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Nell’acquario di Facebook

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Ippolita
Nell’acquario di Facebook. La resistibile ascesa dell’anarco-capitalismo
56.478 parole, 391.364 battute sul web ed in formato ebook.

Negli ultimi dieci anni Internet ed il web 2.0 hanno ridefinito le relazioni sociali, almeno per quella parte dell’umanità al di qua del divario digitale. La possibilità di comunicare annullando tempi e distanze si è realizzata attraverso software di facile uso e con una diffusione di massa (google, wordpress.com, facebook etc.). Sono questi software di massa, incarnati nei principali prodotti di social network, che danno forma alle nostre esperienza sociali in rete e che imprimono ai nostri comportamenti forme dettate dalle scelte progettuali e dalle visioni culturali delle aziende che li hanno creati.

L’idea che la rappresentazione ideale di noi stessi in rete sia una pagina con una foto ed una scheda personale è un’evoluzione logica della rubrica telefonica o del rolodex, ma non è per nulla naturale o assoluta. E’ il frutto di una serie di scelte libere da parte dei progettisti dei vari servizi web, e di scelte più coatte di noi utilizzatori di questi servizi. Noi viviamo in una rete plasmata dal liberalismo economico, dal pragmatismo tecnologico e da ideali di trasparenza e meritocrazia, e queste idee influenzano le nostre azioni ed il nostro modo di pensare la presenza in rete.

In queste riflessioni si inserisce il pamphlet del gruppo Ippolita Nell’acquario di Facebook – La resistibile ascesa dell’anarco-capitalismo. Il testo prende le mosse dalla critica della socialità in rete quando essa si svolge all’interno di silos applicativi autoreferenziali, siano essi aziendali come Google, Facebook o Amazon, o noprofit e aperti come nel caso di Wikipedia. Oltre gli argomenti classici della net-critique, la posizione di Ippolita è fortemente politica, anticapitalistica e critica nei confronti del libertarismo di destra diffuso in USA (libertarianismo). La via di uscita è utopica, non c’è salvezza nelle tecnologie, occorre costruire con le proprie mani piccole comunità e gruppi capaci di incontrarsi di persona, sapendo che nella rete non possiamo fare a meno di stare se vogliamo essere noi stessi.

Nella prima parte del libro viene proposta una critica dei social network e di Facebook in particolare. Vengono analizzati i limiti esistenziale, psicologici ed individuali della socialità facebookiana, una realtà semplificata, impoverita e illusoria in cui la persona è merce.

Web 2.0 e social network sono concentratori di servizi di massa in una rete di per sé destrutturata, attraverso cui viene esercitato un enorme potere di omologazione. Dato che la rete pone minime barriere di accesso all’informazione, che non è quindi monetizzabile direttamente, l’unico modo per mettere a valore i propri servizi è stimolare l’accesso continuo all’informazione e la produzione continua di contenuti che ci definiscano. Questo genererà degli schemi di comportamento, dei profili personali monetizzabili in massa in vario modo. E’ il passaggio da Google motore di ricerca in una rete illuministica di documenti che riportano a persone, a Facebook concentratore turbocapitalista di una rete di persone diventate merci e come tali scambiate e rivendute.

Alla base dello stimolo affinché noi produciamo contenuti ed interazioni continue è l’idea che la trasparenza, l’apertura e condivisione siano sempre positivi, desiderabili, socialmente vantaggiosi. Condividere continuamente informazioni su di sé, ovviamente in chiave favorevole come accade in Facebook, porta però all’appiattimento delle differenze, al depauperamento dei saperi ed alla distruzione della complessità multiforme dell’individuo. Il conflitto viene semplicemente nascosto, scivola nel privato dove ciascuno può sorvegliare la figura in rete degli altri ed indulgere nel pettegolezzo.

Mentre Ippolita analizza bene la psicologia dell’essere in rete, mi pare che insista in modo forse un po’ cattolico sulla psicologia personale del rapporto coi social network: siamo narcisisti, quindi ci esibiamo e spiamo morbosamente le esibizioni altrui, in un ambiente software costruito appositamente per facilitare questo continuo pornoshow. Credo però che si debba considerare anche quanto l’ambiente software sia parte attiva nell’indirizzare il nostro comportamento, in particolare con l’uso plateale di tecniche di psicologia behaviorista (skinneriana). Ad ogni azione gradita a Facebook riceviamo un rinforzo, ad ogni dato personale che regaliamo riceviamo un premio, l’ammirazione dei pari, il sostegno degli amici; nei tempi morti c’è sempre un giochino per tenere desta l’attenzione ed assicurare che non abbandoniamo il recinto dentro cui siamo pienamente osservabili.

Farei anche una distinzione tra la critica dei problemi ontologici dei social network e quella del disegno del software. Se si critica la relazione di amicizia in Facebook perché è univoca, inadeguata a distinguere tipi diversi di relazione e di ambito sociale, si rischia di venire spiazzati da nuove funzionalità o nuovi prodotti: esiste infatti da tempo il concetto di “circoli” (come li chiama Google+) o di “liste” (in Facebook) che permettono di disegnare ambiti di persone “amiche” separati però tra loro. E’ meglio secondo me concentrarsi sul problema fondamentale di Facebook e simili: le relazioni sociali su Facebook sono piatte e superficiali perché il loro scopo è gratificare, servire, garantire la stimolazione. Avere una presenza personale sul web con la quale interagire socialmente ci spinge a semplificazioni che nella socialità quotidiana gestiamo in modo molto più sfumato e complesso. Sarà interessante vedere come viene affrontato questo problema in Diaspora, un social network distribuito e open source che non ha i problemi di privacy di Facebook, anche se a quanto ho visto finora l’impostazione progettuale è la medesima (io, la mia foto, i miei amici, i miei interessi).

La seconda parte del libro è una critica politica e filosofica al pensiero right libertarian (libertariano) che in USA gode di grande popolarità negli ambienti finanziari e imprenditoriali delle aziende ad alta tecnologia. Le idee di Murray N. Rothbard, Robert Nozick, Ayn Rand sono forse poco note in Italia e sono per certi versi difficilmente classificabili con gli schemi tradizionali destra/sinistra: vi sono uniti il concetto di libertà individuale come bene supremo da perseguire, il rifiuto dei vincoli sociali e statali visti come un freno distorcente per l’individuo, l’adozione della razionalità utilitarista come motore degli scambi sociali, l’idea che il mercato capitalista sia il luogo in cui la società possa veramente prendere libera forma.

Negli anni ’90 questa corrente di pensiero vede nelle tecnologie informatiche lo strumento con cui realizzare le promesse di una nuova società basata sui liberi individui, sul libero ed efficiente scambio di informazioni, sulla nuova economia razionale e frictionless. Esempio di questa mentalità anarco-capitalista è Peter Thiel, fondatore di Paypal e iniziale finanziatore di Facebook, nella cui visione si fondono feroce darwinismo sociale, illuminata meritocrazia, fiducia in un capitalismo senza regole, individualismo libertario. L’individuo libero in un mercato senza attriti per realizzare se stesso ed i suoi desideri è al centro delle aziende che Thiel contribuisce a creare per estrarre valore dai dati aggregati di milioni di individui, attraverso la tecnologia informatica.

Quel che trovo interessante non è tanto la critica della filosofia libertariana, un pensiero per certi versi ingenuo, astorico e semplicista, quanto la proposta di cercare analogie, influenze e contatti in campi adiacenti. Per esempio la cultura hacker, fatta di pragmatismo, informalità ma anche di forte meritocrazia (esattamente come nelle migliori università statunitensi) ha molti elementi in comune con la filosofia californiana, non ultimo il fatto che è vissuta da giovani maschi bianchi (la cosa mi da fastidio e mi affascina, dato che sono un rappresentante di questa specie). Una altro campo di analisi sono i nuovi movimenti politici dei Partiti Pirata in Svezia e Germania, centrati sul libero scambio delle informazioni, sulla centralità delle libertà individuali e sorprendentemente privi di idee sul ruolo dello Stato e della società organizzata, al di fuori di un apparente populismo (maschile, ancora una volta). Non poteva mancare infine un’analisi di Wikileaks, che sotto questa luce unisce etica hacker, ideologia del libero scambio informativo e gestione manageriale dell’informazione nella figura controversa di Julian Assange, apertamente libertariano.

Durante una presentazione del libro a Milano è stato interessante vedere il dibattito tra gli autori di Ippolita ed un lettore apertamente anarco-capitalista, che dal pubblico ha ingaggiato una ricerca di punti di contatto tra il pensiero anarchico  libertario degli autori e la filosofia libertariana di Rothbard: molti punti di accordo, ma una differenza radicale nel concepire la libertà della persona, individuale e privata per Rothbard, collettiva e condivisa per Ippolita.

Che fare? La terza parte del libro affronta le teorie del cambiamento sociale reso possibile dalla rete, per confutare la “rivoluzione di Twitter” in Iran o il ruolo di Facebook nei movimenti sociali. La rivoluzione non verrà twittata e non va confusa con il comodo attivismo da poltrona, il clic facile e poco impegnativo che ci sgrava la coscienza tra una giocata e l’altra a Farmville. Viviamo in un mondo che unisce le distopie di Orwell e di Huxley, una rete di controllo capillare per potere essere liberamente noi stessi, esprimere il nostro potenziale, produrre e consumare dentro recinti invisibili e feroci.

Ippolita non ha soluzioni, non propone progetti “buoni” da opporre a Facebook, come Wikipedia o social network open source come Diaspora o Crabgrass. C’è una sfiducia radicale nella dimensione umana in rete, nella deformazione che il disegno del software, qualsiasi software, imprime sulle nostre vite. “Resistance is futile”, non possiamo adottare contromisure (anonimato, crittografia) né fare a meno della rete. Forse solo la socialità conviviale, fuori rete e in piccola scala potrà farci uscire dall’acquario ed aiutarci a costruire un mondo di relazioni veramente libere tra persone vere.

E’ la parte più sentita del libro, e quella che mostra anche i limiti della critica alla rete su basi principalmente ideologiche e politiche. Come nei capitoli precedenti anche qui si perdono occasioni di analisi su base tecnicnologica e informatica, la parte sulla crittografia è debolissima e non considera gli studi condotti su anonimato e anonymity set fatti per esempio intorno a The Tor Project, ma questo non è un pamphlet per imparare a usare Facebook in sicurezza, un how-to tecnico. E’ una chiamata alla riflessione, un’apertura di discorso contraddittoria ed appassionata, con una buona bibliografia nelle succinte note al testo ed una rara trasparenza di metodo.

Il libro verrà pubblicato in Francia per Payot & Rivages ed in Spagna per Enclave de libros, una piccola editrice di Madrid. In Italia è disponibile gratuitamente per la lettura sul sito Ippolita e come ebook  a 7€, in formato epub e pdf. E’ sotto licenza aperta Creative Commons BY-NC-SA 3.0. Per ogni informazione www.ippolita.net

Recensioni:
Una recensione di Carlo Formenti su alfabeta2: Nell’acquario di Facebook
Ancora Carlo Formenti su MicroMega, con un diverso taglio: Nell’acquario di Facebook. Per una critica delle cyber utopie.
Daniele Salvini su MilanoX: Un’altra rete sociale è possibile

Violazione

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 di Gianni Biondillo

Alessandra Sarchi, Violazione, 271 pagine, 2012, Einaudi

Violazione è sostanzialmente un libro che parla di famiglie. Alessandra Sarchi, qui al suo primo romanzo, scrive in modo anafettivo, quasi fosse una scienziata sociale attenta ad analizzare nel suo laboratorio le cellule minime della società, per restituircene la tassonomia.

Varie sono le tipologie e le combinazioni: c’è Primo Draghi, figlio di un meridione contadino che odia il passato di fatica e stenti, e che cerca nella cementificazione, e nell’abuso, il riscatto sociale e il facile guadagno. Famiglia patriarcale, la sua, con una moglie sottomessa e priva di contatti con la realtà e due figlie che per eccesso di autonomia o di autismo si negano al padre padrone. Poi c’è la famiglia piccolo borghese, impiegatizia e progressista, in teoria solidale, di Alberto e Linda Donelli, alla ricerca di uno sfogo dalle frustrazioni urbane bolognesi tradotto nel sogno bucolico di una casa in campagna, a pochi chilometri dal centro. Infine la famiglia fragile e senza diritti di Jon – ospite della madre Natasha, serva di famiglia Draghi – giovane clandestino che vive nascosto dal mondo, ridotto per ciò ad una umiliante servitù psicologica.

L’Italia, così come ci viene descritta da Sarchi sembra una nazione senza riscatto. Nessuno degli attori, per davvero, è capace di scatti d’orgoglio. Solo meschinità esplicite – quelle di Primo, calco di una arroganza fin troppo nazional-popolare – o implicite, camuffate dalla cultura, anche ecologista, di Alberto e Linda.

Ma questo è anche un libro dove lo scenario, il paesaggio, diventa protagonista. Violentato e idealizzato, sprecato e banalizzato, sfruttato e imbellettato, aspetta, mai davvero immobile, con i suoi tempi sovrastorici, il momento di una vendetta definitiva sull’umanità che non ha rispetto delle sue leggi. In attesa, durante la lettura, di una frana definitiva che sommerga tutti, Violazione termina con un’altra rappresentazione della sconfitta: quella di un sacrificio sterile che non saprà placare alcuna divinità ctonia.

 
[pubblicato su Cooperazione, n. 12 del 20 marzo 2012]

96 words on the future of the internet

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Instead of further going down the corporate lane of Microsoft, Apple, Amazon, Google and Facebook, I propose to go back to the original architecture of Internet as public infrastructure with decentralized nodes. It may be romantic to insist on the distributed nature of networks but it is a necessary political demand. Net criticism is a toothless project without a utopian dimension. Even if internet itself had a military origin in the Cold War, and is now dominated by equally destructive force of greedy venture capitalists, backed up by libertarian gurus. Let’s rethink the public sphere: another internet is possible! – Geert Lovink

RAFFAELLA FERRÉ inutili fuochi

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[La voce di Raffaella Ferré viene da Sud, ma non ci affligge con alcuna nonna mitica, archetipica&prefica, trascura madri sciamane dedite ai rituali ctoni del Sud magico di De Martino, con annessa pizzica&taranta, evita il folklore sugli uomini d’onore, ci esime anche da morti che parlano, emigranti oleografici, infanzie sgarrupate fra i vicoli, non lamenta nostalgica un passato idealizzato di civiltà contadine virate seppia, non si compiace in epiche amicali di province ulteriori depresse, bensì ci racconta dei vivi e del presente: il present continuous, il participio presente del divenire di un’unica giornata, della sua scansione oraria, di personaggi legati da un ventaglio di complessi rapporti. Colori elettrici e sapori acidi. Il romanzo si svolge in un luogo, che si potrebbe definire con l’abusato termine di non luogo, un residence di vacanze, dove i rituali dovrebbero essere quelli del divertimento, del disimpegno a tempo determinato dei giorni di ferie, ma invece racconta del consumo di mare e rapporti, dell’accendersi, inutile, di fuochi e di illusioni di fuga da se stessi. Ogni personaggio, dalla scrittura e nella scrittura, è svelato in un flusso densissimo di parole, coscienza e autocoscienza, che mette a nudo motivazioni profonde, traumi, incertezze, desideri inconfessabili, visioni scomposte di uno stesso evento, che, visto da prospettive soggettive e opposte, compone una grande differenza, un grande, inconsapevole, straniamento reciproco. La scrittura ricca nel lessico, nelle similitudini ironiche, nell’introspezione dei caratteri, con oggettività chirurgica impedisce un’immedesimazione empatica nei singoli personaggi, estendendola a tutto l’intersecarsi delle loro vicende. Le singole voci, a tratti in prima persona, a tratti in terza, a tratti nella descrizione delle altre voci, raggiungono una spietata e disperata visione dell’insieme corale. Ogni fotogramma, visto da angolature diverse, non lascia scampo a facili assoluzioni. (o.p.)]

 
Raffaella Ferré
da inutili fuochi
66THAND2ND [2012]

_________________________________________________________DAVID HOCKNEY Swimming Pool [Polaroid collage]
ORE 15.00
LIA
Mettiamola così: il sentiero taglia la pineta in due perfette metà di verde incenerito e in questo niente la immagino camminare. Mentalmente le disegno le cuffiette alle orecchie, i piedi scalzi e sudici di chi non è abituato ad avere paura di cartacce siringhe cicche di sigaretta. Non è abituata ad avere paura di qualcosa in generale, la ragazzina. Da qualche parte nella testa leggera, negli angoli di una terra non ancora raggiunta dalla consapevolezza, c’è una regione antartica mai toccata dal sole che sa. Potrei pensare a pinguini che si muovono lenti tra verità ghiacciate come cadaveri, il pack si crepa sotto i loro passetti ravvicinati, alle sue orecchie sussurrano che ci sarà il tempo per il terrore cieco, ma lei non li sente, lei è in piena estate. Veloci e cattivi i pinguini tornano sulla terraferma, gelata e buia: lei continua a camminare, l’aria è spessa di sabbia sporca e mare facile e se le punte tenere dei capelli castani le toccano il trapezio piccolo e teso disegnato dalle spalle bionde e ossute è felice: Per quando tornerò a scuola, a settembre, Gesù, falli arrivare alle tette e coprile per favore, ché gli sguardi degli altri che non conosco non vadano dritti là.
Che cosa scema chiamarle così, aveva detto a Giorgia il giorno che si erano cambiate assieme dopo palestra e sudate erano rimaste schiena contro schiena come nella pubblicità, al caldo vapore degli spogliatoi comuni a indicarsi le femmine grandi, il bianco panna della pelle e lo scuro livido e liscio in mezzo alle cosce, uscire ed entrare sotto le docce placide e senza vergogna, certe di chissà quale verità che le faceva uguali tutte, grasse e magre, alte e piccole, bionde e more. Tette sta bene a quelle che ce le hanno grosse, aveva continuato schiacciando il mento sullo sterno per guardare sotto il body fucsia, dà proprio l’idea di una cosa che boh, esplode!
E come possiamo chiamarle, allora?
Non lo so.
Fammele vedere, così mi viene un’idea. Allora si era alzata e con un solo colpo aveva fatto scattare la chiusura a clip e a sentire il ferro schioppettare tra le gambe si era toccata come a dire: Che male!, ma già rideva. Rideva anche Giorgia seduta sulle panche di stecche sottili, rideva come se avesse riconosciuto quel dolore minuscolo sulla carne viva, ce n’erano mai stati altri? Mentre fuori iniziava la lezione di step (ragazze questa coreografia è semplice) e la musica cominciava a spandersi e coprire il rumore delle docce (sette passi base che vanno ripetuti prima con il piede destro e poi con il sinistro) aveva tirato Lia verso di sé e l’aveva abbracciata stretta (cominciamo subito prima lentamente) e lentamente aveva alzato la testa e guardandola aveva baciato prima il seno destro e poi il sinistro, aveva baciato cose che non esistevano ancora in realtà, perché lì, sulla tavola liscia e tenera del petto candido e ansimante, c’erano solo due capezzoli grossi e grinzosi quanto una noce, rosa vivo, infiammati per il gran caldo. Minnucci. Chiamiamoli così (le nuove arrivate si mettano avanti).
Sono cresciuta assieme a loro, il reggiseno mi sta stretto e Giorgia dov’è? Come li chiamerebbe adesso? La immagino chiedersi. Lia quattordici anni domani alza la testa dal petto e pensa appena. Ricardo. Chissà se è già tornato a ballare, chissà se sono già le quattro. Nella mano sinistra dondola un paio di sandaletti di gomma arancio, addosso un pantaloncino di acetato sul costume bagnato; quando la stoffa arricciata e umida le dà fastidio tra le gambe che strusciano l’una contro l’altra sudate, allora si ferma. Attenta si avvicina a un albero, controlla che non ci siano formiche ragni resina appiccicosa cimici puzzone e si appoggia di schiena, sfila il pezzo di sotto e lo butta a terra sporcando la fodera, si guarda tra le gambe per verificare i repentini sviluppi di una situazione che le è stato detto di tenere d’occhio. Il giorno è quello giusto ma niente di nuovo: solo acqua. Sbu∂a e rimette veloce la seconda pelle azzurra senza curarsi di quello che si vede e di quello che no. Poca roba comunque, le ha detto ridendo sua madre guardando dietro l’orlo di un asciugamano. Poca roba che so solo io, ha risposto lei, tirandosi addosso il telo con il muso già pronto al broncio. Ma sopra la spugna bagnata l’una e l’altra si sono scambiate uno sguardo ed erano complici e la prima ha riso, pensando a un passato cui tenersi aggrappata come a un corrimano, e l’altra ha arricciato gli occhi come si fa con il sole e si è sentita come una che guarda la cima di una scalinata dal gradino più basso e non sa, ma lo vuole sapere forte, come ci si sente lì in alto. È certa che, se ne avesse l’opportunità, prima di buttare un occhio al panorama, prima di fermarsi sul rosso incendio degli alberi in una stagione prossima e piena di vento, guarderebbe il punto in cui è adesso e si vedrebbe allora, finalmente, per com’è, così lucida e ostinata come un legno giovane. Ma tutti impariamo noi stessi quando ne siamo ormai lontani e al sentirci chiedere la nostra età può capitare di rispondere sbagliando una cifra. È la sagoma di un passato di pomeriggi sul balcone quella che ci preme dietro la pelle, ci racconta di quello che siamo stati ieri, un mese fa, anni addietro, e di ciò che invece siamo oggi. Della strada fatta conosce tutti gli angoli e gli indirizzi sbagliati, la volta che dovevamo andare dritti invece di svoltare a sinistra o a destra, quella in cui non abbiamo ascoltato la voce imperiosa della volontà certi di chissà quale istintivo impulso che ci avrebbe perdonato poi, abbonandoci ogni colpa. È lei e viene a reclamare ciò che le è dovuto, quello che le abbiamo promesso, nient’altro. Ma Lia di queste cose sa molto poco: sulla sua testa stanno sogni tra parentesi come i numeri esponenziali nelle espressioni di scuola, lo sguardo sul libro e la matita a enumerare le probabilità elevate alla massima potenza di realizzazione, e cos’è x e cosa y, cos’è domani e domani l’altro e tutti i giorni dopo che si accendono tremolanti come luci al neon. Suo padre l’ha rimproverata, eccome: ha sgridato tutt’e due, la donna che somiglia sempre meno a quella che ha sposato e la bambina che ne sta prendendo tutte le fattezze e le espressioni, l’ombra cinerea delle ciglia sulle guance, il modo di portarsi i capelli dietro l’orecchio piccolo roseo quando è in difficoltà e quel sorrisetto che mostra appena i denti, le labbra carnose e pesanti, aperte, che ogni parola detta è già un peccato. La gente guarda, la cronaca nera sta scritta sul giornale come l’unico scenario possibile, e lui è un poco come Giorgia: vede le cose prima che ci siano sul serio. Ma non era un rimprovero il suo, no, era una specie di carezza e Lia lo capirà prima o dopo o già adesso che lui ripiega il quotidiano sottobraccio, prende una sigaretta e fa scattare l’accendino, lo rimette a posto infilandolo tra la pelle abbronzata del fianco e i boxer bagnati e la guarda a lungo mentre lei si alza e si allontana. In questo mondo di occhi chiari tranquilli e ottusi, di capelli scuri tagliati dritti, di manovre sicure per piantare l’ombrellone, un paletto per questo campeggio vampiro che succhia tutti i soldi di impiegato statale, passi decisi importanti di ciabatte quarantatré la seguono anche quando lei figlia corre con tutte le sue forze motrici e lungo la strada alberata che porta al mare la raggiungono. Cosa ne sanno gli altri dei trucchi del tempo che quando è passato è passato e se ritorna è solo attraverso uno che non sei tu, a farti vedere di nuovo tutte le meraviglie del possibile senza che tu, stavolta, possa prenderne una parte, usarla, farla tua e sciuparla?
Lia ha lasciato minacce e pasta sul fondo del contenitore Tupperware sporco di sugo ai bordi, ma sente le grida dei suoi come il vento tra i pini secchi anche adesso che cammina spedita verso i bagni alzando terra e sabbia con i piedi dipinti di rosa pesca: non si domanda il perché delle cose proprio come aveva fatto anni prima, pensa solo a passare le latrine, andare oltre l’area campeggio, e poi sarà Ricardo che è bello, è scuro, parla così strano, anche se capisce.
Ma prima che sia tutto, sul bordo della strada ci sono io.

[p 16.20]

 
ORE 17.30
LA BESTIA

Da bambina ero malata: non potevo stare lontano da mia madre che un paio di ore al giorno, il resto del tempo le giravo attorno attaccata alle sue gambe, seguendola tra la cucina e le stanze. Mia figlia è nata senza morbo: ero stata via due giorni e al rientro l’ho trovata con i miei vestiti indosso, cosi piccola che le gonne più corte toccavano il pavimento. Io ridevo, i bagagli ancora da disfare, mi coprivo la bocca con le mani. Che fai?, chiesi avvicinandomi. Mi rispose che faceva le prove, credeva fossi morta, avrebbe voluto prendere il mio posto. Quattordici anni domani Lia, la mia lontananza non le fa effetto, anzi, mi pare stia meglio quando può scappare da me e posare quei suoi occhietti schifati sul resto del mondo. Avrei tanto voluto essere come lei, cosi poco dipendente dagli altri, scontrosa e poco adatta alla compagnia. Non c’e niente di male in questo: essere soli significa, in fondo, essere tutto e non avere limiti. Ma posso riuscirci io? Da quando sono nata sono passata per stati febbrili di fertilità, amori corrisposti o meno mi lasciavano fecondata, la fine di ognuno era un piccolo aborto di possibilità. Devo averle consumate tutte ed elaborato il lutto eccomi prostrata alla sola vita che resta.
Ho quarantadue anni. Penso spesso a come sarò tra dieci, con la pelle che scende, le rughe e tutto il resto. Mi sembra di aver perso tempo per fare qualcosa, mi sento come se avessi lasciato il gas aperto. Non è paura, non è dolore: piuttosto è qualcosa di ingestibile quanto un buco nella canna del gas e cose del genere. Le cose piccole, quello di cui non ti accorgi e che decretano la tua morte a lungo andare, il margine di errore. Certi giorni mentre scrivo mi alzo e faccio le prove, mi tiro la faccia in giu o mi metto un foulard sopra i capelli legandolo con un nodo sotto il mento. Certi altri non mi importa granché. Certi altri ancora penso che non mi importa granché di me da quel giorno di settembre.
Adesso aspetto la fine del mondo, ho letto su ≪Vanity Fair≫ della profezia Maya, cerco di trovarne i segni per strada, negli incidenti al telegiornale o, quando la televisione non prende, nei pesci morti che galleggiano a pelo d’acqua vicino alla foce. Mi calma. Mi rilassa molto il sapere di non avere un futuro.
Ma Lia? Figlia mia bandiera, primo, unico fiore nato da questa fica spampanata e non ci conosciamo, siamo come gatti nati tra frasche e sangue e merda e siamo lontane, devo averle passato chissà quale istinto d’esplorazione, sulla mia bocca quando mi chinavo sul lettino e le baciavo la testa doveva esserci qualcosa che le ha fatto venire voglia di altro cibo, e l’ho svezzata, senza accorgermi, l’ho vista alzarsi tremolante dal giaciglio e andare via. Le gatte hanno l’istinto di conservazione e quando ci sono cucciolate numerose scalciano via i più precoci, prendono con sollievo il loro allontanamento: questo gli evita di esaurire le proprie riserve. Ma io non ho partorito altri gattini, avrei potuto tenerla attaccata alle mammelle anni e anni ancora, fare dei miei seni grosse sacche svuotate e dure, trasformarmi in un animale per davvero, spingere il muso contro la sua mano e portarla, insegnarle senza parole tutto quello che sapevo del mondo e che avevo dimenticato solo per permetterle di nascere. Un figlio e sempre un totale atto di fede cieca e senza fondamento, ottuso credo, padre nostro, cancella il domani e l’anno prossimo e quello dopo ancora, fanne un solo orizzonte d’aria e luce per lei che cammina sulla linea che divide mare e cielo. Non ho altro di mia figlia che la data in cui, per la seconda volta nella vita, dovrebbero venirle le mestruazioni. E lei, lei di me cosa deve conservare se non la presunzione dell’essere madre, questo mio sgridarla e volerla diversa, il proibirle le cose e comprarle miniassorbenti interni? Le ho fatto bucare le orecchie che ancora non stava in piedi e non mi sono sentita in dovere di spiegarle il dolore che le ho provocato supponendo di fare una cosa utile. A chi do la colpa? A quale fenomeno del tempo? C’è, sul giornale, uno psicologo a cui chiedere lumi sotto falso nome? Caro dottore, scriverei, la mia testa funziona ancora, di questo sono certa. Ho perso il ricordo di molte cose, di nomi e orari dei treni, del dolore non ho avuto manco la cognizione per un certo tempo, ma ho ancora memoria di come ci si sente ad avere tutta la vita davanti, a pensare di essere il migliore o il peggiore in una stanza prima di scoprire che siamo tutti il meglio e il peggio a fasi alterne e continue e che il vero dramma e conoscere l’alternanza di questi stati, abituarsi al loro ritmo e il giorno in cui lo sbalzo del cambiamento di frequenza risulti troppo forte per il fegato, amputarsi i pensieri. Il tempo è una tigre in gabbia da stordire con i tranquillanti. Ma cosi ignorante della mia carne bruciata io non posso essere: chiudo gli occhi, individuo e isolo tratti, richiamo a me l’adolescenza, l’orgoglio di essere guardata desiderata, l’ansia tremenda eccitante di sapere quando e sotto quale nome, con quale macchina, verrà l’amore a prendermi.
Penso a linee dritte di sopracciglia appena curvate alle tempie, penso al trapezio delle spalle, penso a cazzi turgidi e rossi, dottore, ed ecco un volto tra la folla, il modo in cui mi ha sorriso per la prima volta un uomo facendomi capire che c’era dell’altro e cos’era. Chi e stato? Un impiegato davanti al Banco di Roma o uno studente dalla camminata molle? E io, come mi sentivo a credere ancora, anzi, a credere punto e basta, a vivere, senza alternative? Riapro gli occhi nel riverbero del sole e guardo mio marito dormirmi di fianco e quello che fino a un momento prima mi era parso riconoscibile, schedato con nome e cognome, è ora sullo sfondo. Poso la penna. La memoria torna a fondersi con il resto delle cose accese al sole: pochi secondi e non sarò più in grado di percepire la forma chiusa di un corpo, il passato e uno scherzo, il passato è un soldato in tuta mimetica basso sul terreno di foglie, si nasconde e veloce scompare.

[p 71.74]

Opere pre-postume: Matteo Galiazzo

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dal racconto Meteorologia delle sinapsi pubblicato in Sinapsi, Opere postume di autore ancora in vita, Indiana editore.

Cara Loretta,
mamma c’ha una nuova mania ora. Registra le previsioni del tempo, poi le guarda il
giorno dopo. Cioè, la cosa veramente si svolgein maniera più o meno scientifica. Le previsioni del tempo che registra lei sono così, la prima parte è descrittiva, mostra semplicemente le ultime immagini del satellite, le ultime ore viste dall’alto. Quindi sono immagini completamente oggettive, sono un filmato, non c’è niente di immaginario. La seconda parte invece è la previsione vera e propria, cioè come si evolverà il tempo nelle prossime ore e nel giorno dopo nella mente dei metereologi. Tieni presente che la grafica è assolutamente la stessa, quindi non c’è discontinuità tra le due immagini. Bene, quindi questa seconda parte mostra attraverso dei calcoli, che sono calcoli che probabilmente misurano l’inerzia del mondo e dell’aria, mostra come proseguirà il cammino che le nuvole stavano percorrendo. È come bloccare un fotogramma all’improvviso e sulla base della dinamica delle cose calcolare come si evolverà la scena. Secondo me l’inerzia è la forza unica e fondamentale per capire l’universo e l’uomo e le menti umane quando agiscono tutte insieme. Comunque, il fatto è che invece non ci si capisce un cazzo e il metodo di mamma sta lì a dimostrarlo. Lei registra le previsioni di oggi attaccate a quelle di ieri. Poi riguarda la cassetta. È un lavoro molto triste. Dopo un po’ ti fai l’idea che quei cacchio di cumuli, che quelle cacchio di macchie bianche sulle cartine d’Europa si muovano assolutamente a caso, senza nessuna possibilità di previsione. C’è continuamente una cacchio di depressione che si avvicina minacciosamente verso di noi, e infatti le previsioni per il giorno dopo la danno sopra l’Italia settentrionale, invece poi si dissolve sempre prima di varcare le Alpi.
Dopo un mese puoi vedere, se ti interessa, tutta questa sequela di fallimenti uno in fila all’altro. Immaginazione immediatamente confutata. Non so. è una cosa molto avvilente. Comunque. Questa occupazione di mamma mi preoccupa un po’. Del resto. Comunque questo quartiere è veramente un posto da bestie. Mamma si trova bene qui, invece. Dovresti sentire come sbadiglia. Non è affatto normale sbadigliare così come fa lei. Cioè, lei sbadiglia in un modo. Cioè, la cosa che mi dà fastidio in realtà non è lo sbadiglio in sé, ma il fatto che lei mentre sbadiglia continua a parlare. Deformando completamente le parole. Non so, magari sta dicendo la frase «La principessa Stefania è di nuovo incinta», lei comincia la frase «La principessa Stefania», poi le viene da sbadigliare, anziché aspettare di finirla quando lo sbadiglio è finito, lei prosegue tranquillamente come se niente fosse «La principessa Stefania èèèèèèiuoooooooooiiiiiiiiiiiiaaaaa». Ecco. Perché lo fa? Certamente anche questo è un fenomeno legato all’inerzia. Ma poi la cosa che mi dà fastidio in realtà è un’altra. Esiste per tutti immagino la possibilità di sbadigliare stando zitti. Penso che tutti siano capaci. E mamma non solo continua a parlare durante lo sbadiglio, ma addirittura aspetta di sbadigliare per cominciare a parlare. Cioè, magari se ne stava lì zitta da due ore e attacca la frase proprio nel bel mezzo dello sbadiglio. Ma che senso ha? Secondo me lo fa apposta. Appena sente che le viene da sbadigliare si mette a parlare. Questi sbadigli sono veramente tremendi. La cosa brutta è che quando la sento mi viene da sbadigliare anche a me. E anch’io faccio dei versi orribili. Il fatto è che qui sbadigliano tutti, in questo quartiere. Anche i nostri vicini sbadigliano in continuazione rumorosamente. Cioè, sono veramente suoni disumani, non so spiegarti. Animaleschi, ecco. Vabbè. Mi sa che ti saluto.

Luca

Anch’io ascolto gli sbadigli. Gli sbadigli della madre di Luca. È che da quella notte aspetto. Sapere che c’è un’altra cosa come me anche dentro la madre di Luca mi fa. È da quella notte che aspetto.
Da quella notte osservo la madre di Luca con occhi diversi. Aspetto che dalle pieghe dei suoi movimenti e dei suoi gesti e delle sue parole, emerga qualcosa di attribuibile alla cosa. Purtroppo in questo sono dipendente da Luca. Non posso guardare in direzioni diverse da quelle che decide lui.
E gli sbadigli sono le cose che ascolto con più attenzione. Sono evidentemente un atto involontario. Quindi più facilmente controllabile da parte dell’entità che abita la madre di Luca. Anche gli starnuti. Anche i movimenti incontrollabili tipo i tic. Questa è una mia teoria. Secondo me nel momento in cui inizia uno sbadiglio è più facile per noi intromettersi e far passare deviazioni muscolari, o nascondere un’influenza sui movimenti. Dico questo nonostante io non sia mai riuscito a influenzare alcunché durante uno sbadiglio, uno starnuto o altro. Però quando la madre sbadiglia concentro la mia attenzione su quei suoni, cercando tracce di vita aliena. Cercando magari un codice, insomma prove della presenza dell’essere mio simile.

Nota pre-postuma
Tra qualche giorno pubblicherò un’intervista all’autore effeffe

Ricordare la Nakba palestinese con uno Yizkor alternativo

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Lunedì 14 maggio 2012, sul piazzale d’entrata dell’Università di Tel-Aviv si è svolta una cerimonia congiunta arabo-ebraica in commemorazione della Nakba palestinese.

di Davide Mano

“Ecco, l’hanno fatta davvero grossa”. Quando ho letto che, nell’università in cui mi sono iscritto per il mio dottorato e nella città più israeliana e più smemorata di Israele, Tel-Aviv, si stava per tenere uno Yizkor alternativo arabo-ebraico in memoria della Nakba palestinese, la prima reazione è stata di sorpresa. Raccolte le prime informazioni, un senso di ammirata curiosità ha avuto presto il sopravvento.

Have you seen my shoes? – Rosaria Capacchione

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Passeggiare. Andare dal punto A, la mia casa, al punto B, la redazione del giornale. Quattromila passi, se seguivo il percorso più breve. Una sorta di tracciato a sette che prevedeva la sosta dal giornalaio, le chiacchiere con la vicina e poi oltre: il bar, il caffè con l’avvocato, lo sguardo alla vetrina del negozio di articoli da regalo. È in quel punto, proprio agli inizi di una strada che i casertani si ostinano a chiamare via Napoli, che decidevo se seguire il corso dei miei pensieri, e così proseguivo a zig-zag nelle stradine del centro, o se tirare dritto fino al lavoro. In genere quando pioveva.

Mi è sempre piaciuto camminare sotto la pioggia, con il cappuccio calcato sulla testa. Sono sempre stata – ero – molto brava a passare da un portone all’altro senza bagnarmi troppo. Anche quella mattina pioveva, ma scelsi ugualmente il percorso più lungo per rubare qualche minuto: alla vita, ma non lo sapevo ancora. Fino a quella mattina – quattro anni e due mesi fa – era in quello spazio mattutino che incontravo il vecchio compagno di scuola, che scoprivo la chiusura di una bottega o il palazzo nuovo senza giardini. Era allora che incrociavo qualcuno che mi diceva: stavo cercando giusto te, devo dirti una cosa. Una notizia. Il mio lavoro.

Non c’è niente, per la verità, nel regolamento che vieti una passeggiata. Ma il fatto è che da quella mattina ho smesso di essere una persona, indossando la divisa di «personalità sottoposta a tutela». Per indossarla bene, quella divisa, bisogna nascerci: con una predisposizione al comando, all’indifferenza per le ragioni degli altri, a conversazioni ipocrite, a surrogati di amicizie a senso unico, a una sostanziale maleducazione. Così, quando incrocio lo sguardo di chi deve proteggermi, sempre alto sulle mie spalle, sempre vigile, qualcuno al quale ho imparato a volere molto bene e che mai vorrei vedere stanco, o triste, o preoccupato; quando lo incrocio, quello sguardo, allora cambio idea. E rinuncio.

Non mi piace essere «una personalità», non ci sono tagliata. E a chi, ogni tanto, me lo ricorda, chiedo: appena torno a essere una persona, mi accompagni dal punto A al punto B? A piedi, senza la necessità di parlare, come vecchi compagni che non hanno bisogno di troppe parole e neppure di inutili ossequi.

(Testo letto da Rosaria alla trasmissione “Quello che non ho” di Fabio Fazio e Roberto Saviano )

E da Radio Furlèn una canzone con dedica a Rosaria qui

Dal bordo degli Anni Zero

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Andrea Cortellessa

È appena uscito presso l’editore Ponte Sisto (http://www.edizionipontesisto.it/) un numero triplo della rivista «L’illuminista» (pp. 704, € 30) contenente un’antologia dei Narratori degli Anni Zero curata da Andrea Cortellessa. Riprendiamo l’inizio e la fine (pp. 17-20 e 51-53) dell’introduzione del curatore, La terra della prosa.

 Ci sono infinitamente più cose nella prosa e nella narrazione “reali”, oggi in Italia, di quante ne prescriva l’odierna filosofia del romanzo. Per «filosofia del romanzo» non intendo quella che i teorici della letteratura ci propongono, oggi assai meno d’un tempo, bensì quella che nei fatti – non dichiarata, e dunque non sottoposta a pubblica discussione – viene applicata nella sede che la narrativa, per ovvi motivi con molto maggiore efficacia che la poesia, da tempo s’è arrogata il diritto di regolamentare: l’editoria. Si parla di quella di scala maggiore, ovviamente, che – in virtù del controllo che pochi gruppi riescono oggi a esercitare su tutta la filiera del libro compresa la promozione: che a tutti gli effetti ha ormai inglobato,  esautorandola, la pubblica discussione – ha non solo il potere di condizionare i consumi del pubblico, il che è desolante ma ovvio, ma anche, e questo dovrebbe essere meno ovvio, quanto la teoria di un tempo definiva l’«orizzonte d’attesa» degli autori. I poteri che condizionavano chi scriveva nelle società d’ancien régime erano almeno istituzioni di diritto (ancorché un diritto autopromulgato): a differenza di quelli della mercatocrazia odierna, che nessuno è chiamato a riconoscere in sede formale ma non per questo (anzi!) sono meno rigidamente vigenti. In ogni caso la libertà espressiva di cui hanno goduto gli artisti in quella che a conti fatti è stata una “finestra” storicamente assai breve – coincidente in sostanza col secolo scarso fuori d’Italia definito “modernismo” – rappresenta, oggi, un ricordo sempre più lontano.

video arte #1 – jean-luc godard

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Jean-Luc Godard, Dans le noir du temps, 2002.

 

Giornalismo culturale: prime indagini sulla scomparsa

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di  Michele Dantini e Tomaso Montanari

Niente o pressoché niente, nell’informazione culturale in Italia, appare oggi al servizio del lettore: eppure il discorso giornalistico appare stabilire standard pubblici di competenza e ragionamento in un paese in cui pochi accedono al saggio o alla monografia. Il processo è in corso da tempo, ma manca un dibattito pubblico su quella che potremmo considerare la scomparsa del giornalismo di cultura o la mutazione in marketing di recensioni, interviste, presentazioni.

Sull’editoria di genere (in entrambi i sensi)

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di Helena Janeczek

Qualche tempo fa, ho ricevuto da un agente letterario un romanzo dal titolo Il sorriso delle donne. In copertina c’era una figura femminile che si avviava danzando a braccia aperte su un sentiero di ghiaia alberato verso la Torre Eiffel. Nell’edizione hardcover quello sfondo è di un azzurro profondo, in quella tascabile – che ho letto io- diventa di un rosa-vinaccia che non si associa al colore naturale di un tramonto.
La categoria entro la quale il libro veniva proposto e su cui il piccolo editore originale era specializzato, nel gergo dell’editoria si chiama Commercial women’s fiction, definizione che raccoglie tutto ciò che non è “rosa” (in inglese romance) in senso stretto. Proprio per la genericità del contenitore, al suo interno ci sono notevoli differenze sia di qualità intrinseca (scrittura, costruzione, differenziazione dei personaggi e degli ambienti) che di posizionamento sul mercato.

Gli alluvionali

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Tutti i ragni / Vanni Santonidi Vanni Santoni

Viene poi l’alluvione. Al mio paese i fenomeni atmosferici fuori norma sono rari e vengono sempre ricordati. Qualcuno dice che così come si ricorda il gelo dell’85, così verrà ricordata questa alluvione. Qualcun altro si chiede, con una nota quasi di disappunto, come mai non sia stata sommersa anche Firenze.

Piove così tanto che non solo l’Arno, ma anche i borri, come quello che passa poco sotto casa mia, straboccano e la loro acqua gialla si porta via pezzi di steccato, alberi, cassonetti, le Ape Piaggio dei vecchini e pure qualche utilitaria. Casa mia è stata collocata dal buon senso di mio nonno su un’altura e quindi possiamo permetterci di stare lì in fondo, dove la nostra strada si unisce con via Po e guardare gli averi altrui passare per la via come se fosse effettivamente il Po. L’acqua tuttavia non smette di scendere e anche casa nostra si trova col giardino allagato. Da lì poi penetra nei fondi. Sento mia madre che mi chiama perché dia una mano con i secchi. Allora, dopo essermi goduto il passaggio di una 500 che oltre a procedere su quel fiume di limaccia verso il centro di Montevarchi effettua anche rotazioni sul proprio asse, mi smuovo e raggiungo il giardino.

Perciò veniamo bene nelle fotografie, romanzo in versi di Francesco Targhetta

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di Silvia De March

Diciamo subito i meriti prima di prendere le distanze dal mainstream acclamatorio.

Francesco Targhetta si inserirà serenamente in un filone di letteratura originariamente industriale, che risale a Ottonieri, Bianciardi, Parise, e che trova poi forme di aggiornamento rispetto ai cambiamenti economici, con esiti alterni, con Aldo Nove, Murgia, Venturini, etc. Il suo romanzo in versi è una fotografia precisa di alcuni status generazionali, riconducibili all’evidente attrito tra una forma mentis impreparata e l’attuale mercato del lavoro e del consumo. Registra una mutazione antropologica, colta con maggior visibilità dal punto di vista di una provincia estrema dell’impero: la geografia si ritaglia tra una città provinciale come Treviso, la sua profonda periferia e un polo (Padova) di una metropoli diffusa che di metropolitano ha soltanto il cemento. In questo triangolo il passaggio repentino da una civiltà contadina all’industrializzazione e poi la piroetta alla terziarizzazione e alla finanza creativa hanno innescato dinamiche a velocità parallele, generando scompensi di immaginari e valori: le contraddizioni urbanistiche, ben descritte dallo sguardo in moto perpetuo di un pendolare ferroviario, sembrano riflettere paesaggi interiori profondamente dissociati. O perlomeno frammentari, quanto individualizzata è l’esperienza di ciascuno, estromesso da un qualsiasi tessuto comunitario, se non aggregazione amicali temporanee o legami familiari preconfezionati. A tratti Targhetta sembra anche assumere le vesti di un Pasolini dei giorni nostri, condizionato da un’educazione cattolica che ha perpetuato modelli di rigidità morale controproducenti, anacronistici rispetto alla secolarizzazione freudiana. Il senso di colpa segue come un’ombra il protagonista, una sorta di percezione persecutoria che istituisce un ruolo vittimistico, in quanto eredità tanto del catechismo, quanto dei padri. Questi ultimi, astratti e incombenti da una loro diversità ontologica e paradigmatica, sono una presenza latente, contigua come un’altra era ma non comunicante, eloquente in sé senza un dialogo possibile.

Ceci n’est pas un compte rendu [Questa non è una recensione]

1

di Monica Mazzitelli

Roma, parco di Villa Ada, aprile finisce domenicale cedendo infine alla primavera.
Nei viali e sui prati, una coppia di amiche rumene di mezza età con caviglie virili e varicose parlano fitte sbocconcellando panini e il vino dal cartone, rannicchiate sopra un plaid tartan sull’ocra con orli sfilacciati, le dita dei piedi compresse dai gambaletti color carne.

Ho due mamme

2

di Severino Colombo

Tutte le famiglie normali si somigliano; ogni famiglia è speciale e si vuole bene, a modo suo. Quella di Maria Silvia Fiengo e Francesca Pardi lo è – normale e speciale insieme – perché loro sono due persone dello stesso sesso. Due donne che si vogliono bene, due mamme che hanno scelto di avere e di crescere dei figli insieme, a Milano.

«In Italia l’inseminazione eterologa non si può fare, né per i gay né per gli eterosessuali – spiega Francesca –; ci abbiamo pensato a lungo prima di questo passo, almeno un anno, poi siamo andate in Olanda». Margherita, Giorgio, Raffaele e Antonio – dieci anni la prima, tre l’ultimo, sei i gemelli di mezzo – sono stati concepiti lì. «Se lo vorranno, quando saranno maggiorenni, potranno sapere con precisione chi è il loro padre biologico. Ci sembrava giusto così».

Il problema maggiore delle famiglie omogenitoriali è l’accettazione sociale: «molti etero vanno all’estero per avere figli e nessuno lo sa». Per le famiglie gay la visibilità, invece, è un’esigenza legata a diritti: «Siccome da noi non si può fare, allora come famiglie non esistiamo» aggiunge Francesca. Invece esistono eccome, qualche giorno fa le Famiglie Arcobaleno, associazione di genitori omosessuali di cui le due mamme sono fra le fondatrici, si sono ritrovate nei parchi di nove città italiane per far festa insieme con tutte le altre famiglie.

A livello giuridico la questione dei diritti resta aperta. «Un genitore non biologico non ha nessun tipo di riconoscimento. Vive una condizione psicologicamente pesante». Significa, a esempio, che per andare a prendere alla scuola d’infanzia Antonio, partorito da Francesca,Maria Silviadovrebbe avere una delega e viceversa. «Nella pratica quotidiana questo non accade, perché c’è un riconoscimento di fatto della nostra unione». Capita, però, anche alle coppie gay di smettere di amarsi e allora è un guaio: «se qualcosa va male nel rapporto e ci si separa, tutto è nelle mani del genitore biologico che non ha nessun dovere di riconoscere la relazione dell’altro genitore con i figli». A rimetterci sono spesso bambini.

Giochi sparsi per terra, tazze della colazione nel lavello, odore di risveglio, Margherita (malata) che guarda la tv: la casa di Francesca e Maria Silvia, la mattina di un giorno feriale, è come tutte le case con bambini. Solo più incasinata, con il tavolo ingombro di libri visto che l’abitazione, a due passi da Porta Romana, è anche la sede della casa editrice che hanno fondato l’anno scorso. Lo Stampatello  pubblica storie per bambini che parlano di famiglie come la loro. Storie per tutti, come “Piccolo uovo” – protagonista un uovo che prima di nascere è curioso  di sapere quali e quanti potrebbero essere i suoi possibili genitori –  che illustrato da Altan sarà premiato a fine maggio con il Premio Andersen.  Altrettanto routinaria e acrobatica la vita dei genitori fuori casa, tra riunioni scolastiche, corsi e attività pomeridiane, feste di compleanno e immancabili nonni a fare da salvagente per gli impegni di lavoro. «Li abbiamo fatti contenti. Una delle grandi paure dei genitori di figli omosessuali è di non poter avere nipoti. Per noi, come per tutti, i nonni, sono una risorsa preziosa» spiega Maria Silvia, di ritorno dall’accompagnamento del più piccolo alla materna. «Essere genitori è un percorso molto identitario. Per i gay, lo è ancora di più perché a noi non capita di fare figli per caso, dietro c’è una scelta ragionata. Quando lo diventi ti trovi a vedere e a fare le cose in maniera diversa. Ci siamo documentate, abbiamo letto molto, abbiamo parlato con psicologi e ci si siamo costruite degli strumenti per affrontare questo ruolo». Aggiunge Francesca: «L’aspetto dell’omosessualità che più turba è la relazione sessuale, ma se accompagni i bambini a scuola sei visto prima di tutto come un genitore, una mamma». In questo vivere in una grande città o altrove non fa la differenza: «magari in un paesino ci sono meno strumenti culturali – spiega Francesca – ma una volta che si esce allo scoperto c’è più umanità, i contatti sono più forti».

A proposito di scuola in quelle (pubbliche) frequentate dai figli, Francesca e Maria Silvia sono sempre andate a parlare con i presidi per illustrare il loro “stato di famiglia”, chiedendo  insegnanti che non avessero pregiudizi. Dopo in po’ hanno capito come interpretare le reazioni di chi avevano davanti: «se ci dicono: non c’è nessun problema allora il problema c’è; al contrario se ci chiedono di saperne di più e cercano un confronto significa che hanno un atteggiamento meno rigido e che mettono al primo posto il bambino e la sua serenità dentro la scuola». Con la prima figlia, alla scuola d’infanzia è capitato che un’educatrice si ponesse il problema «di come dirlo non ai bambini ma ai loro genitori!». Per fortuna la società, anche quella italiana, cambia in fretta e con i successivi figli Maria Silvia e Francesca si sono trovate con maestri che «per potere affrontare meglio il tema hanno seguito corsi di formazione sull’omogenitorialità». Così le diversità diventano non un motivo di discriminazione ma un valore e un arricchimento per gli altri. Compagni – e loro genitori –  compresi. Maria Silvia racconta di babycoppie formate per gioco in classe dove «la più bella ha snobbato i maschietti per “fidanzarsi” con una lei, e nessuno l’ha trovato strano». O di mamme che hanno superato iniziali diffidenze nei loro riguardi. Francesca confida di aver ascoltato un amichetto ospite per la notte (anche le mamme gay ascoltano di nascosto le confidenze dietro le porte) chiedere al figlio: «Ma tu non ce l’hai un papà?» e l’altro rispondere come se la cosa fosse normale «No, ho due mamme». «Perché?» «Perché si vogliono bene». Ogni famiglia è normale a modo suo; tutte le famiglie speciali, che si vogliono bene, si somigliano.

(pubblicato sullo speciale Famiglia del Corriere della sera il 30 maggio 2012)

Per esempio il terremoto in Emilia il 29 maggio 2012

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di Giuseppe Zucco

Finita, è finita, sta per finire, sta forse per finire.

Samuel Beckett

Per esempio la tachicardia.
 

Per esempio il nome del paesino attorno a cui ronzano tutte le troupe e i giornalisti e i mezzi tecnici e i ponti satellitari dopo la prima grande scossa della settimana scorsa, Finale Emilia, un nome già in odore di apocalisse se non ricordasse qualcosa di ancora più sconveniente, Finale di partita di Samuel Beckett, l’opera teatrale che organizza l’idea di un’opprimente immobilità della storia, come se le strade, le stradine, le piazze, le case dai mattoncini rossi, fossero trattenute nel limbo del prossimo sciame sismico.

 

Per esempio i paesini vuoti, desolatamente vuoti, catastroficamente vuoti, come nei film di fantascienza, solo le costruzioni sopravvissute a un invisibile e sofisticatissimo virus alieno.

 

Per esempio, nei luoghi apparentemente meno visitati dal sisma, l’impressione che non sia accaduto nulla, che tutto scivoli come in precedenza, che la vita sia impilata regolarmente tra la monotonia degli affari quotidiani, se non fosse che poi piccoli dettagli, i vetri rotti, le tegole a terra, segnalino che alle pareti delle case rimaste in piedi corrisponda un inabissamento del tetto e dei piani superiori.

 

Per esempio gli anziani filanti in bicicletta sotto il sole a picco delle due di pomeriggio per andare a vedere come procedono i lavori di puntellamento della loro casa.

 

Per esempio la tachicardia preceduta o seguita da un momentaneo giramento di testa, il segno che la terra sotto i piedi non è il luogo adatto sopra cui programmare una qualsiasi cosa che non sia la paralisi o la fuga.

 

Per esempio la zona rossa.

 

Per esempio i gazebo bianchi e le numerosissime tende verdi gialle marroncine montate nei giardini o nei parchi dove famiglie intere decidono di trascorrere la notte, oppure le macchine parcheggiate in mezzo ai campi con i cuscini bene in vista dallo sportello aperto, o anche le tavolate allungate in strada senza più un posto libero.

 

Per esempio una signora anziana tutta vestita di nero, l’espressione di incredulità incartapecorita in piccole rughe intorno agli occhiali dalle lenti spesse, che procede lentissimamente dalla porta di casa appoggiandosi a un girello mentre un altro signore di qualche anno meno anziano la segue portando delle buste cariche di vestiti.

 

Per esempio una giornalista con i capelli neri che entrando dentro l’inquadratura fissa della telecamera che avrebbe compreso il suo mezzo busto e un’antica costruzione sventrata sullo sfondo chiede all’operatore se le doni o meno un lungo foulard di seta rosa prima che l’operatore le ricordi che in mezzo al terremoto quel foulard non suonerebbe né vero né autentico, risultando un modo per perdere immediatamente credibilità, un harakiri mediatico, a dirla tutta, cosa a cui la giornalista risponde ok levando il foulard e indossando una giacca di pelle nera.

 

Per esempio la tachicardia che mi spinge a misurare i battiti cardiaci dal polso e a stringere il petto come se stessi tamponando una ferita.

 

Per esempio il nastro rosso e bianco srotolato ovunque.

 

Per esempio la faccia bianchissima di un ragazzo seduto accanto alla madre sull’erba rada del parco con due valigie davanti ai piedi che racconta guardando fisso nel vuoto e senza riuscire a controllare l’impercettibile vibrazione del labbro superiore quanto si percepisca spossato e abbandonato dalla protezione civile e come gli psicofarmaci lo aiutino a prendere sonno.

 

Per esempio la signora sulla cinquantina con i capelli rossi che di tutta la devastazione appena scampata mi racconta invece come la vasca colma d’acqua e di pesci rossi collocata nel centro del giardino sia stata completamente svuotata dal rullio impressionante della terra – ha sollevato l’acqua e i pesci in aria, dice – un simbolo che nella sua compiutezza narrativa sembra già racchiudere i futuri sviluppi degli eventi, compresa la vicenda della madre non autosufficiente, a letto, presa in braccio e portata di corsa fuori dalla casa mentre il paesaggio intorno è una lunga lunghissima oscillazione.

 

Per esempio il suono nuovo e decisamente irripetibile in contesti più rilassati con cui le persone ferme immobili davanti alla telecamera crepitano tra le altre la parola t-e-r-r-i-b-i-l-e.

 

Per esempio il levare precipitoso della tachicardia nel momento in cui, dopo avere resistito tutto il giorno, mettendomi in fila per pagare un panino e andare in bagno nell’unico posto trovato aperto sulla strada verso Carpi, realizzo che il soffitto pende sulla mia testa come una nerissima promessa.

 

Per esempio i bambini che infilano in corsa leggera un campetto di terra battuta senza minimamente dare credito al fatto che a pochi chilometri dall’avversario scartato con un fulminante uno due di gambe interi paesi siano stati semicancellati dalle cartine geografiche.

 

Per esempio la tipologia di sorriso che i più sgranano cordialmente mentre riportano l’elenco completo delle crepe apparse nella propria abitazione, un sorriso sbucato sotto i baffi macchiati dalla nicotina o compreso nella strategia di un leggerissimo trucco femminile, l’alba di un sorriso che si dispiega poco per volta, a scatti, un sorriso dolce che poi si fissa e si rattrappisce agli angoli e si congela in una feritoia da cui s’intravede un coro di fantasmi seduti in circolo.

 

Per esempio una coppia, lui mentre spinge il passeggino, lei con un bambino piccolissimo in braccio, che all’unisono, con un accento non italiano, mi invitano a non essere ripresi dalla telecamera per non essere visti dai propri genitori che abitano fuori dall’Italia ma seguono costantemente i canali satellitari, il padre di lei soffre gravemente di cuore.

 

Per esempio il fruttivendolo che domanda, dosando sapientemente curiosità e sarcasmo, se anche noi dormiremo qui stanotte come la maggioranza degli sfollati, mentre io ho già prenotato il biglietto del treno di ritorno.

 

Per esempio la tachicardia che non cede, non scema, non si riduce a ordinario sussulto neanche una volta sul treno, tantomeno a casa, come se il terremoto proiettasse la sua forza rullante anche qui, dentro i limiti della gabbia toracica, e continuasse a squassare la certezza di ogni solidità, di ogni stabilità, di ogni compattezza, venendo a sfidare soprattutto questa ambizione, riuscire a resistere in quanto esseri umani ai crolli, ai cedimenti, all’incredibile varietà di crepe e fenditure che ci toccano e ci toccheranno in sorte.

Contadini del sacro

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di Franco Arminio

Non hanno detto o non ho sentito neppure un nome dei morti, conta solo il numero. E tutte le parole che dicono alla fine tengono lontano il dolore, il dolore del padre che aveva rimproverato il figlio perché non studia o perché si ritira tardi, il dolore di vedere un corpo tumefatto, dentro la tasca il telefonino intatto, la camicia bianca piena di polvere, il pantalone grigio con una macchia di sangue che pare un bicchiere, il dolore del funerale, il corpo dentro il legno, basta un corpo, uno solo che non parla più, mentre un diluvio di parole cade da ogni parte. Dopo il terremoto ci vuole un poco di silenzio o, se si vuole parlare, allora bisogna parlare dei morti.

gli EBOOK di Nazione Indiana: La responsabilità dell’autore

8

Tutto cominciò con un commento. Era in un pezzo di Marco Belpoliti ( Che la festa cominci), una mezza stroncatura al romanzo “Che la festa cominci” di Niccolò Ammaniti. Come spesso capita nei commenti di Nazione Indiana, la discussione prese una diramazione autonoma da quella attorno al libro di Ammaniti. Un commentatore – temptative, il suo nickname – attraverso un link esterno ci metteva a conoscenza della recensione al romanzo fatta da Paolo Nori. Piero Sorrentino andò a leggerla e scoprì in quel mentre che Nori il suo pezzo l’aveva pubblicata per Libero. “Ma Paolo Nori scrive su Libero? Ma veramente?” commentò, stupito.
Il commento appresso, di Andrea Cortellessa, fu, in fondo, quello che fece scatenare l’intera discussione, protratta poi ben oltre i quasi duecento commenti al pezzo di Belpoliti: “Piero, anzitutto condivido il tuo sgomento a vedere il nome “Nori” accanto alla testata “Libero”, non ci avevo fatto caso seguendo il link.” Scriveva Cortellessa, per poi aggiungere: “Spero che Nori, o qualcun altro in grado, possa chiarire.”
Mentre la discussione si animava in rete (chiarire? Perché? E la libertà dell’autore? Conta di più quello che dici o dove lo dici?), nella mailing list interna dei redattori del blog si avvertiva sempre più forte la necessità di ragionare attorno ad un tema in fondo dato fin troppo per scontato (se non colpevolmente sottaciuto): quale era il ruolo dello scrittore – lui per primo, prima ancora del critico, dell’intellettuale, dell’editore, del funzionario, del giornalista, dell’addetto ai lavori – quale la sua responsabilità politica?
Il tema fu preso di petto da Andrea Inglese e Helena Janeczek che, pubblicando sul blog due pezzi di approfondimento, crearono la piattaforma su cui ragionare tutti assieme. E tutti convenimmo, nelle nostre discussioni interne, che occorreva coinvolgere altri autori, esterni a Nazione Indiana, su questi temi, magari, su suggerimento di Giacomo Sartori, attraverso la forma del questionario.
All’elenco delle domande stilate quasi febbrilmente, per non abbassare la temperatura della discussione, risposero in molti, circa una ventina, nel volgere di pochi mesi. Scrittori di orientamento, generazione, retroterra, cultura, approccio, diversissimi fra loro. Qui di seguito leggerete le risposte degli autori da noi interpellati. Alcune sono trancianti, ironiche, sufficienti. Altre appassionate, impulsive, divaganti.
Molti commentatori, mentre andavamo pubblicando le risposte in rete, e molti autori stessi, ci contestavano la caratura delle domande, per quanto alcuni di noi convenissero che era anche il caso di smetterla di credere importanti solo “le domande giuste”. Per come la vedevamo le risposte date erano, e restano, sempre e comunque molto più rilevanti.
Fu proprio Cortellessa, nella primavera del 2010, durante la prima Festa di Nazione Indiana tenuta al Castello di Fosdinovo, a chiudere il cerchio, in una discussione pubblica dove, nel suo intervento, fece notare come – alla prevedibile critica che l’inchiesta fosse fin troppo connotata ideologicamente e con una inevitabile pletora di risposte simili se non addirittura sovrapponibili – ancora una volta la scrittura facesse la differenza. Ogni scrittore, ogni poeta, ogni narratore, portando inevitabilmente con sé la propria voce, aveva risposto, stilisticamente, e perciò in maniera sostanziale, in modo differente l’uno dall’altro. “Stile” cioè, ripetendo le sue parole, “come parte integrante delle risposte.”
Ora sono tutte qui quelle risposte, raccolte e organizzate in questo testo, memoria di una lunga discussione e documento necessario, forse, per comprendere un momento storico difficile, all’apparenza, ma solo all’apparenza, alle nostre spalle.

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Nuovi autismi 22 – La mia eterea editrice (2a parte)

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di Giacomo Sartori

All’ora convenuta sono tornato alla sede che avrebbe potuto essere un negozio di alta moda, e questa volta l’editrice dal cognome molto prestigioso c’era. Mi ha salutato con una voce disincarnata, e anche i contorni del viso sembravano poco netti: mi osservava da dietro un vetro smerigliato. Al netto della sensualità quella sua indeterminatezza aveva qualcosa di correggesco, o comunque di rinascimentale, di nobile. Le sue parole erano anch’esse evanescenti, ma nel contempo nette, precise, consapevoli della loro pregnanza, della ricca storia dalla quale stillavano. Nel suo ufficio erano in corso dei lavori di tinteggiatura, e quindi siamo finiti in una stanza dove una ragazza stava lavorando a un computer. Su suo invito io mi sono seduto su una poltrona piuttosto bassa, e lei su una sedia più alta. Dopo qualche istante di silenzio abbiamo cominciato a parlare.

Invece di lodare questo o quell’aspetto del testo, come mi aspettavo, mi ha chiesto con la sua voce di testa cosa avessi voluto dire con quel mio romanzo. Io non prevedevo una domanda del genere, e soprattutto non ho mai pensato che un testo di un certo spessore possa essere riassunto e tanto meno spiegato con un pugno di frasi. Io scrivo appunto per onorare la complessità, per non violarla come si fa nei discorsi di tutti i giorni. Ogni volta che alla radio ascolto uno scrittore raccontare con scioltezza la trama di un suo romanzo, descrivendone baldanzosamente i personaggi e la vicenda, mi dico che quel libro non lo aprirò nemmeno se mi torturano. Ho provato comunque a biascicare qualcosa. Lei mi osservava dall’alto della sua postazione senza muovere il viso, come soppesando ogni mia approssimata parola. Mi fissava, ma i suoi occhi guardavano di lato, come quelli dei tacchini e delle locuste, e questo dava all’esame che mi ritrovavo a sostenere una tonalità surreale. Sulla sua faccia non c’era alcun sorriso di incoraggiamento, alcuna benevolenza, ma piuttosto banchi di cerebrale diffidenza. Sembrava soprattutto affranta.

Dopo un’altra pausa mi ha confessato, come se fosse appunto una cosa molto dolorosa, che lei era sempre molto diffidente nei confronti dei testi che mescolano finzione e storia. In particolare quando si trattava di personaggi realmente esistiti, ha chiarito con la fronte angustiata. Io mi sono detto che era proprio quella la sfida che mi aveva sedotto: il mio testo intendeva per l’appunto riempire i silenzi e le vaghezze della storia, ridando vita ai morti, scolpendo nella lingua sempre infida, spogliando le parole dalle loro zavorre inconsce, riesumando con i mezzi più disparati spezzoni di verità. E mi sembrava di essercene uscito proprio bene. Del resto non ero certo il primo a cimentarmi in quell’esercizio, e sicuramente nemmeno l’ultimo. Stavo per biascicare qualcosa in proposito.

E invece ho capito. Ho capito che la paludata editrice mi aveva dato appuntamento prima di leggere una sola riga del romanzo, sull’onda del fervore della persona che aveva fatto da tramite, e della quale in genere si fidava. Adesso però lo aveva letto, o più verosimilmente lo aveva appena finito (di certo il ritardo era dovuto a quello), e non le era affatto piaciuto. La sua crudezza l’aveva anzi infastidita, per non dire disgustata. L’appuntamento però ormai era fissato, e con il nome che portava non poteva certo farmi cacciare con una qualche scusa da una segretaria. Aveva insomma deciso di accollarsi l’incombenza parecchio spiacevole di affrontarmi di petto, come si addiceva alla coraggiosa nobildonna delle lettere che era. La causa della sua tristezza ero io.

Alcune parti sono scritte davvero molto male, mi ha detto, abbassando lo sguardo d’iguana rinascimentale sul mio dattiloscritto. Lo teneva sulle ginocchia come si maneggiano gli oggetti che procurano ripugnanza, toccandolo il meno possibile. Guardando meglio ho notato che aveva marcato molti paragrafi con pesanti righe parallele, come quelle di un professore esasperato.

Il problema è che nemmeno io potevo darmela a gambe, dovevo anch’io sopportare quella contingenza grottesca. Non potevo alzarmi e mandare affanculo quella mummia che non aveva capito nulla del mio romanzo, lei e la sua casa editrice del cazzo, perché sono anch’io una persona educata. Dovevo stare lì a fare quella sceneggiata, a ascoltarla mentre sparava le sue idiozie, convintissima di avere davanti un povero deficiente. Ormai era evidente: sapendo che mi occupo di agricoltura mi vedeva come un contadino che con le sue ditona use alla vanga s’era cimentato in qualcosa che non gli competeva: con le mie scarpe grosse e il mio alito di aglio avevo osato calpestare il giardino delle belle lettere nel quale lei era nata e dove era vissuta tutta la vita. Era molto addolorata per questo scandalo. Il vero motivo del suo scoramento era questo.

I suoi occhi laterali e immobili continuavano a esprimere la stessa diffidenza di anfibio giurassico. Sapevo di aver ragione, vedevo da parte a parte quella benedetta maestrina del secolo precedente, capivo che apparteneva a un’epoca molto diversa da quella in cui scrivevo io. La sua altezzosa supponenza era impermeabile alla forza e alla bellezza del mio testo, era incapace di intuire gli abissi della mia scrittura: li prendeva anche lei per rozzezza, come la maggior parte dei suoi colleghi, come tanti cosiddetti scrittori, come tanti cosiddetti critici letterari. Del resto anche lei era una scrittrice e una critica letteraria. Non riuscivo però a dirle che non capiva nulla, non riuscivo a difendermi. Sentivo anzi che la mia voce diceva che forse aveva ragione, dovevo pensarci. Sapevo perfettamente di avere ragione, ma la mia voce diceva che forse dovevo rileggere con più attenzione il mio testo. Non sono capace di confrontarmi con l’ottusità, non ci sono mai riuscito. Di fronte alle porte chiuse mi sono sempre arreso, fin da bambino. Balbettavo frasi incomprensibili, e lei mi ascoltava senza davvero ascoltarmi.

L’impiegata alle sue spalle fingeva di lavorare al computer, con quell’aria assorta di quando non si vuole mostrare di ascoltare una conversazione. In realtà si gustava la scena. Anzi, si sforzava probabilmente di memorizzare ben bene tutti i dettagli, per poterli raccontare e fare sghignazzare i suoi amici. Forse si tratteneva per non ridere. Mentre io soffrivo le pene dell’inferno.

Certo proprio per sbloccare la situazione l’eterea editrice mi ha detto che se avessi rivisto il mio manoscritto lo avrebbe riletto volentieri. Lo ha ripetuto più volte, ha finito anzi per assicurarmi che quello era il suo vero pensiero, non parlava per parlare. Per qualche istante i suoi occhi si sono fatti paralleli, mi hanno guardato come guardano gli occhi umani. Quell’insistenza era però la prova lampante che non era sincera: la proposta era solo un mezzo come un altro per porre fine a quello strazio reciproco. Io però l’ho ringraziata, le ho detto che era molto gentile. Davvero ero sollevato di poter andarmene. Nel suo dolore, lassù nella torre di avorio, è apparso per un istante un barlume di empatia, come un flebile caracollare di candela.

Mi sono ritrovato nella strada con i suoi uggiosi palazzi incrostati di smog, nel fracasso del traffico aggressivo e selvaggio. Adesso la vedevo per quello che era: era proprio brutta e triste. Per non dire orrenda. Ma almeno ero fuori da quel cazzo di casa editrice di testi brevi ottocenteschi. Almeno non dovevo più fingere di essere un pessimo scrittore davanti alla sacerdotessa della letteratura per educande.

Anche la città mi sembrava meno attraente, mentre camminavo verso la stazione: inospitale e sbracata, inutilmente rumorosa, volgarissima, quale in fondo mi era sempre apparsa. Ma non mi rendevo ancora bene conto di cosa era successo, ero più che altro frastornato. È in treno che ho capito come stavano le cose. Ho capito che le mie energie e la mia pazienza erano esaurite: non ne restava nemmeno il sentore. Ho capito che quella batosta rappresentava la goccia che fa traboccare il vaso. Ho capito che ero uno scrittore fallito, che ero un fallito tout court: non avevo più la forza per continuare a scrivere, ma nemmeno per fare qualcosa d’altro. Per anni avevo mirato solo a quello, e adesso ero spezzato. Non volevo nemmeno più pensarci alla scrittura. Era però troppo tardi per tornare indietro, e soprattutto non mi interessava.

I giorni seguenti la mia situazione si è aggravata. Al trauma della disillusione si sono sommate affliggenti difficoltà sul lavoro, dovute a un errore di contabilità in una mia ricerca, del quale non ero affatto responsabile, ma che mi era pur sempre stato accollato, e che aveva conseguenze nefaste sulla mia attività. Ho cominciato a avere sempre mal di pancia. E anche tutto il resto cascava a pezzi. Era come se tutti i nodi fossero venuti al pettine nello stesso tempo, come se fossi arrivato alla resa finale dei conti. Fisicamente stavo sempre peggio, però non volevo andare a farmi vedere. La cosa che mi faceva più male era la consapevolezza di essermi sbagliato, di continuare a sbagliarmi. Io seguitavo a credere che il mio romanzo valesse molto, davvero non riuscivo a pensare qualcosa di diverso, ma a quanto pare non era vero, a quanto pare vaneggiavo. Dovevo accettare quel dato di fatto, se non volevo impazzire, dovevo farmene una ragione. Ho finito per andare dal medico, che dopo gli esami del caso mi ha diagnosticato una brutta gastrite, che secondo lui avrebbe anche potuto trasformarsi in tumore, perché avevo le pareti dello stomaco cosparse di pustolette potenzialmente precancerose. È seguito uno dei periodi più brutti della mia esistenza.

Molti mesi dopo, era già autunno inoltrato, e ancora non mi ero ripreso completamente dalla batosta morale e fisica, come dimostrava il fatto che non sapevo ancora tanto bene cosa pensare dei miei scritti, mi è capitato di parlare al telefono con la ragazza molto intelligente che aveva fatto da tramite. Secondo lei se l’editrice mi aveva invitato a presentarle una versione rivista del mio romanzo era assurdo che non tentassi. Io stesso, ripensando meglio le parole della donna per certi versi immateriale che avevo incontrato in quella circostanza non felicissima, mi sono detto che avevo finito per memorizzare solo i brandelli negativi. Lei non aveva detto che il mio testo non valeva nulla, aveva detto che aveva alcuni grossi difetti, debolezze che probabilmente lavorandoci sopra si sarebbero potute mettere a posto. E proprio sulla base di questo giudizio nel complesso positivo mi aveva fatto una precisa proposta, si era fermamente impegnata a rispettarla. Non avrebbe usato quelle parole tanto perentorie, se non ci avesse creduto. Il mio inestirpabile orgoglio l’aveva però interpretato come un mezzuccio ipocrita, o anche solo compassionevole, per liberarsi di me. Come al solito – o meglio peggio del solito, perché questa era stata una crisi senza precedenti – mi ero lasciato sopraffare dai miei propri dubbi, e mi ero arreso allo scoramento più completo: travisando la realtà, perdendo solo del tempo. Probabilmente se mi fossi messo subito al lavoro le cose sarebbero subito risolte, e non sarei stato così male. Dopotutto era una persona molto colta, aveva tradotto molti ottimi scrittori, sotto quella scorza di sdegnosa malinconia doveva avere una bella sensibilità.

Lottando contro me stesso ho quindi rimesso mano al romanzo, e con stupore mi sono subito reso conto che le pagine avevano effettivamente molto legnosità, molte goffaggini: per certi aspetti aveva ragione l’editrice. Quella lingua che aveva avuto un’origine così tortuosa aveva davvero dei problemi. Ci ho allora lavorato sopra, limando e ripulendo e distillando in poco tempo sono riuscito a renderla fluente e armonica. Restava pur sempre estremamente secca, in linea con la secchezza tragica e quasi grottesca della vicenda, ma adesso scorreva bene. Ora mi sembrava un buon e austero romanzo, infinitamente migliore della maggior parte delle cose che si pubblicavano, un qualcosa con una sua necessità e una sua inconfondibile fisionomia. Un testo che rappresentava, di questo ne ero sicuro, il ritratto più riuscito del discusso personaggio storico che per ragioni che non mi erano del tutto chiare m’ero messo in capo di riesumare. L’ho mandato alla ragazza molto intelligente, che l’ha giudicato pure lei ben migliore della versione precedente, ancora più forte. Davvero potente.

Ogni tanto mi facevo allora vivo, e le chiedevo se aveva qualche novità. Con la sua voce gaia di ragazzino preadolescente lei mi rispondeva che ancora l’editrice non l’aveva letto, ma senz’altro l’avrebbe presto preso in mano. Ci pensava lei a ricordarglielo. Era molto positiva, mi sembrava che vedesse delle reali possibilità di pubblicazione. I mesi però passavano, e non succedeva nulla. Poi ho constatato che nella voce di ragazzino molto intelligente cominciavano a affiorare tentennamenti, esitazioni dapprima dispiaciute, e poi sempre più abissali: ho capito che provava disagio. Ho capito che non pensava più di riuscire a fare leggere il mio romanzo così forte e efficace all’editrice con il nome blasonato e lo sguardo da iguana. E allora ho lasciato perdere. (fine)

(l’immagine: Michel Nedjar, senza titolo, 1991)

Immaginavi tu forse . . . ?

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Natura: «Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro che alla felicità degli uomini o all’infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei.»

[Da: Giacomo Leopardi, Operette Morali, Dialogo della natura e di un islandese, a.s.]