di Giorgio Mascitelli
Il volume C’è ben altro. Criticare il capitalismo oggi (a c. di Enrico Donaggio Milano-Udine, Mimesis, 2014, euro 18) raccoglie dieci interventi di critica del capitalismo contemporaneo di giovani filosofi, molti attenti anche al campo delle scienze sociali.
Le tematiche spaziano dalla gestione della crisi finanziaria attraverso i debiti all’analisi dell’antropologia del consumismo, dalle antropotecniche manageriali allo spazio globalizzato della metropoli capitalista, dall’analisi dell’ideologia del denaro alle differenze di genere all’interno del capitalismo attuale, senza tacere delle analisi delle forme di soggettivazione dentro il sistema capitalista e dell’ideologia neoliberista come forma di falsa coscienza. La varietà dei testi rende questo libro interessante e utile per lettori non specialisti in quanto i singoli contributi possono essere letti come voci particolarmente articolate e documentate di un’enciclopedia indispensabile e pur non ancora redatta sul capitalismo contemporaneo.
Può darsi che mi sbagli, ma un libro collettivo di critica al capitalismo, soprattutto se dovuto a giovani, fino a dieci anni fa non sarebbe stato nemmeno pensabile: certo qualche singola voce critica non è mai mancata, così come analisi di temi specifici che comportavano implicitamente una critica del capitalismo, ma l’affermazione esplicita di una prospettiva di critica generale anche nel titolo dell’opera non si vedeva dagli anni settanta. Effetto della lunga crisi? Probabilmente sì, ma anche di un cambio di prospettiva culturale più profondo.
Mi sembra che la pervasività della ragion economica neoliberista e la sua dimensione biopolitica diventino evidenze incontestabili anche in quegli aspetti della vita un tempo protetti dalle dinamiche economiche più brutali. Sarebbe però limitativo leggere questo libro solo come l’attestazione di una rivincita di Marx. Certo i riferimenti a Marx e più in generale agli autori della teoria critica sono centrali (e tra questi un Foucault finalmente letto in maniera più concreta che nella fase hard del postmodernismo), come è naturale che sia, ma molti di questi giovani studiosi non rinunciano a intrecciare i temi classici con prospettive e letture di vario genere, per rendere all’altezza delle sfide del presente la loro critica.
Insomma il principio, metodologico e politico al tempo stesso, esplicitato da Simona De Simoni nel suo saggio sullo spazio globale del capitalismo, secondo il quale “là dove si assiste a un mutamento dimensionale, si impone anche una rivoluzione concettuale” (p.50), sembra essere fatto proprio da molti degli interventi. Proprio De Simoni ne offre un esempio interessante quando respinge l’idea di una semplice organizzazione dall’alto delle forme dello spazio globalizzato senza che spinte dal basso, conflittuali e cooperative, giochino un ruolo. Si tratta dunque di leggere lo spazio globalizzato sia nella sua base materiale sia nella sua costruzione simbolica mettendo in luce come i flussi reali, per esempio dei migranti o anche dei soldi, mettano in crisi la rappresentazione astratta e tradizionale degli spazi.
L’analisi di Davide Gallo Lassalle risulta altrettanto significativa perché nel rivelare il rapporto feticistico del capitalismo finanziario oggi al potere con il denaro come fine assoluto, mette in guardia anche dai pericoli di un’opposta concezione romantica, che del resto non manca anche nella tradizione marxista, che vede in esso una sorta di materializzazione del male, sottolineando invece come campo di lavoro quelle pratiche che cercano di riportarlo al suo ruolo di veicolo e strumento per un’economia dal volto umano. Dario Consoli, a partire da un’escursione in quella ricca letteratura a metà tra new age e pseudoscienza che promette vie miracolose al successo personale attraverso un cambiamento interiore, coglie un riflesso del progetto neoliberista di costruzione di un uomo nuovo, che incarni le virtù dell’homo economicus, con tutti i rischi possibili connessi con una simile prospettiva. Taccio di altri interventi di pari livello e interesse ( e dunque il lettore potrà legittimamente lamentarsi della vanità del recensore)perché il genere recensione impone uno spazio limitato che non vorrei esaurire senza aver aggiunto un’osservazione che indica nel contempo una mancanza e una linea di riflessione potenziale.
Non è un caso, infatti, che in tutto il volume non compaia mai un riferimento a uno dei cardini del pensiero marxista quale la lotta di classe, salvo in una citazione del finanziere statunitense Warren Buffet (p.69 nel testo di Leonardo Mazzone, che si occupa della gestione ideologica della crisi economica), che parla però della lotta di classe vincente che la sua classe sta conducendo contro quelle subordinate. Non si tratta, ritengo, di una presa di posizione teorica, ma più tristemente di una constatazione di una realtà che vede appunto come uniche forme di lotte le Blitzkrieg delle classi dirigenti globali contro i ‘poveri’. D’altra parte, anche se la critica non può che registrare i dati della realtà, una riflessione sui soggetti e le forme di lotte non può essere più a lungo rimandata, se non si vuole cadere in quel supplizio della speranza con la cui menzione Enrico Donaggio apre la sua introduzione ricordando come fosse riservato dai carcerieri della Serenissima ai loro prigionieri, che venivano indotti ad affrontare una prova che non potevano in nessun caso superare in cambio della promessa della loro liberazione.
Se uno degli indiscutibili meriti di questo libro è quello di dimostrarci con chiarezza che sono prodotti storici alcune delle cose che secondo le idee dominanti del nostro tempo sono così per natura, è lecito aspettarsi una riflessione anche sul tema di quali vie il pensiero critico debba prendere per arrivare alla società, perdipiù in crisi e in preda a pulsioni sempre più regressive. Naturalmente questa riflessione non può essere compito specifico degli autori di C’è ben altro, ma di tutti coloro che non vogliono rassegnarsi a vivere in un mondo di ordinaria ingiustizia, ossia di ordinaria barbarie.



Pietro Tripodo ha avuto una sorte e un talento singolari: di essere diventato già in vita un autore di culto di un cenacolo di intellettuali, critici, scrittori e poeti che lo amarono come poeta ma lo fecero anche loro amico e che lo considerarono da subito, come ha scritto qualche tempo dopo Emanuele Trevi, “un grande poeta sconosciuto”. A cominciare da Gabriella Sica, che lo fece esordire sulla sua rivista Prato Pagano, agli inizi del decennio Ottanta del secolo scorso e che, da docente universitaria, con Bianca Maria Frabotta, propose la sua poesia – intorno al 2004-2005 – a una giovane studiosa, Flavia Giacomozzi, come argomento di una tesi di laurea da cui nacque poi un libro, edito da Castelvecchi, Campo di battaglia, che ricostruisce con accuratezza il profilo poetico di alcuni dei protagonisti della stagione, appunto, di Prato pagano e Braci, e cioè, insieme con altri, Tripodo, soprattutto, e Beppe Salvia, poeta che Tripodo non conobbe direttamente ma sul quale, nel 1988, scrisse un saggio. Un altro amico è Raffaele Manica, che ha curato nel 2007 un volume di Donzelli che pubblica il primo e l’ultimo volume (ma a pensarci sono solo due) di poesie che Tripodo pubblicò in vita, il primo – Altre Visioni – nel 1991 e il secondo – Vampe del Tempo – nel 1998.












Alcuni giorni fa la rivista New Yorker[1] ha pubblicato un articolo sugli Young Adult, ovvero i libri per Giovani Adulti, categoria di marketing ormai divenuta genere letterario. L’articolista, Christopher Beha, polemizza proprio su questo passaggio da marketing a critica letteraria. Se infatti pare lecito che un editore ‘bolli’ per ragioni commerciali un romanzo come Y.A., non altrettanto quando un romanzo viene scritto avendo come scopo una semplificazione premeditata per adulti. Attaccando l’ultimo Y.A. di successo Beha chiude così: “Nessun personaggio di quel romanzo sembra vivo in modo significativo. L’immagine che comunica della vita è così falsa che sembra creata apposta per piacere a qualcuno che non ha vissuto molto, e che quindi non può rendersi conto della differenza”.