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Il leprotto marino

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da: Nei boschi. Poesie dalle fiabe dei Grimm (Edizioni SUI, 2014).

A cura di Elisa Biagini

LEPROTTO MARINO (Iacopo)  copia allegg, copiaImmaginate una principessa che proprio non ne vuole sapere di prendere marito, a meno che non sia tanto abile da arrivare a lei senza farsi scoprire.
Penserete che sia una sfida facile e all’altezza di qualsiasi cavaliere degno di questo nome. Invece no perché la principessa vive in un castello che è provvisto di dodici finestre da cui può vedere tutto ciò che accade nei dintorni e se dalla prima può vedere alcune cose, dalla seconda ne vede ancora di più e via, via, via fino a dodici.
Novantasette cavalieri hanno già provato e novantasette pali con novantasette teste circondano il castello.
Un giorno compaiono alla porta tre fratelli ma solo il terzo riuscirà nella sfida e solo perché troverà un aiuto prezioso in un leprotto di mare.
È proprio un leprotto, credetemi, ma senza orecchie, perché nel mare non ha bisogno di ascoltare. È generoso con gli amici e ama infilarsi nei capelli di fanciulle tanto orgogliose quanto vanitose.
Ma cosa c’entrerà mai un leprotto di mare con la storia di una principessa malvagia e i suoi spasimanti?
Silenzio adesso e lo scoprirete, ma solo se resterete con le orecchie ritte e gli occhi ben aperti.

 

Eternit: i tempi dell’aggiustizia

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(Quando la pratica del diritto e il senso di giustizia divergono in maniera così clamorosa come nel caso dell’annullamento della sentenza eternit da parte della corte di cassazione, la società soffre una ferita non rimarginabile. Sempre di più appare chiaro che uno dei caratteri fondamentali del nostro tempo è l’affermarsi di una élite nazionale e transnazionale che sta al di sopra di ogni legge. Abbiamo chiesto a Rosalba Altopiedi ricercatrice all’università di Torino, esperta di criminalità d’impresa e consulente per la pubblica accusa al processo Eternit di commentare la vicenda. la redazione)

di Rosalba Altopiedi*

In questi momenti sono innumerevoli i commenti al pronunciamento della Cassazione che ha sancito la ‘fine’ al processo per disastro doloso a carico dei responsabili della multinazionale Eternit per le morti e le malattie causate dalla lavorazione dell’amianto in diversi stabilimenti del nostro paese.

Idiosincrasia dell’inadeguatezza: Zerocalcare, c’est moi

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di Giulia Scuro

Zerocalcare dichiara di aver scelto la propria firma per caso. Il fumettista Michele Rech, noto a un pubblico in costante aumento, utilizza lo pseudonimo suggeritogli da uno slogan pubblicitario. Per questo motivo, e poiché l’autore di Dimentica il mio nome dedica proprio ai nomi il suo ultimo graphic novel, in libreria dal mese di ottobre, ho deciso di ripensare al suo lavoro attribuendo un peso specifico allo zero e al calcare, efficaci chiavi di lettura che compongono lo pseudonimo e sulle quali si fonda, a mio parere, anche la sua poetica.
Dimentica il mio nome è un’opera in parte autobiografica. L’autore stesso ha ribadito più volte quanto gli sia costato lavorare sulla propria famiglia, e cosa abbia significato per lui, ma questo non ha meravigliato i lettori abituali perché Zerocalcare è solito prendere spunto dalla propria vita, sia nelle tavole che hanno iniziato a comporre il suo blog nel 2011, sia nelle opere pubblicate in precedenza. In quest’ultimo lavoro si può dire che Zero raggiunge l’acme della sua verve autobiografica, toccando le corde del romanzo di formazione: la retrospettiva dei ricordi di infanzia, attraverso la morte della nonna, rende il lutto l’evento “zero” da cui ripartire per considerare le tappe e i significati della staffetta generazionale matrilineare che hanno caratterizzato la Weltanschauung del protagonista.
La maternità occupa in questo fumetto di formazione un ruolo fondamentale e quasi sostituisce la cinica ineffabilità dell’abituale, onnipresente armadillo, prodotto subcosciente che stimola nell’autore l’auto-indulgenza alla sottrazione sociale. In questo fumetto assistiamo alla nascita dell’animale-spalla di ZC e risulta evidente quanto l’armadillo e la madre siano personaggi antitetici: rispetto al primo, la madre è il simulacro della costruzione e della protezione disinteressata; baluardo della crescita per il giovane Zero, nonché spauracchio del suo complesso generazionale, è lei a insegnargli, nelle tavole conclusive dell’opera, che il nome anagrafico può essere dimenticato e che a volte la ricerca dell’identità personale trae giovamento proprio dal superamento delle etichette imposte, il che valorizza la scelta di un nome d’arte.
Lo pseudonimo fortuito che sovrappone l’autore al personaggio – utilizzato sia in forma assoluta, sia come nome e cognome, a seconda che lo si chiami Zero, Calcare, Calcà, Zé, Sig. Calcare o per intero – racchiude le principali strategie dialettiche dell’artista. Innanzitutto, vale la pena soffermarsi sul “calcare”: i grandi temi di ZC sono caratterizzati dall’essenzialità del residuo e argomentano ciò che si incrosta nei lunghi minuti della giornata; non a caso le ore serali o notturne, quelle dell’inadempienza, occupano molte tavole, mentre altre, numerose, sono dedicate agli interstizi temporali, come i viaggi in treno, le attese in aeroporto o le telefonate. In Un polpo alla gola il momento più importante nella vita scolastica del piccolo Zero è l’intervallo: è quello lo spazio in cui hanno luogo gli eventi decisivi.
Zerocalcare fonda in questo modo una filosofia dell’interstizio, del calcare che si deposita nel fondo del quotidiano. S’impone un’attitudine alla serialità, alla rappresentazione autobiografica di ciò che è incondizionato, che assomiglia a un grado Zero di barthesiana memoria del genere fumettistico. La scrittura calcarea è a latere, la stessa formazione di Calcare avviene a uno stadio “zero”; sia chiaro che non si parla di una mancanza di positività o negatività legate a una qualsiasi chiave di merito o demerito, ma piuttosto di una predisposizione idiosincratica alle curve, agli alti e ai bassi, per cui i rilievi possono essere solo quelli minimi e polverosi del deposito inerte.
La cultura di gruppo è quella che permette al protagonista di non soccombere all’interno del suo quartiere, Rebibbia, dove la singolarità è duramente punita. Rebibbia, territorio predisposto al controllo perché ospita uno dei carceri più grandi d’Europa, ha un valore simbolico per l’autore, che non perde occasione di parlarne: essendo un capolinea della metro B di Roma, è un luogo in cui, se si arriva, si resta – a volte anche contro la propria volontà, come in carcere; non è un luogo di passaggio interstiziale, ma di partenza o di arrivo. Questo posizionamento nella cinta romana è spesso sottolineato da Zero e probabilmente è il principale tra i requisiti che rendono Rebibbia capace di creare in lui quel sentimento di appartenenza per il quale gli è difficoltoso qualsiasi spostamento.
Ma come si risolve il paradosso per cui i due principali coefficienti nello pseudonimo si annullano? La soluzione è proprio nella convivenza di due tensioni volitive: la gioventù raccontata dall’autore/personaggio è quella intrappolata tra il raggiungimento di standard impossibili e la dipendenza da droghe facili e accessibili come videogiochi e serie tv. Zero ritrae un profilo in genere sommerso, quello della idiosincrasia dell’inadeguatezza: sintesi per cui si teme l’inadeguatezza più di ogni altra cosa ma, al contempo, è la stessa inadeguatezza a fungere da schermo e a mantenere giovani. L’élan giovanile è mediato da una serie continua di POSTICIPA simili a quelli proposti dalla sveglia del cellulare e a cui Zero fa riferimento in Dimentica il mio nome; lo stesso carcere diventa per l’autore una “fabbrica d’attesa”.
Il blog condiziona la percezione della vita reale del fumettista, consentendo al lettore l’immedesimazione. ZC assume il grado zero del trentenne: ambizioso ma modesto, pigro ma impegnato, socievole ma solitario. E così facendo capovolge la dimensione fumettistica: se le storiche strisce dei quotidiani rappresentavano l’evasione dalla realtà, ora, all’interno dell’iperspazio informativo di Internet, in cui non ci sono certezze né mezzobusto 2.0, la quotidianità zerocalcarea è più che mai realistica e mette in luce quelle piccole, segrete, talvolta inconfessabili debolezze e malignità che ognuno cova dentro di sé.
Zerocalcare, c’est moi! L’ipersoggettivismo che nei fumetti è solitamente posto in secondo piano rispetto alla mimesi supereroica diventa con ZC il presupposto per raccontare un nuovo modello formativo. Sarà per questo che in Dimentica il mio nome i riferimenti puramente fumettistici (vedi le volpi e i fantasmi del passato) sono solo l’escamotage dell’autore per non rendere troppo espliciti i misteri familiari. Al lettore è lasciato lo spazio di riempire i buchi nella memoria del personaggio: anche se inizialmente questi hanno impedito a Zero di crescere, è nella necessità di colmarli che va ricercata la fonte della sua immaginazione e di un – adesso sì – personale e privato percorso identitario.

[disegno d’apertura per gentile concessione dell’autore]

Miti Moderni/3: catturare l’attenzione

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Henri Cartier-Bresson, “Gestapo Informer”, Dessau, Germany, April 1945

di: Francesca Fiorletta

L’attenzione non si cattura, non si suscita, non si solletica, l’attenzione è un concetto innaturale, transitorio, pieghevole, un organismo fluido, un lento dipanar, l’attenzione, non si solidifica, non si incancrenisce, non salta di palo in frasca, non si abbevera alla fonte, non segue necessariamente un percorso espositivo, l’attenzione, non è di preferenza un’attitudine oppositiva, l’attenzione, tanto spesso, non c’è.

L’attenzione al suolo pubblico, al tessuto urbano, l’attenzione alla raccolta differenziata, agli odori della plastica bagnata dalla pioggia, dai residuati bellici del cibo in scatola, precotto, la plastica delle televendite della terza ora del pomeriggio, quando l’allerta volge alla quarta, e poi alla quinta, ora, della tua attenzione non importa niente a nessuno, di quell’attenzione che vaga s’inalbera, s’incunea sotto i cuscini piumati del divano, e palmata sparisce di polvere, all’ora del tè. 

Genealogie del presente

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gdpdi Elia Verzegnassi

Può essere scontato dire che talvolta mancano le parole, e magari si pensa a qualche film romantico in cui i protagonisti dichiarano l’impossibilità di esprimere il proprio amore l’uno per l’altro. Ma cosa vuol dire quando mancano le parole in campo politico? Forse percepire come esse sfuggono e non si lasciano catturare. Forse avvertire come i termini disponibili siano già pesantemente ricoperti da significati ormai stratificati che non li rendono facilmente fruibili per un uso differente, fuori dalla fisionomia divenuta abituale. Questi strati non pervertono o insozzano parole altrimenti pure: piuttosto pare estremamente difficile strappare un determinato significante alla costellazione di significati al quale è stato lungamente vincolato. Consegnate tanto all’uso comune quanto all’uso ufficiale, ordinate e spesso immobilizzate, quello che non è permesso sembra essere esattamente pervertire e compromettere le parole, nel senso di piegarle in altre direzioni, verso altri significati.

In questo senso, il recente Genealogie del presente. Lessico politico per tempi interessanti a cura di Federico Zappino, Lorenzo Coccoli e Marco Tabacchini (Mimesis, pp. 275, euro 22) è un libro corale che riunisce diciotto autori e autrici impegnati in un lavoro genealogico (e al contempo decostruttivo) attorno a diciotto diversi termini che scandiscono la nostra quotidianità. L’obiettivo è quello di esplorare queste parole, di sovvertirle e di torcerle fino a renderle irriconoscibili rispetto ai modi in cui esse circolano nell’ordine del discorso ufficiale. Ne emerge un lessico politico di lemmi ritenuti necessari ad attraversare questi nostri tempi interessanti, questi tempi «caotici, mutevoli, sfuggenti», come scrivono i tre curatori nel Preludio, in cui «gli antichi dei sono fuggiti e quelli nuovi ancora tardano a fare il loro ingresso» (p. 9). Se da un lato è dubbia l’esistenza di periodi storici totalmente privi di queste caratteristiche, dall’altro non si può non rilevare quanto il nostro sia un tempo interessante contraddistinto da un vuoto, da una mancanza di parole – e non tanto perché queste non siano presenti, quanto perché appaiano strettamente incanalate, sottraendosi a usi alternativi o declinazioni critiche. E da qui la necessità di un lessico che si prenda carico e non abbandoni quei termini che più di altri risultano decisivi proprio perché chiavi del funzionamento della retorica del dominio, e quindi capaci di diventare fertili spazi di lotta e resistenza alla presa biopolitica e al governo del linguaggio.

Non si tratta di cercare e immettere termini nuovi e antagonisti da contrapporre, in un muro di parole d’ordine, ai termini del discorso ufficiale, quanto sottrarre a questo i termini utilizzati – o meglio, scardinare tanto il monopolio della dicibilità delle singole parole da parte del discorso ufficiale quanto l’esclusiva sul loro orizzonte di senso. E piuttosto che una riappropriazione, come se si potesse davvero strappare una parola e portarla da una supposta propria parte, il tentativo è volto a restituire la parola a se stessa, alla sua propria complessità. Il Lessico non ospita parole nuove, bensì mette in movimento le parole ascoltate ogni giorno, cristallizzate in costellazioni strategiche e funzionali. «Oltre che un processo di mirata risemantizzazione», le parole pronunciate dalla retorica ufficiale subiscono anche «un costante processo di degradazione» (p. 15), e in questo caso non si può non pensare al termine rivoluzione, mai come ora invocato costantemente e mai così lontano da ciò che ha significato per generazioni. E se il termine rivoluzione non è presente, gli altri lemmi non possono che risuonare: Bene Comune e Beni Comuni di M.R. Marella, Costituzione di G. Amendola, Crisi di F. Zappino, Democrazia di L.Bazzicalupo, Destra/Sinistra di F. Remotti, Eccellenza di F. Giardini, Eguaglianza di G. Zanetti, Governabilità di S. Chignola, Legalità di U. Mattei e M. Spanò, Movimento di M. Tabacchini, Popolo di P. Amato, Povertà di L. Coccoli, Precarietà di C. Morini, Responsabilità di B. Giacomini, Sacrificio di M. Esposito, Società di M. Ricciardi, Trasparenza di V. Pinto, Futuro di L. Bernini.

Per costruire questo Lessico, il metodo proposto dai curatori e accolto dai singoli autori e autrici è quello genealogico, così come tracciato dal Foucault interprete di Nietzsche in Microfisica del potere. Una genealogia del presente a partire dai termini caratterizzanti il nostro tempo elimina definitivamente il dubbio che il progetto consista nel tentativo di avvicinarsi a parole pure, annidate in un’intoccabile origine, eliminandone le impurità che le ricoprono. A questa ricerca dell’origine si predilige piuttosto la riflessione sulla provenienza e sull’emergenza, sia dei singoli termini sia del nostro presente. Si tratta allora di reperire gli scarti e i salti, le molteplici deviazioni e discontinuità che per vie impreviste hanno portato al presente, non per fissarlo in una nuova definizione chiarificatrice, ma per scuoterlo, perché «la genealogia non fonda, al contrario: inquieta quel che si percepiva immobile».

Tempi interessanti perché «costitutivamente ambigui» (p. 10) affermano i curatori, interessanti anche perché si intravede, tra le pieghe delle retoriche dominanti, la possibilità di restituire i termini alla loro intrinseca complessità, confiscata da dispositivi linguistici che ne restituiscono un volto neutralizzato e pacificato, privato della propria densità. Ecco che allora il metodo genealogico funziona per mettere in movimento i termini e farne esplodere le ambiguità, i significati altri e latenti, offuscati e zittiti. La voce Crisi, elaborata da Federico Zappino, oltre a essere il termine che più di altri scandisce i «tempi interessanti» e percorre l’intero volume, è un chiaro esempio di quest’operazione. Partendo da un’analisi della retorica della crisi come instrumentum regni contemporaneo che impone decisioni necessarie, eccezionali e urgenti, riprendendo tanto alcuni passaggi biblici quanto le immagini della polis greca, l’autore fa emergere una lettura diversa dello stesso termine, luogo di possibilità e di agitazione.

Se si accetta la presenza di un uso ideologico e quotidiano dei lemmi confluiti nel Lessico e una loro costante degradazione come perdita del grado di complessità, la messa in movimento che effettua il lessico è ripiegata sulla parola stessa, volta a restituirne la carica conflittuale. La voce Popolo curata da Pierandrea Amato mostra proprio questo aspetto, cercando di sottrarre questo termine al monopolio degli usi statuali. Partendo da Deleuze e rileggendo la plebe foucaultiana e Il disaccordo di Rancière, Amato porta alla luce la crepa costitutiva all’interno di questo spinoso termine, autentico «architrave» della politica moderna. La tensione all’interno dello stesso termine in conflitto con se stesso, – luogo della «frattura biopolitica fondamentale», scrive Agamben in Homo Sacer – rivela un’eccedenza del popolo rispetto allo stesso termine, un suo non confluire completamente nel disegno dello Stato.

Tentare una genealogia del presente così come è stato fatto in questo volume vuol dire allora dichiarare il lessico luogo di presa e di cattura, ma anche di lotta e di resistenza. Mettere in movimento i termini politici, restituendo loro la complessità disciolta nella monotonia dei flussi dei discorsi ufficiali, significa riportare il conflitto proprio a ogni parola politica in uno spazio che era stato neutralizzato e pacificato. I termini incontrano il loro rimosso, e si ripropongono con inediti lineamenti e inaspettate sembianze, ritornando sulla scena che aveva preteso inquadrarli in una certa posa una volta per tutte.

Documentare la vita che fugge

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documentazione

 

di Andrea Inglese

 

… s’instaura comme une fallite de ma mémoire: je me mis à avoir peur d’oublier, comme si, à moins de tout noter, je n’allais rien pouvoir retenir de la vie qui s’enfuyait.

Georges Perec

Non so Perec, ma io non ci sono riuscito, anche se la sindrome è la stessa, e il metodo è quello, il migliore, schietto e intransigente, la documentazione neutra, burocratica, da segugio dei servizi segreti, quelli che frugano nel pattume per ricostruire il tuo stile di vita, le frequentazioni, i saliscendi emotivi, gli orientamenti politici, e si basano su scontrini, confezioni vuote, indumenti lacerati, residui di cibo, lampadine andate in pezzi, io non ce l’ho fatta, ho finito per scrivere qualsiasi cosa nei miei quaderni, ma da rapsodo, da radiolina fuori frequenza, i documenti sono scarsi, disordinati, e mancano le date, la topografia è vaga, le cifre sono discordanti, la descrizione di un incubo non si distingue dalla cronaca di una riunione di lavoro, interi passi di Pessoa sono presentati come trascrizioni di recensioni cinematografiche, un’analisi intimista può essere confusa con l’esegesi di un’installazione contemporanea, perché io non è che scriva in modo metodico e freddo, scrivo a sprazzi, per scalmane, copiando e riassumendo, interpolando e deformando, come se dovessi far convergere in una data frase, in un piccolo paragrafo scritto sul seggiolino ribaltabile del metrò, nel tratto che mi porta da Nation a Père Lachaise, tutta la mia circoscrizione umana più vasta, il dentro e il fuori, l’osso e l’anima, la paranoia privata e l’allucinazione di massa, la scarpa slacciata e la metafisica dei costumi, l’alone sulla lente degli occhiali e lo scoppio della caldaia nel bilocale di periferia.

Da un quaderno senza data, Clairefontaine, copertina rosso scozzese, “douceur de l’écriture”, Made in France, paragrafo su: “Soggetti di conversazione al ristorante a mezzogiorno”.

“Vicini di casa, vicini rumorosi, vicini con cane, un’anziana come vicina che si sveglia alle quattro di mattina e mette la radio a tutto volume, colleghi di lavoro, colleghi nuovi, colleghi morti, colleghi che si stanno separando, colleghi che mettono bastoni tra le ruote, colleghi che vanno dribblati, ignorati, sconfitti, colleghi più anziani che non sanno fare il loro lavoro, tutto il lavoro che si è costretti a fare e che non spetterebbe a colui che racconta, colleghi che scrivono troppe mail, colleghi che non riescono a telefonare al responsabile vendite quando è necessario, colleghi che parlano male l’inglese, datori di lavoro e capi, descrizione fisica e difetti di pronuncia, stile dell’abbigliamento, tipologia di automobile dei datori di lavoro, e proprietà immobiliari secondarie se conosciute, quanto sono efficaci i capi e quanta fiducia dimostrano in colui che racconta, la carta bianca, il margine d’iniziativa, la grossa responsabilità che gli forniscono, quanto sono imbelli i responsabili, i direttori, i vertici dell’azienda, i capi e i vertici vanno sempre contro il muro, sono incredibilmente ciechi, sono sostanzialmente sprovveduti, mancano di qualsiasi chiaroveggenza, non hanno una idea che sia una, sono davvero delle belle intelligenze, perché hanno capito il lavoro indispensabile fatto da colui che racconta, senza colui che parla i capi e la loro azienda avrebbero i mesi contati, i sottoposti non sanno lavorare, tutti i nuovi assunti non hanno mai capito come si lavora, cosa si deve fare in ufficio, come ci si comporta in azienda, i sottoposti semplicemente non dovrebbero esistere, i nuovi assunti non dovrebbero essere assunti, l’importanza dell’esperienza, la celebrazione dell’esperienza, l’esperienza vale qualsiasi formazione, qualsiasi titolo di studio, qualsiasi statuto professionale, quale telefonino e soprattutto quale abbonamento fare, comparazione e analisi, le potenzialità del nuovo smartphone, siti che presentano esperienze concrete d’uso di smartphone, gli sperimentatori di smartphone, l’intramontabile problema della memoria ram, e di come si possa espanderla, il back up, con i dischi duri esterni, che può essere molto o poco aggiornato, la perdita di dati, ma anche la perdita del telefonino, la morte del disco duro, il recupero dei documenti persi con la morte del disco duro, i videogiochi legati all’ultima serie televisiva americana, l’evoluzione incontrollata dei videogiochi e la loro stimolazione cognitiva assodata, i progetti d’insegnamento attraverso consolle e videogiochi: umanistici e scientifici, il crescente effetto di realtà dei videogiochi di guerra e di strage, la Playstation come passione solitaria o gregaria, i raduni reali a periodicità mensile dei giocatori virtuali, l’adolescente giapponese che non è più uscito dalla camera per tre anni, perché impegnato in un gioco di ruolo obsoleto, vantaggi e svantaggi di agende, tavolette e lettori elettronici, la salvaguardia dei figli dal consumismo elettronico o dagli eccessi della tecnologia, il pericolo di emarginazione sociale di figli sprovvisti di wi fi, limiti d’orario quotidiano nella visione di cartoni animati Disney, propensione all’acquisto di videogiochi per tutta la famiglia del tipo rompicapo o sportivo manageriale, la persona con cui si sta uscendo, caratteristiche psicologiche e profilo sentimentale, i trascorsi affettivi della persona appena conosciuta, e i problemi derivanti dal suo tenore di vita o dalle cerchie amicali o dagli impegni professionali, i luoghi dove è possibile conoscere gente nuova, gli incontri programmati a casa di amici, come gestire la vita a due dopo una sconfitta sentimentale, come ricostruire una sessualità vivace dopo anni di routine, come annunciare il capolinea di un rapporto, se si debba o meno amare la persona con cui si va a letto, cosa rispondere a un certo tipo di sms, numero di sms giornalieri che non è patologico inviare al proprio partner, non farsi troppe illusioni sulla persone più giovani o più vecchie che si potrebbero incontrare, il poco tempo che lui mette a disposizione, le pretese eccessive di lei, l’importanza della riservatezza, la necessità di dire le cose, normalità o meno di chi tiene spesso il telefonino spento, l’attaccamento alla propria ex, dubbi sull’uso perenne del telefonino anche a tavola, anche di domenica…”

A volte, quando vado in giro, qualsiasi parola che sento dire, mi fa impazzire. Non sono le parole, in realtà, sono le frasi. Ci sono certe frasi che non sopporto. A volte quasi tutte le frasi dette nello spazio pubblico, nella grande rete viaria europea, mi sembrano insopportabili, e mi producono come un disturbo mentale. In questi casi, le frasi più disturbanti mi sembrano quelle formulate in italiano, e in particolare modo da italofoni che parlano con qualcun altro al telefono. Se poi questi italofoni sono degli uomini del terziario avanzato, se sono all’incirca dei professionisti di qualcosa, e parlano in italiano dentro un telefono cellulare, con o senza auricolare, seduti in un vagone di un treno Frecciarossa o Frecciabianca, o nel corridoio stretto di una carlinga di aeroplano prima o dopo il decollo, io impazzisco. In quei momenti, anche se è loro diritto, anche se non per forza urlano o si vantano o sono grossolani o dicono frasi fatte o esprimono opinioni marce sul mondo, in quei momenti è come se io dormissi dopo una pesante giornata di lavoro, e dormissi in un letto caldo, in una camera al riparo dalle intemperie, con le persiane chiuse per garantire un’oscurità ottimale, e di colpo quei signori venissero da me, al mio orecchio, a parlare delle loro cose, a dire le loro frasi, non per forza fatte, magari sono completamente senza costrutto, oppure originalissime, ma è come se me le urlassero nelle orecchie, che poi non stanno neppure urlando, parlano semplicemente, ma parlano con un’insana disinvoltura, seduti a pochi centimetri da me, dalla mia testa posata sul guanciale, e quindi mi svegliano nel pieno della notte, e non mi lasciano più riaddormentare, perché la loro conversazione non è telegrafica, fatta di grandi silenzi, e non è nemmeno pragmatica, secca ed efficace come ci si aspetterebbe da professionisti come loro, la tirano in lungo, intorno a una mail non ricevuta, o poco chiara, costruiscono tutta una storia, una saga islandese, una narrazione torrenziale. Ma è chiaro che la colpa è mia, non è loro, e che nella rete viaria europea, nel multiforme spazio pubblico mondiale, non si può imputare a gente sui treni, sugli aerei, alle poste, nei corridoi della metropolitana, di parlare al telefono, e di parlare di questioni urgenti di lavoro, o che a loro paiono urgenti, e non si può stabilire un tassametro, una specie di controllo sulla lunghezza di queste conversazioni e sul numero massimo di parole – proferite ad alta voce – che dovrebbero includere. Spesso, questo è innegabile, di parole, negli spazi pubblici, soprattutto dentro i telefoni cellulari, se ne dicono troppe, e soprattutto su questioni professionali, che se il capitalismo non fila liscio, se c’è questo problema della crescita che non cresce e della ripresa che non riprende, è probabilmente anche per colpa di queste spiegazioni eccessivamente circostanziate, queste insistenze, su concetti base e chiarissimi, come se si trattasse invece di aforismi di Eraclito che si vorrebbero rendere pienamente intelligibili. Gli uomini che fanno gli affari, e quelli che aiutano questi uomini a fare gli affari, anche se dicono che il tempo è denaro, e se proclamano che gli affari sono affari, e sempre si muovono in modo deciso e scattante, con cartelline sotto il braccio, o agende elettroniche, o valigette di pelle, questi uomini e gli uomini di questi uomini, tanto sono tonici e rapidi sul piano motorio, tanto sono prolissi e ridondanti sul piano verbale. Qualcuno dovrebbe esaminare spassionatamente il fenomeno e portarlo all’attenzione dei nostri migliori opinionisti.
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Questa cosa, però, che dipende esclusivamente da me, da mie predisposizioni fisiologiche o genetiche, chissà, non mi capita spesso. Più spesso mi capita una cosa diversa, e in qualche modo opposta. Soprattutto se mi trovo a pranzare, nella pausa del lavoro o dello studio, in qualche ristorante parigino, di quelli piccoli ed economici, magari giapponesi o cinesi, dove devi infilarti a sedere dietro uno stretto tavolino, con i gomiti che sfiorano quelli dell’avventore accanto, ebbene lì, pranzando da solo, mi è possibile non solo sintonizzarmi sulle conversazioni in corso, quelle più facilmente percepibili nei tavoli vicini, ma da queste conversazioni la mia mente è completamente risucchiata, il mio stesso carattere, mi verrebbe da dire, ne è parassitato, non solo io ascolto, e ascolto con una straordinaria attenzione, come si ascolta la parola di un morente, l’ultima e solenne, di augurio o malaugurio, rischiando – come spesso accade – che se ne esca biascicata e indecifrabile un attimo prima del decesso. Così io ascolto tutto, e con elettrizzata attenzione, senza alcuna forma di discernimento, di selezione o filtro argomentativo, e dopo l’ascolto, o già nella continuazione di esso, comincio a elaborare in proprio, a fare mie certe preoccupazioni, certi giri di frase, un determinato vocabolario, e per alcune ore questi brandelli di conversazione altrui, amplificati e manierati, occupano il mio spirito, come succedeva, probabilmente, ad Ezechiele, con le parole divine, che non bastava memorizzare alla lettera, ma che si dovevano far scendere profondamente dentro di sé, perché in ogni organo e capillare, in ogni pensiero futuro e ricordo passato, governassero incontrastate.

Quindi io non trovo, nei miei quaderni, documenti come si converrebbe a un archivio dell’esistenza fuggente, non trovo riflessioni personali sulla morte dell’Occidente, sulle guerre del petrolio o su i miei riti masturbatori, né vi leggo descrizione degli arredi del ristorantino dove sono attavolato, con tutti i dettagli del menù, piatti e prezzi, e magari le neutre ma sempre pertinenti notazioni meteorologiche, no, vi abbondano invece conversazioni altrui malamente stenografate, senza nemmeno caratterizzazione psicologica dei loro autori, o ritratto ottocentesco degli abiti, delle capigliature, movimento degli occhi, pieghe del viso, grassezza o nodosità delle dita.

“Lui, il suo problema, è l’ego.”

“I migliori dj in questo momento si trovano a Londra o a Berlino, anzi ad Amsterdam.”

“È una tipa della mia età, che non è obesa, è carina invece, molto carina, è un po’ grossa, ma non obesa…”

“Gliel’ho ripetuto: non spendo prima di avere soldi, quando avrò i soldi va bene, andiamo assieme, guardiamo le tende, i rivestimenti del bagno, guardiamo anche il frigorifero, benissimo, lo prendiamo nuovo, io tiro fuori i soldi e compriamo, andiamo a Darty, non so, ma devi farmeli avere, lui invece vuole che io spenda, che io compri, senza avere i soldi, perché tanto dice arrivano, io gli dico: no, non arrivano, devono esserci, devo averli già, e quando li ho li spendo, e ci occupiamo del frigo, se ti mette in ansia il frigo, e del bagno, se non riesci più a farti la doccia con calma…”

“È un egocentrico, non egoista. È uno che ti invita fuori, davvero, ti offre il pranzo, è così, ma parla lui, parla solo lui, in genere dei suoi successi sul lavoro, di come riesce a mettere in difficoltà il suo capo, e poi ti parla dei lavori che ha fatto in passato, di come erano bene pagati, ma di come questo è pagato ancora meglio, e lui sa che può mettere in difficoltà il capo, a te non ti ascolta, non ti lascia parlare, ma t’interroga sulle ordinazioni, vuole sapere che cosa prendi come antipasto, e perché non bevi vino, ma poi ritorna subito a bomba: i clienti, tutti i clienti che lui è riuscito a procurare alla ditta, per quello il capo sta zitto, per quello si lascia mettere in difficoltà, a volta deve andarsene prima di bere il caffè, mi ordina il caffè anche se non lo bevo, mi saluta calorosamente, va a pagare, e corre fuori.”

“Non fa le diete, su questo è decisa, ha fatto troppe diete, dice, e poi ritorna sempre al punto di prima, ha un po’ ragione io credo, e non è che sia obesa, il volto poi è molto carino, è una persona briosa, magari sì, a volte sbaglia a mettersi le gonne, quando porta gonne troppo corte, non dico che debba portare sempre quei gonnoni che si mettono le donne che hanno le gambe orrende, che per altro lei non le ha orrende, sono grosse, più che grasse sono proprio grosse, basta una gonna al ginocchio, e l’effetto è già diverso, ma tu come la dici una cosa così? Glielo puoi dire?”

“Io sono d’accordo con lui: vuoi comprare? Compriamo! Ma i soldi li dobbiamo avere, li dobbiamo avere prima di comprare, e lui s’impunta, su questo insiste, e dice che non è vero, che questa è una mia fissazione, che i soldi arrivano, e uno non deve essere ossessionato dai soldi, ma lui è ossessionato dallo spenderli i soldi, deve spendere i soldi che arriveranno, ma quando? Gli dico io… Quando arriveranno i soldi che hai già speso!”

“Oggi i migliori locali sono a Berlino e ad Amsterdam. A Parigi non c’è più niente, è tutto finito. E più in generale è finita la musica dal vivo, la gente che sale sul palco, infila il jack nella chitarra e si mette a fare gli accordi agitando la testa. Nessuno ci crede più, nessuno ha più voglia di passare una sera a guardare un tizio, sul palco, che si agita, e che solo perché produce da sé la musica diffusa in sala vorrebbe che tutti lo guardassero, e lo guardassero beati, come se stesse realizzando un miracolo, quando invece suona e basta, è un tizio che sa suonare, come ne è pieno il mondo, oggi la gente va in un locale per essere lei il tizio importante, lei vestita in un certo modo e che balla in un certo modo, è una storia vecchia, certo, ma oggi ha preso il sopravvento, c’è il dj in un angolo della sala, è un tipo simpatico il dj, non produce lui la musica, lui si limita a captarla, c’è un sacco di musica nel mondo, sempre disponibile, su mille supporti, per mille canali, e lui ne prende un po’ è la spara in sala, e in sala quella musica diventa la musica di chi la balla, e la balla con i suoi vestiti e le sue maniere, il tizio che sale sul palco come fosse un piccolo dio e dev’essere venerato perché prende un microfono in mano e ci urla dentro, questo è finito per sempre, siamo tutti miscredenti, tutti atei, ognuno è il suo dio, e basta.”

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Il gesto critico

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di Luigi Bosco 

[L’intervento di Luigi Bosco sviluppa in parte in forma di appunti la sua comunicazione alla serata dedicata alla critica letteraria nell’ambito della rassegna Tu se sai dire dillo 2014. B.C.] “Tu se sai dire, dillo”: un invito – aperto, generoso, accogliente; ma anche una preghiera – una supplica, quasi una implorazione. Comunque lo si interpreti – invito o preghiera – questo verso – tra i più intensi e significativi di Mesa e, in generale, della poesia contemporanea italiana più recente -sintetizza in poche ma lucidissime parole la centrale intuizione mesiana della verità etica come orizzonte della scrittura poetica, quel luogo cioè “dove le parole, non potendo attingere alla verità, cercano la precisione, la sincerità” (1), poiché “l’ostacolo principale al dialogo non è la diversità di opinioni ma il “comportamento” (l’etica, appunto)”  . (2) È in tal senso, dunque, che il linguaggio -quando è poetico (3) – smette di essere una questione di comunicazione e comincia ad essere una questione di coscienza, cioè di ricerca di nuovi modi di dire per fondare nuovi modi dell’agire. L’azione fondante del linguaggio (poetico) avviene nella pronuncia, ovvero nell’atto dell’ interlocuzione che, pur nell’impossibilità di raggiungere una verità, individua la irrefutabile immanenza di un suo preciso momento dialettico: quello sacrificale (4) del dono, cioè il suo darsi nella contingenza della costruzione del senso. Mesa scrive: “tu se sai dire, dillo”, e poi – all’interno dello stesso verso, come se non fosse possibile pronunciarlo separatamente – aggiunge “dillo a qualcuno”. L’importanza di questo qualcuno è triplice:

  1. innanzitutto, la presenza di qualcuno sposta l’asse del dire dal piano del discorso– dove il linguaggio è finzione, cioè funzione di una socialità e di un senso da esso mediati e originati altrove, al piano del dialogo – dove il linguaggio è reale nella misura in cui esso è misura e genesi del senso e vincolo della socialità che in esso e per esso si produce;
  2. riportando il linguaggio alla dimensione che gli appartiene – e cioè al dialogo come luogo in cui la socialità si produce – la presenza di qualcuno contribuisce a demitizzare il senso (o la sua assenza), restituendolo alla contingenza della natura collettiva e perennemente in fieri che lo caratterizza;
  3. in ultimo, la presenza di qualcuno introduce un elemento di apertura che, impedendo alla speculare circolarità del binomio io-tu di intrappolarlo nel suo tautologismo, garantisce al senso la tridimensionalità di un orizzonte storico – cioè: prospettiva e tradizione.

È così – e solo così – che la verità come aspetto storico del nulla può passare in secondo piano e senza crolli a fare da sfondo al perenne susseguirsi di piccole effimere contingenze che, attraverso il linguaggio, si installano in una durata che è la loro narrazione.Dice Mesa “pur nell’incertezza assoluta sul senso delle parole, dovremmo almeno, ancora, cercare di pronunciarle come se un senso, ad esse, volessimo attribuirlo, cioè trasferirlo, nell’interlocuzione, affinché un dialogo possibile non si spenga subito nella vacuità di parole soltanto fàtiche … È come se, nell’interlocuzione, delle parole fosse rimasto soltanto l’involucro, il valore di scambio … ”.  Dunque, l’impegno del linguaggio poetico consiste anche nel recupero del valore d’uso delle parole, perché in esso possa compiersi l’atto fondativo del senso, cioè la sua epifania. Scrivere e leggere, allora, diventano atti speculari di una stessa umana necessità: comprendere. In tutto ciò è legittimo chiedersi che posto occupi la critica. In sé, il discorso critico, così come parlare, scrivere poesie, fare figli o visitare posti esotici, è un palese atto di irresponsabile arroganza, un far finta di non conoscere la propria infima e malcelata condizione umana. Volendo però approfondire, parto dalla domanda posta da Biagio Cepollaro durante l’incontro dello scorso 19 settembre: cosa significa leggere un testo poetico?La risposta a questa domanda potrebbe essere: farne esperienza – letteralmente. Quando si legge – soprattutto se si tratta di un testo scritto con il linguaggio poetico mesianamente inteso – succede sempre qualcosa, anche se si è soli, seduti in una stanza vuota. Quel qualcosa che succede durante la lettura – un’intuizione, una scossa, un impercettibile cambio delle proprie sinapsi – è l’esperienza del testo, cioè la sua fenomenologia. Non si tratta più, infatti, di scovare messaggi cifrati, essendo ogni tentativo di decifrazione una nuova cifratura: il senso dell’esperienza del testo ha acquisito priorità rispetto al significato della sua espressione. Di conseguenza, la critica ad un testo è, anche e tra le altre numerose cose, la traduzione (o, meglio, trasduzione) in termini nuovamente linguistici della esperienza, avvenuta su altri livelli, della sua lettura. In altre parole, il testo è il fatto e la critica il suo racconto (5) .Ora, così come qualunque prodotto del linguaggio, ogni discorso critico è, naturalmente e per definizione, anche politico – e perciò ético oltre che estetico. Ciò è vero non per l’equivoca corrispondenza tra bello buono e giusto. È invece la presenza dell’altro a caricare di responsabilità la sua natura pubblica, oltre al fatto che il linguaggio, come qualunque altro fenomeno, accade, conserva cioè un’empiricità che si manifesta nel suo essere causa di conseguenze di cui è direttamente responsabile.In tal senso, gli appunti di Mesa sul“Dire il vero” (6) sono validi anche – e a maggior ragione – per il discorso critico: poiché non esiste una verità ma solo una sua versione, esso pone le proprie basi sulla restaurazione del perduto rapporto dialettico tra il testo, chi lo ha scritto e chi lo ha letto. Solo attraverso il recupero della dialettica, cioè la non elusione del problema attraverso l’eliminazione di una delle sue parti, è ancora possibile garantire una produzione di senso, cioè una verità – quella etica, piena di conseguenze, della contingenza del divenire.

La responsabilità del discorso critico ricade inevitabilmente su chi lo formula, e la dimensione dei suoi obblighi è direttamente proporzionale alla portata dei suoi effetti, a loro volta determinati dal ruolo che chi lo pronuncia ricopre nella società che lo ascolta. Nel caso specifico, la responsabilità del discorso critico degli intellettuali ha una portata potenzialmente enorme, che è di natura economica oltre che politica – dunque ética ed estetica. In un certo senso, infatti, dire il vero è il lavoro degli intellettuali che la società paga, così come (molto riduttivamente) gli intellettuali e la società pagano perché gli autobus funzionino. La dimensione economica del dire il vero in ambito critico trasforma così il suo discorso in un campo di battaglia dove responsabilità ed interessi degli esiti si scontrano. In fondo, dal punto di vista culturale, l’intero Novecento – soprattutto nella sua seconda metà – è consistito per la gran parte nella spettacolarizzazione mediatica di questa lotta secolare di cui tutti conosciamo ad oggi gli esiti.

La perdita di appeal degli intellettuali – così come dei politici – sulla società è in parte e tra le altre numerose cose dovuta al non aver detto (mesianamente) il vero. Ciò ha prodotto due risultati importanti: da un lato, la responsabilità del discorso critico è stata trasferita direttamente all’opera, che si è caricata così di colpe che, non appartenendogli, la costringono più o meno implícitamente all’interno di un conformismo castrante o di un anticonformismo ludico che non portano da nessuna parte; dall’altro lato, il non dire il vero del discorso critico è scaturito in una mancata presa di posizione che, lasciata libera – anzi, vuota – non ha potuto impedire lo sviluppo incontrollato del fenomeno dell’autodidattismo e del DIY (7)  in ambito culturale. Fenomeno che, si badi bene, non è un male di per sé, ma non è nemmeno un dire il vero; a ciò va inoltre aggiunto il fatto che l’altro come elemento attivo del dialogo scompare mentre tutto rientra nella speculare e tautológica circolarità del binomio io-tu dove il do ut des è la regola che evita lo spreco di energie nella battaglia tra responsabilità ed interessi – a favore degli interessi. In altre parole: un gran vociare dove nessuno sa dire più nulla a nessuno e alla fine non succede mai niente.

La cosa più interessante del concetto di verità ética formulato da Mesa è la forza attraverso cui questa espressione esige di riconoscere, ammettendolo nel momento stesso della sua pronuncia, la natura tangibile di un concetto tendenzialmente relegato all’ambito metafisico. In tal senso, e con gli stessi fini, mi piacerebbe cominciare a parlare di gesto critico piuttosto che semplicemente di critica, affinché il concetto di critica includa con forza e indissolubilmente anche il suo movimento, la sua fatticità. Perché discutere di lirici ed antilirici è importante e conoscere la pronuncia fonética esatta di Camus non ha prezzo. Però, perdio, c’è bisogno che accada qualcosa, che possa finalmente accadere davvero qualcosa.

Note

(1) Ad esempio. La scoperta della poesia

(2) Tre lemmi

(3) E’ importante sottolineare il fatto che si stia parlando di linguaggio poetico e non di poesia. Un dettaglio forse sottile, ma che manifesta la secondarietà del discorso sui generi letterari.

(4) Nel senso di sacrum facere, rendere sacro

(5) Il racconto di un fatto, cioè la sua narrazione, è ciò che garantisce una durata all’effimero riscattandolo dal divenire e consegnandolo alla storia. È, cioè, il processo produttivo del senso.

(6) Dire il vero. Appunti

(7) Do It Yourself

Lettere dal carcere. Angela Davis – George Jackson

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di Jamila Mascat

Toni Morrison e Angela Davis si conoscono negli anni Settanta, quando Toni, editor alla Random House dal 1965, convince Angela a scrivere la sua autobiografia. All’epoca “c’era tanta mobilitazione in giro, tanta militanza, ma io pensavo che invece di manifestare avrei dovuto far pubblicare queste voci [afroamericane] che altrimenti non sarebbero mai state pubblicate […] né editate come meritavano”. In principio Angela è restia, contraria ad ammantare la sua vicenda giudiziaria di qualsiasi eroismo, e soprattutto non sa da dove cominciare; Toni insiste, le dà qualche consiglio (usare il flashback, iniziare con la fuga e l’inseguimento dell’FBI), corregge un capitolo dopo l’altro (Nets – Rocks – Waters – Flames – Walls – Bridges) e quando il libro viene finalmente pubblicato nel 1974  – Angela Davis: An Autobiography l’accompagna in giro per il mondo in una lunga tournée di presentazioni. Spesso, ricorda, “la gente le si avvicinava per dirle: ‘mio fratello è in galera, e mi chiedevo se magari potevamo organizzare un cocktail di beneficenza  per tirar su qualche soldo’. Il problema era che lei gli dava sempre retta – ‘Ah sì, e dov’è ora?’. E lì tagliavo corto: ‘dai Angela, per favore!’”.

Nel 2010 Angela e Toni partecipano insieme a un evento organizzato dalla New York Public Library, che comincia così:

Angela Davis: Good evening.

Toni Morrison: Good evening.

Angela Davis: Hi, Toni.

Toni Morrison: Hi, Angela. […]. So nobody’s moderating us.

Angela Davis: No, we’re just talking.

Toni Morrison: We’re just talking, ooh.

Angela Davis: We’re talking about Douglass, libraries…

Toni Morrison: Literacy…

Angela Davis: Literacy and liberation.

Libraries, literacy and liberation è appunto il titolo e il tema della serata. Douglass, invece, è Frederick Douglass, eroe del movimento abolizionista, schiavo ribelle e poi fuggiasco, che da analfabeta e autodidatta diventa l’oratore più acclamato dall’American Anti-Slavery Society. Predicatore metodista, giornalista e direttore di giornali (The North Star, The Frederick Douglass’ Paper, The Douglass’ Monthly, The New National Era), consulente occasionale di Abramo Lincoln, paladino del suffragio femminile, Douglass è uno scrittore prolifico, soprattutto in materia di autobiografie (ne redige tre, ognuna rieditata più di una volta) . La prima, Narrative of the Life of Frederick Douglass, an American Slave, apparsa nel 1845, è un bestseller – recentemente ripubblicato da City Lights in un’edizione (2009) curata da Angela Davis, che proprio a Douglass nel 1969 aveva dedicato due Lectures on Liberation tenute alla UCLA, e ora incluse nel volume.

Nato in una piantagione del Maryland e poi spedito a Baltimora in casa di Hugh Auld, Douglass impara l’alfabeto grazie agli insegnamenti della padrona Sophie, finché il marito decide di vietare le lezioni su pretesto che la lettura avrebbe guastato anche “il migliore negro del mondo”. Da allora in poi si accontenta di chiedere aiuto ai bambini bianchi del quartiere per riuscire a decifrare le parole nuove che non conosce, in cambio regala qualche pezzo di pane. In quegli anni gli capita tra le mani una copia del Columbian Orator, un manuale di scuola che raccoglie scritti di carattere filosofico, e s’imbatte in una sorta di dialogo socratico tra un padrone e il suo schiavo che, perorando giudiziosamente la causa della libertà, riesce alla fine ad essere affrancato. La lettura di questo dialogo gli rivela in maniera crudele e inaspettata l’ingiustizia inumana della propria condizione e lo precipita nella disperazione più profonda.  “A volte ho pensato che imparare a leggere era stata una maledizione più che una benedizione. […] Rimpiangevo spesso di non essere un animale. L’esistenza del più infimo dei rettili mi pareva preferibile alla mia […] Pensare in continuazione […] mi tormentava”.

Improvvisamente impara una parola nuova ed è come una rivelazione. Douglass la sentiva pronunciare spesso senza comprenderne il significato, fino a quando, leggendo una petizione pubblicata in un giornale locale, capisce che abolitionism vuol dire ‘lotta contro la schiavitù’. E impara che quella parola esiste perché esiste quella lotta.

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Angela Davis: ….I was in jail in New York — I don’t know, did you mention that I was in jail? Some people don’t know. 

Angela Davis ricorda la prima scadente biblioteca della sua infanzia a Birmingham, Alabama – una biblioteca per soli neri e naturalmente a corto di libri. Poi c’era la Birmingham Public Library, un imponente edificio in pietra calcarea riservato soltanto ai bianchi. Quindi la sua prima volta nella New York Public Library, nel 1959, da studentessa già iniziata alla filosofia e al marxismo. E infine la biblioteca della New York Women’s House of Detention, dove rimane un paio di mesi subito dopo il suo arresto (il 13 ottobre 1970) prima di essere estradata in California.

Toni Morrison: My first decent job other than scrubbing somebody’s floors at twelve was to be a page in the library.

Toni Morrison in prima elementare è l’unica bambina nera della sua classe e l’unica che sappia già leggere e scrivere, a dispetto delle origini più che modeste della sua famiglia – seconda di quattro figli, il padre saldatore, che per vivere ha imparato a fare di tutto, la madre domestica. A 12 anni trova il suo “primo lavoro decente” in una biblioteca e smette di fare le pulizie dopo scuola per due dollari alla settimana. Il suo compito è rimettere i libri a posto sugli scaffali, ma ci mette troppo tempo perché si ostina a leggerli. Per questo viene rapidamente destinata ad altre mansioni.

Toni Morrison: You could receive the books?

Nei mesi che trascorre in prigione – in tutto sedici, fino al rilascio su cauzione nel febbraio 1972, poco prima della fine del processo che l’avrebbe assolta, a giugno – Angela Davis legge di continuo.

Angela Davis: I could receive the books and I could read the books myself. It was okay for me read them, but don’t share them. And one of them was George Jackson’s book, Soledad Brother, that was not allowed at all, […] so we had these clandestine reading groups, and it kind of reminded me of Frederick Douglass.

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Le vite di Angela Davis e George Jackson si intrecciano per poco tempo in un vortice precipitoso di carceri, lotte, amore e morte. A luglio del 1968 Angela entra a far parte del Che-Lumumba Club, il circolo black del Partito comunista di Los Angeles; versa 50 centesimi per la sua prima tessera. L’anno dopo Ronald Reagan, allora governatore della California, chiede e ottiene che Davis venga licenziata dal dipartimento di filosofia della UCLA appellandosi ad una vecchia legge che sanciva l’incompatibilità della sua affiliazione politica con l’insegnamento. L’università esige da lei una conferma o una smentita e Angela sceglie di non rinnegare la propria appartenenza al PC. Nei mesi successivi viene licenziata, reintegrata, poi definitivamente rilicenziata, per colpa del “linguaggio incendiario” (inflammatory language) dei suoi interventi extra-accademici. Non mancano sul campus attestazioni di solidarietà, ma si moltiplicano anche le le minacce di morte; Angela cambia casa tre volte e compagni armati la scortano ovunque.

Un giorno le madri di tre detenuti della prigione di Soledad (California) si affacciano a una riunione del Che-Lumumba Club per chiedere aiuto per le sorti dei propri figli. I tre detenuti – George Jackson, Fleeta Drumgo e John Clutchette – sono stati accusati a gennaio del 1970 dell’omicidio di una guardia carceraria picchiata e scaraventata giù dal terzo piano; se condannati rischiano la pena di morte.

Gli avvocati della difesa respingono l’accusa infondata per mancanza di prove, e sostengono che si tratti di una manovra politica per colpire dei militanti dell’ala radicale del movimento nero. Immediatamente viene lanciata una rumorosa campagna di solidarietà per i Fratelli di Soledad, che in poco tempo guadagna l’attenzione dell’opinione pubblica e dei media. Angela è una delle portavoci del Soledad Brothers Defense Committee.

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George, invece, è in carcere dal 1960, da quando aveva 18 anni ed era stato arrestato per un furto di 70 dollari in una pompa di benzina. Aveva passato molti anni in isolamento (sette degli undici che trascorre in prigione prima morire nel 1971) e la maggior parte del suo tempo a leggere. I classici del pensiero rivoluzionario gli alleviano le giornate (“I met Marx, Lenin, Trotsky, Engels, and Mao when I entered prison and they redeemed me“); lo tormenta l’idea che in cella si muoia quasi quanto in un campo di concentramento (“Our mortality rate is almost what you would expect to find in a history of Dachau“). L’adesione al Black Panther Party, la denuncia implacabile delle violenze razziali in carcere e fuori e la scrittura ostinata ne fecero una “figura leggendaria” del sistema penitenziario statunitense (questo il ritratto di Huey Newton, leader delle Pantere Nere, durante la commemorazione funebre), ma anche un detenuto scomodo, destinato a vita breve.

Il 7 agosto 1970, il fratello diciassettenne di George, Jonathan Jackson, entra armato di fucili e pistole nell’aula giudiziaria della Marin County (San Rafael, California) durante un’udienza del processo a James McClain, detenuto di San Quentin accusato, anche lui, dell’uccisione di un secondino. Jonathan consegna le armi all’ imputato e ai testimoni – i due codetenuti Ruchell Magee e William Christmas – e con il loro aiuto cattura cinque ostaggi – il procuratore distrettuale, il giudice e tre giurati – chiedendo, in cambio del rilascio, la liberazione entro mezz’ora dei Fratelli di Soledad. Sfortunatamente viene freddato nel parcheggio di fronte al tribunale dal fuoco della polizia – e con lui il giudice, Christmas e McLain. Dei tre prigionieri sopravvive solo Ruchell Magee, gravemente ferito, che di lì a pochi mesi sarebbe ricomparso sul banco degli imputati accanto ad Angela Davis, accusata nel frattempo di concorso in omicidio e rapimento perché le armi impugnate da Jackson erano state comprate a suo nome.

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Free Angela and All Political Prisoner, un documentario del 2013 realizzato da Shola Lynch in collaborazione con la protagonista, ricostruisce tutte le tappe di questa avventura. Nonostante una succinta recensione del New York Times (A Radical Beatified) lamenti il registro agiografico del film, Davis per fortuna non fa la fine di Padre Pio. Piuttosto l’icona stilizzata e bidimensionale dal collo scolpito e la capigliatura afro – quella  dei pins, delle copertine di Life o Newsweek e dei manifesti dell’FBI – guadagna finalmente la terza dimensione, attraversando il raggio di un’epoca che segna l’alba e il tramonto dell’ondata più radicale (e più violenta) del Black liberation movement.

Il documentario si conclude con la fine del processo che scagiona Angela da tutte le accuse, accogliendo le sollecitazioni di una mobilitazione planetaria – da New York a Cuba passando per Parigi, ma lascia una questione in sospeso: che fine ha fatto Ruchell Magee. Dopo aver visto il film di Lynch, un anno e mezzo fa, ho cercato di rintracciarne notizie su internet, stentando a credere che la palpitante campagna per la liberazione di Angela Davis l’avesse dimenticato e abbandonato in galera, così.

Magee, in effetti, è ancora in prigione. Dentro dal 1963 per un reato minore – furto e rissa per dieci dollari di marijuana – convertito in una condanna per rapimento, sconta una pena infinita per aver partecipato a quella che poi fu ribattezzata la Slave Rebellion del 7 agosto 1970. Dopo 51 anni di carcere è il prigioniero più lungo e longevo della storia degli Stati Uniti. Che sia sopravvissuto agli ‘anni di piombo’ in cui i detenuti neri rischiavano la vita a uscire di cella e attraversare il cortile, è per certi versi un miracolo.

In un articolo pubblicato a giugno del 1971 ancora sul New York Times, Sol Stern restituisce un ritratto impietoso del trattamento riservato a Magee dai giornalisti dell’epoca: relegato al ruolo di una comparsa senza nome – è quasi sempre solo the other defendant – la sua vicenda giudiziaria viene per lo più ignorata con garbo, mentre tutti i riflettori sono puntati su Angela, le sue mises colorate, il pugno chiuso e fiero con cui saluta entrando in aula. Ruchell, invece, arriva in tribunale in trasferta da San Quentin indossando la divisa grigia ordinaria, rigorosamente ammanettato e scortato dalle guardie che, come da copione, dopo averlo fatto accomodare lo incatenano alla sedia.

Tra le cose più recenti che circolano sul suo conto ho trovato ben poco: un sito anarchico di Denver che riporta la data dell’ultimo dei suoi traslochi carcerari (marzo del 2013) e il nuovo indirizzo (Ruchell Cinque Magee # A92051 D-5 #1 P.O. Box 4670 Lancaster, CA 93539); un testo di commemorazione di Mumia Abu Jamal; un breve file audio registrato durante non so quale udienza linkato sul Freedom Archive e riprodotto su youtube; un suo comunicato del 2005; un blog che consiglia di inviargli messaggi di solidarietà il 17 marzo in occasione del suo compleanno all’indirizzo aggiornato, quello della Lancaster Prison in California; e l’edizione kindle di No Struggle No Progress. Ruchell Cinque Magee Speaks: A Critical Interview on the Marin Court House Shoot-out (un libretto di prossima uscita edito da Black Panther Party Press e curato da Gwendolyn Kennedy). E ancora qualche vecchia foto, e qualche vecchio articolo di giornale. Poi, a sorpresa, un pezzo di questa estate di Kiilu Nyasha, ex Pantera nera e giornalista del Sun Reporter, una testata locale di San Francisco e della Bay Area, che aveva intervistato Ruchell nell’estate del 1971 dopo una delle udienze preliminari. “I found him to be soft-spoken, warm and a gentleman”, ricorda Nyasha. E riporta le sue (poche) parole di allora: “My fight is to expose the entire system, judicial and prison system, as a system of slavery. This will cause benefit not just to myself but to all those who at this time are being criminally oppressed or enslaved by this system”. Per questo Ruchell sceglie Cinqué come nome di battaglia, in ricordo dello schiavo originario della Sierra Leone, Joseph Cinqué, che guidò l’ammutinamento della nave Amistad (1839) e fu poi assolto nel 1841 insieme agli altri ribelli dalla Corte Suprema del Connecticut, che riconobbe la legittimità del loro gesto di rivolta per la libertà.

In carcere Magee impara a leggere, scrivere e a conoscere il codice penale. Diventa il consulente legale di alcuni compagni di prigione e guadagna nel tempo il diritto di difendersi da solo, che in prima battuta gli era stato negato su pretesto di un QI troppo basso (78) misurato  in cella. Riesce a farsi assolvere dall’accusa di concorso in omicidio denunciando vizi procedurali e false trascrizioni di testimonianze. Finora non gli è mai stata concessa la condizionale. Attualmente sconta due condanne – rapimento e rapimento per estorsione – a causa delle quali continua a rimanere in carcere. Da oltre 50 anni.

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A un certo punto, durante il processo contro Angela Davis, l’accusa tira fuori dal cilindro le cosiddette love-letters che lei e Jackson si sono scambiati durante qualche mese. La storia di queste lettere è complicata e controversa. Il tribunale ne registra agli atti quattro: tre che risalgono a giugno del 1970, ripescate nell’appartamento di Davis a Los Angeles dall’FBI, e un testo più lungo di 18 pagine – the diary per la Corte – datato 8 luglio – 5 agosto 1971, che viene ritrovato nella cella di Jackson dopo la sua morte. La difesa di Davis respinge fin dall’inizio la proposta del procuratore Harris di contemplare questo materiale, ritenuto irrilevante ai fini del giudizio. In particolare viene contestata l’opportunità di prendere in considerazione il diario di Angela, posteriore di un anno rispetto ai fatti incriminati, che il giudice Harnason decide tuttavia di includere ed editare personalmente. L’accusa spera di poter documentare una passione ingovernabile che avrebbe dovuto indurre la giuria a sposare l’ipotesi del crimine commesso per amore. Le lettere vengono lette in aula ad alta voce; Angela all’apparenza è impassibile, mentre gli avvocati dei due schieramenti combattono una ridicola battaglia filologica sul senso letterale vs. metaforico di alcune delle parole di Davis (per esempio queste: “My love, your love reinforces my fighting instincts. It tells me to go to war”). Altre lettere spuntano il 14 ottobre del 1975 su City, una rivista di San Francisco rilanciata da Francis. F. Coppola a cavallo degli anni Settanta e destinata a estinguersi nel giro di poco tempo nel 1976. Le lettere dal carcere di Jackson (a Davis, a sua madre Georgia, all’avvocata Fay Stender e a tanti altri) vengono pubblicate nel 1970 da Random House nella raccolta Soledad Brother. The Prison Letters of George Jackson che comprende tutta la sua corrispondenza dal 1964 in poi. Insieme a Blood in my Eye, pubblicato postumo, è il suo testamento privato e politico. Un “poème d’amour et de combat” secondo Jean Genet, che scrive la prima prefazione al libro. Nel 1994 Jonathan Jackson Jr., nipote di George e figlio di suo fratello Jonathan, nato otto mesi e mezzo dopo la morte del padre nella sparatoria del 7 agosto, scrive una nuova prefazione al volume. Ricorda di aver cominciato a frequentare i tribunali quando era ancora in fasce e di esser stato il più giovane destinatario delle lettere dal carcere di suo zio: “During George’s numerous trial appearances for the Soledad Brothers case, Mom would lift me above the crowd so he could see me. Consistently, we would receive a letter a few days later”.

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Davis e Jackson si incontrano di persona molto rapidamente nella primavera del 1970. Lei aveva assistito alle udienze preliminari del processo ai Soledad Brothers, ma fino ad allora non aveva mai avuto occasione di parlare con lui. Dopo quel primo incontro cominciano a scriversi. L’anno successivo, quando ormai anche Angela è in carcere, si ritrovano in presenza dei rispettivi legali l’8 luglio 1971 nella mensa della prigione della Marin County. Ci sono anche gli altri Fratelli, Ruchell Magee e i loro avvocati. Non è un pranzo di gala, ma una riunione preparatoria alle prossime tappe del processo a Davis e Magee. George è incatenato e ammanettato. Il diario di Angela risale ai giorni successivi a questa data. Di lì a un mese Jackson viene ucciso in circostanze poco chiare: una guardia gli spara mentre – così vuole la mutevole versione ufficiale – tenta di scappare con una pistola in mano dalla prigione di San Quentin dopo aver innescato l’ennesima ribellione/sparatoria tra guardie e detenuti (e l’arma che impugna, ancora una volta, sarebbe stata acquistata e registrata a nome di Angela Davis).

No Black person, ha scritto James Baldwin, will ever believe that George Jackson died the way they tell us he did.”

***

La corrispondenza tra Davis e Jackson  è intermittente e irregolare, per ovvie ragioni. Quelli che seguono sono frammenti sparsi, che non rispettano un ordine cronologico né forse un filo logico. (I corsivi sono miei).  I testi in versione integrale si trovano qui:

– George Jackson, Soledad Brother: The Prison Letters of George Jackson, Chicago Review Press 1994.

– Bettina Fay Aptheker, The Morning Breaks: The Trial of Angela Davis. Ithaca, NY: Cornell University Press, 1976

The prison love letters of Angela Davis to George Jackson, in City, October 14, volume 9, number 14.

 ***

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George: Dearest Angela, I’m thinking about you. I’ve done nothing else all day. This photograph that I have of you is not adequate. Do you recall what Eldridge said regarding pictures for the cell? Give Frances several color enlargements for me.

Angela: I think I was a sort of embarrassed when your mother and sisters first told me that you were in love with me. You said something you fell in love with a picture. I thought then you had probably fallen upon a picture which made me look better of my actual appearance…

George: Should you run into Yvonne [Angela Yvonne Davis], tell her that I love her also and equally. Tell her that I want to see her, up close…. make her understand that I want to hold her (chains and all) and run my tongue in that little gap between her two front teeth. (That should make her smile.)

Angela: Correct theoretical analysis does not presently constitute the movement’s forte. Generally speaking there is no great lack of spontaneity because there is no great lack of provocation from the enemy’s side….But there is a profound deficiency…a fundamental problem: strategy and tactics. The lazy become either revisionists or anarchists. Well-worn paths of the past which are embarked upon as a a consequence of succumbing to that bourgeois disease of historical amnesia.

George: Dear Angela, I think about you all of the time. I like thinking about you, it gives me occasion for some of the first few really deeply felt ear-to-ear grins.

Angela: I had left my cigarettes in the car. Jon[athan Jackson] said, “Stop smoking”. I stopped. First time in eleven years I have spent eleven hours without a cigarette. Meanwhile a pipe hangs out of my mouth. It serves the purpose.

George: And I do want Lenin, Marx, Mao, Che, Giap, Uncle Ho, Nkrumah, and any Black Marxists. Mama has a list. Tell Robert to provide money for them, and always look for the pocket editions, all right? 

Angela: I wish I could touch you, we could touch each other here and now.

George: Angela,  I am certain that they plan to hold me incommunicado. All of my letters except for a few to my immediate family have come back to me with silly comments on my choice of terms. The incoming mail is also sent back to the outside sender.

Angela: The reign of barbarous capitalist society could not have been secure without the continued subjugation of Black people (and they would use any means necessary). “Divide and Conquer”. It never fails. Rape the black woman and make the survival of the race dependent on that vicious rape. …Pound into the mind of the Black male that his superiority, his manhood has been diminished, has been irreparably damaged by the female of the race.

George: It’s 12:45 A.M., June 5, and I love you twice as much as I did yesterday. It redoubles and double redoubles. I’m using the night-light in front of my cell to write this. You may never read it. I make this covenant with myself I’ll never again relax. I’ll never make peace with this world as long as the enemies of self-determination have the running of things.

Angela: It’s very late – my eyes are closing. Perhaps I’ll pursue those ideas tomorrow. For the moment I will unleash my thoughts and allow them to go in their distinctive directions toward wild wanderings, phantasies.

George: I think of you all the time. ….Is there anything sentimental or otherwise wrong with that? There couldn’t be….I’m not a very nice person. I’ll confess out front, I’ve been forced to adopt a set of responses, reflexes, attitudes that have made me more kin to the cat than anything else, the big black one. For all of that I am not a selfish person. I don’t think so anyway, but I do have myself in mind when I talk about us relating. You would be the generous one, I the recipient of that generosity. They’re killing niggers again down the tier, all day, every day.

Angela: I’m very glad, I love you. Hasta la victoria, siempre, Angela

George: Should we make a lovers’ vow? It’s silly, with all my tomorrows accounted for, but you can humor me. Power to the People! George

Angela: Concerning non-violence: the spectre of Sharpesville, South Africa – thousands machine-gunned, kneeling on the streets, protesting apartheid, non-violently. Non violence as a philosophy is a philosophy of suicide.

George: When generalizing about black women I could never include you in any of it, that is not complimentary. But my mother at one time tried to make a coward of me, she did the same with Jon. She is changing fast under crisis situation and apocalyptic circumstance. John [Clutchette] and Fleeta [Drumgo]’s mothers did the same to them, or I should say tried. And so did every brother’s mother I’ve ever drawn out. I am reasonably certain that I can draw from every black male in this country some comments to substantiate that his mother, the black female, attempted to aid his survival by discouraging his violence or by turning it inward. The blacks of slave society, U.S.A., have always been a matriarchal subsociety. The implication is clear, black mama is going to have to put a sword in that brother’s hand and stop that “be a good boy” shit.

Angela: Concerning Black Women: I’m convinced that the solution is not to persuade the Black woman to relax her reins on the Black male but to translate the “be a good boy” syndrome into a “take a sword in hand attitude”….To take our first step towards freedom we, too, must pick up the sword.

George: In our last communication I made a statement about women, and their part in revolutionary culture (people’s war). It wasn’t a clear statement. I meant to return to it but was diverted. I understand exactly what the woman’s role should be. The very same as the man’s. Intellectually, there is very little difference between male and female. The differences we see in bourgeois society are all conditioned and artificial.

Angela: Since I received word that you had, if only tentatively, placed me in the adversary camp, so many other things around me have crumbled, but I don’t think this is an appropriate time to bother you with all the details of my troubles. … Even on this level of communication, I feel extremely uncomfortable. I don’t love you less — that’s something beyond my control. But I just can’t go on like this. …I guess I really was angry when I wrote this letter of the 16th. The anger has more or less subsided, although I essentially feel the same things I expressed in that anger;… If someone sees you tomorrow, please send back some word. I love you, but do you feel the same as before?

George: Dear Angela, I sincerely hope you understand this situation here with me, the overall thing I mean, you probably do. I don’t want to be bash with you, the relative levels of our insecurity are too disparate for me to dwell on feelings, the warm, very personal, elemental thing. I can never express it in this form anyway, but I want you to know, and then we can get on with the work.

Angela: I hope you are feeling better than I. Send some message today before things deteriorate any further. I love you George.

cinéDIMANCHE #05 Jurij Borisovič Norštejn “Il riccio nella nebbia” [1975]

6

 

Mariasole Ariot

 

Della necessità di perdersi. Di smarrirsi almeno una volta.

Come un bambino coperto di spine che ancora non fanno casa, il riccio di Norstein si perde nella nebbia, in un sogno di ombre, di laghi, di incontri.
Tutto è bianco: un rito di passaggio dove il passaggio stesso è un sogno e dove il sogno diventa paesaggio lattiginoso, prima di cielo stellato e lago, poi di vapore, di cavalle bianche nel silenzio, rumori d’acqua, paure a forma di foglia e di grida, una voce adulta di gufo.
Poi la caduta : le acque scure , un dorso misterioso che lo traghetta. E da lontano l’orso chiama disperato per la conta delle stelle.
 
Nessuno sa contare le stelle come te – dice l’amico dopo l’attesa.
 
Ma il piccolo coperto di spine ora ha gli occhi spalancati. Il ricordo è proteso in avanti : una cavalla bianca, il suo destino. La stessa cavalla che Tarkovskij citerà in apertura del suo Nostalghia.
E’ diventare come bambini per poter (r)esistere in quanto adulti.

riccio foglia
yuri 1975 erizo en la niebla nostalghia01

Jurij Borisovič Norštejn (Andreevka, 1941) è considerato tra i più grandi maestri del cinema d’animazione russo. Nel 1975 realizza, con la tecnica del cut-out e l’utilizzo di un prototipo particolare di multiplane camera, Il riccio nella nebbia. Accanto a lui, per la direzione artistica, la moglie Francheska Yarbusova. Qui sotto, un’anteprima della versione inglese del libro tratto dal film, illustrato dalla Yarbusova stessa.


 
cinéDIMANCHE
 

cdNella pausa delle domeniche, in pomeriggi verso il buio sempre più vicino, fra equinozi e solstizi, mentre avanza Autunno e verrà Inverno, poi “Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera“, riscoprire film rari, amati e importanti. Scelti di volta in volta da alcuni di noi, con criteri sempre diversi, trasversali e atemporali.

 

DA “STORIA DEL DILUVIO”

9

di

Antonio Bux


1.

Che colpa ne ho io se il sonno dei baci è arrivato
prima del parto e mi ha tagliato la testa. È stato
uno specchio a rivelare cigni feriti. La prima sera
invece bare sociali, tutte insinuatesi dopo. Ma io
non ho avuto tempo di crescere funghi. Non ho avuto
modo di sapere la vista se è un bosco o se solo diviene
fango avanzando. Non ho saputo creare dai gatti calmi
il reale desiderio del balzo. Non ho potuto temere l’airone
paterno o la serpe vicina, non ho tradito gli amici zanzare.
Ma il lago interno è mutato lo stesso. E allora è bastato
restare sdraiati cervelli all’aria per sterilizzare ogni
aurora prima del vento. È bastato credere al vulcano
spento o alla cenere impazzita del corpo, che subito
la maggioranza ha eruttato bestemmie. Ed è servito
cadere ogni giorno, è servito succhiare la montagna di Dio
per precipitare sotto, è servito sognare alberi corti, è servito
sapersi bonsai, dio quanto è servito soffrire il verde completo
che ora è sera e nessuno riesce a vederlo, che ora è per sempre
notte sazia di pipistrelli. Ma le stelle lo sanno, sono il citofono
e il cielo il palazzo, dove noi non entriamo. Piuttosto ci stiamo
a zerbino, nell’aria impolverata, piuttosto spariamo ma l’alba ferisce
più forte. È un gioco meschino? Niente come le carte che giriamo
fa la truffa, niente fa l’uomo come una mano al tavolo sparecchiato.

2.

Io non so se l’avorio supererà il bianco clandestino
della mia vita notturna non so se sarà daltonico il vino
o se la fantastica selva fiorirà dappertutto. E tu non sai
chiaramente la lotteria del capitato o del fecondo dove
combacia, se nella steppa del materiale o se nell’imbuto
del giorno. Come non sappiamo il quadro dell’occhio
quanti soli frammenta al minuto, o se diventa tenebra
incinta. Ma io sogno di esser vivo se tu sogni di esser
meno. E se tu sogni di esser meno io vivo del tuo sogno.
Ma se nel sogno io rifiuto il manto caprino, allora un volto
esagonale si dilata. E se non sogno più diamanti è per colpa
del mestiere che frantuma ogni promessa. Se tu non sogni
delle case o se non entri nei fantasmi allora è vano il mio
distacco. E se mia madre è stata un sogno, una cicogna nera
ora vola sul mio braccio e sulla pelle. E se tua madre non è stata
in grado di sognare a cosa serve la preghiera che cosa stringe
nella pietra se non fa male la tua mano. Se la tua mente
non esplode quale miccia si commuove quale fiamma cade
invano ma gentile, quale ragno tappa i buchi quale fonte cede
i segni, quale mare attraversa dentro. Se nella mano si conclude
il sogno di una vita è per forza d’ogni bene è per vincere la fame
di un povero caduto. Ma tu non puoi risolvere i nodi se sei nodo
non puoi la spada se sei scudo, non puoi girare a vuoto il tuo divieto.

3.

Vorrei soffrire se le pene dell’inferno non fossero l’inferno. Eppure
è qui anche non volendo, è stato come il male anche se non svuota
il resto di noi, per sempre vedi come cresce anche sparendo. Rimonta.
E se non vuoi lui ti sceglie, e se ti sceglie tu non vedi. Ecco hai scelto
la calma della morte, una fotografia scattata troppo presto. Ecco lui ha
scelto la balena del trasporto. Lui trasporta te alla deriva. Né prima
ti salverà la saggezza delle tombe. Non ti salverà l’aver trattato alghe
coi pescatori ciechi, non ti salverà dall’ira del diluvio la potente acqua
già bevuta. Sarai mezzo mare, se ti calmi. Saprai più sonni, se ti svegli.
O solo sabbia sotto le bombe, o trota convertita alla sua corrente. Ma
se vivi del nero pretendi troppo, è un colore che sbiadisce alla lontana.
Non seppelisce l’anima, la seppia nascosta. No, non riesce col sale
a sgranare le ferite. O le nostre lacrime piovute dal giorno, al mattino
quando vomitano i santi, le senti anche tu, come puzzano di tempo?
Perché le statue tergiversano nel bianco, e non riducono l’anello
del demonio. Per sempre calcato, vissuto interno ad ogni Carneade
maschera l’uomo, cresce come cimice di speranza. Com’è verde,
com’è fetida di erbe! Lì corrosa dalle voglie, scossa dalle tensioni
la balaustra del Cristo ancora ci costeggia. Livido scalino! La zecca
del martirio ingrossa ogni tempesta. Ma non è boa a indicare
non la linea del confine ciò che segna. Una volta aperto il pozzo
originale, una volta smessa tutta la cambusa, non resta la tua
ciurma a naufragarti. Ciò che salva è la siluetta della barca.

4.

Anche tu senti le pietre soffrire? Anche tu hai visto prima la loro
ombra cadere? Più sotto lo smottamento, quello smacco celeste?
Dove chiosano crude radici, fiorisce un gambo morto di rozzezza.
Questo lo sai, lo hai imparato scavando l’aria, al culmine del vento.
La sai muovere, nel soffio del cervello, quando distrai le altalene più
vispe della mente. Non cigolano mentre muovi le ragazze sul vuoto
piedistallo. Era marzo, ricordi, e avevi freddo. La galera dell’inverno
pioveva soli all’incontrario. Chi era, con te, l’ombra grassa del tuo avo,
il tuo fantasma doppiatore? Non hai mai baciato, non hai mai potuto
toccare il capezzolo dell’albero, la strana linfa dorata sotto la tua
lingua. Eppure odoravi le campane del quartiere, la campagnola
sotto la neve, e accanto la scuola il bivacco allupato della maestra!
Così tante caramelle ingestibili. Che fatica crescere a sale, miseria
inghiottita dagli occhi mentre guardano. Cosa ci ha guidati così
tra una sponda e l’abisso, resistendo a galla? Una pala radioattiva
forse, una diga di tristezza. Ma la purezza cresce sempre lá dove
la cicuta seduce cinghiali. Nel grugnito allora scova il serpente
sarcastico che ora manda sonagli o tramuta in pietra. Quella stessa
cornice dove elfi sottili cesellano l’ombra. Ma nel ricordo di luce
un geco perde la tua coda, vedila come si agita alle nostre vittorie!
Chi ora muove mi domando, chi ha il filo più allungato, chi di quelli
barcolla a marionetta? Chi si crede più artigiano, se col primo rogo
stermina tutta la flotta burattina? Un pinocchio bruciato ci gioca.

5.

Caramente succede che si muore. A volte Tutto è vero. Nulla risorge
se non richiesto. Guarda. Per ruscello si svuota un deserto. Ma vedere
un’allodola crescere negli sguardi amici, non volendo, aumenta
il delirio. Dopo qualche giorno l’allodola sparisce. Chissà dentro quale
tempo è salita a farsi un nido? Forse nel mondo esiste uno sguardo
che non contempla foreste. Forse esiste un corpo che si muove senza
baccano. Che sia un atlante scomparso al suono geografico della
memoria? O solo un pulsante rialzato, più duro a schiacciare?
Potessi sapere come le mosche volano per mantenere nell’aria
invisibile il rientro. Sai, ne ho parlato a lungo, l’altro giorno
calcando il terzo pianeta. Mentre il sole si spostava verso sempre.
Ma come fare a saltare ogni notte, e fingersi torero che si sbraccia
a mani vuote? Come stare senz’anima alla fune? Vedi, le cose cadono
ai piedi se le fermi. Dopo non rimane che la bugia di questa faticosa
empatia. Non rimane che mescere il pane quotidiano con il dente
ferito. Ma quanto strazio. Sopra di me c’è un tizio e non mi lascia
dormire. Mi dice l’altrove è un bel posto, non lo frequentare. Io
non gli credo. Non ho mai creduto alle ombre vicine. Anche se
mentono a fin di luce. Vorrebbero salvarti, condurti al precipizio
del clamore. Ma fai attenzione se si svegliano prima della tua fine.
Fai attenzione se ti chiamano col nome del principio. È l’inizio la sola
cosa che s’ignora. Nel polo della notte accende con ossa di carbone
e domanda in noi, da sempre: Com’è stato puntare tutto su un dolore?

6.

Mare morto di energie mi trascina la tua risacca. Un pendolo di
gioventù bruciante, che si eclissa. Ma se chiudi il frastuono della
vita, cosa strabordi fino al costato altrui? Le mani crollano invisibili
se costeggiano un solo muro. Non amare, questo è saper perdere?
Perché chi ama vive di polvere, ma se non ama è di polvere. E se ama
a metà, si fa polvere mancata. Più spessore. Perché permettere questo?
Un povero dio impolverato ci illumina di fasci. Strana sentenza essere
tutti quella sua luce. Preferiscono il buio i matti. Ciascuno avvolto
da un nero abbandonato. Quelli sì, amano il vero. Anche la congiura.
Come non crederli divini, se sanguinano appena rivolgono lo sguardo
in chi si elimina. Ne incontro molti mentre chiudo a chiave le stanze.
Camminano stretti, come desideri. Non hanno più ombre da sbattere.
Sapessi battezzare il perdono come questi! Finirei davvero nel giusto
manicomio. Con una pezza di solitudine sempre pronta a condividere
l’elemosina del sangue. Ma pregare l’albero finché torni radice vuota
è come credere l’uomo in un verde impraticabile. Chissà allora sia
la melma terrestre il giusto sfogo. Un bersaglio che mi centra se penso
a quanto dista ciascuno dal dirupo. Eppure certi pazzi li vedo ridere
sulla soglia. Come foglie di vento conoscono l’aria a memoria. Pazzi
che conducono la follia del mondo, quante risate se dicessero la verità!
Io la tengo scritta su un fazzoletto di neve, la chiuderò in un cassetto
appena smetto di respirare. Una volta intascato l’uomo, l’esistenza si
svuoterà. Essendo sola, parlerà la distanza. Dove nessuno più ascolta.

7.

L’ho scoperto l’altro giorno. Sono un fiume che piange se stesso.
Ma quando le lacrime finiscono, uno stagno è sempre nell’altro.
Gli dice troppo. Che non si neghi il ritmo a nessuno. Ognuno ha
il suo sangue, da non condividere. Ma la ferita sì, è universale.
Chiedere perdono per la proria ferita, la sola lima. Andare oltre
questo specchio e non vedere niente. Un vuoto che illumina.
Le febbri cresciute poco i volti impazziti per troppe occhiate.
Chiedo scusa ogni volta che scrivo. Saprai salvarmi? Ciascuno
si salva solo. Temere gli occhi, la prima confessione. Negarsi
a parole, negare la parola. La parola negata è la verità del dio.
Ciò che manterrai segreto, è per te stesso. Certi fanno poesia
per non essere poeti. Ma se un poeta è poesia, cos’è che sta
mentendo? La poesia è una scatola di scatole. Il poeta non lo sa
ma le apre. Ad un tratto ci rimane male. La scatola è infinita
perché chiude al volo ogni volta. Allora è rubare uno spiffero
ciò che accumula il silenzio. Certi poeti costruiscono scatole
ma poi le smontano vivendo. Non reggono l’urto di un nuovo
vento. Né l’evento del furto. Perché ognuno è rubando che alimenta
il proprio buco. Che vergogna essere la tomba dei morti! Lapide
rozza non ospitale, lavagna domestica insegnando piattole. Dove
lo sporco non delimita, un pulito troppo opaco l’altare splendido.
Ma chi prega al banchetto dei vivi? Esseri invisibili calpestano, quale
fortuna! Meno male che il destino ci cova. Viva i poeti sconsacrati!

CALORE DIVINO
(Inferno a rendere)

8.

Sto scoprendo il troppo. Qualcuno verrà presto a farmi fuori. Sarà
dietro uno sguardo, un volto più vivo o per colpa di un pompino
gelato. Oppure mi troveranno stecchito, autografato da altro nella
calligrafia dell’aurora. E finirà tutto così, in una pera finta, succhiando
le tenebre. Berrò dal mio calice senza sangue, o disegnerò l’indelebile
oscurando la mela a metà del destino. Ma ora osserva doppiamente
la vita svanendo, e mentre mi continua, fa lo stesso. L’ombra del gufo
gli si nutre di fianco. Eppure è stato, da dentro le acque, un suono
onnivoro la sola stanchezza. Ricordi, un vortice centrale propose
il salto. Ma tu non volevi saltare. L’acqua nutriente ora ti caccia.
Ora lontano, nella gradazione che non corrisponde, la televisione
pare un tonfo freddo, come i piatti scrocchiando le mani e le facce
precipitare nei bicchieri. È solo un rumore spaventoso, la famiglia. Ma
chi sei, a questo tavolo, chi sono loro che ti guardano, sono io già
morto per vederlo? Potranno rispondere sai, siamo stati noi a colpirti
all’entrata. Dovevi saperlo, e restare nel cavo, stretto al margine
dell’inizio. E invece con tutto sei venuto al mondo, per tramandare
l’oltranza. Ma dicono che chi muore se ne va per somigliare. A cosa,
forse solo al pensiero di essere stato, fuori di qui, o soltanto troppo
dentro, qualche ricordo? Somigliare è solamente sapere che qualcuno
da sempre scompone, nell’appartenenza. Così l’origine non ha mai
fine, se ricordata nel dolore. Ma una volta scoperto, il troppo dilata
la conoscenza, restringe la mente in fantasma. O solamente ti sbaglia.

9.

Per questo buio fraintendere della sera hai calmato il mezzogiorno.
Un bolide nel vento, e sei venuto giù in un picchiare di campane.
E non vi è stata coda superstite, nella prominente bocca dell’urlo,
ma intera la cima caduta del sogno, tagliando il petto della strada.
Ora mi guardi con faccia di pietra, io ti somiglio sdraiato sul dosso
e non mi manco, non posso esitare col terriccio non si può più dire
di essere poco aderente ora che il cielo mi osserva diagonale. Ma da
quale ora provengo, se non ricordo il salto definitivo, se è stato il mio
progresso l’aiuto o solo un cincischiare dell’equilibro nel fianco vivo
di un altro me rotto indeciso sull’ombra, o se solo l’ombra staccando
dal collo il suo fiato e smarrendo quel corpo voluto meno, ora grigio
dirimpetto sul vano giaciglio. È perfetto pensare che io sia la scelta
di un cieco vuotare, è così facile sperare l’elemosina dal proprio nulla
mentre si cade con la mano retta, mentre si ride di sé giocando con
nessun nascondino, con nessun amico di sempre. Ma davvero vince
colui rimasto all’ascolto, pur dolente, di chi vive la chiamata sonora.
Solo questo è il motivo, una più chiara distanza che spinge la gravità
dal desiderio nel tatto, con la simbiosi dell’asse terrestre combaciare
quella fine con il mondo, quella morte alla valle distesa del tramonto.
Due soli che si odiano fanno una luce sola. Ma dentro l’anima, chi
accende l’eterna spia, se per una vita interrotta se ne infiamma una
lasciata sporgere alternativa? Lì, nel possibile che si sogna, immerge
l’aria, fa contatto con l’eterno. Il cielo più puro, questo sento nel volo.

10.

Il cranio mi fa male, se vi poso la testa. Per questo
vuoto incendiare, ad ogni morte gira lento un carro
funebre. C’è un nido di sorprese nei volti ammiccando
il morto quando passa, quasi fosse davvero andato a
far festa. Ma in un suono di farfalle si nasconde bene
e vola via col delirio della chiesa in fiamme. È un tripudio
bipolare la piazza gremita di occhi. C’è chi spegne il suo
lume gridando che non vale, che non è così che si tirano
le cuoia in paese, che si muore una sola volta al mese e
nessuno sconto condominiale. Ma a questa botta è saltato
un palazzo intero, col doppio portone, sei famiglie e due
signore, vedove da un pezzo. Fuga di gas i becchini han fatto
un bel prezzo di riguardo. Niente bare di legno, solo avorio
per decessi innaturali. Che fine di lusso, vallo a sapere morirei
anche io per questioni di cherosene. E invece me ne sto solo
col cranio in mano, nella testa, e riposo. C’è chi pensa sia strano
parlare a ritroso e condurre il paesaggio, o salutare un deserto.
In questo caso, è un morto che parla, quarantasette su scala
connazionale del gioco. Ma nessuno muore davvero, nella poesia
mia nessuna cosa succede. Sarebbe bello invece fiorisse una rosa
o qualcosa di simile, una prosa che finisse col morto a sorridere.
E invece sono solo io col mio reso, nel mio vero indeciso, faccio noia
del testo, spargo gioia a pretesto. Sono serio, cerco solo un cimitero.

11.

Hai camminato ora sei stanco di andare senza il tuo branco contro
ogni speranza. Ma l’osso ricresce comunque, è un piatto troppo
caldo messo a gelo dall’esistere. E tu le vedi le tombe galattiche
dei popoli d’Abissinia, le vedi splendere nei vecchi soli quelle polveri
chiodate al marmo della terra santa. E pretendi anche tu d’esser clone
dell’ulivo, figlio di bacca, vorresti così frantumare fra cento legioni
scomparse l’alloro della notte mai vissuta o nel vento regalato la stele
rapita. È l’alieno che ti ha costruito, una baracca di stelle lontano dalla
prima liana, ciò che sapevi afferrare, ciò che vedevi sparire nella carne
col balzo furbo della scimmietta. Hai imparato presto a rubare il felino
così come a sotterrare il manifesto terreno ai tuoi piedi fino a farti
generale gigante. Ma un esercito più grande muove contro il tuo dito.
Non puoi niente se non connetti la mente alla memoria del fondo
spaziale. La chiave bionica, quella gira e non ti apre le porte, solo
annuncia il suo freddo lontano. La tua luce migliore brucia gli ioni
esserino di nomi, pronuncia il tuo silenzio come fosse vittoria! Il
linguaggio di Marte, la fossa lattea scavata, inverte la luna collegando
trasmissioni. Quanta umanità combatte per restituir loro il balsamo
d’oro. Chi siamo lo sai, nel grano il messaggio dissimula la tua mente
contorta quel disegno. Un capostipite nascosto in un cerchio d’uomo
il solo pegno restituito alla promessa glaciale. Ma animali prima di te
han costruito nel globo, e nel centro di esso qualche mostro governa.
I tuoi raggi benefici lì vanno, nel suono emancipato della loro scintilla.

12.

Il vento sta cambiando! Mi remo contro e non riesco più a smettere
nel vedere l’opaco trasformarsi in chimera. Ah che brutta cosa resiste
alla sfera la sensazione del giro! Non è un rompicapo piuttosto un
profondo più vero male alla testa. Ustiona il pensiero la frase corrotta!
Correndo non si sa più che dire, ma per forza di cose sopravvive
la frequenza a noi stessi! Manda e capta segnali, un messaggio prima
ancora di scoprire. E dice che c’era un forte vento attraversando
l’uomo, un cielo scoperto alle falde d’universo. Ma chi vi ha messo
su un tappo? Le cose splendenti han lasciato le stelle, ora riposano
sul guanciale sinistro dell’abisso. Io canticchio dal centro del mondo.
Gli altri a destra, convertiti alla terra. Quante prese di posizioni!
Chi ha comprato costellazioni ora giace sul fondo dell’inferno.
Gabbati perfino dal demonio, poveracci le fruste li domano. Signore
dai troppi anelli non perdona, il fulcro della vita spesa in tramonti.
Preferire una morte da santi è la sfida di chi scalza il millennio. Non
più sovrano a condurre mansioni, non più mero programma celeste.
Solo angeli neri scampando all’infinito. Ma il vento sta cambiando!
Sento che ritornano i leoni. Sarà che il tempo è tutto tondo, scodella
sempre qualcosa di contrario. Potrebbe sparire il Colosseo e stare
Napoleone la sera in televisione. Mia madre lo potrebbe votare! Sì ma
cadrebbe il governo? La moneta dei popoli andrebbe in rialzo? Fottuto
Occidente non cambi sistema! Ah ah ah, sei simpatico soggettone. Ora
che il fuoco comanda, nel cerchio d’oro l’illusione conficca noi tutti.

_____________________________________

N. d. A.

Queste poesie (23+1) intitolate “Storie dal diluvio” (titolo cambiato in corso d’opera) formano una delle 6 sezioni che compongono il mio ultimo inedito, intitolato “Naturario”. Questa sezione ospita queste poesie monolitiche composte da 23 versi l’una (tranne l’ultima che ne comprende 24) e si divide, a sua volta, in tre sottosezioni (“Cielo ipotetico/Preparadiso”, “Calore Divino/Inferno a rendere” e “Postumania/Finto Purgatorio”).

Un tipo a posto

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miriam-toews

di Gianni Biondillo

Miriam Toews, Un tipo a posto, Marcos y Marcos, 2013, 328 pagine, Traduzione di Daniele Benati e Paola Lasagni

Millecinquecento abitanti, non uno di più, non uno di meno. Solo così Algren può ambire al titolo di Città più piccola del Canada, surclassare le altre pretendenti e avere in premio la visita del primo ministro per la festa nazionale del primo luglio. Un problema che può apparire di poco conto, ma che, leggendo Un tipo a posto, scopriamo essere di primaria importanza per il sindaco della cittadina, Hosea Funk, figlio illegittimo di un amore fugace di sua madre, durato una sola notte, come confessato da lei stessa sul letto di morte, proprio con un giovane che oggi è diventato il primo ministro.

Hosea ha quindi, finalmente, il modo di incontrare suo padre. Ma Algren, la tranquilla cittadina, sembra non dargli ascolto. In tutto il mondo, Canada compreso, la provincia immobile non è immobile mai. C’è chi muore, chi dovrebbe morire e non muore, c’è chi partorisce, in modo copioso (un parto trigemino), c’è chi parte, chi arriva. Insomma: Algrean, sonnacchiosa finché ci pare, non riesce a soddisfare i piani di ricongiungimento familiare di Hosea, che, nel frattempo scopre pure d’aspettare un figlio dalla sua compagna (e che quindi vuole – disdetta! – trasferirsi in paese!).

Un libro divertente questo di Miriam Toews, colmo di personaggi al limite della macchietta: cani dispettosi, madri  imbranate, bambine dal nome improbabile sempre pronte a spiccare il volo, pompieri volontari ossessionati dagli incendi, nonne ubriacone. L’autrice sembra dirci, con la sua scrittura godibile e senza fronzoli letterari, al limite del colloquiale, che per quanto si cerchi di portare a termine un piano, grande o piccino che sia, la vita si metterà in mezzo di continuo, farà sempre di tutto per depistarci, per stupirci. Che occorre quindi vivere con meno ansia i giorni della nostra esistenza, cogliendo i frutti golosi e inaspettati del caso, piuttosto che quelli amari degli illusori progetti della ragione.

 

(pubblicato precedentemente su Cooperazione, n° 3 del 14 gennaio 2014)

Nella ragnatela del Calamaro

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di Areta Gambaro

Bello avere la necessità di tornare in sala per vedere il secondo atto di un lungo spettacolo. Dote questa di grandi drammaturghi. Non è tanto seguire una storia, perché una storia di fatto non c’è. Almeno in questa prima parte di “Diario del Tempo: l’epopea quotidiana” di Lucia Calamaro.

Il mondo letterario che si mescola perfettamente al mondo teatrale, dove la parola sulle spalle di bravissimi attori, Federica Santoro, Lucia Calamaro e Roberto Rustioni, è in giusto equilibrio.

Memorie per dopo domani – per Franco Fortini (programma)

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francofortini
MEMORIE PER DOPO DOMANI
Per Franco Fortini nel ventesimo anniversario della scomparsa
Regione Toscana – Istituto Storico della Resistenza Senese e dell’Età Contemporanea, Siena – Centro studi Franco Fortini (Università di Siena)

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Mercoledì 19 Novembre ore 12.30| Palazzo Strozzi Sacrati, Piazza del Duomo FIRENZE
Regione Toscana – Conferenza stampa di presentazione “Memorie per dopo domani: per Franco Fortini nel ventennale della scomparsa”.

Il caso Bilbolbul ovvero la necessità di una decolonizzazione italiana

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BilBOlbul-2014-Manifesto

di Igiaba Scego

Tette rosa, orecchie rosa, boccuccia rosa, unghiette rosa, panno rosa. Il resto nero come la pece. Il bambino, un bambino africano, si sta tenendo in equilibro su una gamba sola. Sta giocando forse o forse no. Chi può dirlo? A guardare il disegno -perchè di disegno si tratta- sembra anche un po’ stralunato. Si intravede un occhio spalancato, impaurito, un po’ vacuo. Ha paura di cadere? Di essere visto? Di cosa ha paura il bambino? In testa tiene sospesa della geometria assortita, una sfera e tre parallelepipedi sottili, tutti di diverso colore. Il bambino, a parte il panno rosa già citato, è nudo. Questo è bene sottolinearlo. Tutto in lui è selvaggio, trasandato, non civilizzato. Guardo la pagina nella sua interezza è noto che le ripetizioni di nero, giallo e rosa sono dappertutto. Provo un certo fastidio a guardare questa immagine. Non ci posso fare niente, ma qualcosa mi preme all’imboccatura dello stomaco. E quel qualcosa, lo so bene per esperienza, non è foriero di niente di piacevole. Mi fa male, accidenti! Sto incassando la solita botta, il solito pugno malefico, sempre lì nello stesso punto, sempre lì dove fa male da morire. Succede sempre così quando vengo investita da uno stereotipo. E quasi peggio del razzismo urlato in piena faccia, quasi peggio di quando alle elementari mi chiamavano “Kunta Kinte, sporca negra”. Ad un insulto razzista di quelli beceri so rispondere per le rime, è quasi più facile. Ma gli stereotipi, le parole sussurrate, quei non detti che ti inferiorizzano ecco quelli sono bocconi amari da mandare giù.

Ma lo devo proprio mandare giù questo boccone?

Riguardo la pagina. Bilbolbul VII edizione, ecco cosa c’è scritto. Ma si? Ora capisco! Stanno pubblicizzando la nuova edizione del festival internazionale di fumetto che si tiene a Bologna a fine Novembre. Un bel festival! Insieme a quello di Lucca uno dei migliori della penisola. Da lì ci sono passati tutti i “mejo” fumettisti italiani, da gipi a zero calcare per interderci. Pesi massimi insomma. E poi sono state tante le attività antirazziste che il festival ha organizzato nel corso degli anni. Sono gente attiva, in gamba. A pensarci però è proprio questo a farmi male di più ovvero che gente attiva, in gamba, non si è ancora posta il problema di mettere in discussione il nome (e l’iconografia) della loro manifestazione. Mi fa male sapere che gente in gamba nel 2014 riproponga un Bilbolbul nero, selvaggio, coloniale come se niente fosse.

Occorre fare un passo indietro però. Va spiegato ai più, a chi non la sa, chi è Bilbolbul.

Bilbolbul viene considerato il primo fumetto italiano. Comparve per la prima volta sul Corriere dei Piccoli il 27 Dicembre 1908 a firma di Attilio Mussino. Il fumetto rappresentava un bambino africano un po’ tonto che viveva letteralmente le metafore e i proverbi che incrociava nel suo cammino. Ed ecco che nel corso delle sue avventure si allungava, si accorciava, andava in pezzi, si rincollava e soprattutto cambiava spesso colore. Poteva diventare verde dalla rabbia, rosso di vergogna e così via. Quando tornava nero naturalmente rientrava nel suo stato di bambino tonto e ingenuo delle colonie. Le avventure di Bilbolbul erano ambientate in Africa. Ma non l’Africa reale, ma una sorta di giungla fiabesca ed arretrata dove tutto poteva succedere. Una terra piena di pericoli e magie che andava presto ricollocata nei binari della civilizzazione. Il personaggio era un perfetto figlio nella sua epoca storica. Bilbolbul era di fatto un sudditto coloniale, il “negretto” di Giolitti e per relazionarsi con lui si doveva usare una certa dose di pazienza e paternalismo, un po’ come gli ufficiali trattavano le truppe coloniali, gli ascari, con paternalismo e una buona (anzi cattiva) dose di frustrate. Bilbolbul era più una bestiolina che una persona. Una scimmietta mangiabanane che faceva le smorfie e faceva divertire i padroni bianchi. Ed anche il suo farsi metafora di fatto era un aderire completamente al volere di un sistema colonialista chiuso ad ogni speranza. Oltre al contenuto quello che colpì al suo apparire fu anche la forma del fumetto. Molti esperti ancora oggi sottolineano l’estro grafico di Mussino e la buona caratura stilistica del fumetto. Mussino era anche un pittore e la sua tecnica ha regalato una certa corposità a Bilbolbul. Era di fatto qualcosa che non si era visto prima. Per quei tempi il lavoro di Mussino era davvero all’avanguardia, stilisticamente parlando. Non è un caso che i bambini si affezionarono da subito a quella sagoma nera un po’ bizzarra, a quel simpatico “negrettino” al quale spuntavano letteralmente le ali ai piedi ogni volta che aveva fretta e la lingua era tutta a penzoloni ad ogni corsa fatta. Era un nero addomesticabile Bilbolbul, faceva di fatto abituare i bambini italiani (purtroppo aggiungerei) ad essere “razza” civilizzatrice. Bastava solo il fatto che i piccoli lettori di Bilbolbul erano tutti vestiti a puntino, mentre lui il povero africanino si aggirava per la foresta quasi come mamma l’aveva fatto. Certo non si era ancora arrivati agli eccessi del fascismo e ai racconti bellici dall’Africa Orientale, ma il personaggio di Mussino di fatto è stato (volente o nolente) una tappa preparatoria a quello sfacelo di razzismo e vanità imperiale voluta in seguito da Benito Mussolini.

Purtroppo Bilbolbul non era un eccezione in quei primi anni del Novecento. Nel Fumetto imperversava il colonialismo. Basti ricordare Nemo di Winsor McCay con il suo fantasmagorico regno di Slumberland o i Katzenjammer Kids, in Italia conosciuti come Bibì e Bibò, che erano di fatto una famiglia tedesca in una remota (e non precisata) colonia d’oltremare. Il tema si ritrovava pure nelle pubblicità, nei modi di dire, nelle canzonette. Ed ecco che lavare il nero era uno tra i leit motiv più usati per reclamizzare i saponi detergenti.

Questo succedeva nei primi anni del ‘900 quando Bilbolbul era nato. Ma oggi?

Perchè io figlia di migranti, afrodiscendente, afroitaliana apro una rivista nel 2014 e mi tocca vedere lo stesso Bilbolbul stereotipato? Sembra non essere passato nemmeno un minuto da quel 27 Dicembre 1908 quando il Corriere dei Piccoli presentava ai suoi lettori la creatura di Mussino. É sano questo? Normale?

Guardo le tette rosa del Bilbolbul del 2014 e comincio ad odiarle. Ma arrabbiarsi non serve. Dobbiamo usare tutti la testa. Tentare di trovare un sentiero condiviso. Ma quale?

Vorrei tanto che un festival di fumetto, un festival di pregio come questo, si mettesse in discussione.

Perchè in Italia serve come il pane mettersi in discussione. Spesso ci capita di arrabbiarci davanti al razzismo manifesto di certi esponenti politici. Parole amare, parole avvelenate traboccano dai nostri Tg o dai talk show. Il razzismo è stato sdoganato purtroppo. Ma è solo il razzista dichiarato il nostro problema? Spesso l’antirazzismo italiano gioca di rimessa. È un antirazzismo che risponde agli stimoli xenofobi, ma non sa più dettare l’agenda. È paradossale la situazione che stiamo vivendo. Si reagisce (ad una barzelletta, ad una dichiarazione, ad un pestaggio), ma spesso non si agisce in maniera preventiva sulle cause del razzismo che ci avvolge. Non riflettiamo più. Siamo in difesa, sempre in trincea, sempre a rispondere e mai a domandare. Ed ecco che esponenti politici di partiti apertamente e dichiaratamente xenofobi usano il razzismo perché hanno capito che da visibilità e voti nelle urne. E perchè sanno che sono soli in campo, sono loro a creare le azioni, nessuno li contrasta, nessuno. Per usare un’altra metafora calcistica possiamo dire che l’antirazzismo fa catenaccio stretto, mentre il razzismo sfodera una massa incalcolabile di centravanti. Ed ecco che si sollecita la pancia degli italiani. Si gioca molto sulle paure. La paura di perdere il lavoro, di perdere la fecondità, di perdere la salute, di perdere il benessere. La paura regna sovrana e si alimenta di stereotipi. L’altro quindi è sempre il poveraccio, l’untore di ebola, quello che stupra, l’ingenuotto mangio a sbafo, la prostituta. L’altro non è mai persona. L’altro è solo una cosa, un oggetto, un qualcosa di molesto che va eliminato, un essere inferiore ed inferiorizzato. Il razzismo di oggi si nutre di fatto degli stereotipi e dei meccanismo creati durante il colonialismo. E li trovi dappertutto in un articolo di giornale, in una fiction della televisione, in un dibattito politico, in parola pronunciata con noncuranza da uno speaker radiofonico.

Ed ecco che la paura si alimenta di immagini antiche, sepolte nel profondo di un io in cui purtroppo il colonialismo e il suo sistema di potere (che divide il mondo in in inferiore e superiore) sono vivi.

Quindi cercare di problematizzare il nome (e l’iconografia) di un festival di fumetti non è questione di lana caprina, ma un esempio di quello che per me significa di fatto decolonizzare. Penso a quanti adolescentu, per fare un esempio, saranno esposti al moderno Bilbolbul nero pece, quanti penseranno nel fondo del loro cuore che in fondo in Africa sono così, sono un po’ selvaggi, un po’ bambini. E il passo è breve tra questo pensiero e picchiare una ragazza nera sull’autobus accusandola di portare l’ebola in Italia.

Non voglio accusare il festival di fumetto per carità. Ma la mia idea è quella di instillare il dubbio, aprire un dibattito.

Di Bilbolbul ne ho parlato tante volte anche con Viviana Gravano e Giulia Grechi. Queste due donne straordinarie hanno messo in piedi una grande avventura che spero possa avere successo. Io e molti altri abbiamo aderito con entusiasmo. L’idea di Viviana e Giulia è molto semplice, Loro vogliono creare una sorta di archivio del colonialismo italiano, un archivio sociale, fatto da tutti noi. Vogliono raccogliere oggetti, fotografie, francobolli, bambole, manifesti per creare una sorta di banca dati della memoria. Ogni persona che vorrà dare il suo materiale lo darà solo in prestito, l’archivio lo catalogherà, lo restituirà e lo metterà a disposizione online per ricerche accademiche e artistiche. L’idea poi è quella di superare il contenitore di memorie, ma creare una piattaforma aperta e un dispositivo vivo, in stretto contatto con il tessuto sociale. Il primo step [dopo la campagna di crowdfunding che sta continuando in questi giorni e del quale si può prendere visione su questo sito https://www.indiegogo.com/projects/immaginari-postcoloniali-postcolonial-visions] prevede un convegno di due giorni -27, 28 Novembre, casa della memoria, a Roma- dal titolo Presente Imperfetto. Le organizzatrici del convegno, che avrà un’impronta decisamente non accademica, hanno chiesto ai relatori di preparare gli interventi a partire da un oggetto/documento del periodo coloniale italiano, che verrà portato e mostrato al pubblico. Io sarò una delle relatrici. Ho deciso che porterò tra i vari oggetti anche due immagini di Bilbolbul. Una dei primi anni del ‘900 del XX secolo e l’altra il manifesto dell’edizione 2014 del festival che si terrà a Bologna dal 20 al 23 Novembre. Perché serve problematizzare anche quello che spesso diamo per scontato. Spero di cuore che qualche organizzatore del festival bolognese possa venire a Roma e discutere con tutti noi un modo di decolonizzare non solo Bilbolbul, ma anche l’intera Italia. Meritiamo un paese senza più stereotipi razzisti. Ora la strada è lunga, ma accidenti dobbiamo farcela.

La mia libertà è l’altro nome della mia inerzia: Mario Benedetti, La tregua

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La Tregua, Mario Benedetti, Nottetempo edizioni, Roma 2014

 

La Tregua, Mario Benedetti, Nottetempo edizioni, Roma 2014
La Tregua, Mario Benedetti, Nottetempo edizioni, Roma 2014

di: Francesca Fiorletta

Domenica, 17 marzo
Se mai un giorno mi suiciderò, sarà di domenica. È il giorno più scoraggiante, il più insulso. Vorrei starmene a letto fino a tardi, almeno le nove o le dieci, ma alle sei e mezza mi sveglio spontaneamente e non riesco più a chiudere occhio. A volte mi domando che cosa farò quando tutta la mia vita sarà una domenica. Chissà, magari mi abituerò a svegliarmi alle dieci. Sono andato a pranzo in centro perché i ragazzi sono fuori per il fine settimana, ciascuno per conto proprio. Non me la sono sentita neppure di intavolare con il cameriere il banale, solito scambio di opinioni sul caldo e i turisti. Due tavoli più in là, c’era un altro solitario. Era accigliato, rompeva i panini con i pugni. Due o tre volte gli ho lanciato un’occhiata, e a un certo punto i nostri sguardi si sono incrociati. Mi è parso che nel suo ci fosse odio. E che c’era, per lui, nel mio? Dev’essere una regola generale: i solitari non simpatizzano tra loro. O non sarà invece che siamo davvero antipatici?
Sono rincasato, ho fatto un riposino, mi sono alzato stanco, di malumore. Mi sono preparato un mate e mi ha disgustato il suo sapore amaro. Allora mi sono rivestito e sono tornato in centro. Questa volta sono entrato in un caffè; ho trovato un tavolino proprio accanto alla finestra. Nel giro di un’ora e un quarto, sono passate esattamente trentacinque donne interessanti. Per ammazzare il tempo, ho abbozzato una statistica dei particolari che più mi piacevano in ciascuna. L’ho segnata su un tovagliolino di carta. Ecco i risultati: di due, il viso; di quattro, i capelli; di sei, il seno; di otto, le gambe; di quindici, i fianchi. Netta vittoria dei fianchi.

Philofax: Tommaso Ariemma

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Copertina e quarta - Tommaso Ariemma

Sul filo del rasoio, la filosofia del taglio di Tommaso Ariemma
di

Paolo Bosso

 

Uno dei motivi per cui adoro leggere Giorgio Agamben sta nel fatto che il filosofo italiano struttura i suoi discorsi (in particolare la serie degli Homo sacer) su una bibliografia che non potrò mai affrontare, quella religiosa. In più Agamben è un filosofo vivente e italiano: contemporaneità+lingua madre, che vuoi di più. Ma più di tutto, adoro leggere Agamben perché il professore amico di Morante e Pasolini (è Filippo ne Il Vangelo secondo Matteo), seminarista negli anni ‘60 dei corsi di Heidegger, mi avvicina all’eterogeneità degli studi. Agamben fa vibrare le mie corde di studioso di filosofia cresciuto a pane e storicismo confermandomi che per conoscere la modernità non basta abboffarsi di french theory ma bisogna accostare elementi eterogenei. Per esempio, conoscere un po’ di bibliografia monacale del XII e XIII secolo può essere molto istruttivo per illuminare il rapporto tra uomo e legge nel XXI secolo.

L’eterogeneità degli studi è il metodo che sceglie anche Tommaso Ariemma. Prolifico scrittore, napoletano, classe 1980, professore di estetica a Lecce, qualche mese fa ha pubblicato il suo ultimo libro, Sul filo del rasoio, Estetica e filosofia del taglio, confermando il fatto che in questi tempi aridi di riflessione ponderata e ricchi di attualità affrettata la cura del discorso è nell’eterogeneità degli studi. Come ogni filosofo che non si accontenta dell’accademia, in questo testo Tommaso si fa guidare da un’intuizione per applicarla all’attualità dei prodotti culturali odierni. In altre parole mette in atto quella che viene generalmente chiamata pop-filosofia, un modo come un altro per dire filosofia dopo la fine della filosofia. Filosofia come il tempo che resta tra l’annuncio della sua fine e la fine di questo vittimistico annuncio.

Un po’ come Agamben, fissato con la legge e la regola, Ariemma si è fissato ultimamente su un concetto in particolare, scoprendo come esso si annidi un po’ ovunque nelle cose, come ogni principio filosofico insegna. Questa intuizione è il taglio.

Per Ariemma, studioso di estetica, il taglio è fondamentalmente racconto, «un fatto primitivo» che si rivolge «a quel che di primitivo c’è in noi» (Edward Morgan Forster). Sul filo del rasoio non smette mai di raccontare: mette in scena autori, romanzi, film, aneddoti, tutti accomunati dalla loro capacità di tagliare. Rintraccia il taglio dove meno te l’aspetti, anche lì dove gli stessi autori non danno molta importanza al concetto, confermando la sentenza dell’ultimo filosofo: perdiamo sempre di vista l’essenziale. Deleuze, Benjamin, Agamben, Heidegger, Burroughs, Derrida, Eco, Hume, Hegel, Kojève, Lacan, Foucault, Sloterdijk, McLuhan, Platone, Žižek. E poi Blade Runner, il Batman di Nolan, Lost, le telenovelas, gli anime. Sul filo del rasoio li mette tutti insieme in un vortice incessante di ottanta pagine dove alla fine ciò che resta è il taglio. Ma di che taglio si tratta? L’assunto di base è che tutti questi autori adoperano tagli non allo scopo di separare, ma al contrario per mettere le cose in relazione. Il taglio come resto, propriamente: tagli le cose non per guardare nella fessura, piuttosto perché al contrario è il taglio l’unica cosa che ti resta quando vuoi accostare elementi eterogenei.

Com’è possibile che il taglio metta in relazione quando è proprio ciò che separa? Beh, la filosofia è sostanzialmente questo modo di ragionare, è essa stessa tagliata, bastarda, visto che per nascere si è dovuta tagliare in due: è prima poesia con i presocratici, poi discorso argomentato con Platone. Filosofia è lo stupore (thaumazein, θαυμάζειν) del mondo nello scoprire che per conoscere le cose che sono non ci si deve mai dimenticare delle apparenze. Platone litigava a morte con i sofisti, ma poi in fondo gli voleva bene. Sul filo del rasoio eredita questa concezione della filosofia ponendo il taglio come principio primo che sottende ogni conoscenza, ogni comprensione e ogni processo di relazione.

Ariemma pone due tesi sul taglio, seguendo la logica hegeliana in una squisita combinazione di dialettica e strutturalismo: nessun taglio si oppone alla relazione e non si dà taglio nell’opera che non sia anche simbolico. Due tesi che sembrano far dialogare le due epistemologie che hanno caratterizzato gli ultimi duecento anni di filosofia: la dialettica della Germania del XIX secolo e la struttura della Francia del XX.

Anziché soffermarmi ad analizzare le singole tesi, vorrei passare direttamente alla seconda, tanto ognuna richiama l’altra e alla fine verranno chiarite entrambe.

lamette+gillette

Che cos’è questo “simbolico” della seconda tesi, che persiste nonostante il taglio? Occorre una digressione.

Ariemma utilizza questa parola in un senso preciso. C’è un po’ di “uomo simbolico” di Cassirer, un po’ di struttura simbolica di Lévi-Strauss, e un po’ di altre cose che non mi vengono in mente, ma soprattutto c’è dietro il concetto di simbolico di un furbacchione che ha fatto man bassa dell’eredità filosofica a cavallo del XIX e XX secolo per fare del simbolo un concetto originale. Stiamo parlando dello psicoanalista francese Jacques Lacan.
Simbolico per Lacan è la denotazione di senso. Dal sorgere del sole che ti dice che la notte è finita all’interlocutore che ti parla, simbolico è una struttura insieme esosomatica e somatica: non ti appartiene, ma te ne appropri. Simbolico denota l’uomo non solo come essere parlante ma come quell’essere che non può mai smettere di parlare, nel senso di indicare, riferire, denotare, significare, distribuire senso, perfino quando è solo un corpo morto.

Dov’è la realtà in questa struttura? Semplicemente non c’è, è tagliata fuori. Lacan sostiene che è inutile porsi la domanda sul senso della realtà al di fuori della struttura del senso, del linguaggio, del simbolico, perché ogni volta che ci proviamo a tornarci indietro è sempre il senso, non la cosa in sé; il significante, non il significato; gli occhiali di Kant, non il veduto; la bottiglia di Wittgenstein, non ciò che c’è fuori. In altre parole, guardiamo sempre il dito, mai la luna. La realtà diventa così reale, si sostantivizza: il reale, compatto come un pianeta, impenetrabile, con la sua superficie tagliata dal simbolico. Così, il taglio che opera ogni discorso filosofico, ovvero quel discorso che vuole andare al fondo delle cose non accontentandosi della superficie, in realtà è sempre in superficie. Ariemma si muove parallelo a questa consapevolezza strutturalista affermando con prudenza che il taglio è anche simbolico (rispetto al reale). Lacan lo rimproverebbe con un sempre.

Il concetto di taglio di Ariemma aiuta a comprendere visivamente, esteticamente, il concetto di reale di Lacan. Il reale, afferma lo psicoanalista, è senza fessure, quindi senza tagli. Che significa? Significa che la denotazione di senso è sempre un’operazione di taglio, lì dove il reale è qualcosa che non si può tagliare, appunto senza fessure: non si dà taglio nell’opera che non sia anche simbolico. L’uomo non è semplicemente immerso nel senso, è piuttosto esso stesso questo senso (ecco, sto parlando come Derrida). Non smettiamo mai di parlare e di fraintenderci, sarebbe bello se un giorno ci si intendesse al volo. Ebbene, un mondo del genere, afferma Lacan, sarebbe la cosa più terribile che ci possa capitare. È il mondo dello psicotico in cui il simbolico si liquefa e la realtà si destruttura come reale. Lacan va oltre la gabbia del senso, trasforma la stanza del linguaggio nel quale l’essere abita in una sala degli specchi: il simbolico è proprio ciò che fa di un uomo un uomo, non c’è altro, e il velo di Maya andasse a quel paese.

Simbolico, direbbe Ariemma, è sostanzialmente un taglio sulla realtà, e all’uomo non interessa guardare attraverso la fessura, piuttosto preferisce il contorno. Per questo il taglio mette in relazione: se non ti interessa il buco, da cui non uscirà mai niente di sensato, allora ti deve interessare ciò che sta attorno.

Gli orifizi del corpo sono tagli, fessure attraverso cui passano cose. D’altro canto, una delle più eleganti definizioni di vita è esattamente questa fessura: la vita è l’oggetto da cui costantemente entra ed esce qualcosa, nel respiro, nel mangiare, nel parlare. La vita comincia con un taglio, afferma Ariemma nell’introduzione di Sul filo del rasoio. Il corpo è ciò che è fatto di tagli. Allora, la domanda che si pose Lacan in un pomeriggio di Primavera del 1965 non è poi così stramba: perché i pianeti non parlano? Perché non hanno buchi, sono sfere perfette, mentre l’uomo è pieno di tagli e buchi, per cui ha nella sua struttura il desiderio come mancanza.

Se la relazione che determina il taglio è nel contorno, non è tanto il taglio in sé a interessare Ariemma, quanto una certa articolazione che determina il taglio. Il titolo del suo lavoro è rivelatore: il filo del rasoio come luogo in cui articolare il taglio. L’artista, il chirurgo, lo scrittore, sono tutti accomunati da una capacità di fare del gesto pittorico, dell’operazione sul corpo, della scrittura una fessura su cui, intorno a cui, piuttosto che in cui, conoscere e interpretare il mondo. Questo, afferma Ariemma, esprime Fontana nei suoi quadri.

lucio-fontana-concetto-spaziale-attese-1961«Piuttosto che significare qualcosa di antipittorico, i celebri tagli di Lucio Fontana direbbero allora di qualcosa che accade, a fior di tela, su tutti i dipinti»

T. Ariemma, op. cit., p. 26.

Per Ariemma il taglio è nel dettaglio. L’inezia determina l’insieme e l’incompletezza fa di un oggetto un soggetto. Quando l’uomo ha scoperto l’inconscio, ha scoperto sì di non essere padrone a casa propria, ma soprattutto che questa casa dell’essere in cui vive è senza proprietario, è linguaggio esosomatico che non gli appartiene, pur restando una struttura di cui si può appropriare. In pratica la casa dell’essere è un usucapione.

Ad Ariemma però non interessa l’analisi linguistico-strutturalista con le sue conseguenze ontologiche. È un prof di estetica, per cui dice più semplicemente e acutamente che questo soggetto come ciò che è tagliato è la soglia che articola un certo modo di fare arte, quella del montaggio. Ariemma porta all’esempio il finale di Blade Runner che, troppo cupo, viene tagliato con scene dallo Shining di Kubrick; la serie tv Lost con quelle storie piene di buchi che riempiono la sceneggiatura e caricano di aspettative gli spettatori. Tagli che riempiono più che separare. Ancora, la serie tv I Sopranos, con quella narrazione “cattiva” e umana che ha ispirato i vari The Wire e Breaking Bad. Per Ariemma tutte queste produzioni non sono nient’altro che storie determinate da tagli in cui ci identifichiamo. Jimmy McNulty è un abilissimo detective fedifrago, Walter White uno spietato padre di famiglia. Contraddizioni che si sciolgono nell’oscura fessura di un taglio narrativo che dona realismo.

Chi è stato il primo a mettere in scena questo soggetto tagliato, che manca a se stesso (manque à être) come direbbe Lacan? Sul filo del rasoio non ha alcun dubbio: è il romanziere d’appendice inglese Charles Dickens. Secondo Ariemma parte della cinematografia e della televisione attuale deve molto al romanziere di Portsmouth. Il regista inglese Christopher Nolan si è ispirato a Dickens nella sua trilogia di Batman e la serie House of Cards lo cita esplicitamente «alla fine del decimo episodio della seconda stagione, citando l’incipit di Storia di due città» racconta Ariemma. Dickens, spiega Sul filo del rasoio, è stato il primo a raccontare il soggetto tagliato tagliando a pezzetti la sua storia, il primo a raccontare storie che mettono al centro il personaggio più che la trama, o meglio storie in cui la trama emerge dal taglio narrativo dato al personaggio.

«Ciò che fa la sua comparsa in Dickens e nel suo successo è una soggettività pensata all’interno di una dinamica di possessione, possessione generata da tagli».

Ibid., p. 44.

L’uomo è posseduto dal simbolico, che si articola tramite tagli.

È un errore, afferma Ariemma, insistere su ciò che ci possa essere dietro il taglio, nello spazio vuoto della fessura, nel buco dietro la tela di Fontana. In realtà è tutto già qui, nel contorno, in una superficie già piena zeppa di tagli. Giocare col reale di Lacan come fosse un Impossibile, un iperuranio a cui protendere, è la vera follia. Reale è al massimo un’idea regolativa, un noumeno di cui è inutile proprio porsi la questione dell’esistenza.

Un soggetto pensante sul filo del rasoio è quodilibet:

«La traduzione corrente nel senso di “non importa quale, indifferentemente” è certamente corretta, ma, quanto alla forma, dice esattamente il contrario del latino: quodlibet ens non è “l’essere, non importa quale”, ma “l’essere tale che comunque importa”; esso contiene, cioè, già sempre un rimando al desiderare (libet), l’essere qual-si-voglia è in relazione originale col desiderio».

Giorgio Agamben, La comunità che viene, Bollati Boringhieri, Torino 2001, p. 9.

Per questo il taglio mette in relazione, perché se lo guardiamo per quello che è vedremmo solo i contorni del taglio, dettagli, non buchi. Se l’essere è sempre un esser-tale, per riprendere il bellissimo libro di Agamben sopracitato, il reale, senza fessure, è la cosa senza -qual.

Così non esiste taglio reale, ogni taglio è sempre simbolico. O meglio, come afferma Ariemma in Sul filo del rasoio: «Tutti i tagli reali vengono compresi come tagli simbolici» (p. 27).

Il pilota di moto Valentino Rossi parla spesso di “un click nella testa” quando spiega la sensazione che si ha quando la moto diventa un prolungamento del tuo corpo, quando sai, in quel momento, che sei il più forte. Rossi non lo sa, ma si sta riferendo proprio alla relazione che determina il taglio concepito da Ariemma: l’eterogeneità di una relazione in cui un corpo biologico si fa tutt’uno con quello meccanico della moto, con i due oggetti che non si fondono, restano separati, propriamente: sono tagliati dalla relazione, esattamente come il corpo e il linguaggio. Ariemma spiega bene questa eterogeneità della relazione che pone il taglio citando Leroi-Gourham:
«È un processo globale che fa sì che, in un momento dato, l’utensile agisca come un prolungamento del corpo, ma vi è comunque una cesura che non può essere ignorata».

André Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, cit. in T. Maldonado, Memoria e conoscenza, Milano 2005, cit. in T. Ariemma, op. cit., p. 10.

La tecnica del taglio, quindi saper fare (téchne, τέχνη) il taglio al momento giusto, è ciò che rende uomo un uomo, che diventa così esso stesso una tecnica, un’antropotecnica direbbe Sloterdijk, un pilota di moto direbbe Rossi.

Filosofia è saper tagliare le cose, giustapporre senza mescolare, mantenere l’eterogeneità delle cose pur mettendole in relazione, come quando tagli la droga:

«Tagliare una droga significa diluirla, miscelandola a una sostanza di minor valore. Il taglio, pertanto, non separa ma aggiunge altre sostanze alla sostanza stupefacente».

T. Ariemma, op. cit., p. 56.

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Sul filo del rasoio si conclude con una specie di pamphlet, quando, staccandosi apparentemente dall’analisi estetica del taglio, sfocia in una proposta politica radicale. Lo fa con continuità, senza prorompere, sul filo del discorso intavolato in precedenza, appunto.

L’appello politico è che si faccia anche di questo taglio filosofico un buon uso nella società. Parafrasando il classico di Ernst Kantorowicz, I due corpi del re, Ariemma conclude sostenendo che non abbiamo ancora avuto il coraggio di dare un taglio al vero re, che non è quello fisico che ci comanda ma quello simbolico che ci tiene in scacco anche quando il re in carne e ossa è morto.

Dare un taglio al re allora non è limitarsi a soppiantare un re con un altro. Questo è il taglio che divarica e mantiene lo sguardo sul buco che ha creato, e si spaventa, quando invece abbiamo detto che è il contorno a contare. Bisogna insomma adoperarsi in un taglio che faccia sgorgare emancipazione.

Quale racconto può mettere in scena questo taglio rivoluzionario? Ancora una volta, Dickens:

«Dickens è di recente riscoperto e utilizzato quando si vuole ricercare il connubio tra complesso e popolare, ovvero quando si vuole che la narrazione sia magnetica, ma anche emancipatrice».

Ibid., p. 35.

Perché Dickens e non Balzac, Dumas? Perché Dickens racconta il logorio della classe operaia tagliando il confine tra alto e basso. Articola elitario e popolare in un personaggio buono e cattivo, realistico, che si riscatta riflettendo le aspirazioni degli spettatori. Non dimentichiamoci, ricorda Sul filo del rasoio, che tutte le intelligenze sono uguali.

Così, alle due tesi di Ariemma sul taglio se ne potrebbe aggiungere una terza: il taglio, quando è principio di relazione, è potenza emancipatrice.

Per Ariemma il fallimento della Rivoluzione Francese è consistito nel riempire lo squarcio che il taglio ha creato. Ci si è fissati sul buco, così il rivoluzionario taglio relazionale è diventato taglio di sottrazione e divaricazione. Il Terrore, afferma Ariemma, non è figlio della ghigliottina, semmai dell’ossessione di riempire i vuoti di potere che il taglio provoca, anziché lasciarli in pace.

«Si potrebbe parlare del Terrore giacobino come di quel momento in cui il taglio che iscrive in una società smette di proseguire sulla strada del simbolico e ritorna su quella del reale: torna a iscriversi sulla carne per marcare questa volta non l’inclusione, ma l’esclusione dall’ordine simbolico».

Ibid., p. 70.

È proprio questa ossessione per la sostituzione, per il potere, a determinare l’eterno ritorno della servitù volontaria e il rimando ad infinitum di una società senza classi. È questo che rende il comunismo una religione invece di una buona novella. Dobbiamo affezionarci al taglio, sostiene Ariemma, senza preoccuparci di riempire il vuoto che porta con sé. Il comunismo deve avere il coraggio di ereditare questa violenta relazione che determina il taglio se vuole sopravvivere all’assalto liberale, che ci riempe la bocca di rivoluzione senza rivoluzione, di pensiero debole e capitalismo etico e intanto anche lui non può smettere di tagliuzzare e separare un soggetto spolpandolo come in un tritacarne, quando un soggetto è per definizione già tagliato.
Scheda libro:
Tommaso Ariemma, Sul filo del rasoio. Estetica e filosofia del taglio, Aracne editrice 2014, pp. 81, prezzo euro 10.

Todo modo: Rosaria Capacchione

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orchestra

La nota stonata

di

Rosaria Capacchione

Siamo gente strana, noi giornalisti. Parliamo, discutiamo, prevediamo catastrofi che gli altri non riescono neppure a immaginare; puntiamo l’indice, noi illuminati, contro la retorica del mafioso buono che non c’è più, perché in effetti il mafioso buono è una categoria esistente solo nella vulgata, nel racconto delle gesta dei Beati Paoli che nessuno legge più da almeno cent’anni. Denunciamo, noi cantori del divenire della realtà, l’avvento della borghesia mafiosa che ha soppiantato i vecchi boss con la coppola storta e la lupara; e poi, quando ci scontriamo con un vero borghese mafioso, con un professionista prestato alla mafia (o, se vi pare, con un mafioso prestato alle professioni), non lo riconosciamo.

Lo abbiamo lì, davanti a noi, seduto in un’aula di tribunale, che osserva con un mezzo sorriso stampato sulle labbra strette e sottili le fasi finali del processo, ma per tributargli la patente di mafiosità vorremmo che fosse armato e che parlasse lo slang casalese. Scriviamo e diciamo che le mafie hanno cambiato veste ma in realtà ci piacerebbe che indossassero quella vecchia, così rassicurante con le sue macchie di sangue e il suo visibile potere di minaccia. E quando una sentenza condanna l’avvocato Michele Santonastaso e assolve due capiclan come Francesco Bidognetti e Antonio Iovine, ecco che la stessa appare distonica, stravagante, addirittura donabbondiesca se non proprio omissiva. E ci straccia le vesti per la giustizia negata.

Non so cosa il tribunale scriverà per motivare l’insolito dispositivo, che ha chiuso una vicenda giudiziaria iniziata quasi sette anni fa, alla vigilia della più tragica stagione dell’epopea casalese. Non lo so e sono molto curiosa di saperlo, se non altro perché quel processo riguarda anche me, giornalista e parte offesa, giornalista (ora prestata al Parlamento) e testimone di quei fatti terribili, diciotto morti e diciotto feriti in una manciata di mesi: tutti innocenti, tutti funzionali a una disperata strategia di sopravvivenza e a una visibile e rumorosa rivalsa contro gli ergastoli, il carcere duro, le confische che avevano affamato il clan e le famiglie degli affiliati. Dovevo esserci anche io nell’elenco delle vittime? Non lo so, so che non ci sono, probabilmente perché lo Stato decise di proteggermi. Lo fece all’indomani di quello stranissimo episodio che è stato oggetto del processo, chiuso il 10 novembre del 2014 nell’aula 116 del Tribunale di Napoli. Cioè, 2433 giorni dopo la lettura di una istantanea di remissione degli atti, una ricusazione fatta, durante un’udienza del processo al clan dei Casalesi che va sotto il nome di Spartacus, dall’avvocato Michele Santonastaso. Che, subito dopo, annunciò la rinuncia alla difesa del suo cliente più importante, Francesco Bidognetti. Lesse ottantuno pagine di veleno sfuso, poca tecnica e molte insinuazioni, accuse, calunnie. Fango, insomma, mascherato da atto processuale.

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Un capitolo era dedicato alle mie gesta di giornalista prezzolata dalla Procura: bontà sua, sempre meglio che essere prezzolati da una banda di assassini. Oggettivamente, un capitolo diffamante. Ma io, da giornalista, mi impressiono assai poco dinanzi a una diffamazione. Il fatto è che in quelle righe era raccontata un’altra storia, quella dell’indagine abortita (nel 2004) su un giudice della Corte di Assise di Appello di Napoli che aveva venduto un suo terreno a un camorrista di Casapesenna, che non si era astenuto dal giudicarlo, che lo aveva assolto ribaltando la sentenza di primo grado. La storia era proseguita due anni dopo, con lo stesso giudice che un’altra volta stava processando lo stesso imputato e che aveva dovuto rinunciare in seguito a una interrogazione parlamentare che ricapitolava l’intera vicenda. L’atto di sindacato ispettivo aveva come fondamento un articolo che avevo scritto, in beata solitudine, quando la prima vicenda era stata oggetto di una ispezione ministeriale. Neppure l’arrivo a Napoli della delegazione dei supervisori di via Arenula aveva convinto i miei prudentissimi colleghi della necessità di prestare un po’ di attenzione alle vicende e ai processi del clan dei Casalesi.

Il processo Spartacus, concluso in primo grado nel 2005, era destinato alla stessa sezione del giudice ispezionato, Pietro Lignola. La IV sezione. Proprio quella che poi l’ha trattato. Ma fu deciso, forse anche a causa delle polemiche, che venisse assegnato a un altro collegio. Anni dopo, a maggio del 2014 (sei mesi fa), un altro dei capi del cartello casalese, Antonio Iovine, ha iniziato a collaborare con la giustizia e ha raccontato di aver pagato l’avvocato Michele Santonastaso perché comprasse due sentenze favorevoli in altrettanti processi di omicidi da lui effettivamente commessi e per i quali era stato già condannato in primo grado. Le due sentenze di assoluzione effettivamente ci sono state e portano entrambe la firma del giudice Lignola. Che sia stato corrotto oppure no non è ancora cosa nota.

Quando lessi i riferimenti al giudice Lignola nelle righe della ricusazione ebbi davvero paura. Compresi che l’avvocato Santonastaso aveva scelto quella strada per indicare al mondo delle carceri i responsabili del mancato aggiustamento del processo Spartacus: Roberto Saviano aveva dato notorietà internazionale a un clan che prima era quasi sconosciuto; Federico Cafiero de Raho aveva tenacemente sostenuto la pubblica accusa e dato voce ai pentiti; Raffaele Cantone, che di Spartacus non si era mai occupato, aveva colpito al cuore alcune ramificazioni che sembravano invincibili e, soprattutto, aveva lavorato con successo nelle indagini sui consorzi di bacino dei rifiuti e sulle società miste infiltrate dal clan. Io ero quella che aveva costretto il garantista giudice Lignola a non occuparsi del processo più importante.
Mi aveva messo al muro, chiunque avrebbe potuto sparare.

Lo pensai quel giorno, il 13 marzo del 2008. Lo pensai per qualche settimana. Ma siccome non accadeva nulla iniziai a rassicurarmi. Certo, mi avevano dato la scorta, ma io rivolevo la libertà, che è un’altra cosa. Poi, a maggio, iniziò la stagione delle stragi.
Non mi chiesi, allora, se l’istanza di ricusazione fosse stata concordata con Francesco Bidognetti e Antonio Iovine, che l’avevano firmata. L’ho sempre considerata qualcosa di molto diverso da una minaccia: cioè, una sentenza irrevocabile Un’istanza utile al clan ma anche all’avvocato Michele Santonastaso, che magari aveva promesso molto più di quanto avrebbe potuto mantenere. E che lavorava in sinergia con i suoi clienti – nell’altro processo in cui è imputato di associazione mafiosa sono ricostruite decine di episodi che lo vedono nella veste di stratega del clan ma in funzione quasi autonoma, come se fosse il capo dell’ufficio legale del clan – ma senza svelare i trucchi del mestiere. Ha raccontato Antonio Iovine di non avergli mai chiesto a chi andassero i soldi necessari a comprare le sentenze di assoluzione perché non era affar suo: lui pagava un servizio acquistato da un professionista efficiente.

Ecco, il punto è questo. Non so se la sentenza di lunedì sia giusta o sbagliata, riduttiva o soltanto rigida. So, invece, che nel dispositivo ha centrato un obiettivo nuovo punendo solo e soltanto il colletto bianco, il professionista compartecipe delle finalità mafiose del clan ma non vincolato dall’obbligo di rendicontazione preventiva. Se così fosse, la decisione del giudice Aldo Esposito avrebbe una straordinaria portata innovativa, specchio reale degli strumenti delle nuove mafie. Se così fosse, come io l’ho vissuta.

Questo articolo prezioso per capire il contesto della sentenza di Napoli e comprenderla come esemplare per l’ascesa dei nuovi “professionisti della mafia”, Rosaria Capacchione l’ha scritto appositamente per Nazione Indiana. Ne siamo onorati e la ringraziamo con affetto.

Concordi a Kanop*

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di Francesca Canobbio

 video e musica di Bob Quadrelli

https://www.youtube.com/watch?v=j4tLcyWgLfw&feature=youtu.be&list=PL38E5852AAB765058

Tu

Tu 

tacito tabù
trionfo triste su un tramonto tremante

travolgente, trasparente.

Sulla terra il tintinnio dei tuoi tacchi

Per Rosaria e Roberto

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Minacciosità mafiosa (quasi) accidentale di un avvocato

La legge

Un tempo ormai lontano ci fu una celebre sentenza che certificò un “malore attivo” quale causa del volo accidentale fuori dalla finestra di un ferroviere anarchico mentre lo stavano interrogando alla questura di Milano.
Pochi giorni orsono un’altra sentenza controversa non decretava – per fortuna – che il malcapitato Stefano Cucchi era deceduto per autolesionismo e proprio rifiuto a alimentarsi, bensì mandava tutti assolti perché non ci sarebbero state prove sufficienti per stabilire le responsabilità personali dei tanti coimputati nella sua morte.
La sentenza di ieri per certi versi forse somiglia più a quella sul caso Pinelli. Contiene aspetti così stridenti non solo con il temibile buonsenso ma anche con la logica più elementare da farla apparire molto meno tragica di quella ma imparentata da un sentore di assurdo.

In dieci contro undici

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di Lorenzo Mari

Che si tratti di memoria futbologica o meno, ci si deve chiedere, a un certo punto, se “si gioca meglio in dieci contro undici”; in campo cinematografico, poi, non si tratta di evocare La grande bellezza quanto, forse, L’uomo in più; Tradimento e perdono, infine: non per fischiettare la canzone di Venditti, ma per cogliere le tensioni contrastanti, nel parlare di “fuga”, da parte di chi ha scritto La caduta dei gravi. Roma, gli anni Novanta e, appunto, la fuga (Nerosubianco, 2014)…

La guerra alla guerra di Leonhard Frank

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di Leonhard Frank

frank_cover_def_l'uomo è buono (1)_rid(con il gentile accordo dell’editore, pubblichiamo l’incipit de “I mutilati di guerra”, l’ultimo fortissimo racconto della raccolta “L’uomo è buono” (1917),  pubblicata ora da Del Vecchio assieme al racconto lungo “L’origine del male” (1915), il tutto nella traduzione di Paola del Zoppo)

La “cucina del macellaio” è un ambiente molto ampio, due volte più lungo che largo, e dal tetto così basso che il capitano medico, nel suo lungo camice operatorio irrigidito da tutto il sangue umano vecchio e nuovo, può toccare il soffitto con il palmo della mano.

“Un cinema non potevano mettercelo, qui. No, un cinema no”, continua a venirgli in mente. Perché, in fin dei conti, tutte le sue aspirazioni si concentrano nell’unico, inesauribile desiderio di potersi sedere di nuovo in pace in un cinema.

Sul pavimento di lastre di pietra, un pagliericcio accanto all’altro. Su ogni pagliericcio un uomo; su ogni pagliericcio, quello che di un uomo rimane, coperto fin su al mento.

Le mani segate via, le braccia, i piedi, le gambe, galleggiano nel sangue tra ovatta e pus, in una tinozza trasportabile che viene svuotata ogni sera, alta un metro e larga due, posta accanto alla porta nell’angolo. Ordine impeccabile. Non c’è una pagliuzza nelle corsie laterali larghe appena venti centimetri né nella corsia di mezzo. Cinque file di pagliericci.

Il tavolo operatorio coperto di latta zincata sta nella corsia di mezzo.

Si chiudono le finestre. E tre minuti dopo, la macelleria è di nuovo pregna di quel miasma greve e caldo di ferite purulente, cancrenose, di pus, di sangue rappreso, di sudore di morte, di esalazioni del dolore, di acido fenico e di lisoformio, così che a un uomo sano e forte, abituato all’aria fresca, entrando, dopo un minuto girano i colori davanti agli occhi e vacilla il terreno sotto i piedi. Nella cucina del macellaio, poco dietro il fronte, si prestano i primi soccorsi. Rapidamente. Non si perde un istante. Qui si amputa. Nella cucina del macellaio, direttamente dal campo di battaglia, vengono trasportati i feriti che necessitano amputazioni. L’attesa di un quarto d’ora può significare la morte.

Gli amputati che non sono svenuti non dormono, eppure giacciono immobili, completamente inerti e muti, due bulbi febbrili e lucenti nel volto, sono perduti, e già se ne vanno ondeggiando.

Gli altri urlano, si tirano su, si piegano e si contorcono, piangono come gattini appena nati, ridono nel delirio della febbre oppure muovono i corpi mutilati lentamente, ma senza interruzioni.

La vita dei più fortunati si compone di un continuo svenire e tornare in sé e svenire di nuovo. E la puzza stagnante contribuisce. Non c’è molta luce nella cucina del macellaio.

Il capitano medico, dopo una o al massimo due amputazioni deve uscire all’aria aperta perché la sega o il coltello non gli cadano di mano durante l’amputazione seguente.

Ogni giorno vengono portati fuori da quattro a sei morti. Paglia fresca, lenzuola fresche. Feriti freschi. Non una pagliuzza nelle corsie. Ordine. La tinozza nell’angolo si riempie. E la sera, alle sei, puntualmente, viene svuotata.

I pagliericci stanno perfettamente allineati uno accanto all’altro.

Il capitano medico sega.

Nella cucina del macellaio non entrano giornali. Lì si soffre. Lì non ci si interessa alle notizie di vittorie né alle notizie menzognere. Lì ci si interessa alla gamba segata che all’istante l’infermiere ha gettato nella tinozza. Si vuol riavere la propria gamba. Riprenderla in mano ancora una volta. Osservarla, osservarla con attenzione.

– La mia gamba! È la mia gamba. La mia! La mia gamba! – Prima grida che gli ridiano la gamba, poi implora: – Dammela. Per favore, dammela. Dalla a me.

. . .

. . .

 

Remarque, in “Niente di nuovo sul fronte occidentale” è sciroppo di lamponi in confronto a “L’uomo è buono”

                                                                                                                                                                         F. Glauser

 

In Europa ci sono due uomini, Barbusse e Frank, che provocano questo fenomeno, meraviglioso e terribile, di simpatia umana. Fanno sì che uomini e donne che vivono in luoghi molto differenti possano comprendersi nella distanza, perché si riconoscono uguali nello scrittore: uguali nei loro impulsi, nelle speranze, negli ideali.
                                                                                                                                                                            Roberto Arlt

 

(La breve biografia di Frank nel risvolto di copertina del volume, molto ben curato: “Nasce a Würzburg nel 1882 da una famiglia umile. Frequenta la severissima scuola evangelica, in una regione e una città di storia e cultura radicalmente cattoliche, e dopo il diploma di artigiano si iscrive all’Accademia di Belle Arti di Monaco per diventare pittore. Nel 1910 interrompe la propria formazione per recarsi a Berlino. Frank è una presenza costante nei Caffè e nei circoli artistici, ma non vuole essere parte di nessuna cerchia: ritiene che ogni sistema sia finalizzato al mantenimento del potere e che in ogni cerchia si rischino dinamiche di sopraffazione. Riconosciuta la propria vocazione, dopo alcuni brevi racconti, dà alle stampe il suo primo romanzo, che vince subito il Premio Fontane. “Pacifista della prima ora”, si rifugia in Svizzera durante la Prima Guerra Mondiale, dove stringe amicizia con Alvarez del Vayo e frequenta gli artisti del Dada e gli scrittori engagé. Tornato in Germania, è controllato dal regime nazionalsocialista e costretto di nuovo all’esilio. Nel 1933 si sposta in Inghilterra, poi in Francia, dove viene internato neicampi di lavoro, poi finalmente riesce a fuggire in America nel 1940. Si stabiliscea Hollywood, scrive per la Warner Bros. E frequenta Thomas Mann, Franz Werfel e gli intellettuali tedeschi ormai di casa in California. Infine si sposta a New York e poi torna in Germania, nel 1950. Ma l’accoglienza non è gloriosa quanto meriterebbe, e decide di spostarsi a Berlino Est, dove può contare sull’apprezzamento dell’amico Johannes Becher. Muore a Monaco nel 1961.”)