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L’uomo che non era morto e altre storie

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Berlino, cimitero di Prenzlauer Berg – D.O.

di Davide Orecchio

L’UOMO CHE NON ERA MORTO
Sei anni fa, nello stato indiano del Madhya Pradesh, Raju si presentò dalla polizia e chiese aiuto. L’uomo doveva provare d’essere vivo. Katra, il suo villaggio, l’aveva messo al bando perché lo riteneva morto. Si era ammalato e l’avevano ricoverato in un ospedale lontano dal villaggio. Ma un parente aveva avvisato familiari e compaesani che Raju non c’era più. Il villaggio aveva celebrato la cerimonia funebre. Quando, dimesso dall’ospedale, l’uomo tornò a Katra, quello che vide furono fratelli in fuga da un fantasma, bambini terrorizzati, amici che si rinchiudevano in casa. Allora andò a protestare dal panchayat (il comitato del villaggio). E gli risposero: “Sta a te dimostrare che non sei morto”.

Fonte: Times of India, gennaio 2006.

Come quando si nuota, si dorme o si ama – Un carteggio di Julio Cortazar

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di Sergio Garufi

Fortunatamente Cortázar non abbiamo ancora finito di leggerlo. A distanza di ventotto anni dalla sua morte continuano a uscire preziosi inediti, tanto che a questo ritmo presto la mole della produzione postuma supererà quella di quando era in vita. Si tratta soprattutto di lettere, come Cartas a los Jonquières, il bel volume edito da Alfaguara che raccoglie circa un centinaio di missive e cartoline indirizzate all’amico Eduardo e a sua moglie Maria nell’arco di più di trent’anni, dal 1950, la vigilia del suo trasferimento a Parigi, fino all’84, pochi mesi prima di morire. I due si conoscevano dai tempi della scuola Mariano Acosta di Buenos Aires, quando scrivevano su Addenda, la rivista letteraria del collegio.

Vuole la leggenda, in parte alimentata dallo stesso scrittore, che da giovane Cortázar conducesse una vita ritirata e dedita unicamente alla lettura. In realtà amò sempre circondarsi di amici coi quali condividere le sue passioni culturali, e questo carteggio con Eduardo Jonquières, che fu poeta e pittore, ne è la dimostrazione evidente. Il grosso delle lettere fu scritto negli anni Cinquanta, perché nel ’59 Jonquières e famiglia traslocheranno pure loro a Parigi, e quindi le occasioni di sentirsi diventeranno più facili, ciononostante il rapporto epistolare s’interromperà solo con la morte di Julio. Purtroppo non si sono salvate le lettere di Eduardo, di modo che le sue parole vanno indovinate attraverso quelle di Cortázar.

I temi trattati sono diversi. Julio racconta gli inizi stentati a Parigi, la ricerca di un lavoro stabile, i continui cambi di domicilio contrassegnati dalla sigla “c/o”, lo stigma dei grandi scrittori nel loro momento aurorale, quando si subaffitta una stanza presso altri perché non ci si può permettere un alloggio proprio. Poi le lunghe passeggiate per la città, i giri in bici, le visite ai musei e i viaggi in autostop sembrano per lui un unico apprendistato allo sguardo (“sobretodo camino y miro, tengo que aprender a ver”). Grazie a queste lettere, che costituiscono l’autobiografia che non scrisse mai, abbiamo accesso a un Cortázar inedito e sorprendente, colui che Vargas Llosa definì “un uomo eminentemente privato, con un mondo interiore costruito e preservato come un’opera d’arte”.

Con grande pudore e affettuosa cautela Julio si confida all’amico, gli comunica le preoccupazioni economiche, i dubbi di aver fatto la cosa giusta (“que hago aquì?”, si chiede il 31/10/52). Si rivolge a lui forse perché Eduardo rappresenta il suo contraltare: la distanza fra loro infatti non è solo geografica. Eduardo è l’amico fraterno rimasto in Argentina, sposatosi presto e con una famiglia numerosa; Julio invece fa il bohémien sradicato, e a volte pare invidiargli la sicurezza degli affetti e la stentata agiatezza della vita in patria. Presto però la situazione si ribalta. La presenza di Aurora Bernardez al suo fianco lo sprona a lottare in una città che lo ignora, mentre Eduardo si sente al palo. Così arriverà per Julio l’impiego come interprete all’Unesco grazie all’interessamento di Victoria Ocampo (la direttrice della rivista Sur per cui scrisse pure Borges), poi l’incarico di tradurre i libri di Edgar Allan Poe e a poco a poco anche la serenità economica per poter viaggiare. In Italia lui e Aurora vanno a Siena, Venezia, Como, Roma, dove s’innamorano della pizza (“la locura más inconmensurable del sistema solar”, 27/10/53); ma i resoconti di viaggio negli anni, di pari passo con la sua progressiva affermazione artistica, comprendono paesi come l’Uganda, l’Austria (che chiama musilianamente Cacania), Cuba, Svizzera, Nicaragua, India, Danimarca, Brasile, Kenia e Inghilterra, a volte anche con soggiorni di mesi.

Non mancano le osservazioni sull’arte e la letteratura dei posti visitati, così come i sapidi ritratti degli illustri colleghi conosciuti (Octavio Paz, di cui fu ospite a New Delhi, o Albert Camus a una festa di Gaston Gallimard), e i ragguagli sulla genesi dei propri libri (dall’annuncio il 30/5/52 dell’idea dei cronopios e dei famas, che Aurora giudica negativamente perché troppo moralistici; all’ultima lettera in cui illustra Gli autonauti della cosmopista, il reportage intimo e fiabesco scritto assieme a Carol Dunlop, pieno di gioia di vivere malgrado il presagio della loro fine imminente).

Pur essendo intessuto da molti riferimenti colti, questo libro non somiglia affatto a quei fastidiosi epistolari letterari in cui lo scrivente si prefigura un grande pubblico e autorevoli esegeti postumi. L’interlocutore resta uno, e Cortázar è tutto tranne che un monologhista. Chiede sempre a Eduardo come gli vanno le cose, s’informa sulla sua famiglia e sulla sua carriera ed è prodigo di consigli, tanto che parla molto più dei suoi libri che dei propri. Ma il lato umano è preponderante in questo carteggio, ed è questa la sua vera forza, ciò che più attrae il lettore, tanto che alla fine si potrebbe dire che il tema principale del dialogo dei due amici sia il dilemma tra restare o andarsene, lottare in patria o cercare fortuna all’estero. In una commovente lettera del 27/8/55, questa volta tocca a Julio trovare le parole giuste per incoraggiare Eduardo in preda allo sconforto. Lo invita così a seguire la sua vocazione senza trincerarsi dietro l’alibi del “tengo famiglia”, e al contempo enuncia la propria filosofia di vita: “al mundo no hay que resistirle, lo que hay que hacer es elegir bien el mundo que uno prefiera y al cual hay que darse; y a ése, ah, a ése hay que darse a fondo, como cuando se nada, se duerme o se quiere“.

[Questo articolo è stato pubblicato su l’Unità del 20/11/2012]

“Tutto il contrario”: Calvino e le interviste

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di Luca Lenzini

Tutti sanno, e lo ribadisce Mario Barenghi nell’Introduzione a Sono nato in America…, che Calvino è «un grande classico della narrativa del secondo Novecento in Italia[1]». Tutti lo sanno, nondimeno non era affatto scontato che Mondadori accogliesse nelle sue edizioni un volume di quasi settecento pagine che contiene centouna delle oltre duecento interviste che lo scrittore ha concesso durante la sua esistenza. Chi ha una qualche idea dei meccanismi che presiedono alle scelte editoriali, infatti, poteva con fondati motivi dubitare che una simile impresa andasse in porto. Invece, fortunatamente ora Sono nato in America… si affianca all’opera di Calvino e d’ora in poi accompagnerà il lavoro di chiunque ad essa si voglia avvicinare; ed il merito dell’impresa è del curatore, Luca Baranelli, che oltre a proporlo ha composto il libro con un lavoro durato molti anni.

Nuovi autismi 29 – Il fragoroso vuoto di senso della letteratura (una lettera)

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di Giacomo Sartori

Cari ragazzi, permettetemi di chiamarvi così, io devo confessarvi che non conosco più di tanto questo romanzo che avete deciso di trasporre a teatro. Questo testo che vi ha parlato e sul quale volete lavorare è mio, nel senso che sono io che lo ho scritto. Sono io che gli ho dato vita – vita cartacea, per molti versi più pregnante e fervida della nostra – ai personaggi che in esso si dibattono, e soprattutto la sua lingua è il frutto del mio lavoro. Di questo sono sicuro. Ma mentirei se vi dicessi che so perché l’ho scritto, e mentirei ancora di più se vi facessi credere che so cosa vuol dire. La verità è che non ho la minima cognizione del perché esista, non ho la più pallida idea se significhi qualcosa. Il fatto che descriva una contingenza sociologica riconoscibile potrebbe far pensare che io detenga o ritenga di detenere le chiavi per decifrare quella stessa realtà: non è così.

Ma non fraintendetemi: mi fa piacere, un piacere sincero, che vi interessiate a lui. Mi da sollievo pensare che gli anni che ho passato a produrlo non siano inutili, e quindi per estrapolazione che nemmeno quello che faccio adesso – perché la mia vita resta ancora la scrittura – sia vano. È un palliativo che mi conforta e mi aiuta a vivere. Come potete immaginare non è facile dedicare mesi e mesi, anni, a un’attività che non ha alcun senso. Se però adesso un senso voi lo trovate, vuol dire che il mio agire ha una sua giustificazione, che forse la mia esistenza non è inutile. Per molte ragioni che adesso non ho voglia di disseppellire questo sillogizzare mi suona fallace, quasi un’impostura, e soprattutto illusorio, ma mi fa lo stesso bene. Come tutti gli uomini vivo anch’io di appagamenti fallaci e di illusioni. Sono anch’io un essere umano, sono anch’io sensibile – e forse più di altri – ai complimenti.

Quando ne parliamo io fingo di conoscerlo fin nelle sue indicibili intimità, fingo di essere quell’imperioso soggetto che ne detiene le redini, o comunque ne ha detenuto le redini. Questo è un esercizio che mi ripugna ma al quale sono abituato, perché mi si chiede di farlo anche in altre occasioni. Quando un libro viene pubblicato già la mia testa è altrove, già ho dimenticato il testo, o meglio ho cominciato a dimenticarlo – ho bisogno di dimenticarlo, una necessità fisica, legata a un istinto di sopravvivenza – devo però parlarne come se tutti i miei pensieri fossero ancora lì, come se fosse qualcosa che ha ancora a che fare con me. È una menzogna alla quale mi presto a malincuore: mi costa fatica – parlo di una misurabile tensione che produce malessere, non è una metafora – mentire. Lo considero però un prezzo da pagare, un male minore. Considero che l’inebriante libertà che mi governa quando scrivo valga bene questo agile pegno sociale. Nella vita tutti noi ci troviamo a sostenere ruoli che hanno lati spiacevoli, non vedo perché io dovrei esserne esente. Altri scriventi preferiscono trincerarsi in un’intonsa torre di avorio, io ho l’impressione che quell’arroganza mi sarebbe ancora più penosa. Senza contare che ne ricavo pur sempre, torno alla mia vanità, qualche soddisfazione.

Facevo l’esempio di un testo recente, figuriamoci allora un romanzo che va per la sua strada già da vari anni. Mostrare una complicità nei suoi confronti mi apparirebbe come inscenare un’intimità con un ex-amore che non frequento da tempo, quando ormai più niente ci lega, ed è anzi lievitata una mutua diffidenza. Del resto non siete tardi, e voi stessi vi siete accorti che conoscete meglio di me la vicenda e i personaggi. Leggo sulle vostre facce lo stupore, ogni volta che lo constatate. Ma se ci pensate è normale che sia così: voi il testo lo avete letto e riletto (come si dovrebbe leggere sempre, e come quasi nessuno più legge), io non lo bazzico da molto tempo. Anzi, si può dire che non l’ho mai fruito nella sua interezza e a mente fresca, senza tensioni e senza a priori, con mente innocente e per certi versi ingenua, senza ravvisare il seguito, come cioè si devono leggere i testi. È per questo che è ormai più vostro che mio. O meglio, è solo vostro.

La mia ignoranza è ben più sostanziale di quello che potrebbe sembrare, non riguarda solo i dettagli. Permea le linee di fondo, la sua stessa ragione di essere. Non so con precisione che rapporti intrattenga con la realtà effettuale e riconoscibile (molti hanno pensato che il suo movente fosse quello) che pretende descrivere, e che io non conosco (l’ho immaginata per induzione), pur avendola per certi versi nel sangue, e quindi conoscendola meglio di chiunque altro: davvero non lo so. Men che meno potrei allora dire se ha un qualche valore, se vale la pena leggerlo, se appunto emana un qualche senso. Certo nella mia testa ci sono ipotesi e convinzioni, certo rifletto anche su questo, come sulla mia pratica attuale di scrittura, ma devo constatare che non sono elucubrazioni davvero profonde, sono pensieri viziati dall’andazzo e dagli assilli del momento, contradditori e per così dire interessati: restano pur sempre mille miglia sotto l’orbita solitaria dove evolve il testo.

Non è quindi solo una questione di memoria che scioglie via via gli ormeggi, non è questione solo di tempo che passa. Quello che mi è impossibile è dare un giudizio generale. Ci ho lavorato per anni, ma mentre mi davo da fare pensavo mano a mano ai vari dettagli non al tutto. Non giudicavo, sgobbavo. Certo miravo a raggiungere un’unità, ma mi focalizzavo sui particolari anche infimi, sulle singole frasi, sulle inezie. Perseguivo un gusto globale, ma era un fine sempre irraggiungibile, per molti versi cangiante, sempre più lontano mano a mano che mi avvicinavo, non una realtà, non un compagno di viaggio. La mia visione era centrifuga, non centripeta. Nella mia testa c’era quella lucidità da alcaloide che solo la scrittura sa mantenere nel tempo, ma non avevo uno sguardo d’insieme, come nella vita non si capiscono gli amori e le passioni che ci travolgono. La visione d’insieme la si può avere solo a posteriori, solo quando non si è più coinvolti, quando si è ormai passati ad altro. Solo l’io che ha destituito quello precedente può giudicare il suo predecessore. Del resto qualsiasi giudizio letterario è sempre arbitrario e già datato, intrinsecamente errato. La letteratura non è fatta per essere giudicata, ma per essere fruita, omaggiata.

Non vorrei però che mi fraintendeste, la mia non è una dismissione di responsabilità. Mi considero in tutto e per tutto responsabile delle relazioni ambigue e per certi versi perverse che il testo ha con il cosiddetto mondo reale, come anche di ogni sua pecca, dei suoi eventuali pregi. Considero di essere il legittimo destinatario di tutte le critiche e delle eventuali lodi. E in fondo non ho timori in questo senso. Ho passato anni a limare ogni rotellina – per usare una metafora ormai obsoleta, ma che rende il lato artigianale e per certi versi impreciso che sempre ha avuto e sempre avrà la scrittura – dell’intricato ingranaggio. E quindi mi sento piuttosto sicuro del fatto mio. E se ho fallito, nella vita ci sono anche i fallimenti (ritengo anzi che nel percorso di chi scrive le disfatte siano necessarie), lo ho fatto dando il massimo di me stesso.

Se mi sforzassi potrei diventare esegeta di me stesso. Qualche volta – quando appunto mi ritrovo in situazioni che mi costringono a farlo – mi cimento. Mi trasformo in uno storico dell’io che sono stato, divento un critico letterario che analizza i testi che ho scritto. Scavo alla ricerca dei motivi episodici e profondi, metto in relazione, interpreto e decripto, risalgo e deduco, ricostruendo successioni e temi, pedinando il loro divenire. È un esercizio che non mi arreca alcuna soddisfazione, alcuna gioia, e soprattutto per il quale non mi sento dotato. È un compito utilitario che svolgo quando proprio non posso farne a meno, esattamente come mi obbligo a riepilogare i miei movimenti precedenti quando non trovo le chiavi di casa. Altre persone adorano questo lavorio di dissezione, questa autopsia di un cadavere già freddo, non io. Sento che non è il mio terreno, che non è lì che posso dare il meglio di me stesso, che anzi è lì che vengono alla luce i miei manifesti limiti. Io amo battermi con le vite impettite ma anche folli delle parole, amo tendere come archi nervosi le frasi, non mi interessa dissezionare, diagnosticare.

Cari ragazzi, da queste parole potreste forse dedurne che non credo nel potere gnoseologico e forse anche demiurgico della letteratura. E invece sono persuaso che nel suo fragoroso vuoto di senso pulsino le impalpabili verità che possono dare significato alla nostra esistenza. Non possiamo coglierle, come non si possono imprigionare senza ucciderle le farfalle, ma possiamo pur sempre ammirarle. Penso addirittura che testi letterari si annidino le divinità che abbiamo smarrito per strada con il cosiddetto progresso, o comunque la nascosta nostalgia che ad esse ci lega. A volte mi sembra anzi che la funzione precipua della letteratura sia per l’appunto quella di aprirci al divino, a quello che gli uomini hanno chiamato il divino, e che forse abita ancora in tutti noi, anche se non sappiamo più percepirlo. Penso che alcuni scriventi attuali arrivano ancora a infilzare con le loro frasi l’aurea di qualche sfaccendata ma pur sempre fulgida divinità: spesso si tratta di individui con le pezze sul culo o che annaspano nelle bassezze, spesso nella loro stessa meschinità. Cari ragazzi, anche se è forse patetico chiamarvi così, penso più prosaicamente che i testi che ho scritto non mi appartengono.

(l’immagine: William Blake, “Urizen in chains”)

L’anomalia Ponge

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di Andrea Inglese

 

Parrebbe che nella ricezione della poesia straniera gli automatismi intellettuali, le limitatezze di corporazione, le miopie critico-teoriche si palesino ingigantite e facciano “sintomo”. Per questo vale la pena decifrare questo particolare sintomo: l’assenza o l’estrema scarsità di Francis Ponge, nell’editoria italiana. Sì, perché è ben strano che un autore morto alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, la cui intera opera è stata raccolta in due volumi nella Pléiade, tra 1999 e 2002, non conosca ad oggi un’ampia traduzione nella nostra lingua.

Domani comincia “Reti” al Palladium, Roma

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volentieri pubblico, per la cortesia di Canio Loguercio, la presentazione di Luigi Cinque dell’evento Reti, Roma – Palladium, 27-28-29 novembre 2012 e un contributo di Ruggero Pierantoni.

Le ragioni di un Festival.

RETI: incontri straordinari di Musica, Scienza e Poesia
Se l’universo, si riflette, come un grande pensiero e non solamente come puro meccanismo, a ragione si deve approdare ad un neoumanesimo che lo riconsideri e veda la conoscenza come una identità di nuovo multiforme e sempre di confine. Ed è proprio al confine che RETI fest, guarda e lo fa, (non è il solo, sia chiaro!) in funzione di una nuova drammaturgia delle arti la quale, oggi, non può nemmeno delinearsi senza il contributo paradossale, onirico e sovversivo che certa scienza contemporanea riesce a esprimere. Tre giorni di incontri straordinari dunque tra musica arte scienza e poesia. Tre giorni di cammino sul limite, che poi è la scoperta dell’altro, del corpo dell’altro, della successiva stazione, della prossima arte, della scienza come matematica e poesia, dell’ identità selvaggia tra significato ( della parola ) e significante ( del suono/musica ), del pensiero magico, della poesia come ritorno alla parola necessaria, formante pensiero, da cui tutto deriva.
Limiti, confini, oggi, oltretutto, in continua espansione tra le nuove semantiche del linguaggio verbale e internetico, le ibridazioni dell’arte visiva, la comunicazione digitale di massa e le ragioni della fisica quantistica che, almeno nell’estremamente piccolo, contraddicono e umiliano buona parte delle filosofie dominanti dal settecento ad oggi. E, aggiungerei, la sempre maggiore consapevolezza e conoscenza che abbiamo della sala macchine, del cervello. Le neuroscienze sono la condizione decisiva per uscire dalla modernità ed entrare in una sorta di futuro/passato, e RETI, qui grazie davvero alla consulenza di Viviana Kasam e dei suoi amici scienziati, dedicherà molta della scena al cervello in relazione alle arti e dunque al profilo, oggi fondamentale, della neuroestetica.
RETI è : la parola ( poetica ) e le altre arti che si misurano con la scienza mentre quest’ultima, nella sua parte migliore, ci racconta come viene ibridata, e si fa poesia, si fa filosofia, o risuona sulla stessa frequenza della musica e, talora, del grande – pure! – pensiero mistico. RETI, senza dimenticare il relativismo culturale delle discipline antropologiche del 900, rivendica, oggi, un’identità di confine per le Arti. Ma, va detto, non si tratta più di contaminazione. Oggi che siamo tutti contaminati, è la coniugazione che conta e le sintesi che ne possono derivare , non le declinazioni dell’identità.
RETI, Festival, numero zero, è dunque dedicato alla Drammaturgia ( intesa appunto come coniugazione, incontro ) delle Arti. E saranno incontri straordinari: perché i curatori, gli artisti, gli scienziati e i poeti di scena in RETI 2012 sono qualcosa di più di semplici portatori dei loro relativi ( sia pure alti ) “intrattenimenti” : sono tutti, irredimibilmente, dei viaggiatori della forma.
RETI 2012 è: Balanescu Quartet, Valerio Magrelli, Gregorio Botta, l’Opera Quartet, Andrea Riccardi, Pippo Delbono, Canio Loguercio, Ruggero Pierantoni, Alessandro D’Ausilio, Luisa Lopez, Marcello Sambati, Luigi Cinque, Giuseppe Vitiello, Osvaldo Ticini, Viviana Kasam, Marco Maria Gazzano, Carlo Infante, Gabriele Fedrigo, , Luca Francesco Ticini, Mario Sesti, Michele Cinque, Matteo Cerami, Maria Grazia Calandrone, Patrizio Fariselli, Sal Bonafede e molti molti altri.

Luigi Cinque

 

Inizi e fini

Etienne Jules Marey non era contento, le sue immagini fotografiche erano “laboriose e mediocri.” Quell’addensarsi di corpi, di arti, di ali, attorno all’ostacolo da superare lo considerava un “difetto”: lui li voleva “equidistanti”. Le immagini non apparivano uniche, perfette,”equidistanti”, come quelle di Muybridge: eterne.  Esse sentivano l’evento, il suo avvicinarsi, il suo svanire e si addensavano, sfumando, una nell’altra. Perché, sia inizio che fine, non stanno, lì, fermi ad aspettare. Sembra, quasi, che un infittirsi di eventi, di urti determini un inizio e un loro improvviso disaggregarsi, una fine. E’ per questo che la transizione, alcune volte, è impercettibile, tanto da apparire all’ultimo momento, invisibile sino a pochi millesimi di secondo prima. La cavalla Frou Frou, amatissima da Vrònsky, sa già di dover morire prima ancora che l’uomo se ne renda conto perché percepisce una sottile asincronia tra il suo corpo e quello dell’uomo.

L’intervallo che separa, nel linguaggio comune, un inizio da una fine è segnabile, forse, come fa  Pollicino, con il ciottolo, mezzo bianco, mezzo nero : sincronia. Un modello sociale assai semplice di questo concetto sono gli eventi sportivi che, almeno a livello di spettacolo pubblico, iniziano e terminano, in genere, in uno spazio che resta, nel frattempo, lo stesso. Non è un caso che, come ci ricorda Pindaro, le statue degli atleti avessero statura umana. La loro “disponibilità erotica” era parte del loro messaggio, li costringeva a mostrarli toccabili, adorabili, desiderabili. La loro omogenea grandezza li rendeva utilizzabili nella figurazione interna del desiderio e quindi della condivisione , anche se breve della sintonia, della “equidistanza” temporale con noi. E, il modello sociale più alto è certo quella forma sublime di atletismo che è la musica la cui vita breve e pericolosa si affida a pochi respiri di sincronia. E’ proprio questo il modello che mostra, con la più grande generosità, l’addensarsi degli eventi che precedono, spesso di centinaia di anni, la prima nota e che, spesso, dopo centinaia di anni, ne spengono l’ultima. Meno ovvia, sfuggente, appare la magia sincronizzante e, quindi gli orizzonti temporali degli inizi e delle fini, nelle percezioni e nel commercio con le strutture architettoniche. Certamente, la “porta”è un inevitabile elemento di sincronizzazione spaziale e non è un caso che, proprio al suo livello, sia nell’entrare che nell’uscire, gli accavallamenti, il toccarsi, lo spingersi, il muoversi tutti assieme e tutti con lo stesso vettore, creino le condizioni temporali degli inizi e delle fini. Ma è la vera e propria forma a dettare le sue leggi sincroniche. Chiunque abbia passato almeno un’ora nel Pantheon  la cui forma, apparentemente priva di asse dominante, abbandona il suo visitatore ad un confuso vagare che assomiglia forse più all’organizzarsi dei liquidi in prossimità del foro di uscita e , almeno, finisce  per inventare  l’insorgere “spontaneo”  del gorgo iperbolico. In tutto identico  a quello, costruito e dissolto nell’aria dai milioni di pipistrelli ad ogni alba e ad ogni tramonto da milioni di anni attorno alla bocca della “ Bat Cave”, in Stati Uniti. La provvidenziale continua asincronia del nostro cervello ci informa, senza alcuna discrezione o gentilezza, che abbiamo ancora, davanti o dietro alcune fini, alcuni inizi su cui, un altro astuto meccanismo ci impedisce di concentrarci . In ogni caso, ci dicono,  è il caso si seguire il buon consiglio di  Frank Herbert che, proprio all’inizio di “ DUNE”  scriveva : Un inizio è il tempo in cui occorre prendere massima cura dei più delicati equilibri”.

Ruggero Pierantoni

Appunti d’amore, gioia e disperazione. Una lettura di Pastorale di Giorgio Cesarano.

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Giorgio Cesarano, Romanzi naturali

Giorgio Cesarano, Romanzi naturalidi Francesco Filia

Mi spaccherei le mani per passarti/ un grano verosimile d’amore. In questi versi di Due, una delle poesie di Pastorale c’è tutta la straziante tensione dell’esperienza poetica e intellettuale di Giorgio Cesarano (Milano, 1928 – 1975). Un’esperienza che lega in modo inestricabile amore, disperazione e sforzo spasmodico di comprensione intellettuale della realtà. La disperazione – che è la cifra ultima delle poesie di Cesarano – non è nel sentimento soggettivo, ma nelle cose stesse, nella loro radice, perché la radice di ogni cosa, di ogni amore, di ogni bene è l’incombere del niente: tu bene della terra/ inguaribile e noi di tanto niente// gli eroi vivi, le anime del niente. Solo sotto la minaccia di tale incombere avviene autenticamente qualcosa, soprattutto, se questo evento si presenta nella dimensione che più mette a nudo la nostra inermità: l’amore come desiderio di ciò che già da sempre manca. In questo tendersi verso l’altro consiste l’epicità dei romanzi naturali di Cesarano. Essa sta nel relazionarsi tragico di due o più individualità che si scoprono unite in una lontananza incolmabile, confermata, in maniera ancora più lancinante, dal compimento del rapporto amoroso: il contatto dei corpi e la penetrazione sessuale (Fermo qui vicinissimo/ amandoti con molto mio,/ mentre tuo, tutto il tuo/ – ferma qui vicinissima – / diminuire, rimpicciolirti, / con strazio non so (piccolo?) / mi sgorga per te via.). Ecco il paradosso tragico, più i rapporti, le relazioni, diventano intensi, più c’è un coinvolgimento che mette in gioco tutto l’essere che siamo (al di là, o, meglio, al di qua, della posticcia distinzione mente/corpo), più si sperimenta l’impossibilità di afferrarsi, tanto più si scopre la propria strutturale solitudine ontologica. Solitudine estrema, perché è la persona amata che ce la rimanda in maniera irrefutabile (debole come ora e tradito/ da tanta mia spesa dolcezza/ non sapevo vedere di te/ che il nero, la cupa forma che mi assorbe). E come dire questo in versi che siano veri? Senza cadere nel trabocchetto lirico dell’anima a nudo, che non fa altro che isolare un’interiorità che non può, senza cadere nella deiezione del luogo comune, essere isolata dal mondo a cui appartiene? La verità del nostro stare al mondo emerge, nei versi di Pastorale, nell’orizzonte insuperabile del desiderare. La strategia poetica adottata da Cesarano è quella del “romanzo naturale” ossia, nel superare qualsiasi lirismo attraverso un racconto espressionistico, dialogato e a volte ruvido . Dove l’affidarsi al racconto è dovuto, però, a un controllatissimo uso del verso e del periodare, in cui sintassi e metro quasi mai si incontrano e il ritmo è un alternarsi vertiginoso d’improvvise accelerazioni e frenate, di movimenti ellittici, spesso spezzati nel dettato metrico, e discese a precipizio nel vortice del verso, in cui il sovrapporsi dei piani narrativi, descrittivi, dialogati è tutto teso e convergente in una rivelazione che ha quasi sempre, però, la luce accecante del negativo. Negativo insito nel nostro stare al mondo e dato da quel muro invalicabile, anche per l’incessante desiderare, che è la morte come possibilità ultima e irredenta; desiderare, che proprio per questo, non risulta mai veramente nostro, a nostra disposizione, ma si mostra in un’alterità radicale che si concretizza in noi nell’inesauribilità del desiderare stesso che nessun essere, nessun altro, nessun momentaneo soddisfacimento potrà mai colmare del tutto (Tu alzi uno sguardo/ di cuoio e “amore tu mi hai dato tanto”/ dici e “caro non sono capace di dare niente”). In questo impatto tra il desiderare incessante, di cui l’amore è l’aspetto centrale, e il morire, della vita e nella vita, consiste la dimensione strutturalmente disperata della condizione umana (mi vedi partire/ “non sono capace di vivere” immobile a un palmo/ mi vedi che taglio la corda che me ne vado/ “non sono capace di vivere senza di te”/ filando seduto morto a un palmo da te). L’unità di parola che dice e cosa detta, nei versi di Pastorale è il tentativo di rimarcare fino in fondo la disperazione della logica del possesso amoroso e di qualsiasi logica di possesso. Più ci si sprofonda nell’autenticità del rapporto amoroso, come possibile compimento del desiderio, tanto più ci si scopre nudi, inermi, distanti – anni luce o solo un millimetro – dalla persona o dal fantasma amati (tutto perché/ hai quella tremenda/ faccia della mia// (anima) perché mi spacchi/ il ventre e mi/ (anima) il ventre e mi/ nuda ridi e tu/ sprofondo dentro il corpo e non ti tocco/ (anima) e non ti tocco/ per quanto è lunga una notte duro/ dentro il tuo corpo stremato e non/ e non ti tocco, anima,/ sprofondante faccia della mia/ vita (anima) mai.). È la struttura del desiderio stesso che ci consegna alla nostra disperazione di essere finiti, di essere gettati nell’esistenza e di non aver creato nulla e dove le parole servono sì a dare un senso, ma anche nella loro ossessiva e spesso elusiva ripetizione, ci riconsegnano all’estraneità di ciò che ci sta davanti e che non possiamo fare nostro mai definitivamente. Possedere l’altro significa sentirlo lontano radicalmente e senza speranza, perché anche l’estrema vicinanza, l’incontro dei corpi, l’unità sfiorata è la lontananza più incolmabile, in quanto quel corpo, che ci accoglie, ci dice in maniera irrefutabile che non sarà mai nostro, perché è esso stesso un centro desiderante altro da noi, che la storia che lo abita è altra da noi. Questo rifiuto oggettivo dell’essere ci porta a sprofondarci, una volta ancora, nel suo essere altro, per vivere in carne ed ossa la logica di questa esclusione, del dolore lancinante di non aver creato noi l’altro che amiamo in maniera inguaribile (d’un mio dentro di me che quanto a me t’include/ ma quanto al tuo sentirti qui di fronte/ e al mio fissarti e nominarti altra/ da me, esclusa, e con tutta la tua/ vita – ecco la fitta/ illogica che addolora i miei occhi:/ il non averti fatta/ io, non averti io generata come questa cosa/ amabilmente intima dell’aria/ buia e dei suoi suoni, dei quali, remissivo/ patisco d’essere fin sulla pelle vestito e fino/ alla pelle dentro nudo/ in un gelo lampante, irrefutabile). In questi versi lucidi e strazianti è detto poeticamente quello che poi Cesarano metterà sempre più in chiaro nel suo lavoro critico e, in particolare, nelle tesi di Insurrezione erotica. In Due, nelle due persone che si amano e si cercano e si desiderano fino allo spasimo, si apre la possibilità di scoprire la radice profonda della dimensione amorosa, in cui “l’oggetto d’amore — il feticcio dell’essere — si fa trasparente fino a svelare d’essere una via, un movimento, una sovra-agnizione, un’iniziazione, quando perde la sua opacità d’oggetto e fascinazione di feticcio, che veramente l’amante scorge, non il fondo, ma il principio dell’essere possibile, e la sua semplicità luminosa e terribile. È in questo istante che l’amante conosce la gravità dell’impresa, è ora che vede l’amore come conquista e superamento, come comunione al di là del sé, lotta per la vita, come comunicazione concreta e pragmatica del possibile, come insurrezione” . Che cos’è qui l’insurrezione? È il riconoscimento della libertà del desiderare umano, che insorge contro qualsiasi ingabbiamento definitivo. Libertà che però non ha nulla di rassicurante, ma è lo stare nella dimensione inquietante dell’esistenza, nel gioco serissimo del riconoscersi reciproco delle individualità, come possibilità gettate nel nulla dell’esistenza, ossia di una dimensione che è impossibile irrigidire definitivamente, come, secondo la prospettiva storica in cui si trova Cesarano, fa la logica del Capitale. E quindi l’amore è platonicamente il luogo in cui noi siamo consegnati alla nostra dimensione più propria, attraverso la contemplata e desiderata bellezza. La differenza fondamentale, tra la dimensione classica dell’amore e l’esperienza che ne ha la nostra epoca, è che il desiderio non si inserisce in una gerarchia salvifica il cui fine è il Bene, l’Agathón, ma è il luogo in cui noi scopriamo il grado zero del nostro essere, la ferita profonda che ci abita. Anzi più siamo nell’impresa dell’amore, nella sua apparente armonia, nella sua anelata armonia, più siamo consegnati alla nostra radicale imperfezione e di chi ci sta innanzi (Con educata e toscana voce e per eufemismi/ dici la tua imperfezione./Dici dei due mariti dici dei genitori.), all’angoscia della nostra impossibilità, della nuda possibilità del nostro essere e all’inadeguatezza del nostro dire. La parola, o dice troppo o non dice abbastanza, e qui il verso di Cesarano, al di là di qualsiasi abbandono espressionistico, ha il tratto disperato di una ricerca impossibile della precisione assoluta nell’esprimere il mondo come si dà nel suo divenire (emozioni, cose, idee, sensazioni, ombre, luci) e quest’accostamento alla cosa del dire che rende strazianti le poesie di Cesarano (Ma l’armoniosa cosa che sopra la tovaglia/ (e in una sua intimità con l’aria buia/ dove splende) risplende: l’armoniosa/ testa, l’armonioso viso – che mi commuove/ e mi angustia e mi frena/ nella bocca il più delle parole – troppo/ deboli, o troppo, ancora, intense). Strazio reso ancora più lancinante dall’uso accortissimo e rivoluzionario delle figure retoriche, come nel raddoppiamento di Epitaffio o, sempre nello stesso testo, la figura della sospensione, che rende spasmodico l’andamento dei versi, in una tensione crescente che si risolve in un finale vertiginoso (ultimo crampo di inguaribile amore). E se la poesia dice l’inguaribilità del crampo amoroso e se questo crampo, che è esso stesso il dire poetico, non può andare oltre la costatazione drammatica della nostra finitezza e imperfezione all’interno di un desiderare trascendentalmente incessante, anche la poesia deve finire, se vuole rimanere fedele alla sua dimensione veritativa e non trasformarsi in un gioco insensato che scimmiotta, ma non svela, il senso profondo dell’esistere.
In questo limite strutturale della poesia, oltre che in motivazioni personali e storiche, si può spiegare l’abbandono del poetare da parte di Cesarano, già a partire dalla fine degli anni Sessanta e, invece, il rivolgersi esclusivamente alla critica sociale del Capitale . La scelta irreversibile di Cesarano dimostra, ancora una volta, l’indissolubile legame tra teoria e poesia, il dialogo inestricabile tra queste due diverse dimensioni, che però si confrontano con la stessa cosa: l’enigma dell’esistenza dell’uomo e del suo rapporto con il Mondo. E qui assume un senso la scelta del genere pastorale, come dice il titolo di queste tre poesie. Esso è il tentativo, come evidenziato in precedenza, di uscire dalla ristretta dimensione lirica e di ridefinire il rapporto dell’uomo con il mondo, con ciò che definiamo natura e che naturale non può mai essere fino in fondo, perché dove c’è uomo non c’è più solo natura, ma anche ciò che natura non è più o non ancora: simbolo, quel rimando continuo a qualcos’altro, quel cerchio mai definitivamente chiuso, come il desiderare: “Come tutto che è secondo natura/ e non può ferire”/ ma secondo natura feriti sediamo/ ammutoliti tenendoci per gli occhi/ con sorrisi). In questo senso il genere pastorale da Cesarano è usato in senso ironico – nel senso dell’etimologia di rovesciamento dissimulatorio, demistificante – e anti-idillico. L’evidenza di questa operazione si mostra soprattutto in Altri. Qui Cesarano, con sguardo da entomologo (che, però, proprio nel distacco che tale atteggiamento comporta, nasconde una segreta e più autentica compassione, retta dal voler cogliere le relazioni nella loro spietata verità), costruisce vari “quadretti idillici”, in cui sono colti vari momenti amorosi: la crudezza dell’accoppiamento, il rapporto fisico e il momentaneo appagamento del desiderio o il dolore. In queste situazioni, fotografate poeticamente quasi sempre di nascosto, non c’è nessuna armonia edenica ma panico di teste/ negli interdetti calori dei grembi,/ niente di niente. La natura, il paesaggio, è erba cresciuta negli spurghi e insetti loschi ; e in questa natura, antropizzata e paradossalmente selvaggia, originaria e degradata, ognuno vive in quel che rimane di una logica, l’unica che l’uomo sembra conoscere, quella del potere dell’uomo sull’uomo e solo con una remota, ancestrale memoria d’un filo di passione, in chi in questa logica è sottomesso, di cui rimane soltanto una fame inesauribile e senza speranza (ma l’estate d’erbe/ cresciute negli spurghi e insetti loschi/ (ognuno della sua residua logica/ padrone interamente e servo forse/ con memoria d’un filo di passione)/ minima e tutta inferociti getti/ defunti presto per veleni, fame.). Ecco, scoprendo la nostra fame, mai nostra perché non la scegliamo, scopriamo la tensione lacerante che ci abita, si arriva alla radice del proprio essere: un nulla che desidera ciò che non ha, ciò che non è. L’esperienza del nulla prima che valoriale è ontologica, essa è il cuore delle poesie di Cesarano, ed è la fonte della gioia, sentimento limite e necessario, come l’angoscia, del nostro stare al mondo (allora quei versi non me li seppi spiegare,/ partigiano della gioia e così sordo all’inferno./ Disceso ora con te dove brucia l’inverno). Il partigiano della gioia è colui che ha fatto esperienza della fine, della radice finita e disperata di ogni cosa, del gelo, dell’inverno definitivo, che abita ogni cosa, perché è già da sempre con un piede sul baratro della morte senza rimedio, del vero inferno del niente. La gioia è il sentire di chi scopre la natura gratuita del suo stare al mondo ed è quindi già oltre ogni pre-occupazione ed è gettato, proprio a partire da questa disperazione, in un insensato, inerme e furioso amare, sperare .
Quindi amare, desiderare, è scoprirsi finiti, il sentimento della fine produce angoscia, disperazione ma, secondo la logica dei contrari, la disperazione si rovescia in gioia, che nell’etimo richiama al goduto a ciò che si è desiderato e che per un attimo si è fruito, senza l’illusione di averlo posseduto. In questo la gioia è accettazione incondizionata del nulla, di ciò che incombe già da sempre sull’incessante divenire di ogni cosa e, quindi, la gioia non può non essere sguardo radicale sulle cose finite. Ora da qui riparte, inizia tutto, tutto il possibile, l’alba di ogni cosa (Con la testa sul mio cuscino/ dormivi nei tuoi capelli/ sanguiformi nell’alba), senza più nessuna gabbia salvifica o logica del rimedio al nulla che ci pervade – il crampo amoroso è e resta inguaribile -, ma abbandono rabbioso d’amore, che è un aprirsi al desiderio nella sua dimensione di tensione feroce, senza la pretesa di raggiungere un bene definitivo (Gli altri che t’amano e io/ – è finita, finita, finita -/ Gli altri che t’amano e tu e io/ giustamente per sempre feroci, noi che ci perdiamo sempre/ apparendoci in lunghi corridoi,/ noi siamo (…)/ i morti della vita). Ma insito nel desiderio vi è anche una dimensione di nostalgia verso un bene già da sempre perduto e i cui contorni sono sempre più sfumati e che, però, continua a spingerci verso un orizzonte futuro – l’origine è la meta – che redima anche il passato ormai irrimediabilmente svanito (aveva i tuoi occhi/ la ragazza che in questo stesso hotel/ d’ironico nome Victoria/ quand’ebbero gli anni principio d’amore/ venne diritta,vita.) e che nessuna contemplazione (-ora ti guardo mentre perdi luce/ piangendo nei tuoi capelli all’addio,/ sul campo è l’ora dei pipistrelli-), per quanto emotivamente coinvolta, può restituire, anzi non può che confermare, nel presente amoroso (Gli occhi che ora si sognano, tuoi, chiusi/ di me che discendendo li raggiungo.), la lancinante perdita che accompagna ogni attimo passato. E qui può essere visto ciò che Cesarano ritiene che l’amore rievochi, cioè l’altro come possibilità, come una tendenza a fruire della realtà, cioè a godere autenticamente di essa, senza rimuoverne la dimensione intrinsecamente dolorosa, lasciandola essere ciò che è, non assimilandola a sé. In altre parole, se il desiderare, come è stato mostrato, è la struttura trascendentale, cioè tale da abbracciare e superare ogni realtà determinata, dello stare al mondo dell’uomo, esso sarà intrinsecamente inesauribile, infinito e nessun oggetto potrà soddisfarlo. Quindi, la logica del possesso come appropriazione definitiva della cosa desiderata, è uno snaturare l’intrinseca essenza del desiderare, come fa, secondo Cesarano, il Capitale, trasformando tutto in feticcio. Il desiderio non può morire nell’opacità di un oggetto, ma aprirsi alla luminosità semplice e terribile del principio amoroso, che, consegnandoci alla nostra nudità e nullità, ci proietta in una relazione possibile con altri centri desideranti, a loro volta, già da sempre decentrati perché proiettati in un altro, che al tempo stesso li accoglie e li respinge. Forse il gesto finale di Cesarano contraddice tragicamente questa possibilità o forse le dà il sigillo dell’irrevocabilità. Resta comunque una consegna nell’esperienza di Giorgio Cesarano, quella di esistere radicalmente, ossia mettendo in luce la radice autentica, finita, tragica – se tragico è ciò che, per dirla con Hegel , continua a finire – dell’esistenza umana, in ogni gesto politico, poetico, intellettuale, amoroso. Infine, per tornare ai versi con cui abbiamo aperto queste considerazioni, lo spaccarsi le mani è il destino dell’uomo, che decide di affrontare la sfida di corrispondere in maniera autentica alla natura amorosa del proprio stare al mondo. Questo spaccarsi le mani non può che essere finalizzato al riconoscimento dell’altro, perché l’amore non è un sentimento singolo e la condizione umana è protesa verso un compimento che non può venirle da se stessa. Di conseguenza ogni uomo non può che essere teso a farsi riconoscere come amante dall’altro, senza il quale altro, senza il reciproco irriducibile riconoscersi – nel grano, non più Vero, ma solo verosimile, perché lo stesso vero diventerebbe un feticcio – nessuno potrebbe essere sé stesso, ossia quel crampo di inguaribile amore che continuamente chiede un senso profondo al suo stare al mondo, a questa vita che, comunque, è, ineluttabilmente e sempre, persa. (i morti della vita, e tu tersa/ faccia, che ci trattiene veri di dolore,/ della sorte, della vita che è persa,// ultimo crampo di inguaribile amore).

 

[A questo indirizzo una sintetica antologia della poesia di Giorgio Cesarano, a cura di Gabriele Gabbia.]

#Prop (video) Art

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Gangnam Style / Ai Weiwei

La nonna di Lara

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di Giovanni Dozzini

Non sarò io, pensava la vecchia donna, a mettere becco su una faccenda del genere. La stufa di ghisa e smalto, color fango, color fiume, occupava quasi un terzo della piccola stanza in cui nel tempo suo figlio e sua nuora erano riusciti a comporre una cucina degna di questo nome: e adesso era addirittura moderna, o almeno così avrebbero potuto definirla se solo si fossero dovuti ritrovare a parlarne con qualcuno. Ma la verità, e la vecchia lo sapeva, era che le poche persone con cui avrebbero potuto discorrere di questo tipo di cose – di come appariva, alla fine di tutto, la loro piccola cucina – avevano già visto coi propri occhi il progredire, anno dopo anno, delle sembianze di ciò che era ricompreso tra quelle quattro mura.

Possiamo sbarazzarci dei classici italiani?

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di Matteo Di Gesù

La fotografia è di Olivo Barbieri

«Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire». Ogni tanto accade l’incresciosa evenienza per cui la citazione di circostanza, che dovrebbe ratificare una tesi, serva piuttosto a negarne i presupposti, ribaltandola e rivelando la fondatezza del suo contrario. Probabilmente la celebre sentenza calviniana, che, come un meccanismo a molla, scatta inesorabile a suffragio di qualche ciarla mondana sull’irrinunciabile necessità di leggere (di rileggere, ci mancherebbe) i classici, rientra in questa casistica. È possibile, insomma, che invece i classici, specie quelli italiani, abbiano finito di dire quello che avevano da dire, quantomeno per ora.

Sembrerebbero perpetuarsi, a dispetto dei tempi e dei costumi, e le notizie editoriali parrebbero confermarlo: una sontuosa raccolta Utet fresca di stampa, curata magistralmente da Carlo Ossola, Letteratura italiana. Canone dei classici, per la libreria del salotto; una collana Bur di classici italiani, edita in collaborazione con l’Associazione degli Italianisti, con nuovi commenti e apparati aggiornati, per lo zainetto. Libri che però permangono sullo scaffale come un complemento d’arredamento o durano in borsa il tempo di preparare l’esame di Letteratura italiana I. Sarebbe pure un fenomeno collaterale, nel lento collasso della nazione, ma resta il fatto che la nazione stessa abbia contratto con la propria tradizione letteraria un debito fondativo: se l’Italia è «un’invenzione letteraria», la marginalizzazione della sua letteratura dovrebbe riguardare una cerchia più estesa degli ultimi clienti della rateale Einaudi.

L’ultima apertura al pubblico del Sacrario della Letteratura Nazionale, in occasione del Centocinquantenario, d’altro canto, ha avuto i caratteri di una cerimonia memoriale funebre, piuttosto che quelli di una riscoperta vivificante. Questa voga monumentalizzante (proprio nel senso di pietrificare e rendere inerte qualcosa di mobile e accessibile), tipically italian, sembrerebbe rimandare a una delle cause storiche di questo processo, ovvero alla micidiale attitudine accademica di museificare i testi della tradizione, rendendoli inaccessibili direttamente e contemplandone soltanto una ricezione parcellizzata e mediata dall’autorità preposta, quella del professore sciamano, il solo in grado di divinare il testo e di restituirlo alle plebi incolte. Si tratta di un discorso del sapere le cui dinamiche di potere sono evidenti e non richiedono supplementi di indagine in questa sede.

Tuttavia, per una volta, non è il caso di prendersela con l’accademia (se non magari per deprecare la sciatteria deprimente della routine universitaria, speculare, e analoga negli esiti mortiferi, al culto per gli iniziati): troppo facile, specie di questi tempi. Anzi, a dirla tutta, molte delle interpretazioni meno conformiste e più innovative delle opere canoniche italiane le hanno elaborate proprio corrucciati professori universitari, confezionandole in robusti e minacciosi saggi accademici: possiamo pure trovare intrigante la lettura degli Appunti queer sui Promessi sposi, recentemente pubblicati, col titolo Aria di braveria, da Tommaso Giartosio su «Le parole e le cose», giusto per fare un esempio; ma andrà ricordato che a restituirci un Manzoni assai diverso da quello compitato svogliatamente al liceo avevano già provveduto tempo Ezio Raimondi e Salvatore Silvano Nigro, tanto per dire. O si pensi ancora a una recentissima Introduzione alla Divina Commedia, sempre di Ossola, che si legge come una passeggiata attraverso dieci secoli di letteratura occidentale. Come aria nuova circola finalmente in alcuni manuali di italianistica (la collana diretta da Battistini per Il Mulino, per dire). E non vale neppure avviare la solita tirata sulla scuola che ammazza la lettura: per quanti professori di lettere necrotici e necrofori affollino le aule cimiteriali italiane (scrivendo magari nel tempo libero appassionati pamphlet contro lo stolido studio della poesia in classe), ce ne sono altrettanti che spacciano Leopardi originali, senza tagliarli con l’anfetamina del cazzeggio paratelevisivo, con grande competenza e qualche successo didattico.

Ecco, a proposito di televisione et similia, ci sarebbe da chiedersi, semmai, se quell’antico, esiziale, ruolo del professore-sacerdote non sia stato devoluto, mutandosi in una versione pop ma conservandone inalterate le logiche di trasmissione escludenti e autoritarie, ancorché occulte, agli intrattenitori da festival letterari e letture di massa. Se, in altre parole, a dispetto della qualità degli show letterari e delle ottime intenzioni delle operazioni di divulgazione spettacolare, il pubblico-lettore non preferisca delegare il Benigni di turno a leggere e a comprendere al posto suo, come faceva un tempo con l’austero docente.

Poi ci sarebbe la questione della lingua (in Italia c’è sempre aperta una “questione della lingua”): ogni tanto qualcuno tira fuori questa storia della necessità di tradurre le opere del canone italiano, per agevolare gli italofoni del ventunesimo secolo: un pretesto per piallare la prosa di Machiavelli e Alfieri, fino a farla aderire a quella del Bruno Vespa saggista. Finalmente, spezzato il giogo dei tiranni parrucconi, il Carofiglio di turno non dovrà più imitare Petrarca: sarà semmai questo che dovrà adeguarsi a quello (un discorso diverso andrebbe fatto per il Busi “traduttore” di Boccaccio e Ruzante, nonché per le imperdibili Novelle stralunate dopo Boccaccio, curate per Quodlibet da Elisabetta Menetti e riscritte, tra gli altri, da Celati e Cavazzoni).

E se, interpellati da «Nuovi argomenti» a proposito del loro sentimento identitario nazionale, gli scrittori italiani sentenziano che la loro patria è solo la lingua, nondimeno i classici italiani non dicono più nulla alla gran parte di loro, specie agli autori dell’ultima generazione, che ne ignorano proprio la lingua, oltre che storia e tradizione. È bastato un ventennio di bulimia contemporaneistica e di sovradosaggi di best seller anglosassoni per far dimenticare, tra le altre cose, che proprio il nostro Novecento è una ininterrotta rivisitazione del canone nazionale. Calvino lo sapeva bene, ma ormai nemmeno lui lo si legge più: è un classico.

[Questo articolo è stato pubblicato su Orwell]

Abitare una lingua

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Lo scorso agosto ho vissuto una bellissima esperienza nel Parco nazionale del Pollino. Ne ho scritto un diario di viaggio che ora è disponibile gratuitamente in formato ebook (ad esempio qui, qui, o qui). Riporto di seguito un piccolo estratto del secondo capitolo.

di Gianni Biondillo

Franca è una di quelle che è tornata. Per amore. O meglio: è tornata perché il marito amava troppo la sua terra ed ha preferito lasciar perdere la sua specializzazione d’ingegneria meccanica e tornare, da Roma, qui in Basilicata; e lei, per amor suo lo ha seguito. L’amore per un amore. Una specie di amore al quadrato insomma. Me lo racconta mentre apre per me solo la sede del Museo della Cultura Arbëreshe di San Paolo Albanese. Il museo è piccolo, ha la classica sequela di oggetti tipici di tutti i musei della cultura contadina che si possono incontrare un po’ dappertutto nel Sud Italia. Un museo a ben vedere noioso, didascalico, senza quella capacità di stupire, di interagire col pubblico che hanno molti dei musei che ho visitato in giro per l’Europa. Ma Franca è albanese, arbëreshe, di nascita e per come la vedo non è il museo, è lei quella che mi interessa.

Lei porta con sé, sulla sua pelle, quella cultura che vorrebbe mostrarmi nelle teche, negli oggetti quotidiani che, se non usati, divengono lettera morta. Quindi la sottopongo ad un fuoco di fila di domande alle quali, educatamente, non si sottrae. Ha voglia di parlare, di interagire, di mostrare il suo orgoglio d’appartenenza senza arroganza, spesso, anzi, con una modestia che commuove. “Ho imparato l’italiano andando a scuola” mi dice. La sua seconda lingua. Perché qui, da quasi cinquecento anni si parla un albanese del sud, in parte cristallizzato a quell’epoca, in parte mutato col mutare dei tempi e dei contatti con gli abitanti e i dialetti del vicinato. “L’albanese moderno è molto diverso dalla nostra lingua” mi spiega, “ma se mi ci impegno lo capisco, un po’ come un italiano che intuisce uno spagnolo se gli parla lentamente”. Mi racconta della lavorazione della ginestra, di come i suoi nonni riuscissero a trasformarne la fibra in un filato per farne abiti, sacchi, coperte. Mi mostra i costumi tradizionali esposti ma ci tiene a dire che alcuni di questi abiti sono ancora usati quotidianamente dalle ultime vecchiette che girano per il paese. Nulla di folkloristico, insomma, ma vita quotidiana. Dopo di loro, probabilmente più nessuno vestirà così: mi sento nel cuore di un cambiamento epocale, ineluttabile. Come se stessi assistendo alla morte di una stella nel firmamento. In fondo è inevitabile, è inutile vivere di nostalgie per gli usi altrui. La storia di quegli abiti, di quegli attrezzi di lavoro, è anche la storia – per quanto gloriosa, per quanto leggendaria – di miserie, di fame, di fatica.

Immaginiamo, dagli studi di Ernesto De Martino in poi, la Basilicata come una terra immobile, relegata da noi in un eterno medioevo. Ma ciò che aveva affascinato l’antropologo oggi, prendiamone atto, non esiste più. Ed è giusto che sia così. Trovo snob il modo di vedere questa regione, questo insistere sull’idea che sia un popolo di vecchi, con usi e costumi sepolti nella notte dei tempi, questa idea mortuaria, funebre, fatta di riti contadini e tradizioni fossilizzate, che piacciono tanto ai cittadini frenetici del nord, lettori estatici di scrittori “meridionalisti”, così “autentici”, così “esotici”. C’è chi ci marcia su tutto ciò. C’è chi ha fatto la sua fortuna artistica, in un eterno, infinito neorealismo fatto di piccoli Rocco Scotellaro, di verghismi degli stenterelli, di Franceschi Jovine in pectore, di “buon selvaggi”, di briganti televisivi, di salsicce lucaniche e sagre popolari del fagiolo o della porchetta.

Ma questo non lo dico a Franca perché lei non fa parte di questa risma di persone. Lei, semplicemente, parla, canta, ama, sogna in arbëreshe.

Neppure una settimana fa ero in un’enclave ligure della Sardegna. Da Pegli negli stessi anni della fuga dall’Albania di questa gente, una comunità di pescatori di corallo s’era trasferita in Tunisia, a Tabarka. Due secoli dopo furono cacciati (“fuori di qui, stranieri che ci rubate il lavoro!”) e perciò il re sabaudo donò loro due isole in Sardegna: Sant’Antioco e San Pietro. Girare per quelle strade dal piano regolare, piemontese, e sentire parlare in un ligure stretto, o mangiare la focaccia proprio come potrei farlo a Genova, mi aveva straniato. Qui è ancora più affascinante. La resilienza di una cultura supera le più incredibili avversità. In fondo noi, prima ancora di un luogo, di un paese, tutti noi abitiamo una lingua. È quella, su ogni cosa, che ci forma, che ci identifica. Ogni volta che muore una lingua muore un mondo. Ogni volta che una lingua resiste, resiste la diversità, la molteplicità, la ricchezza dell’umano.

Ovviamente nulla resta immobile e uguale a se stesso, sarebbe contrario alla vita stessa. La comunità arbëreshe subì persecuzioni, su tutto religiose. Furono “cattolicizzati” a forza. Ma residui di resistenza culturale restarono intrisi nei gesti e nelle abitudini di questa gente. Si mischiarono col nuovo per diventare altro (che è in fondo il modo migliore per conservare le cose). Nella chiesa principale mi viene fatto osservare un affresco scoperto da poco: mostra un’ostia quadrata e una scritta in greco. Nulla di che dal punto di vista artistico, ma dimostra come ancora nell’Ottocento il legame col rito bizantino fosse forte. E lo dimostra il fatto che agli inizi del Novecento la chiesa cattolica, dopo tanto inutile sottomettere, trovò una sorta di compromesso, inventando da zero la Chiesa Cattolica italo-greca di rito bizantino. Come a dire: se non riusciamo a piegarvi del tutto, vi inglobiamo. Mantenete le vostre abitudini orientali, basta che vi dichiarate cattolici. Don Francesco, l’attuale presbitero, ha preso con fin troppo zelo il compito conferitogli. Sta, negli anni, riempiendo la chiesa, che ha tutto l’aspetto di una tipica chiesa cattolica, di icone bizantine. Lui stesso è un pittore e studioso raffinato e molte delle immagini sacre poste sull’iconostasi (che non c’era mai stata prima) le ha dipinte lui stesso. “Dietro, nella parte riservata al clero, s’è fatto aiutare dalla figlia”, mi viene detto. Figlia? Ah, già… me l’ero dimenticato: i preti di rito bizantino possono avere una moglie, possono avere figli. Ed essere cattolici. Giusto per far capire che la chiesa di Roma è molto più pratica e malleabile di quanto immaginiamo!

Don Francesco vive con un po’ di fastidio la presenza di statue sacre all’interno della chiesa, vorrebbe ci fossero solo icone. Vorrebbe, insomma, ripristinare un passato perfetto, inamovibile. Illogico: ormai, dopo secoli di culto, la comunità arbëreshe ama le sue statue così cattoliche, così italiane, che senso ha imporre così tanto integralismo di ritorno? Mi avvicino alla statua di San Rocco, santo veneratissimo in questa parte del sud Italia. Mi mostra la ferita sulla coscia, e piuttosto che ad un bubbone della peste lo associo ai turgori delle punture di zanzare e di tafani che mi stanno mangiando vivo in questi giorni. Ad ognuno la sua pena, insomma.

Reality, un film e un genere televisivo fuori tempo massimo

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di Giuseppe Zucco

Di tutti i commenti che hanno tratteggiato l’inevitabile scia dietro il varo di Reality, il nuovo film di Matteo Garrone, ce n’è uno parecchio persistente. Il film sarebbe arrivato fuori tempo massimo. Per essere davvero incisivo – carico di indignazione, palpitante di una denuncia sociale – avrebbe dovuto sfilare nelle sale quando il fenomeno mediatico del Grande Fratello piantava la sua bandierina sulle vette dell’auditel.

Il ragionamento è molto curioso. Se da una parte eleva l’indignazione e la denuncia a valori estetici su cui fondare il giudizio critico, e quindi parte della fortuna di un film, dall’altra vorrebbe il lavoro dei registi completamente appiattito sull’orizzonte circoscritto dell’attualità. A misurare la storia del cinema con questo metro, un’opera come Apocalypse now di Francis Ford Coppola del 1979 sarebbe dovuta essere squalificata, per non dire di Full Metal Jacket di Stanley Kubrick i cui vagiti risalgono al 1987: i venti di distruzione e paranoia della Guerra del Vietnam, infatti, spirarono dal 1960 al 1975.

Ma un commento del genere è così appuntito che finisce per centrare un bersaglio quando ne ha appena mancato un altro. Effettivamente, in Reality crepita qualcosa di fuori tempo massimo: il sacro, nella versione cristiana. In un paese secolarizzato come l’Italia, dove le cattedrali sono visitate più dai turisti che dai fedeli, e le compiaciute ammissioni di colpa sono subentrate all’atto di dolore, e le sedute psicanalitiche hanno aggiornato le pratiche della confessione, e il più alto dei cieli è quotidianamente intellegibile grazie a sofisticate tecnologie meteorologiche, Garrone, dirigendo alla perfezione Aniello Arena, ci consegna un personaggio folgorante proprio perche i gesti che compie – gesti che lo avvitano sul piano lucidissimo della psicosi – sono guidati dal timor di Dio.

Non è azzardato definire questo film, più che religioso in senso lato, francescano: Luciano, il protagonista, proprio per entrare nella casa più spiata al mondo, rompe con i propri familiari, si spoglia di tutto donando i propri averi ai poveri, parla con frate grillo rimpinguando le figure presenti nel Cantico delle creature. Nel film di Garrone, il controllo sociale non si traduce più nell’occhio meccanico ma profondamente umano delle telecamere di sorveglianza di Truman Show, quanto nell’occhio indecifrabile di Dio che scruta l’intera vicenda dall’alto, come le illuminanti inquadrature di apertura e chiusura suggeriscono. Tanto che il pensiero viene pure: la lente deformata del reality, qui in Italia, sembra restituire più un’immagine del nostro passato che una visione, apocalittica o meno, del nostro futuro.

Se questo accade, però, è anche perché il genere televisivo che Garrone indaga – il signore indiscusso del piccolo schermo negli anni duemila – già affonda le proprie radici in un territorio lontano nel tempo e del tutto legato alle consuetudini religiose. Prendendo alla lettera le parole di Guy Debord, lo spettacolo è la ricostruzione materiale dell’illusione religiosa, non dovremmo meravigliarci se in fondo i concorrenti dei reality non fanno altro che rinverdire le forme attraverso cui i mistici medioevali sperimentavano l’ascesi. Le interruzioni dei ritmi naturali, le veglie, l’inversione del giorno e della notte, il digiuno, l’astinenza sessuale, in molti casi la sopportazione del dolore, fisico e sentimentale insieme, fanno di questi concorrenti particolarmente disinibiti e ricercatamente spontanei la perfetta riproposizione postmoderna degli asceti – con la differenza che i primi, auspicando la redenzione, si ritiravano in un eremo sperduto, in un monastero inaccessibile, mentre la loro versione secolarizzata, rincorrendo visibilità e successo, occupa uno spazio predisposto sulla scena globale dei media, totalmente esposti all’attenzione morbosa sia del broadcaster sia degli spettatori.

Certo, la condotta di vita dei concorrenti non sarà metodica, le regole costanti, l’imperturbabilità ai richiami mondami assicurata, però è del tutto impossibile cancellare le tracce, i segni, le soluzioni, che l’ascesi consegna a chi la pratica. Del resto, già Max Weber nella Sociologia della religione faceva notare come la dimensione ascetica avesse avuto un ruolo fondamentale nella modernizzazione e razionalizzazione delle società occidentali.

Nello schema di Weber, gli asceti sono un gruppo sociale che, attraverso una maggiore disciplina e il controllo del proprio corpo, sperimenta e poi introduce in seno alle società dei mutamenti decisivi. Senza gli asceti, non ci sarebbero stati i Puritani – una comunità morigerata nei consumi, puntuale sul lavoro, rigorosamente casta, votata al successo solo per intercessione divina – senza i Puritani, non si sarebbe avverato lo spirito del capitalismo, prima di allargarsi alla borghesia ottocentesca, dice Weber. Gli stili di vita corporei, una volta estesi dal piccolo gruppo ai grandi insiemi, anche se in una soluzione sempre più diluita, non farebbero altro che contribuire alla diffusione di una particolare forma economica.

Allora, sebbene inconsapevoli, pronti una volta fuori dalla prigionia di una casa o di un’isola a conquistare i set e le location, proprio perché immediatamente e universalmente esposti agli occhi di tutti, cosa ha introdotto questa avanguardia di asceti postmoderni, oggi? In particolare, un modello di disciplina e una rappresentazione del corpo indifferente alla privacy, poco avvezzo al pudore, confusionario in fatto di pubblico e privato, docile al regime di visibilità assoluta – cioè, la benzina che alimenta il motore su di giri del capitalismo 2.0 della Silicon Valley, di Google, dei social network come Facebook e Twitter.

Così, anche se Luciano alla fine di Reality appare escluso dalla grande macchina spettacolare, in realtà, proprio per questa pervasiva e insostenibile trasparenza dell’essere, ne risulta completamente integrato – e se ride, ride per lo sconcerto e il disorientamento.

[Questo articolo è stato pubblicato, con altro titolo, su Orwell]

Crisi sulle terre infinite #1 : TFA o della lunga attesa: Lettera al Rettore dell’Università degli Studi di Palermo

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Quanti universi paralleli esistono! Leggermente uguali, leggermente diversi. Quanti mondi contemporanei, in cui ogni cosa è forse, per caso, un po’ se stessa, un poco altro, si ripete oppure no, ma in modo sempre vagamente differente. Eccoli qui, precipitati insieme su questa piatta terra. Come raccontarli? Partendo forse dal loro nome? Partendo da “Ministero della Pubblica Istruzione”, in parte divenuto “Ministero dell’Università e della Ricerca”, ritornato “Ministero della Pubblica Istruzione, Università e Ricerca”, divenuto “Ministero della [non più Pubblica] Istruzione, Università e Ricerca”, ri-scorporato in “Ministero della [di nuovo] Pubblica Istruzione”, ri-trasformato in “Mistero dell’Istruzione, Università e Ricerca” ad oggi detto MIUR? Ah, proliferazione di nomi!

A destra di Albert Camus: Andrea Di Consoli

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La contradiction est celle-ci : l’homme refuse le monde tel qu’il est, et pourtant, il n’accepte pas de lui échapper. En fait les hommes tiennent au monde, et dans leur immense majorité, ils ne désirent pas le quitter. Loin de vouloir le quitter, ils souffrent au contraire de ne pas le posséder assez, étranges citoyens du monde, exilés dans leur propre patrie.
Albert Camus, Roman et révolte, in L’homme revolté

L’arresto di Italo Trabucco

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Di Giacomo Verri

L’amore si nutre di compromessi. I compromessi sono dolci quando discendono dall’amore. Italo Trabucco non aveva voluto far compromessi con il proprio paese e il paese si era dimenticato di lui senza che lui dimenticasse il paese. Se ne era andato ogni volta che l’aveva ritenuto utile, per bisogno o, non raramente, per comodità. Era diventato l’elemento esterno che tornava di tanto in tanto, senza potersi amalgamare: la sua pelle non profumava come quella dei suoi concittadini, di un’altra pasta erano le sue membra.

RicercaBO – Laboratorio di nuove scritture

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23-25 novembre:

Mediateca di San Lazzaro di Savena (Bo)

 

RicercaBo è un laboratorio di lettura e discussione curato da Renato Barilli, Niva Lorenzini e Gabriele Pedullà.

Nelle due prime giornate, di venerdì e di sabato, mattino e pomeriggio, si succederanno le letture di brani inediti di sedici autori selezionati dal comitato tecnico.

Alle letture seguirà un immediato commento e dibattito da parte di tutti i presenti.

Sempre nel rispetto di un modello ben collaudato, le serate di quei due medesimi venerdì e sabato saranno animate da incontri con due autori ormai largamente affermati:

venerdì 23 ci sarà un incontro con Niccolò Ammaniti, condotto da Renato Barilli: sabato con Alessandra Berardi, condotto da Cecilia Bello Minciacchi e Niva Lorenzini.

Domenica 25 mattina, si terrà la tavola rotonda conclusiva.

 

Il programma in dettaglio:

Napoli o scena?

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Napoli dopo Napoli
Prefazione di Goffredo Fofi
a Napoli in scena
Antropologia della città del teatro
di Stefano De Matteis (Donzelli Editore)

Da Napoli si è sempre sopraffatti. Perché non c’è una sola Napoli, ma molte Napoli spesso tra loro non comunicanti. Molti anni fa, presentando al Piccolo Teatro di Milano il libro di un’amica indimenticabile, Fabrizia Ramondino, essa stessa un concentrato non sempre armonico di più Napoli, paragonai Napoli a New York, scandalizzando qualcuno. Non c’è una sola New York e non c’è una sola Napoli, tanto più se, come dovrebbe esser giusto e come altrove avviene, per esempio a Milano, la comunicazione tra hinterland e centro è scarsa. Ci sono molte New York che si ignorano a vicenda, e si può vivere tutta la vita dentro una Napoli ignorando le altre. Lo stesso dialetto cambia, ha parole e inflessioni che non si ripetono da un posto all’altro, e oggi non ha più nulla a che vedere con la città, salvo che nelle leziosaggini dell’accento – in un dialetto diventato, qui come altrove, un italiano misero e bastardo – di una piccola borghesia senza qualità e senza identità, come dovunque.

Quando nel 1972 decisi improvvisamente, esasperato dalla rapida degenerazione dei movimenti post-’68, di lasciare Milano e trasferirmi in una città del Sud dove non avevo amici e avrei dovuto ricominciare da capo, e scelsi Napoli perché affascinato dal suo mito ma soprattutto perché era il Sud più raggiungibile e vicino, mi presentai a due scrittori che avevo voglia di conoscere e nei quali speravo di trovar delle chiavi per la comprensione della città. Erano Luigi Compagnone e Vittorio Viviani, con i quali avevo avuto rapidi contatti epistolari perché del primo avevo recensito qualche libro e del secondo avevo ammirato la storia del teatro napoletano e lo sapevo figlio del grande Raffaele (di quest’ultimo avevo proposto a Einaudi la pubblicazione dell’opera d’accordo con Vittorio e ne avevo avuto una risposta negativa perché, mi dissero, Eduardo, un nome importante nel loro catalogo, avrebbe potuto aversene a male; fu invece Vittorio a rifiutare la possibilità di un’edizione in più volumi, da lui stesso curata, per l’«Universale» della Feltrinelli perché non si sarebbe trattato di un’edizione all’altezza di quella einaudiana di Eduardo nella collana dei «Millenni»), mi colpirono i diversi contesti in cui si erano confinati. Ai margini di Posillipo il primo, lontano da una folla non amata e dai suoi riti e rumori, come un amante deluso e amareggiato, e a due passi da piazza Dante il secondo, tra i suoi libri e a un passo dai vicoli dei Tribunali, di Spaccanapoli, della Sanità, innamorato di una plebe della cui vitalità continuava a meravigliarsi.

Nel breve intermezzo prima di trovare una collocazione attiva in un’iniziativa nuova e di gruppo – la Mensa dei bambini proletari di Montesanto grazie alla quale ebbi finalmente a saziarmi dei rapporti con il cosiddetto sottoproletariato, che scoprii, con Fabrizia e i suoi amici, che andava piuttosto chiamato proletariato marginale e nei cui destini mi immersi e identificai per molti anni –, fu in parte su suggerimento di Vittorio che intrapresi una sorta di viaggio dentro il
mondo dello spettacolo napoletano alto e basso, frequentando i cinematografi solo a seconda delle programmazioni mentre i teatri tutti!, per il bisogno di vedere e capire. In realtà, della vita vera ero spaventato, non sempre capivo il dialetto, duro e diverso da quello del cinema, e non capivo l’unico mondo che mi affascinasse, quello appunto del «sottoproletariato», nonostante mi sentissi preparato dalle passate esperienze palermitane degli anni cinquanta. Erano molti, allora, i teatri e teatrini napoletani, in centro e in periferia, e quasi tutti fatiscenti salvo quei due più borghesi che ospitavano il teatro di rivista e le noiose compagnie di prosa nazionali e si riempivano soltanto quando Nino Taranto vi sciorinava il suo repertorio comico-patetico (e il Viviani tardo e pacificato, sin troppo, e addomesticato dall’attore); erano molti e di uno in particolare divenni uno dei frequentatori più assidui, il Duemila, dalle parti della ferrovia, che ospitava una formidabile compagnia di sceneggiate i cui lavori (tre rappresentazioni al giorno, due il giovedì perché la mattina era dedicata alle velocissime prove del nuovo spettacolo settimanale) mi furono di grande ammaestramento non sulla realtà ma sull’immaginario della «plebe» napoletana e campana.

Da questo «censimento», sconfinando a volte oltre le periferie, nei paesini e borghi dei dintorni spostandomi su mezzi pubblici – che mi sembravano di per sé dei teatri e mi ricordavano le parole di una canzone di Sergio Bruni, un altro idolo della mia adolescenza proletaria, Palcoscenico («’e strade ’e Napoli chesto so’, nu palcoscenico ») –, appresi a conoscere buona parte della geografia napoletana, l’immensa città costiera e le sue colline, e la pianura oltre le colline.
È per questo che lessi avidamente, a suo tempo, Lo specchio della vita di Stefano De Matteis, con il quale avevo avuto e ho ancora la fortuna di condividere non poche esperienze e passioni. È per questo che ho letto altrettanto avidamente questo saggio, che ne riprende e aggiorna e approfondisce i temi, cercandovi e trovandovi adesso qualche risposta allo sconcerto con il quale ho assistito, nel corso degli ultimi decenni, alla «mutazione» della realtà napoletana, e diciamo pure, pasolinianamente, al genocidio del suo popolo, della sua cultura.

A Napoli questa mutazione è avvenuta più lentamente che altrove, e la vera svolta è stata quella del terremoto del 1980, la data che ha approssimativamente segnato la scomparsa di un ceto e della sua cultura. Non più «cultura del vicolo», narrata in teatro nel suo bene e male da Raffaele Viviani, perché il «proletariato marginale» ne è stato in buona parte espulso e la parte che vi è rimasta sembra essersi maggioritariamente adeguata – anche per le costrizioni della sopravvivenza – a una morale non più ambigua e ricca e complessa, consolidata nei secoli, ma affine a quella della piccola borghesia più insicura o a quella della piccola (o grande) criminalità. Nelle pagine di De Matteis l’analisi di questa mutazione è condotta con un’attenzione e un rigore che non escludono affatto la partecipazione, ed è questo, io credo, il merito maggiore del suo lavoro. Si direbbe che egli non ami viversi come uno di quegli scienziati sociali e di quegli storici dello spettacolo che analizzano la cultura di un popolo nella sua realtà antropologica, nel suo fondo economico e sociale, nella sua formazione storica e nelle sue manifestazioni nel corso del XX secolo e infine nelle sue rappresentazioni teatrali (ed egli avrebbe potuto con altrettanto acume parlare delle feste, della loro sopravvivenza e dei loro cambiamenti), e si è messo invece in gioco, in questo saggio, come qualcuno che ha preso parte a quei mutamenti, da napoletano attivo nella realtà cittadina che è protagonista, testimone e analista allo stesso tempo.

D’altronde, se i suoi modelli teorici erano Turner o Sahlins, quelli «letterari» appartenevano squisitamente alla storia della città, con La Capria e con la Ortese assistiti dalla luce dell’arte e non solo della storia, mentre di Belmonte ha apprezzato la distanza che appartiene a chi viene da altrove e a cui la scienza ha insegnato come difendersi dal coinvolgimento e dalla fascinazione di una diversità avvincente. Ha voluto mantenere vigile, si direbbe, anche l’attenzione sulle proprie reazioni di membro di quella comunità che sente il bisogno di studiarla, che vuol conoscerla per motivi non soltanto accademici ma per interrogarsi anche su di sé. Vuol sapere di dove viene, e, attivamente, dove bisognerebbe andare: quale destino la cultura di cui ha fatto e fa ancora parte, la sua città, potrebbe e dovrebbe avere.

Quando Lo specchio della vita uscì si era nel 1992, Antonio Bassolino sarebbe stato eletto sindaco alla fine del 1993 e si era nel pieno di quel bel momento della città che venne chiamato avventatamente «rinascimento napoletano». C’erano cose che giustificavano quella definizione, ancorché esagerata: un risveglio intellettuale e artistico notevolissimo, nel cinema e nel teatro e nella canzone, nell’università e soprattutto nelle speranze di un popolo che gli anni di Tangentopoli avevano trascurato e vilipeso. Gli anni di Rasoi, atto finale e canto di morte di una storia ma anche segnale di una riflessione che sembrava aprire a una nuova nascita, che azzardava insolite prospettive.

Fu proprio il governo bassoliniano della città e poi della regione a soffocare, di compromesso in compromesso, i fermenti di una stagione vivacissima e a farne morire le speranze di rinnovamento, soprattutto fra i giovani, consegnati al cinismo dell’immutabile. Dopo di allora, Napoli è diventata una realtà confusa e spuria, in parte fagocitata da una «post-modernità» che è qui più fittizia di altrove: una città più che mai incapace di ragionare su di sé, sul proprio destino.
Scompare la memoria viva di una grande tradizione ed è vicino il tempo in cui i giovani napoletani ignoreranno Eduardo e Totò come già hanno dimenticatoMurolo e Bruni. E non ci sono in giro i portatori di un progetto collettivo che non sia di accettazione dell’esistente. Tutto viene deciso altrove o alle spalle del «pubblico» (una parola che sembra aver perso di significato perfino nel teatro, dove chi va oggi in scena sarà domani in platea e viceversa), nell’ingannevole chiasso del consumo e del consenso, i feticci di cui la crisi va svelando la corruzione e la miseria. Gli intellettuali della città – professori, giornalisti, artisti…– non si sono mai dimostrati altrettanto impreparati a un’interpretazione attiva delle sue (e delle loro) contraddizioni, e mentre è il Mediterraneo a segnare sempre più fortemente il contesto futuro, essi vagheggiano di un’Europa che la e li trascura e molto probabilmente la e li trascurerà sempre di più in futuro.

La scena non è affatto vuota, rimane anzi strapiena perché nel frattempo, secondo la logica abnorme degli ultimi venti o trent’anni, anche a Napoli i giovani hanno fatto l’università o qualcosa di equivalente, livellato al basso, e sono stati illusi e beffati dalla società dello spettacolo diventando quasi tutti «creativi»; ma il poco che non assomiglia questa scena ad altre scene «globali» può anche apparire come una parodia provinciale e stantia di quel condizionato caleidoscopio,
e la «tradizione» è diventata il cincischiamento di un’eredità non più amata e di cui non si è più degni, di una «scuola» di cui si è perduta la linfa.

Lo strappo è stato invero grandissimo, la novità avvilente e il futuro sommamente incerto. Cosa rimane, oltre la famiglia, ancora una volta, e il suo piccolo contesto umano così ben raccontato nelle pagine di questo saggio? Per quanto riguarda il teatro, confesso di essere molto più pessimista – per quello napoletano come per quello nazionale – di quanto l’autore non dichiari di essere. L’incertezza è globale, ma se altrove la crisi sembra in grado nonostante tutto di sprigionare nuove energie e nuove proposte, liberando molte menti e molti cuori dalle nebbie, tuttavia dorate, degli anni passati, a Napoli
le minoranze sembrano più minoranze che altrove, più isolate che altrove, circondate come sono dal rumore pettegolo in cui
un’intera cultura si avvilisce e distrugge, più che altrove ignava e compiaciuta perché più cupo è il suo sfondo.
Questo libro si apre e si chiude di fronte alle Sette opere di misericordia di Caravaggio, nel cuore o nel ventre della Napoli dei vicoli,tra Storia e Natura. Il quadro della società napoletana che oggi si presenta ai nostri occhi, quella che De Matteis ottimamente studia e discute, ha invero qualcosa di seicentesco, dipinge un’insicurezza di cui la città non vuole avvertire la minaccia e dove rari sono i misericordiosi e ancor più rari i coscienti.
Roma, ottobre 2012

Muri e razzi: l’idiozia si vedrà dalla luna?

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Pochi giorni fa scrivevamo email ad operatori palestinesi del mondo cooperativo, che avevamo incontrato qui in Italia. L’obiettivo era scrivere insieme un progetto di scambi giovanili da presentare in uno dei rari Programmi Europei di finanziamento in cui si riconosce l’Autorità Palestinese. Non avevamo ricevuto risposte e ci sembrava un peccato sprecare una opportunità di questo genere. Oggi mi sembra di aver in mano solo la fionda di Davide di fronte a Golia. Pubblico di seguito il rapporto ricevuto dall’Associazione Cooperazione e Solidarietà ACS-Italia su quanto sta accadendo. Chiedo di segnalare articoli, interventi e quanto i lettori e le lettrici di Nazione Indiana considerano opportuno per andar oltre il dolore impotente che si prova davanti alle foto della guerra   di cui giungono notizie.

16nov12-Testimonianze da ospedale Shifa.pdf

Tempo di elezioni: la mia clausola

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di Antonio Sparzani

Tempo di elezioni. Personalmente credo ancora, in mezzo a mille difficoltà su cui non mi metto ora a discutere, che sia una buona cosa andare a votare.
Sì, ma con quali criteri si dà il proprio voto? Quali ragionamenti, quali priorità? Non intendo certo discutere le preferenze politiche o umane di ognuno. Intendo soltanto discutere con voi un criterio, una motivazione di voto che sento argomentare da più parti, con perfetta onestà personale e, come dire, purezza di intenti.

Ovvero vorrei proporre un ragionamento generale, che valga sia per elezioni politiche generali, che per elezioni locali, primarie, o secondarie che siano.
Supponete che dobbiamo votare per i cinque candidati (mi perdonerete se userò il maschile plurale, per non appesantire lo scritto con tutti gli “i/e” del caso. Inoltre si può trattare di candidati o di partiti o gruppi vari, naturalmente), A, B, C, D ed E. La mia clausola di base suona così:

devo votare per quello dei cinque che mi convince più degli altri, per tanti motivi che sono padrone di valutare col mio proprio metro. Può darsi che sia incerto fra due o più dei candidati, ma alla fine devo pur decidermi a preferirne uno.

Clausola ovvia, direte voi, e invece no.
Non è ovvia perché la mente dell’uomo occidentale (ma forse anche quella di altri esemplari della specie) è, o ritiene di essere, più sottile di così. Nel senso che fa rientrare nei criteri di scelta anche altre cose, oltre alle caratteristiche politiche, umane e quant’altro, del candidato (o partito) in questione. Fa rientrare quelle che potremmo chiamare considerazioni tattiche. Esempio: io, di mio, preferisco A, ma, dall’andazzo corrente ritengo che la vera contesa sarà poi tra B e D e che al ballottaggio del secondo turno (quando c’è, naturalmente) saranno B e D che si contenderanno il posto, tra i quali, già lo so, io preferirò senza alcun dubbio D; e allora, se io all’inizio voto A, come vorrei, “disperdo” voti da subito, non faccio vedere che D ha tutta la forza che io voglio appaia da subito.
Conclusione: voto D fin da subito.

Io capisco il ragionamento ma non mi adeguo e credo di non essermi mai adeguato in passato. Credo una cosa completamente diversa.

Credo che la prima cosa che deve apparire è la forza autentica che ha ognuno dei cinque candidati, quella cioè che solo appare dalle preferenze vere che egli è in grado di ottenere da chi lo vota. Non dalle preferenze tatticamente deformate. Per l’ottima ragione che questo chiarisce il quadro di base, chiarisce com’è il punto di partenza, piacevole o spiacevole che sia. Se così facendo al primo turno prevale l’odiato candidato B, bene, questo ci dà informazioni vere sulle preferenze degli elettori e da lì si può partire per future coalizioni e per le azioni più opportune.

Inoltre naturalmente c’è una questione di giustizia nei confronti del candidato A: molti lo preferiscono, ma votano D per ragioni di tattica o, come le definirei io, di secondo livello. Infatti nell’ipotesi detta, A non avrebbe modo di rendersi conto della forza che in realtà possiede e questo è un grave danno per la sua azione presente e futura.

E infine, last but not least, tutto il ragionamento tattico si basa sul fatto che io “ritengo” che alla fine la contesa sarà tra B e D; ma se io mi sbagliassi? Gli umori degli elettori sono variabili e mutevoli, se la forza vera di A fosse grosso modo equivalente a quella di D, così che solo la presunta tattica farebbe prevalere D, mentre un voto autentico darebbe più voti ad A, che andrebbe quindi lui al ballottaggio con B? Sarebbe una bella beffa per la cosiddetta tattica, no?

Kenneadi: Greci e Romani nell’era dei Kennedy

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di
Gigi Spina

Cesare deve morire, perché nasca l’impero; una successione per via elettorale dovrebbe, invece, presentare caratteri meno drammatici.Quando John F. Kennedy venne eletto presidente degli Stati Uniti d’America nel novembre del 1960, sconfiggendo il vicepresidente repubblicano Richard M. Nixon e succedendo così a Dwight D. Eisenhower, nessuno, forse, avrebbe immaginato che sarebbe stato un assassinio a mettere fine a quella presidenza per tanti versi inedita.

Robert Frost, circa 1910
Per la cerimonia d’insediamento del neo-Presidente, tenutasi il 20 gennaio 1961, un famoso poeta quasi novantenne, Robert Frost compose un poema, Dedication, nel quale risuonava il presagio della gloria di un’imminente età augustea «the glory of a next Augustan age»
La previsione di un’età augustea dava per scontato, volendo rimanere nell’analogia storica, che un assassinio era ormai alle spalle, che la congiura era storia passata e che il “nuovo” avanzava per davvero. Il dramma, invece, si sarebbe ripresentato ancora, nell’immediato futuro.

Ho fra le mani un volume dedicato a John F. Kennedy, Ask Not. The Inauguration of John F. Kennedy and the Speech That Changed America, New York 2004, opera di Thurston Clarke. In premessa c’è il famoso discorso d’insediamento di JFK, quel 20 gennaio del 1961: il sintagma dell’efficace, triplice, anafora conclusiva (ask not, ripresa recentemente da Obama nel discorso conseguente alla rielezione) dà il titolo al volume e la genesi del discorso stesso costituisce il tema del coinvolgente saggio dello scrittore e storico statunitense – una cronaca minuziosa dei giorni dal 10 al 20 gennaio.
Il discorso si apriva con un messaggio di nuovo inizio e di cambiamento:

We observe today not a victory of party but a celebration of freedom – symbolizing an end as well a beginning – signifying renewal as well as change.
e più avanti (i fanatici dei “primi cento giorni” apprezzeranno):

All this will not be finished in the first one hundred days. Nor will it be finished in the first one thousand days, nor in the life of this Administration, nor even perhaps in our lifetime on this planet. But let us begin.

Non sembra rilevante, in questo caso, la questione del ruolo dello speechwriter di JFK, Theodor Sorensen, anche perché, aldilà della paternità del discorso inaugurale, che lo stesso Sorensen «has always loyally affirmed» essere di Kennedy, si trattò quasi sempre di una stretta collaborazione e consonanza, con l’ultima parola affidata comunque all’actio del Presidente.

Sette frasi del discorso d’insediamento di JFK sono incise nel cimitero di Arlington, dove è sepolta la famiglia Kennedy. Lo ricorda Clarke, l’autore di Ask not, nel Prologue, osservando (p. 3) che le parole incise sulle pietre di una città imperiale sopravvivono alle culture che descrivono; e che fra duemila anni, dunque, Washington potrà sembrare Roma, con le rovine del Campidoglio, della Casa Bianca e della Corte Suprema disseminate in una nuova città completamente diversa.
Ecco, dunque, Roma e il suo impero, come modello di “ascesa e caduta” insieme. Solo che, come esergo al Prologue, Clarke preferisce inserire la Grecia di Pericle con un passo dell’epitafio tucidideo (2,44,3).
D’altra parte, i due modelli storici dell’antichità classica sembrano intrecciarsi in un commento del «New Yorker» al discorso inaugurale di JFK : «We find it hard to believe that an Athenian or Roman citizen could have listened to it unmoved».

L’ingresso di JFK sulla scena politica mondiale è, dunque, accompagnato da una simbologia fortemente paradigmatica, in cui campeggiano grandi figure della storia greca e romana. Le analogie fra le due situazioni storiche – Atene e Roma – esistono, certo, per molti versi, anche se la prospettiva di una “nuova età augustea” prometteva molto di più di una presenza come quella periclea, autorevole e carismatica, ma destinata a una conclusione non esemplare. Eppure, l’epitafio di Pericle (Thuc 2,35,1-46,2) era stato il modello oratorio che Jacqueline Kennedy aveva indicato subito dopo l’orazione inaugurale di JFK – affiancandola a un altro famoso discorso presidenziale, quello di Abraham Lincoln a Gettysburg (1863) –, quasi a comporre una triade retorica degna di essere ricordata dalla storia.

Nel dicembre 1960, subito dopo l’elezione, JFK aveva proposto a Stewart L. Udall, un intellettuale mormone dell’Arizona, uomo del Congresso, di entrare nel Cabinet del Presidente e affiancarlo come Secretary of the Interior. Udall aveva, a sua volta, suggerito a JFK di invitare Robert Frost, di cui era molto amico, a parlare alla cerimonia d’insediamento. Il Poeta e il Presidente avevano avuto già modo di apprezzarsi reciprocamente, ma la personalità originale ed esuberante di Frost faceva temere a JFK un’occupazione eccessiva della scena ai danni della sua immagine. Temeva, insomma, un confronto fra due discorsi e fra due retoriche. Per questo, l’idea, rilanciata da JFK a Udall, che Frost potesse recitare una poesia, sembrò la migliore soluzione per differenziare i tipi di performance.

La risposta di Frost all’invito, d’altra parte, testimonia sia della sua personalità “parresiastica”, sia delle attese che il mondo culturale statunitense riponeva nel nuovo Presidente. Da quest’ultimo si attendeva una svolta rispetto al ricordo, neanche tanto lontano, del periodo buio del maccartismo, ma anche rispetto alla lontananza ed estraneità dell’amministrazione che ora lasciava il campo nei confronti dei protagonisti della cultura e dell’arte. Frost, dunque, rispondeva con un telegramma:

If you can bear at your age the honor of being made President of the United States, I ought to be able at my age to bear the honor of taking some part in your inauguration. I may not be equal to it but I may accept it for my cause – the arts, poetry, now for the first time taken into the affairs of statesmen.

E il neo-presidente avrebbe invitato alla cerimonia di insediamento ben 168 intellettuali, rassicurandoli:

During our forthcoming administration we hope to seek a productive relationship with our writers, artists, composers, philosophers, scientists and heads of cultural institutions.

Raggiunto l’accordo sul tipo di intervento, Frost precisò che non avrebbe scritto un nuovo poema per l’occasione, ma avrebbe letto i sedici versi di The Gift Outright, una poesia composta intorno al 1935 e letta in pubblico per la prima volta alla fine del 1941 a Williamsburg in Virginia. Si trattava del ritorno di Frost, dopo la prima prova poetica del 1890, a un tema storico: non più coloni inglesi, gli Americani acquistano il diritto di identificarsi con la propria terra. Un inno al mito della frontiera che ben si adattava alla “nuova frontiera” che JFK pareva promettere.
Possiamo ora tornare a Dedication, il poema che Frost decise di comporre solo pochi giorni prima della cerimonia d’insediamento. Quando, il 18 gennaio, raggiunse la sua stanza d’albergo a Washington – mentre infuriava un’eccezionale tempesta di neve -, il poeta ne aveva scritti pochi versi: aveva maturato l’intenzione di leggerlo a sorpresa, un volta completatolo, come premessa a The Gift Outright.

Il 20 gennaio un sole accecante splendeva su Washington ancora bianca di neve e battuta dal vento. I racconti e le cronache dell’intervento di Frost, che ora riassumerò, restituiscono il sapore surreale di una segreta regia del fato.
Quando Frost fu chiamato a leggere il suo saluto, dell’inedita Dedication riecheggiò solo l’inizio: i riflessi abbaglianti del sole, il vento che agitava i foglietti su cui era stato battuto a macchina il testo, una fastidiosa rifrazione del dattiloscritto e sicuramente altri fattori di carattere psicologico fecero tornare il vecchio poeta al progetto concordato, più presto, forse, di quanto avrebbe immaginato. Il testo nuovo e ancora poco familiare alla memoria dell’autore fu rapidamente sostituito dalla ben consolidata poesia sull’America dei pionieri proiettata in un futuro radioso. I primi versi di Dedication che Frost lesse a fatica, con inciampi e pause, suonavano, a testimonianza della volontà di sottolineare la specificità del nuovo rapporto fra Potere e Cultura:

Summoning artists to partecipate / In the august occasions of the state /Seems something artists ought to celebrate. / Today is for my cause a day of days. / And his be poetry’s old-fashioned praise / Who was the first to think of such a thing. / This verse that in acknowledgement I bring …

A quel punto, Frost si interruppe, confessando che non riusciva più a leggere quella che doveva solo essere una premessa a The Gift Outright, che recitò, invece, a memoria, rispettando la promessa della modifica finale. Poi – ancora le bizzarrie del fato – chiuse dichiarando che il componimento che aveva cominciato a leggere era una Dedication al neo-eletto Presidente Mr. John Finley (nome, in realtà, di un classicista di Harvard). Il lapsus non fu notato dalla maggior parte del pubblico, che tributò all’amato vate un caloroso applauso. John Fitgerald Kennedy poteva ora giurare e pronunziare il suo atteso discorso d’insediamento.

Solo dopo qualche giorno il testo definitivo di Dedication fu recapitato a JFK; fu poi pubblicato nel 1969 nella raccolta The Poetry of Robert Frost (ed. E. Connery Lathem), col titolo For John Kennedy His Inauguration.
Frost accompagnò Dedication con un biglietto in cui scriveva:

Amended copy. And now let us mend our ways. Be more Irish than Harvard. Poetry and power is the formula for another Augustan Age. Don’t be afraid of power.

Sul biglietto con cui ringraziò Frost, JFK annotò, accanto alla firma: «It’s poetry and power all the way».
Ora, nel testo completo, JFK poteva leggere l’auspicio, anzi la profezia di un’imminente, di una prossima, gloriosa età augustea, un’età dell’oro basata sul pieno accordo tra poesia e potere, con cui Frost chiudeva il lungo omaggio al Presidente (Dedication conta 77 versi: ci si chiede come una “premessa” potesse essere tanto più lunga della breve poesia ufficiale, che contava solo 16 versi):

Less criticism of the field and court / And more preoccupation with the sport. / It makes the prophet in us all presage / The glory of a next Augustan age / Of a power leading from its strength and pride, / Of young ambition eager to be tried, / Firm in our free beliefs without dismay, / In any game the nations want to play. / A golden age of poetry and power / Of which this noonday’s the beginning hour.

Il 26 ottobre 1963, John F. Kennedy commemorò Robert Frost all’Amherst College, nel Massachusetts, la cui Biblioteca sarebbe stata intitolata al poeta, scomparso il 29 gennaio di quell’anno.
“The next Augustan age” era cominciata un po’ meno di tre anni prima, ma si sarebbe bruscamente interrotta neanche un mese dopo, con l’assassinio del Presidente. Quell’inizio non era stato particolarmente sereno né privo di problemi interni e internazionali anche drammatici (la costruzione del muro di Berlino, la minaccia nucleare, la crisi “cubana”, la grande marcia per i diritti civili di Martin Luther King): anche se forse il momento più delicato era superato, nessuno avrebbe potuto parlare, in quei giorni, di un’imminente pax Augusti.

Nel discorso di commemorazione Kennedy sembrava voler sviluppare il motivo del penultimo verso di Dedication, il rapporto fra poetry e power – del quale Frost aveva preconizzato una prossima golden age -, avviando col poeta defunto un nuovo, possibile dialogo, sincero e appassionato.

La seconda parte del discorso, quella più specificamente dedicata al ricordo di Frost, ha come cornice due citazioni dalle sue poesie, la prima tratta dagli ultimi versi di The Road not Taken (in Mountain Interval, 1916); a conclusione del discorso, Kennedy citava, non interamente, la fine di Our Hold on the Planet (anch’essa contenuta, come The Gift Outright, nella raccolta A Witness Tree). In questi versi prevaleva non più la scelta personale, ma il destino dell’umanità. In una visione condizionata certo dagli uncertain days della Seconda Guerra Mondiale, durante i quali, come ricordava JFK, era stata composta la poesia, Frost aveva espresso il suo scetticismo sui progetti di sviluppo umano. Ma Kennedy, ricorrendo ad alcuni moduli tradizionali della sua (e di Sorensen) retorica – soprattutto anafore in climax e correctiones (non x, ma y) – delineava, in realtà, una visione “periclea” dei compiti di uno Stato, in uno stretto rapporto dialettico fra Arte e Potere.
Dico “periclea” perché penso, ovviamente, ai contenuti dell’epitafio tucidideo, ma vorrei sottolineare che nell’oratoria kennediana l’evocazione della storia, della cultura e dei progetti di un popolo si costituisce come celebrazione del rapporto fra l’eminente personalità e la sua res publica, quasi à la façon romaine della laudatio funebris, dunque non fra il “collettivo” dei caduti per la patria e la patria stessa, come nell’oratoria greca, o almeno in quella che conosciamo.
In più, Kennedy, partendo dal rapporto disinteressato fra Arte e Potere, caro a Frost, delinea l’immagine di un’America paideusis del mondo, come Atene nell’epitafio pericleo in Tucidide, una “lezione vivente”, come preferiva intendere Jacqueline de Romilly.

Il dialogo fra il Potere e il Poeta, “moderato” dalla Morte, giunge così a un esito di speranza più che di certezza, di impegno più che di bilancio. Il Poeta, conclude il Potere, era stato spesso scettico sui destini dell’umanità, come aveva scritto negli ultimi versi di Our Hold on the Planet, ma forse non si sarebbe sentito estraneo all’auspicio del Potere, anche perché la vita stessa del Poeta, in fondo, diveniva testimonianza del progresso umano.
Progresso e felicità, due temi che JFK rintracciava nella Grecia classica. In particolare, la definizione “greca” della felicità, che Kennedy utilizzò più volte nei suoi discorsi, metteva insieme concetti aristotelici dell’Etica nicomachea, ma derivava quasi certamente da un volume che sembra aver accompagnato la famiglia Kennedy negli anni drammatici segnati dalla morte dei due fratelli John e Robert, con il ruolo determinante di una lettrice non comune, Jacqueline Bouvier Kennedy – poi Onassis -: The Greek Way (1930, più volte ristampato), best-seller della classicista Edith Hamilton, nata in Germania nel 1867. Entrata nel Bryn Mawr College nel 1890, si stabilì definitivamente negli Stati Uniti, dove morì nel 1963. Anche Edith Hamilton era stata invitata alla cerimonia d’insediamento di JFK, cui però non partecipò.

Dell’influenza dei suoi studi e delle sue sintesi di cultura (letteraria) greca sull’oratoria kennediana, converrà ora ricordare un momento particolarmente significativo, che vede protagonista Robert F. Kennedy.
La sera del 4 aprile 1968, il senatore Bob Kennedy, in piena campagna elettorale presidenziale, si trova ad Indianapolis. Giunge la notizia dell’assassinio di Martin Luther King e Kennedy improvvisa, dinanzi ad una folla sgomenta, cui dà per primo la bad news, un eulogy, un elogio funebre. La possibilità di vedere su youtube il filmato del discorso di Kennedy, ascoltando la voce dell’oratore, aiuta ad analizzare meglio il rapporto tra elocutio e actio.

Bob Kennedy è particolarmente teso e commosso (non sa, o forse teme, che la stessa sorte gli toccherà due mesi dopo, cinque anni dopo l’assassinio del fratello John): «È un momento difficile», dice, non legge, parla a braccio – come abbiamo visto fare Barak Obama, nel discorso della vittoria – «per gli Stati Uniti, nel quale bisogna chiedersi what kind of nation we are and what direction we want to move in». Affronta, con una efficace scomposizione d’uditorio, cara agli oratori attici, il problema del rapporto neri-bianchi. I neri presenti sanno che sono certamente bianchi i responsabili dell’assassinio, una reazione vendicativa può portare sicuramente ad una polarizzazione «black people amongst black, white people amongst white». Oppure si può, tutti insieme, proprio seguendo l’esempio di Martin Luther King, cercare di comprendere, fermare la violenza e andare avanti. L’ethos dell’oratore può offrire un argomento persuasivo: lui stesso ha avuto un fratello (pudicamente Bob dice «a member of my family») ucciso dall’odio, e l’assassino era un bianco. È a questo punto che, nel pieno di un discorso totalmente immerso nel dramma contemporaneo della sua nazione, Bob Kennedy evoca l’antica Grecia; preferisco riportare le sue parole, riproponendo anche la piccola correzione iniziale e l’esitazione nel mezzo della citazione: «My favorite poem … my favorite poet was Æschylus. He once wrote…» qui Kennedy si ferma e sembra ripetere nella sua mente per qualche secondo, con un evidente sforzo di memoria, i versi che vuole citare, e poi prosegue: «Even in our sleep, pain which cannot forget falls drop by drop upon the heart until, in our own de … despair, against our will, comes wisdom through the awful grace of God».

I versi del nostro Eschilo americano, inatteso consolatore di una folla in lacrime, appartengono all’Agamennone. Li pronunzia il Coro, nella lunga parodo che segue al prologo recitato dalla guardia. Sono i versi 179-183. Basterebbe ricordare le due parole che li precedono per aprire uno scenario culturale di abissale profondità: pathei mathos. La saggezza che si raggiunge attraverso la sofferenza è legge fondamentale di Zeus. Ma il punto non è di ordine esegetico. Il punto riguarda la doppia traduzione di cui stiamo parlando, una traduzione inglese del testo eschileo e una traduzione della cultura eschilea nella cultura americana. La citazione kennediana è stata al centro di qualche isolato approfondimento anche in area antichistica, tanto più che qualche rigo dopo, anzi qualche attimo dopo, alla fine del suo discorso, Bob Kennedy ritorna sull’insegnamento dei Greci, questa volta non di un singolo autore: the Greeks in generale. Alla citazione eschilea aveva fatto seguire una sorta di dichiarazione d’intenti, condotta con l’arma retorica della correctio, della contrapposizione: della scelta, cioè, fra un atteggiamento sbagliato e uno giusto. Non odio, non violenza, non illegalità, ma amore e saggezza, e reciproca compassione, e giustizia, bianchi o neri che si sia. Aveva, poi, chiesto alla folla di tornare a casa per pregare per il leader ucciso e praticare così l’amore e la compassione. Nonostante le difficoltà del passato, del presente e quelle probabili del futuro, la maggior parte degli americani avrebbe voluto sicuramente migliorare la qualità della propria vita e la giustizia per tutti. L’esempio da seguire, ancora una volta, risulta essere quello dei Greci: «Let us dedicate ourselves to what the Greeks wrote so many years ago: to tame the savageness of man and make gentle the life of this world. Let us dedicate ourselves to that and say a prayer for our country and for our people».
I Greci hanno, dunque, la parola finale: diventano un modello ideale di comportamento politico e sociale. Ma torniamo alla nostra citazione esplicita, della quale occorrerà subito dire che campeggia, incisa sul marmo della tomba di Bob Kennedy, nel cimitero di Arlington. Bob Kennedy ricorda e cita proprio, anche se con una leggera modifica, la traduzione di Edith Hamilton tratta dal best-seller The Greek way.

Come ha raccontato Arthur J. Schlesinger Jr. nella biografia di Bob Kennedy (1978), The Greek way era diventato una guida spirituale fondamentale per Bob negli anni delle consecutive tragedie familiari e politiche. Glielo aveva fatto conoscere Jacqueline Kennedy, vedova del fratello John, e Bob portava sempre con sé, piena di sottolineature e pronta ad essere consultata per citazioni estemporanee, una copia del 1964. Schlesinger aiuta anche a rintracciare la fonte dell’altra citazione di Kennedy quella relativa ai Greci, non un autore antico in particolare, ma una frase della stessa Hamilton, che Kennedy citava spesso, tratta dalla raccolta di saggi pubblicata postuma nel 1964, The Ever-Present Past. Martin Luther King, del resto, conosceva il mondo greco e i suoi pensatori più importanti, ma guardava alla sua epoca come al mondo nel quale decidere volontariamente di vivere, se l’Onnipotente gli avesse offerto la possibilità di scegliere. Lo aveva detto il giorno prima della sua morte, e dunque del discorso di Kennedy, il 3 aprile 1968, in un discorso a Memphis, che conteneva il racconto di uno straordinario viaggio nel tempo, dall’antico Egitto fino alle epoche più recenti, ma con un’unica risposta finale: «I would move on by Greece, and take my mind to Mount Olympus. And I would see Plato, Aristotle, Socrates, Euripides and Aristophanes assembled around the Parthenon. And I would watch them around the Parthenon as they discussed the great and eternal issues of reality. But I wouldn’t stop here». I classici vanno vissuti, rivissuti nel proprio tempo.

In questa breve era “imperiale”, dunque, neanche un decennio, molte parole dei classici greci risuonarono nelle aule e nelle piazze, con la profondità di citazioni non occasionali né di maniera. Il rapporto fra Poesia e Potere che Frost aveva profetizzato si era in parte realizzato, a volte all’interno stesso delle parole del potere. Il modello augusteo riviveva, però, non solo nelle parole, ma anche nelle immagini. Del potere delle immagini hanno scritto sia Paul Zanker, magistralmente, per Augusto (1989), che David Lubin per John F. Kennedy (2003). Lo scenario visivo-verbale dell’“era dei Kennedy” contemplava, dunque, una compresenza fra Grecia e Roma, come quella che Augusto aveva dovuto affrontare inaugurando il suo impero.

Stiamo ragionando su questi temi a distanza di cinquant’anni, ma ne erano passati, allora, neanche una ventina da quando un altro impero, un minaccioso Reich si era impossessato del passato con quella caratteristica della logica totalitaria che consiste nel non accontentarsi di occupare, “in sincronia”, lo spazio, ma nel tentare di annettersi anche la storia, di assimilare il tempo.
Ora, invece, modello “imperiale” e modello “democratico”, anche se di quel tipo particolare di demokratia rappresentato da Pericle, tendevano a convivere senza problemi. Si continuerà a discutere ancora per molto sul rapporto fra demos e prôtos anér e se il kratos potesse essere espresso da entrambi alla stessa maniera e se e come questi tre termini continuino a essere declinati nelle nostre società.

Anche nell’era dei Kennedy, del resto, la Guerra Fredda, lo scontro fra le due superpotenze, spingeva a cercare nel mondo antico analogie di ruoli e figure, magari recuperando tradizionali divisioni all’interno del mondo greco: Atene e Sparta, libertà e oppressione, USA e URSS.
Fredda, la Guerra, come l’Oceano che separava l’Europa, i suoi imperi e le sue democrazie, dal nuovo mondo, nel quale erano state portate con la forza pochi secoli prima, nuove istituzioni e forme di governo. Con la conseguenza che dal nuovo mondo si sarebbe tentato di “restituire il favore”, riportando negli altri continenti una forma di governo dal nome antico – la democrazia appunto -, ma intrecciando, in forme non sempre (o quasi mai) limpide e difendibili, parole e potere, persuasione e violenza. E questa è ancora storia dei nostri giorni.