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Nuovi autismi 22 – La mia eterea editrice (2a parte)

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di Giacomo Sartori

All’ora convenuta sono tornato alla sede che avrebbe potuto essere un negozio di alta moda, e questa volta l’editrice dal cognome molto prestigioso c’era. Mi ha salutato con una voce disincarnata, e anche i contorni del viso sembravano poco netti: mi osservava da dietro un vetro smerigliato. Al netto della sensualità quella sua indeterminatezza aveva qualcosa di correggesco, o comunque di rinascimentale, di nobile. Le sue parole erano anch’esse evanescenti, ma nel contempo nette, precise, consapevoli della loro pregnanza, della ricca storia dalla quale stillavano. Nel suo ufficio erano in corso dei lavori di tinteggiatura, e quindi siamo finiti in una stanza dove una ragazza stava lavorando a un computer. Su suo invito io mi sono seduto su una poltrona piuttosto bassa, e lei su una sedia più alta. Dopo qualche istante di silenzio abbiamo cominciato a parlare.

Invece di lodare questo o quell’aspetto del testo, come mi aspettavo, mi ha chiesto con la sua voce di testa cosa avessi voluto dire con quel mio romanzo. Io non prevedevo una domanda del genere, e soprattutto non ho mai pensato che un testo di un certo spessore possa essere riassunto e tanto meno spiegato con un pugno di frasi. Io scrivo appunto per onorare la complessità, per non violarla come si fa nei discorsi di tutti i giorni. Ogni volta che alla radio ascolto uno scrittore raccontare con scioltezza la trama di un suo romanzo, descrivendone baldanzosamente i personaggi e la vicenda, mi dico che quel libro non lo aprirò nemmeno se mi torturano. Ho provato comunque a biascicare qualcosa. Lei mi osservava dall’alto della sua postazione senza muovere il viso, come soppesando ogni mia approssimata parola. Mi fissava, ma i suoi occhi guardavano di lato, come quelli dei tacchini e delle locuste, e questo dava all’esame che mi ritrovavo a sostenere una tonalità surreale. Sulla sua faccia non c’era alcun sorriso di incoraggiamento, alcuna benevolenza, ma piuttosto banchi di cerebrale diffidenza. Sembrava soprattutto affranta.

Dopo un’altra pausa mi ha confessato, come se fosse appunto una cosa molto dolorosa, che lei era sempre molto diffidente nei confronti dei testi che mescolano finzione e storia. In particolare quando si trattava di personaggi realmente esistiti, ha chiarito con la fronte angustiata. Io mi sono detto che era proprio quella la sfida che mi aveva sedotto: il mio testo intendeva per l’appunto riempire i silenzi e le vaghezze della storia, ridando vita ai morti, scolpendo nella lingua sempre infida, spogliando le parole dalle loro zavorre inconsce, riesumando con i mezzi più disparati spezzoni di verità. E mi sembrava di essercene uscito proprio bene. Del resto non ero certo il primo a cimentarmi in quell’esercizio, e sicuramente nemmeno l’ultimo. Stavo per biascicare qualcosa in proposito.

E invece ho capito. Ho capito che la paludata editrice mi aveva dato appuntamento prima di leggere una sola riga del romanzo, sull’onda del fervore della persona che aveva fatto da tramite, e della quale in genere si fidava. Adesso però lo aveva letto, o più verosimilmente lo aveva appena finito (di certo il ritardo era dovuto a quello), e non le era affatto piaciuto. La sua crudezza l’aveva anzi infastidita, per non dire disgustata. L’appuntamento però ormai era fissato, e con il nome che portava non poteva certo farmi cacciare con una qualche scusa da una segretaria. Aveva insomma deciso di accollarsi l’incombenza parecchio spiacevole di affrontarmi di petto, come si addiceva alla coraggiosa nobildonna delle lettere che era. La causa della sua tristezza ero io.

Alcune parti sono scritte davvero molto male, mi ha detto, abbassando lo sguardo d’iguana rinascimentale sul mio dattiloscritto. Lo teneva sulle ginocchia come si maneggiano gli oggetti che procurano ripugnanza, toccandolo il meno possibile. Guardando meglio ho notato che aveva marcato molti paragrafi con pesanti righe parallele, come quelle di un professore esasperato.

Il problema è che nemmeno io potevo darmela a gambe, dovevo anch’io sopportare quella contingenza grottesca. Non potevo alzarmi e mandare affanculo quella mummia che non aveva capito nulla del mio romanzo, lei e la sua casa editrice del cazzo, perché sono anch’io una persona educata. Dovevo stare lì a fare quella sceneggiata, a ascoltarla mentre sparava le sue idiozie, convintissima di avere davanti un povero deficiente. Ormai era evidente: sapendo che mi occupo di agricoltura mi vedeva come un contadino che con le sue ditona use alla vanga s’era cimentato in qualcosa che non gli competeva: con le mie scarpe grosse e il mio alito di aglio avevo osato calpestare il giardino delle belle lettere nel quale lei era nata e dove era vissuta tutta la vita. Era molto addolorata per questo scandalo. Il vero motivo del suo scoramento era questo.

I suoi occhi laterali e immobili continuavano a esprimere la stessa diffidenza di anfibio giurassico. Sapevo di aver ragione, vedevo da parte a parte quella benedetta maestrina del secolo precedente, capivo che apparteneva a un’epoca molto diversa da quella in cui scrivevo io. La sua altezzosa supponenza era impermeabile alla forza e alla bellezza del mio testo, era incapace di intuire gli abissi della mia scrittura: li prendeva anche lei per rozzezza, come la maggior parte dei suoi colleghi, come tanti cosiddetti scrittori, come tanti cosiddetti critici letterari. Del resto anche lei era una scrittrice e una critica letteraria. Non riuscivo però a dirle che non capiva nulla, non riuscivo a difendermi. Sentivo anzi che la mia voce diceva che forse aveva ragione, dovevo pensarci. Sapevo perfettamente di avere ragione, ma la mia voce diceva che forse dovevo rileggere con più attenzione il mio testo. Non sono capace di confrontarmi con l’ottusità, non ci sono mai riuscito. Di fronte alle porte chiuse mi sono sempre arreso, fin da bambino. Balbettavo frasi incomprensibili, e lei mi ascoltava senza davvero ascoltarmi.

L’impiegata alle sue spalle fingeva di lavorare al computer, con quell’aria assorta di quando non si vuole mostrare di ascoltare una conversazione. In realtà si gustava la scena. Anzi, si sforzava probabilmente di memorizzare ben bene tutti i dettagli, per poterli raccontare e fare sghignazzare i suoi amici. Forse si tratteneva per non ridere. Mentre io soffrivo le pene dell’inferno.

Certo proprio per sbloccare la situazione l’eterea editrice mi ha detto che se avessi rivisto il mio manoscritto lo avrebbe riletto volentieri. Lo ha ripetuto più volte, ha finito anzi per assicurarmi che quello era il suo vero pensiero, non parlava per parlare. Per qualche istante i suoi occhi si sono fatti paralleli, mi hanno guardato come guardano gli occhi umani. Quell’insistenza era però la prova lampante che non era sincera: la proposta era solo un mezzo come un altro per porre fine a quello strazio reciproco. Io però l’ho ringraziata, le ho detto che era molto gentile. Davvero ero sollevato di poter andarmene. Nel suo dolore, lassù nella torre di avorio, è apparso per un istante un barlume di empatia, come un flebile caracollare di candela.

Mi sono ritrovato nella strada con i suoi uggiosi palazzi incrostati di smog, nel fracasso del traffico aggressivo e selvaggio. Adesso la vedevo per quello che era: era proprio brutta e triste. Per non dire orrenda. Ma almeno ero fuori da quel cazzo di casa editrice di testi brevi ottocenteschi. Almeno non dovevo più fingere di essere un pessimo scrittore davanti alla sacerdotessa della letteratura per educande.

Anche la città mi sembrava meno attraente, mentre camminavo verso la stazione: inospitale e sbracata, inutilmente rumorosa, volgarissima, quale in fondo mi era sempre apparsa. Ma non mi rendevo ancora bene conto di cosa era successo, ero più che altro frastornato. È in treno che ho capito come stavano le cose. Ho capito che le mie energie e la mia pazienza erano esaurite: non ne restava nemmeno il sentore. Ho capito che quella batosta rappresentava la goccia che fa traboccare il vaso. Ho capito che ero uno scrittore fallito, che ero un fallito tout court: non avevo più la forza per continuare a scrivere, ma nemmeno per fare qualcosa d’altro. Per anni avevo mirato solo a quello, e adesso ero spezzato. Non volevo nemmeno più pensarci alla scrittura. Era però troppo tardi per tornare indietro, e soprattutto non mi interessava.

I giorni seguenti la mia situazione si è aggravata. Al trauma della disillusione si sono sommate affliggenti difficoltà sul lavoro, dovute a un errore di contabilità in una mia ricerca, del quale non ero affatto responsabile, ma che mi era pur sempre stato accollato, e che aveva conseguenze nefaste sulla mia attività. Ho cominciato a avere sempre mal di pancia. E anche tutto il resto cascava a pezzi. Era come se tutti i nodi fossero venuti al pettine nello stesso tempo, come se fossi arrivato alla resa finale dei conti. Fisicamente stavo sempre peggio, però non volevo andare a farmi vedere. La cosa che mi faceva più male era la consapevolezza di essermi sbagliato, di continuare a sbagliarmi. Io seguitavo a credere che il mio romanzo valesse molto, davvero non riuscivo a pensare qualcosa di diverso, ma a quanto pare non era vero, a quanto pare vaneggiavo. Dovevo accettare quel dato di fatto, se non volevo impazzire, dovevo farmene una ragione. Ho finito per andare dal medico, che dopo gli esami del caso mi ha diagnosticato una brutta gastrite, che secondo lui avrebbe anche potuto trasformarsi in tumore, perché avevo le pareti dello stomaco cosparse di pustolette potenzialmente precancerose. È seguito uno dei periodi più brutti della mia esistenza.

Molti mesi dopo, era già autunno inoltrato, e ancora non mi ero ripreso completamente dalla batosta morale e fisica, come dimostrava il fatto che non sapevo ancora tanto bene cosa pensare dei miei scritti, mi è capitato di parlare al telefono con la ragazza molto intelligente che aveva fatto da tramite. Secondo lei se l’editrice mi aveva invitato a presentarle una versione rivista del mio romanzo era assurdo che non tentassi. Io stesso, ripensando meglio le parole della donna per certi versi immateriale che avevo incontrato in quella circostanza non felicissima, mi sono detto che avevo finito per memorizzare solo i brandelli negativi. Lei non aveva detto che il mio testo non valeva nulla, aveva detto che aveva alcuni grossi difetti, debolezze che probabilmente lavorandoci sopra si sarebbero potute mettere a posto. E proprio sulla base di questo giudizio nel complesso positivo mi aveva fatto una precisa proposta, si era fermamente impegnata a rispettarla. Non avrebbe usato quelle parole tanto perentorie, se non ci avesse creduto. Il mio inestirpabile orgoglio l’aveva però interpretato come un mezzuccio ipocrita, o anche solo compassionevole, per liberarsi di me. Come al solito – o meglio peggio del solito, perché questa era stata una crisi senza precedenti – mi ero lasciato sopraffare dai miei propri dubbi, e mi ero arreso allo scoramento più completo: travisando la realtà, perdendo solo del tempo. Probabilmente se mi fossi messo subito al lavoro le cose sarebbero subito risolte, e non sarei stato così male. Dopotutto era una persona molto colta, aveva tradotto molti ottimi scrittori, sotto quella scorza di sdegnosa malinconia doveva avere una bella sensibilità.

Lottando contro me stesso ho quindi rimesso mano al romanzo, e con stupore mi sono subito reso conto che le pagine avevano effettivamente molto legnosità, molte goffaggini: per certi aspetti aveva ragione l’editrice. Quella lingua che aveva avuto un’origine così tortuosa aveva davvero dei problemi. Ci ho allora lavorato sopra, limando e ripulendo e distillando in poco tempo sono riuscito a renderla fluente e armonica. Restava pur sempre estremamente secca, in linea con la secchezza tragica e quasi grottesca della vicenda, ma adesso scorreva bene. Ora mi sembrava un buon e austero romanzo, infinitamente migliore della maggior parte delle cose che si pubblicavano, un qualcosa con una sua necessità e una sua inconfondibile fisionomia. Un testo che rappresentava, di questo ne ero sicuro, il ritratto più riuscito del discusso personaggio storico che per ragioni che non mi erano del tutto chiare m’ero messo in capo di riesumare. L’ho mandato alla ragazza molto intelligente, che l’ha giudicato pure lei ben migliore della versione precedente, ancora più forte. Davvero potente.

Ogni tanto mi facevo allora vivo, e le chiedevo se aveva qualche novità. Con la sua voce gaia di ragazzino preadolescente lei mi rispondeva che ancora l’editrice non l’aveva letto, ma senz’altro l’avrebbe presto preso in mano. Ci pensava lei a ricordarglielo. Era molto positiva, mi sembrava che vedesse delle reali possibilità di pubblicazione. I mesi però passavano, e non succedeva nulla. Poi ho constatato che nella voce di ragazzino molto intelligente cominciavano a affiorare tentennamenti, esitazioni dapprima dispiaciute, e poi sempre più abissali: ho capito che provava disagio. Ho capito che non pensava più di riuscire a fare leggere il mio romanzo così forte e efficace all’editrice con il nome blasonato e lo sguardo da iguana. E allora ho lasciato perdere. (fine)

(l’immagine: Michel Nedjar, senza titolo, 1991)

Immaginavi tu forse . . . ?

1

Natura: «Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro che alla felicità degli uomini o all’infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei.»

[Da: Giacomo Leopardi, Operette Morali, Dialogo della natura e di un islandese, a.s.]

Un pezzo del nostro paese.

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di Evelina Santangelo

Voglio ricordarmi:

delle parole di Nadia (operaia dell’Eurostets): «in una tenda puoi andare a dormire ma mica a lavorare… Ma si lavora per vivere, mica per morire…»

delle parole del cugino di un operaio rimasto sotto le macerie di un capannone della Haemotronic di Medolla): «Biagio non era per niente convinto di tornare al lavoro, ma non voleva perdere il posto…»

delle parole di due operai meridionali della Haemotronic di Medolla: «i soldi, tutto per il soldi… lavorare come cani e morire come cani».

it’s only blogging but i like it #6

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If We Don’t, Remember Me
[black&white edition]
IWDRM is a gallery of living movie stills, opened since october 2010.

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Dr. Strangelove or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb
Dr. Strangelove or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb

. . . non è prevedibile . . .

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di Antonio Sparzani

«Prevedibile, non è prevedibile mai», così il Sismologo di Fama, il Direttore dell’Istituto deputato ad occuparsi di terremoti e dei movimenti interni del nostro pianeta in generale. Così sì che si sintetizza bene la scienza della sismologia, quella che si vorrebbe invece sentir dire «questa zona è sicura», «quest’altra meno».
Dei terremoti sappiamo molto, della storia, delle modalità, delle frequenze, perché abbiamo, da una certa epoca in poi, molte registrazioni, che peraltro cominciano a diventare un po’ precise soltanto dal secolo scorso.

Nuovi autismi 22 – La mia eterea editrice (1a parte)

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di Giacomo Sartori

Ero molto contento di avere trovato finalmente un editore, davvero raggiante. Intendo una casa editrice ottima e seria, fondata da pochi anni ma già conosciuta e ben presente nelle librerie, con un’immagine nello stesso tempo classica e attuale. Io di editori ne avevo avuti diversi, alcuni dei quali con indubbie qualità, ma ognuno con incolmabili tare. Insomma, tare per quello che scrivo io, per quelle che considero le potenzialità dei miei testi. O erano troppo piccoli, o navigavano in acque ben lontane dalla mia sensibilità, o erano pazzi scatenati, o mitomani, o perfetti incompetenti, o non credevano più di tanto nelle mie capacità, se non addirittura nella narrativa in generale, o riunivano un cocktail di questi elementi, per non dire tutti assieme. La casa editrice che mi aveva convocato sembrava invece conglobare tutti i pregi che avevo trovato sparsi qua e là: non era grande ma nemmeno piccola, aveva un ottimo e vario catalogo, mostrava un suo coraggioso dinamismo, e visibilmente credeva ancora alla qualità. E per di più era diretta da due donne: nell’ambiente dell’edizione le donne, quasi mai presenti ai vertici, mi sono sempre sembrate – lasciando stare le tristi eccezioni – meno stolte, meno arroganti, e meno colonizzate da quei baldanzosi apriorismi che molto spesso trasformano i nostri editori in caricature di se stessi. Ma soprattutto era uno di quegli editori che quando prendono un autore se lo curano e se lo coccolano, con un rapporto personale e attento, come si usava una volta. Insomma, da qualsiasi punto di vista abbordassi la questione cozzavo nella piacevole conclusione che l’occasione che mi si presentava era esattamente la manna che aspettavo da tempo.

Per certi versi stentavo a crederci. Dopo anni di disavventure e tribolazioni editoriali ero diventato sempre più pessimista, e invece a quanto pareva c’era ancora gente in giro che sapeva apprezzare i miei testi così lontani da ogni convenzione implicita o esplicita, così eterocliti, così poco etichettabili, e nello stesso tempo – cosa forse più grave di tutte – così poco appariscenti, così apparentemente dimessi. Se dio vuole c’era ancora qualcuno in giro che capiva che la mia scrittura non era piana e banale come poteva sembrare a una lettura disattenta o poco sensibile, era una raffinata e elaboratissima scrittura, che senza darlo a vedere rifuggiva come la peste ogni pedissequa scorciatoia, ogni minima banalità. C’era gente disposta a investire e a scommettere sopra quelle mie profondità camuffate, soprattutto in quell’ultimo testo, sotto una scorza rozza e violenta. La situazione non era insomma così degradata come avevo finito per pensare: esistevano ancora dei veri editori.

Anche la ragazza che aveva fatto da tramite era molto contenta e ottimista. Lei apprezzava parecchio quello che scrivevo, e mi faceva ogni volta calorosissime lodi. Tra le altre cose sosteneva che nella nostra narrativa nessuno è in grado di descrivere il sesso come lo faccio io. I suoi apprezzamenti mi facevano piacere, perché la stimo molto, e la considero assai intelligente, o per meglio dire mostruosamente intelligente. Di rado mi è capitato di essere a tal punto colpito dall’intelligenza di una persona. Come dire, la sua è un’intelligenza quasi allo stato puro, quasi impudica, quasi minacciosa, come i grovigli di muscoli di un culturista, che per il momento sono impegnati solo a maneggiare un cucchiaino, ma che al bisogno potrebbero dedicarsi a attività infinitamente più pericolose, al limite potrebbero fracassare tutto. Lei lavorava nella casa editrice da qualche anno, e era molto intima di una delle due editrici, la più importante, dalla quale era molto apprezzata. Tutto era andato quindi liscio come l’olio: io le avevo mandato il mio ultimo testo, lei lo aveva subito letto, e avendolo trovato molto forte lo aveva passato all’editrice. In quattro e quattr’otto erano state bruciate le tappe che di solito prendono parecchio tempo, almeno per un autore pochissimo conosciuto quale sono. E adesso ero convocato nella grande città. Anzi, siccome poi dovevo partire per l’estero, avevo ottenuto di anticipare l’appuntamento. Un ottimo segno.

Mi accorgevo che tutto era diverso, adesso. Continuavo le mie attività scientifiche e facevo quello che dovevo fare, le cose di sempre, ma con un’energia diversa, con un ben altro spirito. Per la prima volta dopo tanti anni mi sentivo tranquillo, appagato. Non potevo non vedere che nella mia traiettoria ciò che stava accadendo era un punto di arrivo: avevo trovato un porto in cui attraccare. Ma era soprattutto il futuro che mi si presentava in maniera diversa: tutto mi sembrava facile, fattibile. Potevo quindi prendermela con calma, tirare un po’ il fiato. Ero tanto più sollevato in quanto sapevo bene che quella svolta avveniva al momento giusto, o per meglio dire appena prima che le cose si facessero davvero difficili, per non dire tragiche. Avevo preferito nascondermelo, ma alla lunga le difficoltà avevano finito per usurarmi, per minarmi dall’interno, e sentivo che ero arrivato molto vicino al limite: se fossero continuate mi sarei certo spezzato. Come si sono spezzati scrittori ben più grandi di me.

Guardando con più calma il catalogo dalla casa editrice mi accorgevo che alcune cose cavalcavano in realtà l’onda mediocre dei tempi, e qua e là c’era qualche clamorosa caduta. Ma soprattutto sul sito campeggiava una frase che esaltava i testi brevi. Se c’è una cosa che non sopporto in rapporto alla letteratura sono proprio le idee preconcette e le uscite normative, e quel’apoftegma in particolare mi sembrava indisponente e completamente idiota. Però in qualche modo doveva essere un precetto dell’editore, perché a ben guardare tutti i testi pubblicati erano piuttosto corti. Lo stesso nome della casa editrice alludeva a una fruizione letteraria confinata nel tempo e non prolungata. E a dire il vero anche la grafica a guardarla con attenzione non era propriamente riuscita, sembrava la brutta copia di quella di una storica casa editrice molto prestigiosa. Ma insomma era pur sempre sobria e nitida: non bellissima, ma dignitosa. E anche gli altri piccoli nei mi sembravano scusabilissimi, quasi normali: nel complesso restava una gran bella casa editrice. Non so perché facevo però un po’ fatica a rappresentarmi i miei libri, pur di solito brevi, in quella veste loro grafica al contempo ricercata e un po’ dozzinale. Conoscendomi mi dicevo che era la mia solita propensione per il pessimismo e le prospettive negative. Devo ancora abituarmi all’idea, mi dicevo.

Pensavo spesso alla ragazza che aveva fatto da tramite. In realtà l’avevo incontrata di persona solo una volta, e ci eravamo seduti a chiacchierare sulla terrazza all’aperto di un bar di un quartiere turistico. Era una giornata grigia e fredda, e nel vento madido di umidità marine mi era sembrata fragile, tremante come tremano certi piccoli uccelli. In lei c’era qualcosa di molto struggente, che affiorava nei movimenti rapidissimi degli occhi dietro gli occhiali rettangolari da intellettuale, in certi crolli improvvisi delle palpebre. Ma in realtà quel suo corpo magro era solido, e anzi rigido come un carapace, e chi lo faceva vibrare dall’interno era l’intelligenza mostruosa: a ben vedere non si trattava di palpitazioni di uccello indifeso. Fumava delle sigarette che si arrotolava lei stessa con un’applicazione concentrata di bambina già adulta, con gesti troppo vicini al corpo. Con la sua voce piena da ragazzino preadolescente in quel breve incontro mi aveva raccontato che fin da piccola aveva sempre dormito solo poche ore per notte. All’inizio i suoi genitori erano molto preoccupati, e si erano rivolti a ogni sorta di medici, e invece poi era venuto fuori che era una di quelle persone, tra le quali ci sono non pochi importanti uomini politici e scienziati, che dormono solo quattro o cinque ore. Era così, non c’era niente da fare. Io cercavo di mettermi nei suoi panni, e provavo disagio. Anche occupandosi di un sacco di cose, anche lavorando moltissimo, come faceva, le sue giornate dovevano rimanere pur sempre interminabili, le notti – in preda alla sua micidiale e forse pericolosa intelligenza – non dovevano finire mai. Mi dicevo però che doveva senz’altro essere un’ottima redattrice, e mi allettava la prospettiva di lavorare con lei sul mio testo. Avevo sempre trovato le sue osservazioni pertinenti, anche se qualche volta avvolte da una fumosità tutta cerebrale, come una cortina troppo spessa di idee affastellate.

L’appuntamento era fissato di lunedì: mi sono detto che potevo passare il fine settimana nella grande città. Ho quindi chiamato l’amico che mi ospita sempre quando vado da quelle parti, e col quale ci vediamo sempre molto volentieri: gli ho detto che sarei venuto. Lui come sempre ha organizzato un serrato programma di visite culturali e di appuntamenti culinari esotici, perché a differenza di me è una persona molto attiva, e ha il gusto degli sperimenti: abbiamo passato due giorni pieni e davvero belli. Il rosso esausto della vecchia città si stagliava contro il cielo azzurro scuro, c’erano cascate di glicini e lillà dappertutto, e la temperatura era gradevolissima. Ma soprattutto io ero di buon umore, e qualsiasi cosa vedessi mi sembrava bella, qualsiasi cosa facessimo mi pareva divertente. Mi piaceva parlare quel nostro gergo burlone e irriverente sedimentatosi in moltissimi anni di conoscenza. Mi piaceva che la sua nuova ragazza ci guardasse con sgranamenti interdetti degli occhioni neri e con sussulti involontari delle sopracciglia. Anche il mio amico era contento che stessi per accasarmi – l’espressione l’aveva tirata fuori lui stesso – con una casa editrice di qualità, e che fossi così di buon umore. Lui mi conosceva, sapeva che il vero motivo era quello. Del resto anche lui si era appena messo a convivere con quella ragazza lunga e ieratica, anche lui era contento come lo sono certi uomini che trovano una donna con venti anni di meno.

In un momento di solitudine ho cercato la via, che era trafficata e non accoglientissima, della casa editrice, ci sono passato davanti. Quel piano terra con ampie vetrine di un palazzo signorile sembrava forse più adatto per una boutique di alta moda, o di scarpe di lusso, ma insomma era la sede del mio futuro editore. Quello era il posto dove di tanto in tanto sarei venuto a definire i dettagli delle mie pubblicazioni, dove si sarebbe operato per una loro diffusione più vasta possibile.

Il lunedì mattina mi sono ritrovato con un discreto anticipo, io che non arrivo mai prima dell’ora, nella via non bellissima della sede della casa editrice. La città si era attivata, sciogliendo in una tensione per molti versi pedissequa un po’ della sua magia, ma era pur sempre attraente. Il cielo continuava a essere azzurro scuro, l’aria era ancora tiepida al punto giusto. Per ammazzare il tempo mi sono infilato in una viuzza laterale, dalla quale partivano altri disordinati vicoli: ho cercato un bar per bermi un caffè. Mi faceva piacere conoscere l’editrice, ma non ero impaziente: mi dicevo che l’importante era che la cosa avesse funzionato.

All’ora stabilita mi sono presentato alla sede. Una segretaria che sembrava un po’ imbarazzata mi ha detto che l’editrice si scusava, ma sarebbe arrivata solo due ore dopo, perché aveva scordato l’appuntamento con un medico. A me la cosa non è sembrata tanto grave: ho ribattuto che non c’erano problemi, sarei tornato più tardi. Sono quindi ripartito alla volta degli stessi vicoletti, sono finito in un bar all’aperto non lontano dal primo. Ho bevuto un altro caffè, ho continuato a pensare al romanzo che avevo in sospeso. Mi piaceva constatare che non avevo più l’impazienza e la fretta di prima, che non ero più angosciato. Quello che era successo aveva mutato il mio rapporto con il tempo: adesso potevo permettermi finalmente di prendermela con calma, di tirare il fiato. Mi sono alzato, ho camminato, ho bevuto qualcosa in un altro bar. A differenza dello stradone cupo della casa editrice quel settore della città era molto bello, dava voglia di abitarci. Alzando la testa guardavo le piante delle terrazze degli ultimi piani, mi immaginavo la vista che si doveva avere. Mi faceva piacere l’idea che adesso avrei dovuto venire in quella città più spesso, avrei avuto modo di conoscerla meglio.

Nota: seguirà tra due giorni, se qualcuno avesse la pazienza, la seconda e ultima parte

(l’illustrazione: Michel Nedjar, senza titolo, 1996)

Il falso radicalismo dei radicali

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di Domenico Lombardini

Con la recente gambizzazione del manager dell’Ansaldo Nucleare di Genova è stato sùbito rievocato, per automatismo mnemonico, il periodo del terrorismo rosso e la teorizzata catena di cause ed effetti che avrebbe poi portato a creare l’humus indispensabile all’attecchimento del brigatismo. Parlo ovviamente della “strategia della tensione”, un periodo il cui esordio fu fatto coincidere con la strage di Piazza Fontana (12 dicembre 1969) e i cui effetti si riverberarono fino al termine della prima Repubblica. La rievocazione e lo studio della nostra storia recente è certamente utile al fine di individuare costanti e analogie storiche con il presente, tuttavia trovo che tale operazione sia molto spesso fuorviante, laddove è esercizio assai più arduo studiare ciò che accade ogni giorno piuttosto che attingere euristicamente alla memoria storica. 

Amici immaginari

7

di Luca Ricci

1

Nostra figlia comincia a frignare.
– Che c’è?
– La tua amica ha spinto la mia.
– La mia amica?
– Sì.
– E da quando in qua anch’io avrei un’amica immaginaria?
– Certo che ce l’hai, non la vedi?
Mia moglie si pulisce le mani sul grembiule e mi rivolge un’occhiata interrogativa. Alzo le spalle. Stavamo preparando dei biscotti. Il libro parlava chiaro: “Una ricetta semplice, ideale per una domenica pomeriggio”. Nostra figlia si alza dalla sedia e raggiunge il centro della cucina. Sembra voler fare da paciere tra le due amiche, la sua e la mia. Ma poi ruzzola per terra.
– E’ proprio una prepotente.
– Che ti ha fatto?
– Quella stupida mi ha fatto lo sgambetto.
Nostra figlia si rialza, ma sembra ricevere subito un altro colpo invisibile. Si sforza di rimanere in piedi, questo è del tutto evidente. Gli occorrono degli spostamenti impercettibili, ma continui, per riuscire a mantenere l’equilibrio. Mia moglie allora si rivolge a me.
– Perché non chiedi alla tua amica se vuole aiutarci a preparare i biscotti?
– Ma io non ho nessuna amica.
– Oh, per favore, non mettertici anche tu.
Cerco di mantenere la calma. Fisso un punto dove verosimilmente potrebbe trovarsi la mia amica e le chiedo cortese se avrebbe voglia di darci una mano (le uova erano pronte per essere rotte, il burro si stava squagliando in un pentolino, anche la teglia era già cosparsa di zucchero a velo). Nostra figlia a poco a poco si calma.
– Le va?
– Ha detto di sì.
– E farà la brava?
– Farà la brava.
– Si comporterà bene anche con la mia amica?
– Certo, me l’ha promesso.

Il freddo dava al cielo la consistenza del cristallo, le cose fuori dalla finestra invogliavano al raccoglimento, suscitavano un desiderio di famiglia. Stava andando tutto bene, prima di quell’incidente. Ora invece mia moglie mi dice qualcosa all’orecchio, tipo se è normale che nostra figlia si comporti a quel modo.
– Penso sinceramente che sia solo noia, o una di quelle bizze passeggere che affliggono ogni tanto i bambini. Voglia di richiamare l’attenzione. Che altro può mai essere?
Mia moglie non ne è troppo persuasa. Ma io continuo a preparare i biscotti come se niente fosse.

2

Un chilo di farina, seicento grammi di burro, duecentocinquanta grammi di zucchero- gli ingredienti erano stati pesati con scrupolo sulla piccola bilancia che tenevamo sopra la cappa della cucina-, due uova, due cucchiaini di amido e una bustina di vaniglia. Fare l’impasto è il momento più delicato e divertente. Le uova e il burro fuso scappano da tutte le parti. Nostra figlia controlla che il muro di farina rimanga compatto. Muove velocemente le sue manine da novenne per evitare che si creino falle pericolose. Per qualche secondo fila tutto liscio. Poi vedo parte dell’impasto colare lungo il tavolo. Piccole gocce di sudore freddo m’imperlano la fronte mentre interpello nostra figlia.
– E adesso che c’è?
– Hanno ricominciato a litigare, ecco che c’è.
– Non mi pare, non mi pare proprio.
– La tua amica è proprio una prepotente e poi nessuno l’aveva invitata.
– Io continuo a vedere solo la tua.
Riprendo l’impasto. Lo lavoro con abnegazione, lo uso come uno scacciapensieri. Mi fermo soltanto quando penso che abbia raggiunto la densità ottimale. Mia moglie intanto è andata a consultare il dizionario medico che le aveva suggerito di comprare la pediatra. Vuol vedere se c’è una voce specifica che parla degli amici immaginari. Non appena restiamo soli, prendo nostra figlia per una spalla.
– Ehi, così non vale.
– Perché?
– Io non ho amiche immaginarie e tu lo sai.
– Ah no?
– No.
– E quell’amica a cui offri il caffè quando mi vieni a prendere a scuola?
– Quella è un’amica vera, ma se mamma viene a saperlo sono guai.
– Si arrabbia?
– Non ci lascerà più preparare i biscotti la domenica pomeriggio.
Nostra figlia si mette a ridere. E’ del tutto evidente che lo faccia apposta.

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Mia moglie torna sconsolata in cucina. Il dizionario medico non prevede nessuna voce circa il problema aleatorio degli amici immaginari. Affrontiamo perfino una piccola discussione in merito, mentre nostra figlia s’imbambola davanti alla finestra a fissare le cucine degli altri.
– Non sarà dovuto a una carenza d’affetto?
– Ma se l’abbiamo straviziata. E’ la reginetta della casa.
– Sul dizionario c’è scritto che a volte compensano con l’immaginazione delle mancanze affettive.
– Ma sul dizionario non si parla di amici immaginari. Il che vuol dire che popolare la casa di persone fittizie è una cosa assolutamente normale alla sua età.
– Sì, però è strano che abbia voluto dare un’amica immaginaria anche a te.
– Rassegnati, la bambina sta benissimo.
Proprio in quel momento nostra figlia si avvicina di nuovo al tavolo. La mia ramanzina ha sortito l’effetto sperato. Si mette a canticchiare e gioca con le formine per i biscotti. Ce ne sono di tre tipi: a Stella, a Cuore e a Goccia. Le formine sono sempre piaciute molto anche a me. E’ rassicurante sapere che con una breve pressione della mano si possono ottenere tante figure uguali, replicabili all’infinito. Non c’è modo di sbagliare, nella loro perfetta modularità quegli stampi sono infallibili. Mia moglie però non sembra ancora del tutto tranquilla e ogni tanto vuole informarsi sulle amiche immaginarie.
– Che stanno facendo, tesoro?
– La mia amica ha guardato fuori dalla finestra insieme a me, e adesso è seduta qui con noi, non vedi?
– E l’amica di papà?
– Oh, lei adesso è bravissima. Sta controllando l’impasto dei biscotti.
– Quindi vanno d’amore e d’accordo?
– Sì sì. Non vedono l’ora di assaggiare i biscotti, perciò metteremo un piatto anche a loro.
– Se vuoi puoi apparecchiare, tesoro.
Nostra figlia annuisce diligente. Salta giù dalla sedia e va a prendere i piatti nella credenza. Per arrivarci deve mettersi sulle punte dei piedi, e in quella posizione è così tenera che le perdonerei qualunque colpo basso. Sistema da una parte del tavolo cinque piatti: tre per noi e due per le amiche immaginarie.

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Suddivido l’impasto in tre parti uguali e ci diamo da fare con le formine. Nostra figlia sceglie la sagoma a Stella, mia moglie a Cuore. A me tocca la Goccia. Mi raccomando che lo spessore del biscotto non sia troppo sottile: è un aspetto fondamentale per ottenere la giusta lievitazione. Mezzo centimetro, all’incirca. Recupero una squadra dalla cartella di nostra figlia. Continuo a parlare, mi viene fuori una specie di monologo.
– Concentratevi sulle formine. Affondatele bene nell’impasto. Così. Che invenzione magnifica, non c’è niente che posso andare storto. Non vi sentite già meglio?
Poggiamo i biscotti sulla teglia, uno alla volta. Mi ha sempre sedotto questo piccolo artigianato per famiglie. Poter mangiare qualcosa fabbricato con le proprie mani. Infilo la teglia nel forno a centosettanta gradi, programmo il timer.
– Tra dieci minuti sono pronti.
Suona il campanello della porta. Avevo chiesto alla vicina il cioccolato fondente: ce ne sarebbero bastati cento grammi per la guarnizione finale.
– Sapevo che ce l’avevo in dispensa, da qualche parte.
– Benissimo.
Prendo la barretta di cioccolato, ma a quel punto la vicina si è già avviata in cucina. E’ una vecchia signora, il marito è malato e i figli lavorano lontano. Non mi stupisce che desideri un po’ di compagnia.
– Come mai tutti quei piatti? Aspettate visite?
Nostra figlia allora tenta di spiegare la situazione.
– Io e il mio papà abbiamo un’amica immaginaria a testa.
– Anche il tuo papà ne ha una?
– Sì sì. Prima avevano litigato ma poi hanno fatto pace. E adesso aspettano anche loro di mangiare i biscotti.
– Però, quanta gente in casa vostra…
Visto che la conversazione non decolla, l’entusiasmo della vicina si smorza quasi subito. Alla porta mi saluta con l’impressione che le sfugga qualcosa, e con una vaga preoccupazione negli occhi. Succede subito dopo. Il timer del forno squilla. Dovremmo tirare fuori i biscotti, adesso. Era una ricetta semplice, ideale per una domenica pomeriggio. Ma nostra figlia a quel punto s’irrigidisce un istante, e poi aggiunge un piatto.
– E adesso che succede? Perché quel piatto in più?
Guarda fisso di fronte a sé, poi si allarga in un sorrisetto che non ho il tempo di decifrare: è l’ennesino scherzo? Una vendetta? O dice sul serio?
– Ma come papà, non vedi che è arrivato anche l’amico immaginario di mamma?

Due modi per occuparsi sbrigativamente di James Joyce

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di Giuseppe Zucco

 

Così Jonathan Franzen:

In uno dei suoi saggi parla con freddezza dell’Ulisse di Joyce.

Ovviamente stiamo parlando di un grande capolavoro per il quale provo un’enorme ammirazione, tuttavia ritengo che sia un progetto letterario freddo, paragonato a esempio a quello che è riuscito a fare Beckett per descrivere l’orrore dell’esistenza e creare un testo sperimentale che corrispondesse a quel sentimento. Non si tratta di una questione di grandezza, ma di vulnerabilità: leggere Joyce mi dà l’impressione di trovarmi di fronte a quelle brillanti menti gesuite che prima pensano e poi provano dei sentimenti.

da un’intervista di Antonio Monda a Jonathan Franzen pubblicata su La Repubblica del 23/5/2012

 

Così Carmelo Bene:

tratto da “Una sera, un libro” di M. Cascavilla, A. Debenedetti, S. Gusberti, 1988

Un dossier sul futuro del libro

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di Andrea Inglese

Vorrei segnalare a scrittori e lettori, addetti ai lavori e volontari della cultura, un dossier importante uscito come supplemento di “alfabeta2” di maggio : si chiama alfalibro ed è curato da Maria Teresa Carbone, Andrea Cortellessa e Vincenzo Ostuni in collaborazione con Generazione TQ. Sono in apparente conflitto d’interessi parlandone, in quanto membro del comitato di redazione del mensile. In realtà, scopro questo “alfalibro” da lettore esterno, non avendo contribuito in nulla alla sua costituzione. Inoltre, dopo aver fatto parte di TQ per alcuni mesi, ho deciso di abbandonare il gruppo. (La modalità di lavoro e collaborazione non mi conveniva per varie ragioni, la prima delle quali era la distanza geografica.) Ora ho l’occasione di leggere uno dei frutti più interessanti del lavoro di questo gruppo.

ISABELLA MATTAZZI I’immagine inquieta: una conversazione con Georges Didi-Huberman

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 L’immagine inquieta: una conversazione con Georges Didi-Huberman 
 da DOPPIOZERO.com 

di Isabella Mattazzi

Il mio tavolo di lavoro, del resto, non è una normale scrivania. È un bancone da sarto molto lungo, dove possono convivere tranquillamente, uno accanto l’altro, parecchi libri, decine di immagini. Tutto il mio studio, compresa la mia libreria, faceva parte dell’arredo di una vecchia sartoria, uno di quegli atelier dove un tempo si tagliavano grandi strisce di tessuto per cucire i vestiti.

pubblicato da orsola puecher

Tre buone ragioni per leggere “I pappagalli”

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I pappagalli / Filippo Bolognauna recensione di Vanni Santoni

Devo muovermi a parlare de I pappagalli di Filippo Bologna. Devo muovermi perché negli ultimi tempi abbiam fatto comunella già due volte – per fortuna ho evitato una certa festa, o erano tre – e, se continuiamo, il mio giudizio sarà irrimediabilmente falsato dalla conoscenza. Ma forse sono ancora in tempo, il Bologna che posso dire di conoscere è solo un ragazzone dalle camicie bizzarre, e quindi nessuno penserà a oscuri magheggi, analoghi magari a quelli descritti ne I pappagalli, se io adesso dico che dovete per forza leggere questo libro.

Io stesso, all’inizio, non so mica se lo volevo poi leggere: di certo non volevo leggerlo subito, tanto che lo prestai il giorno stesso in cui lo ricevetti dalla Fandango.

E qui veniamo alla prima ragione per cui dovete leggerlo.

Sopraluogo provvisorio a una strage

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di Alessandro Leogrande

Solo un’altra volta una bomba era esplosa in una scuola. A caldo, avevamo tutti scritto che, con l’attentato di Brindisi, per la prima volta veniva colpito un edificio scolastico. C’è invece un precedente, come ricordato da Cinzia Gubbini ieri sulle pagine de “il manifesto”. Il 12 novembre del 1974, alle 18,30, una bomba al tritolo esplose nell’atrio della scuola media Bartolomeo Guidobono di Savona.

Il pomeriggio del 23 maggio 1992.

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Evelina Santangelo

Il pomeriggio del 23 maggio 1992, ero su quell’autostrada in cui sarebbe scoppiata la bomba che avrebbe ucciso il giudice Giovanni Falcone e la moglie Francesca Morvillo, insieme ai tre agenti della scorta: Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro.
Elicotteri e polizia ovunque, il traffico interrotto.
L’impressione era quella di trovarsi in un paese in cui fosse in corso qualcosa che nella mia immaginazione si delineava come un colpo di stato.
Non pensavo che pochi metri più avanti fosse scoppiata una bomba che avrebbe finito per uccidere, insieme al giudice Falcone, alla moglie e alla sua scorta, le speranze che tutti noi allora nutrivamo di un riscatto definitivo dal potere mafioso e dalle sue collusioni politiche e affaristiche.
Quel che era successo l’ho saputo solo a notte fonda, una volta arrivata in città, dopo ore di tensione cieca (anche le linee telefoniche erano saltate).
Fu in quel preciso momento che il giudice Falcone divenne per molti di noi non solo un uomo delle istituzioni ucciso per aver fatto con rigore e serietà il proprio lavoro, ma qualcosa di più intimo: l’incarnazione stessa del nostro desiderio viscerale di riscatto, individuale e collettivo, l’incarnazione di quella che definirei l’unica vera resistenza che ha conosciuto la Sicilia, e che ha lasciato un segno profondo nelle coscienze di molti siciliani.

Il pomeriggio del 23 maggio 1992 ero dunque su quell’autostrada in macchina con mio padre, che da tempo pronunciava (in pubblico e in privato) parole che suonavano così: «La forza della mafia è in rapporto alla nostra debolezza e la sua durata dipende da disinteresse della coscienza che dovrebbe sentirsi offesa ed è invece paga di non aver ricevuto un torto diretto… Con freddezza la mafia uccide e con freddezza sia la nostra duratura risposta».
«Il nostro dovere: l’estirpazione della sub cultura mafiosa che sfida la vera cultura dovunque le si oppone».

Risparmia ora!!! (è conveniente)

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di Helena Janeczek

Sensazione di una totale incomunicabilità che pagheremo in maniera devastante: forse non solo qui o in Grecia, Spagna, Portogallo, Irlanda.
Un programma mattutino della ARD, il primo canale tedesco, commenta lo scontro fra Hollande e Merkel. Il primo, spiega la moderatrice, sarebbe visto quasi come un messia da tutti coloro che preferirebbero spendere (ausgeben) anziché risparmiare (sparen), ma la cancelliera difenderà inflessibilmente la linea del risparmio.

Ombra di bestia

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di Giusi Drago

[Giusi Drago è nata a Trento e vive a Milano, dove lavora nell’editoria. Traduttrice dal tedesco, ha ricevuto il Premio italo-tedesco per la traduzione letteraria 2011. Le sue poesie sono apparse nell’antologia 7 poeti del premio Montale, Scheiwiller, 1995. Ha pubblicato il volume La pazienza della mano (Nicolodi, 2004) e diretto per cinque anni la rivista «Dialogica. Semestrale di ricerca e culture letterarie». Pubblico qui molto volentieri una selezione di sue poesie. a.s.]

OMBRA DI BESTIA

I

in tre modi ha la meglio la paura:
in forma di battito pressante
anche muto o morituro,

Il saluto di Mesagne

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di Domenico Pinto

Un desiderio di chiarezza, come dire di pace, imperturbabile e dirimente, sarebbe il sogno di qualunque osservatore. Non si hanno invece che frammenti, una sequenza di fotogrammi, nulla che ancora custodisca un senso fuorché la corrente di emozioni che continua a attraversare la città di Mesagne. Ora che una larga folla si va adunando in piazza IV Novembre, dopo due giorni dall’attentato alla scuola Morvillo-Falcone di Brindisi, tutti i piani interpretativi di questa realtà, infinitamente mediata e congetturale, irrisolta, contraddittoria, si aprono per far posto al più duro degli oggetti di realtà: il corpo di Melissa Bassi entra per l’arco della Porta Grande, viene seguito da un applauso; dalle finestre della biblioteca comunale si vede la folla dei vivi richiudersi su di esso.

Esercizi di copiatura: 53 lettere di Paul Cézanne

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La filologia ha ormai da molto tempo fatto i conti con una questione piuttosto delicata, quanto inevitabile: esiste una situazione, o meglio, una condizione psicologica della copiatura. Dobbiamo in primis al magistero di Louis Havet e al suo Manuel de critique verbale appliquée aux textes latins (1911) le pagine più chiare e illuminanti al proposito. Senza farla lunga: chi copia un testo (ad esempio un manoscritto) incappa inevitabilmente in errori, più o meno involontari. Havet ne elenca alcuni: errori diretti e indiretti, errori di udito e/o di vista, senza dimenticare l’influenza del modello, del contesto e – aggiunge – della personalità del copista. Il nostro copista, qui in questione, ha un nome: John Rewald. E’ lui che nel 1937, tra mille ricerche e un accanimento costante, pubblica i risultati di anni di lavoro dedicati al suo artista prediletto, Paul Cézanne.

La paura e la voglia di non essere soli

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di Gianluca Veltri

Tra qualche tempo, con l’ultimo album degli Amor Fou “Cento giorni da oggi” ripasseremo in rassegna questi anni. Con un’operazione che classicamente si definirebbe “coraggiosa”, la band milanese ha smesso in tempi vertiginosi l’aura cantautorale, vagamente melanconica, che aveva giustificato il credito guadagnato nell’ambito della musica d’autore. L’electro esistenzialista di “La stagione del cannibale”, la scrittura pensosa di “I moralisti” — i due primi lavori — sono stati spazzati via da un vortice, dentro cui è finito il nuovo, terzo disco. Doveva essere un album-concept sui giovani, disse Alessandro Raina, il front-man e autore del gruppo. Una sbornia di gioventù. E gioventù è stata, però da una prospettiva che nel frattempo è cambiata, perché Raina e compagni è come avessero aperto le finestre sul frastuono del mondo, facendosene invadere. Dalle loro camerette, anziché guardarsi l’ombelico, hanno allungato la vista sugli altri continenti, su quel che accade a varie latitudini, riportandolo poi a casa. Sentirsi immersi in un tutto. Un viaggio in Africa proprio nell’anno delle rivoluzioni maghrebine ha dato a Raina nuove chiavi di lettura. E così il singolo che lancia l’intero album è una canzone dal titolo “Alì”; “La primavera araba” è un altro dei brani portanti, insieme a “Le guerre umanitarie”. È come se le canzoni volessero costantemente creare un ponte tra le nostre cose (quasi sempre asfittiche, piccole, rinchiuse in sé) e tutto quello che nel frattempo sconquassa il mondo. “I figli dei persiani di Berlino Ovest” sono visti in controluce ai “figli dei precari di Milano”: i primi, felici come giovani leoni, si dipingono il viso col sole; i secondi, golosi come giovani vampiri, si riparano il viso dal sole (dimenticando di esistere). In “Goodbye Lenin”, brano che prende in prestito il titolo di un film (non è l’unico), viene eletta a epitome di risveglio la rinascita della Germania orientale uscita dal giogo comunista. La decadenza del mondo occidentale viene letta nelle crepe del presente, dalle derive di Scientology alla dittatura televisiva. “Bombardiamo Tripoli/ puniamo chi bestemmia nei reality”, canta Raina paradossalmente — ma nemmeno tanto — in “Le guerre umanitarie”. Accostando due eventi di siderale distanza, che però arrivano appiattiti davanti ai nostri schermi: i bombardamenti su una città araba e la blasfemia nel reality show. Ma non c’è denuncia, non c’è protesta. Le canzoni sono come cartoline spedite dal mondo. “I volantini di Scientology” enumera come in un’indagine: “tre milioni di persone consumano un mese di vita fra le code dei nuovi I-phone […], tre milioni di ragazze dimagriscono non sempre per colpa di Photoshop/ hanno soltanto vent’anni e pochissime non sogneranno il titolo di Amici”. Piccolo trattato di sociologia.
Intriso di presente, il nuovo lavoro degli Amor Fou ha in “contemporaneità”, oltre che in “gioventù”, le parole-chiave. Tempo reale. Vitalità, voglia di vita, straripante. Il titolo “Cento giorni da oggi” è il “carpe diem” degli Amor Fou. Descrive un perimetro sul domani immediato. La visibilità sul futuro non può superare, se non di poco, i tre mesi: cento giorni. Oltre questo sipario temporale non si possono stilare programmi. Niente nostalgia del futuro, bando alle malinconie. Il palinsesto è questo.
I lemmi e i nomi che troverete in queste tracce oltre a i-phone, reality, Photoshop e “Amici”, sono: Erasmus, social network, Ikea, rave, flash mob, sesso sicuro, master, Saviano, mercato, Thyssenkrupp. Musicalmente i nuovi versi di Raina non potevano più accompagnarsi ai consueti vestiti cantautorali. Un disco poco italiano, “Cento giorni da oggi”, e una svolta musicalmente poco praticata, quella degli Amor Fou. Se si eccettuano possibili rimembranze del Battisti di “Anima latina” e dell’assai influente Battiato di “La voce del padrone”, i riferimenti sono tutti anglosassoni. Le influenze più remote, classicamente anni ’80, affondano negli ascolti di Cocteau Twins, Cure, Talking Heads, Flaming Lips. Ma è soprattutto nel brodo recente che vanno ricercati i maggiori link. Più di De Gregori, allora, ci troverete The Drums, e un pizzico dei Vampire Weekend anziché la rimembranza di un De André. Oggi gli Amor Fou guardano più agli Arcade Fire che ai Baustelle, ma in fondo, sebbene con ben altra profondità, anche ai Coldplay. Perché un’altra parola chiave degli ultimi Amor Fou è “POP”. Variamente declinato: dream-pop, pop-funky, synth-pop, afro-pop. Non è smarrita quella cifra citazionista che connota la nuova canzone d’autore (“vengo a prenderti stasera”, “ti voglio cullare”, “per fare un frutto ci vuole un fiore”). Ma più di questo, resta altro, dall’ascolto di “Cento giorni da oggi”. Resta il tentativo di far circolare l’aria quando una casa è stata troppo a lungo chiusa, e questa casa è l’Italia dell’ultimo ventennio. Respirare a pieni polmoni. Mettere in circolo l’energia. Urlare a più non posso, e non più da una cameretta angusta, “la paura e la voglia di non essere soli”.

(qui il video e un’intervista ad Alessandro Raina)

Melissa e Nicola

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di Antonio Sparzani
Una ragazzina e un ragazzino. Adesso sono morti tutti e due.
Melissa lo sanno tutti chi era e che è morta dilaniata da un’esplosione davanti alla sua scuola di Brindisi, mentre vi si stava recando, da Mesagne, come tutte le mattine. Atroce, semplicemente atroce.
Chi sia Nicola lo sanno in meno persone: