Nel corso degli ultimi anni, da settembre 2008 a gennaio 2013, il critico e romanziere Enrico Capodaglio ha scritto e ordinato un proprio zibaldone di pensieri, di rado intervallati da brevi racconti e apologhi, che l’artista americano Nathaniel Katz ha ora pubblicato on-line in un sito dedicato
Delvaux a Firenze
a Firenze, giovedì 21 novembre 2013, alle ore 18:30
presso Cuculia (Via dei Serragli 3R)
presentazione della raccolta di versi
Delvaux
di
Marco Giovenale
(Oèdipus, 2013)
Interventi critici di
Cecilia Bello Minciacchi
Targhe e monumenti. Arroganza e bullismo della memoria fascista
di Giacomo Verri

Non s’intitola una via, un monumento, un ponte con leggerezza e superficialità. Non lo si fa perché piace o perché a un’amministrazione comunale va così. E infatti non credo che il proliferare di targhe e targhette dedicate a militi e marescialli fascistissimi discenda da decisioni prese con avventatezza. Si tratta piuttosto di casi balordi di revisionismo tenace, quando va bene, o di scura arroganza, di provocazione beota, negli altri casi. C’è dunque da sbizzarrirsi; ed è difficile dire quale delle due cose sia peggio.
La Storia della Repubblica Italiana, la Storia con la S maiuscola, fatta di tante storie relative, ma così importanti da diventare somme, discende solo da chi, per esistere, ha Resistito (scrisse il partigiano Beppe Fenoglio: “partigiano, come poeta, è parola assoluta”, non ammette le gradazioni, non sente le scalfitture, non teme i distinguo, né quelli doverosi portati dalla ricerca storica, né quelli arbitrari e degenerati avanzati dai revisionismi). Ed è la Storia stessa a insegnare perché è giusto celebrare cinque partigiani e non venti repubblichini. Non solo, come scrisse una volta Alberto Asor Rosa, parafrasando Italo Calvino, perché “dietro il milite delle Brigate nere più onesto, più in buonafede, più idealista, c’erano i rastrellamenti, le operazioni di sterminio, le camere di tortura, le deportazioni e l’Olocausto; [mentre] dietro il partigiano più ignaro, più ladro, più spietato, c’era la lotta per una società pacifica e democratica, ragionevolmente giusta, se non proprio giusta in senso assoluto, ché di queste non ce ne sono”; non solo perché le camicie nere seguitarono a combattere a fianco di una potenza, o forse sarebbe meglio dire ai piedi di una potenza, quella tedesca, entrata da invasore in territorio italiano; non è giusto – non dico ricordarli, ché quello si può anche fare, ma celebrarli – perché i militi che decisero di intraprendere la via più nera, non volevano l’Italia del 25 aprile, del 2 giugno, della Costituzione, non volevano un posto libero, pacifico, democratico. Volevano ancora obbedire e odiare perché ai loro occhi quello era l’insegnamento più gagliardo che avessero mai ricevuto. Alcuni, coi decenni, se ne pentirono. Fortunati quelli che hanno provato vergogna e hanno sofferto nelle loro coscienze. Ma spazio per celebrarli non ce n’è.
Il giurista e filosofo tedesco Carl Schmitt, che pure fu iscritto al Partito Nazista, seppe scorgere con asciutta precisione alcuni agghiaccianti aspetti di quella guerra che vollero le alte gerarchie tedesche e alla quale furono costretti i partigiani, una “guerra dell’inimicizia assoluta”, una guerra che “non conosce alcuna limitazione. Trova il suo senso e la sua legittimità proprio nella volontà di arrivare alle estreme conseguenze”. E ancora: “Il partigiano moderno non si aspetta dal nemico né diritto né pietà. Egli si è posto al di fuori dell’inimicizia convenzionale della guerra controllata e circoscritta, trasferendosi in un’altra dimensione: quella della vera inimicizia, che attraverso il terrore e le misure antiterroristiche cresce continuamente fino alla volontà di annientamento”. Quelle furono le condizioni. Anche in Italia: i militi della RSI, asserviti alle divisioni tedesche, vollero una lotta che non ebbe più nulla di umano, niente regole, niente misericordia, nessuna norma bellica. Basti pensare alla infame e spietata violenza che seppero perpetrare anche verso i civili. Si calcola che furono tra i dieci e i quindicimila quelli uccisi dai militari tedeschi o della Repubblica Sociale tra il 1943 e il 1945. Solo dell’agosto ’44 – e pesco quasi a caso – si possono ricordare diversi episodi che dimostrano la schifosa perversione nazifascista: dall’abietto informatore olandese della Gestapo che il 4 agosto comunica alle forze naziste il nascondiglio della famiglia di Anna Frank; alla fucilazione senza processo, sei giorni dopo, in piazzale Loreto a Milano, di quindici partigiani prelevati dal carcere di San Vittore (a sparare furono i militi della Legione Ettore Muti); a una delle più spaventose tragedie dell’umanità: il massacro di Sant’Anna di Stazzema, 12 luglio 1944, oltre 500 civili trucidati dalla sedicesima divisione delle SS.
Bene. E cosa si fa oggi in Italia? Si preserva, certo, il ricordo di chi ha dato la vita per Resistere. Ma non si fa abbastanza per tenere a freno chi sputa su quella memoria, e soprattutto chi bellamente vuole affiancarvi altre memorie, più torve e non degne di essere innalzate al pubblico ricordo. C’è allora chi genericamente vuole incidere targhe a ‘martiri’ fascisti. Ma già in termini filologici la questione non sta in piedi: martire è colui che per testimoniare una fede immola la propria vita in presenza di una forma di persecuzione. E durante il Ventennio, e anche dopo, sotto la vergognosa Repubblica Sociale, quale persecuzione hanno mai subito questi ‘martiri’?
La faccenda diventa particolarmente grave quando la celebrazione, anziché procedere da qualche fanatico (come a Girifalco, provincia di Catanzaro, dove ai piedi della madonna di Monte Covello è apparsa, nell’agosto del 2012, una targa dedicata ai martiri fascisti; e pochi giorni or sono la locale sezione della Fiamma Tricolore ha organizzato una lugubre manifestazione con tanto di saluto romano e magliette con lo slogan: ‘fiero di essere dalla parte sbagliata’), è coltivata pubblicamente dalle amministrazioni comunali. A Voghera, a esempio, dove nel 2010 la giunta Pdl e il sindaco ‘afflissero’ la popolazione con una targa in memoria di sei repubblichini, appiccicata, guarda caso, proprio sul muro del Castello Visconteo, che durante la Resistenza fu una gattabuia per partigiani e antifascisti.
Ma poi c’è Cremona dove la giunta comunale, sempre nel 2010, ha intitolato una via a Aldo Protti che, oltre a essere stato un buon baritono, con quella sua voce fece il fascista fanatico, in Val di Susa, e cantò allegramente accompagnando la marcia delle camicie nere che salivano a fare i rastrellamenti – più di quaranta, per inciso – su ordine di quello squadrista di Roberto Farinacci.
Avanti. Ci sono comuni più o meno grandi dove le amministrazioni amano tirare fuori dai bauli ferrati vecchi cimeli e altre anticaglie: nel piccolo paese di Salle, in Abruzzo, il sindaco, Florindo Colangelo, ha deciso di rispolverare a pochi giorni dalla Festa della Liberazione un marmo del 1933 col quale il Municipio ringraziava ‘l’uomo del destino’ per avere ricostruito il paese dopo il terremoto (come se ricostruzione rimasse, anziché con atto dovuto, con dono elargito).
A Brescia, poi, s’è tentato di fare le cose più in grande. Fin dal 2011 infatti la giunta comunale aveva proposto, dopo un restauro che è infine costato 150.000 euro, la ricollocazione in Piazza Vittorio del Bigio, il colosso realizzato da Arturo Dazzi nel 1932, un bolide che venne elogiato da Mussolini come raffigurazione dell’Era fascista. Figuriamoci! Poi son venute le proteste, l’ANPI ci ha messo anima e corpo e il colosso alto sette metri e mezzo per ora se ne sta nei sotterranei. Ma Emilio del Bono, sindaco di Brescia dal 10 giungo scorso, non ha intenzione di buttare alle ortiche i soldi spesi per far bello il Bigio.
E di palanche (poche o tante che siano) spese male ce ne sono molte altre. Solo al massacratore di partigiani Giorgio Almirante sono stati dedicati, in giro per lo stivale, 40 strade, 5 piazze, 2 parchi, 1 ponte e 1 busto bronzeo. Quest’ultimo ad Affile, 1600 abitanti, in provincia di Roma, là dove la giunta comunale s’è data alla gioia pazza e ha inaugurato anche un sacrario a quel bel tomo di superfascista che fu Rodolfo Graziani (tirato in piedi con 130.000 euro sborsati dalla Regione Lazio). Brava persona, maestro di stragi e di perversioni, assieme a quell’altro gerarca, Ugo Cavallero, maresciallo d’Italia, al quale la giunta di Casale Monferrato, nel 2011, ha intitolato i Giardini Pubblici: per entrambi sarebbe sufficiente ricordare il ‘nobile’ comportamento tenuto durante la guerra d’Etiopia, quando non esitarono a adoperare su donne, bambini e vecchi, alcuni gas tossici non previsti dalle convenzioni internazionali.
Tant’è. Questo non è revisionismo. Peggio. Queste intitolazioni sono atti di provocazione, sono marche d’arroganza di una politica ‘bulla’ e smargiassa che calpesta ciò che ostacola il suo borioso cammino. Sono brutali e stolide dimostrazioni di forza che assomigliano a una pernacchia o alla idiota ostentazione di un paio di chiappe in mezzo alla strada. Ma hanno ben altro peso. Purtroppo. Gravano sulla memoria e la insudiciano come la bava molle di uno sputo in cima alla nostra Costituzione.
Che dire, infine? Che almeno sappiamo con chi si ha a che fare.
Il dono e altri inediti
di Fernanda Woodman
Il dono
è stato in un primo pomeriggio
il mio ombelico si è deciso a darti udienza.
con il rasoio hai tagliato un lembo di nuvola
per tamponare l’arteria radiale.
il dono è stato criticato dagli angeli del poster.
con un cavo rotto hai fatto un braccialetto
e mentre la polvere danzava nella stanza
c’è stata una scossa così forte
che il muro si è crepato ed è entrata più luce.
Galerie Laure Roynette (Parigi) & La Camera Verde (Roma)
Samedi 16 Novembre 2013 – Paris
18,00 – 21,00
LA GALERIE LAURE ROYNETTE
Présente
LES EDITIONS DE LA CAMERA VERDE
Sulla questione maschile
La letteratura non mi aiuta. Troppo alti, troppo nobili i suicidi nelle pagine dei libri. Le delusioni amorose di Werther, quelle politiche di Jacopo Ortis mi risuonano sorde, oggi, lontano da tanta temperie romantica. E neppure il mio amato Leopardi, la sfida alla natura matrigna di Saffo o Bruto, mi basta: il suo resta il racconto di gesta eroiche, per quanto esistenziali e individualistiche. Oggi sembra si muoia soli, senza spiegazioni; quelle scritte nelle lettere d’addio sono, spesso, solo pezze che non chiariscono nulla.
Sempre più, in questi ultimi anni, le notizie sui sucidi trovano spazio sui media. Pare quasi una epidemia. Basterebbe controllare i dati Istat per scoprire che non è vero. Nei paesi Ocse l’Italia ha uno dei livelli più bassi di mortalità per suicidio e fra il 1993 e il 2009 la percentuale sembra diminuire, lentamente, di anno in anno. Ma si sa, le statistiche bisogna saperle leggere, fermarsi al dato bruto è un errore.
Bisognerebbe studiare i dati nel dettaglio. Scopriremmo così che se i tentativi di suicidio quasi si equiparano fra i sessi (con lieve predominanza maschile), i suicidi reali hanno una supremazia maschile che impressiona. Solo uno su quattro è femminile. Se cercare la morte è una tendenza condivisa fra i sessi, trovarla, riuscirci, morire per davvero, è cosa di uomini.
Non basta. I dati forniti dalla Polizia di Stato e dai Carabinieri dicono ancora altro. Vero: dal 2007 al 2010, cioè dall’inizio della crisi economica, i tentativi di suicidio sia maschili che femminili sono comunque diminuiti, da 3234 a 3101. Ma analizzando le tabelle scopriamo che mentre i suicidi reali femminili diminuiscono, quelli maschili aumentano in modo considerevole. Da 2201 a 2399. Vogliono morire e ci riescono. Si uccidono soprattutto nel Nord-Ovest e nel Nord-Est, dove la crisi ha colpito durissimo. Hanno più di quarant’anni, un titolo di studio medio basso. Sono spesso padri di famiglia. Spessissimo sono padri separati.
È come se la crisi avesse scoperto il vaso di Pandora mettendo in mostra la rigidità del modello maschile italiano e la sua incapacità di adattarsi al cambiamento. La sua tragica inadeguatezza. Le donne, di fronte al disperdesi dello stato sociale, per antica formazione alla cura familiare, tengono botta, resistono. Gli uomini, perduta la dignità del lavoro, perdono il loro ruolo sociale. Si fanno anomici. Non sanno come reagire, non hanno l’armamentario adatto, e nelle loro espressioni più acute, reagiscono dando la morte. Spesso a se stessi, altrettanto spesso alle loro compagne o ex compagne.
Si parla da qualche tempo, a ragion veduta, di una questione femminile, ma forse dovremmo avere il coraggio di iniziare a parlare anche di una sempre più virulenta questione maschile. Non credo nelle interpretazioni atavista dei dati statistici. Siano esse per suicidio o per femminicidio. Non credo nel numero fisiologico, endemico, “naturale”, di morti. La natura dell’umanità è culturale. Non si da la morte, non ci si toglie la vita, per istinto, per naturale condizione di genere. È una spiegazione pilatesca, farraginosa, miope. Vecchia come è vecchio il modo di guardare all’universo maschile.
Non è un caso che i giornali abbiano iniziato a raccontarcele queste storie. Non perché ora all’improvviso fa tendenza, va di moda. È l’indicatore, invece, di una nuova sensibilità. Per decenni s’è taciuto, come se morire nel chiuso del proprio appartamento fosse un fatto domestico, una vergogna privata. Ma la percezione di questi fenomeni sociali sta cambiando. È cambiata. Proprio come è accaduto con i padri separati, che decenni addietro vivevano la loro condizione come una questione personale, un’onta da non raccontare: negli anni – cambiando culturalmente la propria idea del ruolo genitoriale – hanno sempre più avuto il coraggio di mostrare la loro ferita, associandosi, ritrovandosi per parlarne, cercando solidarietà, aprendosi al mondo con tutte le loro contraddizioni.
La società italiana è ancora profondamente maschilista, in una realtà che non può più reggere questi modelli obsoleti l’irruzione della crisi economica ha aumentato in modo esponenziale il senso di spaesamento sociale. Cartina di tornasole, in fondo, sono i dati dei suicidi in Italia nelle comunità di non italiani. In quei casi la percentuale femminile aumenta sensibilmente, passando ad 1 su 3, in certe realtà anche 1 su 2. Senza un’identità chiara, senza diritti, senza una rete sociale, anche le donne perdono la loro forza solidale, si ritrovano deboli e inadeguate tanto quanto gli uomini.
Se la crisi economica non cambierà presto di segno (e quanta è grande la responsabilità della nostra gerontocrazia politica!) leggeremo ancora, purtroppo, altre di queste storie. Quello che dobbiamo fare dal punto di vista culturale è stimolare e non ostacolare l’inevitabile cambiamento dei nostri ruoli di genere, ancora troppo statici, evitando pericolose nostalgie, allargando la rete di solidarietà e il sistema dei diritti condivisi. Cercare, insomma, di non avere quelle morti private, quei talenti inespressi, siano essi di donne o di uomini, sulla nostra coscienza collettiva. Farlo, ora.
(pubblicato su L’ordine, inserto domenicale de La provincia di Como, il 3 novembre 2013)
Spitfire
di Andrea Cortellessa

«Non è un romanzo storico, ma la vicenda di un uomo che si guasta». Così definiva un anno fa, Francesco Pecoraro, il libro cui da molto ormai attendeva – il suo primo romanzo – sino ad aver fatto, di quel manufatto riottoso e debordante, una vera e propria malattia. Un guasto aveva finito per essere, cioè, l’opera stessa che in quel guasto frugava – come un bisturi spietato. Il coltello e insieme la piaga, la cura che affligge e consola. Ora che il telo finalmente è caduto, e possiamo contemplare nella sua interezza La vita in tempo di pace, si capisce il perché di tanta ansia, di quell’insofferenza pungente.
Incontinental Jazz : Sascha Feinstein
Il jazz: pura poesia. Incontro con Sascha Feinstein
Extended version dell’intervista uscita su Alias del Manifesto
di Franco Bergoglio
Sascha Feinstein insegna presso il Lycoming College di Williamsport, nella verdeggiante Pennsylvania. Il prestigioso istituto sta per compiere duecento anni, eppure lungi dall’essere immobile (come i suoi prati curati e le architetture neoclassiche) rappresenta un centro di fermenti culturali. Qui nasce la rivista Brilliant Corners, l’unica a occuparsi negli Stati Uniti di jazz e letteratura pubblicando poesie, racconti, estratti di romanzi, saggi di autori contemporanei. Tra i collaboratori di spicco della rivista pochi sono disponibili al lettore italiano, ma abbiamo la possibilità di leggere i lavori di ben due vincitori di Pulitzer: il primo è Charles Simic e il secondo Yusef Komunyakaa, del quale nel corso dell’intervista si cita Testimony, tributo in versi a Charlie Parker contenuto nella raccolta Il ritmo delle emozioni (Liberodiscrivere, 2004). Sascha, poeta egli stesso, è fondatore e direttore della rivista e sul binomio letteratura/jazz ha compilato numerose antologie. Spiritoso e disponibile, nel tempo libero suona il sassofono e spesso si esibisce nel campus assieme agli studenti.
Come hai iniziato a scrivere poesia? Il tuo interesse è nato contestualmente a quello per il jazz?
Sono cresciuto in una famiglia “artistica”: i miei genitori erano entrambi pittori e ho sempre saputo (fin dalla culla, direi) che l’arte sarebbe stata al centro della mia vita. Nell’infanzia ho scritto poesie e racconti: roba terribile! Contemporaneamente dipingevo e studiavo musica. L’interesse per il jazz è nato prima che io pensassi di diventare uno scrittore. Mio padre e un suo caro amico mi spalancarono il mondo del jazz quando avevo tredici anni e il potere estetico di quella musica mi sopraffece. Non ho mai sentito suoni migliori nella vita. Provavo la necessità di ascoltare tutto quello mi passava per le mani e di approfondire la conoscenza con i geni che avevano creato questa musica. Iniziai a improvvisare al clarinetto e al college cercai seriamente di combinare insieme le mie passioni scrivendo di jazz.
Qual è il singolo elemento caratterizzante o importante che il jazz porta alla tua poesia?
Non sono sicuro che vi sia un singolo elemento del jazz che vada sottolineato come influenza; però non posso scrivere senza leggere le parole ad alta voce. Il mio orecchio è un critico altrettanto buono dell’occhio. Cadenza, variazione ritmica e musicalità del linguaggio si devono percepire. Penso che il mio senso del verso e dell’interruzione della strofa, dello spazio bianco come silenzio necessario debbano molto alla musica.
Come Direttore della rivista Brilliant Corners, come poeta e autore di libri di critica tu sei la persona ideale con la quale parlare del rapporto tra jazz e poesia. Come funziona questo scambio musica-letteratura?

Innanzitutto rispetto il jazz e la letteratura come arti a se stanti. Il processo di produzione le divide: il jazz tende a essere una esperienza di gruppo che emerge da un interplay di sensibilità artistiche, la scrittura rimane un lavoro solitario. I suoni poi sono più veloci: colpiscono il corpo con una immediatezza senza riscontri, la si giudica nel breve periodo, la letteratura richiede più tempo.
Sbuffo quando mi dicono che la poesia “è” jazz. Nessuna singola forma d’arte è esattamente parallela a un’altra. La poesia può esplorare attraverso le immagini e la narrazione una personale interpretazione della musica. Il linguaggio può farci ripensare il suono, anche in modo semplice come per il titolo di una canzone. Prendiamo Alabama di John Coltrane. Dal momento che gli studiosi spiegano come questa composizione rispondesse all’atto terroristico compiuto in una chiesa di Birmingham, i suoni portano all’ascoltatore una maggior tristezza. O, se vogliamo cambiare mezzo espressivo, consideriamo il famoso quadro di Bruegel Paesaggio con la caduta di Icaro. Senza quel titolo, avremmo un qualche collegamento per interpretare quelle minuscole, bianche gambette in mezzo all’oceano? Se anche dovessimo notarle, potremmo supporre trattarsi di un nuotatore un po’ matto. Mi sono spiegato?
Recentemente ho intervistato Robin Kelley, autore di una brillante biografia su Thelonious Monk. Nel libro, Kelley spinge continuamente l’argomento verso le politiche razziste del tempo; così gli ho chiesto di fare una ipotesi: se noi sapessimo che Monk aveva composto Brilliant Corners con in testa un intento politico, la metà lenta a rappresentare l’oppressione e il raddoppio del tempo a rappresentare la liberazione, tu ascolteresti la musica in maniera diversa? E Robin Rispose: «E’ una eccellente domanda», poi dopo una pausa disse: «è possibile, forse l’ascolterei diversamente. Ma sono meno possibilista e poi sono convinto che lui la sentisse in un altro modo e io vorrei adeguarmi». 
Il linguaggio direziona l’interpretazione.
Ma gli incroci sono interminabili. L’argomento della poesia collegata al jazz fa sorgere infinite possibilità. Certe qualità formali della poesia –ritmo sincopato, chiamate e risposte improvvisate, sperimentalismo, sono state spesso fortemente messe a paragone con la musica. Le vite dei jazzisti sono spesso diventate nutrimento per un numero imprecisato di poemi e racconti. E potrei andare Avanti per ore a parlare…
Cito dalla tua antologia Etheridge Knight: Making jazz swing in / Seventeen syllables AIN’T / No square poet’s job (far swingare il jazz in diciassette sillabe NON E’ roba per poeti borghesi). Haiku jazz, perfetto…
Mi manca Etheridge. Lo conobbi quando vivevo a Bloomington nell’Indiana, dove mi stavo laureando. Negli ultimi anni della sua vita tenevamo delle letture poetiche congiunte quando eravamo invitati agli stessi convegni e legammo molto. Andrebbe apprezzato maggiormente. Qualche anno fa, quando la Norton aggiornò la sua antologia sulla poesia americana contemporanea mi chiesero delle indicazioni, che sono state quasi del tutto rigettate, almeno per il periodo contemporaneo. Spingevo con tutte le mie forze per l’inclusione di Etheridge Knight e altri che non sono stati inclusi. E’ un grosso peccato.
Ho letto in un’altra intervista che cerchi per Brilliant Corners poesie che dimostrino una profonda comprensione della musica e: «non cadano nel cliché, come quelli del gergo hipster da beat generation…» E di volere materiale «che toccasse le corde del lettore per i suoi meriti letterari e non perché semplicemente invoca il jazz…».
Sì. Ricordo di averlo detto. Troppe proposte per Brilliant Corners arrivano da gente che adora l’idea del jazz, che pensa a citarlo per essere alla moda, come fosse un Alka Seltzer contro tutti i mali, senza conoscerne la musica.
Poeti del calibro di Al Young e John Sinclair nel tuo libro di interviste citano Natura morta con custodia di sax di Geoff Dyer. Un lavoro controverso: qualcuno lo odia, altri lo amano alla follia.
Al (Young) conosceva Mingus e aveva trascorso del tempo con lui. Critica Dyer perché parlando di Mingus ne distorce la profondità artistica. Io sono d’accordo con lui su queste riserve, però il discorso non si chiude con la coppia amore/odio, come suggerisci. Ad esempio Al ne riconosce le capacità narrative e la prosa eccellente e io concordo: si può dire ancora tanto su certi eventi drammatici accaduti nella storia del jazz. Una cosa è scrivere che i poliziotti arrestarono Thelonious Monk perché non rispondeva alle loro domande e gli appariva minaccioso; ben diverso sentire le voci di quei razzisti in divisa e la Baronessa (Pannonica, n.d.r.) che li implora piangendo mentre assiste alla scena in cui manganellano le mani del pianista. Gli studiosi rischiano di essere controproducenti, anestetizzando la brutalità della vicenda; un narratore come Dyer è invece abilissimo nel rendere vivido il racconto.
Nei tuoi libri citi spesso Monk e altri pianisti come Fred Hersch e poi Tommy Flanagan, con un commovente ricordo…Non ti chiedo le preferenze, ma chi ha influenzato maggiormente il tuo lavoro?
Possiedo più di 6500 dischi di jazz e la collezione si ingrossa sostanziosamente ogni anno. Saranno anche chiamati compact disc, ma non sono abbastanza “compatti”: mi stanno spingendo fuori casa! Non me la sento di nominare una manciata di lavori su tutti…Però menzioni Tommy Flanagan che andavo a vedere ogni volta mi fosse possibile. Nel gioco cretino dell’isola deserta, se potessi portarmi l’opera omnia di un solo artista, sarebbe la sua. Primo, i trii per piano rimangono tra i più incantevoli su disco. Poi come sideman ha partecipato a lavori straordinari come Saxophone Colossus di Sonny Rollins mentre le sue prime incisioni arrivarono con figure leggendarie come Davis e J.J.Johnson e Giant Steps di Coltrane! Si trova sul mio disco preferito di Sonny Criss, Sonny’s Dream e ha lavorato per alcune stratosferiche session con Coleman Hawkins. Si trova sopra The Incredibile Jazz Guitar Of Wes Montgomery e su Boss Tenor di Gene Ammons. Ha accompagnato per anni Ella Fitzgerald, ha registrato con Benny Golson, Milt Jackson, Booker Little, con i suoi amici di Detroit Kenny Burrell e Pepper Adams. Ci sono jam a Montreux con Johnny Griffin, Eddie “Lockjaw” Davis e Dizzy…Una produzione discografica pazzesca.
Ti fermo, altrimenti l’intervista finisce con Flanagan.
Già e poi se dovessi portare solo Flanagan dovrei lasciare a casa i dischi di Monk e non potrei vivere senza.
Perchè nella poesia jazz i nomi di Coltrane, Monk e Parker sono tanto sfruttati? Ci sarebbero altri personaggi…Nella tua antologia ricordo un poesia di Hayden Carruth che aveva per oggetto il trombonista Vic Dickenson …Perché pochi seguono il suo esempio?
I poeti amano la tragedia. In parte è uno dei motivi per cui Coltrane, Bird -ma aggiungerei anche Billie Holiday- sono stati tanto intensamente immortalati nei versi. E’ significativo notare che ben pochi poemi su Trane, Parker o Lady Day siano stati composti mentre erano in vita. Monk invece si trova in una categoria differente: sebbene anch’egli abbia attraversato tante tragedie, è stato soggetto di centinaia di poesie a causa delle sue eccentricità. Non voglio insinuare che la poesia sia sensibile solamente alla tragedia o alle stranezze. I migliori poemi dedicati al jazz vanno oltre questo approccio facile. Penso al brillante tributo di Yusef Komunyakaa a Charlie Parker, Testimony. Ma se si parla di numeri la risposta corretta mi pare questa!
Nell’introduzione di Ask Me Now hai scritto: “sono diventato maggiormente consapevole della centralità della musica nella storia della poesia del ventesimo secolo; e di come alcuni poeti non possano essere affrontati senza riconoscere l’influenza che il jazz ha avuto su di loro”. Ma non si potrebbe affermare lo stesso per il cinema o le altre arti visuali?
Sì, anche se in poesia troviamo interi movimenti governati dal jazz e non penso che lo stesso si possa affermare riferendosi al cinema o alle arti visuali. Almeno non con quello stesso grado di diffusione capillare.
John Gennari, l’autore americano che con il libro (capolavoro di critica) BLOWIN’ HOT AND COOL: Jazz and Its Critics ha raccontato per primo –e nel modo migliore- la storia della critica jazz dagli anni Venti ad oggi, sostiene l’interessante tesi che “il jazz simboleggia una storia culturale dal fascino illimitato”. Qual è la tua opinione sulla critica jazz contemporanea?
Molta critica può essere senza spessore, specialmente quella che esce dalle riviste e dalle recensioni; ma abbiamo anche la fortuna di vedere all’opera alcuni critici eccezionali. Tra gli altri David Hajdu e Robin kelley hanno definitivamente imposto un nuovo, altissimo livello per le biografie dei musicisti jazz (Hajdu è l’autore della biografia di Billy Strayhorn, inedita in italiano, mentre sono stati tradotti suoi lavori su Bob Dylan e sui fumetti; Kelley ha scritto il ponderoso volume su Thelonious Monk pubblicato da Minimum Fax, n.d.a).
Sono anche un fan delle note di copertina dei dischi curate da Bob Blumenthal e dei saggi scritti da Michael Cuscuna per i cofanetti di ristampe della casa discografica Mosaic, che allargano sempre le mie conoscenze. E senza dubbio devo menzionare Gary Giddins che colpisce sempre per chiarezza e passione nell’esporre i suoi argomenti. Mi devo ripetere: fuori c’è tanta spazzatura che andrebbe sbattuta via senza rimpianti, ma sono anche grato al lavoro di alcuni studiosi particolarmente acuti.
La tua critica “alla critica di regime” vale ovviamente anche per il nostro Paese…Ma rimaniamo al lavoro sul campo. Hai condotto moltissime interviste a poeti, musicisti e critici. Quale di queste tre categorie ti ha intrigato di più?
Mi sono divertito durante tutte le interviste che ho fatto, magari per motivi diversi tra loro. A volte il piacere consiste nell’imparare fatti nuovi che riguardano un vecchio amico, in altri casi nasce addirittura una amicizia nuova di zecca. Comunque il nocciolo è sempre nel voler imparare qualcosa da qualcuno. Ovviamente poi ci sono delle conversazioni che è più facile trascrivere e trasformare in un articolo di altre. Ma sono tutte interviste interessanti perché scelgo a priori, e con molta cura, i soggetti per le mie domande.
Una di noi
di Eleonora Tamburrini
Qualche giorno fa in un giornale locale, un titolo che si sforzava di mantenersi anodino (“Una gravidanza a 15 anni”) annunciava nel dettato spicciolo della cronaca la storia di una ragazzina che rimasta incinta senza volerlo di un suo quasi coetaneo, dopo aver programmato l’aborto decideva invece di diventare madre. Il fatto si trovava in cronaca perché a distanza di tre anni la ragazza, che frequenta una scuola maceratese, ha vinto un premio scolastico con un tema sulla sua esperienza. A presa diretta e con apparente indifferenza di fronte ai contenuti della storia, il giornale derubricava la notizia in quello che poteva essere lo spazio delle eccellenze del territorio: una pagella d’oro, un campione di atletica giovanile sarebbero stati probabilmente presentati allo stesso modo, con la stessa felpata, apparente noncuranza. Coscienziosamente e integralmente seguiva il tema vincitore, e con esso la ressa dei commenti virtuali, per lo più elogi alla vita e all’amore che trionfano. Chi vuole, può farsene un’idea qui.
Ricordo di Giorgio Orelli
Domenica 10 novembre è morto a Bellinzona il poeta Giorgio Orelli, aveva 92 anni. L’ultima sua uscita pubblica avvenne a Legnano il 19 ottobre scorso per ricevere il Premio Tirinnanzi alla Carriera. L’appuntamento era alle h 17. Alle h 16 Giorgio Orelli fece il suo ingresso in sala accompagnato dalla famiglia e poi tenne una memorabile lectio di poesia. Ciao Giorgio, grazie. Franco Buffoni
… a quest’ora la martora chi sa
dove fugge con la sua gola d’arancia.
Tra i lampi forse s’arrampica, sta
col muso aguzzo in giù sul pino e spia,
mentre riscoppia la fucileria.
La vicina
(Questo testo è incluso nel progetto “Musée Vivant” realizzato da Robert Cantarella. Prossima esposizione, il 16 e 17 novembre 2013 al Musée de la Chasse di Parigi all’interno del “Festival Paris en toutes lettres”. La traduzione francese, a cura di Laurent Grisel, appare in contemporanea sul sito remue.net)
di Andrea Inglese
Questa vicina è una vecchia, ha tutto quel che, sul viso, nei modi, nell’indolenza maligna, malfidente, nell’insistenza dello sguardo, lanciato da dietro le sbarre del suo cancello, la rende vecchia, il mutismo, l’asciuttezza del corpo, quasi fosse bidimensionale, una sagoma di cartone, i capelli corti e slavati, non grigi ma bianchi, non le occhiaie ma le borse, ossia dei rigonfiamenti lividi sotto gli occhi, la vecchia di cui non so nulla, tranne che è vecchia,
Ghérasim Luca – Due poesie
trad. di Daniele Ventre
Quarto d’ora di cultura metafisica
Allungo sul vuoto
ben disteso sulla morte
idee tese
la morte tesa sopra la testa
la vita presa a due mani
Indymaps- cartografia dei luoghi indipendenti- Libreria Trebisonda (San Salvario-Torino)
Su Laquinzaine di questo mese, nella sezione dedicata agli spazi indipendenti in Italia abbiamo intervistato Malvina
(1) Ci parli della tua libreria? Presentazione, storia, caratteristiche sul territorio, criticità e anche dei momenti belli tosti, se ti va.
La Trebisonda è nata nel febbraio 2011, in un quartiere vivace e multiculturale: San Salvario, vicino alla stazione di Porta Nuova, a Torino. Un’attenzione particolare è rivolta alla piccola e media editoria, alla narrativa straniera e per l’infanzia. I lettori grandi e piccoli possono sedersi e sfogliare i libri: c’è anche un divano su cui leggere e degli espositori ad altezza bimbi. La libreria occupa l’angolo tra due vie piene di locali e ristoranti, ed è aperta, oltre che alcune sere la settimana per incontri di vario genere, anche il sabato fino all’una di notte. Delle otto vetrine, una è dedicata ai fumetti e agli illustrati, una ai remainder, due alle novità e una a un paese straniero (finora: Iran, Russia, Finlandia e Romania). La libreria ha proposto, oltre che incontri con gli autori e reading di prosa e poesia, corsi di scrittura (con Paolo Cognetti e Elena Varvello) e di poesia (con Anna Lamberti-Bocconi e Carlo Molinaro), di avvicinamento ad alcune lingue (arabo, persiano, portoghese); la lettura dei classici, in collaborazione con diversi autori (tra cui Andrea Bajani, Margherita Oggero, Enrico Remmert, Amara Lakhous, e altri) e altre iniziative e rassegne, come il ciclo di incontri sulla violenza contro le donne Nessuno tocchi Eva organizzata con la giornalista Federica Tourn. La primavera del 2013 ha visto nascere “GiraLibro a SanSalvario”, una sorta di biblioteca diffusa con libri donati da 24 piccoli e medi editori italiani come minimum fax, Iperborea, Del Vecchio, Marcos y Marcos, la Nuovafrontiera, Voland, Hacca, Miraggi, Scritturapura, distribuiti in trenta “Punti GiraLibro”: locali, ristoranti, bar, associazioni, B&B e negozi del quartiere. I lettori possono prendere in prestito i libri (anche per bambini) e restituirli in uno qualsiasi dei punti. Il progetto è della Trebisonda ed è sostenuto dall’Associazione commercianti San Salvario (di cui la libreria fa parte) e della Circoscrizione 8 di Torino. Il sito http://giralibro.com contiene l’elenco completo degli editori, dei libri donati, dei punti GiraLibro e gli ultimi sviluppi del progetto. Esiste, ovviamente, anche un GiraLibro Junior.
(2) Quando entri in una libreria (da lettore, cliente) cosa osservi? Che cosa attira la tua attenzione?
La mia esperienza di libraia è limitata a due anni e mezzo. Credo di guardare ancora le librerie con gli occhi della compratrice efferata che sono stata in passato. Quindi, le vetrine: mi chiedo il perché di certi accostamenti, mi ritrovo a sognare su certe copertine, mi chiedo come sarà l’ultimo nato di un autore che amo o il libro di un autore e di un editore che non conosco; entrando, mi colpiscono gli scaffali con le copertine bene in vista, e i tavoli con poche copie per titolo: gli ammassi di merci, in particolare le pile di libri, mi provocano un disagio quasi fisico che finisce per farmi uscire dal negozio. Da libraia osservo le scelte dei titoli e degli editori, mi colpiscono le case editrici minori, specie se non le conosco.
(3) Come definiresti oggi una libreria indipendente?
Il punto di vista di una libreria indipendente non può non essere particolare e di nicchia rispetto a quanto accade a chi muove grandi numeri: di titoli, tiratura e di vendite. Rimanere costantemente aggiornati, specie se si è soli a gestire la libreria, è quasi impossibile; preferisco allora concentrarmi su pochi ma buoni titoli da poter consigliare a ragion veduta, in modo da creare un rapporto di fiducia con i clienti. La differenza rispetto alle grandi catene la fa il conoscere sempre meglio l’offerta della piccola e media editoria, anche perché spesso i lettori si orientano sui grandi marchi come se fossero garanzia di qualità. Un mito da sfatare, anche perché chi pubblica tanto ormai tende a risparmiare sui costi di traduzione e di correzione di bozze a scapito, appunto, della qualità del prodotto finale.
(4) Come vedi il futuro delle librerie indipendenti? Quali strategie devono adottare i librai indipendenti per darsi un futuro?
Vorrei poter dire che alle librerie indipendenti basta, per sopravvivere, una buona conoscenza dei libri belli da consigliare ai clienti, e una grande efficienza nel procurare loro testi anche fuori catalogo, o in lingua straniera. Purtroppo non credo sia più così: infatti a patire la crisi sono anche tante librerie “classiche”, aperte da decenni, con un patrimonio di sapere da condividere. Credo sia fondamentale reinventarsi: ognuno può trovare la sua vocazione, la sua strada, basandosi magari sul tessuto sociale e culturale del territorio, cercando di stringere alleanze, di portare avanti progetti comuni. La Trebisonda, in un quartiere come questo, non può non essere aperta di sera. Tanti lettori, poi, mi dicono che agli incontri nel classico orario delle 17.00-18.00 non riescono a partecipare, perché lavorano!
Ma quello che più manca, nei librai indipendenti, è la capacità di fare rete per rivendicare il ruolo di promotori della cultura. Parlo di ciò che conosco: a Torino è difficilissimo trovarsi per fare qualcosa insieme. Ognuno preferisce andare per la sua strada, e alla fine ci rimettiamo tutti.

(5) Consigliaci un libro: qual è il più significativo, il libro-simbolo della tua libreria?
Il Don Chisciotte. Un libro che mi accompagna fin dall’infanzia e che ho riletto più volte, trovandolo sempre avvincente, divertente, malinconico. Moderno. Anche da qui, la ferrea volontà di non lasciare i classici a impolverarsi sugli scaffali, tentando sempre nuove strade per farli conoscere. In questo momento, parte di una delle vetrine è dedicata al capolavoro di Cervantes, nell’ambito dell’iniziativa realizzata coi commercianti del quartiere per il salone del libro Off, “San Salvario ha un libro nel cuore”; e poi, la sirena-polena della Trebisonda ha un libro per le mani: indovina quale.
Nome: TREBISONDA libreria indipendente a San Salvario
Titolare: Malvina Cagna
Indirizzo: Via S. Anselmo 22, 10125 TORINO
Telefono: 011 7900088
Sito Web: www.trebisondalibri.com
E-mail: trebisondalibri@gmail.com
Skype: libreria trebisonda
Facebook: libreria trebisonda
Orario: DOM e LUN chiuso, MER 16.00-20.00; MAR, GIO, VEN E SAB 10.00-13.00 e 16.00-20.00; SAB aperto dalle 23.00 alle 1.00
Indyzionario
la parola a Trebisonda.
COSTANZA, ma anche PERSEVERANZA … che fa rima con RESISTENZA: vd. s.v. “trebisonda, (non) perdere la)
PERSEVERANZA, vd. s.v. “costanza”.
COSTANZA, vd. s.v. “perseveranza”
TREBISONDA, (NON) PERDERE LA
di Malvina Cagna (libreria Trebisonda, Torino)
In molti chiedevano, e chiedono, perché Trebisonda. Più di un anno fa avevo in mente diversi nomi; tra questi, non so perché, Ondina. Che, scoprivo, era anche il diminutivo di Trebisonda Valla, un’atleta nata nel 1916 e morta novant’anni dopo. L’antica Trabzon, grande porto sul Mar Nero, era un crocevia, un punto di riferimento importante, come la stella polare. Ecco il perché dell’espressione “non perdere la trebisonda”, con cui sarebbe stato bello giocare, pensavo. E quale nome migliore per una libreria che apriva, un anno fa, a San Salvario, quartiere che è a sua volta un approdo, stretto com’è tra la stazione e il fiume. L’angolo tra via Sant’Anselmo e via Pellico continua a essere più frequentato di sera che di giorno. Ma non dispero. Voglio continuare a immaginare modi di far vivere i libri perché diventino compagni di vita quotidiana, non un lusso, un di più, ma strumenti indispensabili per aprire le menti di qualsiasi età. I libri ci portano a casa la varietà del mondo e della natura umana, ci avvicinano a autori e personaggi lontani migliaia di chilometri, vissuti centinaia di anni fa. Qualcosa di simile a un’ondina, una sirena che è in realtà una polena, se ne sta da novembre appesa a una parete della libreria; legge il Quijote. Forse tutto, prima o poi, torna al suo posto, e così, fra qualche anno, tra via Sant’Anselmo e via Silvio Pellico ci sarà la vera Trebisonda.
Spesso capita che entrino mamme e papà con i loro bambini; si fermano sulla soglia e mi chiedono: “C’è un’area bimbi?”. “Sì”, dico indicando il divano, il tappeto, e i libri per bambini. E mentre lo faccio mi accorgo che sempre, sempre, il bambino o la bambina sono già seduti sul divano, con un libro aperto sulla pancia. Magari al contrario: un piccolissimo errore di rotta.
Tre bei modi di sfruttare l’aria
di Francesco Balsamo
gli animali invernali delle mani
che chiedono il pane dei vetri
gli animali degli inverni
delle mani
che chiedono solo
il pane dei vetri
Primo Levi, una nuova edizione del «Rapporto su Auschwitz»
di Domenico Scarpa
Il Centro Studi Primo Levi (www.primolevi.it) pubblica – grazie alla generosità di Einaudi editore, che ne ha coperto i costi di lavorazione e di stampa – la prima edizione italiana a sé stante del Rapporto su Auschwitz, che Primo Levi scrisse a quattro mani con un suo amico e compagno di Lager, il medico torinese Leonardo De Benedetti.
Si tratta di un’edizione di pregio offerta in sottoscrizione ai sostenitori del Centro Studi. Ed è la prima testimonianza che Levi abbia reso su Auschwitz; fu redatta su incarico del governo sovietico che nella primavera 1945, a Katowice, raccolse migliaia di testimonianze di ex-prigionieri del Lager. Il testo fu poi pubblicato nel novembre 1946 nella prestigiosa «Minerva Medica», omologo italiano dell’inglese «Lancet».
Questo Rapporto su Auschwitz si colloca all’origine di tutta la successiva opera di Primo Levi testimone, analista e scrittore. Il testo che il Centro pubblica nel volume Einaudi offerto ai nostri sottoscrittori è stato ricontrollato filologicamente, è corredato da una documentazione fotografica inedita, è arricchito dal saggio storico-intepretativo di Fabio Levi, direttore del Centro studi, saggio che ricostruisce le origini del Rapporto, i suoi significati politico-letterari e la fisionomia dei suoi primi lettori.
Rapporto su Auschwitz è stato stampato da Einaudi in un elegante volume rilegato, in 400 copie numerate fuori commercio. Viene offerto esclusivamente su prenotazione, fino a esaurimento della tiratura, a quanti vorranno fare una donazione a favore del Centro studi. Le prenotazioni si raccolgono all’indirizzo info@primolevi.it oppure al numero telefonico 011 4369940.
Sarebbe superfluo descrivere la situazione in cui si sono trovati ultimamente a operare gli enti che si occupano di cultura. Malgrado questo stato di cose, nei suoi cinque anni di attività il Centro ha ottenuto risultati di cui possiamo dirci contenti: le nostre Lezioni Primo Levi, stampate da Einaudi in edizione bilingue italiano-inglese, sono già al quinto appuntamento (dopo quelli con Robert Gordon, con Massimo Bucciantini, con Stefano Bartezzaghi e con Mario Barenghi), questa volta con la storica Anna Bravo, che giovedì 7 novembre ha tenuto nell’aula magna «Primo Levi» dell’università del Torino la sua lezione sul tema Raccontare per la Storia.
Nel 2010 l’allestimento del dialogo scenico Il segno del chimico, curato da me e interpretato da Valter Malosti in Italia e da John Turturro a New York, è stato un buon successo e ha diffuso un’immagine di Levi più sfaccettata di quella usuale. Allo stesso modo, i nostri contatti con scuole e insegnanti del Piemonte e di altre regioni si sono moltiplicati e consolidati, producendo tra l’altro un video innovativo su Levi e il lavoro (Primo ufficio dell’uomo. I mestieri di Primo Levi, a cura di Roberta Mori e Peppino Ortoleva), che è a disposizione degli studenti. Sempre in questo ambito, il Centro ha organizzato più volte letture multilingue di testi di Levi (l’ultima, al Salone del Libro 2013, con il titolo «La nostra lingua manca di parole») eseguite da ragazzi appartenenti alle più diverse comunità, e che studiano o lavorano a Torino.

Il sito www.primolevi.it è lo specchio delle attività del Centro ed è il canale privilegiato di comunicazione con il suo pubblico. Negli anni gli accessi sono stati in costante crescita e sono venuti da un’area geografica sempre più ampia. Il sito è completamente bilingue (italiano e inglese) ed è organizzato per ambiti tematici: Opera, Biografia, Auschwitz, Scienza, Lavoro, Argon (dedicato al rapporto tra Primo Levi e il mondo ebraico), Ai giovani. Dal novembre 2009 al settembre 2013 ha avuto oltre 152.600 accessi, provenienti da 145 paesi.
Il Centro ha raccolto sinora una bibliografia delle risorse documentarie di e su Primo Levi costituita di 5.900 registrazioni in italiano e in altre lingue. Possiede una collezione (Fondo bibliografico Primo Levi) completamente dedicata alla vita e all’opera dello scrittore che comprende 4.500 titoli e raccoglie opere di Primo Levi (in italiano e in altre lingue) e numerosi saggi critici in massima parte in italiano, inglese, francese, tedesco e spagnolo. Il catalogo in linea è accessibile dal sito: esso fornisce il massimo di informazione sul contenuto dei testi e consente un accesso tematico alle registrazioni per parole chiave appositamente studiate per la letteratura critica su Primo Levi.
Per i prossimi anni abbiamo in progetto molte altre iniziative, per realizzare le quali sarà essenziale poter contare sul sostegno dei nostri interlocutori. A costo di ripetermi, sottolineo ancora una volta l’importanza dell’operazione legata al Rapporto su Auschwitz. I primi sottoscrittori saremo noi dipendenti del Centro. Spero che tutti voi veniate a farci compagnia in questa impresa, che equivale a un’energica nostra scommessa sul presente e per il futuro.






Quando sarò a cena, e cioè adesso che ho buttato giù l’ultimo sorso di questo vino tinto eccellente che nel mio stomaco già fa a cazzotti con la clarita e di cui purtroppo la mia memoria smarrirà il nome, non avrò più il tempo di riflettere sulla mia goffa traversata del Raval, perché ci sarà da individuare commensali di pregio che diano senso alla mia presenza così velleitaria, così azzardata. E naturalmente è stupido, è scemo, scegliere un compagno di cena tra decine di sconosciuti sarebbe ancora più velleitario e goffo, ma ho la fortuna di incrociare lo sguardo di un biondo capelluto e appena barbuto che sorride e si presenta, e parla italiano anche se si chiama Andrei e vive nel Vermont anche se è russo, e domani terrà una relazione sul rapporto tra Montalbán e la Grecia, il che mi suggerisce di avere a che fare con un uomo con molti tasselli fuori posto, e di farmelo sedere accanto perché mi spieghi come poterli mettere insieme con un’idea di senso anche solo approssimativa.





