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Kenneadi: Greci e Romani nell’era dei Kennedy

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di
Gigi Spina

Cesare deve morire, perché nasca l’impero; una successione per via elettorale dovrebbe, invece, presentare caratteri meno drammatici.Quando John F. Kennedy venne eletto presidente degli Stati Uniti d’America nel novembre del 1960, sconfiggendo il vicepresidente repubblicano Richard M. Nixon e succedendo così a Dwight D. Eisenhower, nessuno, forse, avrebbe immaginato che sarebbe stato un assassinio a mettere fine a quella presidenza per tanti versi inedita.

Robert Frost, circa 1910
Per la cerimonia d’insediamento del neo-Presidente, tenutasi il 20 gennaio 1961, un famoso poeta quasi novantenne, Robert Frost compose un poema, Dedication, nel quale risuonava il presagio della gloria di un’imminente età augustea «the glory of a next Augustan age»
La previsione di un’età augustea dava per scontato, volendo rimanere nell’analogia storica, che un assassinio era ormai alle spalle, che la congiura era storia passata e che il “nuovo” avanzava per davvero. Il dramma, invece, si sarebbe ripresentato ancora, nell’immediato futuro.

Ho fra le mani un volume dedicato a John F. Kennedy, Ask Not. The Inauguration of John F. Kennedy and the Speech That Changed America, New York 2004, opera di Thurston Clarke. In premessa c’è il famoso discorso d’insediamento di JFK, quel 20 gennaio del 1961: il sintagma dell’efficace, triplice, anafora conclusiva (ask not, ripresa recentemente da Obama nel discorso conseguente alla rielezione) dà il titolo al volume e la genesi del discorso stesso costituisce il tema del coinvolgente saggio dello scrittore e storico statunitense – una cronaca minuziosa dei giorni dal 10 al 20 gennaio.
Il discorso si apriva con un messaggio di nuovo inizio e di cambiamento:

We observe today not a victory of party but a celebration of freedom – symbolizing an end as well a beginning – signifying renewal as well as change.
e più avanti (i fanatici dei “primi cento giorni” apprezzeranno):

All this will not be finished in the first one hundred days. Nor will it be finished in the first one thousand days, nor in the life of this Administration, nor even perhaps in our lifetime on this planet. But let us begin.

Non sembra rilevante, in questo caso, la questione del ruolo dello speechwriter di JFK, Theodor Sorensen, anche perché, aldilà della paternità del discorso inaugurale, che lo stesso Sorensen «has always loyally affirmed» essere di Kennedy, si trattò quasi sempre di una stretta collaborazione e consonanza, con l’ultima parola affidata comunque all’actio del Presidente.

Sette frasi del discorso d’insediamento di JFK sono incise nel cimitero di Arlington, dove è sepolta la famiglia Kennedy. Lo ricorda Clarke, l’autore di Ask not, nel Prologue, osservando (p. 3) che le parole incise sulle pietre di una città imperiale sopravvivono alle culture che descrivono; e che fra duemila anni, dunque, Washington potrà sembrare Roma, con le rovine del Campidoglio, della Casa Bianca e della Corte Suprema disseminate in una nuova città completamente diversa.
Ecco, dunque, Roma e il suo impero, come modello di “ascesa e caduta” insieme. Solo che, come esergo al Prologue, Clarke preferisce inserire la Grecia di Pericle con un passo dell’epitafio tucidideo (2,44,3).
D’altra parte, i due modelli storici dell’antichità classica sembrano intrecciarsi in un commento del «New Yorker» al discorso inaugurale di JFK : «We find it hard to believe that an Athenian or Roman citizen could have listened to it unmoved».

L’ingresso di JFK sulla scena politica mondiale è, dunque, accompagnato da una simbologia fortemente paradigmatica, in cui campeggiano grandi figure della storia greca e romana. Le analogie fra le due situazioni storiche – Atene e Roma – esistono, certo, per molti versi, anche se la prospettiva di una “nuova età augustea” prometteva molto di più di una presenza come quella periclea, autorevole e carismatica, ma destinata a una conclusione non esemplare. Eppure, l’epitafio di Pericle (Thuc 2,35,1-46,2) era stato il modello oratorio che Jacqueline Kennedy aveva indicato subito dopo l’orazione inaugurale di JFK – affiancandola a un altro famoso discorso presidenziale, quello di Abraham Lincoln a Gettysburg (1863) –, quasi a comporre una triade retorica degna di essere ricordata dalla storia.

Nel dicembre 1960, subito dopo l’elezione, JFK aveva proposto a Stewart L. Udall, un intellettuale mormone dell’Arizona, uomo del Congresso, di entrare nel Cabinet del Presidente e affiancarlo come Secretary of the Interior. Udall aveva, a sua volta, suggerito a JFK di invitare Robert Frost, di cui era molto amico, a parlare alla cerimonia d’insediamento. Il Poeta e il Presidente avevano avuto già modo di apprezzarsi reciprocamente, ma la personalità originale ed esuberante di Frost faceva temere a JFK un’occupazione eccessiva della scena ai danni della sua immagine. Temeva, insomma, un confronto fra due discorsi e fra due retoriche. Per questo, l’idea, rilanciata da JFK a Udall, che Frost potesse recitare una poesia, sembrò la migliore soluzione per differenziare i tipi di performance.

La risposta di Frost all’invito, d’altra parte, testimonia sia della sua personalità “parresiastica”, sia delle attese che il mondo culturale statunitense riponeva nel nuovo Presidente. Da quest’ultimo si attendeva una svolta rispetto al ricordo, neanche tanto lontano, del periodo buio del maccartismo, ma anche rispetto alla lontananza ed estraneità dell’amministrazione che ora lasciava il campo nei confronti dei protagonisti della cultura e dell’arte. Frost, dunque, rispondeva con un telegramma:

If you can bear at your age the honor of being made President of the United States, I ought to be able at my age to bear the honor of taking some part in your inauguration. I may not be equal to it but I may accept it for my cause – the arts, poetry, now for the first time taken into the affairs of statesmen.

E il neo-presidente avrebbe invitato alla cerimonia di insediamento ben 168 intellettuali, rassicurandoli:

During our forthcoming administration we hope to seek a productive relationship with our writers, artists, composers, philosophers, scientists and heads of cultural institutions.

Raggiunto l’accordo sul tipo di intervento, Frost precisò che non avrebbe scritto un nuovo poema per l’occasione, ma avrebbe letto i sedici versi di The Gift Outright, una poesia composta intorno al 1935 e letta in pubblico per la prima volta alla fine del 1941 a Williamsburg in Virginia. Si trattava del ritorno di Frost, dopo la prima prova poetica del 1890, a un tema storico: non più coloni inglesi, gli Americani acquistano il diritto di identificarsi con la propria terra. Un inno al mito della frontiera che ben si adattava alla “nuova frontiera” che JFK pareva promettere.
Possiamo ora tornare a Dedication, il poema che Frost decise di comporre solo pochi giorni prima della cerimonia d’insediamento. Quando, il 18 gennaio, raggiunse la sua stanza d’albergo a Washington – mentre infuriava un’eccezionale tempesta di neve -, il poeta ne aveva scritti pochi versi: aveva maturato l’intenzione di leggerlo a sorpresa, un volta completatolo, come premessa a The Gift Outright.

Il 20 gennaio un sole accecante splendeva su Washington ancora bianca di neve e battuta dal vento. I racconti e le cronache dell’intervento di Frost, che ora riassumerò, restituiscono il sapore surreale di una segreta regia del fato.
Quando Frost fu chiamato a leggere il suo saluto, dell’inedita Dedication riecheggiò solo l’inizio: i riflessi abbaglianti del sole, il vento che agitava i foglietti su cui era stato battuto a macchina il testo, una fastidiosa rifrazione del dattiloscritto e sicuramente altri fattori di carattere psicologico fecero tornare il vecchio poeta al progetto concordato, più presto, forse, di quanto avrebbe immaginato. Il testo nuovo e ancora poco familiare alla memoria dell’autore fu rapidamente sostituito dalla ben consolidata poesia sull’America dei pionieri proiettata in un futuro radioso. I primi versi di Dedication che Frost lesse a fatica, con inciampi e pause, suonavano, a testimonianza della volontà di sottolineare la specificità del nuovo rapporto fra Potere e Cultura:

Summoning artists to partecipate / In the august occasions of the state /Seems something artists ought to celebrate. / Today is for my cause a day of days. / And his be poetry’s old-fashioned praise / Who was the first to think of such a thing. / This verse that in acknowledgement I bring …

A quel punto, Frost si interruppe, confessando che non riusciva più a leggere quella che doveva solo essere una premessa a The Gift Outright, che recitò, invece, a memoria, rispettando la promessa della modifica finale. Poi – ancora le bizzarrie del fato – chiuse dichiarando che il componimento che aveva cominciato a leggere era una Dedication al neo-eletto Presidente Mr. John Finley (nome, in realtà, di un classicista di Harvard). Il lapsus non fu notato dalla maggior parte del pubblico, che tributò all’amato vate un caloroso applauso. John Fitgerald Kennedy poteva ora giurare e pronunziare il suo atteso discorso d’insediamento.

Solo dopo qualche giorno il testo definitivo di Dedication fu recapitato a JFK; fu poi pubblicato nel 1969 nella raccolta The Poetry of Robert Frost (ed. E. Connery Lathem), col titolo For John Kennedy His Inauguration.
Frost accompagnò Dedication con un biglietto in cui scriveva:

Amended copy. And now let us mend our ways. Be more Irish than Harvard. Poetry and power is the formula for another Augustan Age. Don’t be afraid of power.

Sul biglietto con cui ringraziò Frost, JFK annotò, accanto alla firma: «It’s poetry and power all the way».
Ora, nel testo completo, JFK poteva leggere l’auspicio, anzi la profezia di un’imminente, di una prossima, gloriosa età augustea, un’età dell’oro basata sul pieno accordo tra poesia e potere, con cui Frost chiudeva il lungo omaggio al Presidente (Dedication conta 77 versi: ci si chiede come una “premessa” potesse essere tanto più lunga della breve poesia ufficiale, che contava solo 16 versi):

Less criticism of the field and court / And more preoccupation with the sport. / It makes the prophet in us all presage / The glory of a next Augustan age / Of a power leading from its strength and pride, / Of young ambition eager to be tried, / Firm in our free beliefs without dismay, / In any game the nations want to play. / A golden age of poetry and power / Of which this noonday’s the beginning hour.

Il 26 ottobre 1963, John F. Kennedy commemorò Robert Frost all’Amherst College, nel Massachusetts, la cui Biblioteca sarebbe stata intitolata al poeta, scomparso il 29 gennaio di quell’anno.
“The next Augustan age” era cominciata un po’ meno di tre anni prima, ma si sarebbe bruscamente interrotta neanche un mese dopo, con l’assassinio del Presidente. Quell’inizio non era stato particolarmente sereno né privo di problemi interni e internazionali anche drammatici (la costruzione del muro di Berlino, la minaccia nucleare, la crisi “cubana”, la grande marcia per i diritti civili di Martin Luther King): anche se forse il momento più delicato era superato, nessuno avrebbe potuto parlare, in quei giorni, di un’imminente pax Augusti.

Nel discorso di commemorazione Kennedy sembrava voler sviluppare il motivo del penultimo verso di Dedication, il rapporto fra poetry e power – del quale Frost aveva preconizzato una prossima golden age -, avviando col poeta defunto un nuovo, possibile dialogo, sincero e appassionato.

La seconda parte del discorso, quella più specificamente dedicata al ricordo di Frost, ha come cornice due citazioni dalle sue poesie, la prima tratta dagli ultimi versi di The Road not Taken (in Mountain Interval, 1916); a conclusione del discorso, Kennedy citava, non interamente, la fine di Our Hold on the Planet (anch’essa contenuta, come The Gift Outright, nella raccolta A Witness Tree). In questi versi prevaleva non più la scelta personale, ma il destino dell’umanità. In una visione condizionata certo dagli uncertain days della Seconda Guerra Mondiale, durante i quali, come ricordava JFK, era stata composta la poesia, Frost aveva espresso il suo scetticismo sui progetti di sviluppo umano. Ma Kennedy, ricorrendo ad alcuni moduli tradizionali della sua (e di Sorensen) retorica – soprattutto anafore in climax e correctiones (non x, ma y) – delineava, in realtà, una visione “periclea” dei compiti di uno Stato, in uno stretto rapporto dialettico fra Arte e Potere.
Dico “periclea” perché penso, ovviamente, ai contenuti dell’epitafio tucidideo, ma vorrei sottolineare che nell’oratoria kennediana l’evocazione della storia, della cultura e dei progetti di un popolo si costituisce come celebrazione del rapporto fra l’eminente personalità e la sua res publica, quasi à la façon romaine della laudatio funebris, dunque non fra il “collettivo” dei caduti per la patria e la patria stessa, come nell’oratoria greca, o almeno in quella che conosciamo.
In più, Kennedy, partendo dal rapporto disinteressato fra Arte e Potere, caro a Frost, delinea l’immagine di un’America paideusis del mondo, come Atene nell’epitafio pericleo in Tucidide, una “lezione vivente”, come preferiva intendere Jacqueline de Romilly.

Il dialogo fra il Potere e il Poeta, “moderato” dalla Morte, giunge così a un esito di speranza più che di certezza, di impegno più che di bilancio. Il Poeta, conclude il Potere, era stato spesso scettico sui destini dell’umanità, come aveva scritto negli ultimi versi di Our Hold on the Planet, ma forse non si sarebbe sentito estraneo all’auspicio del Potere, anche perché la vita stessa del Poeta, in fondo, diveniva testimonianza del progresso umano.
Progresso e felicità, due temi che JFK rintracciava nella Grecia classica. In particolare, la definizione “greca” della felicità, che Kennedy utilizzò più volte nei suoi discorsi, metteva insieme concetti aristotelici dell’Etica nicomachea, ma derivava quasi certamente da un volume che sembra aver accompagnato la famiglia Kennedy negli anni drammatici segnati dalla morte dei due fratelli John e Robert, con il ruolo determinante di una lettrice non comune, Jacqueline Bouvier Kennedy – poi Onassis -: The Greek Way (1930, più volte ristampato), best-seller della classicista Edith Hamilton, nata in Germania nel 1867. Entrata nel Bryn Mawr College nel 1890, si stabilì definitivamente negli Stati Uniti, dove morì nel 1963. Anche Edith Hamilton era stata invitata alla cerimonia d’insediamento di JFK, cui però non partecipò.

Dell’influenza dei suoi studi e delle sue sintesi di cultura (letteraria) greca sull’oratoria kennediana, converrà ora ricordare un momento particolarmente significativo, che vede protagonista Robert F. Kennedy.
La sera del 4 aprile 1968, il senatore Bob Kennedy, in piena campagna elettorale presidenziale, si trova ad Indianapolis. Giunge la notizia dell’assassinio di Martin Luther King e Kennedy improvvisa, dinanzi ad una folla sgomenta, cui dà per primo la bad news, un eulogy, un elogio funebre. La possibilità di vedere su youtube il filmato del discorso di Kennedy, ascoltando la voce dell’oratore, aiuta ad analizzare meglio il rapporto tra elocutio e actio.

Bob Kennedy è particolarmente teso e commosso (non sa, o forse teme, che la stessa sorte gli toccherà due mesi dopo, cinque anni dopo l’assassinio del fratello John): «È un momento difficile», dice, non legge, parla a braccio – come abbiamo visto fare Barak Obama, nel discorso della vittoria – «per gli Stati Uniti, nel quale bisogna chiedersi what kind of nation we are and what direction we want to move in». Affronta, con una efficace scomposizione d’uditorio, cara agli oratori attici, il problema del rapporto neri-bianchi. I neri presenti sanno che sono certamente bianchi i responsabili dell’assassinio, una reazione vendicativa può portare sicuramente ad una polarizzazione «black people amongst black, white people amongst white». Oppure si può, tutti insieme, proprio seguendo l’esempio di Martin Luther King, cercare di comprendere, fermare la violenza e andare avanti. L’ethos dell’oratore può offrire un argomento persuasivo: lui stesso ha avuto un fratello (pudicamente Bob dice «a member of my family») ucciso dall’odio, e l’assassino era un bianco. È a questo punto che, nel pieno di un discorso totalmente immerso nel dramma contemporaneo della sua nazione, Bob Kennedy evoca l’antica Grecia; preferisco riportare le sue parole, riproponendo anche la piccola correzione iniziale e l’esitazione nel mezzo della citazione: «My favorite poem … my favorite poet was Æschylus. He once wrote…» qui Kennedy si ferma e sembra ripetere nella sua mente per qualche secondo, con un evidente sforzo di memoria, i versi che vuole citare, e poi prosegue: «Even in our sleep, pain which cannot forget falls drop by drop upon the heart until, in our own de … despair, against our will, comes wisdom through the awful grace of God».

I versi del nostro Eschilo americano, inatteso consolatore di una folla in lacrime, appartengono all’Agamennone. Li pronunzia il Coro, nella lunga parodo che segue al prologo recitato dalla guardia. Sono i versi 179-183. Basterebbe ricordare le due parole che li precedono per aprire uno scenario culturale di abissale profondità: pathei mathos. La saggezza che si raggiunge attraverso la sofferenza è legge fondamentale di Zeus. Ma il punto non è di ordine esegetico. Il punto riguarda la doppia traduzione di cui stiamo parlando, una traduzione inglese del testo eschileo e una traduzione della cultura eschilea nella cultura americana. La citazione kennediana è stata al centro di qualche isolato approfondimento anche in area antichistica, tanto più che qualche rigo dopo, anzi qualche attimo dopo, alla fine del suo discorso, Bob Kennedy ritorna sull’insegnamento dei Greci, questa volta non di un singolo autore: the Greeks in generale. Alla citazione eschilea aveva fatto seguire una sorta di dichiarazione d’intenti, condotta con l’arma retorica della correctio, della contrapposizione: della scelta, cioè, fra un atteggiamento sbagliato e uno giusto. Non odio, non violenza, non illegalità, ma amore e saggezza, e reciproca compassione, e giustizia, bianchi o neri che si sia. Aveva, poi, chiesto alla folla di tornare a casa per pregare per il leader ucciso e praticare così l’amore e la compassione. Nonostante le difficoltà del passato, del presente e quelle probabili del futuro, la maggior parte degli americani avrebbe voluto sicuramente migliorare la qualità della propria vita e la giustizia per tutti. L’esempio da seguire, ancora una volta, risulta essere quello dei Greci: «Let us dedicate ourselves to what the Greeks wrote so many years ago: to tame the savageness of man and make gentle the life of this world. Let us dedicate ourselves to that and say a prayer for our country and for our people».
I Greci hanno, dunque, la parola finale: diventano un modello ideale di comportamento politico e sociale. Ma torniamo alla nostra citazione esplicita, della quale occorrerà subito dire che campeggia, incisa sul marmo della tomba di Bob Kennedy, nel cimitero di Arlington. Bob Kennedy ricorda e cita proprio, anche se con una leggera modifica, la traduzione di Edith Hamilton tratta dal best-seller The Greek way.

Come ha raccontato Arthur J. Schlesinger Jr. nella biografia di Bob Kennedy (1978), The Greek way era diventato una guida spirituale fondamentale per Bob negli anni delle consecutive tragedie familiari e politiche. Glielo aveva fatto conoscere Jacqueline Kennedy, vedova del fratello John, e Bob portava sempre con sé, piena di sottolineature e pronta ad essere consultata per citazioni estemporanee, una copia del 1964. Schlesinger aiuta anche a rintracciare la fonte dell’altra citazione di Kennedy quella relativa ai Greci, non un autore antico in particolare, ma una frase della stessa Hamilton, che Kennedy citava spesso, tratta dalla raccolta di saggi pubblicata postuma nel 1964, The Ever-Present Past. Martin Luther King, del resto, conosceva il mondo greco e i suoi pensatori più importanti, ma guardava alla sua epoca come al mondo nel quale decidere volontariamente di vivere, se l’Onnipotente gli avesse offerto la possibilità di scegliere. Lo aveva detto il giorno prima della sua morte, e dunque del discorso di Kennedy, il 3 aprile 1968, in un discorso a Memphis, che conteneva il racconto di uno straordinario viaggio nel tempo, dall’antico Egitto fino alle epoche più recenti, ma con un’unica risposta finale: «I would move on by Greece, and take my mind to Mount Olympus. And I would see Plato, Aristotle, Socrates, Euripides and Aristophanes assembled around the Parthenon. And I would watch them around the Parthenon as they discussed the great and eternal issues of reality. But I wouldn’t stop here». I classici vanno vissuti, rivissuti nel proprio tempo.

In questa breve era “imperiale”, dunque, neanche un decennio, molte parole dei classici greci risuonarono nelle aule e nelle piazze, con la profondità di citazioni non occasionali né di maniera. Il rapporto fra Poesia e Potere che Frost aveva profetizzato si era in parte realizzato, a volte all’interno stesso delle parole del potere. Il modello augusteo riviveva, però, non solo nelle parole, ma anche nelle immagini. Del potere delle immagini hanno scritto sia Paul Zanker, magistralmente, per Augusto (1989), che David Lubin per John F. Kennedy (2003). Lo scenario visivo-verbale dell’“era dei Kennedy” contemplava, dunque, una compresenza fra Grecia e Roma, come quella che Augusto aveva dovuto affrontare inaugurando il suo impero.

Stiamo ragionando su questi temi a distanza di cinquant’anni, ma ne erano passati, allora, neanche una ventina da quando un altro impero, un minaccioso Reich si era impossessato del passato con quella caratteristica della logica totalitaria che consiste nel non accontentarsi di occupare, “in sincronia”, lo spazio, ma nel tentare di annettersi anche la storia, di assimilare il tempo.
Ora, invece, modello “imperiale” e modello “democratico”, anche se di quel tipo particolare di demokratia rappresentato da Pericle, tendevano a convivere senza problemi. Si continuerà a discutere ancora per molto sul rapporto fra demos e prôtos anér e se il kratos potesse essere espresso da entrambi alla stessa maniera e se e come questi tre termini continuino a essere declinati nelle nostre società.

Anche nell’era dei Kennedy, del resto, la Guerra Fredda, lo scontro fra le due superpotenze, spingeva a cercare nel mondo antico analogie di ruoli e figure, magari recuperando tradizionali divisioni all’interno del mondo greco: Atene e Sparta, libertà e oppressione, USA e URSS.
Fredda, la Guerra, come l’Oceano che separava l’Europa, i suoi imperi e le sue democrazie, dal nuovo mondo, nel quale erano state portate con la forza pochi secoli prima, nuove istituzioni e forme di governo. Con la conseguenza che dal nuovo mondo si sarebbe tentato di “restituire il favore”, riportando negli altri continenti una forma di governo dal nome antico – la democrazia appunto -, ma intrecciando, in forme non sempre (o quasi mai) limpide e difendibili, parole e potere, persuasione e violenza. E questa è ancora storia dei nostri giorni.

Poesia a Milano

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Alla Casa della Poesia,
il 20 novembre 2012, ore 21

XI Quaderno di Poesia Italiana Contemporanea

Azzurra D’Agostino, Fabio Donalisio, Vincenzo Frungillo, Marco Simonelli

leggono dal XI Quaderno di Poesia Italiana Contemporanea, Marcos y Marcos.

Introducono Franco Buffoni e Umberto Fiori

Tra la prima e la seconda tornata di letture dei poeti
Umberto Fiori presenta Franco Buffoni, Poesie 1975-2012, Oscar Mondadori 2012

Casa della Poesia, Palazzina Liberty, Largo Marinai d’Italia 1, Milano.

(cliccando i nomi dei poeti, potete leggere alcuni testi selezionati per il Quaderno)

“C’è un campo di girasoli a Cortona in Arezzo, c’è un campo di paraculi a Cortina d’Ampezzo”.

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Omaggio a Vito Riviello

Mercoledì 21 novembre 2012, ore 17,00
Galleria del Primaticcio-
Palazzo Firenze, 27 | Roma |Tel 06.6873694/5

“Vito Riviello è uno dei poeti più significativi del Novecento, con il suo originario senso della sproporzione  ha preso di petto i singoli frammenti della evanescente realtà verbale e fisica in cui siamo oggi immersi, facendo sprigionare scintille del suo vuoto e giocando con l’assurdità del suo indifferente apparire; ha manipolato comicamente i nostri linguaggi più normali e onnivalenti, che percorrono i media in tutte le direzioni, da Roma a Parigi, da New York a Potenza (da quello del dibattito culturale a quello della politica, della cronaca, dello spettacolo, della pubblicità, della televisione.) …
Attraversando così  tutto il Novecento e la rarefazione dei linguaggi del postmoderno, ci ha lasciato  un’immagine della realtà e della nostra storia italiana assolutamente unica e inimitabile”.
Dall’introduzione al volume “Assurdo e familiare”  di Giulio Ferroni.

Introduce

il Prof. Donato Tamblè, Soprintendente Archivistico per Roma ed il  Lazio

Interventi:

“ L’Assurdo e il familiare nella poesia di Riviello”

Prof. Giulio Ferroni, critico e Ordinario di Letteratura Italiana presso l’Università La Sapienza
Prof.ssa Francesca Bernardini Ordinario di Letteratura italiana moderna contemporanea e Direttore dell’Archivio del Novecento presso l’Università di Roma La Sapienza.
Prof. Aldo Mastropasqua, Ricercatore di Letteratura italiana moderna e contemporanea presso l’Università di -Roma La Sapienza.

“Riviello in translation: le traduzioni possibili”
Prof.ssa Brunella Antomarini , Docente di Estetica e Filosofia contemporanea e traduttrice presso la J. Cabot University of Rome.

Seguirà il reading di alcune fra le poesie più significative di Vito Riviello

“Tutto quello che ho perso me lo ritrovo in versi”
Legge  Giacomo Trinci, poeta

Il sito come archivio e luogo di conoscenza
Presenta Elisa Davoglio, poetessa

La poesia e il senso della vita
Intervista a Vito Riviello di Paolo Ragni, scrittore e giornalista, Rivista Decanter ; interviene la dott.ssa Annamaria Riviello, Vicedirettore della medesima rivista.

In occasione della manifestazione sarà visibile al pubblico una mostra documentaria sulla produzione del poeta.

Il Campiello ritorna in Calabria 35 anni dopo – Le tante forse troppe cose in comune tra i romanzi di Saverio Strati e Carmine Abate

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di Domenico Talia

I premi letterari li vincono i libri, se e quando i premi sono virtuosi. Dopo i libri ovviamente i premi li vincono anche gli autori e gli editori. Si dirà che non sempre è così, anche questo è vero, ma ci sono casi in cui i premi mantengono le promesse fatte.

Dopo trentacinque anni la civiltà letteraria calabrese finisce nuovamente sulla strada del Premio Campiello. Lo fa mettendo insieme due autori che hanno tante, forse troppe, cose in comune – anche a voler tralasciare la loro calabresità. Nel 1977 Il selvaggio di Santa Venere ha portato Saverio Strati alla vittoria del Campiello. Il romanzo pubblicato da Mondadori racconta la formazione civile di un giovane contadino calabrese che conosce a sue spese il mondo arcaico e violento della ‘ndrangheta e fa di tutto per allontanarsene. Quel romanzo, che di fatto è anche uno strumento di interpretazione storica della realtà meridionale, è stato tra i primi a narrare la vita dei malandrini, il loro linguaggio, le loro ritualità, l’equivoco senso dell’onore.

Nel 2012, La collina del vento, un altro libro che narra un secolo di vita di una famiglia con i piedi ben piantati in quella terra di fronte allo Ionio, ha riportato un narratore calabro come Carmine Abate a vincere il Campiello. L’editore dei due libri è lo stesso e in qualche modo questa doppia edizione a distanza di oltre trent’anni è anche una maniera di raccontare il contesto della terra calabrese e della sua società in due momenti distanti tra loro nel tempo e nei costumi di vita della sua gente.

Il mondo narrato da Strati è arcaico ma inizia ad essere contaminato dalle esperienze di chi ha lasciato la Calabria per necessità e ha visto un mondo in cui la coscienza dei diritti e il benessere economico avevano avviato grandi trasformazioni sociali. In un’intervista di tanti anni fa, Strati racconta il punto di vista del protagonista di quel romanzo, che avverte la necessità di vivere in un mondo più ampio, in spazi di esistenza più aperti: «Per Dominic restare nella Calabria di quel tempo avrebbe significato rinunciare alla possibilità di instaurare rapporti soddisfacenti da un punto di vista culturale. In lui si agitano bisogni diversi, quello di sfuggire alla personalità soffocante del padre, quello di ritagliarsi uno spazio di libertà e, inoltre, da non sottovalutare, la voglia di non regalare i frutti del proprio sudore alla mafia; c’è quindi anche il desiderio di scampare alle trame della criminalità nel “Selvaggio di Santa Venere” …».

In un periodo in cui sembra quasi che scrivere di ‘ndrangheta sia di moda, rileggendo il libro di Strati si trova una narrazione in cui la presenza della criminalità è evidente e condizionante, ma mai strumentale. La ‘ndrangheta è narrata come un elemento negativo e opprimente, ma non come unico stereotipato male. Qualcosa di simile c’è ne La collina del vento. Abate racconta gli Arcuri, una famiglia che difende la propria terra, la bella collina del Rossarco, dalle brame dei potenti locali, che si susseguono dagli inizi del secolo scorso fino a oggi. La loro difesa è strenua. Per loro la terra è elemento primario di una vita civile dignitosa. Le diverse generazioni, fino all’ultimo degli Arcuri, resistono al fascismo, ai prepotenti, ai signori del vento e ai truffatori del turismo vorace che ama cementificare. Questi ultimi incarnano forme moderne di corruttori delle coscienze e di profittatori dei beni pubblici alimentati anche da collusioni politiche opache che, in forma non molto diversa, anche Dominic nel “Selvaggio” di Strati aveva avvertito e rifiutato in quanto nemici della sua terra e del suo progresso.

Le vite e le scelte del nonno, del padre e di Dominic ne Il selvaggio di Santa Venere come quelle dei nonni, dei padri e dei figli della famiglia Arcuri che abita la collina del vento narrano le generazioni che si susseguono e che segnano continuità e trasformazioni del mondo del Sud. Nel romanzo di Abate il mondo esterno è rappresentato da personaggi importanti per la vita culturale della Calabria del Novecento come Paolo Orsi e Umberto Zanotti Bianco. Queste figure di meridionalisti e uomini di cultura incrociano la vita dei contadini calabresi e insieme a loro lottano per conservare la civiltà e il valore di quella terra.

I due romanzi sono nati in periodi storicamente differenti. Il mondo del nuovo millennio non è più quello del Novecento e anche la Calabria non è più la stessa. Anche in quella terra sono cambiate le condizioni e i bisogni. Nel romanzo di Strati la terra è quasi una maledizione che lega i contadini ad un mondo duro e violento. Lavorare la terra sembra l’unica possibilità di sopravvivere in un mondo antico e arretrato che l’autore del “Selvaggio” contrappone alla modernità e alla vita civile sperimentata da chi ha viaggiato. La stessa terra in Abate diventa un valore primario, un elemento di libertà e di progresso, come a mostrare che all’inizio del nuovo millennio, la vita dei contadini meridionali può ripartire dalla terra, dalla vita costruita sul lavoro dei campi, sulla realtà di una campagna meridionale che nei decenni scorsi era motivo di sottosviluppo e che adesso appare come una grande risorsa.

Il romanzo di Abate racconta della consapevolezza del valore dell’ambiente e della necessità di appropriarsi del patrimonio dell’antica civiltà della Magna Grecia che emerge in Calabria ogni volta che, per una strada o per una costruzione, si scava in quella regione che una volta era al centro di quel mondo da cui è nata l’Europa. La collina del vento è letteratura che narra anche i problemi nuovi di comunità e territori che rischiano nuove predazioni e sono frequentate da moderni trafficanti che speculano sul bisogno di lavoro e di progresso e, talvolta aiutati da nuovi briganti locali, fanno scempio di una terra che avrebbe bisogno di cura e senso civico per riaversi dal sottosviluppo.

I romanzi di Strati e Abate hanno come architrave narrativa le generazioni di una stessa famiglia che di fatto rappresentano un popolo e le sue trasformazioni. Sono le azioni dei suoi membri nel tempo che dura molti decenni a guidare la narrazione. La struttura temporale dei racconti presenta elementi ciclici ma è soprattutto strutturata su un tempo stratificato con andate e ritorni nella narrazione tra le generazioni. Sovrapposizione di epoche, fatti, consapevolezze e paralleli tra padri e figli nei racconti di Strati e Abate si susseguono con andate e ritorni che costringono chi legge a fare i confronti tra le diverse generazioni, tra i loro modi di pensare, tra genitori e figli che nel romanzo di Strati sono in un perenne contrasto, mentre gli Arcuri raccontati da Abate si sostengono tra loro e si muovono sempre nella stessa direzione spinti da un sentimento comune. Sostenuti da radici millenarie ma proiettati sempre verso il nuovo. In questo i due scrittori sembrano mostrare una visione differente del dispiegarsi degli eventi: per contraddizioni dialettiche in Strati e per progressioni di trasformazioni evolutive in Abate. Anche il linguaggio usato nei due romanzi sembra riflettere queste visioni: a volte duro e crudo quello usato da Strati, più vicino al realismo magico di Alvaro quello di Abate. L’uso dei termini dialettali serve a Strati per descrivere in maniera più efficace e profonda la realtà che narra, in particolare quando racconta il sapere contadino o i rituali della ‘ndrangheta. Anche Abate introduce il dialetto quando serve ad aumentare l’effetto simbolico della narrazione e ogni volta che serve a rendere più “vera” la descrizione della vita sulla “collina del vento”.

Abate come Strati è uomo di emigrazione, meridionale che ha vissuto in Germania insieme ad altri emigrati, alle loro difficoltà e tribolazioni. Uomini che hanno lasciato il Sud spinti dal bisogno, uomini che pur consapevoli della necessità di cercare in nuovi territori quello che la loro terra non riesce a dare loro, sentono lo sradicamento e vivono con la ragione nei mondi che li hanno ospitati ma con il cuore rimangono legati al luogo originario. Un concetto che Strati ha ricordato con chiarezza: «È vero, i miei personaggi sono stati paragonati agli ebrei del ghetto, incapaci di acclimatarsi e di mettere radici; ma, vede, l’ambiente dell’anima è là, dove si nasce e il “mondo” è quello dove si è giocato con altri bambini».

È singolare notare come la copertina – di trentacinque anni fa – de Il selvaggio di Santa Venere, dietro il volto di un giovane contadino, mostri i resti di un tempio greco e il recente romanzo di Abate sia centrato sulla ricerca dei resti di Krimisa, la città magno-greca fondata in Calabria dall’eroe greco Filottete, reduce dalla guerra di Troia. Filottete, dopo Krimisa, fece anche costruire un tempio ad Apollo Aleo, dove avrebbe deposto l’arco e le frecce ricevute in dono da Eracle e che lui usò per sconfiggere Troia. Un tempio greco, e tutto quello che ad esso può essere ricondotto, è dunque un chiaro simbolo che lega i due romanzi, che unisce le loro motivazioni profonde e le radici culturali che hanno spinto i due scrittori a narrare le storie della loro terra. Tutte coincidenze che hanno trovato una coincidenza ulteriore e felice nella vittoria al Campiello dei due romanzi. Sono queste consonanze che ci ricordano che, tra le tante nequizie di cui soffre la terra di Campanella e di Alvaro, va comunque segnalata la fortuna di avere storie di valore universale che meritano di essere narrate e, allo stesso tempo, narratori che le sanno raccontare.

video arte #13 – doron solomons

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Doron Solomons, Dejeuner sur l’herbe, 2000.

Ritratto con pecora morta

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di Andrea Gentile

Il cadavere della pecora è disteso, compatto. Appare un soprammobile. Le orecchie sono erette, in rigor mortis, sotto di cui compaiono i primi effetti ipostatici. Il sangue ha già iniziato a depositarsi nelle regioni declivi del cadavere, riempiendo i vasi del derma. Le lividure cadaveriche non mi impressionano. Neanche essere lì, ora.
Pellicone dondola con la testa, come a dire sì.
Guardo il suo volto. È costellato di comedoni e papule. Una cicatrice corona la vena enorme che pulsa sotto il collo. Non dice. Mi guarda.
Roteo il rasoio, dando l’idea di un avvio ipotetico.
Guardo il cadavere.
Penso che è già in atto il processo putrefatorio. I germi anaerobi hanno già elaborato fermenti, ora all’azione nell’atto del divoramento di una vita che fu.
Guardo il suo muso.
È angelico, in quanto ferino.
Esala inarrestato un afrore acido.
Guardo i suoi occhi.
La lana trattiene i segnali corporali, io sono lì perché non sono a cercare la madre mia che è morta.
Lo sento: che è morta.
Mi chino.
Pellicone non parla.
Nessun rumore attorno a noi.
Devo adagiare il rasoio sul cadavere, non so da dove iniziare. Lo avvicino lentamente.
Il rasoio entra in contatto con la pelle. Avverto la pelle che trema. Subisco il brivido.
Taglio, procedo al taglio, poi scatto all’indietro, la mano esce dalla scena in autonomia, mi volto, Pellicone mi guarda, ora chiudo gli occhi, la mano ritorna sul corpo ovino, lo tocco.
Il contatto con il cadavere mi scuote, subisco rorschach di contrazioni muscolari asincrone, impulsi cerebrali involontari si riflettono sul corpo mio. Percepisco, mi pare, una specie di stridio tra il rasoio e la pelle ovina, nugoli di lana cadono, il cadavere essendo inerte.
Mi volto verso Pellicone, che è in piedi. Non riesco a guardarlo negli occhi: il sole corona il suo volto. Vedo solo il suo sorriso; e il dente giallastro scintillare.
Ripiombo sul corpo della pecora. Devo rasarla tutta. Procedo seguendo un moto ondulatorio, circolare. Il rasoio mi sembra un trattore. Raggiungo il collo. Noto una ferita, forse inflitta da Pellicone. Passo il rasoio in contropelo, sotto il pizzetto, guardo il suo muso che è un viso, e che pur sembra esistere, al di fuori dell’esistere.

Ringrazio Andrea Gentile per questo estratto da L’impero familiare delle tenebre future (Il Saggiatore, 2012), il suo primo romanzo.

Per Massimiliano Chiamenti

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_PER MASSI_

Le Murate Caffè Letterario,
Piazza Delle Murate, 50122 Firenze

Sabato 17 novembre, ore 18

E’ una serata organizzata da alcuni amici di Massimiliano Chiamenti per ricordare la sua figura di poeta, performer, cantante, musicista, filologo, traduttore, docente e artista sperimentale e poliedrico. Gli interventi (anche musicali) e le letture avranno come tema un aspetto particolare della produzione e degli ambiti di interesse di Massimiliano.

Proprio il 17 novembre Massimiliano avrebbe compiuto 45 anni.

_Parteciperanno_:

Nina Maroccolo
Roberto Balo’
Elisa Biagini
Andrea Sirotti
CAN-D
Francesca Del Moro
Antonella Francini
Jacopo Ninni
Simone Giusti
Rosaria Lo Russo
Marco Simonelli
Filippo Gatti
Davide Valecchi-Andrea Giacobbe-Leonardo Granchi (Elm)

e altri…

mi chiamano mimì

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di  Massimiliano Chiamenti

 

caro simone,
ti ricordi a parigi
quando giocavamo a fare i ventenni poeti
(e ora invece lecchi il culo ai preti)
e tutto un fremito di pompe e pompidou
e umbertone eco alla sorbonne
noi nella sala bianca e poi il giannizzero:
monsieur le professeur!
(e − zac − che tutti in piedi!)
e il negretto che ci disse

PIOVVE SEMPRE SUL BAGNATO

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I racconti ora faceti ora uggiosi di Giorgio Mascitelli
letti da lui medesimo e interrotti da Biagio Cepollaro.
Dove:
Libreria popolare via Tadino 18, Milano
Quando:
Lunedì 19 novembre 2012 ore 21

Giorgio Mascitelli (1966) vive a Milano. Ha pubblicato i romanzi Nel silenzio delle merci e L’arte della capriola. Racconti e interventi su questioni letterarie sono apparsi sulle riviste Alfabeta, Campo, L’immaginazione, Il Verri, Qui e Sud, nonché nei volumi Piove sempre sul bagnato e Catastrofi d’assestamento. Dal suo racconto Ancora un incendiario! è stata tratta l’omonima opera narrata per la musica del maestro Giovanni Cospito, rappresentata a Venezia nell’ambito della rassegna La costruzione del suono. Con Andrea Inglese ha curato la rassegna di letteratura contemporanea Akusma, tenutasi presso il Teatro Franco Parenti di Milano. Fa parte della redazione di alfapiù.

Savina Dolores Massa, Ogni madre

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di Silvia Contarini

Dopo i romanzi Undici, finalista al Premio Calvino 2007, e Mia figlia follia (2010), Savina Dolores Massa ha pubblicato qualche mese fa presso Il Maestrale il libro Ogni madre, che si presenta come una raccolta di racconti, ispirati a fatti storici avvenuti in Sardegna dall’Unità fino agli anni Sessanta. In realtà, i tredici pezzi – ciascuno dei quali è introdotto da un esergo di contestualizzazione storico-sociale (gli scioperi in miniera, l’occupazione dei latifondi, la lotta contro i Baroni degli stagni, la minaccia di bombardamenti alla diga sul Tirso, la repressione del banditismo, etc.) – vanno a ricomporre un passato che alcuni non esiterebbero a definire coloniale, tra sfruttamento del territorio e vessazioni, lotte di classe e tentativi di Rinascita politica. Ma il libro non si propone solo come un frammentato racconto/romanzo storico: la storia ricomposta è quella degli umili, “vite minuscole”, anzi vite sacrificate, uomini, donne, ragazzi, i cui pur modesti desideri si scontrano con la miseria, la violenza sociale, sopraffazioni anche sessuali. Grazie a una scrittura efficace, fatta di scarti di registro e di tono, prendono vita personaggi come Liccu il pastore, Anna servetta bambina, Giustino e Maria che di mestiere fanno i minatori, e altri. Nel loro vivere dolente non manifestano rassegnazione, ma una forma intima di resistenza, e suscitano profondo rispetto e partecipazione.

Riporto l’inizio dell’ultimo racconto, “Ogni madre”.

Ogni madre

1967. Sono centinaia i sardi emigrati negli ultimi dieci anni. Il fallimento della rinascita economica dell’isola produce una catena di sequestri, estorsioni, omicidi. Balentìa, lettere minatorie, omertà sovrana. È il periodo nel quale l’attaccamento alla propria identità diventa la sola arma contro un incompreso mutamento sociale.

Mabadìttus, brontolò Arrafiella Satta svolgendosi una bocca di sei denti ancora saldi più qualche pezzo incerto, sveglia di colpo al rumore di due scoppi di mortaretto, oltre l’uscio di casa.
Doveva essere molto presto, se il suo galletto non aveva ancora cantato; forse le cinque del mattino, se nessuna luce filtrava dalle imposte.
Chi è che sparava mortaretti nel buio?
E poi, per quale festa, se quella di sant’Antonio era già passata e a quella di san Giovanni mancavano ancora una decina di giorni?
I pensieri, lucidi, scesero sulla federa. Le labbra le si chiusero come un pugno e quel po’ di sorriso con il quale si era destata sarebbe stato l’ultimo della sua vita.
Un intero monte granitico le si sedette sul cuore impedendole di alzarsi. Per alcuni minuti restò immobile, cercando di rivedersi bambina leggera, le mani sporche di farina il primo giorno in cui imparò a fare il pane. Frugò ancora alacremente nella memoria dei giochi, dei sapori nuovi appena scoperti, dei dolori che spaventavano per poco: perché si sapeva che avrebbero avuto una fine. Cercò di proteggersi la vita, un istante, dandole colori e profumi di fieno. La mente iniziò, e smise, una canzone che sua madre amava insegnarle.
Poi il gallo cantò.
Abbracciò il monte, lo baciò in bocca e alla lingua prese terra con schegge di pietra da ingoiare. Gli disse, Stai con me per sempre, e si alzò.
Il passo le strisciò sul pavimento di vecchio cotto, e senza scarpe, e senza fretta, varcò la porta spalancata di casa.
Suo figlio sembrava un ramo stroncato da un albero, un rifiuto gettato per terra, non diverso dal cespuglio di rosmarino in cui affondava la faccia, se non era perché quest’ultimo era vivo.
Fatta ce l’hanno ad ammazzarti.
Si chinò a voltarlo. Non volle, non cercò, ricordi di lui ridente.
Arraffiella e il monte rientrarono nella casa; nessun vicino, nessun bambino sonnambulo, nessun cane della strada, nessuna anima del paese si avvicinò. L’intero mondo sembrava essersi ammalato di febbri che avrebbero lasciato tutti ciechi, muti e sordi.
[…]

#14nIT sciopero generale europeo, la diretta #14N

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I'm afraid of starving
“I’m afraid of starving” Grandmother protesting at Syntagma [@VeriasA]

http://storify.com/ilcorsaro_info/14nit-sciopero-generale-europeo-la-diretta

Jesi. La critica militante e la riflessione sull’uso politico del mito

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(è in uscita FURIO JESI Mito, violenza, memoria, Carocci editore, l’autore ce ne regala un estratto, dal secondo capitolo, e noi lo ringraziamo. G.B.)

di Enrico Manera

Jesi muove dalla storia delle religioni allo studio delle sopravvivenze mitologiche nella cultura e del rapporto tra mito e politica; dopo aver metabolizzato la classicità con gli strumenti della filologia e dell’antropologia ha orientato la sua ricerca dall’antico verso la letteratura moderna e contemporanea. Attento alla porosità dei tempi e alle reciproche interazioni, ha inteso fonti e documenti come tracce di una storia culturale che è anche un’indagine antropologica sulle modalità di costituzione delle identità. In questo senso condivide le istanze più urgenti degli anni settanta, a partire dall’esigenza di un sapere vitale e antagonista delle scienze dello spirito tradizionaliste: la scelta della forma-saggio di sapore benjaminiano e il richiamo al metodo anacronico delle tesi Sul concetto di storia (1940) diviene strumento di discussione dello storicismo e di critica della razionalità tardo-borghese, in particolare della concezione del continuum spazio-temporale in cui epoche e avvenimenti paiono inseriti in una concezione lineare e statica del passato, quasi fossero le stazioni perenni di un percorso necessariamente orientato verso il progresso.

Nei suoi saggi Jesi pratica una fenomenologia della cultura che ha anche una funzione di critica politica, mettendo in atto una «decostruzione dei meccanismi di funzionamento […] operanti nelle culture moderno-contemporanee», dei loro «meccanismi performativi […] e in particolare del rapporto che esse intrattengono con la sfera del religioso e del sacro» (Bidussa, 1993, p. 100; 2009, p. 156). L’importanza, la validità e il fascino dei suoi studi risiedono nel sondaggio dei territori del sacro, della letteratura e del potere, condotto con un impegno di critica dell’ideologia radicalmente illuminista: la ricerca intorno al mito (e al culto della morte che esso sottende) è una critica della cultura che avviene nel segno di un marxismo eterodosso, intellettuale, rivoluzionario. L’indagine sul concreto «funzionamento dei meccanismi della macchina mitologica» è considerata «la necessità più urgente» che egli considera di grande importanza strategica (Jesi, 1973, p. 109).

I suoi libri più apertamente politico-filosofici sono il postumo Spartakus, scritto tra il 1967 e il 1969 e pubblicato solo nel 2000, e Cultura di destra (1979), ma bisogna menzionare almeno l’attività pubblicistica su «Comunità» e «Resistenza. Giustizia e libertà» e poi su «Nuova sinistra. Appunti torinesi», in cui mostra un pensiero politico caratterizzato da un marxismo libertario, radicale, iconoclasta e mondialista.

Compito degli intellettuali in una vera e propria battaglia culturale è promuovere il rovesciamento della tradizionale codificazione della mitologia, storicamente al servizio delle classi dominanti: studiare il mito significa smontarlo per compiere un’opera di smascheramento e demistificazione, emancipativa e pedagogica. L’obiettivo è la comprensione del rapporto dinamico che si instaura tra le forme discorsive del mito e le pratiche politico-sociali che ne sono la proiezione, mitologie vissute che si realizzano nella storia e che sono inseparabili da ogni forma di autorità, potere e violenza, le tre accezioni italiane del tedesco Gewalt. ‘Mito’ è uno «zero efficiente» (Jesi, 2002 a, p. 31), un nulla in termini ontologici che si mostra come sostanza e che si rivela capace di mobilitare masse e individui.

[…]

Mario Pezzella (1989, pp. 300 ss.) ha proposto un proficuo schema per interpretare complessivamente l’opera di Jesi. Il suo pensiero può essere definito come una «costellazione in tensione tra tre poli»: (1) una dimensione «festiva del simbolo» appartenente al passato che nella modernità risulta impossibile e tale da apparire solo nelle sue «polarizzazioni negative, intrise di morte»; (2) una concezione del «compimento del nichilismo» e del «muto confronto con il dio ignoto» per cui il presente è il tempo della desolazione e della inevitabile distruzione di ogni illusione mitica; (3) il «rinvio utopico al futuro» nei termini di un «idea regolativa di un agire politico» che ha l’aspetto di una sintesi tra marxismo e messianismo. Alla luce dell’intreccio tra le tre dimensioni (tempo delle origini, tempo del nichilismo, tempo utopico) la dimensione del mito inteso come utopia politica è l’altro volto della critica del mito metafisico.

Tutte le opere di Jesi mostrano questa duplicità di sguardo e si interrogano sull’importanza dell’utopia e sulla possibilità problematica di un ‘mito di sinistra’: il ricorso al mito da parte della propaganda politica rischia di diventare un elemento intrinsecamente reazionario anche quando le sue finalità sono progressiste. Servirsi di immagini dotate di forte impatto inconscio e capaci di suscitare forte emozione significa infatti neutralizzare la razionalità critica necessaria a una lucida azione di trasformazione della società.

 

Tutti i linguaggi propagandistici […] sono usati in modo moralmente condannabile là dove non si prevede il superamento dell’esperienza raggiunta entro l’evocazione tecnicistica del mito. […] Se cioè il linguaggio del mito tecnicizzato è considerato un linguaggio oggettivo e pieno di intrinseca verità, la reazione resta reazione. […] Com’è possibile indurre gli uomini a comportarsi in un determinato modo – grazie alla forza esercitata da opportune evocazione mitiche –, e successivamente indurli a un atteggiamento critico verso il movente mitico del comportamento? Tutto ciò non ci sembra praticamente possibile (Jesi, 2002, pp. 42-43).

 

A dispetto del fatto che ragione critica e uso del mito siano incompatibili, nella propaganda politica, anche di sinistra, il riferimento al passato in vista del futuro avviene costantemente. Si rende necessaria allora una «demitizzazione nella propaganda politica del mito tecnicizzato» e un rilancio del discorso artistico come esperienza ‘genuina’ capace di parlare alla collettività nel «rispetto per l’uomo».

[…]

La pratica sovversiva linguistico-letteraria prepara il momento rivoluzionario perché interrompe il rapporto di reciproca alimentazione tra produzione ideologica e strutture produttive: in questo modo una nuova scienza della letteratura, antistoricista, anticlassica e antidogmatica, deve produrre al tempo stesso la critica della ‘reificazione borghese’, il processo generato dalla cultura del capitalismo in seguito al quale gli uomini stessi vengono ridotti a oggetti e merci sottoposti alle leggi del mercato e dunque privati della loro umanità. Così Jesi ha condiviso con la sua generazione di intellettuali l’idea che «la scrittura letteraria porta insieme l’alienazione della Storia e il suo sogno. […] La moltiplicazione delle scritture istituisce una Letteratura nuova nella misura in cui questa inventi il proprio linguaggio solo per proiettarlo nel futuro: la letteratura diventa l’Utopia del linguaggio» (Barthes, 1960, p. 108).

La perduta gioventù: vent’anni fa a Casarsa

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di Danilo De Marco

Quando all’inizio degli anni ’90 del secolo passato  iniziai le mie discese in treno da Udine a Casarsa il più delle volte  alla stazione mi attendeva Giuseppe Mariuz.  Stavamo allora sulle tracce dei personaggi pasoliniani

Autismi 28 – Quando si è adulti

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di Giacomo Sartori

Quando si è adulti bisogna fare gli adulti, anzi l’occupazione principale diventa proprio quella: si ha da manifestarsi adulti in ogni evenienza e circostanza, con qualsiasi mezzo e a qualsiasi prezzo, e anzi meglio si fa gli adulti più si è considerati e ci si autoconsidera davvero adulti. Il reale interlocutore di ogni adulto è lo specchio: è in primo luogo di fronte a se stessi che bisogna mostrarsi adulti, se si vuole convincere anche gli altri. Si fanno passi in avanti, ci si specializza e perfeziona, acquistando a volte uno statuario sorriso che ricorda la maschera ironica ma anche gioiosa di Ben Gazzarra. Quando si è davvero imparato, e si comincia a essere soddisfatti di se stessi, ci si accorge che si è ormai vecchi. Che si sta per morire.

Uno la tira più lunga possibile, tergiversa e strascica i piedi, ma poi finisce che si ritrova adulto. A me è capitato di notte, una notte ben precisa: era buio, la persona vicino a me dormiva, dal giroscale del caseggiato saliva un vuoto più risucchiante del solito, più geologico, e io mi sono accorto che era successo. Mi sono accorto che era finita. Non che mi fossi particolarmente divertito o entusiasmato, intendiamoci, ma era lo stesso finita. Dovevo cominciare a fare l’adulto. Ho subito sperimentato l’angoscia del neofita adulto.

Quando si è adulti si hanno un sacco di seccature: grattacapi di ordine sanitario, economico, legale, morale, famigliare, intimo, lavorativo: è incredibile quante beghe catalizzi lo stato adulto: come le merde le mosche verdi. Prima di diventare adulti non ci sarebbe mai immaginati di poter cumulare una tale mole di fastidi così vari e aggressivi, così surrealmente reali. E non è affatto casuale, ci si rende conto: non si sarebbe davvero adulti se non si sciaguattasse in tutti quei guai maleodoranti, e se non lo si affrontasse con quella risolutezza impaludata in un’uniforme di didascalico – seppur posticcio – stoicismo.

Quando si è adulti non si ha mai tempo, perché si è affaccendati giorno e notte a fare gli adulti, e anche se lo si trovasse mancherebbe agli altri adulti che si vorrebbe frequentare. Il tal amico lo si vorrebbe vedere a cena, in un posto magari pieno di gente sfaccendata – ogni tanto è bello avere attorno a sé persone occupate solo a lasciarsi vivere – e bevendo magari un pochino più del solito, per poi bighellonare senza una meta precisa per tutta la serata, cambiando magari via via i piani, per poi rifugiarsi in un baraccio ancora aperto, dove magari si incontrerebbe qualche altro relitto della notte, il tutto beninteso senza guardare l’orologio, senza fretta, è bello non avere fretta, e non avere l’ansia di divertirsi, e proprio per questo ci si diverte, come succedeva appunto quando ancora non si era adulti, finché appare l’alba, l’alba alla fine di certe notti finisce sempre per apparire, è esperienza comune, e allora uno comincia a fare gli ultimi discorsi, a bere i bicchierini riepilogativi, c’è una gaia solennità nella conclusione delle notti insonni passate con un amico, una sazietà di parole e di empatia, stordente ma anche tonica, e volendo si potrebbe andare a dormire nello stesso posto, non importa se non è tanto pulito, se c’è un’anatra fricchettona che becchetta sul tavolo disastrato della cucina, prima accadevano cose così, perché è bello dire buona notte agli amici, sparare le ultime cavolate fumando le ultime sigarette. Niente di tutto questo: ci si vede a mezzogiorno per un boccone in tutta fretta, con gli occhi tirati sui lati dalle rispettive preoccupazioni, il respiro in punta di polmoni a causa della compressione sulla cassa toracica, e poi ci si saluta, e ognuno corre per la propria strada piena di buche e tranelli. Senza bere alcolici, perché poi appunto ci sono le grane da affrontare, ci sono tante cose da fare: è più saggio evitare le sonnolenze. Qualche volta prima di lasciarsi si scrocca una sigaretta a qualcuno, ed è una trasgressione minuta e in fondo deludente, un impossibile omaggio al tempo passato. Quando ci si separa resta la fame di amicizia, come quando si deve interrompere un pasto dopo i primi stuzzichini, o troncare sul nascere un cosiddetto rapporto sessuale.

Quando si è adulti non si può dire niente a nessuno, intendo le cose un po’ delicate, perché ormai l’esperienza ha insegnato che le persone a cui confidano i segreti vanno a raccontarli alle consorti e queste a altri soggetti, i quali preavvertiranno altri ficcanaso ancora, e insomma ne conseguiranno solo immensi problemi. Una degli inconvenienti dell’essere adulti è proprio quello, la condanna al silenzio. Cercando bene negli occhi degli adulti si coglie l’anelito prorompente a schiantare l’omertà, a forzare con le corde vocali l’isolamento. Molti adulti pagano un terapeuta, che è un individuo remunerato appunto per stare zitto, per non spifferare a terzi nemmeno le peggiori nefandezze.

Quando si è adulti si ha l’esperienza. L’esperienza è un sortilegio malefico che toglie lo smalto alle superfici più seduttive, che fa vedere lo scheletro e i prodromi di putrefazione, che scippa ogni sorpresa del finale. Uno osserva una leggiadra ragazzina, e si vede davanti la matrona appesantita e pedissequa che diventerà, sente una frase, e avverte sullo sterno i supplizi e i cadaveri che soggiacciono o subentreranno, capta un sorriso appena incrinato su un lato, e penetra le faglie annesse e connesse, il destino tragico che le ammanta. Ogni adulto farebbe di tutto per liberarsi della propria esperienza, per essere di nuovo intonso e vergine, e invece l’esperienza lo segue dappertutto, come un’ombra che ghiaccia la schiena, come una letale zavorra.

Quando si è adulti si fanno le cene. Alle cene tra adulti ci sono anche le mogli insopportabili degli amici, o i mariti insopportabili delle amiche, o anche solo insignificanti, o terrifici, e bisogna sorbirseli. Le cene si pianificano per tempo, come anche il lancio dei razzi e le esposizioni universali, perché si è tutti molto occupati, e di solito quando viene il momento non si ha più tanta voglia di cenare in quel modo lì, con quelle mogli o mariti lì, si vorrebbe piuttosto uscire a mangiarsi un panino con il primo venuto. Alle cene tra adulti si finge di non essere adulti, che è il modo migliore per essere davvero adulti. Si alza il tono della voce, si dicono stronzate, si ride fino alle lacrime, si beve più del dovuto, si è un po’ lascivi: è tutta una parodia, nel fondo si sa che si è saldamente adulti. A ricordarcelo ci pensano poi i piatti sporchi e la cucina da mettere a posto, l’esibizionismo della fattura del gas appesa al calendario.

Quando si è adulti si lavora per mantenersi, e sovente da soddisfare ci sono anche altre bocche, perché quando si è adulti si procrea. Si procrea per avere l’impressione di aver fatto qualcosa nella vita, visto che si comincia a prendere atto che questa è sprovvista di senso, per sentimentalismo, per condizionamento culturale, per plagio, per assicurarsi una copertura infermieristica nella vecchiaia, per bontà (per accontentare qualcun altro), o anche solo per ignavia, per etologico richiamo degli ormoni, assecondando la sete di futuro dei propri geni. I figli non possono concepire che si possa essere adulti, la vedono per la condizione incresciosa che è, ma nello stesso sono attirati e rincuorati, almeno in un primo tempo. Non possono immaginare che loro stessi un giorno saranno in quello stato patetico.

Quando si è adulti bisogna stare a osservare stoicamente il decadimento del proprio corpo, come un capitano che assista impotente all’affondare della propria nave. La carne inflaccidisce, i capelli si diradano e imbiancano, la faccia si raggrinzisce: è davvero molto spiacevole. Vengono poi malattie gravissime, quasi sempre mortali. Se la vita cominciasse da vecchi, o anche da vecchissimi, poi si avrebbe la soddisfazione di muoversi via via meglio, di vedere la propria pelle distendersi, di sentire che le energie aumentano, di essere più ottimisti: sarebbe una successione nello stesso tempo più razionale e più piacevole. Sul finire ci aspetterebbe una vacanza ludica e ben assistita, coronata da un auspicato rientro in un accogliente ventre materno. E invece si deve sottostare senza lamentarsi alla propria decomposizione, facendo finta di niente.

Quando si è adulti si ha paura. Si ha paura di diventare vecchi e di morire. E proprio per parare il terrore ci si imbozzola nell’oblio delle attività: si lavora, si corre, si arrampica, si pedala, si viaggia, si pianifica, ci si allena, si tramena, si lotta, si fa carriera, si litiga, si teorizza, si costruisce e si disfa, si rischia, si battono primati, si prega, ci si edifica, ci si immerge in apnea, si svolge attività di volontariato, ci si stressa, si scrive, si scoprono nuove leggi scientifiche, si cerca di distinguersi in modi anche minimi, anche grotteschi, si amoreggia, ci si droga, ci si annienta a piccole dosi, ci si racconta frottole. Quando si è adulti si rimpiange il tempo in cui non si era ancora adulti, senza considerare che a quell’epoca non si aveva cognizione della libertà che si sarebbe perduta, e quindi nemmeno allora si era felici.

Certe persone sono più dotate per fare gli adulti, altre meno, altre ancora hanno invitti corpi di bimbi, fieri spiriti fanciulleschi: non impareranno mai a fare gli adulti, e non ci provano nemmeno. Ma anche molti anziani, compresi quelli con un passato più talentuoso, smettono di inscenare la commedia, per fatica o usura gettano la spugna, e di punto in bianco tornano fanciulli. Alcuni neonati ancora afoni hanno per converso negli occhi saggezze e distacchi di adulto, hanno già bruciato le tappe: ci si domanda come abbiano fatto. Si dice che gli scrittori non diventino mai adulti, ma è una panzana: sono uguali agli altri, si sforzano solo un po’ meno, profittano con scaltre occhiate di ingenuità dell’aurea tardoromantica che avviluppa il loro ufficio.

(l’immagine: Carlo Zinelli, senza titoli, tempera su carta)

Rivendicazione di Matilde Famularo

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Plaza Once y Caballito, D.O.
Plaza Once y Caballito, D.O.

di Davide Orecchio

Molti anni dopo Ascona la riscatta dalle quinte. Quattro suoi componimenti aprono Le voci contro, antologia dedicata dal critico ticinese a poeti non solo defunti e inediti, né semplicemente vissuti nell’incertezza d’essere o non essere artisti ma deceduti ognuno con violenza, oltraggiati nella morte o scomparsi senza lasciare salme. L’isola, Il viaggio, Fabbrica e Maledetto Perón arredano lo zibaldone di Ascona (compendio di annegati e pugnalati, fucilati, sciolti nell’acido, smembrati e sparsi tra terra e mare – poeti purosangue) e li compose Matilde Famularo. Il mondo letterario ci si rifà gli occhi. S’innescano raccolte personali, traduzioni, traduzioni di traduzioni. I suoi manoscritti causano aste tra editori, ma lei che li vergò con grafia di attaccabrighe è morta da vent’anni, è svaporata. Non può vedere come quei necrofili si sbranino.

La mia vita da sbandata

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di Antonella Lattanzi

The Sick Child, Edvard Munch, 1896, litografia

«M’incastro, io m’incastro troppo con la testa. E poi mi chiedo dove sta l’amore. Mi ritrovo che perdo la testa, sempre, per persone complicate. Fanno la vita che faccio io, quindi sono instabili come me. Oppure è il contrario, facciamo questa vita perché siamo instabili? Io non lo so». È un sabato sera di settembre, Elisa è molto bella, ha 26 anni e un corpo minuto, sembra la Natalie Portman di Léon che usa come profile picture su Facebook. Sedute a un tavolino Peroni davanti a Rosi, baretto nel cuore del Pigneto, Roma, Italia, mi guarda con desolata dolcezza. Ma non c’entra con quanto mi sta raccontando, è la sua espressione naturale. Capelli cortissimi tranne un ciuffo che lambisce gli occhi, tre piercing neri — setto nasale, labbra, lingua —, maglia celeste, shorts di jeans su collant neri tagliati, anfibi, chiodo in cui si abbraccia perché inizia a far freddo, se volessi catalogarla la chiamerei punkabbestia.

«Ma ci soffro il triplo, perché sto sempre in bilico, e continuo a chiedermi dove sta l’amore. Dove, sta, l’amore. Però quando sei completamente smarrito su qualsiasi valore come mi sento io, ti trovi in situazioni che nemmeno tu riesci più a capire. Se è giusto o sbagliato per te. Perché sei completamente perso riguardo a tutto. Tutto. Rispetto a te stesso, a ciò che ti sta intorno, all’amore, a ciò che ci dobbiamo vivere, che sia l’università, il lavoro, il rapporto con le droghe, o il mondo artistico, soprattutto». Elisa è sarda, vive nello studentato di Casal Bertone. Studia teatro di mattina, Scienze dell’educazione il pomeriggio, e poi «mi sfascio, quasi ogni notte. Sono sempre stanchissima». Cerca riscontro negli occhi della sua amica Anna, capelli rasati da un lato, rosso fuoco dall’altro, codice a barre tatuato sul collo, dilatazione all’orecchio, maglia stretta, leggings, cintura borchiata, stivali, occhi lunghi e obliqui e un sorriso che riaffiora di continuo ridisegnandole i caratteri del viso. Anna viene da Bracciano, si è appena laureata in Scienze dell’educazione, lei ed Elisa si sono conosciute là, adesso sta cercando di capire cosa fare. «In carcere è bellissimo ma difficilissimo. E se vado a lavorare in comunità… finisce che mi rinchiudono», ride. Chaos, la cagnolina nera che dormicchia sotto di noi, si riscuote e scodinzola per un po’ di pizza. Anna gliela dà, l’accarezza, ci riempie i bicchieri di birra. Brindiamo. Da cosa si riconosce un punkabbestia?

Dallo spaesamento nei confronti del normale? Dalla musica che ascolta, le persone che frequenta, le droghe che usa? Dai vestiti, dal luogo in cui vive — per strada, in uno squat, in una casa? Dal lavoro che ha o non ha? Dalla tristezza? Dai cani, e da come si chiamano, e se sono grossi, se hanno o meno il guinzaglio? Dall’ora in cui si sveglia?

Tra la fine degli anni Novanta e i primi Duemila sono stata punkabbestia anch’io. Ma vivevo a Bari e come tanti adolescenti baresi il mio mito erano le città del Centro Nord. Credevamo che fuori dal Sud il mondo fosse più eccitante, ricco. Per certi versi, almeno all’epoca lo era. Per esempio per la mentalità della gente, di cui un punkabbestia (come un extracomunitario, o un barbone) è una cartina al tornasole. Poiché ti costringe a rivelarti subito a te stesso: lo guardi male, eviti di guardarlo, lo guardi bene. Essere punkabbestia negli anni Novanta, poi, quando anche solo un piercing produceva sconcerto («Perché lo fai?» «Sei autolesionista?»), era totalizzante. Capelli dai colori scioccanti, catene per cinte, cani in libertà, collette, urla. Lo sforzo di apertura richiesto alla gente normale non era indifferente. Come si riconosce un punkabbestia? Da quanto è rissoso? Tatuato?

Da quando vivo a Roma mi sono chiesta spesso come dev’essere crescere qui. Essere bambini qui, schiacciati negli autobus pieni da scoppiare, asfissiati di odori e aliti adulti. Essere adolescenti nella capitale, dove lo sai che hai tante possibilità a portata di mano, e forse ti viene l’ansia da prestazione o il rifiuto per questa città così eterogenea, è vero, ma anche così dura. E se, da adolescenti o giovani, si è punkabbestia? Come si vive, in particolare, in un quartiere come il Pigneto, dove in poco spazio coesistono realtà opposte?

«Se non sono a teatro o allo studentato, io sto sempre buttata qua», Elisa mi indica con gli occhi il Pigneto, «anche se, ti dico, ormai è pieno di radical chic». «E gli altri?». «Dici gli altri come me, come noi?». «Sì», e abbasso la testa perché mi vergogno. «Alcuni squattano. Altri stanno per strada, in camper, o in casa. La sera tutti al Pigneto. Prima anche a San Lorenzo ma mo’ c’è troppa polizia, è pericoloso. L’altra sera Anna l’hanno fermata, poi le hanno fatto la perquisa (perquisizione, ndr) a casa». «Beh, casa», Anna si gratta il naso, «è tipo una comune, ci dorme chiunque», lei ed Elisa si guardano complici. «A casa?», trasecolo, «ma, scusa, non ci vuole un mandato?», la mia cultura legale nasce e muore sul linguaggio delle serie tv. «Che ne so, sono venuti. Immagina i vicini, mi vedono tornà all’alba con la finanza», Anna s’interrompe per guardare qualcosa. Guarda anche Elisa, guarda anche Chaos, guardo anch’io. Due poliziotti in divisa e uno in borghese hanno fermato un paio di marocchini a qualche centinaia di metri da noi, li stanno perquisendo. Rimaniamo zitte finché non scompaiono. «Se ne sono andati?», chiedo. «Li hanno portati via». Subito dopo ci passano davanti dei giovani stranieri. Ridono, chiacchierano, barcollano un po’. Elisa chiude gli occhi. «Ultimamente non ci stiamo regolando, il ritorno romano è stato duro… Minchia, il mese che so’ stata a casa ho bevuto solo filu ’e ferro. Da quando sto a Roma, invece, sarò stata lucida due giorni. Ho ricominciato a fare lo schifo. Avevo pensato beh, a casa mi sono ripresa. Niente. Sono tornata e: tutti i giorni. O questo o quell’altro. Flashettino? Flashettino». «Dici che c’entra Roma, il Pigneto?» «Sì. No. Cioè, c’entra andare via di casa ». «C’hai ragione, non ce stàmo a regolà», Anna richiama Chaos che si è allontanata.

«Comunque la ketamina è la nuova eroina. Va presa… con attenzione. È molto forte», Anna si risiede. «Mo’ che l’hai detto… è vero», Elisa si scurisce, accarezza Chaos. «Anche se, pure la roba… secondo me sta aumentando». «Avòglia…». Stiamo zitte. «Posso?», Elisa indica il tabacco, Anna annuisce. Sino a lunedì prossimo non ha soldi. La finanzia Anna, insiste perché mangi, «prendi ’sto pezzo di pizza, devi mangiare, dài. Ogni tanto ci ricordiamo di mangiare, e dormire», mi sorride. «A proposito Elì, vieni da me stanotte?». «Ma è da quando sono tornata che sto da te!». «Dài tesò! se vieni sono felice». Quando servirà, sarà Elisa a finanziare lei. «È che il tipo con cui Eli si fa le storie vive a casa mia», mi dà di gomito. «Ah!», rido, «allora non è che vuoi andare a dormire dalla tua amica, è che vuoi stare con lui…». Elisa abbassa la testa, «Eh…», sorride. «Fai bene, io ci andrei», le faccio l’occhiolino. Da cosa si riconosce un punkabbestia? E un fighetto? E un radical chic?

«Se serve, scollettiamo», Anna scompare dentro a prendere altra pizza per Eli. Scollettare è una parola che usavo anch’io. I nostri genitori ne avrebbero usata un’altra: chiedere l’elemosina. Per loro, la differenza tra un barbone e un punkabbestia non c’è. Me lo sono chiesto spesso: qual è la differenza? l’età? la possibilità di scelta? i vestiti? Molti ci dicevano: siete una massa di viziati. Fate tanto i duri e poi la notte dormite caldi a casa, e i vostri genitori vi danno la paghetta. Scollettare per voi è una moda.

A volte, per qualcuno, avevano ragione. Chaos guarda il punto in cui Anna è scomparsa. I suoi padroni sono andati a una «festa», Anna la tiene per un po’. Rosi, la padrona del locale, porta via bottiglie e piattini vuoti. Cosa distingue un punkabbestia da un barbone? Il gergo? Colletta, festa (rave), svolta, fare lo schifo (drogarsi troppo), bevuto (arrestato), flash (da droga), squattare (vivere in uno squat) e altre parole?

Ce ne andiamo perché tutte e tre dobbiamo comprare il tabacco. All’incrocio tra Vallo ferroviario e Circonvallazione Casilina, il cuore del Pigneto si snocciola davanti a noi. Operai, povertà, criminalità, Resistenza, Neorealismo, movida: storicamente il Pigneto si lascia animare dalle differenze, si trasforma. Passiamo la Fraschetta (specialità porchetta), Birra+ («qua stanno spesso i punkabbestia»), un gruppo di africani fermo quasi sempre a quest’angolo («abitano qui»), Chiccen (vino, cibo, libri, musica), Primo («questo è il tempio dei radical chic, Antonè»), Contesta Rock Hair (hair style alternativo ed eventi). Sul confine con l’isola pedonale, passiamo un gruppo di immigrati asiatici («Stanno sempre qua. Certi spacciano»). Molti altri gestiscono Internet point e alimentari che costellano le traverse qui intorno. Non chiudono mai.

Elisa, Anna, Chaos e io passiamo un kebabbaro, una serie di locali pieni fino a notte inoltrata di tardo-giovani di tutti i tipi («Aperitivo al Pigneto?» è il refrain), qualche associazione culturale molto attiva e la scicchissima gioielleria Iosselliani, aperta solo dalle 18 alle 24. Seduto sulla soglia della vetrina, un crocchio di punkabbestia e cani — che, come tutti qui, si confonde col nero della sera — si passa birre, canne, pizza, parlando ad alta voce. «Paladini del cazzo!», sta urlando uno di loro rivolto a chiunque. Il viavai dell’isola si ferma un attimo, guardiamo. «Ch’è successo?», chiedo a un uomo coi dread. «Stava picchiando il suo cane, ma male oh, una ragazza gli ha fatto: “La pianti de menàje?” e quello s’è messo a urlare». Il tipo continua a urlare e picchiare il cane. Noi passiamo oltre. Cosa sarebbe giusto fare, invece? In 300 metri ci avvicinano almeno tre persone: «Serve fumo?». E se il punto non fossero i radical chic o i punkabbestia?

Se il punto fosse essere «completamente smarriti»? Su via L’Aquila facciamo la fila al distributore di sigarette. Davanti a noi, due donne e due uomini cercano di inserire gli spiccioli nella macchinetta, gli cadono, ridono, riprovano, le braccia come scivoli lungo i quali le borsette di pelle slittano sino a terra, le giacche morbide sbottonate sulle camicie, i vestitini mossi appena dal vento, gli occhi liquidi. Un po’ spaventata dai rumori, Chaos ci guarda con lo sguardo tipico dei cani: che sta succedendo? Tu lo sai, vero?

[Questo reportage è stato pubblicato su La Lettura de Il Corriere della Sera il 4/11/2012]

Altro che piccole donne – Le sorelle Aubrey di Rebecca West

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di Eleonora Marangoni

Andrew Wyeth, Around the corner

Autrice di Piccole Donne, Louisa May Alcott nasce nel 1832 nell’impronunciabile Massachusetts. Sessant’anni dopo, nei pressi di Londra, Isabella Mackenzie Fairfield dà alla luce la sua terza e ultima figlia, Cicely Isabel Fairfield, che da signorina sceglierà come pseudonimo il nome di un’eroina di Ibsen, diventando così miss Rebecca West. Oltre all’oceano Atlantico, le separano cose come l’avvento dell’automobile, la scoperta del telefono, la costruzione della torre Eiffel, l’arrivo della Coca Cola dalla Georgia e quello di Jack lo squartatore nell’East End. Sessant’anni di distanza, per come e quanto girava il mondo a quei tempi, erano una piccola eternità.

Le due però si assomigliano, eccome. Oltre che autrici prolifiche, sono entrambe intellettuali engagées, suffragette tenaci, attiviste politiche, viaggiatrici solitarie. Diversamente dalle flappers, sono anticonformiste ma non provocatrici: niente capelli alla garçonne o foxtrot scalze sui tavoli, per intenderci; più che l’emancipazione cercano (trovandola) la libertà. Lo fanno in modo ostinato e mai chiassoso, alla larga da convenzioni ed etichette: «Io stessa non sono mai riuscita a capire che cosa significhi con precisione femminismo. So soltanto che mi definiscono femminista tutte le volte che esprimo sentimenti che mi differenziano da uno zerbino o da una prostituta», scrive la West nel 1913.

Quando da ragazze moderne le due diventano signore mature, le loro strade sembrano disgiungersi. Una resta zitella (la Alcott), l’altra si sposa poi resta vedova. Una mette al mondo un figlio illegittimo (West, nato dalla storia d’amore con H.G. Wells), l’altra non lascia eredi. Una muore a cinquantacinque anni (Alcott), l’altra arriva a novanta. Ma nessuna delle due smetterà mai di scrivere, e tutte e due vivranno sole in case pieni di libri e di gente alla porta. Non saranno mai mogli operose, madri modello o nonne pazienti; finiranno, l’una e l’altra, col somigliare a quelle donne testarde, indomabili e leggendarie che ogni tanto si ha la fortuna di avere come zie.

Spesso le signore che si assomigliano sono state le stesse bambine, e in questo caso è andata proprio cosi. Sia la West che la Alcott erano nate in famiglie che la disparità fra status economico e livello culturale rendeva indefinibili da un punto di vista sociale: l’autrice di Piccole donne da bambina faceva i compiti in salotto con Nathaniel Hawtorne e Henri David Thoreau, poi vestiva i panni di sartina di provincia e correva a ricamare gli orli delle ricche signore di Concord. La signora Fairfield non esitava a separarsi dai “mobili buoni” per mantenere Cicely/Rebecca e le sue sorelle maggiori, ma nessuno venne mai a portarsi via il pianoforte, i sonetti di Shakespeare o i volumi intarsiati dell’Encyclopaedia Britannica.

Quelle due erano cresciute nelle stesse case grandi e un po’ malandate, col verde intorno, dove i pavimenti scricchiolavano allegri e in cucina c’era sempre una torta in forno. Nelle stanze fiorite, libri e spartiti seppellivano le cambiali, e qualcuno al piano di sotto si occupava di ravvivare il fuoco. Piccole donne e La famiglia Aubrey sono la storia di queste case. La prima diventerà una saga celeberrima in quattro volumi, l’altra resterà una trilogia incompiuta sconosciuta ai più.

Andrew Wyeth, View from the sea

Le sorelle Aubrey sono diverse dalle March per passaporto, vocazione e destino, per il modo che hanno di raccogliere i capelli. Ma, in fondo, sono tutte lì che dispongono fiori, suonano il piano, si preparano alla vita mentre imburrano tartine sopra e sotto. Le Aubrey sono tre, una in meno delle March. Ma c’è un fratellino, Richard Quin, illuminato e bianco come l’ultimogenita delle americane, Beth. La vita riserva a entrambi un destino struggente, e forse per questo fin dalle prime pagine i due sono sprovvisti di una vera fisicità: più che dei bambini, Beth e Richard Quin sono fragili oracoli, e aleggiano come teneri ologrammi. Ci sono la sorella ambiziosa (Cordelia, West; Amy, Alcott) e la sorella cauta (Mary, West; Meg, Alcott). C’è un padre che deve sempre “tornare”: dalla guerra (Alcott) e da non si sa dove (West). C’è una madre innamorata, paziente e stanca, che anni di rinunce e nostalgie non hanno privato della naturale eleganza verso le cose né della voglia di cantare al piano. E poi c’è Rosamund, la cugina preferita delle Aubrey, dorata e selvaggia come Jo.

C’è una domestica saggia, fedele e brusca (Kate, West; Hannah, Alcott). C’è “l’uomo da sposare” (Oliver, West; Laurie, March), e perfino un benefattore âgé dalle guance rotonde (Morpurgo, West; James Laurence, Alcott). Sarà perché “tutte le famiglie felici si assomigliano” ma qui sono tutti al loro posto, da entrambe le parti e in modo curiosamente simmetrico.

Né a Orchard House (casa March) né a Lovegrove (casa Aubrey) succede poi granché: è tutto una colazione, un’attesa, una corsa nei prati, una visita in città, un Natale povero ma allegro, una visita inaspettata, un pettinarsi i capelli, un battibecco appena sveglie. Certo, come in ogni romanzo che si rispetti, non mancano lutti, sacrifici, illusioni perdute e parenti nei guai. E c’è “la guerra”, poco importa quale essa sia (Secessione nel primo volume della Alcott, Grande Guerra nel terzo della West). Ma quello che ci si porta dietro leggendo sono soprattutto cose come lo zenzero e il pungitopo, le carrozze e i motori a scoppio, gli abiti rammendati e le pieghe delle tende.

Andrew Wyeth, Big room

Ora, non c’è tanto da chiedersi perché per decine di generazioni occidentali le avventure delle sorelle March siano state imposte a livello mondiale facendo di loro eroine se non indimenticabili quanto meno immancabili, mentre Amy, Rose, Cordelia e Richard Quin sono ancora lì su una barchetta a remi che cercano di attraversare la Manica; e neanche perché, sebbene il «Times» l’abbia definita nel 1947 «indiscutibilmente la migliore scrittrice al mondo», della West non parli più nessuno e le rare occasioni in cui ci si ricorda di lei è per il suo diario di viaggio in Iugoslavia, le sue cronache del processo di Norimberga per il «New Yorker» o per il suo flirt con Charlie Chaplin.

La domanda sarebbe piuttosto: perché, se già in tenera età ci siamo sorbiti Piccole donne e non siamo attualmente alunni di scuola media, dottorandi in letteratura vittoriana, femministe sentimentali e nemmeno zitelle del Sussex, dovremmo adesso sciropparci la loro apparente versione anglosassone?

Risposta: perché il salottino dei March una volta visitato lo riponiamo a cuor leggero sugli scaffali alti, accanto ai numeri della raccolta I grandi classici della letteratura in edicola, fra i libri “che tutti hanno letto e nessuno rilegge” e che un giorno, forse, regaleremo ai nostri figli. Le stanze degli Aubrey invece, una volta scoperte, non solo abbiamo difficoltà a spostarle dal comodino, ma vorremo spalancarle a tutti, e portarcele dietro sempre, come un amuleto, un antidoto alle sciatterie della realtà, alla miseria dei giornali e all’inconsistenza di certi romanzoni moderni. Se siete musicisti, musicologi o musicomani esiste poi una ragione ulteriore, più “tangibile” anche se in fondo incorporata e dissolta nella prima: la West scrive di musica e sulla musica e per la musica come pochi (e forse come nessuna) hanno fatto. Le pagine dedicate ai concerti di Rose e Mary, agli esercizi al violino di Cordelia, alle impressioni sui grandi compositori classici sono scritte come si scrivono i capolavori: con sobrietà, grazia, esattezza e magia.

Stare dietro alle sorelle inglesi è senza dubbio più difficile, e non perché non vi prendano per mano, ma perché non vi portano negli stessi posti. Le March rigano dritte dal punto A al punto B e così via, senza star lì a dilungarsi fra quel che c’è in mezzo, creando futuri prossimi e conseguenze orizzontali, comprando cappellini in tre righe e innamorandosi in sei. In casa Alcott è l’intreccio, in fondo, a farla da padrone, diretto dai buoni sentimenti e dalla poetica del vivere ammodo.

Andrew Wyeth, Braids (detail)

Al contrario gli “eventi” veri e propri del suo romanzo la West li liquida in fretta: una morte, un abbandono o un matrimonio stanno stretti in poche righe, e il vero protagonista è una sorta di presente dilatato, eterno e apparentemente inutile, fatto di cose piccolissime che non tendono mai in avanti ma si ripongono una dentro l’altra come bambole russe. Degli uccelli su un albero, un sottobosco di felci, una lezione di piano, il disporsi degli ovini in un campo, una storia di fantasmi: la famiglia Aubrey non si muove, ondeggia, in uno spazio a cui non siamo abituati e che è il fondo di un tempo liquido.

Forse questo accade perché Rebecca West ha iniziato a scrivere della famiglia Aubrey alla fine della sua vita, e per raccontare il mondo dell’adolescenza si è presa tutto il tempo della vecchiaia: ha preso “tempo” e l’ha messo lì dentro, anche dove non doveva essercene, maneggiandolo senza troppe cautele, con l’incoscienza, l’entusiasmo e quel pizzico d’irriverenza figli del modernismo inglese primi ’900. Lei comunque lo sa, e l’epigrafe che sceglie in apertura al primo volume è il suo modo (inglese) di scusarsi: «The cistern countains, the fountain overflows» (citazione dal Matrimonio del cielo e dell’inferno di William Blake). Ma ogni volta che lascia correre l’acqua la West ha ragione, perché ci porta dove certo nessun romanzo di marzapane e trecce bionde e compassione è stato in grado di fare, o forse ha semplicemente provato a fare.

In un certo senso, Piccole donne sta alla Famiglia Aubrey come Jingle Bells all’Oratorio di Natale di Bach. Teoricamente parlano della stessa cosa, il Natale, ma sono cose diverse, suonano inevitabilmente in un altro modo e, mentre la prima dà il meglio di sé anche nella versione per pianola, la seconda guarda più in alto, e assolverà il suo compito solo a condizione che le venga dedicato il giusto spazio, o almeno un impianto stereo decente. Cisterna e fontana, insomma.
 Nelle pagine della West, come in ogni vita che si rispetti e come in tutta la grande letteratura, quel che conta sono i momenti e il flusso in cui sono immersi, non quello che si impara o dove si va a finire. L’attesa della vita e la vita stessa sono una cosa sola; l’una senza l’altra non avrebbe lo stesso gusto, e men che meno lo stesso valore. Se c’è qualcosa che questo libro vi insegna è questo, e non è poco, e lo fa mentre vi parla di tutt’altro.

A un certo punto, a metà del terzo volume, Oliver (il musicista che sposerà Rose) è lì in salotto che mangia una torta alle ciliegie. Per dirla bene, Oliver ha mangiato tutte le ciliegie e lasciato un pezzettino di torta nel piatto. La gemella di Rose, Mary, gli propone di fare il bis, lui ringrazia e accetta. Mary ribatte: «Ma se ci togli le ciliegie la riduci in briciole. È un peccato, perché la torta è buonissima. Vado giù in cucina a chiedere alla cuoca di darmi delle ciliegie candite a parte, cosi potrai mangiarle senza rovinare la torta». Poi lei scende per le scale che scricchiolano e a quel punto Oliver si chiede, nel modo più naturale del mondo: «Com’è possibile che una ragazza sensibile come Mary non si renda conto che mangiare le ciliegie candite da sole non sarebbe la stessa cosa che mangiarle dopo averle levate da una torta?».

Insomma, è una storia di frutta candita, d’inglesine acerbe che suonano il piano e prendono il tè. Ma dentro ci trovate proprio tutto, basta accomodarsi in salotto.

[Questo articolo è stato pubblicato, con altro titolo, su Archivio Caltari]

Un amaro Montenegro

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di
Azra Nuhefendić

Nove vittorie su nove elezioni hanno riportato il presidente montenegrino Milo Djukanović e il suo partito democratico dei socialisti: hanno vinto tutte le elezioni politiche negli ultimi vent’anni. È un miracolo. In Europa non ci è riuscito mai nessuno.
Di miracoli, il minuscolo Montenegro con appena 670.000 mila abitanti, ne ha prodotti parecchi. Ad esempio, insieme alla Serbia ha partecipato a tutte le guerre balcaniche degli anni Novanta. La Serbia e i serbi si sono guadagnati l’etichetta di cattivi, mentre il Montenegro, miracolosamente, l’ha fatta franca.

Nel 1991 Milo Djukanović, allora primo ministro montenegrino, aveva ordinato i bombardamenti dell’antica città di Dubrovnik. Per rifarla “più antica e più bella”, dichiarò il capo dei serbi erzegovesi Božidar Vučurević. L’assedio e l’attacco alla città di Dubrovnik fu chiamato in Montenegro “la guerra per la pace”. Il quotidiano “Pobjeda” (La vittoria) di Podgorica, nell’edizione straordinaria dell’ottobre 1991, aveva scritto che il Montenegro (con la guerra) “si è rilanciato nel mito e nella leggenda e ha mostrato il suo volto inconfondibile… e con orgoglio marcia di nuovo tra gli eroi, nell’eternità, nel posto che gli spetta da sempre”.
Poi il giornale offre un ritratto dei riservisti montenegrini che, insieme alla JNA (l’Armata popolare jugoslava), bombardavano la città che fa parte del patrimonio dell’umanità: “I nobili eroi dai cuori grandi, le persone care e familiari, la gente comune che nei giorni scorsi abbiamo incontrato per strada, al lavoro, all’università, ci hanno regalato esempi di dignità e di eroismo, difendendo la pace, la libertà e l’onore”.
Vi hanno partecipato interi villaggi e famiglie al completo, informa il quotidiano.

Per la comunità internazionale “l’operazione Dubrovnik” fu un crimine di guerra. Infatti, l’assedio e i bombardamenti della città croata, finì con molte vittime umane ed enormi danni materiali. Una piccola parte del danno fu direttamente correlata ai combattimenti e alle operazioni militari, il resto fu il risultato dei saccheggi di massa.
Una commissione internazionale ha accertato che i nobili eroi avevano rubato televisori, videoregistratori, abbigliamento, calzature, biancheria da letto, elettrodomestici, utensili, macchine agricole, automobili, diverse opere d’arte, dalle pareti delle case avevano tolto gli interruttori elettrici, strappato le piastrelle in ceramica, vasche da bagno e water. Dall’ACI Marina di Dubrovnik avevano rubato 51 yacht, e altri 171 vennero completamente distrutti. Dall’aeroporto di Cilipi hanno rubato e trasportato in Montenegro tutti i macchinari di valore, dispositivi a raggi X per il controllo del traffico, apparecchi d’illuminazione per illuminare la pista, fari, generatori, veicoli antincendio, sistemi radar, la scala mobile, ed è stato saccheggiato il duty-free. Nella valle di Konavle, nel retroterra di Dubrovnik, hanno portato via tutto il bestiame dall’allevamento di bovini, a Kupari hanno depredato tutti e sei gli hotel lasciando solo i muri nudi. Il bottino di guerra ammonta a un miliardo e mezzo di euro.

Era l’epoca del giornalismo patriottico. I giornalisti di tale stampo non erano meno eroici dei riservisti. Uno di questi, il montenegrino Nebojša Jevrić, si era fatto filmare nella villa, saccheggiata e distrutta, della cantante croata Tereza Kesovija, vestito con la lingerie della cantante, ed esaltando il proprio patriottismo vantandosi in vari articoli di aver defecato nella piscina della cantante. Un mio collega, che era lì con la troupe televisiva all’epoca della guerra, mi raccontava quello che aveva visto sulla strada statale che collega il Montenegro e Dubrovnik:

“Per una corsia si muovevano i veicoli militari e i camion pieni di riservisti che andavano al fronte come se stessero andando a una festa. Si sporgevano dai camion, cantavano abbracciati e ubriachi, la bottiglia con la grappa passava di mano in mano. Sicuri del loro successo, mostravano due dita in segno di vittoria. Nella seconda corsia il traffico si svolgeva in due direzioni: dalla parte del fronte tornavano i camion pieni zeppi di roba rubata, e in direzione opposta, sempre nella metà della stessa corsia, colonne di civili a piedi, con le auto o i trattori andavano verso il fronte. Il traffico si muoveva a velocità di lumaca e spesso tutto si fermava, perché in mezzo alla strada dei gruppi si mettevano a ballare il kolo “oro crnogorsko”, il ballo tradizionale dove i partecipanti si dispongono in cerchio tenendosi per le spalle mentre nel centro, a turno, ballano con una donna. Nessuno tentava di mettere un po’ di ordine; persino i veicoli con i feriti, con i lampeggianti e le sirene accese, passavano con difficoltà, e ogni tanto venivano fermati dai civili che si congratulavano con gli eroi feriti: “Sretne ti, rane junače!”.

L’attacco a Dubrovnik fu la prova generale per quello che di lì a poco sarebbe successo in Bosnia. “I nobili eroi montenegrini”, nella guerra in BiH si sono distinti partecipando alle brigate di elettrodomestici, le cosiddette brigate del weekend, cioè quelle fatte da “uomini comuni” che andavano in guerra durante il fine settimana a fare razzie e a commettere un po’ di crimini.
Il saccheggio era così diffuso e sistematico, che ispirò la barzelletta sui due proverbiali scemi bosniaci, Suljo e Mujo. Suljo chiede a Mujo, che è diventato profugo, dove vorrebbe andare a vivere, e Mujo: “Nella città di Nikšić, in Montenegro.” “Perché vuoi andare tra i nemici?” “Perché là c’è già tutto quello che possedevo”.
Le notizie di quel periodo mi hanno fatto ricordare e capire un episodio capitatomi una decina di anni prima che cominciasse la guerra. Anton ed io c’eravamo persi in Montenegro e chiedemmo informazioni sulla strada da prendere a un vecchio. Questo ci guardò, fece cenno con la testa verso di me e disse: “Lei potrebbe essere nostra”, e poi, alla domanda di Anton “Come va?”, aveva risposto: “Male, siamo rimasti in braghe di tela perché da troppo tempo non c’è una guerra.”

“Due occhi in una testa”, così si definivano uniti la Serbia e il Montenegro, fino al 2006. Dal giugno di quell’anno il Montenegro è diventato uno Stato indipendente. “Siamo manipolati e vittime della propaganda di Belgrado”, con queste parole Milo Djukanović, si era liberato della compagnia di chi aveva commesso il genocidio e aveva perso la guerra. Si scusò con i croati, promettendo il risarcimento. Il signor Metodije Prkačin, un croato sopravvissuto al campo di concentramento di Morinj, organizzato dal Montenegro dichiara: “Io non mi fido del tribunale montenegrino perché lì lavorano giudici che hanno partecipato ai crimini di guerra, nella zona di Dubrovnik”.
A vent’anni dalla guerra, l’accusa montenegrina non ha avviato alcun procedimento per i reati commessi dalle forze della JNA e dai riservisti montenegrini durante l’operazione Dubrovnik. I politici montenegrini responsabili della guerra occupano ancora posizioni di rilievo nel governo. Tra i primi c’è Milo Djukanović.

Nel 1991, a soli ventinove anni, Djukanović diventò il più giovane primo ministro in Europa. Fu scelto dal regime di Belgrado per compiere la cosiddetta rivoluzione anti-burocratica in Montenegro, eufemismo coniato per destituire i politici che si opponevano al nazionalismo serbo. In pubblico Milo Djukanović era celebrato come “giovane, bravo e bello, uno che pensa con la propria testa”. A Belgrado, negli anni Novanta, capitava di vederlo almeno una volta alla settimana, in via XIV Dicembre, dove si incontrava con Slobodan Milošević. “Andava a prelevare la propria opinione”, dicevamo con ironia.
Nel corso di venti anni Milo Djukanovic è riuscito a mantenersi a galla, è saltato dalla poltrona di capo di governo a quella di presidente, e viceversa, mantenendo una carica o l’altra quasi ininterrottamente dal 1991 al 2010. Da giovane comunista, modesto ed esemplare, è diventato un turbo-nazionalista, poi un guerrafondaio. Il governo guidato da Djukanović è considerato responsabile dei crimini di guerra. Poi Milo si è trasformato in feroce oppositore al suo mentore, l’ex presidente serbo Slobodan Milošević, e infine è diventato il padre dell’indipendenza montenegrina. La longevità della sua carriera politica si potrebbe paragonare, solo a quella dei mogol comunisti, come il presidente dell’Uzbekistan Karimov, oppure del Kazakistan, Nazarbayev.

Ma la carriera più importante Djukanović l’ha fatta in modo “sconosciuto e misterioso”, come pure la sua ricchezza. La famosa rivista americana, Forbes, ha inserito Milo Djukanović nell’elenco dei politici più ricchi del mondo. Possiede ben 10 milioni di euro ma, come rileva lo stesso periodico, “sembra evidente che egli è in realtà molto più ricco, perché proprietario di immobili gestiti da una ristrettissima cerchia di collaboratori”.
La famiglia Djukanović, tra l’altro, controlla la Prva Banka del Montenegro. La maggior parte del denaro qui depositato, secondo l’autorevole società di revisione “Pricewaterhouse”, proviene da fondi pubblici, mentre due terzi dei prestiti assunti è andato ai Djukanović e ai loro stretti collaboratori.

In Montenegro si crede che i primi milioni Djukanovic se li sia guadagnati durante la guerra infrangendo le sanzioni imposte alla Serbia e al Montenegro, con l’importazione di petrolio e di armi. In seguito ha allargato il suo business con il contrabbando di sigarette americane in Europa. La procura di Bari ha indagato per diversi anni Djukanović e la sua famiglia per il coinvolgimento in questo traffico, ma il leader massimo si è salvato grazie all’immunità diplomatica.
Il direttore del settimanale di Podgorica “Monitor”, Esad Kocan, sostiene che la guerra degli anni Novanta ha generato una nuova classe capitalista in Montenegro basata sul sangue e sul saccheggio.

Infatti, l’autorevole rivista americana, “Foreign Affairs”, di recente ha descritto il Montenegro come uno “Stato mafioso”. Secondo la rivista, a differenza degli stati normali, gli stati mafiosi non solo si affidano occasionalmente a gruppi criminali per avanzare particolari obiettivi di politica estera. In uno stato mafioso gli alti funzionari del governo diventano effettivamente i protagonisti se non i capi stessi delle imprese criminali; la difesa e la promozione di quelle imprese diventa la priorità ufficiale dello stato. Negli stati mafiosi l’interesse nazionale e gli interessi della criminalità organizzata sono ormai inestricabilmente intrecciati, scrive la rivista.
Quando la prestigiosa BBC ha definito il Montenegro uno stato mafioso, l’ambasciatore montenegrino a Londra ha protestato ufficialmente, ma i dirigenti della BBC hanno rifiutato di scusarsi o ritirare la definizione, dicendo che l’etichetta ci stava.

“Come si fa a dire che non siamo uno stato mafioso se abbiamo un ex primo ministro/ ex presidente accusato di contrabbando, e che tra i suoi migliori amici ci sono dei mafiosi”, si domanda l’editore della rivista indipendente locale “Monitor”, Milka Tadić.
Il collega del quotidiano “Vijesti” di Podgorica, Balša Brković, spiega come mai i rapporti con la mafia e i vari scandali di corruzione, che accompagnano ormai da vent’anni Milo Djukanović, non abbiano rovinato la sua carriera politica: “Una gran parte dei montenegrini ammira i ladri e i criminali. Per secoli la rapina è stata la principale imprenditoria nazionale e Milo si adatta bene in questa verticale storica”, dice Balša Brković.

Oggi, a soli cinquant’anni, Milo Djukanović non ci pensa proprio di ritirarsi. “Non ho ancora deciso se farò il primo ministro, o il presidente dello Stato”, dichiara Milo Djukanović dopo l’ultima vittoria elettorale del suo partito.

Su “Antiprodigi e passi falsi” (Transeuropa, 2011) di Gilda Policastro

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di Paolo Godani

I prodigi contro cui si scaglia la poesia di Gilda Policastro non sono semplicemente gli eventi insoliti o “contro natura”, miracoli/mostri con cui tradizionalmente li si confonde, ma sono i segni di un radioso futuro, di un’età dell’oro a venire. Fedele all’antiprogressismo leopardiano, la prima parola del titolo di questa silloge sembra assumere dunque una postura morale che contrasta vigorosamente le illusioni futuriste, volontariste del presente.

Omaggio a Chris Marker in Camera Verde (Roma)

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C’è il tempo e la memoria e i ricordi. C’è il cinema e la realtà. Godard dentro Histoire du Cinèma indica bene il percorso da riflettere, da qui possiamo passare e trovare il KinoMarker, possiamo ritrovare i ricordi e pensarli, ritrovare le memorie e stamparle. Trovare il No Trepassing e oltrepassarlo. Scoprire di avere tempo, il tempo di riabbracciare il viaggio e trovarsi allo stesso molo d’imbarco, come in una fotografia antica che riporta indietro il fotogramma e la sua storia. (Leggi il programma)

Sebbene l’inverno

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di Mirfet Piccolo 

In ufficio hai detto che non saresti stato reperibile per tutta la giornata; sei un capetto che ha accumulato due anni di ferie e non devi spiegazioni. Dalla tua casella di posta un messaggio automatico avvisa che sei fuori ufficio e dispensa gli indirizzi di chi contattare: per problemi di stock lending; per problemi di Express II – RRG; per trasferimenti titoli. Hai omesso la data del tuo rientro, e nessuno ti ha fatto domande.

Nell’ascensore dell’ospedale non hai osato specchiarti: hai avuto vergogna di leggere nel tuo viso riflesso il verdetto clinico della tua stessa paura. In un tentativo magro di guardare oltre, con le braccia tese lungo i fianchi e gli occhi immobili sulla porta della cassa metallica che ti stava riportando al piano zero, hai pensato che, dopotutto, eri fortunato: in ascensore eri solo e quindi nessuno avrebbe visto attraverso la tua pelle, e capito, come se quella temporanea e del tutto casuale inesistenza umana potesse fare la differenza. Ma quando le porte del cubicolo si sono aperte davanti a te c’era una folla di persone, e in quella folla hai rivisto la fotografia retroilluminata di quel male che fa di te un caso raro alla scienza: un grumo disarmonico pronto ad avanzare e a ostruire lo scorrere della tua vita.

Fuori faceva caldo sebbene l’inverno fosse una certezza da calendario (al bollettino meteo, quella mattina alla radio, avevano parlato di un’insolita perturbazione d’Africa e tu, mentre in piedi bevevi il tuo caffè nero senza zucchero, nella tua mente solida avevi registrato l’informazione come un dato che avrebbe influenzato i mercati). Ti sei messo in coda per pagare il parcheggio: un Euro per due ore di sosta; la donna in fila davanti a te era giovane, aveva i capelli ricci e gremiti come un vitigno raboso e un profumo schietto di polpa agra. In coda, hai pensato che anche lì e in quel momento, con la tua paura incastrata tra le parole stampate sul foglio A4 di una diagnosi definitiva, avresti potuto mettere in pratica una nuova variante della tecnica seduttoria che ti ha sempre contraddistinto tra le tue frequentazioni dell’aperitivo metropolitano. Perché nel tuo smart-phone hai diviso le tue conoscenze in gruppi di appartenenza: ci sono quelle del campo di squash (giovedì), quelle dell’aperitivo (mercoledì e venerdì), e ci sono i colleghi tuoi pari e i colleghi superiori e di rango inferiore. Per le donne hai creato due sottocategorie: donne spritz e donne affrante. Sei sempre stato un uomo molto deciso. L’unica persona che non sei riuscita a catalogare è Claudio: il tuo migliore cosa? dai tempi del liceo. Solo lui, con la sua goffa semplicità e poche pretese, è in grado di farti dubitare, anche se questo non glielo hai mai detto e fai fatica ad ammetterlo pure a te stesso.

La coda, al parcheggio dell’ospedale, era lenta. Hai abbassato lo sguardo sulla mano sinistra della donna: le donne sposate ti hanno sempre eccitato (tranne tua madre, s’intende), sin da quando eri alto poco più di un metro e cinquanta e dal tuo banco cercavi uno spiraglio visivo tra le cosce pingui e umide della tua insegnante di scienze.
Persino il giorno delle nozze di Claudio, il tuo amico?, e Rachele, hai guardato la giovane sposa con occhi diversi, soprattutto quando, in un angolo buio di quel castello nuziale costato un’ipoteca sulla casa genitoriale, l’hai vista in lacrime e con la lingua disperata nella bocca di un’altra donna. Da quella tribuna d’onore, con una bevuta d’un fiato dal tuo calice sempre nuovamente colmo, hai deciso che sarebbe stato meglio – comodo e salutare, sensato e godereccio – rimuovere dalla scena appena vista le lacrime, e sei tornato al tavolo del tuo amico? e gli hai tirato una pacca sulla spalla e dalla tua bocca sono uscite parole di virile invidia.
La donna raboso se ne ha data ed è giunto il tuo momento di pagare. Hai nutrito la macchinetta del parcheggio con due monete da cinquanta centesimi e una moneta da un Euro, e ti sei chiesto se, visto il tuo personalissimo conto finale, valesse la pena mettersi in coda dietro speranze e attese litaniche e opache come un rosario di plastica da sgranare.

Con la ricevuta del parcheggio in mano sei andato verso la tua Audi A4, e hai pensato a ciò che non avresti voluto pensare, cioè a qualche notte prima quando tu, ancora convinto di possedere un corpo incapace di tradirti, hai detto a Monica che l’amore è essere liberi insieme, e hai ignorato col giusto garbo il tonfo gelato del suo cuore contro il tuo petto nudo e levigato con minuzia bisettimanale. Non hai detto a nessuno, neppure al tuo amico? che per un attimo hai avuto il sospetto quel tonfo potesse essere il tuo. E a volere dirla tutta, ti sei ben guardato dal dire che Monica non ci sarebbe più stata e che in fondo non eri stato tu a decidere.

Hai acceso il motore. Nell’autoradio hai infilato il cd dei Rage Against the Machine e hai chiuso bene i finestrini nonostante quell’insolita estate invernale che sarebbe stata ricordata per decenni, e, per tutta la strada dall’ospedale al tuo appartamento al nono piano di uno stabile metropolitano d’avanguardia, hai urlato le parole delle canzoni come al mercato urla chi vuole vendere al miglior prezzo, pur non sapendo per chi, esattamente, il prezzo sia il migliore, se per chi vende o per chi compra.

Hai aperto la porta di casa e ti sei fermato sulla soglia ad aspettare il suono di voci o passi di qualcuno felice di riaverti a casa – finalmente sei tornano, com’è andata la giornata -, ma hai trovato solo dei fantasmi senza testa.

Ti sei sfilato la giacca madida e pesante del tuo sudore caldo, e con in mano la giacca madida e pesante sei andato in soggiorno. E nel soggiorno bianco, seduto sul divino bianco e circondato da pareti bianche e mobili bianchi di gran design, hai tirato fuori dalla tasca della giacca quel programma fatto a tua misura, un elenco di colorate e compatte illusioni da ingoiare ogni ora; ti hanno detto che il dolore sì che si può ammutolire, ma tu sai che sarebbe solo una verità truccata.
Hai posato il foglio sul tavolino bianco laccato e fissato lo schermo nero del tuo nuovo televisore 55 pollici 3D Led con Bluetooth sync, navigazione internet e full web browser. Per prendere tempo, hai ingoiato saliva; per non pensare troppo in fretta, hai inspirato ed espirato lentamente dal naso e hai scrocchiato le dita delle tue mani una ad una.

Hai acceso il tuo smart-phone. Nella rubrica del telefono hai aperto la cartellina riservata alle tue donne da catalogo sperando di afferrare in uno di quei nomi senza volto un tuo sussulto d’affezione. Alla emme di Monica hai sfiorato con il dito l’icona standard, e d’un tratto hai dubitato di ricordare il colore dei suoi occhi e non hai premuto. Nelle cartelle ‘squash’ e ‘ape’ hai cercato nomi e voci familiari, ma hai trovato solo immagini vuote e numeri buoni, forse, per esser giocati al lotto se tu non fossi convinto che la fortuna esista solo nella forma e consistenza di oppio dei poveri. E tu sei sempre stato un uomo di sana e robusta costituzione, al netto di qualche occasionale striscia della cocaina più onesta sulla piazza.

Hai chiamato il numero del tuo amico? Il telefono ha suonato libero a lungo e hai pensato di riattaccare. Poi dall’altra parte hai sentito la sua voce e hai ingoiato in fretta la paura. Col tuo solito tono spavaldo – soffocando ogni cosa, ogni parola più vera, annientando l’odore sterilizzato di camici e di farmaci e palliativi alla morfina, oscurando il freddo stetoscopio e le mani esperte che quel giorno avevano stimato con avidità scientifica le fattezze di quella rarità nel tuo corpo – gli ha detto, ciao vecchio che si fa stasera. Il tuo amico? ti ha risposto, non posso stasera Rachele non sta bene forse per via del caldo anomalo. E tu gli hai detto, sei il solito stronzo, e lui non sapeva, ma tu sì, che quello sarebbe stato il tuo miglior saluto.

Hai spento il cellulare e sei andato in cucina. Dal frigorifero hai tirato fuori un cartone di latte e l’odore acido era anch’esso un verdetto. Nel lavandino in granito nero della tua cucina con mobili in legno massello, hai gettato il denso liquido bianco striato di un sangue giallo, e hai ripensato a tua madre e al latte che da bambino ti versava freddo nella tazza ogni mattina e che prima di sera ti avrebbe rinfacciato come se ogni goccia di quel latte fosse zampillata da un taglio feroce del suo stesso clitoride. Quando è morta non hai sentito la sua mancanza.
Dalla dispensa hai preso uno dei cartoni del latte a lunga conservazione che ogni mese compri al centro commerciale a pacchi di venti unità. Hai tagliato l’angolo di cartone e versato il latte in un bicchiere lungo e lo hai bevuto a piccoli sorsi sfogliando una copia del Sole 24 Ore vecchia di un giorno. Quando hai finito di bere, hai messo il cartone in frigo dimenticandoti, ancora una volta, di comprimere e ripiegare verso il basso l’angolo mozzato.

Sei tornato in soggiorno e hai guardato fuori dalla finestra. Il sole era ancora acceso e c’era troppa gente. Un via vai di donne e uomini, e una scolaresca con la maestra che richiamava l’ordine delle coppie della fila. Hai visto una donna secca con la minigonna leopardata che puntava l’indice in rimprovero davanti al muso del suo cane senza pelo; non sei riuscito a vederle il viso, ma hai avuto la sensazione che fosse vecchia, sgualcita.

Ti sei allontanato dalla finestra. In camera da letto, con nove ore di anticipo, hai iniziato a preparare la borsa di squash ma poi, senza chiudere la cerniera, l’hai lasciata scivolare ai piedi del letto.
Ti sei spogliato e hai guardato il tuo corpo riflesso nello specchio dell’armadio curandoti di non alzare lo sguardo sui tuoi occhi. In uno sforzo d’immaginazione, hai cercato di osservare quel corpo come se non fosse stato il tuo per vederlo ancora sano e fedele alla volontà umana, ed hai fallito.
In mutande e maglietta ti sei disteso sul copriletto e hai chiuso gli occhi. Ti sei voltato sul fianco sinistro e hai sollevato le ginocchia al petto e portato i pugni chiusi davanti alla bocca. Avresti voluto piangere ma non ci sei riuscito: un insuccesso per il quale per anni ti sei quotidianamente esercitato.
Non avevi sonno ma ti sei addormentato lo stesso, e hai sognato di perdere un braccio, poi l’altro, poi il naso e la lingua: strozzati dal sangue striato di giallo cascavano ai tuoi piedi come a chiederti pietà.

Quando ti sei svegliato era buio e ti sei alzato dal letto. Hai aspettato di sentire una voce, anche un fantasma senza testa sarebbe andato benissimo – hai fatto solo un brutto sogno, torna a letto che ti porto un bicchiere d’acqua –, ma hai sorriso al nulla.

Sei andato in soggiorno e non hai acceso la luce. La strada era vuota e il marciapiede dormiva ancora, e tu hai aperto la finestra e sei scomparso in un attimo leggero come una lucciola all’alba di un giorno di vera estate.