di Andrea Melone
(Pubblichiamo, per gentile concessione dell’autore e dell’editore, un estratto da Strategia delle ombre, Gaffi 2014, il nuovo romanzo di Andrea Melone. La storia di un uomo braccato da aguzzini che non gli lasciano tregua costringendolo a fuggire e a cambiare continuamente identità. Il romanzo segue il protagonista in tutti i suoi spostamenti, dagli Stati Uniti all’Egitto, dall’Algeria ad Amsterdam, da Bristol a Roma. In ognuno di questi luoghi, sempre vigile nell’intento di eludere le ombre che lo perseguitano, reinventa la propria vita facendo di sé un altro uomo. Ma perché è costretto a scappare? Qual è la sua colpa? Di cosa è accusato? Strategia delle ombre è il primo volume di una trilogia.)
Egitto
Era entrato in cantina, aveva aperto il baule accanto alla toletta comprata pochi mesi prima da un antiquario ad Arezzo. Aveva tirato fuori, come dall’erebo, tondi pagliacci di vetro di Murano, libri e lettere in francese, in italiano, in arabo, in inglese, in tedesco, stoffe e coperte e altri panni d’ogni genere, una coppia di dolci, struggenti foto incorniciate di sua madre, unica testimonianza di lei, e poi aveva guardato ancora.
Aveva visto. Aveva richiuso.
Tutto aveva compreso su Ludovica, sulla sua giovane vita, sui suoi incomprensibili sorrisi, e molto aveva pianto, molto era rimasto con la fronte sulle ginocchia.
Dopo aver fatto questo era uscito, aveva raccolto una ragazza per strada e gli avevano ammazzato il figlio.
La sua vita doveva finire.
Guidò verso il mare, il sole era ancora lontano dall’orizzonte.
Sono stanco, pensò. Peregrinare nel mondo incessante.
Peregrinare braccato dalla morte. Peregrinare io seme della morte.
Era in Italia da alcuni anni. Ancora in Italia: per la terza volta in più di trent’anni, sempre in luoghi diversi, sempre con nomi diversi. Tutte vesti di un unico Io. Tegumenti.
Quella notte prese in considerazione per la prima volta l’idea di uscire allo scoperto e di ritornare. Ritornare da Lui. Che il gioco avesse termine.
La desolazione del suo animo era stata causa di troppo male, di inumane sofferenze a sé e altrui.
L’assassinio di suo figlio lo aveva annichilito. È cosa che non si sopporta e iniquo riaversene.
Aveva conosciuto la fine miseranda di Caterina. Caterina, angelo di Dio, sguardo azzurro.
Aveva pianto lei e suo figlio e mentre era seduto con le mani sopra gli occhi, non faceva che tornare davanti a quel corpo impiccato di lei, il suo collo adagiato sulla spalla: sembrava si sciogliesse dal gancio e gli s’avventasse, dall’eternità, come una bestia affamata.
Aveva compreso la verità su Ludovica.
Come lo avevano scovato in Egitto i suoi figli? Anche loro erano ombre? Egli aveva assoldato anche loro? Tutti erano ombre?
Tutto è ombra.
Decise di prepararsi al ritorno e a ciò che avrebbe comportato. Decise di prepararsi al viaggio. L’ultimo viaggio.
Prese la macchina, guidò nella città senza limite. Andò verso il mare, dove così tante volte era stato con Ludovica, con Michela, con Leda.
Scese sulla riva e si sedette, come così tante volte aveva fatto in Egitto con le spalle al deserto cupole d’oro.
L’Egitto!
Gli si schiuse la giovinezza dal petto come da una vecchia panca.
Forse in Egitto, per un certo tempo, era stato felice, se uomo può dirsi felice. Forse perché vi era rimasto molti anni, molti più che in qualunque altro luogo e la sua vita aveva conosciuto la normalità e l’agiatezza di un coloniale. Forse perché in Egitto non aveva contratto amore, nonostante fosse nel fiore dell’età, e non ne aveva patito l’inganno.
Il suo nome in Egitto era Gilberto Gambi.
Scelse Porto Fuad, nel nord del paese, una cittadina deliziosa creata appositamente per bilanciare il peso di Porto Said. L’intento, a quanto pare, non era andato a effetto, sebbene vi avessero stabilito i Tribunali Misti e la maggior parte degli uffici e delle officine della Compagnia del Canale e anche le saline che servivano tutto l’Egitto.
Porto Said e Porto Fuad erano sulle due opposte sponde del canale, quella africana e quella asiatica, collegate da traghetti costanti che impiegavano venti minuti esatti per la traversata.
Tutti dicevano Said e Fuad, arabi, greci, libanesi, italiani, tranne i francesi. Loro rive Asie e rive Afrique. Si distinguevano in tutto i francesi, vestiti di avana e di bianco, non rivolgevano volentieri la parola a nessuno che non fosse francese o inglese, rari sorrisi sopra le labbra, acqua di colonia, le donne innervosite dai figli, troppo esili o corpacciute con ridicoli cappellini a fiori; simpatici e buffi i mocciosetti, alquanto sciupatini, educatissimi, sempre con quell’aria da bagarilli agli esami, i bei ciuffi castani scompigliati, erano i padroni del mondo e si rincantucciavano dietro le gonnelle delle mamme, braccia penzoloni, i padri li sorvegliavano sulla strada, lanciavano occhiate da farli perder d’animo, poveri angeli, convinti solo dai loro affari, con gli orologi alla catena, soprappensiero.
A Porto Fuad, Gilberto riuscì ad affittare una villetta in campagna a poche decine di metri dal mare. Visse alcune settimane diffidente e scorato fino alle lacrime, e la notte sotto quei cieli giubilanti s’aggrappava alla memoria dell’istituto e di don Giacomo, le sue guance glabre, la sua mano che dirigeva il tempo mentre lui era seduto allo sgabello del piano, Dioh, lo avrebbe voluto con sé ora, nella sua casetta sui coralli, e non pensava a che cosa avrebbe fatto domani, alla sua giovane vita, né alla bellezza inorganica di Caterina, ma alle stelle di Dio che rendono giovani coloro che le guardano: questo gli confidò don Giacomo, che le stelle di Dio ringiovaniscono chi le contempla con occhi puri, e non sapeva più che cosa volesse dire e in quel momento, nella desolazione di una terra disperata, era diventato essenziale capirne il senso e venirne a capo, e sarebbe stato come possedere la forza increata del Graal.
Trascorreva le ore in un fabbricato di legno in parte costruito sulla spiaggia, in parte su palafitta che s’addentrava nell’acqua blu cobalto e turchino per dieci metri. Poco al di là s’accostavano i delfini. C’erano alcuni bambini e parlavano con loro da lontano e sembrava potessero intendere quei sorrisi fuggitivi.
Uno di essi era un francese, Jacques, veniva a villeggiare coi suoi, doveva essere il figlio di un piccolo burocrate della Compagnia, e quando Gilberto si presentò a casa con una nuovissima Pontiac Candy Green, Jacques, che non aveva più di otto o dieci anni, gli domandò: «Tu sei ricco o agiato?».
«Sono ricco», rispose, e quello replicò: «No, tu sei agiato, perché le persone agiate hanno una sola automobile, quelle ricche due. Tu ne hai una», e tutti strabiliarono, Gilberto compreso, e sorridendo: «No, sono ricco. Le persone agiate lavorano, quelle ricche no. Io non lavoro», e tutti quei bambini strabiliarono ancora e trattennero il fiato sbigottiti sulla riva del mare infecondo, zaffiro e smeraldo di Porto Fuad.



Permunian letterato aristocratico, dunque? Forse semplicemente letterato che ne va del suo essere letterato, del leggere il mondo con occhi da letterato, e di quel mondo essere “sfregiatore”. “Lei non è uno scrittore da portare al Campiello o nella buona società letteraria, se ne faccia una ragione, – lo apostrofa un funzionario editoriale – lei è un teppista da latrina!”. Sì, perché il sogno di Permunian sarebbe scrivere versi sui muri di un vecchio bagno della stazione di Desenzano, località dove abita. Trasformarlo in un gabinetto delle frasi d’autore, un posto dove ci si rifugia “quando i rumori e le voci diventano insopportabili”, un posto che sia boudoir ferroviario-filosofico, fabbrica e alcova delle sue macchine mentali. Insomma, sembra che Permunian ce l’abbia con tutta l’umanità: con i baroni universitari, con il padre della sfortunata Carmen Barriento, con i preti spretati della Casa dei Gentili, con i vecchi compagni di scuola, con i fantomatici editor affermati, con Zefirina la zingara, con il criminale nazista dalla voce di femminuccia. Eppure non tutto è negatività, il mondo di Permunian è popolato anche di persone e fantasmi positivi. Poeti soprattutto, ossia sognatori come lui, inoltre scrittori artisti pittori filosofi intellettuali, tutti confinati al di fuori della celebrità ma all’interno della cultura: Andrea Zanzotto, Lucio Piccolo, Cioran, Sebald, Bruno Schulz, Robert Walser, Pasolini, Mario Giacomelli, Sergio Quinzio, Maria Corti, Angelo Fiore, Guido Cavani, Antonio Delfini, Silvio D’Arzo, Dolores Prato, Lucio Mastronardi, Amedeo Giacomini, Umberto Bellintani.



Calcolo di aver posseduto sette computer primari. Il più vecchio dei file, Tesina.doc, storicizzato in un’era che precede l’avvento di Berlusconi e la morte di mia madre, ha compiuto sei traslochi e ancora “è”.







Pure Brunetta, la ragazza che lavorava da mia madre, bella mora con due tette generosissime, stravedeva per lui. Per lui e Boninsegna. Brunetta tifava l’Inter. Anche sua sorella Nicoletta tifava Inter, ma le piaceva Bordon. Ricordo che partivano i mercoledì di coppa con i loro fidanzati e seguivano la squadra dovunque. Non capivo, dall’alto dei miei pochi anni, come potessero, quei ragazzi, permettere alle fidanzate di andare a vedere giocatori di cui erano palesemente innamorate, e di cui tenevano spudoratamente i poster in camera. A volte Brunetta, quando tornava da qualche vittoriosa trasferta europea, diceva che forse Bonimba era più bello di Franco Gasparri, ma la cosa durava solo un giovedì, perché poi il venerdì tornava a sospirare sulle pagine dei fotoromanzi insieme alle clienti. A volte Brunetta mi diceva che da grande mi avrebbe sposato, nonostante Franco Gasparri e Roberto Boninsegna, e se mi lavavo i capelli in negozio era lei che me li asciugava, e questo era sicuramente un segno d’amore. Ma devi sbrigarti a crescere, concludeva. Io guardavo mia mamma per vedere se aveva sentito, come a farle intendere che stava a lei aiutarmi in quell’impresa, e mia madre ogni volta rideva e faceva sì con la testa, e diceva sempre chissà che fila di donne ci sarà che ti vorranno sposare. Io mi gonfiavo di orgoglio maschio, ché pure le clienti facevano sì con la testa e le davano ragione e mi sorridevano, e Franco Gasparri mi sembrava meno pericoloso, e certe volte ho pensato pure che saremo diventati amici e che ci saremo divisi equamente le fidanzate, perché i grandi uomini sono pure generosi.


