di Giacomo Sartori
donne svenevoli
donne svenute
donne svenate
donne bennate
bullette imbellettate
bullette imbollettate
donne con gli occhi lucidi di pena
donne con gli occhi lucidi di birra
donne che si tengono bene
di Giacomo Sartori
donne svenevoli
donne svenute
donne svenate
donne bennate
bullette imbellettate
bullette imbollettate
donne con gli occhi lucidi di pena
donne con gli occhi lucidi di birra
donne che si tengono bene
[È uscito il n° 8 di “Atti impuri”, a cura di Sparajurij, intitolato Un sogno svolto silenziosamente. Ne fa parte una piccola serie di testi. Tre di essi appaiono qui.]
di Andrea Inglese
Vedrai, potremo scrivere, se smettiamo
di parlare, potremo, verranno
fuori, sopra fogli o schermi,
si faranno materia le parole,
rallenteranno gli spasmi
della gola, e fermeranno il mondo,
nella frase, fermeremo paesaggio
e cose, logge e fiori di passiflora,
di Giuseppe Zucco
Un’intervista-dialogo con Nicola Lagioia su La Ferocia
Al contrario dei tuoi precedenti romanzi, Occidente per principianti (Einaudi, 2004) e Riportando tutto a casa (Einaudi, 2009), dove mettevi in scena dei racconti di formazione, formazione sia individuale sia generazionale, tra le pagine de La ferocia dai corpo alla storia di un crollo,
di Daniele Ventre
Ascoltali, nella notte,
crepitare i fuochi, fra le strade interrotte
della guerriglia inurbana.
Una tenebra strana
avvolge i fiochi fumi dolciastri
dei pattumi bruciati: un latte d’astri
malati sfuma tra i lumi dell’area metropolitana.
In quest’acre Valpurga,
anche, tra lieto afrore di tregenda,
per i corni dei bivi e dei dilemmi,
tu scorgerai gli errati paladini,
adorni di radio-piuma,
errare, in panoplie a motore,
sterzanti strategie di catafratte.
Vedrai, sotto gli stemmi a un barlume di vampe,
in numeri da circo, i leoni di pietra
rianimarsi fra i vivi, per brume di leggenda,
con rampe d’ircocervi oscillanti,
e la forza dei telamoni
atteggiarsi marmorea dai palazzi,
con nervi da culturista
sotto l’erosa scorza di roccia.
Da marmi di baldacchini, da ricami d’arazzi,
cariatidi ancheggianti,
lievi coreografie di moti impuri,
incanteranno ai tuoi occhi gli innumeri vuoti viandanti
–corrose cancaneuses in pose da vecchie stampe,
vedile inarcare, petrose, le loro enjambées da rivista.
Ma fra specchi incerti d’un’acquorea sostanza,
nell’iridato gorgoglío,
dove guizzano origami
d’idrocarburi,
diguazzano le entreneuses con grazia di dulcinee,
procaci come talee,
voraci come drosere,
stagliate all’arso sfrigolio
dei copertoni semicombusti.
Ma fra i ricoveri erti
di cementizie garitte,
drizzano inquieti le orecchie,
gavazzano pugnali ferini
per vittime sacrificali,
che strazia lama d’angizie,
negli ambarvali degli assassini.
E già dai tuoni delle lamiere
di bidoni, dalle astuzie
dei mezzibusti, gaio ludibrio,
sentili come impazzano,
felici di molte arguzie,
i saltimbanchi, in giochi di squilibrio!
Ben questa morta fantasia ti purga
nei passi stanchi:
questo baluginio di strobosfere
t’è propizio ai cammini,
ora che per suo vizio il tempo arretra,
fra grida di mostri primevi,
e goccia scarso di salvadanaio,
prodigo di rintocchi.
Forse a più avventurati mediievi
verranno i vieti giorni nei ritorni delle storie,
per corsi meno gretti,
per teorie di teste ben spiccate dai torsi,
ben infitte sui rostri
per le feste dei balocchi.
Tale sorte t’arrida di vedere
–te l’auguro, buon nemico, dall’età delle scorie–
ora che corta volge la stagione
e per sue vie contorte destini usati ripiglia
fra il clangore della guerriglia
l’illusione dei mortaretti.
di Alberto Brodesco

Impiegato di un call center si dirige in tenuta da ciclista verso le montagne per suicidarsi. Sta tutta qui la trama di Near Death Experience, film di Benoît Delépine e Gustave Kervern. A interpretare l’impiegato, in un film in cui gli altri personaggi sono solo comparse, è Michel Houellebecq. Si tratta di una presenza decisiva, che attraversa gli spazi del film conferendo massa alle componenti elementari che strutturano la narrazione. Il corpo di Houellebecq, tutto gira lì intorno: i registi girano il loro film intorno al corpo e a sua volta il corpo gira, ballando sgraziato sulle note di War Pigs dei Black Sabbath. In quasi tutte le sequenze del film lo scrittore francese si rende ridicolo come in questa: quando rimane per interi minuti, impacciato uomo ragno, appeso a una parete di roccia; quando si muove alla Nosferatu proiettando la sua ombra fra le rupi al tramonto; quando infine si disseta con l’acqua di una piscina benché una voce lontana glielo sconsigli. “Me ne frego, sono morto”, le risponde Houellebecq.
L’autore, dunque, è morto. O meglio, per correggere Roland Barthes, è quasi-morto, visto che nemmeno il suicidio gli riesce davvero bene. Houellebecq passa attraverso una “Near Death Experience”, l’esperienza ai confini della morte che i racconti new age illustrano con la figura dell’uscita luminosa in fondo a un tunnel. In un film che affronta il rapporto fra scrittore, autore e personaggio, questa luce fatale sembra essere quella dei riflettori. Houellebecq è l’interprete ideale per ragionare sul tema del divismo letterario, visto che, oltre che sulla forza della scrittura, ha costruito la sua fortuna sulla provocazione, sul piacere dello scandalo, sul gusto dell’antipatia, ovvero sulla confusione tra arte e vita, tra fiction e auto-fiction, tra voce del personaggio e voce dell’autore.
Per suicidarsi in montagna Houellebecq indossa letteralmente i panni del pennivendolo da quattro soldi. La sua divisa da ciclista rossa e bianca porta come sponsor la Bic, produttrice delle più economiche fra le penne. Il distacco dal mondo del personaggio si sovrappone alla catarsi dello scrittore: Houellebecq scompare fra le montagne anche per suicidare il suo personaggio letterario. La sua partecipazione a un film che concentra lo sguardo sulla miseria del corpo nello spazio è un’auto-caricatura, una near death artistica. Avvicinarsi alla morte così, vestito da ciclista marchiato Bic, è in definitiva un modo per ancorarsi al corpo, e quindi per restare vivo, dentro il tunnel, per rimanere scrittore. Come afferma Houellebecq in voice over, i nostri corpi sono tute spaziali che ci consentono di sopravvivere goffamente in un pianeta inospitale.
È davvero stupefacente osservare infine un altro aspetto legato alla sfera del corpo, ovvero come Houellebecq stia assumendo sempre più la forma fisica di alcuni dei suoi progenitori letterari: Céline in primis, poi Artaud da vecchio, poi dei riflessi dai ritratti immaginari di Sade. Questa metamorfosi non è certo frutto di uno spirito di emulazione alla Zelig ma pare rispondere a una volontà totalmente somatica di andare ad abitare il grande edificio della letteratura del Male.
Benoît Delépine e Gustave Kervern scelgono di utilizzare una videocamera obsoleta e a bassa definizione, che monda di tutto il suo potenziale artistico-turistico il luogo in cui il film è girato, la Montagne Saint-Victoire resa iconica dai quadri di Cézanne. Per molti versi i registi si avvicinano all’intenzione del pittore, ne ricalcano il lavoro di sottrazione di paesaggio al paesaggio, nel verso della forma pura, della geometria, manifestando un bisogno di fuga dall’impero dell’HD. La conquista estetica si raggiunge solo nel rifiuto dell’estetismo – altra negazione ostinata, altro modo per restare al riparo nel buio del tunnel.
Near Death Experience, presentato nella sezione Orizzonti alla 71esima mostra del cinema di Venezia, è uscito nelle sale francesi. Non è al momento prevista una distribuzione italiana.
di Daniele Ventre
1.
Quello che in fondo non va è che siamo ancora gli stessi
sempre gli stessi di sempre e ci incontriamo qui al bar
fra i coloniali (fra i dolci) fra i ministeriali fra i doni
oltre i condoni del tempo oltre il cacao dei bon bon
e il birignao dei pon pon e il tono appaciato e smagato
del consuntivo mancato ora che l’ultima età
e la creatività di un regime pressa -e ti stressa
senza nessuna altra via che l’obbedire a viltà
e ricordare le tue caramelle e i giochi del mostro
buono coi servi di casa -e si moltiplicano
solo i riassunti e le stesse ovvietà -già il male è banale
ben più banale del mare e del villaggio e del tour
sempre de force -e per forza che poi non è bello ascoltare
quel che la teleologia ligia racconta di te
bigia racconta di sé -la ragione un po’ monocorde
le ripetibilità che si rimasticano
e si risputano poi sul futuro senza ricordo
che gli orizzonti richiusi ora dimenticano.
2.
Ke ti dovrei risparmiare del tempo affrettato per tempo
ke ti dovrei digitare -ekko la viralità
ekko la virilità la vitalità dei kommenti
ekko la skuola okkupata et continuons le combat
-mais le debut c’est fini- rifinite le debuttanti
e ributtante anke il ballo e tikkettante il tip tap
Pettina intanto il tuo pet fra il pessimo petting dei putti
disokkupate le squillo ora preokkupano
anke la fiskalità dello Stato -attivo il bilancio
dei pagamenti del fick emolumenti del Dick
Tracy del tempo ke fu -quanto tempo ke ti risparmio
a kompitarti kol kappa anke la vita del ka.
3.
Πάντοθί μοι Τελχῖνες ἐπιτρύζουσιν ἀοιδῆς,
ventitré secoli dopo anche ci gongolano,
anche se cambia la faccia e la vittima del fattaccio,
anche se poi non è già corte d’un delta di re
ma poco più d’una stanza affollata e fitta di fumo
piena di giochi per pochi: otium, ma non degnità
(certo non quella di Vico), però degnazione parecchia-
resta comunque un bel suq d’abbreviatori del kitsch
verseggiatori del plagio, filologi di retroguardia:
io sono pure immodesto anche perché non ne ho più
altri parenti a Cirene -e non ne ho mai avuti in effetti
ma paranoie un bel po’ -giustificate però.
Restano poi le stanchezze e le disforie dell’escluso,
l’eco dell’angolo cieco e ci si logorano
nervi e ragione nel buio, sul margine senza memoria,
gli asini ragliano intanto e la zanzara è con te
fino alla fine dei tempi e fa vecchie tutte le cose,
e la malaria di quest’epoca senza perché
ronza di quel mormorio sommesso e rimane una macchia
sopra l’intonaco grigio -e la cicala non sa
altro che cedere al job e all’act e al momento precario
e sfrigolare sul lume e svaporare e that’s all.
4.
Ecco un’età degli dei coi suoi uomini mascherati
col suo bisogno d’eroi di semidei di papà
Edipo sempre irrisolto -ha scocciato l’anima dirlo-
certo la crittografia con il suo enigma ci sta
tutta e comunque a pennello -elettronico o Raffaello
Sanzio -a sanzione d’un tuo omega -l’ombra d’un tu
indecifrabile spettro antibiotico -semantema
o esantema che sia -che si contaminano
contano mine e minacce e minimi poco morali
-io sono giù di morale -etica poi non ce n’ho
da epimeteici profeti e da prometeici epifeti
epici feti del niente esili fleti nel blu
scuro degli abiti scuri e delle auto oscure ai complotti
-fra cover up men in black scie d’alchimisti e milieu
socioecolalico -Troppo difficile -non ci capisci
e non ci devi capire e non ci puoi -è il bon ton
d’oggi non farti capire e perderti lungo la strada
per segnaletica assente e delirante tom tom
che lo zio Tom non ha più la capanna -hai perso il romanzo
di formazione -E però d’informazione ce n’è
tanta perché tu non sappia sii vergine di conoscenza
bello perché addormentato -e dormizioni ce n’è
tante -da icone del nulla per nonlosofie bizantine-
bizantinismi ce n’è tanti -perfino ora qui
sotto i tuoi occhi perché ti dirò non devi capire
che ti succede alle spalle e ti nascondo da te.
5.
Eccoti un mondo di falsi patrioti e di patrie fallite
fallimentari le matrie ebbre di maternità
senza lavoro e con l’act del job -la pazienza di Giobbe
e la balena di Giona -atti di sterilità
arrotolate le tube ovariche per il contratto
per il capestro nonché per il capoccia -però
tutti si lasciano esplodere in tanto -una striscia di garza
per una striscia di Gaza e ti rimedicano
ogni ferita -E la nemesi isterica nutre le nenie
dell’abbandono di dio e si domanda il perché
-non te ne fare una croce ti trovano sempre la croce
gli altri te l’hanno già fatta altri e ti incardinano
i cardinali gli imam i rabbini in pasque di sangue
-che non esistono mai- Demoni t’abitano
troppo scontati -a buon prezzo di idee- che nemmeno c’è caso
di nominarli -né più puoi dominarli -ne più
puoi sgominarli i banditi che sgomitano per carriere
lungo il terziario avanzato e retrocesso già in Bi
Bi ventinove -fat boy, my friend -un’atomica obesa
-Serie ragioni di calcio e vitamine -è un’età
fragile l’adolescenza del mondo invecchiato -ha gli ormoni
labili -le anoressie le bulimie che innescò
qualche ragione sociale o bancaria al banco dei pegni
l’asta e l’incanto che poi l’ordine e la civiltà
battono -con martelletti da giudici gli imbonitori
svendono il buon fallimento e se l’aggiudicano.
di Mariasole Ariot
Il pazzo, questo gran pesce scrollato,
cui si fa spalancare la bocca a forma di sì.
F. Leuret

Faheem nuota nel corridoio da millenni.
Alle tre di notte mi sveglia, rovista tra i capelli, danza con le mani appese al collo, prende le mie,
le stupisce di una notte scavata nella notte : è maggio.
Alle quattro ridiamo sulle parti superiori del viso : abbiamo dieci occhi per sopravvivere agli eventi,
ci avventiamo sulle ombre.
Nel tunnel i dormienti hanno camici bianchi e pantaloni verdi, si scostano per il sonno,
dicono : andate.
Ma di quanta acqua
c’è bisogno per fare un deserto? Di quanto – di quanta acqua, di quanto deserto
Faheem non può ascoltare : l’interno musicale gli ha strappato la testa : Faheem
può cantare, può fumare la lingua fermando la lingua degli altri, Faheem può mancare, Faheem
ha i piedi scalzi e i pantaloni di chi non gli ha contato le ore. La materia si è spalancata in un abisso.
Faheem piscia sui muri, alza le braccia e prega, Faheem attraversa in volo
il volo del mondo che non ci fa mondo, Faheem scappa dal reticolo e dice vieni.
Binary code 0010001111001001
There was a boy in the Santa Clara Park. He was there because of –
La voce cade : la follia è questa verità che s’incompleta, questa folla di macchinari e corporei,
queste bare che scavano tombe sui muri, che fanno dell’immortale un escremento odorato da millenni : quel fetore che dalle narici s’incolla al corpo e non raccoglie che briciole, e non fa muta la vita, e non muta e dice secoli e dice: tutta questa vergogna come un cumulo di cadaveri che restano fissi al muro. Con gli occhi pieni di pupille Faheem appoggia la sua testa alla mia sostanza chiara, entra nella stanza, danza
l’aria con le braccia. Lo allontanano : Non è questo il posto, qui non c’è posto.
Faheem legge Gramsci nella lingua di Shakespeare, Faheem nasce
con un bacio senza lingua.
****

Poi arrivano gli aerei di famiglia a medicargli i piedi, portano un libro da Londra, lui dorme e continua
a dormire. Parlano del grande freddo di una madre che ha visto i morti camminarle sui piedi, le mosche
attaccarsi alla pelle, i violenti che chiedevano tacere.
Faheem ha l’acqua nel cuore, gli aprono la carcassa per infilargli i tubicini, prelevano il veleno
antico dalla fonte. L’infermiere dice : tu non
ridere. Tu giagi dove noi non abbiamo distillati, tu porti la fame dei fratelli.
Il piccolo affonda tutte le pieghe nelle ruga del mondo, mi chiama con cento nomi diversi. E’ una crepa,
un’infinita distesa orizzontale in cui entro piano come nelle case di campagna : Faheem ha una città vuota
e un quadrato al posto del cielo: lo senti l’odore delle sigarette bagnate? Lo senti questo tanfo?
I ricordi restano piccoli oggetti posati sulla soglia. Le porte sono chiuse, la luce rossa
indica il proibito. Parla della sua terra, confonde le regioni, le sette lingue che non conosce, il padre
che copre la testa con un shāshiyya.
Madre, io non ho mai
avuto un padre che costruisse un copricapo : la mia testa è una bolla d’acqua, i pesci nuotano, mangiano
il concime seminato dalle donne.
Tutto è umido. Un idioma cade sulla rete.
Nella sera più lunga mi sanguina le parole, ci stacchiamo la fronte per diventare labbra : le circostanze buone di questo non esitare mai.
Faheem, la lettera è un bacio che non conosce grida. Ci separano. Sparandoci annunciano : ai vostri posti, piccole canaglie.
Esiste – madre -un luogo adatto al desiderio, esiste
un contatto tra le foglie, esiste
dove c’è
un conato – un nodo
che non esiste?
****

All’ora dei galli tagliamo una corda.
Faheem senza confini, Faheem senza bordi. La ricompensa è questo camminarci sulle radici, tirare
fino a che non troviamo : niente. Eppure : tirare, eppure
ancora : tirare.
Ora il padre ha un distesa di campi e di prati, la madre porta un velo, lui nasconde Gramsci sotto la nebbia.
DMT : una notte di Trento. I cani cadono sulle brutali : è il lucido di questo sfrigolare. Cade
Faheem, cadono
le voci, cadono i tempi, cade la noce che rigiravi tra le dita , cade
una musica dall’alto. L’elettricità del canto traccia i sogni delle uova che non abbiamo covato:
Something for the rag and bone man
Over my dead body
Something big is gonna happen
Over my dead body
Someone saw someone’s daughter
Over my dead body
This is how I ended up sucked in
Over my dead body
I’m gonna go to sleep
And let this wash all over me
We don’t really want a monster taking over
Tip toeing, tying down
We don’t want the loonies takin’ over
Tip toeing, tying down our arms
May pretty horses
Come to you as you sleep
I’m not gonna to sleep
And let this wash over me
Radiohead, Go to Sleep
***
I farmaci ti addormentano, indicano la via delle sillabe, la bava sul cuscino è una guida che ancora non fa terra. Mi arrivano le tue lettere, la tua scrittura trema. Ho una foto della tua vecchiaia : avevi ventidue anni e vivevi sotto il livello del mare : dove ammucchi le tue pietre, Faheem? Dove nascondi un vuoto che non sia vuoto?
Dove, Faheem, quando
si è spalancato il vento?
Firmandoti rispondi : yours, the Orange man.
* foto di Mariasole Ariot
Allora: l’ONU dice che a Kobane si rischia una nuova Srebenica.
La Turchia dice che in città sono rimasti solo i combattenti e le combattenti dell’YPG, ossia militanti di un’organizzazione terroristica, e su quella base ha rifiutato persino la creazione di un cordone umanitario verso il proprio territorio.
Il comando centrale USA (se non mi confondo) si colloca su una posizione intermedia e dirama cifre basse dei civili ancora intrappolati in città: 700 ca.
di Daniele Ventre
Mi spiace se si è usciti fuori tempo
e non si può piacere a lor signori,
fosse anche solo per vizio di forma.
Fatto sta che la storia si deforma
finita per suo vano contrattempo
senza che si disturbino i signori.
Ma fra avveduti non pare s’ignori
quanto di controcanto prenda forma
in segno che perverso cada a tempo
nel tempo dei signori senza forma
* * *
1.
E penserai di calcolarti il giorno
del quando del perché fra senso e segno,
se l’orizzonte ne rispecchi traccia
da chiederne ragione a qualche stella,
né pensi che a turbarti ordine e campo
basta appena un errore di pianeta.
Eppure ancora interroghi il pianeta
che ti si quadra al termine del giorno,
quasi che sorte t’abbandoni il campo
e non ti marchi in via con ruga o segno,
quasi che basti la tua buona stella
a consegnarti alla tua giusta traccia.
Ma di futuro non si scorge traccia
da interrogarne cerchio di pianeta
per meridiano o per virtù di stella,
per notte senza luna o chiaro giorno,
sperando che l’età non lasci segno
o la tua fibra stanca tenga campo.
Magari indagherai per casa e campo
cercando di ragioni alcuna traccia
per quel che indicherà coluro o segno,
per ruota d’astri o corso di pianeta,
di che ti serbi con l’aurora il giorno
levatosi domani alla tua stella.
O chiederai la rotta a qualche stella
che d’alba o di tramonto occupi il campo,
così che ti palesi aperto il giorno
che mostri d’un destino ombra di traccia
seguendo il luccichio di quel pianeta
che tiene obliqua via di segno in segno.
Non fosse che fin troppo ostico è il segno
che per ambigua via mendace stella
cerchia d’errori in gorgo di pianeta,
così che non vedrai per casa o campo,
per orma vaga o per sicura traccia,
quale fortuna t’ha covato il giorno
Che ti sia franco il giorno o ferreo il segno,
non ne sai traccia per brillio di stella
che tenga campo in corso di pianeta.
2.
Eppure vedi bene che alla donna
certi avvocati fanno poco all’uso,
che troppe volte mutano di legge,
quando di casa se ne vanno in piazza,
ma se gonna talvolta fa loro ombra,
eccoli pronti con la prima pietra.
Sempre negli atti qualche bella pietra,
dove troppo oltre il segno parli donna
che non sia prona a rimanersi in ombra,
al consueto censore viene all’uso,
o che si levi qualche rogo in piazza,
o si ritorni al libro della legge.
Per breve norma non si muta legge
dove rimanga fermo nella pietra
quel che fra quattro mura o messo in piazza
si ascriva per confine e segno a donna,
purché tranquilla si contenti all’uso
che dei corpi si fa tra il letto e l’ombra.
Così non poco ci rimane in ombra
di quanto occulta formula di legge
sotto la forma pronta dell’abuso
che per lama sottile o grezza pietra
macchia le vite con sangue di donna
per piaga di delitto o forca in piazza.
Non vale verso declamato in piazza
dove suoni percossa in cerchio d’ombra,
perché tu stesso intendi che alla donna
non vale vana formula di legge
dove regna di fatto o sferza o pietra
che al boia col suo dio sia presti all’uso.
Dunque riponi il formulario all’uso
di cui fai troppa mostra in aula e in piazza,
ma sotto il manto hai già la vecchia pietra
che per dolore e infamia opprima d’ombra,
per il secondo tomo della legge,
voce discorde o libertà di donna.
Certo in bocca hai la donna e in cuore abuso
e la tua vana legge ostenti in piazza
ma nell’ombra non sei che vento e pietra.
3.
Era solo una posa -eco dell’eco
-e preso a lavorare -sempre loro
prendono a lavorare -c’era solo
la posa del caffè -la brutta cera
e lo spot dei blue-jeans -quelli del vate
fra carriera e carrera -era una posa:
era soltanto un’eco nella posa
-la posa della pietra dove l’eco
risuona ancora alla posa del vate
con la solita idea di similoro
-con quella posa da statua di cera
ma io non posso dirlo -sono solo:
ma io non posso dirlo -sono solo
un piccolo-borghese -ho la mia posa
e dopotutto ho anch’io una brutta cera
e preso a lavorare -e sento l’eco
del laborinto -non ci trovo l’oro
e non ho certo autorità di vate.
Eppure incontra adesso fare il vate
magari poi se ci rimani solo
-a salvarti la posa sono loro
prendono a lavorare -con la posa
ti mettono al museo con tutta l’eco
di sdrucciolii che s’è data la cera.
E però non lo so con questa cera
con questo sangue versato da vate
con questa strana tessitura d’eco
mi sa che pure io rimarrò solo
con la mia poco dignitosa posa-
anch’io la medaglietta in similoro.
O forse ancora lo diranno loro
-o forse la litura sulla cera
-o forse ancora serberò la posa
-la posa del caffè che ho offerto al vate
che l’uno e l’altro sarà poi da solo
a far quadrare a vuoto eco per eco
-che poi nel vuoto ci si posa l’eco
-si posano i blue-jeans -lo sanno loro
che ti prendono a vendere- e c’è solo
sole di carta sul museo di cera
con la faccetta del poeta vate
faccetta vera con la bella posa.
E poi nel vuoto l’eco fa la posa
del pavone e così la piuma d’eco
per scrivere di vento ce l’ha il vate
-ma il vate poi te l’hanno fatto loro
con maschera mortuaria impressa a cera
e tu col mausoleo sei solo a solo.
Sarà che ormai sono rimasto solo
ma un tempo non tremava la mia posa
da canzonetta che ricalco a cera:
tanto ne prendo con la trama l’eco
per la bigiotteria di similoro
che si ricalca con posa di vate.
Intanto uno lo prende in giro il vate
che nel frattempo se ne resta solo
perché la giostra se la fanno loro
tutti impettiti con la bella posa
di chi cammina fra le vòlte e l’eco
con le pattine -che han dato la cera.
Ma nel frattempo la mia brutta cera
peggiora sempre con faccia di vate
perché le mie parole non hanno eco
e in casa mia me ne rimango solo
perché la poesia con la sua posa
l’hanno già presa a lavorare loro.
E non volevo poi trovarci l’oro
a scrivere su tavole di cera
quello che poi con atteggiata posa
si detta in manicomio un pazzo vate
che gli hanno perso i versi e resta solo
a parlare con sé fra l’eco e l’eco.
Ma poi dell’eco lo sapranno loro
che in fondo è solo un tratto sulla cera
-che farsi vate è solo più una posa.
4.
A volte non comprendo questo metro
ontoso degli amici di una volta
che tanto se la prendono per versi
buttati giù per ammazzare il tempo
o per tenersi in esercizio e in gioco,
quasi che tutto poi ritorni colpa.
Davvero non mi sembra sia gran colpa
il cucire due sillabe in un metro
quale che sia pigliandosela a gioco
e poi lo si dirà per una volta
che se uno vuol perderci il suo tempo,
il peggio non sarà perderlo in versi.
Ma perché tanta collera si versi
quasi feriti da crudele colpa
così da avvelenarsi il poco tempo
che ci defrauda al ripetuto metro,
io non riesco a intenderlo stavolta
o a che ci serva questo amaro gioco.
Ed è perciò che me ne prendo gioco
rispondendo ai rimproveri per versi
e lo si capirà una buona volta
che ad ammazzare il tempo non c’è colpa
o a litaniare scherzi in vecchio metro
fin tanto che non ci ha ammazzato il tempo.
Pazienza, non vorrò molto altro tempo
da rispondere qui nel vano gioco
a una lite non mia con lieve metro,
per quanto fiele la memoria versi
e per rancore che richiami in colpa
i compagni di birra di una volta.
Ma ci si calmerà una buona volta
e impiegheremo in altro modo il tempo
senza sentirci addosso ombra di colpa
col mutare il balocco al tetro gioco
di rinserrare la stanchezza in versi
usando o forse no d’un certo metro.
Che si gradisca il metro o che stavolta
in fiele si riversi il fosco tempo
il triste gioco sarà vostra colpa
* * *
Via via via via via via via via via via
via mo’ via mo’ via mo’ via mo’ via mostra
via mostra mostra ordina ria mente
via ria via ria via ria via ria via mente
via aria via via aria via aria via
via aria via via mostra aviaria mostra
via via via via viva chi via vi mostra
via chi si mostra via aria chi mente
via mo’ che vi amo via aria mo’ via
vi amo vi amo straordinariamente

L’arte contemporanea dicono che sia morta o che sia vittima della speculazione capitalistica, dicono anche che essa esiste perché ci sono i critici che la legittimano, e sostengono, come una stampella d’acciaio un uomo gravemente ferito ad una gamba, bisognerebbe invece parlare dei galleristi, o delle gallerie, e chiedersi se, oggi, tutto non possa cominciare (bene) da lì, da un progetto, un’intenzionalità, una visione, un bandolo tenuto ben stretto, e l’altro abbandonato al mare della creazione, delle pratiche, dei materiali, delle procedure mentali, delle esperienze corporee, questo è quanto mi pare faccia, o voglia volenterosamente fare la galleria OT, che già oggi può essere visitata, almeno virtualmente, in rete – come cambia il mondo, e come può persino perfezionarsi! a.i.
testi tratti da Balena
Edizioni Prufrock spa, 2014
[…]
11
brilla se parla o canta
strilla se sa che manca muta bisbiglia
arranca la sua vocale ferma risale
aleggia nel suo silenzio il suono spento
aggiunge pochi rumori ai suoi fuochi
brucia rauca balena in parola oscena

di Giacomo Verri
Soltanto nella gloria, si può morire più soli che in mare.
Riccardo Bacchelli, Amleto, cinque atti, 1918
Sognai mani sporche e generose. Anche adesso le vedo. Ci passano i cannelli delle vene. Ci fioriscono dei peli, quasi setole, ma pochi. Sotto le unghie, grigie, c’è come un tenace rifiuto di arrendersi. L’intensa Mila riposava al mio fianco i suoi sonni complicati. Erano i giorni in cui diceva che avrei dovuto essere più attento alle cose che mi circondano. Ma io non riesco, ancora oggi. Penso a me, temo di non amare nessuno all’infuori di me.
Care lettrici e cari lettori,
siamo lieti di condividere con voi una grande novità. Ci stiamo moltiplicando, anzi ci siamo già moltiplicati. Per dieci. Dieci (piccoli) indiani sono arrivati a portare una ventata d’aria nuova in Nazione Indiana.
Ex.it – Materiali fuori contesto
Sala Civica di Albinea – Biblioteca Pablo Neruda
17 – 18 – 19 ottobre 2014
PROGRAMMA
Venerdì ore 17:00 – 19:00
Suoni e letture dal Fondo — Interferenze dal Fondo EX.IT — letture degli autori presenti.
A cura di Marco Giovenale, Mariangela Guatteri, Giulio Marzaioli, Simona Menicocci
Letture: Mariasole Ariot, Daniele Bellomi, Alessandro Broggi/Gianluca Codeghini, Elisa Davoglio, Florinda Fusco, Andrea Inglese/Stefano Delle Monache, Manuel Micaletto, Renata Morresi, Vincenzo Ostuni
Video: Christophe Tarkos, Rosaire Appel, Nathalie Quintane, Simona Menicocci, Érik Suchère
Interventi sonori: Marco Ariano e Luca Venitucci
[Ringrazio Nori e la Marcos Y Marcos, che mi hanno permesso di presentare qui uno stralcio di un libro molto bello uscito quest’anno e intitolato Si sente?. Tre discorsi su Auschwitz. Nori prende le mosse dalle celebrazioni del Giorno della Memoria, per una riflessione divagante intorno alla storia, e alle responsabilità di ognuno, all’interno di essa, dai carnefici del passato agli officianti di oggi dei riti laici della memoria. a.i.]
di Paolo Nori
E noi, come se fossimo tutti agli ordini di quella voce lì, quel giorno lì ci ricordiamo della shoah. E ne parliamo, siamo qua per quello no? E andiamo ad Auschwitz, che va benissimo, ma il fatto che non sia una decisione che ciascuno di noi ha preso per conto suo, ma che abbiamo
di Giovanni De Feo
Alcuni giorni fa la rivista New Yorker[1] ha pubblicato un articolo sugli Young Adult, ovvero i libri per Giovani Adulti, categoria di marketing ormai divenuta genere letterario. L’articolista, Christopher Beha, polemizza proprio su questo passaggio da marketing a critica letteraria. Se infatti pare lecito che un editore ‘bolli’ per ragioni commerciali un romanzo come Y.A., non altrettanto quando un romanzo viene scritto avendo come scopo una semplificazione premeditata per adulti. Attaccando l’ultimo Y.A. di successo Beha chiude così: “Nessun personaggio di quel romanzo sembra vivo in modo significativo. L’immagine che comunica della vita è così falsa che sembra creata apposta per piacere a qualcuno che non ha vissuto molto, e che quindi non può rendersi conto della differenza”.
Ciò su cui mi vorrei concentrare qui non è tanto la legittimità di questa etichetta quanto la sua effettiva “readership”, ovvero i consumatori ideali di questi romanzi. In particolar modo vorrei riflettere sugli adulti che leggono ‘storie di magia’ o storie fantastiche, ovvero quelle che hanno al loro centro un mondo che non risponde alle leggi del nostro. Mi rendo conto che tali storie non esauriscono tutta la fetta dei Y.A., ma trovo significativo che ne costituiscano tuttavia una parte consistente.
di
Francesco Forlani
La Francia, si sa, è terra di femminismi. Uso il plurale perché la sua galassia si compone di linee di pensiero, personalità, narrazioni talmente diverse che non è possibile immaginarla come un’unità leggibile e fruibile in quanto tale. Ecco perché dire femminista significa impiegare una categoria talmente generale da comportarsi come un concetto vuoto utile al massimo per una caricatura.
Quando si parla di femminismo si deve allora sempre pensare a delle dinamiche, dei movimenti che, pur condividendo un orizzonte di senso comune, diciamo quello della condizione femminile, di fatto affidano a una narrazione propria e a una propria interpretazione la comprensione e trasformazione di quello stesso orizzonte.
Una caratteristica di questi movimenti, per esempio, è la capacità di produrre nella società, grazie a strumenti essenzialmente giuridici, piccole grandi rivoluzioni in grado di conquistare dignità di vita e di pensiero per quella “condizione”. Il corpo e non poteva essere altrimenti, diventa il teatro delle battaglie più importanti come dimostra il fatto che le mouvement de liberation des femmes ( MLF ) in Francia sia nato intorno al tema dell’aborto, nel 1970 affermandosi con il celebre Manifeste des 343, del 1971 cui aderirono Simone de Beauvoir, Catherine Deneuve, Jeanne Moreau, Françoise Sagan, Delphine Seyrig, solo per citarne alcune.
I femminismi francesi si sono nutriti poi del pensiero e dell’azione di Julia Kristeva, Hélène Cixous, Luce Irigaray, che si smarcano per esempio da quello “égalitaire” di Simone de Beauvoir per fondare un feminisme de la différence. A tale filosofia che in sintesi rivendica la doppia natura del maschile e del femminile, dell’identico e del differente, in nome di un dualismo fondatore di un pensiero autentico, si rifanno in italia Luisa Muraro e Adriana Cavarero , fondatrici negli anni ottanta della magnifica esperienza della comunità filosofica femminile “Diotima”. E come battitrice libera andrebbe almeno ricordata Elisabeth Badinter, assai controcorrente.
Così, per tornare in Francia, nel 2003 è esploso l’ultimo movimento femminista, denominato “Ni putes ni soumises” con la famosa Marche des femmes contre les ghettos et pour l’égalité, in omaggio a Sohane Benziane, ragazza di 17 anni, bruciata viva da un gruppo di suoi coetanei. A questo movimento si riallaccia anche tutta la questione della violenza sulle donne, tema tutt’oggi di triste attualità.
Questa introduzione, a grandissime linee e di densità concettuale sconcertante, serve a creare un contesto rispetto a un doppio evento culturale di attualità in questi mesi, nei due paesi in questione, l’italia e la Francia. In Italia, l’esordio sulle pagine di Micromega, una delle più importanti riviste della sinistra intellettuale italiana, della pornostar Valentina Nappi e in Francia l’uscita di un libro che ho trovato audace e interessante se letto come chronique della condizione femminile, di Bénédicte Martin.
Per chi non avesse avuto la fortuna di leggere Valentina Nappi consiglio uno dei suoi ultimi articoli, intitolato serenamente A me piace il cazzo . L’articolo vale la pena e aggiungo che al di là dell’effetto facile di meraviglia per il buco dello schermo da parte di una protagonista di quel mondo che è dietro lo schermo mentale di tutti noi, pornografi più o meno coscienti, la sensazione che ho, nel fondo, è che si tratti di una rivincita o del tentativo di un riscatto, da parte dei benpensanti della Gauche nostrana rispetto ai femminismi di oggi e di ieri. Ho come l’impressione, e questo mi piacerebbe condividerlo con voi, che si tratti di una manipolazione della pur meritevole autrice per sferrare un bel fendente alle femministe o alla caricatura che si ha di esse. A me interesserebbe sapere cosa ne pensi Luisa Muraro, per esempio, ma per il momento sarei ben felice di sapere cosa ne pensiate voi.
in conclusione, non essendo ancora tradotta l’opera di Bénédicte Martin e non volendo vanificare, traducendolo, il lavoro dei traduttori che a quest’opera, lo spero, ci lavoreranno, vi propongo, nella sua lingua originale, il sommario del libro La femme, invitando i lettori francofoni a procurarselo, perché vale, perché è originale, perché è onesto.
Sommaire
Avant-propos
De Colette à Warm Up
De la jupe
De la contraception
De Lolita à Sappho
De la profanation du temple (virginité et amants du passé)
Du célibat
Du poids
De la beauté
De l’addition
De l’avortement
De la poitrine
De la chevelure
De la masculinisation
Du shopping
De la presse féminine
De la demande en mariage
De la famille
De la cuisine
De l’argent
Du travail
De l’amour
De la maternité
De la procréation, de la reproduction
De la maîtresse de maison
De la chair
De la séparation, du divorce
Des accusations
De la domination
Du machisme et de la misogynie
De la galanterie
De la violence
De la garde des enfants
De la solidarité féminine
Du viol
Du gynécologue
Des beaux-pères
De l’alcool
De la folie
Du ministère de la Condition féminine
Des mauvais combats du féminisme
Du féminisme
Des Femen
De la prostitution
De la théorie du genre
Des salopes et des chiennes
Du couple qui marche et de l’amour heureux
De l’infidélité
De la littérature
De l’écriture
De la colère des femmes Électre
Des héroïnes et des grandes brûlées
De la religion, de la dévotion
De la vieillesse
De mon fils
De la mort
© Editions des Equateurs : 2014”
di Mariasole Ariot A f.t.
Di cosa è fatto un desiderio quando cade [ nelle ore diurne se non c’è pianura ], quel dire tu non
riesce ad affrettare, piega il niente sui nomi, verrà l’impossibile rientrare

(Pubblichiamo, per gentile concessione dell’editore, le prime pagine del romanzo di Jesús Moncada “Il testamento dei fiumi”, traduzione di Simone Bertelegni, gran vía, 2014)
Pilastri e pareti portanti si spezzarono in due bruscamente; un frastuono assordante in cui si mescolavano lo scricchiolio di travi e montanti, lo schianto di scale, soffitti, tramezzi e volte, vetri in frantumi, mattoni, tegole e piastrelle sbriciolate, rimbombò lungo baixada de la Ferradura mentre la casa crollava senza scampo. Subito una nuvola di polvere, la prima di quelle che avrebbero accompagnato la lunga agonia che aveva inizio allora, si sollevò sull’abitato e si sfilacciò a poco a poco nell’aria tersa del mattino primaverile.
Anni dopo, quando la sventura cominciata quel giorno del 1970 era un lontano ricordo, tempi ricoperti da ragnatele di nebbia, una cronaca anonima raccolse una gran quantità di sconvolgenti testimonianze sulla vicenda. La prima dal punto di vista cronologico – sebbene non la più emozionante – registrava l’arresto dell’orologio del campanile il giorno prima, durante una serata tempestosa che aveva dipinto il cielo della città di carminio violaceo, oro pallido e nere foschie; secondo il cronista, il guasto era una chiara premonizione di quanto sarebbe accaduto l’indomani, un annuncio dell’inesorabile fine dei vecchi tempi. L’angoscia diveniva raccapriccio per colpa della descrizione, dovuta a un’altra testimonianza, della notte cui aveva ceduto il posto l’incertezza del crepuscolo: la cronaca riferiva del silenzio denso nelle vie deserte, silenzio che voleva riflettere quello della gente tappata in casa, a pregare che non facesse giorno. Eppure, tra i ricordi di maggior impatto, c’era quello del rimbombo sinistro alle undici del mattino seguente in baixada de la Ferradura: secondo la cronaca, gli abitanti furono scossi sino alle ossa dall’inizio del disastro. Senza dubbio le testimonianze risultavano sconvolgenti. Ebbene, questa non era l’unica caratteristica che avevano in comune; ne condividevano un’altra, forse insignificante e tuttavia in grado di chiarire quanto accaduto in quel giorno nefasto: tutte, senza eccezione alcuna, erano anche assolutamente false.
Al festival della letteratura di viaggio, che c’è stato da poco a Roma, a Villa Celimontana, dal 25 al 28 settembre, un ospite, chiamato a intervenire, ha dichiarato apertamente di sentirsi fuori posto, suscitando un’inaspettata ilarità generale: il suo nome è Michele Mari.
Michele Mari, ammette pacifico, non è per nulla un buon viaggiatore, quantomeno stando al senso letterale del termine. Mentre invece, letterariamente parlando, credo che possa essere considerato a buon diritto uno dei maggiori traghettatori di storie e di mondi e di suggestioni (e, certamente, di lingua) della nostra epoca.
I suoi viaggi meravigliosi, perché sempre portatori di meraviglia, si compiono tutti attraverso i sensi. La capacità, sempre precisa e affinata, di puntare lo sguardo, l’accuratezza, talvolta addirittura molesta – seppure, al limite, per se stesso – di prestare l’orecchio ai luoghi e alle persone che lo circondano; il gusto, spasmodico e vizioso, di cibarsi dei sapori più autentici, la ricerca, mai vana, degli odori più antichi: questo rende Michele Mari il grande scrittore che tutti oggi conosciamo.