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da “Contromosse”

6

di Paolo Maccari

.

Riepilogo di un’amicizia

Abbiamo camminato
per tanti anni insieme
una vita che non ci veniva bene.

La novità della reciproca insoddisfazione
fu un nuovo evento,
salutato come l’ennesimo salvatore.

Tanto per dire,
nello spazio verde delle nostre campagne
giriamo ora soli, intenti al volo
breve di un fagiano,
compiacendoci di una bacca variegata
in modo appena strano,
di un tronco cavo, nascondiglio di nessuno.

Le ghiandaie che fuggono
sono creature mirabili del mondo,
colori allettanti intravisti tra i rami.
Non fanno in tempo i fiori
a esalare i loro magri profumi
che ne inaliamo ogni molecola
ingordi e teatrali.

Abbiamo smesso di camminare.
Guardinghi e apertamente estranei,
cerchiamo un po’ di bene per noi stessi.
Ci affidiamo a manutentori accorti
che sfoltiscono i sottoboschi nei pressi
dei nostri sentieri. Siamo più calmi.

Non camminiamo più, il cuore ha smesso
coi suoi ottovolanti. Lui non rumoreggia
e noi non camminiamo,
non fatichiamo: cautamente, si passeggia.
I sensi sono diventati apparecchi
di precisione, per saperci partecipi
di un gioco le cui regole
conosciamo a memoria
ignorandone la gioia.

Mentre la tristezza grande è che sappiamo
ciò che facciamo. Ne siamo
persuasi. Noi bambini ubbidienti a noi vecchi.

*

.

Personaggi al tramonto

Il giorno prosegue lattiginoso senza pertugi,
si lascia appena scalfire qualche miraggio
che stampiglia maligno sull’asfalto.

Intorno al lago bivaccano
erbe inebetite e proterve
e presto il tramonto si tufferà
nell’imbuto di cielo
lasciato sgombro da due colline glabre.

Nel sottopasso una signora
sta per pestare una siringa,
affretta il passo per le scale
e il sole con un raggio mentre inciampa
all’ultimo scalino appiccicoso la irride.

“Saliamo ancora” protesta il figlio
ma è l’ora di tornare nelle pianure abbacinate
la macchina già sgomma mentre
automaticamente si libera
del carapace superiore
e l’aria calda abbronza i volti somiglianti.

Si toglie la cravatta, ansima, si tasta il braccio
sinistro, poi barcolla, poi si regge al fusto di un lampione.
Commedia vana. La signora scampata
lo ignora, la macchina scoperchiata, appena spenta
emette due uomini ringhiosi e felici.
Nel lago salta un trota e ingoia una mosca finta.

Il giorno non muore e non butta sangue.
Tramonta sfrigolando ancora bianco
un sole attaccabrighe
che giura di tornare
e di farcela pagare.

*

.

Ipotesi di guerra nel parco

Se degli alberi le cortecce fossero
armature e lame i rami e i fili d’erba.
Se le teste di cavallo e di leone
avessero un corpo conficcato in terra
che aspettasse soltanto il loro timone,
se i bambini dalle dita impacciate
lasciassero andare uno sbriciolio nel lago
di polvere da sparo, che nel becco delle
anatre e tra le labbra plastificate dei carassi
agissero da lievito che ingrossa la ferocia,
se poi l’ordito sanguigno d’ogni foglia
prendesse esempio dalla trama di uno stemma
che posa e ringhia sulla parete del palazzo,
se tutto il parco fermentasse
adirato fin nelle torsioni delle radici
avviluppate in schiere di amici e nemici

allora anche l’albero fantasma
che svetta sull’isola pietrosa
e come un faro indifferente mutamente si staglia
anche l’albero simbolista animandosi
con stile imprevedibile
darebbe battaglia.

*

.

Un vecchietto traversa la strada

In questa piazza ho visto un ometto vestito di tutto punto, vecchio vecchio, che camminava lentamente con una specie di rassegnata dignità. Fu per attraversare la strada, si guardò dalle due parti, fece un passo. Nel mentre sopraggiunse veloce una macchina; frenò, facendo urlare le gomme, all’ultimo momento. Il fatto è che sarebbe potuta passare. Il guidatore si fermò per mostrare al vecchio che si fermava. Per gentilezza si dirà. Ma io non credo. Io che c’ero dico: per il piacere di rimproverare, di far pesare al signore la sua lentezza. Per fargli misurare la distanza tra la scattosità felina dell’auto e la sua lentezza. Potrei giurarci. Anche il vecchio la pensò come me (e in fondo è questo che conta). Alzò le mani come per scusarsi. Quindi passò, sforzandosi penosamente alla sveltezza. Giunse alla mia panchina e si sedette. Io che leggevo alzai lo sguardo. Il vecchio mi fece un sorriso dolcissimo. Continuava a scusarsi. Si scusava col mondo intero.
Anch’io sorrisi: mi scusai di far parte del mondo, dei suoi nemici.

*

.

Come mi sarebbe apparsa la piazza quando stavo male

Al tempo della mia paura una piazza come questa m’avrebbe terrorizzato. Tutto ciò che è circolare mi terrorizzava: temevo e sentivo d’esserne il centro. Aspettavo che la punta metallica di un compasso smisurato mi ribadisse centro foro e abisso. Sudato e con la vista sfocata m’andava a male il sangue nelle vene e l’aria diventava torba e sassosa non appena m’entrava nei polmoni. A quei tempi avevo sempre paura di morire. Cercavo compagnia, qualcuno pronto a soccorrermi. Invece le persone non mi rassicuravano. In molti quando li vedevo scansavano l’argomento. Nessuna voglia d’entrare nel mio incubo. Conto gli amici, da allora, con molta più cura.

*

.

Sole

Ha preso il sole di petto la signora: sta immobile su una panchina sotto la statua e si lascia aggredire dai raggi. Non suda. Gode. Ai suoi piedi giace un cagnetto legato a un guinzaglio rosso di quelli riavvolgibili come certi metri. Niente, pare, potrebbe svegliarla, nemmeno una persona che le scuotesse la spalla. È tanto piena di luce che sembra disincarnata. Porta pantaloni color crema e una camicia chiara a fiorami, i capelli biondi tirati su da una molletta, infradito ai piedi ornati di perle. È un’immagine antipatica di autosufficienza: un essere umano seduto a una panchina che non aspetta. S’abbronza, sta. Quando arriva un uomo e le si siede accanto non apre gli occhi. Gli domanda se ha preso tutto: l’uomo, il marito a questo punto, elenca una serie di prodotti guardando dentro il sacchetto che tiene tra le ginocchia. La signora non risponde. Il marito la invita ad alzarsi per andare alla macchina. Poi, cozzando con la perdurante immobilità della donna, le propone di aspettarlo: sarebbe arrivato fin lì con la macchina. Si mettono d’accordo, e l’uomo si avvia. Io resto indeciso tra la curiosità di vedere la signora resuscitare e il timore di sorprenderla viva. Infine mi decido; corro a casa. Tutto sudato mi butto sul letto e cerco il sonno.

*

Paolo Maccari, Contromosse, Con-fine edizioni, Monghidoro (Bo), 2013. Con prefazione di Luca Lenzini e postfazione di Giuseppe Di Bella.

GIGI GIGI GIGI (strascichi di fascismi domestici)

2

di Giacomo Sartori

 Gigi Gigi Gigi
quando l’estate spuntavi
erano selvagge abbuffate
con i tuoi fratelli
(le consorti guardinghe
noi figli incantonati
in un opaco presente)
girandole di bottiglie
e sghignazzamenti
feroci rievocazioni
politicamente scorrette
poi verso il dolce
fioccavano le tue granate
sui bersagli più fragili
impudiche provocazioni
offese precise
e ben tese
(un’arte che non si impara)
seguivano memorabili incazzature
delle mogli
una contro l’altra
o una contro tutte
(non parliamo di mia madre)
per me la famiglia era quello
i bagordi una volta all’anno
e le incazzature
(duravano poi anni)

 

Gigi Gigi Gigi
vivevi in Francia
con un bassotto obeso
(a ogni scalino
strusciava la pancia)
e una contessa russa
noi la chiamavamo Wanda
(il vero nome
è emerso solo di recente)
fragile e ialina
bella e indignata
anche lei inviperita
(la tua palestra quotidiana!):
la stessa guerra domestica
di mio padre
di vostro padre
l’esistenza come corpo a corpo
all’ultimo sangue
l’essenza del fascismo
(come potevano pensare
di avervi vinti?)
anche in casa
soprattutto in casa
(nessuno storico
ha scandagliato
questo intimo inferno)

 

Gigi Gigi Gigi
fumavi sigaretti
e adoravi le ostriche
i bianchi tondi
i rossi semitrasparenti
i liquori barricati
(senza peraltro snobbare
le trippe e le lumache
gli aperitivi gialli d’anice)
la tua specialità comunque
restava provocare
rendere pazze le persone
come altri amano far ridere
o pontificare su questo o su quello
ferivi con crudele buon umore
e peristaltici soprassalti
di gaia voluttà
una cattiveria non solo nevrotica
(la baionetta della verità
– la cosiddetta verità –
brandita da mio padre)
più folle e sguaiata
ridevi del sangue
vomitato dalle ferite
ridevi degli schizzi
sulla tua persona
del tuo stesso sangue
(l’intrinseco masochismo
del fascismo)

 

Gigi Gigi Gigi
alle partite di calcio
davanti agli italiani
tenevi per la Francia
sfottendoli
e offendendoli
coi francesi
tifavi per l’Italia
canzonandoli
e insultandoli
un caso molto istruttivo
per tutti gli emigrati
gli esuli
gli espatriati
(pure il sottoscritto):
non si può estirpare
ciò che alligna dentro
si può solo annacquarlo
o rovesciarlo come un guanto
(dicevi peste e corna dell’Italia
e avevi sempre
automobili italiane)

 

Gigi Gigi Gigi
anche tu fascista
come il nonno e gli altri zii
(beninteso tutti maschi)
ognuno a modo suo
(per quanto possa suonare strano
ci sono tanti modi
di essere fascisti)
eri un camerata godereccio
e dissacratore
virtuoso del sarcasmo
sei scappato
dalla democrazia
che ti voleva ancora militare
di nuovo la naia
(per di più con i vincitori!)
meglio spingere carriole
da buon rital
e pulire cessi
poi ti sei introdotto
hai trovato la russa bianca
(staffetta peraltro
nella resistenza!)
ti sei convertito
alle cravatte a farfalla
su camicie a bande azzurre
come le sedie a sdraio
un rispettabile bourgeois
(benpensante per provocazione?)
la salda alcova del centrodestra

 

Gigi Gigi Gigi
quando siamo venuti a trovarti
(invero una sola volta)
ci portavi in locali
dai soffitti alti
restavamo a bocca aperta:
il fois gras nella sfoglia
leggera come l’aria
gli ovetti marezzati di quaglia
le distese di formaggi
spampanati sui taglieri
come obese matrone
il gelato nella spumiglia bollente
i vini da duecentoventi franchi
(tu stesso recitavi il prezzo
di ogni bottiglia)
era un modo di ferirci
attaccata sul suo stesso terreno
mia madre
non trovava che le macchie
della vostra vasca da bagno
i francesi sono proprio porci
fanno schifo
diceva

 

Gigi Gigi Gigi
quando in un’era più recente
ti ho presentato mia moglie
l’hai studiata bene bene
ci hai provato con
i dipendenti pubblici imboscati
(t’avevo detto che insegnava)
poi con le femministe frigide
(qui razzolavi d’intuito)
lei incassava con sorrisi indulgenti
senza tentennamenti
(per ogni evenienza
l’avevo allertata
e per così dire preparata)
poi finalmente hai scovato
il suo tallone d’Achille:
sotto il fascismo gli italiani
stavano molto meglio
di adesso
hai detto
trionfando fin da subito
del suo furore
e rincarando la dose
tirando in ballo anche gli ebrei
che se l’erano cercata
(anche lei furente per anni)

 

Gigi Gigi Gigi
le tue offese
erano suadenti fendenti
portati da suoni nasali
(l’accento ormai frôncese)
la tua risata si incagliava
in un ghigno
anch’esso francofono
(l’impudenza agile dei lumi
imbolsita per l’eternità
nel pedissequo ottocento)
la tua brama monocorde
restava un po’ terra terra
come anche le battute
a sfondo sessuale
(perfino da terminale
davi i voti
ai seni delle infermiere)
non so nulla però delle tue amanti
(mi stupirebbe che ti astenessi
visto lo zelo di mio padre
e degli altri fratelli
senza parlare del nonno)
volavi più basso
di mio padre
ti mancava
la dedizione austera
e quasi mistica
di montanaro
(il fascismo dannunziano
e per così dire pseudoetico)
ma non bassissimo
con le tue piroette strafottenti
riprendevi quota

 

Gigi Gigi Gigi
nelle famiglie incarniamo ruoli
come negli eserciti
e nei circhi
tutto deve quadrare
il marchingegno deve girare
perpetuarsi in generazioni
inconsapevoli delle parti
ignare delle reiterazioni
tu officiavi
il guascone che gioca con la vita
che dileggia e ghigna
non rispettando nessuno
tanto meno se stesso
(quale signorotto trecentesco
incarnavi?)
senza peraltro bizze artistiche
(per queste c’era il fratello pittore)
e anzi con afflati d’ordine
un saldo impiego d’assicuratore
baffi e borsello
sigaretti e cravatte
a farfalla

 

Gigi Gigi Gigi
t’eri fatto più vecchio
di mio padre
l’avevi sorpassato
(il suo contatore s’era grippato)
t’era riuscita quest’altra beffa
battere il primogenito
il preferito
il grande esempio
il fascista più fascista
mano a mano che t’incavavi
e incedevi più anchilosato
con ondeggiamenti
di ubriaco che si da un contegno
assomigliavi sempre più a tua madre
i suoi occhi insolenti
ti sfavillavano
dietro gli occhiali da donna
anche la voce affilata
era ormai quella
e la curva liscia dei polsi
per non parlare
del vento scostante
e cattivo
dell’impazienza
le stesse interiezioni
(tu certo non sapevi)
dopo tanti anni
riviveva in te
la sua opposizione domestica
e viscerale
(violenta anch’essa)
al fascismo
(niente a che vedere
con l’antifascismo)

 

Gigi Gigi Gigi
adesso che sei morto
come chi non crede a niente
(anche tu
arenato alla materia
ignaro d’infinito)
anche tu crepato
senza rimpianti
o lasciti
o ponti di qualche tipo
(come muoiono i fascisti)
mi domando
cosa ci sia in me di te
(per mio padre già ho
provveduto agli scavi
ho inventariato i reperti
redatto i rapporti)
alcuni miei ingredienti
li trovo solo in te
(parlo di fragilità
e manchevolezze
di sensibilità impiegate male)
lui non c’entra
e nemmeno gli altri fratelli
la segregazione dei geni
smazza bene le carte:
prima che certi tratti
si diano appuntamento
su una stessa faccia
va via qualche generazione
(le memorie
non vivono tanto)

 

Gigi Gigi Gigi
per tuo espresso volere
le tue ceneri
torneranno
in quell’Italia
che hai irriso
per decenni
che hai sprezzato
quello zoccolo di partenza
che non conoscevi più
ormai un profumo vago
sonorità di vacanze
ma a quanto pare
anche un conforto
una via di casa
a cui tornare
(siamo proiettati
per tutta la vita
fuori di noi)

 

Gigi Gigi Gigi
quando son venuto da te
in un mattino indeciso
di questa strana estate
cercando il solito qualcosa
(sapevamo entrambi
che era l’ultima volta)
non mi hai chiesto di me
mangiavi e bevevi vino
con tetra applicazione
(le metastasi
risparmiavano l’appetito)
nemmeno tu
come mio padre
mostravi
un qualche interesse
lo scampolo d’un sentimento
il guizzo di un’emozione
un sospiro di benevolenza
anch’io mangiavo e bevevo
come punendomi
di nuovo arreso
di nuovo nudo
questo per me
è il fascismo
il mio fascismo personale
(il resto sono
le ormai repertoriate
e  sempiterne
geometrie
della violenza:
la Storia)

 

Gigi Gigi Gigi
dopo mezzo secolo
di cruda guerra
la russa bianca
sempre più esile
e più minuta
(poco più di
trenta chili)
e più bella
un’indomito filino biondo
(il calice di Martini
sembrava enorme)
ha ritrovato in lei
la staffetta partigiana
che è stata
la giovane intrepida
(quella che poi non ha voluto
sentir parlare di medaglie
o di encomi ufficiali)
ha finito per dire basta
ha voltato le spalle
all’ultima risacca
del fascismo:
sei morto da solo

 

Gigi Gigi Gigi
ora tornerai in Italia
ti infilerai
nella tomba scassata
di tuo padre
e mio padre
(senza consorti:
il fascismo
è cosa da uomini)
nel vento di conifere
aspettando la neve
la pace della neve
ora siete tutti morti
cari fascisti miei
ora signoreggiano
altri poteri forti
con altre macchie
altre introiezioni
stili più accattivanti
ora il fascismo
vive in me
ora lotterò
con me stesso

“Nero è il nero”

3

di Danilo Mandolini

 

Guardo mio padre guardarmi,
negli occhi parlarmi.

Guardo mio figlio guardarmi,
negli occhi ascoltarmi.

 

 

 

Bari, 15 ottobre 1959
[…]
La partenza per Napoli si avvicina.
Domenica mattina alle due e trenta, infatti, lasceremo Bari.
[…]
Dicono che per andare a Capri, da Napoli, ci vogliono solo tre ore di vaporetto; sicché, volendo, si può andare anche tutte le sere.
[…]
Rispondimi subito.
[…]

 

 

 

I sassi neri nel buio sono bianchi
ed io parlo di mio padre che non c’è,
che due volte è morto e che mi manca,
che lo prego perché torni nei miei sogni
a dire cos’è stato del suo essere
e del mio che ne sarà già da domani.

Nero è il nero che qui si ostina,
che sembra sopravvivere alla vista.

 

 

 

La sera del ventuno dicembre del millenovecentosettantasette un treno si fermò (fu fermato) nei pressi di Faenza.
L’aria era calma e fredda, prima di partire, scossa soltanto dalla vertigine invisibile che il vento crea quando s’insinua tra due pareti prossime e senza luce nel mezzo.
Così… Rapidamente salendo e poi precipitando, come a tracciare i confini di una percezione che scappando ti stordisce.

 

 

 

Nel mezzo di un dicembre senza luce
la fessura di un sorriso che saluta
lacera e ferisce come un taglio
il volto di chi guarda e non capisce
che un lampo non dice chi è che resta
o chi muore e non sa cosa succede.

Tu cadevi in un fremito convulso
e con forza mi spingevano lontano.

 

 

 

Napoli, 9 novembre 1959
Mia cara, finora non ho potuto vedere Il musichiere perché alle nove di sera lo spaccio chiude.
Questo mi dispiace molto e tu sai quanto mi piaceva Il musichiere.
Purtroppo è così.
Pazienza.
[…]
Ti bacio con amore.

 

 

 

Tutto è fermo e il mondo corre
sotto l’azzurro luminoso e alto
dell’ambulanza che fende aria e vie,
che spinge avanti cancelli e case
fin dove il fiato si spezza, rovina
solo a pensarci vicini e nostri.

Altri come noi respirano l’assenza;
come te: morti e vivi dentro un corpo.

 

 

 

Sorride, sorride e serra gli occhi
mentre la suora che va e poi ritorna
implora di dormire e non stancarsi,
ripete con parole che non dice
che la pena è un passo da levare
incontro a un luogo senza nome,
qui, tra letti e foglie, oltre i vetri.

Sorride, sorride e serra gli occhi.

 

 

 

Arrivarono nel buio la mattina
mia madre col fratello dentro un’ombra
a segnare una dimora che si scorda,
che si scorge, si perde e che lascia
la memoria in pegno alla paura
nell’istante trafitto dalla quiete.
Poco di certezze conoscevo, poco
di città e distanze ricordavo.

 

 

 

Napoli, 29 settembre 1960
Mia cara, torno di nuovo a te per rispondere alla tua ultima lettera e per darti mie notizie.
[…]
Io sto sempre meglio, mangio molto e non sento più alcun fastidio.
Ancora mi seguitano le cure.
Credo ancora per poco, però, perché a me sembra di essere ormai guarito.
[…]
L’ospedale si trova in uno dei punti più alti e più belli di Napoli.
Da quassù, dal Vomero, si vede tutta la città.
[…]

 

 

 

(il figlio che insegna al padre a leggere e scrivere)

Ripete le parole che gli dico,
legge a voce alta e senza ritmo,
scrive con le dita che gli tremano
frasi che dell’essere raccontano
il muoversi in noi come la sabbia
di mattini, di nuovo tempo che verrà.

Tredici anni e non ero già più figlio;
un po’ padre, un po’ madre ero anch’io.

 

 

 

Senza data.
Sulla cartolina: la foto in bianco e nero del Tevere a Roma

Ti porto sempre nel mio cuore, ti abbraccio con amore.

 

 

 

(i morti sui campanelli delle case)

Fessure e riflessi che danno sul vuoto,
parole randagie che sono dei nomi,
folle a seguire che sono derive
e nulla che parli del dire che cade…
Ora li sfioro col dito e con gli occhi
quei segni che sanno di noi che giungiamo,
quei nomi tra i quali c’è anche mio padre
che vive appartato nel soffio di sé.

 

 

 

Napoli, 29 novembre 1960
[…]
Credevo di essere a casa in questa settimana; invece, non c’è niente da fare.
È tutto stato rimandato ai primi della prossima.
Ormai, però, è deciso.
[…]
Sapessi quanto sono lunghi questi giorni.
Non passano mai.
[…]
Mi ha fatto un bell’effetto, sai, vedere il mio paese in televisione.
Vedere gente che conosco.

 

 

 

Guardo mio figlio parlarmi,
negli occhi guardarmi.

Guardo mio padre ascoltarmi,
negli occhi guardarmi.

 

*

 

Stanno, le sagome degli oggetti ,
quelli noti e quelli sconosciuti,
nella gravità del loro stesso peso
e sotto il peso di onde dal suolo
si donano fattura e sembianze
di minima materia senza corpo.

Il ricordo atteso dai rumori
si sperpera, si spegne lentamente,
nel breve viaggio che oscillando va,
attraverso ciò che è già stato,
oltre i confini di ogni forma.

 

 

 

E si sta aggrappati ad un’attesa
quasi come a cercare una forma,
un modo per asciugare i ricordi
sotto il sole acceso d’agosto.

Transita una nuvola sul viso
e non è grande abbastanza, il viso,
per raccogliere, oltre alla nostra,
anche la bocca socchiusa degli altri.

E gli altri ci guardano in bocca
aspettando un cenno d’affanno
e una prossima, vivida età.

 

 

 
I ciottoli, ai bordi del cammino,
riflettono il seme delle frasi,
spingono il clamore delle parole
oltre la parte più scura dell’ombra.

Ed è un po’ come scappare dal tempo,
dal tempo che ci porta in inverno
e che ci lascia una coltre di neve
a custodia duratura del sole.

 

 

 

*
[I testi sono tratti da Danilo Mandolini, A ritroso (L’obliquo, Brescia, 2013)]

 

La nuda vita

0
Murales realizzato dall'Associazione Colors Revolution a Lampedusa
Murales realizzato a Lampedusa dall’Associazione Colors Revolution

di Agostino Zanotti

Avviare una campagna per l’apertura di un canale umanitario verso l’Europa implicitamente è mettere una pezza alla problematica della condizione di vita delle persone nei vari Paesi del mondo. E’ vero che  in questo modo si tutela il diritto alla fuga, però così facendo si accetta la situazione che li spinge a fuggire da luoghi  dove esistono poteri dittatoriali e logiche postcoloniali che rendono inabitabili alcuni Paesi.

Alogenuri d’argento

4

di Giacomo Cerrai

 

l’indulgere – certo – ad uno
sguardo microscopico
per puro terrore
(il sovrastante è enorme – infatti –
ed inventato)
produce visioni minime.



1.

molti di questi chiaroscuri
erano in riva a un lago, 	fatti
per lo più d’ombre		e varie
tonalità d’un grigio affettuoso.
Erano a volte l’aria di chi pensa ad altro,
più spesso il sorriso di chi 
– innocente –
si costituisce.
C’era molto addensarsi di corpuscoli
come presenze in controluce, 
una non reversibile
sconfitta della grana.  	   E le strisce
di bianco come 
lo scontornato perimetro
di prove documentali −
d’un paesaggio e persone e pietre
poi dispersi.

Il Palinsesto di Enrico Capodaglio

0

palinsesto

Nel corso degli ultimi anni, da settembre 2008 a gennaio 2013, il critico e romanziere Enrico Capodaglio ha scritto e ordinato un proprio zibaldone di pensieri, di rado intervallati da brevi racconti e apologhi, che l’artista americano Nathaniel Katz ha ora pubblicato on-line in un sito dedicato

Delvaux a Firenze

0

a Firenze, giovedì 21 novembre 2013, alle ore 18:30

presso Cuculia (Via dei Serragli 3R)

presentazione della raccolta di versi

 

Delvaux 

 di

Marco Giovenale

 

(Oèdipus, 2013)

 

 Interventi critici di

Cecilia Bello Minciacchi

 

Parte Eurosur «il grande fratello del Mediterraneo»

0

di Marco Benedettelli

Da dicembre il «super sistema» di controllo. Molti dubbi sull’efficacia per il salvataggio.

[Articolo apparso su “Avvenire” 23.10.2013]

Il «grande fratello del mare» capace di vedere in tempo reale sulla superficie di tutto il Mediterraneo, entrerà in funzione in dicembre. Si dovrebbe trattare di un mezzo complesso, dotato di tutte le migliori tecnologie, per scoprire quello che si muove sulle acque del Mare nostrum ed attivare di conseguenza le contromisure necessarie. Il Consiglio Ue, riunito ieri a Lussemburgo nella sessione affari generali, ha infatti approvato senza discussione l’entrata in vigore del sistema di sorveglianza dei confini dell’area Schengen, noto come Eurosur, che integrerà il lavoro svolto dall’agenzia europea per il controllo delle frontiere, Frontex.

Targhe e monumenti. Arroganza e bullismo della memoria fascista

21

di Giacomo Verri

fascismo

Non s’intitola una via, un monumento, un ponte con leggerezza e superficialità. Non lo si fa perché piace o perché a un’amministrazione comunale va così. E infatti non credo che il proliferare di targhe e targhette dedicate a militi e marescialli fascistissimi discenda da decisioni prese con avventatezza. Si tratta piuttosto di casi balordi di revisionismo tenace, quando va bene, o di scura arroganza, di provocazione beota, negli altri casi. C’è dunque da sbizzarrirsi; ed è difficile dire quale delle due cose sia peggio.

La Storia della Repubblica Italiana, la Storia con la S maiuscola, fatta di tante storie relative, ma così importanti da diventare somme, discende solo da chi, per esistere, ha Resistito (scrisse il partigiano Beppe Fenoglio: “partigiano, come poeta, è parola assoluta”, non ammette le gradazioni, non sente le scalfitture, non teme i distinguo, né quelli doverosi portati dalla ricerca storica, né quelli arbitrari e degenerati avanzati dai revisionismi). Ed è la Storia stessa a insegnare perché è giusto celebrare cinque partigiani e non venti repubblichini. Non solo, come scrisse una volta Alberto Asor Rosa, parafrasando Italo Calvino, perché “dietro il milite delle Brigate nere più onesto, più in buonafede, più idealista, c’erano i rastrellamenti, le operazioni di sterminio, le camere di tortura, le deportazioni e l’Olocausto; [mentre] dietro il partigiano più ignaro, più ladro, più spietato, c’era la lotta per una società pacifica e democratica, ragionevolmente giusta, se non proprio giusta in senso assoluto, ché di queste non ce ne sono”; non solo perché le camicie nere seguitarono a combattere a fianco di una potenza, o forse sarebbe meglio dire ai piedi di una potenza, quella tedesca, entrata da invasore in territorio italiano; non è giusto – non dico ricordarli, ché quello si può anche fare, ma celebrarli – perché i militi che decisero di intraprendere la via più nera, non volevano l’Italia del 25 aprile, del 2 giugno, della Costituzione, non volevano un posto libero, pacifico, democratico. Volevano ancora obbedire e odiare perché ai loro occhi quello era l’insegnamento più gagliardo che avessero mai ricevuto. Alcuni, coi decenni, se ne pentirono. Fortunati quelli che hanno provato vergogna e hanno sofferto nelle loro coscienze. Ma spazio per celebrarli non ce n’è.

Il giurista e filosofo tedesco Carl Schmitt, che pure fu iscritto al Partito Nazista, seppe scorgere con asciutta precisione alcuni agghiaccianti aspetti di quella guerra che vollero le alte gerarchie tedesche e alla quale furono costretti i partigiani, una “guerra dell’inimicizia assoluta”, una guerra che “non conosce alcuna limitazione. Trova il suo senso e la sua legittimità proprio nella volontà di arrivare alle estreme conseguenze”. E ancora: “Il partigiano moderno non si aspetta dal nemico né diritto né pietà. Egli si è posto al di fuori dell’inimicizia convenzionale della guerra controllata e circoscritta, trasferendosi in un’altra dimensione: quella della vera inimicizia, che attraverso il terrore e le misure antiterroristiche cresce continuamente fino alla volontà di annientamento”. Quelle furono le condizioni. Anche in Italia: i militi della RSI, asserviti alle divisioni tedesche, vollero una lotta che non ebbe più nulla di umano, niente regole, niente misericordia, nessuna norma bellica. Basti pensare alla infame e spietata violenza che seppero perpetrare anche verso i civili. Si calcola che furono tra i dieci e i quindicimila quelli uccisi dai militari tedeschi o della Repubblica Sociale tra il 1943 e il 1945. Solo dell’agosto ’44 – e pesco quasi a caso – si possono ricordare diversi episodi che dimostrano la schifosa perversione nazifascista: dall’abietto informatore olandese della Gestapo che il 4 agosto comunica alle forze naziste il nascondiglio della famiglia di Anna Frank; alla fucilazione senza processo, sei giorni dopo, in piazzale Loreto a Milano, di quindici partigiani prelevati dal carcere di San Vittore (a sparare furono i militi della Legione Ettore Muti); a una delle più spaventose tragedie dell’umanità: il massacro di Sant’Anna di Stazzema, 12 luglio 1944, oltre 500 civili trucidati dalla sedicesima divisione delle SS.

Bene. E cosa si fa oggi in Italia? Si preserva, certo, il ricordo di chi ha dato la vita per Resistere. Ma non si fa abbastanza per tenere a freno chi sputa su quella memoria, e soprattutto chi bellamente vuole affiancarvi altre memorie, più torve e non degne di essere innalzate al pubblico ricordo. C’è allora chi genericamente vuole incidere targhe a ‘martiri’ fascisti. Ma già in termini filologici la questione non sta in piedi: martire è colui che per testimoniare una fede immola la propria vita in presenza di una forma di persecuzione. E durante il Ventennio, e anche dopo, sotto la vergognosa Repubblica Sociale, quale persecuzione hanno mai subito questi ‘martiri’?

La faccenda diventa particolarmente grave quando la celebrazione, anziché procedere da qualche fanatico (come a Girifalco, provincia di Catanzaro, dove ai piedi della madonna di Monte Covello è apparsa, nell’agosto del 2012, una targa dedicata ai martiri fascisti; e pochi giorni or sono la locale sezione della Fiamma Tricolore ha organizzato una lugubre manifestazione con tanto di saluto romano e magliette con lo slogan: ‘fiero di essere dalla parte sbagliata’), è coltivata pubblicamente dalle amministrazioni comunali. A Voghera, a esempio, dove nel 2010 la giunta Pdl e il sindaco ‘afflissero’ la popolazione con una targa in memoria di sei repubblichini, appiccicata, guarda caso, proprio sul muro del Castello Visconteo, che durante la Resistenza fu una gattabuia per partigiani e antifascisti.

Ma poi c’è Cremona dove la giunta comunale, sempre nel 2010, ha intitolato una via a Aldo Protti che, oltre a essere stato un buon baritono, con quella sua voce fece il fascista fanatico, in Val di Susa, e cantò allegramente accompagnando la marcia delle camicie nere che salivano a fare i rastrellamenti – più di quaranta, per inciso – su ordine di quello squadrista di Roberto Farinacci.

Avanti. Ci sono comuni più o meno grandi dove le amministrazioni amano tirare fuori dai bauli ferrati vecchi cimeli e altre anticaglie: nel piccolo paese di Salle, in Abruzzo, il sindaco, Florindo Colangelo, ha deciso di rispolverare a pochi giorni dalla Festa della Liberazione un marmo del 1933 col quale il Municipio ringraziava ‘l’uomo del destino’ per avere ricostruito il paese dopo il terremoto (come se ricostruzione rimasse, anziché con atto dovuto, con dono elargito).

A Brescia, poi, s’è tentato di fare le cose più in grande. Fin dal 2011 infatti la giunta comunale aveva proposto, dopo un restauro che è infine costato 150.000 euro, la ricollocazione in Piazza Vittorio del Bigio, il colosso realizzato da Arturo Dazzi nel 1932, un bolide che venne elogiato da Mussolini come raffigurazione dell’Era fascista. Figuriamoci! Poi son venute le proteste, l’ANPI ci ha messo anima e corpo e il colosso alto sette metri e mezzo per ora se ne sta nei sotterranei. Ma Emilio del Bono, sindaco di Brescia dal 10 giungo scorso, non ha intenzione di buttare alle ortiche i soldi spesi per far bello il Bigio.

E di palanche (poche o tante che siano) spese male ce ne sono molte altre. Solo al massacratore di partigiani Giorgio Almirante sono stati dedicati, in giro per lo stivale, 40 strade, 5 piazze, 2 parchi, 1 ponte e 1 busto bronzeo. Quest’ultimo ad Affile, 1600 abitanti, in provincia di Roma, là dove la giunta comunale s’è data alla gioia pazza e ha inaugurato anche un sacrario a quel bel tomo di superfascista che fu Rodolfo Graziani (tirato in piedi con 130.000 euro sborsati dalla Regione Lazio). Brava persona, maestro di stragi e di perversioni, assieme a quell’altro gerarca, Ugo Cavallero, maresciallo d’Italia, al quale la giunta di Casale Monferrato, nel 2011, ha intitolato i Giardini Pubblici: per entrambi sarebbe sufficiente ricordare il ‘nobile’ comportamento tenuto durante la guerra d’Etiopia, quando non esitarono a adoperare su donne, bambini e vecchi, alcuni gas tossici non previsti dalle convenzioni internazionali.

Tant’è. Questo non è revisionismo. Peggio. Queste intitolazioni sono atti di provocazione, sono marche d’arroganza di una politica ‘bulla’ e smargiassa che calpesta ciò che ostacola il suo borioso cammino. Sono brutali e stolide dimostrazioni di forza che assomigliano a una pernacchia o alla idiota ostentazione di un paio di chiappe in mezzo alla strada. Ma hanno ben altro peso. Purtroppo. Gravano sulla memoria e la insudiciano come la bava molle di uno sputo in cima alla nostra Costituzione.

Che dire, infine? Che almeno sappiamo con chi si ha a che fare.

Il dono e altri inediti

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di Fernanda Woodman

Il dono

è stato in un primo pomeriggio

il mio ombelico si è deciso a darti udienza.

con il rasoio hai tagliato un lembo di nuvola
per tamponare l’arteria radiale.

il dono è stato criticato dagli angeli del poster.

con un cavo rotto hai fatto un braccialetto
e mentre la polvere danzava nella stanza
c’è stata una scossa così forte
che il muro si è crepato ed è entrata più luce.

Galerie Laure Roynette (Parigi) & La Camera Verde (Roma)

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Samedi 16 Novembre 2013 – Paris

18,00 – 21,00

LA GALERIE LAURE ROYNETTE

Présente

LES EDITIONS DE LA CAMERA VERDE

Sulla questione maschile

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suicidio-120417121154_big di Gianni Biondillo

La letteratura non mi aiuta. Troppo alti, troppo nobili i suicidi nelle pagine dei libri. Le delusioni amorose di Werther, quelle politiche di Jacopo Ortis mi risuonano sorde, oggi, lontano da tanta temperie romantica. E neppure il mio amato Leopardi, la sfida alla natura matrigna di Saffo o Bruto, mi basta: il suo resta il racconto di gesta eroiche, per quanto esistenziali e individualistiche. Oggi sembra si muoia soli, senza spiegazioni; quelle scritte nelle lettere d’addio sono, spesso, solo pezze che non chiariscono nulla.

Sempre più, in questi ultimi anni, le notizie sui sucidi trovano spazio sui media. Pare quasi una epidemia. Basterebbe controllare i dati Istat per scoprire che non è vero. Nei paesi Ocse l’Italia ha uno dei livelli più bassi di mortalità per suicidio e fra il 1993 e il 2009 la percentuale sembra diminuire, lentamente, di anno in anno. Ma si sa, le statistiche bisogna saperle leggere, fermarsi al dato bruto è un errore.

Bisognerebbe studiare i dati nel dettaglio. Scopriremmo così che se i tentativi di suicidio quasi si equiparano fra i sessi (con lieve predominanza maschile), i suicidi reali hanno una supremazia maschile che impressiona. Solo uno su quattro è femminile. Se cercare la morte è una tendenza condivisa fra i sessi, trovarla, riuscirci, morire per davvero, è cosa di uomini.

Non basta. I dati forniti dalla Polizia di Stato e dai Carabinieri dicono ancora altro. Vero: dal 2007 al 2010, cioè dall’inizio della crisi economica, i tentativi di suicidio sia maschili che femminili sono comunque diminuiti, da 3234 a 3101. Ma analizzando le tabelle scopriamo che mentre i suicidi reali femminili diminuiscono, quelli maschili aumentano in modo considerevole. Da 2201 a 2399. Vogliono morire e ci riescono. Si uccidono soprattutto nel Nord-Ovest e nel Nord-Est, dove la crisi ha colpito durissimo. Hanno più di quarant’anni, un titolo di studio medio basso. Sono spesso padri di famiglia. Spessissimo sono padri separati.

È come se la crisi avesse scoperto il vaso di Pandora mettendo in mostra la rigidità del modello maschile italiano e la sua incapacità di adattarsi al cambiamento.  La sua tragica inadeguatezza. Le donne, di fronte al disperdesi dello stato sociale, per antica formazione alla cura familiare, tengono botta, resistono. Gli uomini, perduta la dignità del lavoro, perdono il loro ruolo sociale. Si fanno anomici. Non sanno come reagire, non hanno l’armamentario adatto, e nelle loro espressioni più acute, reagiscono dando la morte. Spesso a se stessi, altrettanto spesso alle loro compagne o ex compagne.

Si parla da qualche tempo, a ragion veduta, di una questione femminile, ma forse dovremmo avere il coraggio di iniziare a parlare anche di una sempre più virulenta questione maschile. Non credo nelle interpretazioni atavista dei dati statistici. Siano esse per suicidio o per femminicidio. Non credo nel numero fisiologico, endemico, “naturale”, di morti. La natura dell’umanità è culturale. Non si da la morte, non ci si toglie la vita, per istinto, per naturale condizione di genere. È una spiegazione pilatesca, farraginosa, miope.  Vecchia come è vecchio il modo di guardare all’universo maschile.

Non è un caso che i giornali abbiano iniziato a raccontarcele queste storie. Non perché ora all’improvviso fa tendenza, va di moda. È l’indicatore, invece, di una nuova sensibilità. Per decenni s’è taciuto, come se morire nel chiuso del proprio appartamento fosse un fatto domestico, una vergogna privata. Ma la percezione di questi fenomeni sociali sta cambiando. È cambiata. Proprio come è accaduto con i padri separati, che decenni addietro vivevano la loro condizione come una questione personale, un’onta da non raccontare: negli anni – cambiando culturalmente la propria idea del ruolo genitoriale – hanno sempre più avuto il coraggio di mostrare la loro ferita, associandosi, ritrovandosi per parlarne, cercando solidarietà, aprendosi al mondo con tutte le loro contraddizioni.

La società italiana è ancora profondamente maschilista, in una realtà che non può più reggere questi modelli obsoleti l’irruzione della crisi economica ha aumentato in modo esponenziale il senso di spaesamento sociale. Cartina di tornasole, in fondo, sono i dati dei suicidi in Italia nelle comunità di non italiani. In quei casi la percentuale femminile aumenta sensibilmente, passando ad 1 su 3, in certe realtà anche 1 su 2. Senza un’identità chiara, senza diritti, senza una rete sociale, anche le donne perdono la loro forza solidale, si ritrovano deboli e inadeguate tanto quanto gli uomini.

Se la crisi economica non cambierà presto di segno (e quanta è grande la responsabilità della nostra gerontocrazia politica!) leggeremo ancora, purtroppo, altre di queste storie. Quello che dobbiamo fare dal punto di vista culturale è stimolare e non ostacolare l’inevitabile cambiamento dei nostri ruoli di genere, ancora troppo statici, evitando pericolose nostalgie, allargando la rete di solidarietà e il sistema dei diritti condivisi. Cercare, insomma, di non avere quelle morti private, quei talenti inespressi, siano essi di donne o di uomini, sulla nostra coscienza collettiva. Farlo, ora.

(pubblicato su L’ordine, inserto domenicale de La provincia di Como, il 3 novembre 2013)

Le tracce di Manolo. Inseguendo un simulacro di Manuel Vázquez Montalbán, a Barcellona

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di Giovanni Dozzini

casa leopoldo

Il ristorante dovrebbe essere da qualche parte dietro Plaça Sant Jaume, verso la cattedrale, io percorro l’ultimo tratto di Carrer Ferran cercando disperatamente di connettermi a questo meraviglioso servizio di wi-fi pubblico e gratuito che dovrebbe coprire tutta la città e che invece per qualche motivo pare funzioni solo nei pressi di Paral-lel, dall’altra parte del cuore vecchio di Barcellona, ai piedi del quartiere in cui vivono gli amici che mi ospiteranno in questi giorni appiccicosi di metà ottobre e appena oltre quello in cui è nato e cresciuto l’uomo che è il motivo stesso del mio piccolo viaggio. Sotto i palazzi del potere, tra la Generalitat e l’Ajuntament, riecheggiano le voci di un gruppo di persone in là cogli anni che protestano e sbraitano con più rabbia che convinzione, “No es crisis, es capitalismo”, in castigliano, e sono poche e quasi confuse con il buio e la gente che passa nemmeno troppo incuriosita, i mossos d’esquadra, con la loro fama di cattivi che la scorsa settimana hanno pensato bene di assecondare pestando a morte per strada un imprenditore omosessuale un po’ su di giri, li tengono d’occhio sbadigliando dall’angolo della piazza che secondo i miei calcoli, o per come me li ricordo, dovrebbe portarmi dalle parti del mio obiettivo di stasera. La cena del congresso, la prima delle due in programma, l’unica alla portata delle mie tasche: pago diciassette euro e mangio assaggi di paella e riso, e bevo vino, tutto buono, in potenza, tutta roba Slow Food. La gente che grida è un pezzo della Spagna che ci raccontano tutti da mesi, la Spagna che annega nella disoccupazione e cerca di venirne fuori smantellando lo stato sociale o dando corda alle peristalsi separatiste delle terre più ricche, la Catalogna ribollente su cui ora sto poggiando i piedi su tutte. Una povertà che mi riguarda ma che per ora mi costringo a tenere a bada, i miei problemi di budget al confronto sono nulla, e prima o poi dovrò fare i conti anche con questo.

Nel ristorante mi imbatto quasi improvvisamente, lo pensavo più in là e invece è già qua, e in vetrina un grande adesivo rosso conferma ciò che fino a un secondo prima era solo virtuale, come molte delle cose su cui ormai siamo abituati a fare affidamento nella vita: nel pdf inviatomi dagli organizzatori c’era scritto che la cena si sarebbe fatta al ristorante Allium di Carrer del Call, e ora ho la certezza provata che le cose andranno davvero così. Ma è ancora presto, le nove arriveranno tra mezz’ora, butto un occhio dentro e giro i tacchi, l’aria di Barcellona oggi è mezza avariata e la gola brucia di quella condizionata, e che non finirò mai di maledire, di Ryanair. Ho bisogno di sedermi, ho bisogno di bere qualcosa. In cima a Carrer Ferran c’è un vecchio bar che somiglia poco allo stuolo di locali in franchising o in fotocopia che si incatenano lungo il resto della via. Vado lì, e mi faccio una cerveza clara.

Mezz’ora dopo sono di nuovo davanti al ristorante, entro e chiedo del congresso, la cameriera dice che è ancora presto e mi fa bere un bicchiere di rosso che non me la sento di rifiutare. Nel tragitto da casa di Bea e David a qui ho già attraversato il cuore della Barcellona di Manuel Vázquez Montalbán, il mio uomo, o perlomeno di quella che siamo abituati ad associare a lui e a Pepe Carvalho: il Raval, il Barrio Chino, il quartiere del popolo e dei pochi di buono, delle puttane e degli immigrati, coi suoi musei d’arte moderna e le sue piazze disinfettate da tre o quattro lustri di riqualificazione prepotente. Undici anni fa, quando studiavo qui, era l’altra faccia della Luna, dalla mia parte della Rambla c’era il Barrio Gotico e c’erano le viuzze medievali e i bar da giovani stranieri viziati, dall’altra sorgeva quel peccaminoso mondo fatto di rottami di palazzi e gente torva e scura frutto di secoli di mescolanze di sangue e di paure.

Nei mesi del mio Erasmus Vázquez Montalbán era ancora vivo, ma io pensavo di avere di meglio da fare che non andare a cercarlo o a cercare le tracce della sua letteratura così aderente alla materia, già amavo Carvalho e già sapevo che doveva aggirarsi in quelle strade, ma non potevo far altro che camminare e rubare occhiate fugaci, perché ero convinto, giovane presuntuoso dall’animo eccitato, che quella materia, la realtà, mi sarebbe venuta tutta addosso da sola.

E quindi oggi, più o meno un’ora fa, sono passato per la prima volta in vita mia – o per la prima volta coscientemente – nella strada in cui Manolo è cresciuto. Carrer d’En Botella è minuscola, corta, uguale a mille altre, poche decine di metri che si innestano nel corpo storto di Carrer de la Cera proprio laddove si torce, col buffo risultato di comporre una sorta di enorme Y fatta di asfalto e cemento. Una porta, l’altra, e quale finestra, non lo posso sapere e mi muove la fretta di mettere insieme più tracce possibili, quelle che da ragazzo avrei avuto tutto il tempo di cercare e riconoscere, così passo senza calma, guardo e registro, mi pare, ed è come fare una crocetta in un elenco della spesa stupido che almeno ho avuto il buon gusto di non mettere per iscritto. Poi mi perdo un po’, vado un po’ avanti e un po’ indietro finché non mi accorgo che dietro l’angolo comincia il grande vuoto della Rambla del Raval, quella col gatto grasso di Botero e i palazzi occupati e malandati, quella che un tempo non era così pulita e così piena di verde, o forse mi sbaglio, la memoria gioca già brutti scherzi, e i ritorni sono stati tanti, e mai con lo stesso grado di attenzione e lo stesso tipo di intenzione.

Seduto al bancone del ristorante Allium di Carrer de Call, un’ora dopo adesso, ripenserò alla vista dell’alto e scintillante cilindro ellittico che hanno piantato proprio al centro della piazza che dal 2009 porta il nome di Vázquez Montalbán, che è come un rigonfiamento della Rambla più plebea di Barcellona, un hotel di vetri viola che suona come un’astronave atterrata di corsa in mezzo alla vecchia suburra. Altri hanno già scritto dell’orrore che Manolo avrebbe provato a vedere il Barceló Raval Hotel fare ombra al suo nome, l’ho fatto anch’io fidandomi senza averlo mai visto coi miei occhi, e al momento di trovarmelo davanti, e sopra, non riesco a reprimere un sospetto di pulita e assurda bellezza che peraltro, è vero, difficilmente avrebbe potuto percorrere i nervi suoi, quelli di Manolo. Poco oltre c’è il ristorante in cui avevo pensato di pranzare sabato, tra due giorni, il giorno prima del ritorno in Italia, il ristorante che dicono fosse una sua seconda casa, o quasi, lo trovo e prima ancora di guardarlo mi faccio atterrire dalla cifra che campeggia in bella evidenza sul menu affisso alla porta vetrata: 45, come gli euro che mi costerebbe quel pranzo, e così non ho nemmeno il bisogno di decidere di accontentarmi di una perlustrazione da fuori, che quantomeno mi dà la soddisfazione di indovinare una foto di Montalbán su una parete, forse a ridosso del tavolo di Casa Leopoldo dove deve aver mangiato molte volte, lui come Carvalho.

una claritaQuando sarò a cena, e cioè adesso che ho buttato giù l’ultimo sorso di questo vino tinto eccellente che nel mio stomaco già fa a cazzotti con la clarita e di cui purtroppo la mia memoria smarrirà il nome, non avrò più il tempo di riflettere sulla mia goffa traversata del Raval, perché ci sarà da individuare commensali di pregio che diano senso alla mia presenza così velleitaria, così azzardata. E naturalmente è stupido, è scemo, scegliere un compagno di cena tra decine di sconosciuti sarebbe ancora più velleitario e goffo, ma ho la fortuna di incrociare lo sguardo di un biondo capelluto e appena barbuto che sorride e si presenta, e parla italiano anche se si chiama Andrei e vive nel Vermont anche se è russo, e domani terrà una relazione sul rapporto tra Montalbán e la Grecia, il che mi suggerisce di avere a che fare con un uomo con molti tasselli fuori posto, e di farmelo sedere accanto perché mi spieghi come poterli mettere insieme con un’idea di senso anche solo approssimativa.

Domani arriverò in ritardo alla sua conferenza, ma questo non lo posso sapere ancora, tardi per non aver ritrovato in tempo, nella corsa continua di questi tre giorni barcellonesi, una delle tante sedi dell’università che si presta al congresso, la Pompeu Fabra, gloria della Generalitat, tardi ma non così tanto da non poter ascoltare il finire dei suoi ragionamenti, che adesso, tra i risi e il vino, mi anticiperà solo fino a un certo punto. Poi ci sarà un messicano pingue emigrato in Andalusia che parlerà di Carvalho e il Messico, anzi di Carvalho e del detective Filiberto García e di Rafael Bernal, gente che io non conoscevo, mi confesso, poi ci sarà una tavola rotonda sul giornalismo con pezzi da novanta che conoscevo appena, due dei quali, per un caso che non voglio sminuire troppo, addirittura compaiono nel libro che tradurrò da qui a Natale, Spagna magica che gioca con me e mi fa un po’ trasalire.

Mentre il mio riso, o forse la mia paella, tarda ad arrivare, non so che ascoltando quella gente e i loro racconti su Montalbán e il passato e il futuro della professione non sbadiglierò nemmeno una volta, come invece ormai faccio sempre da quindici anni, a volte ininterrottamente, quando mi siedo tra un pubblico chiamato ad ascoltare un qualsiasi oratore. Sentirò i loro dubbi e le loro idee sul giornalismo di domani, esposti in maniera così genuina e in fondo grossolana di fronte a una ventina di persone chiuse tra le quattro mura di una piccola aula della sede di Poble Nou della Pompeu Fabra, e inevitabilmente penserò ai panel e agli incontri super-referenziati del Festival del Giornalismo che ogni primavera viene ospitato dalla città in cui vivo, senza sapere che proprio in quelle ore starà divampando una polemica devastante sul suo, di futuro, non del giornalismo ma del festival. E avrò persino la presunzione di percepirlo migliore, questo sparuto consesso spagnolo, per gli sbadigli che non mi ha indotto e per il gusto del buon senso dell’esperienza, e dopo un bocadillo al maiale lungo una delle vie che portano verso il mare, mi siederò più o meno nello stesso posto di prima ad ascoltare un americano che ha scritto un libro sul calcio spagnolo e sui suoi conti in sospeso con la letteratura e il cinema e un catalano che riassume scientificamente e con qualche forzatura filo-indipendentista l’opera di Vázquez Montalbán dedicata allo sport.

Sarà la fine del congresso, per me, ma non sarà per quello che sarà valsa la pena di essere venuto a Barcellona. Quello capita già adesso, a cena, al ristorante Allium, lontano dal Raval e dal Poble Nou, cogli organizzatori del congresso seduti a un tavolo nella saletta di là e io seduto in mezzo a quindici, forse venti italiani più Andrei, né vecchio né giovane com’è, grossomodo come me. Davanti a noi una giovane donna che lavora per le edizioni di Slow Food e un vecchio cuoco toscano che ci fa lezione e ci ascolta, meraviglia tra commensali che succede di rado: la settimana scorsa ha cucinato per la moglie di Manuel Vázquez Montalbán nel suo locale ricavato in un vecchio borgo diroccato del basso Appennino aretino rimesso a nuovo un quarto di secolo fa bell’e apposta, per una serata organizzata come questa proprio da Slow Food, e adesso si fa la gita a Barcellona in compagnia. Staremo insieme fino a una ventina di minuti prima che cominci il giorno in cui Montalbán sarà morto da dieci anni esatti, ma nessuno ha il bisogno di rimarcarlo, mai, Mauro ci racconta del ristorante e del suo cucinare, dei suoi viaggi a San Pietroburgo e dei russi che parlavano napoletano, del Pci e delle tasse che ormai ammazzano l’impresa, del suo allievo giapponese che ha aperto a Kyoto riproducendo i suoi piatti e adesso, con il fisco che gli piglia solo il 10%, è uno dei più apprezzati del Sol Levante.

Mauro parla e beve e mangia, Andrei parla ridendo, a volte ridendo persino troppo, e quando si tratta di discutere di cibo questi due qua davanti, Mauro e la tipa di Slow Food, recitano un teatro che io afferro appena e che per forza mi affascina, abbiamo tutti fame e abbiamo tutti sete, più di quanto a giudicare dal poco che ci riempirà piatti e bicchieri ci converrebbe avere. Poi le righe si sciolgono, in strada, in pochi attimi una chiacchiera confonde più del dovuto e c’è chi è andato via e chi se ne sta andando, e prima di mezzanotte io sono già sulla Rambla, senza più sentimenti per la Barcellona che avevo così forsennatamente amato undici anni fa e senza troppi sentimenti, devo ammettere, per l’uomo di cui sono venuto a cercare le impronte e le ombre in quest’altra Barcellona che mi ritrovo a percorrere adesso. Forse è il cuore che si indurisce, forse è il tempo che prosciuga, ma sono i sensi e il cervello a godersi la felicità di essere qui, il riso, il vino, i racconti, quelle due ore di giro del mondo tra San Pietroburgo e il Vermont passando per la Grecia e il Giappone, e la Toscana.

Manuel Vázquez Montalbán è morto troppo giovane, come tutti, dieci anni fa, e io in questo momento sento più di ogni altra cosa la stanchezza e il riempimento di mezza giornata trascorsa muovendomi, sempre, così lontano dalle parole lette e da scrivere, così lontano dai giorni di tutti i giorni. Mi aspetta un letto che è un divano, in una casa sconosciuta, penso al sonno e al wi-fi di Bea e David che mi consentirà di riallacciare i contatti col mondo là fuori, con la donna che presto sarà mia moglie e con le immagini già vecchie dei giochi di oggi di mio figlio. Domani il congresso, altri viaggi e altre stanchezze, e poi niente ristoranti, basta Raval, ho deciso, Manolo è morto e ha scritto così tanto, ascoltare i discorsi dei relatori russi e messicani e americani e catalani, ascoltare i ricordi di Forges e di Enric González, andrà tutto benissimo, sarà sufficiente, varrà la pena, certo, è chiaro, lampante, sicuro. Con tutto quel che c’è da vedere, e da mangiare, e da bere, con tutte le parole che impara mio figlio, ogni giorno una nuova, macché una, cinque, dieci, di più, con tutto quel che può capitare mettendosi a cercare tracce di uomini, senza poterselo figurare, senza poterlo anche solo immaginare, più che altro rimpiango che Vázquez Montalbán non mi sia mai venuto a bussare alla porta, undici anni fa, quando ero giovane e passavo il mio tempo a Barcellona, per portarmi a mangiare a Casa Leopoldo e raccontarmi qualcosa, qualcosa che avesse a che fare col calcio o con la politica o con la letteratura, certo, o con l’amore, o con qualcuna delle altre innumerevoli maniere di esorcizzare la morte in cui tutti gli uomini sono chiamati a esercitarsi più o meno ogni giorno e ogni ora e ogni minuto delle loro faticose esistenze necessarie. Avrebbe pagato lui, naturalmente. Io ero solo un ragazzo, e avrei mangiato e ascoltato di gusto dall’inizio alla fine.

Spitfire

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di Andrea Cortellessa

Gregory Crewdson (b.1962), Untitled (beckoning bus driver), 2001–2002.

«Non è un romanzo storico, ma la vicenda di un uomo che si guasta». Così definiva un anno fa, Francesco Pecoraro, il libro cui da molto ormai attendeva – il suo primo romanzo – sino ad aver fatto, di quel manufatto riottoso e debordante, una vera e propria malattia. Un guasto aveva finito per essere, cioè, l’opera stessa che in quel guasto frugava – come un bisturi spietato. Il coltello e insieme la piaga, la cura che affligge e consola. Ora che il telo finalmente è caduto, e possiamo contemplare nella sua interezza La vita in tempo di pace, si capisce il perché di tanta ansia, di quell’insofferenza pungente.

Incontinental Jazz : Sascha Feinstein

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Il jazz: pura poesia. Incontro con Sascha Feinstein
Extended version dell’intervista uscita su Alias del Manifesto

di Franco Bergoglio

Sascha Feinstein insegna presso il Lycoming College di Williamsport, nella verdeggiante Pennsylvania. Il prestigioso istituto sta per compiere duecento anni, eppure lungi dall’essere immobile (come i suoi prati curati e le architetture neoclassiche) rappresenta un centro di fermenti culturali. Qui nasce la rivista Brilliant Corners, l’unica a occuparsi negli Stati Uniti di jazz e letteratura pubblicando poesie, racconti, estratti di romanzi, saggi di autori contemporanei. Tra i collaboratori di spicco della rivista pochi sono disponibili al lettore italiano, ma abbiamo la possibilità di leggere i lavori di ben due vincitori di Pulitzer: il primo è Charles Simic e il secondo Yusef Komunyakaa, del quale nel corso dell’intervista si cita Testimony, tributo in versi a Charlie Parker contenuto nella raccolta Il ritmo delle emozioni (Liberodiscrivere, 2004). Sascha, poeta egli stesso, è fondatore e direttore della rivista e sul binomio letteratura/jazz ha compilato numerose antologie. Spiritoso e disponibile, nel tempo libero suona il sassofono e spesso si esibisce nel campus assieme agli studenti.

Come hai iniziato a scrivere poesia? Il tuo interesse è nato contestualmente a quello per il jazz?

Sono cresciuto in una famiglia “artistica”: i miei genitori erano entrambi pittori e ho sempre saputo (fin dalla culla, direi) che l’arte sarebbe stata al centro della mia vita. Nell’infanzia ho scritto poesie e racconti: roba terribile! Contemporaneamente dipingevo e studiavo musica. L’interesse per il jazz è nato prima che io pensassi di diventare uno scrittore. Mio padre e un suo caro amico mi spalancarono il mondo del jazz quando avevo tredici anni e il potere estetico di quella musica mi sopraffece. Non ho mai sentito suoni migliori nella vita. Provavo la necessità di ascoltare tutto quello mi passava per le mani e di approfondire la conoscenza con i geni che avevano creato questa musica. Iniziai a improvvisare al clarinetto e al college cercai seriamente di combinare insieme le mie passioni scrivendo di jazz.

Qual è il singolo elemento caratterizzante o importante che il jazz porta alla tua poesia?

Non sono sicuro che vi sia un singolo elemento del jazz che vada sottolineato come influenza; però non posso scrivere senza leggere le parole ad alta voce. Il mio orecchio è un critico altrettanto buono dell’occhio. Cadenza, variazione ritmica e musicalità del linguaggio si devono percepire. Penso che il mio senso del verso e dell’interruzione della strofa, dello spazio bianco come silenzio necessario debbano molto alla musica.

Come Direttore della rivista Brilliant Corners, come poeta e autore di libri di critica tu sei la persona ideale con la quale parlare del rapporto tra jazz e poesia. Come funziona questo scambio musica-letteratura?

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Innanzitutto rispetto il jazz e la letteratura come arti a se stanti. Il processo di produzione le divide: il jazz tende a essere una esperienza di gruppo che emerge da un interplay di sensibilità artistiche, la scrittura rimane un lavoro solitario. I suoni poi sono più veloci: colpiscono il corpo con una immediatezza senza riscontri, la si giudica nel breve periodo, la letteratura richiede più tempo.
Sbuffo quando mi dicono che la poesia “è” jazz. Nessuna singola forma d’arte è esattamente parallela a un’altra. La poesia può esplorare attraverso le immagini e la narrazione una personale interpretazione della musica. Il linguaggio può farci ripensare il suono, anche in modo semplice come per il titolo di una canzone. Prendiamo Alabama di John Coltrane. Dal momento che gli studiosi spiegano come questa composizione rispondesse all’atto terroristico compiuto in una chiesa di Birmingham, i suoni portano all’ascoltatore una maggior tristezza. O, se vogliamo cambiare mezzo espressivo, consideriamo il famoso quadro di Bruegel Paesaggio con la caduta di Icaro. Senza quel titolo, avremmo un qualche collegamento per interpretare quelle minuscole, bianche gambette in mezzo all’oceano? Se anche dovessimo notarle, potremmo supporre trattarsi di un nuotatore un po’ matto. Mi sono spiegato?
Recentemente ho intervistato Robin Kelley, autore di una brillante biografia su Thelonious Monk. Nel libro, Kelley spinge continuamente l’argomento verso le politiche razziste del tempo; così gli ho chiesto di fare una ipotesi: se noi sapessimo che Monk aveva composto Brilliant Corners con in testa un intento politico, la metà lenta a rappresentare l’oppressione e il raddoppio del tempo a rappresentare la liberazione, tu ascolteresti la musica in maniera diversa? E Robin Rispose: «E’ una eccellente domanda», poi dopo una pausa disse: «è possibile, forse l’ascolterei diversamente. Ma sono meno possibilista e poi sono convinto che lui la sentisse in un altro modo e io vorrei adeguarmi». Thelonious_Monk,_Minton's_Playhouse,_New_York,_N.Y.,_ca._Sept._1947_(William_P._Gottlieb_06191)
Il linguaggio direziona l’interpretazione.
Ma gli incroci sono interminabili. L’argomento della poesia collegata al jazz fa sorgere infinite possibilità. Certe qualità formali della poesia –ritmo sincopato, chiamate e risposte improvvisate, sperimentalismo, sono state spesso fortemente messe a paragone con la musica. Le vite dei jazzisti sono spesso diventate nutrimento per un numero imprecisato di poemi e racconti. E potrei andare Avanti per ore a parlare…

Cito dalla tua antologia Etheridge Knight: Making jazz swing in / Seventeen syllables AIN’T / No square poet’s job (far swingare il jazz in diciassette sillabe NON E’ roba per poeti borghesi). Haiku jazz, perfetto…

Mi manca Etheridge. Lo conobbi quando vivevo a Bloomington nell’Indiana, dove mi stavo laureando. Negli ultimi anni della sua vita tenevamo delle letture poetiche congiunte quando eravamo invitati agli stessi convegni e legammo molto. Andrebbe apprezzato maggiormente. Qualche anno fa, quando la Norton aggiornò la sua antologia sulla poesia americana contemporanea mi chiesero delle indicazioni, che sono state quasi del tutto rigettate, almeno per il periodo contemporaneo. Spingevo con tutte le mie forze per l’inclusione di Etheridge Knight e altri che non sono stati inclusi. E’ un grosso peccato.

Ho letto in un’altra intervista che cerchi per Brilliant Corners poesie che dimostrino una profonda comprensione della musica e: «non cadano nel cliché, come quelli del gergo hipster da beat generation…» E di volere materiale «che toccasse le corde del lettore per i suoi meriti letterari e non perché semplicemente invoca il jazz…».

Sì. Ricordo di averlo detto. Troppe proposte per Brilliant Corners arrivano da gente che adora l’idea del jazz, che pensa a citarlo per essere alla moda, come fosse un Alka Seltzer contro tutti i mali, senza conoscerne la musica.

Poeti del calibro di Al Young e John Sinclair nel tuo libro di interviste citano Natura morta con custodia di sax di Geoff Dyer. Un lavoro controverso: qualcuno lo odia, altri lo amano alla follia.

3887991Al (Young) conosceva Mingus e aveva trascorso del tempo con lui. Critica Dyer perché parlando di Mingus ne distorce la profondità artistica. Io sono d’accordo con lui su queste riserve, però il discorso non si chiude con la coppia amore/odio, come suggerisci. Ad esempio Al ne riconosce le capacità narrative e la prosa eccellente e io concordo: si può dire ancora tanto su certi eventi drammatici accaduti nella storia del jazz. Una cosa è scrivere che i poliziotti arrestarono Thelonious Monk perché non rispondeva alle loro domande e gli appariva minaccioso; ben diverso sentire le voci di quei razzisti in divisa e la Baronessa (Pannonica, n.d.r.) che li implora piangendo mentre assiste alla scena in cui manganellano le mani del pianista. Gli studiosi rischiano di essere controproducenti, anestetizzando la brutalità della vicenda; un narratore come Dyer è invece abilissimo nel rendere vivido il racconto.

Nei tuoi libri citi spesso Monk e altri pianisti come Fred Hersch e poi Tommy Flanagan, con un commovente ricordo…Non ti chiedo le preferenze, ma chi ha influenzato maggiormente il tuo lavoro?

0e5c527fd6bePossiedo più di 6500 dischi di jazz e la collezione si ingrossa sostanziosamente ogni anno. Saranno anche chiamati compact disc, ma non sono abbastanza “compatti”: mi stanno spingendo fuori casa! Non me la sento di nominare una manciata di lavori su tutti…Però menzioni Tommy Flanagan che andavo a vedere ogni volta mi fosse possibile. Nel gioco cretino dell’isola deserta, se potessi portarmi l’opera omnia di un solo artista, sarebbe la sua. Primo, i trii per piano rimangono tra i più incantevoli su disco. Poi come sideman ha partecipato a lavori straordinari come Saxophone Colossus di Sonny Rollins mentre le sue prime incisioni arrivarono con figure leggendarie come Davis e J.J.Johnson e Giant Steps di Coltrane! Si trova sul mio disco preferito di Sonny Criss, Sonny’s Dream e ha lavorato per alcune stratosferiche session con Coleman Hawkins. Si trova sopra The Incredibile Jazz Guitar Of Wes Montgomery e su Boss Tenor di Gene Ammons. Ha accompagnato per anni Ella Fitzgerald, ha registrato con Benny Golson, Milt Jackson, Booker Little, con i suoi amici di Detroit Kenny Burrell e Pepper Adams. Ci sono jam a Montreux con Johnny Griffin, Eddie “Lockjaw” Davis e Dizzy…Una produzione discografica pazzesca.

Ti fermo, altrimenti l’intervista finisce con Flanagan.
Già e poi se dovessi portare solo Flanagan dovrei lasciare a casa i dischi di Monk e non potrei vivere senza.

Perchè nella poesia jazz i nomi di Coltrane, Monk e Parker sono tanto sfruttati? Ci sarebbero altri personaggi…Nella tua antologia ricordo un poesia di Hayden Carruth che aveva per oggetto il trombonista Vic Dickenson …Perché pochi seguono il suo esempio?

I poeti amano la tragedia. In parte è uno dei motivi per cui Coltrane, Bird -ma aggiungerei anche Billie Holiday- sono stati tanto intensamente immortalati nei versi. E’ significativo notare che ben pochi poemi su Trane, Parker o Lady Day siano stati composti mentre erano in vita. Monk invece si trova in una categoria differente: sebbene anch’egli abbia attraversato tante tragedie, è stato soggetto di centinaia di poesie a causa delle sue eccentricità. Non voglio insinuare che la poesia sia sensibile solamente alla tragedia o alle stranezze. I migliori poemi dedicati al jazz vanno oltre questo approccio facile. Penso al brillante tributo di Yusef Komunyakaa a Charlie Parker, Testimony. Ma se si parla di numeri la risposta corretta mi pare questa!

AskMeNow_feinstein_span3Nell’introduzione di Ask Me Now hai scritto: “sono diventato maggiormente consapevole della centralità della musica nella storia della poesia del ventesimo secolo; e di come alcuni poeti non possano essere affrontati senza riconoscere l’influenza che il jazz ha avuto su di loro”. Ma non si potrebbe affermare lo stesso per il cinema o le altre arti visuali?

Sì, anche se in poesia troviamo interi movimenti governati dal jazz e non penso che lo stesso si possa affermare riferendosi al cinema o alle arti visuali. Almeno non con quello stesso grado di diffusione capillare.

John Gennari, l’autore americano che con il libro (capolavoro di critica) BLOWIN’ HOT AND COOL: Jazz and Its Critics ha raccontato per primo –e nel modo migliore- la storia della critica jazz dagli anni Venti ad oggi, sostiene l’interessante tesi che “il jazz simboleggia una storia culturale dal fascino illimitato”. Qual è la tua opinione sulla critica jazz contemporanea?

Molta critica può essere senza spessore, specialmente quella che esce dalle riviste e dalle recensioni; ma abbiamo anche la fortuna di vedere all’opera alcuni critici eccezionali. Tra gli altri David Hajdu e Robin kelley hanno definitivamente imposto un nuovo, altissimo livello per le biografie dei musicisti jazz (Hajdu è l’autore della biografia di Billy Strayhorn, inedita in italiano, mentre sono stati tradotti suoi lavori su Bob Dylan e sui fumetti; Kelley ha scritto il ponderoso volume su Thelonious Monk pubblicato da Minimum Fax, n.d.a).
Sono anche un fan delle note di copertina dei dischi curate da Bob Blumenthal e dei saggi scritti da Michael Cuscuna per i cofanetti di ristampe della casa discografica Mosaic, che allargano sempre le mie conoscenze. E senza dubbio devo menzionare Gary Giddins che colpisce sempre per chiarezza e passione nell’esporre i suoi argomenti. Mi devo ripetere: fuori c’è tanta spazzatura che andrebbe sbattuta via senza rimpianti, ma sono anche grato al lavoro di alcuni studiosi particolarmente acuti.

La tua critica “alla critica di regime” vale ovviamente anche per il nostro Paese…Ma rimaniamo al lavoro sul campo. Hai condotto moltissime interviste a poeti, musicisti e critici. Quale di queste tre categorie ti ha intrigato di più?

Mi sono divertito durante tutte le interviste che ho fatto, magari per motivi diversi tra loro. A volte il piacere consiste nell’imparare fatti nuovi che riguardano un vecchio amico, in altri casi nasce addirittura una amicizia nuova di zecca. Comunque il nocciolo è sempre nel voler imparare qualcosa da qualcuno. Ovviamente poi ci sono delle conversazioni che è più facile trascrivere e trasformare in un articolo di altre. Ma sono tutte interviste interessanti perché scelgo a priori, e con molta cura, i soggetti per le mie domande.

Una di noi

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di Eleonora Tamburrini

Qualche giorno fa in un giornale locale, un titolo che si sforzava di mantenersi anodino (“Una gravidanza a 15 anni”) annunciava nel dettato spicciolo della cronaca la storia di una ragazzina che rimasta incinta senza volerlo di un suo quasi coetaneo, dopo aver programmato l’aborto decideva invece di diventare madre. Il fatto si trovava in cronaca perché a distanza di tre anni la ragazza, che frequenta una scuola maceratese, ha vinto un premio scolastico con un tema sulla sua esperienza. A presa diretta e con apparente indifferenza di fronte ai contenuti della storia, il giornale derubricava la notizia in quello che poteva essere lo spazio delle eccellenze del territorio: una pagella d’oro, un campione di atletica giovanile sarebbero stati probabilmente presentati allo stesso modo, con la stessa felpata, apparente noncuranza. Coscienziosamente e integralmente seguiva il tema vincitore, e con esso la ressa dei commenti virtuali, per lo più elogi alla vita e all’amore che trionfano. Chi vuole, può farsene un’idea qui.

Mappa dei morti arrivando in Europa

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Pallino blu: Affogamento (per naufragio, traversata di fiume o lago)

Pallino viola: Asfissia (su camion o container)

Pallino rosso: Ipotermia durante viaggio aereo

Pallino verde: Altro (incidente, collasso, ipotermia, campo minato)

Pallino giallo: Suicidio

Pallino bianco: Mancanza di assistenza, atti di razzismo

Pallino nero: Violenze della polizia

 

La figura in alto a destra mostra il numero dei morti per grandezza del pallino, dai 20 ai 3300.

Ricordo di Giorgio Orelli

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Domenica 10 novembre è morto a Bellinzona il poeta Giorgio Orelli, aveva 92 anni. L’ultima sua uscita pubblica avvenne a Legnano il 19 ottobre scorso per ricevere il Premio Tirinnanzi alla Carriera. L’appuntamento era alle h 17. Alle h 16 Giorgio Orelli fece il suo ingresso in sala accompagnato dalla famiglia e poi tenne una memorabile lectio di poesia. Ciao Giorgio, grazie. Franco Buffoni

… a quest’ora la martora chi sa
dove fugge con la sua gola d’arancia.
Tra i lampi forse s’arrampica, sta
col muso aguzzo in giù sul pino e spia,
mentre riscoppia la fucileria.

La vicina

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(Questo testo è incluso nel progetto “Musée Vivant” realizzato da Robert Cantarella. Prossima esposizione, il 16 e 17 novembre 2013 al Musée de la Chasse di Parigi all’interno del “Festival Paris en toutes lettres”. La traduzione francese, a cura di Laurent Grisel, appare in contemporanea sul sito remue.net)

di Andrea Inglese

Questa vicina è una vecchia, ha tutto quel che, sul viso, nei modi, nell’indolenza maligna, malfidente, nell’insistenza dello sguardo, lanciato da dietro le sbarre del suo cancello, la rende vecchia, il mutismo, l’asciuttezza del corpo, quasi fosse bidimensionale, una sagoma di cartone, i capelli corti e slavati, non grigi ma bianchi, non le occhiaie ma le borse, ossia dei rigonfiamenti lividi sotto gli occhi, la vecchia di cui non so nulla, tranne che è vecchia,

Sulle tracce dei fantasmi di Portopalo

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(Questo racconto-testimonianza è apparso il 20 agosto 2010 sul sito Melting Pot Europa in una versione più lunga. Lo riproponiamo oggi nel contesto della discussione che abbiamo aperto intorno alla questione del diritto di asilo.)

di Filippo Furri

Risaliamo in macchina, prendiamo il bivio per l’Isola delle correnti e guido lentamente verso il campeggio dove viene in vacanza quasi ogni estate. È una notte di luna bianca, più avanziamo verso il mare più c’è vento. All’isola delle correnti c’è vento sempre, dicono. Dopo qualche centinaio di metri la strada d’asfalto lascia spazio ad un fondo polveroso di terra battuta, la strada si allarga leggermente prima di un’altra biforcazione alzo i fari ed alcuni corpi si sottraggono alla luce: sei o sette ragazzi, vedendoci arrivare, scartano dalla strada e s’infrattano in un viottolo o direttamente nella sterpaglia che circonda i campi e le serre.