, è stato sindacalista tutta la vita. Quanta complessità, quanto riserbo, quanti silenzi. Quanti rimpianti. Quanto sangue.

Filippo Tuena racconta i «Memoriali sul caso Schumann»

3

Memoriali sul caso Schumann01

Esce oggi Memoriali sul caso Schumann (il Saggiatore), il nuovo libro di Filippo Tuena. Ne pubblico un estratto per gentile concessione dell’editore. Lo precede una Lettera sullo stato del romanzo inviata dall’autore.

***

LETTERA SULLO STATO DEL ROMANZO
Filippo Tuena

Caro Davide,
la scorsa estate facemmo una chiacchierata al bar della Casa del Cinema a Roma a proposito dello stato del nostro modo d’intendere la parola romanzo. Fu una conversazione teorica, basata su quel che bolliva in pentola, sulla nostra officina privata. A quattro mesi di distanza la teoria è diventata pratica e il mio ‘Memoriali sul caso Schumann’ (il Saggiatore) è in libreria. Dunque torno sull’argomento, perché questo libro è strettamente legato a quei discorsi da caffè che facemmo allora.

Parafrasando Dürrennmatt, ‘Memoriali’ è il mio requiem per il romanzo, inteso come l’ho inteso io negli ultimi quindici anni di lavoro. Chiude il discorso iniziato con ‘La grande ombra’ e proseguito, via via, con ‘Le variazioni Reinach’, ‘Ultimo parallelo’ e ‘Stranieri alla terra’. Ovvero una meditazione sulla narrativa biografica, e la ricostruzione – attraverso i meccanismi della narrazione e lo stile – di figure storiche ed eventi reali. Dopo la follia di Schumann, che qui si rappresenta, non credo che affronterò più questo genere di narrativa. Altre cose mi premono, più personali, autobiografiche, minimali. Dunque con questo libro termino un periodo lungo e, per quel che mi riguarda, fecondo. Ma lo chiudo perché credo d’aver toccato la radice del problema. E, proprio per questo motivo, il libro è molto più feroce e spietato di altri che ho scritto.

‘Memoriali’ è il mio requiem per il romanzo,
inteso come l’ho inteso io negli ultimi quindici anni

In queste pagine si dà voce a sei testimoni del precipizio nel quale scivolò Robert Schumann negli ultimi anni di vita. Come al solito ho lavorato su documenti, testimonianze dirette, ascolti musicali. Credo d’esser andato vicino alla soluzione, d’averla sfiorata, forse inconsapevolmente, forse con determinazione ma, appunto, l’ho sfiorata. Mi accorgo, a fatica terminata, sfogliando il libro fresco di stampa, che neppure le sei voci trovano la soluzione al quesito: perché Schumann si rinchiuse nella follia, e di chi era la responsabilità di quell’evento. In realtà queste voci non trovano comunicazione in alcun modo. Falliscono le situazioni affettive, falliscono le soluzioni artistiche, mancano il bersaglio anche quelle più fantastiche.

Senza rendermene conto mi sono affidato a personaggi che manifestano un’impossibilità affettiva, imperfezioni fisiche e caratteriali o, si potrebbe altrettanto bene dire, il meccanismo affabulatorio ha preteso voci balbettanti, per il ruolo di testimoni.

Questi personaggi imperfetti, incompiuti, reticenti – per impossibilità più che per volontà – informano, comunicano, forniscono al lettore le coordinate, ma non mettono la parola fine alla questione. Né dal punto di vista stilistico, né da quello storico. In breve, focalizzano il problema ma manifestano la loro impotenza.

Da dove nasce questa impotenza? Me lo son chiesto mentre lavoravo all’ultimo memoriale del libro, quello che attribuisco a un Johannes Brahms senile che, seguendo le teorie del suo medico curante, Joseph Breuer, prova a dar libero corso ai suoi ricordi, ai suoi rimorsi. L’ho scritto praticamente di getto e mi sono accorto che era in questo scrivere per associazioni che il libro trovava la sua conclusione formale e una soluzione inaspettata, ancorché parziale. E’ stato lo svolgersi della scrittura a offrirmi uno spiraglio, non la schematicità del genere romanzo.

Del romanzo tradizionale ho rinunciato agli orpelli – in questo libro c’è un solo luogo descritto più volte: il giardino del manicomio di Endenich; pochissimi discorsi diretti; e invece un frequente ricorso al genere epistolare e diaristico o al soliloquio. Dunque, è in questa direzione che sto andando, poiché mi sembra più sincera, più diretta, più efficace. L’estensore di un epistolario conosce perfettamente il destinatario dei suoi scritti. Sa quali sono i suoi punti deboli, sa come colpire, sa come blandire. Il diario o il soliloquio – chiamalo se vuoi monologo interiore – riguardano esclusivamente colui che scrive o che bisbiglia. Rinunciano a spiegare, chiudono la comunicazione col mondo esterno. In cambio, si può procedere nelle profondità. Il lettore può inserirsi in queste pagine, può osservare, ma spesso deve ammettere la propria impotenza quando si parla di cose a lui ignote. Percepisce l’accadere di eventi ‘altri’ ma ne è irrimediabilmente escluso.

Così accade sovente allo scrivente di rendersi conto che non scrive per il lettore ma per il rispetto della pagina, non altro. E quella pagina deve contenere solo quel che serve, non mai tutto quel che lo scrivente sa. Diceva Voltaire – cito a memoria – ‘Vuoi annoiare qualcuno? Raccontagli tutto.’

Il lettore che legge i diari, i memoriali, gli epistolari qui ricostruiti si trova sempre a margine. Nulla gli è veramente spiegato. Ma può ricostruire la sua versione dei fatti, mettendosi in gioco, beninteso.

Questa narrativa procede per sottrazioni; anzi, trae persino origine dalle sottrazioni. In alcuni casi è sottrazione anche dalla sintassi, dal bel periodare. Nei ‘Memoriali’ ce ne sono diversi esempi.

Ora si potrebbe obiettare: se il risultato è non arrivare alla soluzione, hai sbagliato. L’architettura che hai messo su non consente né ai personaggi, né al lettore di soddisfare la propria ricerca di verità.

E se invece fosse proprio questo l’obiettivo finale della scrittura:
NON arrivare alla verità?

Dissento. E se invece fosse proprio questo l’obiettivo finale della scrittura: NON arrivare alla verità e questo libro lo dimostrasse? Che la presa d’atto dell’impotenza e del fallimento fosse una splendida vittoria? La mia formazione di storico d’arte mi porta ad accettare anche questo come un risultato positivo. Ammetto che una soluzione del genere mi appagherebbe, vedrebbe soddisfatte le mie aspirazioni di narratore e magari dimostrerebbe che le privazioni che mi sono imposto nella stesura del libro conducono più in profondità lettore, personaggi ed autore. Toccano il nocciolo della questione.

Tempo fa, in un’altra chiacchierata, pubblica questa, mi venne spontaneo affermare che ‘lo scrittore è uno che rompe le cose’. Più specificatamente, ‘che rompe il romanzo’; più specificatamente ancora, ‘che accosta tra loro i frammenti del romanzo nel quale s’è imbattuto’. Insomma: è uno che spacca le cose per vedere come son fatte e poi racconta questo romperle e cercare di rimetterle assieme.

Ripeto, a cose fatte, mi accorgo che è successo questo. Ed è per questo motivo che il libro termina con uno sberleffo, rivolto a me, più che agli altri artefici della vicenda.

Sarà il lettore a dissentire o condividere la mia analisi, ma con tali premesse è evidente che ‘Memoriali sul caso Schumann’ porta alle conclusioni la mia riflessione sulla scrittura narrativa. Non sul mio scrivere.

Stai bene. Grazie dell’ospitalità.
Filippo

 

***

schumann


MEMORIALI SUL CASO SCHUMANN
Johannes Brahms

 

Carissima signorina Leser,

da tempo ricevo lettere appassionate che mi chiedono informazioni circa la triste stagione di Düsseldorf, il mio incontro con Schumann, la reciproca esaltazione e il suo precipizio nella palude orrenda della malattia.

Per molti anni ho conservato gelosamente la memoria di quel tempo, condividendola con l’amatissima Clara e, anche dietro suo suggerimento, ho sempre mantenuto la più grande riservatezza. Ora vedo che quei giorni tornano prepotentemente alla superficie e, nonostante i miei sforzi, finiranno per emergere particolari che preferirei rimanessero nascosti. Il corso degli eventi va in una direzione opposta ai miei desideri e temo grandemente che quei tristi casi saranno maneggiati in maniera impropria da chi volesse immergervisi.

Il vostro memoriale – che mi è giunto pochi giorni dopo il mio rientro qui a Vienna – e la circostanza della malattia di Clara (che soffrirebbe terribilmente del riacutizzarsi di quella ferita) mi convincono a recedere infine dal mio intento di riservatezza e a stilare per voi la mia versione dei fatti. Che essa corrisponda alla verità non so. Ma il mio punto di vista, voi lo sapete, è quanto di più vicino agli eventi, e preferisco svelare segreti per mio conto piuttosto che lasciare siano altri ad arrogarsi questo diritto formulando illazioni o, peggio, pettegolezzi.

Mi trovo in una stagione dell’esistenza nella quale ho smesso di creare e penso piuttosto a correggere gli errori della vita che ho vissuto e della musica che ho composto. Quelli della vita mi sembrano ormai definitivi, privi di possibilità di appello. E dunque esercito il rimorso o poco di più, ed è un contrappasso terribile. Ma la musica ancora mi concede qualche possibilità. Questo desiderio si esplica soprattutto nel particolare, mi verrebbe da dire. Mai più grandi composizioni, mi sono imposto. Mai più orchestre ricche di suono. La voce umana e pochi strumenti. Miro a questo. Se fossi uno scrittore passerei il mio tempo a spostar virgole nelle molte pagine che ho scritto. E anche questa lettera – che presumo sarà lunga – sarà soltanto un migliorare la punteggiatura o, musicalmente, un mettere a posto accidenti e annotazioni di uno spartito assai complesso che è già stato quasi del tutto scritto. Non ho più la forza per esercitarmi con le strutture articolate. Non sopporterei il cimento. E, come dicevo, agli errori commessi, a quelli fatali e definitivi – se si tratta di errori e non di obbedienza al Fato –, non è possibile porre rimedio.

È strano. Sto facendo come lui. Comincio a dedicarmi agli altri. Ho piacere a rendere felici le persone che hanno talento. E cerco di farlo senza commettere errori, quegli errori che hanno segnato il suo tramonto. E forse contagiato anche la mia vanagloria. Ma la gioventù è spietata. Me ne accorgo ora. C’è così tanta energia e a volte è mal indirizzata. Correggo questa stortura, ma quel che è fatto è fatto. Non posso porvi rimedio, voi comprendete? Posso solo spiegare a me, e a voi, quel che è accaduto.

Vi avessi incontrato in questi anni forse avrei avuto il coraggio di dirvelo a voce. Ora mi trovo costretto a scrivere, a mettere in bella il flusso dei pensieri e dei ricordi. Ed è cosa dolorosa, immagino lo sappiate.

Ecco, poco sopra ho appena sfiorato l’ombra cupa sotto la quale vi scrivo. La malattia di Clara. Lo sapete, è il colpo apoplettico che l’ha ferita poche settimane fa e che, dati gli strapazzi della sua vita, le sofferenze e le ansie e i lutti, difficilmente riuscirà a superare. È nell’anticamera della morte. Non posso non accennarvi, anche se m’ero ripromesso di non parlarne, di non scriverne, tanto è il dolore che m’accompagna costantemente. Ma forse proprio per questa consuetudine costante è riapparso qui, dove l’argomento è piuttosto Robert o, meglio ancora, io visto da Robert o, se volete, Robert visto da me. Ma è certo che da qualunque parte la osserviate, la questione fu nelle mani di Clara. Fu lei a disporre i contendenti – perché uso questa parola agonistica? Molto s’è detto circa la sua apparente fuga dalle responsabilità. L’aver abbandonato Robert, l’aver abbandonato Ludwig, l’aver sovente lasciato i figli per seguire le sue tournée, i suoi impegni musicali. Posso assicurarvi che ha sofferto questi abbandoni in maniera terribile: non voleva nascondere il viso alle difficoltà, ma pensava di poter essere di maggior aiuto altrove che non accanto a loro. Ha esercitato una dolorosa volontà; credo abbia percepito il suo affetto come pernicioso e s’è risolta a tante privazioni per non aumentare il peso degli addii che inesorabilmente avrebbe dovuto affrontare, procurando dolore a sé e ai suoi cari. Altrettanta inflessibilità ha mantenuto nel silenzio circa i suoi casi più dolorosi – e voi l’avete sperimentato anche di recente.

Uno degli ultimi atti che ha compiuto è stato quello di distruggere. Mi riferisco agli ultimi brani per violoncello e pianoforte composti da Robert. Io li ho letti. E ne ho parlato a lungo con lei. Per certi versi concordo con la sua decisione, per altri me ne rammarico. È musica disarticolata. Priva di eleganza, sprezzante, violenta. Ma che altra musica avrebbe potuto scrivere nelle condizioni in cui si trovava, sull’orlo del baratro nel quale precipitò? So che Clara avrebbe voluto stracciare anche il concerto per violino scritto per Joachim, (nel secondo movimento appariva, seppur brevemente, quel tema) ma la partitura era nelle mani del violinista e Joachim, per quanto richiesto, s’è sempre rifiutato di consegnarla. So che non ha mai eseguito in pubblico quel concerto – salvo le due esecuzioni che fece allora per gli Schumann – ma dubito che lo distruggerà. Manterrà l’impegno che s’è preso con lei – ero presente io stesso – nel non eseguirlo, ma non lo distruggerà. Parlai della questione più recentemente con lei e con la figlia Eugenie, e Clara fu categorica: il concerto non dovrà mai essere pubblicato. Tuttavia è probabile che prima o poi qualche filologo finirà per riesumarlo. Forse per i nostri anni e per il nostro senso dell’equilibrio è un concerto irrisolto, ma non dubito che nel tempo a venire troverà la sua giustificazione e che gli ascoltatori del futuro sapranno apprezzarlo.

E poi, alla mia età e con la mia esperienza comincio a credere che un artista giunto a un certo punto del proprio percorso debba anche considerare l’opportunità di mandare in frantumi la bella forma. Anche soltanto per arrivare al cospetto del problema, alla sua radice. Non sto forse facendo lo stesso in queste righe? Vorrei portare in superficie il meccanismo che ha annientato il nostro amico e posso farlo soltanto rompendo la maschera che lo nasconde. Foss’anche la mia.

Anteprima Sud Anni Ottanta: Ingo Schulze

0

Sono molto lieto di condividere, in anteprima, con i lettori di Nazione Indiana il bellissimo testo di Ingo Schulze, magnificamente tradotto da Stefano Zangrando​, dedicato alla caduta del muro di Berlino e che si potrà leggere sul numero di Sud in uscita il 15 Novembre. A settant’anni dalla prima uscita della  storica rivista fondata da Pasquale Prunas e a cui parteciparono Anna Maria Ortese, Luigi Compagnone, Raffaele La Capria, Francesco Rosi, Gianni Scognamiglio e tanti altri giovanissimi intellettuali, il nostro numero extra sarà dedicato agli anni Ottanta e a Renata Prunas (ma non glielo abbiamo ancora detto)  che ci ha permesso di mantenere ben teso le fil rouge che ci unisce a quell’esperienza. effeffe ps Le fotografie che accompagnano il testo sono di Rino Bianchi (sx) e Philippe Schlienger (dx). La mise en page è di Marco De Luca.

 Copia di Schermata 2015-11-04 alle 19.48.37

Viviamo di rimozione

di

Ingo Schulze

traduzione di Stefano Zangrando

Dov’ero il 9 novembre 1989: è la domanda che mi fanno più spesso. Di regola chi me la pone assume un’espressione gioiosa, come se in quel modo procurasse un piacere anche a me. In questa data, infatti, si possono combinare felicemente, chiamandole in causa entrambe, la dimensione personale e quella storica. Quando io poi ammetto che quella sera d’autunno andai a letto presto e che perciò posso solo dire: «Quando mi svegliai, il muro non c’era più», la delusione è palpabile.

Alle domande ulteriori mi piace rispondere che il vero crollo del muro era già avvenuto con l’apertura dei confini ungheresi il 10 settembre. E che ovviamente il crollo del Muro di Berlino mi sorprese, certo, e ovviamente mi fece piacere, come potrebbe essere altrimenti? Tuttavia, quando di lì a poco vidi la gente in coda davanti all’«Ufficio circondariale della polizia popolare» per ottenere il timbro che autorizzava a visitare legalmente l’Ovest, mi preoccupai: se adesso vanno tutti nell’Ovest, chi verrà più alle nostre manifestazioni di piazza?

Ma perché sono diventato così recalcitrante a parlare del 9 novembre? Forse perché non ho nulla da raccontare? Perché nell’Ovest ci andai per la prima volta solo alla fine di novembre di quell’anno? O perché c’erano cose più importanti?

Il crollo del Muro è senza dubbio una cesura storica. Nella memoria ufficiale esso copre e domina l’intero autunno 1989 e persino gli altri 9 novembre, quelli del 1938 e del 1918. Il crollo del Muro appare così chiaro e inequivocabile! Le persone si riversarono da Est a Ovest, dalla dittatura verso la libertà. E si sa bene in cosa sfociarono i cambiamenti. Sottinteso: doveva andare così. E ancora: così si è voluto.

Per me il crollo del Muro fu un evento eclatante fra altri. E non ebbe niente, assolutamente niente a che fare con considerazioni di tipo nazionale. Un cammino comune, addirittura un’unificazione di Repubblica Democratica e Repubblica Federale? E come? Ridicolo!

Preferirei di gran lunga che mi si chiedesse del 9 ottobre. Non soltanto perché in quel caso avrei qualcosa da raccontare. Ma già a questo punto bisogna spiegare: il 9 ottobre fu il giorno in cui forse si decise tutto, quel primo lunedì dopo il 40° anniversario della DDR (il 7 ottobre), quando gli ospiti di Stato se n’erano ormai andati e su Lipsia incombeva la minaccia di una «soluzione cinese». Nonostante i tentativi di intimidazione, 70.000 persone manifestarono per le strade del centro. Per la prima volta non c’erano agenti in uniforme a bloccare il percorso e far disperdere i dimostranti. E per la prima volta fu percorso per intero l’anello intorno al centro cittadino. Solo a partire dal 9 ottobre fu messo in pratica da entrambe le parti l’imperativo «Niente violenza!». Anche se a uno non venivano in mente le parole di Goethe – «Da qui e oggi comincia una nuova epoca della storia del mondo e voi potete dire di esserci stati» – tuttavia quella che si provava era una sensazione di questo tipo. Qualunque cosa fosse successa, avremmo potuto competere con il 17 giugno 1953.

Già il lunedì 2 ottobre, quando i pochi striscioni erano ancora piccoli, così da poter essere arrotolati e portati sotto la giacca per poi passare di mano in mano sopra le teste, girava il motto Visafrei bis Shanghai!, «senza visto fino a Shanghai». Fin dall’inizio si trattava del mondo intero! E dell’ammissione del Neues Forum e dei nuovi partiti sulla scena politica, e dell’accesso ai media, e di libere elezioni, e soprattutto di democratizzare il proprio mondo. Il motto decisivo era: «Noi siamo il popolo!». Si trattava davvero di riprendersi in mano il paese. In fabbriche, scuole, università, in teatri e istituti si iniziò a eleggere in posizioni direttive coloro che godevano della fiducia della maggioranza. Era questa la vera rivoluzione. Chi ci avrebbe più fermato? Giorno dopo giorno la realizzazione di un «socialismo dal volto umano» sembrava sempre più inevitabile.

Delle manifestazioni di Lipsia, questo atto di sovranità, ci sono pochissime immagini, e queste poche sono scure, confuse e per nulla spettacolari. Proprio come le immagini della Tavola rotonda in Polonia o delle riforme in Ungheria. Le immagini dei rifugiati nelle ambasciate della Repubblica Federale o della gente che balla sul Muro, invece, le conoscono tutti.

Passando oggi in automobile davanti al Museo Storico Tedesco di Berlino, si vede la copia di un manifesto assai tardo, che mostra i contorni delle due Germanie assieme allo slogan: «Noi siamo un popolo».

Non ricordo con precisione quando questo motto, scritto in origine su un adesivo della CDU occidentale, sia penetrato nelle manifestazioni, ma fu nelle prime settimane dopo il crollo del Muro. L’espressione «un popolo» era fatta per revocare la dichiarazione di sovranità e con ciò la stessa rivoluzione. «Noi siamo il popolo» contro «Noi siamo un popolo». Non che uno abbia sostituito l’altro, fu invece una lotta fra i due per prevalere nelle manifestazioni. E il museo mostra il vincitore.

Nella settimana che precedette le elezioni del 18 marzo 1990, Helmut Kohl batté la Germania orientale in un’instancabile tournée elettorale. La sua mossa vincente fu quella di stringersi al cuore la CDU orientale, che era completamente caduta in discredito: se votate lei, votate me. Eccola, la traccia di melassa occidentale. Il suo successo fu strepitoso, la nostra sconfitta assoluta. 2,9% al Neues Forum, 48% all’alleanza elettorale messa in piedi da Kohl, di cui ben il 40,6% ai Blockflöte della CDU, ossia i «flauti dolci», com’erano chiamati i cosiddetti «partiti di blocco» o alleati del partito maggiore nella Repubblica Democratica. Adesso era chiaro in quale direzione si sarebbe andati. La maggioranza aveva deciso. Non era quello che avevo sempre voluto?

Nel febbraio 1990 avevo fondato con degli amici un foglio settimanale che accompagnasse la democratizzazione del Paese (ognuno al proprio posto). Scrivevamo ancora, con gran rombo di grancassa, che, se proprio non si fosse ottenuta un’autonomia, si sarebbe almeno giunti a un’unificazione dei due stati, e non all’adesione di uno all’altro. Sarebbe stata anche un’occasione per l’Ovest, che avrebbe così potuto riformare il proprio sistema. Ma anche questo rimase fuori discussione. Quel che aveva fatto l’Ovest era giusto, quel che aveva fatto l’Est era sbagliato. E da allora in poi si sarebbe fatto soltanto quel che era giusto. Potevamo star contenti di aver superato lo scoglio dell’unificazione monetaria senza dover dichiarare fallimento come tutte le grandi aziende della città di Altenburg. Un anno dopo il magnifico autunno, il nostro giornale lottava per la sopravvivenza. Invece di battermi per la democrazia o per il «diritto al lavoro» che si era estinto con l’adesione alla Repubblica federale, presto mi ritrovai a bazzicare soltanto nuovi mobilifici e concessionarie d’automobili. Dovevo infatti cercare di soppiantare la cosiddetta concorrenza, gli altri giornali e fogli commerciali che sgomitavano come noi per pubblicare annunci, e che avevano persino assunto la nostra segretaria e quindi possedevano il nostro portafoglio clienti, mentre noi sentivamo la mancanza sia dell’una che dell’altro. Li odiavo tutti, quei «concorrenti», perché puntavano a minare la nostra esistenza professionale, anzi la nostra esistenza tout court – come noi la loro. Nell’autunno 1989 avevo fatto esperienza di come rivendicazione e prassi potessero combinarsi. Si trattava, come ho detto, del volto umano della società, quindi della dignità di noi tutti, di un mondo migliore. Ma che aspetto aveva il mio volto, adesso? Deformato dalla rabbia? In preda al panico? Perplesso? Braccato? Quel che facevo giorno dopo giorno non era forse contrario a ciò che ritenevo buono e giusto? Mi ero mai contorto davanti a un funzionario come facevo adesso davanti al proprietario del più grande mobilificio della regione?

Parlare e scrivere di questo mi sembra necessario soprattutto perché, in seguito al 1989, sono sorte in tutto il mondo nuove condizioni che consideriamo ovvie, naturali, e che forgiano il nostro presente. E siccome le consideriamo naturali non ne parliamo più, le diamo per scontate, come se le cose non fossero mai state diverse. È naturale che debba esserci crescita (ormai perfino il fatturato stimato nel contrabbando di droga e sigarette viene conteggiato all’interno del PIL), è naturale che i ricavi nell’economia privata siano l’ultima ratio. Non conta ciò di cui vi è bisogno, ciò che rende possibile una sopravvivenza ecologica, economica, sociale ed etica. Se il 60% della devastazione ambientale causata dagli svizzeri avviene all’estero (e nel caso dei germanici non sarà molto diverso), questo significa che viviamo di rimozione nel vero senso della parola. Ormai è praticamente impossibile andare a far spese per una settimana senza commettere una qualche porcheria che, se ne fossimo immediatamente consapevoli, ci farebbe orrore. Solo le cifre virtuali e le entità dei capitali finanziari sono completamente inaudite, e quindi assurde. E benché abbiano perduto da un pezzo qualsivoglia copertura reale, l’imperativo del continuo incremento esponenziale che le contraddistingue continua a decidere delle buone e cattive sorti dell’umanità.

Per molto tempo fui convinto di poter parlare con fiera convinzione goethiana del 1989 e delle sue conseguenze. Oggi però sento molto più affini l’incertezza e la confusione del giovane Fabrizio del Dongo, protagonista della Certosa di Parma di Stendhal, che aggirandosi sul campo di battaglia di Waterloo chiede: «Ho veramente partecipato a una battaglia?». Poiché solo oggi, un po’ alla volta, inizio a comprendere ciò che hanno provocato i mutamenti di allora.

cinque testi da “elsamatta”

0

di Alessandra Carnaroli

(IkonaLíber, collana Syn, 2015:
http://www.ikona.net/alessandra-carnaroli-elsamatta/)

quarant’anni fa a mia zia rosella
gli ha tirato un sasso o una pietra non ricordo
gli ha rotto il labbro la guancia il vestito bello
lei ancora c’ha il segno
l’elsa matta a lei non gli è rimasto niente
c’ha la memoria corta la gonna
che è corta strana nocome una che lo fa per
bellezza ma proprio
cosí
è un dettaglio dei matti
se ti squadra
se gli viene il nervoso hai fatto
meglio che fuggi

Appunti per una replica al trattatello

2

Prosegue la pubblicazione di interventi sul tema “scrittura non assertiva”. Il primo intervento di Mariangela Guattteri è qui, quello di Marco Giovenale qui, quello di Andrea Inglese qui, quello di Michele Zaffarano qui, quello di Italo Testa qui.

di Massimiliano Manganelli

Caro Andrea,

ho letto il tuo «brevissimo trattatello» e mi è venuta voglia di replicare; perciò ti invio alcuni appunti sparsi, altrettanto brevi.

Andrea Tarabbia, «Il giardino delle mosche»

3

di Antonella Falco

Il giardino delle mosche

Raccontare l’orrore dal punto di vista del mostro. Entrare nella sua testa, scandagliare le sue pulsioni più profonde e indicibili, ripercorrere a ritroso la sua vita, i traumi e le umiliazioni subiti, compiere un viaggio all’origine delle sue ossessioni, sforzarsi di guardare il mondo con i suoi occhi. Non per giustificare le sue efferatezze, ma perché il male riguarda tutti gli uomini, nessuno escluso, e perché il compito della vera grande letteratura non è quello di fornire visioni edulcorate e consolatorie del reale ma quello di focalizzare l’attenzione sulle zone d’ombra, sul lato oscuro dell’essere umano, sulla sua capacità di essere al tempo stesso una creatura che, come afferma Pico della Mirandola, partecipa sia della natura dei bruti che di quella degli dèi. E ancora perché la letteratura deve fare i conti con la complessità, le sfumature, le contraddizioni dell’essere umano, e deve essere disturbante nella misura in cui ci costringe a prendere atto che la suddivisione manichea in buoni totalmente buoni e cattivi totalmente cattivi, in neri da una parte e bianchi dall’altra, non trova riscontro nella realtà e che l’uomo è al contrario un amalgama di grigi, un groviglio inestricabile di chiaroscuri. Ragion per cui il mostro non è un alieno ma l’uomo della porta accanto, anzi, potenzialmente, quello che abita nei nostri vestiti.

È questo ciò che tenta di fare Andrea Tarabbia (già autore de Il demone a Beslan, dove ha toccato punte altissime di perizia narrativa e di pathos) nel suo nuovo libro, Il giardino delle mosche. Vita di Andrej Čicatilo, pubblicato da Ponte alle Grazie: un romanzo che ha tutte le carte in regola per poter essere definito un capolavoro. A ben vedere i due romanzi sono strettamente imparentati non solo per la qualità della scrittura ma anche perché formano un vero e proprio dittico sulle vicende che hanno segnato la storia russa del Novecento e dei primi anni Duemila e sul male che gli uomini possono fare ad altri uomini. Il demone a Beslan, infatti, ricostruisce la strage avvenuta nella scuola di Beslan, in Ossezia, ad opera di un commando di separatisti ceceni (la mattina del 1 settembre 2004 un commando di 32 terroristi ceceni entra nella scuola n. 1 di Beslan, dov’è in corso l’inaugurazione dell’anno scolastico, e prende in ostaggio 1.200 persone. Oltre agli allievi quel giorno sono presenti anche i loro genitori e altri parenti. Dopo tre giorni le forze speciali russe fanno irruzione nella scuola. Il bilancio finale è di 334 vittime, molte delle quali bambini) attraverso il racconto dell’unico terrorista sopravvissuto. Il giardino delle mosche racconta invece la storia di Andrej Čicatilo, il cosiddetto Mostro di Rostov, un serial killer che tra il 1978 e il 1990 commise cinquantasei omicidi. Le vittime, dopo essere state adescate, venivano torturate, stuprate, mutilate, e in alcuni casi Čicatilo mangiava piccole parti del loro corpo. Il libro è il resoconto romanzato della confessione che Čicatilo rilasciò alle autorità russe che lo arrestarono nel novembre del 1990 per poi eseguirne la condanna a morte il 14 febbraio del 1994.

La narrazione è suddivisa in tre parti, nella prima, intitolata La morte per fame (1936-1978), Čicatilo racconta l’infanzia durante gli anni della seconda guerra mondiale – quella che i russi chiamano la Grande Guerra Patriottica – le privazioni, le violenze perpetrate dagli invasori nazisti, il rapporto con la madre, avara di gesti affettuosi e sempre pronta a punirlo in modo severo e a umiliarlo pubblicamente per i frequenti episodi di enuresi notturna, il ricordo del padre che tornato a casa dopo la fine della guerra e la prigionia nei campi nazisti viene bollato come vigliacco e collaborazionista (era questa, nella Russia di Stalin, la sorte dei prigionieri sopravvissuti), il fantasma (fin qui solo metaforico) del fratellino maggiore ucciso e mangiato dai vicini di casa durante la grande carestia dei primi anni Trenta. Questa sezione si chiude con il suo primo omicidio, quello di una bambina di nove anni della quale Čicatilo vuole abusare e che uccide quasi “per sbaglio”. È però questo il momento in cui l’uomo, da sempre impotente, scopre che uccidere gli procura la più intensa eccitazione sessuale della sua vita. La seconda parte si intitola Dissoluzione (1978- 1990) e in essa Čicatilo ripercorre i suoi innumerevoli omicidi e, soprattutto, espone le deliranti ragioni che lo hanno mosso e che lo hanno indotto ad autoproclamarsi «dio della carne» delle sue vittime. L’ultima sezione, Il supplizio e la festa (1990-1994), è invece raccontata dal punto di vista di Issa Magomedovič Kostoev, l’ispettore che lo ha arrestato, dopo avergli a lungo dato la caccia, e ne ha raccolto la confessione.

Čicatilo uccide spinto da due grandi ossessioni. La prima è il sesso, o meglio l’umiliazione che prova a causa della propria impotenza, che chiama «la mia più grande mutilazione». Solo uccidendo riesce a sublimare l’atto sessuale che non è in grado di compiere e a esercitare il ruolo di dominio che nella vita quotidiana gli è negato: «Un uomo è completo quando dà la vita e quando dà la morte: solo così un uomo è un uomo. Io, nonostante la mia debolezza, avevo avuto due figli. Ma mi era sempre mancata la morte. Mi era sempre mancata e adesso ce l’avevo: ce l’avevo! Avevo il più grande dei poteri! Avevo la morte!»

L’altra ossessione è legata alla sua incrollabile fede nel Comunismo e in tutto ciò che l’Unione Sovietica, specie quella di matrice stalinista, ha rappresentato. Proprio per questo si sente investito di una “missione”: ripulire la società di tutti quegli elementi deviati (prostitute, vagabondi, emarginati, sbandati) la cui stessa esistenza rappresenta il fallimento della grande Idea comunista, il sintomo di una dissoluzione imminente che avrebbe travolto l’utopia del socialismo reale.

Čicatilo sente che la propria vita è collegata a quella del Paese, e lo scrive a chiare lettere nella domanda di grazia inviata al presidente El’cin il 18 luglio del 1992. Pertanto attraverso la sua storia si può raccontare la storia dell’URSS dagli anni della seconda guerra mondiale fino al suo epilogo, nei primi anni Novanta, col tramonto del socialismo reale e l’affiorare delle grandi contraddizioni che attraversavano carsicamente l’Unione. Emblematico di tutto ciò è un capitolo che si colloca quasi a metà del libro (posizione non casuale) e racconta di un sogno fatto da Čicatilo il quale nottetempo viene condotto da Konstantin Ustinovič Černenko, segretario del Partito Comunista, all’interno del Mausoleo di Lenin. Qui, «nell’unico posto di Mosca dove nessuno li può sentire», Černenko confida a Čicatilo i suoi timori circa il futuro dell’URSS: la sempre più probabile ascesa al potere di Gorbačëv e con lui l’avvento dell’economia di mercato, la fine della censura, l’inizio della democrazia, ossia di qualcosa a cui nessun cittadino dell’Unione Sovietica è abituato, qualcosa che nessuno, nemmeno chi è più anziano, conosce. È una riflessione sul ruolo di coesione che il comunismo ha svolto nei territori dell’Unione dopo la fine del potere degli zar. Senza il comunismo tutto è destinato a disgregarsi, il Paese andrà allo sbando. Il corpo spolpato e rinsecchito del Padre della Patria, che «vestito sembra integro a tutti gli effetti», rivela nella sua nudità – che Černenko mostra a Čicatilo – un inquietante sentore di decomposizione incipiente. «Stanno spolpando la nostra Unione Sovietica, compagno […] ci trattano come trattano la mummia del nostro Padre più grande. Presto non rimarrà più nulla!», dice Černenko, ed esorta Čicatilo a «continuare la sua opera […], a tenere pulita l’Unione…»

È il vaneggiamento estremo di Čicatilo, la sublimazione della sua impotenza in un farneticante delirio di onnipotenza che travalica la componente sessuale e si trasfonde nella sfera politica. È qui che la ricostruzione della biografia di Čicatilo diviene metafora sociale, politica e storica di un’intera epoca: il fallimento esistenziale di un uomo assurge così a simbolo del fallimento di un Paese, di una ideologia, di un progetto politico che aveva dato l’illusione di poter dominare il mondo. Un’operazione che riesce magistralmente all’autore, ma non bisogna dimenticare che l’intento principale di Tarabbia è un altro, ossia, come si è detto, la riflessione sul Male che si annida nell’uomo. In questo contesto assume rilevanza la figura di Issa Magomedovič Kostoev, l’ispettore che incarna a tutti gli effetti il doppio di Andrej Čicatilo: anch’egli ha alle spalle vicende personali dolorose che si intrecciano con la storia russa, e anch’egli, per il lavoro che svolge, ha la possibilità di disporre della vita e della morte di altre persone. Ma questo non gli dà l’ebbrezza del potere bensì un senso dolente della legge e del tempo in cui si trova a vivere: quello del crepuscolo di un’Idea alla quale anch’egli, come Čicatilo, aveva appassionatamente aderito.

Kostoev, almeno il Kostoev letterario che Tarabbia ci restituisce, è un funzionario che non può fare a meno di interrogarsi sul proprio ruolo, sulla legittimità del potere e della legge di cui si trova, volente o nolente, ad essere esecutore. È lui, nel suo fare da contraltare alla figura di Čicatilo, a farsi portatore di un’istanza di umanità. Čicatilo è l’uomo che ha deciso di essere «dio della carne» per le sue vittime, colui che dice di sé «io sono l’indice e il pollice che schiacciano la mosca». Kostoev è invece l’uomo che dopo aver catturato il mostro, e dopo che questi è stato condannato a morte, si china davanti a lui, un attimo prima che la condanna venga eseguita, e gli sfila le scarpe, accogliendo l’estrema richiesta del condannato. «È questo che deve fare un dio: lavare i piedi», è il fantasma di Stepan (il fratellino di Čicatilo ucciso e mangiato dai vicini durante la carestia) a dirlo nel corso del romanzo, è Čicatilo che lo sussurra adesso, in punto di morte. Forse come ringraziamento. Forse perché nell’estremo momento della sua vita ha capito. Forse perché un postremo germe di pentimento è balenato nella mente del mostro. Non possiamo saperlo. Il libro si chiude su questo interrogativo. Lasciandoci il dubbio, lasciandoci pieni di domande su Čicatilo, che sono poi domande su noi stessi, sulla nostra natura, sul male e sul bene che siamo capaci di compiere. Tarabbia non dà risposte. Forse perché, come tutti, non le possiede. Forse perché il compito della letteratura – e dei bravi scrittori – non è quello di dispensare certezze ma di instillare dubbi e suscitare quesiti. Di spronare alla riflessione, sempre.

Materiale d’importazione ~ da DUDE MAG

0

fabio pistoria ill“L’ultima prefazione” 

 di Eric Lundgren 

Il database dell’editore deve essere vecchio di decenni, perché mi hanno chiamato in ufficio.

«Abbiamo un manoscritto», hanno detto.

«Naturalmente», ho risposto. «Ne avrete sì, ne avete sempre».

«Ci serve una prefazione. Possiamo farle avere un manoscritto con le macchie di caffè originali».

M’interessava, purtroppo.

«La mia prefazione sarà fuorviante», ho avvisato.

«Lo sappiamo», ha risposto l’editore. «Sappiamo tutto di lei».

Da “L’OSPEDALE”

1

di Maddalena Vaglio Tanet

1.

L’accettazione

Sedute con le mani in grembo
le ginocchia strette, i capelli raccolti
nel vestibolo di un ospedale americano,
noi insieme diffidenti l’una verso le altre
e loro di più ancora: Niente paura
signore ossa, I is on your side.
Nel giardino di Saint John due uccelli,
gazze a giudicare dalla coda,
si contendono qualcosa, la nebbia
gonfia il cielo tra i margini dei tetti,
violagrigia, macchiata di rosa in certi punti
(ossidi forse, polveri).
Amsterdam Avenue tira una riga
dritta fino al fiume, sul fondo
si sono accesi i fari,
bianchi e rossi si slargano, bagnati.
Il condizionatore soffia piano sulla faccia,
aspettiamo ancora ostili, ferme
tra il tavolino e il davanzale,
ma non può durare e presto
stiamo come bambine
con le ginocchia sbucciate, chine
sul nido di sterpi e fili d’erba impastati
dove dorme la piccola bestia pelosa
nel bozzolo precario del suo calore.

 

4.

Ci guardiamo. Qualcuno svia gli occhi
a lato, ci sono gli ingorgati,
i lattiginosi, i salmodianti. Una alla fine
tiene in bocca pezzi di ghiaccio
per dissetarsi. Non succhia, li spinge
uno alla volta appena contro il palato.
Con gli altri, i gentili e gli arrabbiati,
ci diciamo: nemmeno io sono venuto
per restare su questo giaciglio
che è un palcoscenico e un ripostiglio.

 

6.

Fa buio intanto, la terra è scura e quando
nella stanza è difficile vedere,
le ombre crescono come strani fiori
si allungano dagli steli delle cose
e sui muri e il pavimento pendono
le loro grandi corolle spaventose,
finalmente preme sul cuore l’idea
del mondo ulteriore, quello che ci seguirà.
C’è chi si abbandona, chi ringhioso si ritrae,
chi salva tutto: le vergogne dell’infanzia,
distese di mais da qualche parte,
un arcobaleno liquefatto in rivoli di nafta
vicino alla carcassa di un furgone,
prugne come grosse uova bluastre
appese al picciolo striminzito.
Passano stagioni intere, anni,
dalle narici dilatate, dallo sguardo
che diserta la stanza, punta la finestra

A debita distanza

0

Prosegue la pubblicazione di interventi sul tema “scrittura non assertiva”. Il primo intervento di Mariangela Guattteri è qui, quello di Marco Giovenale qui, quello di Andrea Inglese qui, quello di Michele Zaffarano qui.

di Italo Testa

Dicono che l’asserzione sia il gioco linguistico centrale. Forse non l’essenza del linguaggio. Forse il linguaggio è fatto di molti quartieri. Ma l’asserzione, il gioco degli enunciati dichiarativi, tenderebbe a occupare il centro di questo spazio. E la poesia, o quell’insieme di pratiche che chiamiamo poesia, sarebbe inevitabilmente assertoria. E così i poeti. Apofantici. Come tutti.