di Giacomo Sartori
All’ora convenuta sono tornato alla sede che avrebbe potuto essere un negozio di alta moda, e questa volta l’editrice dal cognome molto prestigioso c’era. Mi ha salutato con una voce disincarnata, e anche i contorni del viso sembravano poco netti: mi osservava da dietro un vetro smerigliato. Al netto della sensualità quella sua indeterminatezza aveva qualcosa di correggesco, o comunque di rinascimentale, di nobile. Le sue parole erano anch’esse evanescenti, ma nel contempo nette, precise, consapevoli della loro pregnanza, della ricca storia dalla quale stillavano. Nel suo ufficio erano in corso dei lavori di tinteggiatura, e quindi siamo finiti in una stanza dove una ragazza stava lavorando a un computer. Su suo invito io mi sono seduto su una poltrona piuttosto bassa, e lei su una sedia più alta. Dopo qualche istante di silenzio abbiamo cominciato a parlare.
Invece di lodare questo o quell’aspetto del testo, come mi aspettavo, mi ha chiesto con la sua voce di testa cosa avessi voluto dire con quel mio romanzo. Io non prevedevo una domanda del genere, e soprattutto non ho mai pensato che un testo di un certo spessore possa essere riassunto e tanto meno spiegato con un pugno di frasi. Io scrivo appunto per onorare la complessità, per non violarla come si fa nei discorsi di tutti i giorni. Ogni volta che alla radio ascolto uno scrittore raccontare con scioltezza la trama di un suo romanzo, descrivendone baldanzosamente i personaggi e la vicenda, mi dico che quel libro non lo aprirò nemmeno se mi torturano. Ho provato comunque a biascicare qualcosa. Lei mi osservava dall’alto della sua postazione senza muovere il viso, come soppesando ogni mia approssimata parola. Mi fissava, ma i suoi occhi guardavano di lato, come quelli dei tacchini e delle locuste, e questo dava all’esame che mi ritrovavo a sostenere una tonalità surreale. Sulla sua faccia non c’era alcun sorriso di incoraggiamento, alcuna benevolenza, ma piuttosto banchi di cerebrale diffidenza. Sembrava soprattutto affranta.
Dopo un’altra pausa mi ha confessato, come se fosse appunto una cosa molto dolorosa, che lei era sempre molto diffidente nei confronti dei testi che mescolano finzione e storia. In particolare quando si trattava di personaggi realmente esistiti, ha chiarito con la fronte angustiata. Io mi sono detto che era proprio quella la sfida che mi aveva sedotto: il mio testo intendeva per l’appunto riempire i silenzi e le vaghezze della storia, ridando vita ai morti, scolpendo nella lingua sempre infida, spogliando le parole dalle loro zavorre inconsce, riesumando con i mezzi più disparati spezzoni di verità. E mi sembrava di essercene uscito proprio bene. Del resto non ero certo il primo a cimentarmi in quell’esercizio, e sicuramente nemmeno l’ultimo. Stavo per biascicare qualcosa in proposito.
E invece ho capito. Ho capito che la paludata editrice mi aveva dato appuntamento prima di leggere una sola riga del romanzo, sull’onda del fervore della persona che aveva fatto da tramite, e della quale in genere si fidava. Adesso però lo aveva letto, o più verosimilmente lo aveva appena finito (di certo il ritardo era dovuto a quello), e non le era affatto piaciuto. La sua crudezza l’aveva anzi infastidita, per non dire disgustata. L’appuntamento però ormai era fissato, e con il nome che portava non poteva certo farmi cacciare con una qualche scusa da una segretaria. Aveva insomma deciso di accollarsi l’incombenza parecchio spiacevole di affrontarmi di petto, come si addiceva alla coraggiosa nobildonna delle lettere che era. La causa della sua tristezza ero io.
Alcune parti sono scritte davvero molto male, mi ha detto, abbassando lo sguardo d’iguana rinascimentale sul mio dattiloscritto. Lo teneva sulle ginocchia come si maneggiano gli oggetti che procurano ripugnanza, toccandolo il meno possibile. Guardando meglio ho notato che aveva marcato molti paragrafi con pesanti righe parallele, come quelle di un professore esasperato.
Il problema è che nemmeno io potevo darmela a gambe, dovevo anch’io sopportare quella contingenza grottesca. Non potevo alzarmi e mandare affanculo quella mummia che non aveva capito nulla del mio romanzo, lei e la sua casa editrice del cazzo, perché sono anch’io una persona educata. Dovevo stare lì a fare quella sceneggiata, a ascoltarla mentre sparava le sue idiozie, convintissima di avere davanti un povero deficiente. Ormai era evidente: sapendo che mi occupo di agricoltura mi vedeva come un contadino che con le sue ditona use alla vanga s’era cimentato in qualcosa che non gli competeva: con le mie scarpe grosse e il mio alito di aglio avevo osato calpestare il giardino delle belle lettere nel quale lei era nata e dove era vissuta tutta la vita. Era molto addolorata per questo scandalo. Il vero motivo del suo scoramento era questo.
I suoi occhi laterali e immobili continuavano a esprimere la stessa diffidenza di anfibio giurassico. Sapevo di aver ragione, vedevo da parte a parte quella benedetta maestrina del secolo precedente, capivo che apparteneva a un’epoca molto diversa da quella in cui scrivevo io. La sua altezzosa supponenza era impermeabile alla forza e alla bellezza del mio testo, era incapace di intuire gli abissi della mia scrittura: li prendeva anche lei per rozzezza, come la maggior parte dei suoi colleghi, come tanti cosiddetti scrittori, come tanti cosiddetti critici letterari. Del resto anche lei era una scrittrice e una critica letteraria. Non riuscivo però a dirle che non capiva nulla, non riuscivo a difendermi. Sentivo anzi che la mia voce diceva che forse aveva ragione, dovevo pensarci. Sapevo perfettamente di avere ragione, ma la mia voce diceva che forse dovevo rileggere con più attenzione il mio testo. Non sono capace di confrontarmi con l’ottusità, non ci sono mai riuscito. Di fronte alle porte chiuse mi sono sempre arreso, fin da bambino. Balbettavo frasi incomprensibili, e lei mi ascoltava senza davvero ascoltarmi.
L’impiegata alle sue spalle fingeva di lavorare al computer, con quell’aria assorta di quando non si vuole mostrare di ascoltare una conversazione. In realtà si gustava la scena. Anzi, si sforzava probabilmente di memorizzare ben bene tutti i dettagli, per poterli raccontare e fare sghignazzare i suoi amici. Forse si tratteneva per non ridere. Mentre io soffrivo le pene dell’inferno.
Certo proprio per sbloccare la situazione l’eterea editrice mi ha detto che se avessi rivisto il mio manoscritto lo avrebbe riletto volentieri. Lo ha ripetuto più volte, ha finito anzi per assicurarmi che quello era il suo vero pensiero, non parlava per parlare. Per qualche istante i suoi occhi si sono fatti paralleli, mi hanno guardato come guardano gli occhi umani. Quell’insistenza era però la prova lampante che non era sincera: la proposta era solo un mezzo come un altro per porre fine a quello strazio reciproco. Io però l’ho ringraziata, le ho detto che era molto gentile. Davvero ero sollevato di poter andarmene. Nel suo dolore, lassù nella torre di avorio, è apparso per un istante un barlume di empatia, come un flebile caracollare di candela.
Mi sono ritrovato nella strada con i suoi uggiosi palazzi incrostati di smog, nel fracasso del traffico aggressivo e selvaggio. Adesso la vedevo per quello che era: era proprio brutta e triste. Per non dire orrenda. Ma almeno ero fuori da quel cazzo di casa editrice di testi brevi ottocenteschi. Almeno non dovevo più fingere di essere un pessimo scrittore davanti alla sacerdotessa della letteratura per educande.
Anche la città mi sembrava meno attraente, mentre camminavo verso la stazione: inospitale e sbracata, inutilmente rumorosa, volgarissima, quale in fondo mi era sempre apparsa. Ma non mi rendevo ancora bene conto di cosa era successo, ero più che altro frastornato. È in treno che ho capito come stavano le cose. Ho capito che le mie energie e la mia pazienza erano esaurite: non ne restava nemmeno il sentore. Ho capito che quella batosta rappresentava la goccia che fa traboccare il vaso. Ho capito che ero uno scrittore fallito, che ero un fallito tout court: non avevo più la forza per continuare a scrivere, ma nemmeno per fare qualcosa d’altro. Per anni avevo mirato solo a quello, e adesso ero spezzato. Non volevo nemmeno più pensarci alla scrittura. Era però troppo tardi per tornare indietro, e soprattutto non mi interessava.
I giorni seguenti la mia situazione si è aggravata. Al trauma della disillusione si sono sommate affliggenti difficoltà sul lavoro, dovute a un errore di contabilità in una mia ricerca, del quale non ero affatto responsabile, ma che mi era pur sempre stato accollato, e che aveva conseguenze nefaste sulla mia attività. Ho cominciato a avere sempre mal di pancia. E anche tutto il resto cascava a pezzi. Era come se tutti i nodi fossero venuti al pettine nello stesso tempo, come se fossi arrivato alla resa finale dei conti. Fisicamente stavo sempre peggio, però non volevo andare a farmi vedere. La cosa che mi faceva più male era la consapevolezza di essermi sbagliato, di continuare a sbagliarmi. Io seguitavo a credere che il mio romanzo valesse molto, davvero non riuscivo a pensare qualcosa di diverso, ma a quanto pare non era vero, a quanto pare vaneggiavo. Dovevo accettare quel dato di fatto, se non volevo impazzire, dovevo farmene una ragione. Ho finito per andare dal medico, che dopo gli esami del caso mi ha diagnosticato una brutta gastrite, che secondo lui avrebbe anche potuto trasformarsi in tumore, perché avevo le pareti dello stomaco cosparse di pustolette potenzialmente precancerose. È seguito uno dei periodi più brutti della mia esistenza.
Molti mesi dopo, era già autunno inoltrato, e ancora non mi ero ripreso completamente dalla batosta morale e fisica, come dimostrava il fatto che non sapevo ancora tanto bene cosa pensare dei miei scritti, mi è capitato di parlare al telefono con la ragazza molto intelligente che aveva fatto da tramite. Secondo lei se l’editrice mi aveva invitato a presentarle una versione rivista del mio romanzo era assurdo che non tentassi. Io stesso, ripensando meglio le parole della donna per certi versi immateriale che avevo incontrato in quella circostanza non felicissima, mi sono detto che avevo finito per memorizzare solo i brandelli negativi. Lei non aveva detto che il mio testo non valeva nulla, aveva detto che aveva alcuni grossi difetti, debolezze che probabilmente lavorandoci sopra si sarebbero potute mettere a posto. E proprio sulla base di questo giudizio nel complesso positivo mi aveva fatto una precisa proposta, si era fermamente impegnata a rispettarla. Non avrebbe usato quelle parole tanto perentorie, se non ci avesse creduto. Il mio inestirpabile orgoglio l’aveva però interpretato come un mezzuccio ipocrita, o anche solo compassionevole, per liberarsi di me. Come al solito – o meglio peggio del solito, perché questa era stata una crisi senza precedenti – mi ero lasciato sopraffare dai miei propri dubbi, e mi ero arreso allo scoramento più completo: travisando la realtà, perdendo solo del tempo. Probabilmente se mi fossi messo subito al lavoro le cose sarebbero subito risolte, e non sarei stato così male. Dopotutto era una persona molto colta, aveva tradotto molti ottimi scrittori, sotto quella scorza di sdegnosa malinconia doveva avere una bella sensibilità.
Lottando contro me stesso ho quindi rimesso mano al romanzo, e con stupore mi sono subito reso conto che le pagine avevano effettivamente molto legnosità, molte goffaggini: per certi aspetti aveva ragione l’editrice. Quella lingua che aveva avuto un’origine così tortuosa aveva davvero dei problemi. Ci ho allora lavorato sopra, limando e ripulendo e distillando in poco tempo sono riuscito a renderla fluente e armonica. Restava pur sempre estremamente secca, in linea con la secchezza tragica e quasi grottesca della vicenda, ma adesso scorreva bene. Ora mi sembrava un buon e austero romanzo, infinitamente migliore della maggior parte delle cose che si pubblicavano, un qualcosa con una sua necessità e una sua inconfondibile fisionomia. Un testo che rappresentava, di questo ne ero sicuro, il ritratto più riuscito del discusso personaggio storico che per ragioni che non mi erano del tutto chiare m’ero messo in capo di riesumare. L’ho mandato alla ragazza molto intelligente, che l’ha giudicato pure lei ben migliore della versione precedente, ancora più forte. Davvero potente.
Ogni tanto mi facevo allora vivo, e le chiedevo se aveva qualche novità. Con la sua voce gaia di ragazzino preadolescente lei mi rispondeva che ancora l’editrice non l’aveva letto, ma senz’altro l’avrebbe presto preso in mano. Ci pensava lei a ricordarglielo. Era molto positiva, mi sembrava che vedesse delle reali possibilità di pubblicazione. I mesi però passavano, e non succedeva nulla. Poi ho constatato che nella voce di ragazzino molto intelligente cominciavano a affiorare tentennamenti, esitazioni dapprima dispiaciute, e poi sempre più abissali: ho capito che provava disagio. Ho capito che non pensava più di riuscire a fare leggere il mio romanzo così forte e efficace all’editrice con il nome blasonato e lo sguardo da iguana. E allora ho lasciato perdere. (fine)
(l’immagine: Michel Nedjar, senza titolo, 1991)





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