CIAO ELIO, GRAZIE
“La ragazza Carla”
di Elio Pagliarani
Di là dal ponte della ferrovia
una trasversa di viale Ripamonti
c’è la casa di Carla, di sua madre, e di Angelo e Nerina.
CIAO ELIO, GRAZIE
“La ragazza Carla”
di Elio Pagliarani
Di là dal ponte della ferrovia
una trasversa di viale Ripamonti
c’è la casa di Carla, di sua madre, e di Angelo e Nerina.
«Ci sono delle cose che non si possono dire. Ci sono dei momenti in cui il mondo, di fronte alle nostre interpretazioni, ci dice No.
di Helena Janeczek
Discendiamo a ritroso il fiume di un’epopea di famiglia imperniata su tre generazioni di figure femminili. Celeste, sposata con il mezzadro Filippo, scende dai declivi del Monte Nero per trasferirsi nella città in pianura, dove non li attende la libertà agognata, ma la grande manifattura di tabacchi.
[Oggi, 8 marzo, la voce delle donne deve farsi sentire. Ma non solo quella. Ciò che mi inquieta è il nostro silenzio, Il silenzio degli uomini, così come ci viene raccontato dal bel libro di Iaia Caputo. L’autrice ci regala qui di seguito un capitolo del suo saggio, sul quale riflettere. Per farci dire finalmente qualcosa, che non sia pelosamente d’occasione. G.B.]
di Iaia Caputo
Esiste un luogo nel mondo, al confine tra Messico e Stati Uniti, che vanta un macabro primato: il più alto numero di donne uccise del pianeta. È un territorio di polvere e pietre, dove vive un milione e mezzo di abitanti (di cui ottantamila sono cocainomani), in 188 chilometri quadrati, crocevia del traffico di droga tra i due Stati. A Ciudad Juárez, sono morte in vent’anni cinquecento donne (ma c’è chi stima che siano almeno il doppio), tra i quattordici e i quarant’anni; violentate e torturate, sono tutte uscite di casa un giorno qualunque e mai più tornate. Solo trentasei tra loro sono nel cimitero di San Rafael, appena fuori dalla città-mattatoio; tutte le altre risultano scomparse, e molte hanno trovato sepoltura in una fossa comune a trenta chilometri da Ciudad Juárez, insieme a tutti i morti che nessuno osa riconoscere nel timore di rappresaglie. Chi sa non parla. E chi prova a parlare, come la madre di una studentessa sedicenne uccisa un paio di anni fa da un sicario degli Zetas, una delle bande più feroci dei signori della droga, viene messo a tacere per sempre. Lei è stata abbattuta a raffiche di mitra mentre andava a denunciare i presunti assassini della figlia.
È stata coniata qui, in questo deserto senza pietà né legge, la definizione di femminicidio, e il mistero delle migliaia di donne vittime di omicidi sessuali, che spesso niente hanno a che fare con il narcotraffico, seppure narcotrafficanti si presume siano i loro carnefici, è stato oggetto di denunce e reportage, ha ispirato grandissimi scrittori come Roberto Bolaño ed è stato raccontato dal cinema con Bordertown, una pellicola del 2009 con Antonio Banderas e Jennifer Lopez.
All’origine della mattanza si pensava a un’unica mano, quella di un serial-killer, poiché le vittime avevano caratteristiche comuni: erano donne appariscenti, brune, e di poverissima estrazione sociale. Ma questa ipotesi è durata poco. Dopo centinaia di femminicidi (ma solo negli ultimi cinque anni sono morti anche un migliaio di minorenni), si è propensi a credere che se il genocidio è iniziato con uno o più maniaci sessuali seriali, sia in seguito scattata un’emulazione perversa che ha coinvolto decine di assassini, legati alla produzione di snuff movies o alla tratta delle bianche. Persino la polizia si ritiene implicata in numerose morti, e se le autorità hanno cominciato a uscire dal letargo è solo grazie alle campagne di opinione portate avanti da associazioni di donne.
Oggi, il parere unanime è che in questa terra di confine sia esplosa una misoginia criminale, dove gli uomini uccidono per un gioco crudele, per puro e sadico divertimento, come se si fossero scelti un luogo, e che si tratti di una terra al limite, «sul bordo», è una metafora potente, dove regnano le pulsioni più feroci e l’impunità più assoluta. Insomma, uno spazio di libertà in cui gli uomini odiano, indisturbati, fino alle estreme conseguenze, le donne. E se sull’orlo di questo baratro si stia consumando l’ultimo, macabro massacro di una misoginia morente, e per questo tanto più spietata, o si stia verificando la terribile riconferma di un’avversione inestirpabile ce lo dirà la storia.
Tuttavia, che dall’origine della civiltà la violenza rappresenti un nodo irrisolto del rapporto uomo-donna si può affermare ancora oggi, forse, oggi più di ieri. Perché non solo le donne continuano a morire, vittime della violenza maschile, ma la prima causa di morte e invalidità permanente per le donne dai sedici ai quarantacinque anni è legata all’ambiente domestico a ai rapporti familiari. Ed è così tutto il mondo, compreso il civilissimo vecchio continente, come ha rivelato un’indagine del Consiglio d’Europa del 2005. Dunque, colui che dà la morte è marito, amante o padre. Come se la violenza fosse, nonostante tutto, la faccia nascosta dell’amore, una possibile conseguenza, un rischio sempre in agguato. E nel nostro Paese i femminicidi sono in aumento, più del 70 per cento avvenuti in famiglia. Tra i delitti che si consumano tra le mura domestiche, le donne sono vittime in un caso su quattro. Lo testimoniano i dati dell’ultimo rapporto Eures-Ansa, la più esaustiva ricerca su «L’omicidio volontario in Italia»: le donne uccise sono passate dal 15,3 per cento del totale, nel biennio 1992-1994, al 23,8 del 2007-2008. E l’incremento si registra proprio nel ricco e sviluppato nord: dove, nel 2008, ultimo anno disponibile, le vittime di sesso femminile sono state il 47,6 per cento, contro il 29,9 per cento del sud e il 22,4 del centro.
L’elenco delle vittime è impressionante, praticamente ogni tre giorni una donna nel nostro Paese muore di morte violenta. E se almeno ogni sei mesi una vittima massacrata dai parenti o ritrovata morta dopo settimane, soprattutto giovanissima, circondata dal mistero e da dettagli inquietanti, diventa un «caso di cronaca», un feuilleton a puntate seguito da milioni di telespettatori ormai trasformati in pornografi della morte e in appassionati necrofili, tutte le altre finiscono in un trafiletto sulle pagine locali e vengono presto dimenticate.
Chi ricorda più Jennifer, una ventenne di Olmo di Martellago, picchiata e uccisa dall’amante per l’unica ragione di essere incinta e di aver deciso di tenere il bambino, anche senza di lui? Una decisione ferma, senza volontà di ricatto né di rivalsa, eppure l’uomo ha creduto che l’eliminazione fisica della ragazza fosse l’unico modo per non correre rischi: stava per sposarsi lui, non voleva guai con la sua fidanzata. E Ahmad Khan Butt un pachistano che a Novi ha ucciso la moglie, Begm Shnez, a colpi di mattone perché aveva difeso la figlia Nosheen che rifiutava un matrimonio combinato, mentre il figlio della coppia, Umair, diciannovenne, prendeva a sprangate sua sorella riducendola in coma? Chi li ricorda? Solo un mese dopo, siamo nel novembre del 2010, in provincia di Pordenone, è Sanaa, una giovane marocchina a essere uccisa dal padre che non accetta la sua relazione con un italiano. Sono insieme in macchina, Sanaa e Massimo, appartati ai margini di un bosco quando il padre con un’arma da taglio l’ha aggredita. La ragazza tenta di scappare, ma viene raggiunta e finita a coltellate. El Ketawi Da ha compiuto la sua vendetta. La lascia a terra sanguinante e scappa.
«Ho perso il controllo, l’ho colpita e non riuscivo a fermarmi. Poi l’ho guardata mentre moriva» sono queste le parole con le quali un grafico ventottenne della provincia di Milano confessa l’omicidio della sua ex compagna. Erano stati insieme qualche mese, poi la relazione era finita, ma continuavano a vedersi ogni tanto, per riprendersi e lasciarsi ancora. Il corpo martoriato di Monica Savio, madre di un bambino, verrà trovato con il volto sfigurato per i pugni ricevuti, abbandonato in un parco dell’hinterland milanese.
A Milano, due fratelli, Ilaria e Gianluca Palummieri, vengono selvaggiamente uccisi dall’ex fidanzato di lei, Riccardo Bianchi. Un ragazzo come tanti, figlio unico, tranquillo, è un ventenne che vive ancora in famiglia. Non è un bullo e neppure un violento. Almeno fino alla notte in cui, nell’estate del 2011, ammazza Gianluca e poi si presenta a casa di Ilaria: la picchia, la tortura, la violenta più volte e la ammazza strangolandola lentamente, vuole vederla agonizzare. Arrestato, Riccardo dà varie e controverse versioni di un delitto che viene pianto da decine di amici comuni increduli, atterriti, che non riescono ad accettare quelle due morti atroci. Lui, l’assassino, può solo balbettare l’assurdo: amava ancora Ilaria, e non riusciva a rassegnarsi che tra loro fosse finita. Ed era pure grande amico di Gianluca, aveva cercato la sua complicità per riconquistarla. Il rifiuto dell’una e dell’altro lo trasforma in un aguzzino.
Nel 2010, in soli due mesi, sono morte dodici donne per mano di stalker.
A Salerno, Antonio Farina, che da anni tormenta la sua ex convivente Elettra Rosso, e con lei ha in corso una battaglia legale per l’affidamento della figlia di dodici anni, si introduce nello studio legale dove la donna lavora, estrae una calibro 38 e le spara quattro volte, uccidendola. Poi si toglie la vita. Elettra il giorno prima era andata in Questura per denunciare l’uomo per stalking, ma la polizia le aveva consigliato di rivolgersi a un legale per stilare la querela, sarebbe dovuta tornare il giorno dopo. Che non è mai arrivato.
A Cesena, si consuma il triste copione del fidanzato abbandonato che non ne vuol sapere di accettare la fine di un rapporto: lei, Stefania Garattoni, è una studentessa di vent’anni, va ancora a scuola, lui, Luca Lorenzini, di anni ne ha 28. Alle tre del pomeriggio del 9 marzo 2011, Stefania sta per entrare in classe, chiacchiera con un’amica quando si trova ancora una volta davanti quel ragazzo che da mesi alterna suppliche e minacce. Più che impaurita, sembra seccata, e non fa niente per nascondere il fastidio che le provoca la presenza di Luca. I testimoni dicono di aver fatto caso alla coppia perché discuteva ad alta voce, ma niente di più. Pochi minuti dopo, il ragazzo tira fuori un coltello dal giubbotto e colpisce la ragazza alla gola e al volto. Stefania muore qualche ora dopo in ospedale. Lorenzini viene arrestato il giorno stesso, mentre vaga in bicicletta nella periferia di Cesena.
A pochi giorni di distanza, questa volta alla periferia di Mestre, tocca a Eleonora, che ha solo 16 anni, anche lei colpevole di aver detto basta a una relazione che non la convinceva più. Lui, Fabio Riccato, un trentenne neo-laureato in Biologia, l’aspetta seduto sulla sua Vespa: sa che Eleonora a quell’ora passa da lì per andare a trovare la nonna. Sembra la favola di Cappuccetto Rosso, e Fabio è proprio il lupo cattivo che vuole interpretare quella mattina. Lei lo vede, si ferma, e un uomo che sta leggendo il giornale nel suo giardino, a pochi metri di distanza, dirà che ha fatto caso distrattamente alla coppia per pochi istanti: sente che parlano e si rimmerge nella lettura. Passa solo qualche minuto, e quando alza gli occhi si trova davanti a una scena irreale, troppo rapida perché possa reagire: Fabio ha estratto una Magnum dal bauletto della Vespa e spara tre colpi a bruciapelo. Il primo colpisce Eleonora alla tempia, il secondo al torace e l’ultimo le trapassa il braccio con il quale la ragazza ha tentato di proteggersi. L’assassino guarda negli occhi quell’unico testimone terrorizzato, punta l’arma nella sua direzione, poi si spara alla testa.
Infine, a Collegno, in provincia di Torino, una coppia si incontra in un ufficio dei servizi sociali. Non un accenno di litigio, nessuno scontro. Cristina e Gianpiero, trentenni, lui impiegato della Fiat, lei professoressa di matematica, separati da due anni, stanno parlando con assoluta calma delle visite delle due figlie. Sempre conversando serenamente, Gianpiero prende la sua ventiquattrore e la apre, un gesto a cui nessuno fa caso. Solo che dalla valigetta estrae un coltello da cucina, si alza in piedi e si getta su Cristina. Riesce a infierire con cinquanta coltellate senza che nessuno arrivi a fermarlo né a salvare la donna.
Si potrebbe continuare ancora a lungo, per pagine e pagine, solo ripercorrendo un paio d’anni di ordinaria violenza sulle donne. Invece bisogna fermarsi, perché come la pornografia, anche l’orrore nell’accumulo rende indifferenti, diventa banale. E tuttavia di ovvio non c’è niente: se il genere femminile cominciasse a uccidere con la stessa frequenza è probabile che il mondo si fermerebbe, non parlerebbe d’altro, si evocherebbe un’emergenza umanitaria, una catastrofe a cui porre rimedio nel più breve tempo possibile, e con ogni mezzo. Se fossero le donne ad ammazzare.
Quando le guerre di mafia o di camorra raggiunsero l’acme del terrore, arrivando a fare duecento vittime in un solo anno, si parlò di fenomeno criminale, lo Stato intervenne con misure estreme; e si sparsero fiumi di inchiostro, si scrissero libri, inchieste, reportage, ci furono interrogazioni parlamentari e fiaccolate di intere comunità, ancora oggi all’argomento si dedicano dibattiti e trasmissioni televisive. E allora perché la violenza omicida degli uomini verso le proprie compagne o figlie o amanti non riesce a diventare allo stesso modo una questione urgente, pressante, angosciosa? A interrogare le coscienze? A trasformarsi in un’emergenza?
Nel 2006, sempre stando ai dati del rapporto Eures-Ansa, le donne uccise furono addirittura 181; nel 2008 ne sono state ammazzate 147, e di queste ben 104, il 70,7 per cento del totale, all’interno di contesti familiari. Così che non basta chiedersi perché gli uomini uccidono le donne. La domanda è: perché gli uomini uccidono le donne che amano?
È certo che ci troviamo di fronte a delle costanti che circoscrivono e determinano il fenomeno. Sempre più spesso, quasi immancabilmente, la causa scatenante l’omicidio è un abbandono o una separazione, una messa in crisi del rapporto, un’affermazione di autonomia e di libertà delle vittime. E dunque, quel che muove al crimine è l’incapacità di questi uomini di sopportare la frustrazione del rifiuto, di governare la rabbia e metabolizzare la perdita, addirittura, di vivere l’esperienza stessa del dolore. Ma nessuno, o quasi, si è ancora azzardato ad affermare che ci troviamo davanti a un’inedita questione maschile, tutta da decifrare e comprendere. Vero, le violenze sulle donne ci sono sempre state, delitto passionale e delitto d’onore sino a poche decine di anni fa erano all’ordine del giorno, e proprio per garantire al genere maschile se non impunità assoluta, almeno attenuanti e clemenza, erano una volta reati verso i quali il Codice penale prevedeva indulgenza e comprensione. Ma oggi, più che l’affermazione di una forza e di un dominio, più che frutto di un’idea delle donne come esseri inferiori, più che retaggio di incultura e degrado, questa violenza pare nascere dalla disperata opposizione a un cambiamento femminile, dall’incapacità di accettarlo e comprenderlo; dal panico provocato dalla nuova libertà e autonomia delle donne. Dunque, una violenza che colpisce non chi si ritiene inferiore e subalterna, ma al contrario una donna che sceglie, che decide, che pone problemi e crea conflitti. E che spaventa, perché quanto più cresce la capacità di affermazione femminile tanto più vengono denudate la fragilità o la dipendenza o l’inadeguatezza maschile.
Di fronte a un inarrestabile cambiamento, il gesto violento diviene l’estremo atto di un potere morente, la resa tirannica dinanzi all’impossibilità di sottomettere, lo sfregio di un’altrimenti incancellabile alterità. La negazione e, insieme, la massima affermazione, della propria vulnerabilità e parzialità. Così che oggi la violenza sulle donne appare il sintomo più drammaticamente eloquente del declino di un genere; l’unico mezzo a disposizione per quegli uomini che credono così di sventare il rischio della perdita.
Ma cosa c’entra la violenza di pochi con il resto degli uomini? Perché dovrebbe interrogare anche gli altri? E portarli a riconoscere che la violenza è parte di una storia comune? Che per quanti si abbandonano al gesto estremo di un crimine, tutti gli altri condividono una cultura delle relazioni e dell’amore dove ancora quel germe è annidato?
Adriano Sofri, in un lungo articolo intitolato «Quando gli uomini uccidono le donne», pare essere tra i pochi ad aver compreso l’esistenza di una «questione maschile» che chiama in causa tutti. «Gli uomini, anche quelli che si astengono con orrore dall’ammazzare e violentare e picchiare le donne» scrive l’intellettuale pisano su La Repubblica, «se non sono ipocriti con se stessi e sono disposti a frugare nella propria formazione, sentono di avere a che fare con l’impulso che spinge i loro simili a quell’orrore. Se ne tengono a distanza dandogli nomi di sicurezza come “raptus” e follie. Sono tentato di dire che gli assassinii di donne stanno al maschilismo come gli attentati contro gli ebrei stanno all’antisemitismo».
Una voce isolata, messa immediatamente a tacere come quella di uno scomodo grillo parlante. Meglio, molto meglio appassionarsi alla prossima vittima, entrare a far parte del set a cielo aperto del futuro delitto, e fingere di indignarsi, e scandalizzarsi, di temere l’orco e compiangere un’innocente che promette di rendere più interessanti le nostre serate televisive, così generose di dettagli intimi e di segreti inquietanti. Perché tanto più riusciremo a credere che i mostri sono altrove, lontani ed estranei, tanto più possiamo stargli vicino, a un passo dai loro cuori di tenebra, a un soffio dal sangue, dalla paura e dal dolore, e continuare a illuderci che noi, comunque, siamo salvi.
di Antonio Sparzani

Qui nella via sono o latinos o cinesi o africani. Tra loro non si piacciono, questo è un problema. Non che succeda alcunché di drammatico, qualche urla di scherno, o di insulto, non capisco mai cosa urlino, ma poi si vede che ridono tra loro, che è sempre una conclusione accettabile.
di Andrea Inglese
Enzo sapeva benissimo di non avere le carte in regola, insomma non tutte, ma quel desiderio così forte sì, una spinta che sembrava non cessare mai, neppure durante le ore dedicate al sonno, insinuandosi persino nei sogni, e spingendo oltre pure loro, dall’interno, ampliando le situazioni, rendendole più terse, trasparenti, con panorami ampi, discese, grandi specchi d’acqua dalle forme regolari.
La sera festeggiammo. Stappammo una bottiglia di vino rosso, lo stesso del nostro primo incontro, il Chianti, e io al terzo bicchiere dissi che volevo cambiare macchina. Il tipo di dettagli insignificanti che si ricordano con precisione anche dopo anni. Carlo e Isabel si sono incontrati perché Valentina, un’amica di lei, ha fissato loro un appuntamento al buio. Dice che sono fatti una per l’altro, anzi che lei è tagliata per lui. Un appuntamento al buio in una vecchia osteria di Treviso con tovaglie ricamate a mano e un pavimento di vetro sotto al quale l’acqua scorre. Carlo e Isabel si incontrano, si piacciono, e dopo poco vanno a vivere insieme. A Padova, a casa di lui, con i mobili di lei. Un tatami con un materasso in pura lana vergine, tende di lino, incensi, cuscini marocchini per il salotto, cd di musica etnica. Si sposano in fretta perché la felicità e gli incontri non hanno bisogno di carte, e nemmeno di cerimonie. Isabel è svizzera, è vegana, è bionda, ha gli occhi azzurri, lavora in un’erboristeria, la mattina fa gli esercizi di yoga e il pomeriggio quelli di reiki, Carlo ha trentasei anni, è socio di una piccola azienda, ha una casa con un terrazzo dal quale si vedono le colline. Lui beve una birra, lei una tisana, guardano il tramonto. Sono innamorati. Così quando Isabel esce dal bagno con il test di gravidanza listato d’azzurro, indaco per la precisione, Carlo l’abbraccia, poi prende il telefono e chiama Livia, sua madre. Eccolo il mondo delle cose definitive. Ecco che siamo diventati come loro, come mia madre, com’era mio padre, ecco che siamo passati dall’altra parte, dalla parte degli adulti, dei genitori, dalla parte delle cose più preziose e definitive.
di ⇨ Giovanna Cosenza
Che cos’è la SpotPolitik? È la politica che pensa che per comunicare basti scegliere uno slogan generico, due colori e qualche foto. Quella che riduce la comunicazione a uno spot televisivo. Di SpotPolitik hanno peccato tutti i partiti italiani con pochissime eccezioni. Gli anni dal 2007 al 2011 sono stati i peggiori in questo senso, ma non illudiamoci che sia finita: la cattiva comunicazione potrebbe sommergerci ancora. Riflettere gli errori del passato può essere utile ai politici, per non caderci ancora; e a tutti noi per scoprire come sia stato possibile accettare (e votare) quella roba.
da SPOTPOLITIK
Editori Laterza [2012]
5
PARLA COME MANGI
Cambia il vento ma noi no
Dal 1994 Berlusconi ha cambiato il linguaggio della politica italiana in modo radicale, facendo un po’ alla volta sparire il politichese tipico della prima Repubblica, fatto di frasi lunghe e contorte, parole astratte e tecnicismi.
Berlusconi parla da sempre in modo semplice e diretto: usa espressioni e metafore del linguaggio comune, esemplifica ciò che dice raccontando aneddoti e storie tratte dalla vita quotidiana (incluse le barzellette) e, quando si allontana dal linguaggio ordinario, lo fa per introdurre espressioni tipiche dell’impresa, giusto per ricordare che è da quel mondo che viene, non certo dalla «politica dei politicanti» contro cui si è sempre scagliato. Inoltre, facendo tesoro di alcune tecniche pubblicitarie, trasforma i concetti chiave in slogan semplici, che ripete ossessivamente, ben sapendo che la ripetizione è fondamentale in politica come in pubblicità.
Gli studi sul linguaggio e sulle tecniche persuasive di Berlusconi sono ormai numerosi e c’è solo l’imbarazzo della scelta. Perciò non mi soffermo sull’argomento, anche perché la lingua di Berlusconi è sempre stata interessante più perché adeguata ai media e alla politica mediatizzata, che perché sbagliata. Anche dopo gli scandali sessuali, infatti, gli errori di Berlusconi sono stati soprattutto di impianto narrativo, come abbiamo visto nel Cap. 1: storie interrotte, a cui manca un pezzo o addirittura il finale, più che parole e frasi sbagliate. Nonostante le apparenze, insomma, dal 2009 Berlusconi sbaglia le storie, ma continua a sbagliare poco le parole. Anche le barzellette più sconce e le espressioni più colorite – che gli avversari considerano sbagliate – hanno infatti una funzione precisa: metterlo al centro dell’attenzione, imporre la sua immagine anticonformista, sottolineare che è sempre lui a dettare le regole.
Per quel che riguarda il suo linguaggio, dunque, mi limito a fare un paio di esempi, giusto per mostrare fino a che punto il modo in cui un politico parla può incidere sull’opinione pubblica e sul clima di un periodo. Prendo due casi tratti dalla stessa area semantica: le tasse. Ricordiamo ancora lo slogan che Berlusconi usò nella campagna per le politiche del 2001 «Meno tasse per tutti»: talmente efficace che dura da allora. E ricordiamo la metafora del mettere le mani nelle tasche degli italiani, qualcosa che da sempre Berlusconi dice di non voler fare. Lo slogan era efficace perché usava una parola comune (tasse) invece di espressioni più astratte come prelievo, pressione fiscale, e la estendeva a tutti, senza le complicate distinzioni di reddito e professione che siamo sempre costretti a fare. La metafora delle tasche, dal canto suo, è vivida perché ci fa immaginare qualcosa di concreto, che può vedere chiunque cammini per strada o si trovi su un mezzo pubblico: un mariuolo che infila di soppiatto la mano nella tasca di qualcuno per sfilargli il portafoglio.
La metafora, fra l’altro, porta con sé un disvalore importante, perché dire che lo stato mette le mani nelle tasche degli italiani implica equiparare lo stato a un ladro, e l’azione di pagare le tasse a quella di subire un furto. Di qui a ritenere l’evasione fiscale un valore positivo il passo è breve. La metafora insomma si è innestata nella tradizionale scarsa propensione degli italiani a pagare le tasse, contribuendo a consolidarla: per questo è così potente e longeva. Ma allora non dobbiamo stupirci se un po’ alla volta l’Italia si è trovata a fare i conti con un grossissimo problema di evasione fiscale, che nessun governo, né di centrodestra né di centrosinistra, è ancora riuscito a risolvere (e vedremo cosa riuscirà a fare il governo tecnico). Tutta colpa del linguaggio? Non solo, ovviamente, ma le parole ribadiscono sistemi di valori ogni volta che qualcuno le pronuncia o scrive, e lo fanno anche senza che le persone se ne rendano conto. Attorno alla metafora, poi, c’è tutto un lessico di rinforzo: le parole carico, pressione, imposizione fiscale trasformano le tasse in un peso opprimente; la parola evasione, al contrario, sa di fuga, libertà e divertimento. Perciò il linguaggio conta, eccome, anche se certo non è tutta colpa sua.
Ma vediamo che fine fanno le tasche nel 2011. Quando, fra luglio e settembre, l’Unione Europea impone a Berlusconi di ridurre drasticamente e rapidamente il debito pubblico, lo costringe di fatto a mettere le mani nelle nostre tasche. L’immagine, allora, proprio perché così forte, gli torna indietro come un boomerang. E a nulla vale il suo tentativo di parare il colpo – nel discorso di agosto in cui annuncia la manovra economica – mettendoci anche la metafora del cuore che gronda sangue: «Il mio cuore gronda sangue, – dice. – Il vanto del mio governo era che non avrei messo le mani nelle tasche degli italiani. Ma siamo di fronte a una crisi planetaria, andiamo nella direzione chiesta dalla Bce» (Il Sole 24 Ore, 13 agosto 2011).
Ora, l’intenzione è anche buona, perché il cuore che gronda è un’immagine non solo facile e ordinaria come le mani nelle tasche, ma ha in più il vantaggio di evocare un simbolo religioso (il cuore ferito di Cristo) e di riferirsi a un’emozione del leader (il dolore). E però, per quanto l’immagine del cuore che sanguina sia potente, non ce la fa da sola ad azzerare la forza di una metafora così radicata nella cultura italiana come quella per cui le tasse sono un furto. Men che meno può farlo nel contesto in cui Berlusconi la dice: gli scandali sessuali in cui è coinvolto non lo mostrano affatto addolorato per le nuove tasse, ma beato fra festini e donne. Altro che cuore grondante. Morale della favola: la potenza di una metafora può essere tale da ritorcersi contro chi la usa.
Oltre a evidenziare l’importanza delle parole, il caso esemplifica la vicinanza sempre più stretta fra il linguaggio dei politici e quello della vita di tutti i giorni. Assieme a Berlusconi, anche Antonio Di Pietro e Umberto Bossi hanno spinto molto in questa direzione, fin dagli albori della seconda Repubblica.
Il dipietrese, come lo stesso Di Pietro si compiace di chiamare il suo linguaggio, è fatto di parole non solo ordinarie, ma spesso pasticciate, scorrette e mescolate a espressioni dialettali, che lui alterna a qualche termine giuridico solo per confermare l’immagine di tutore della legge conquistata con Mani pulite. Inoltre Di Pietro ha una sintassi incerta, in cui il congiuntivo latita e gli anacoluti abbondano.
Dal canto loro, Umberto Bossi e molti leader del Carroccio in dosi diverse (più Calderoli e meno Maroni, per esempio) usano due stili linguistici (e comportamentali) in parte diversi a seconda delle circostanze: nei comizi di piazza parlano come la parte meno colta del loro elettorato, indulgendo al turpiloquio e alle invettive, e condendo tutto con gesti volgari: dal dito medio alzato alla mano nella piega del braccio; nei salotti televisivi invece si addomesticano, anche se conservano una lingua colorita e brusca, per essere comunque riconoscibili e coerenti.
Va notato fra l’altro che, negli anni, il turpiloquio e il gesto volgare, un tempo appannaggio quasi esclusivo dei leghisti, hanno contagiato anche altri leader del centrodestra: da Daniela Santanchè che, dopo aver alzato il dito medio per rispondere alle proteste degli studenti nel 2005, non ha più smesso di farlo, a Gianfranco Fini che, parlando a un gruppo di ragazzini immigrati a Roma nel novembre 2009, ha definito «stronzo» chi dice parole razziste. Per poi beccarsi lo stesso epiteto dal ministro Calderoli che, da buon leghista, non poteva certo lasciarsi sfuggire l’occasione.
Il turpiloquio comunque non è rilevante in sé, ma va visto come uno dei tanti effetti dell’avvicinamento della politica al linguaggio ordinario: poiché le parolacce fanno parte della vita di tutti i giorni, i leader le usano per marcare la loro vicinanza alla «gente». O per apparire trasgressivi e «contro»: non a caso i leghisti, i leader dei movimenti e quelli dell’antipolitica fanno del turpiloquio una cifra stilistica.
Fra l’altro il progressivo avvicinamento del linguaggio politico a quello ordinario va visto nel quadro di un cambiamento più ampio di tutta la lingua italiana. È all’incirca dalla metà degli anni Novanta, infatti, che le aziende e le amministrazioni pubbliche hanno cominciato a semplificare l’italiano che i loro addetti parlano e scrivono, cercando di ripulire il cosiddetto aziendalese e burocratese dalle oscurità e pesantezze, sia lessicali sia sintattiche, che li hanno sempre contraddistinti. A questo scopo lo sforzo congiunto di linguisti come Tullio De Mauro, Raffaele Simone e dei loro gruppi di ricerca, di pubblicitari come Annamaria Testa, e di molti dirigenti pubblici e privati, hanno portato a risultati importanti e sempre più diffusi. Penso al Codice di stile per la pubblica amministrazione, introdotto nel 1993 da ministro Cassese e ripreso nel 1997 dal ministro Bassanini; penso alla riforma della bolletta Enel nel 1998 e a quella della dichiarazione dei redditi nel 2000; penso infine alla progressiva riscrittura, anno dopo anno, di interi siti web e documenti da parte di comuni, province, regioni, aziende sanitarie, ministeri.
I risultati di questo lavorio ormai ventennale non sono uniformi: alcuni settori professionali sono arrivati prima, altri dopo. E anche all’interno della stessa realtà – impresa privata, comune, ministero – la capacità di scrivere e parlare per tutti, non solo per addetti ai lavori, si manifesta spesso a macchia di leopardo: alcuni lo sanno e vogliono fare, altri per niente; alcuni testi hanno indici di leggibilità altissimi, altri sembrano appena usciti dalla macchina da scrivere del brigadiere che Calvino parodiava nel 1965, nel celebre saggio sull’antilingua. Insomma, c’è ancora molto da fare. Ma che in Italia ci siano sempre più professionisti e manager che parlano come mangiano è ormai un fatto assodato. E anche un valore: ha più successo chi riesce a esprimersi in modo chiaro e diretto. Chi parla a tutti e non si parla addosso. Persino in politica.
In questa lunga trasformazione dei costumi linguistici, i partiti di centrodestra sono riusciti ad assorbire abbastanza in fretta gli scossoni di Berlusconi, Bossi e Di Pietro; i partiti di centrosinistra, invece, hanno fatto e fanno più fatica. È così che ancora oggi molti dirigenti di centrosinistra, a tutti i livelli e in tutti gli ambienti, parlano un linguaggio più involuto e difficile dei loro colleghi di centrodestra. Un linguaggio che forse può essere ancora efficace per l’elettorato tradizionale di sinistra, ma difficilmente attrae gli indecisi, i delusi del centrodestra e quelli inclini all’astensione. Il che è un bel problema, visto che le competizioni elettorali si giocano sempre più spesso sulle scelte di elettori fino all’ultimo indecisi.
[…]
[pag. 141-147]
⇨ Giovanna Cosenza è professore associato di Filosofia e Teoria dei linguaggi all’Università di Bologna. Autrice di articoli e contributi per riviste e volumi collettivi, ha pubblicato tra l’altro La pragmatica di Paul Grice (Bompiani 2002) e ha curato il volume Semiotica della comunicazione politica (Carocci 2007) e Semiotica dei nuovi media (Editori Laterza). Dal 2008 scrive il blog ⇨ Dis.amb.iguando.

di
Gigi Spina
Un giorno questo dolore ti sarà utile: così mi sono detto ieri sera (4 marzo) dopo aver sentito e visto Massimo Gramellini a Che tempo che fa, intervistato da Fabio Fazio; e ho deciso di rileggere il libro di Peter Cameron (e magari vedere anche il film), ma di non comprare quello di Gramellini, di cui leggo quasi sempre il Buongiorno, come ho letto il bel libro “La patria, bene o male”, scritto a quattro mani con Carlo Fruttero e, ma sì, anche “L’ultima riga delle favole”.
Ma questo libro no, perché non voglio sapere la verità sulla morte di una madre, un dolore che a 9 anni deve essere tremendo.
Parlare della genesi di un libro (del proprio libro) è sempre pericoloso : si rischia di spiegare troppo, o troppo poco, di essere narcisi, nel senso di affezionati ossessivamente a se stessi o alla propria creatura, o magari di fare i finti modesti. Il repertorio è vasto e quasi sempre sopportabile, ma a certe condizioni. Il contenuto del libro è una variabile di cui tenere conto : fiction, romanzo storico, ucronia, noir ecc., fino all’autobiografia. Qui, però, si parla di se stessi a buon diritto e, come dire, due volte: come scrittore e come personaggio. E quando c’è di mezzo il dolore per la perdita precoce della madre, si pensa, ingenuamente, ad alcuni scenari possibili : la commozione, l’autocoscienza, la sublimazione, magari anche il cinismo. Tutto, o molto, ma mai ti aspetteresti che non solo chi presenta il libro, ma anche l’autore stesso, ammicchino a una verità, su questa drammatica morte, che si potrà scoprire solo leggendo il libro; e che, dunque, un’esperienza personale sicuramente dolorosa e straziante (ricordo il bellissimo ‘Una storia di amore e di tenebra’ di Amos Oz) si risolva in uno ‘scopri il mistero nelle ultime pagine’, come in un qualsiasi giallo.
Non esprimo giudizi morali, né do il mio personale buongiorno a questa performance di scrittore. Lucidamente la registro, per evitare, in futuro, altre ricadute in ingenuità da anima candida, ma anche per amare ancora di più altri tipi di scrittori e di autopromozioni.
di Marco Mantello
Cara Anita,
Ho provato più volte a scrivere qualcosa di universale e compiutamente privo di emotività a proposito della tua nascita. Magari lo troverai stupido, natalizio, retorico… Te lo ricordi che ti dicevamo tua madre e io da ragazzina? «Hai fatto sempre come volevi tu». E impara a difenderti, in primo luogo da noi, l’autonomia il senso critico non lo so scusa, non volevo iniziare così…
La sera prima, con tua madre, eravamo stati a un concerto all’Akademie der Künste. Verso mezzanotte, quando sono cominciate le contrazioni e ci siamo messi con l’orologio a vedere ogni quanto le venivano, era tutto pronto in due valigie apposite, le lenzuola pulite, i vestiti di ricambio, la cioccolata per me…
Ecco, adesso sicuramente mi dirai: come al solito descrivi le situazioni senza esporti mai in prima persona. Che cosa provavi, tu? Avevi paura? Eri felice? Un senso di attesa, agitazione, cosa?
Non lo so forse all’inizio una totale assenza. Che poi è la sensazione tipica che provo, quando mi capita di vivere. Voglio dire la rottura dei ritmi, le giornate più o meno scandite, la verità è che il tempo presente a me mi stordisce proprio, ti sembra come di non esserci, come assistere a uno show da fuori, appunto, fiction.
Siamo arrivati alla “Casa del sole” alle due di notte. C’era questa stanza dalle pareti gialle, con un letto a due piazze e il soffitto a spioventi dove entravi scalzo, una vasca rosso fosforescente, una spalliera ginnica e una possente corda che pendeva giù dal soffitto, gialla anche lei. Pareva di stare dentro a uno di quei quadri metafisici, tipo ‘Mobili nella Valle’ di De Chirico. Solo che poi, guardandoti intorno, ti accorgevi delle quattro mura dove stavi chiuso, e della presenza di persone.
Nei primi mesi avevamo fatto pure il corso preparativo al parto. Si ragionava un minimo sulle alterazioni degli equilibri, sui rapporti con il tuo partner, su quanto poco si possa scopare durante l’allattamento e come fare per non lasciarsi, sì insomma era un fatto di testa che comanda il corpo ed era ok così, almeno per me, un fallico masochista, come diceva il libro di Lowen che ci avevano dato da leggere a casa. Solo che rappresentarsi un qualche cosa resta una cosa molto diversa dalla sua esperienza diretta. E noi adesso stavamo lì, in quella specie di gabbia per canarini e tua madre gridava, adesso era il suo corpo a comandare la mia mente e gli equilibri che pensavo stabiliti una volta per tutte stavano per rompersi irreparabilmente, assieme alle acque di tua madre. E c’era Karin. Karin, quella cicciona, pareva uscita da quella serie televisiva sugli angeli che vanno in giro per l’America bianca a lenire il dolore dei poveracci, dei ricchi sfondati, dell’intramontabile ceto medio.
Alle lezioni sprofondava su una grossa palla, a gambe larghe, davanti alle coppie di puerpere e partner, e da lì ci leggeva i resoconti di quelle che avevano fatto già, alla “Casa del sole”. Lavorava con questo bambolotto glabro, pelatissimo, con due grandi occhioni blu e le palpebre che si aprivano e si chiudevano.
«E adesso proviamo a girarlo… le mani sempre sotto la testa, ecco state facendo il bagnetto… ».
Dopo le prove pratiche guardavamo vecchi video degli anni ’70, queste trentenni di allora oramai decrepite, rugose, forse morte, con le onde di mare aperto e i cappellini a fiori. Si discuteva appunto di “controllo del dolore”, lasciarsi andare alle contrazioni che vanno e vengono come onde, non lasciarsi mai travolgere e lei, su quella palla, col telecomando in mano e il suo instancabile: «Allora! Ci sono dubbi, domande?», scrutava le silenziose facce delle puerpere. Rispondeva a tutto, anche alle cose più cretine, quelle fatte dai partner giovani per far ridere l’uditorio («Ma il bambino può diventare sordo prima di nascere? Voglio dire, lui ci sente da là dentro, giusto?»).
Entrò nella camera gialla e disse: «Cara… » a Elisa, e per due volte le carezzò le guance. Io vedendola sentii la sensazione solita. Familiare il golf di kashmir e quei larghi pantaloni neri. Familiari quelle dita grosse e tonde, prive di tremori e senza anelli. Familiari le labbra sottili e il respiro greve, bisognoso di pause quando faceva le scale. Non ci avevo fatto proprio caso, a quel leggero cedimento psicologico quando era venuta a casa, la settimana prima, con tutti quei fogli da firmare, e che adesso rivedevo nitido in quel tenue, balbettante: «Ciao, junger Mann. Prendi posto», con il quale mi aveva accolto nel suo piccolo regno delle nascite naturali. Forse era stato il modo in cui mi ero posto io, le prime volte. O il fatto che di solito operasse con caratteri più semplici e penetrabili, o il prolungato silenzio con il quale osservavo muoversi la sua ciccia nella nostra cucina, a renderla goffa, insicura, così poco tedesca, se capisci cosa intendo dire.
Quando seppe che ero giurista le cadde la penna di mano ed era come se quella distrazione insulsa, non lo so, era come se l’avesse sentita accadere con i miei occhi, gli occhi del controllore. Ma io non volevo controllare nulla, le avevo solo chiesto se quella che firmava Elisa fosse o meno una dichiarazione di consenso informato.
Così, adesso che eravamo dentro a quella stanza gialla, e tu dovevi nascere, feci molta attenzione a non fissarla mai dritta negli occhi.
«Secondo te quanto ci metteremo? », le chiesi
«Ah, può durare oltre dieci ore, junger Mann… ».
Faceva su e giù dalla camera gialla a ‘di là’, con un mucchio di scartoffie in mano, e cantava con Elisa e l’altra ostetrica più giovane, tutte di pancia, come nel video delle onde. Elisa stava in ginocchio, pallidissima, su un tappetino ai piedi del letto. Io invece ero seduto ai bordi, e le tenevo la testa in grembo. Certe volte, in quel lucore, la vista sfocava nel dormiveglia e il canto delle vestali si faceva sempre più lontano. Poi sentivo la sua voce greve: «Elisa, ho bisogno che ti stendi un attimo. Devo scrutare dentro». E subito mi risvegliavo, aprivo gli occhi su tutto.
Non uscirono molte acque, quando le mise il pollice e le ruppe lei, o almeno io non me ne resi conto. Le avevano dato le palline omeopatiche e di tanto in tanto la riportavano in bagno per defecare.
«Brava e adesso e adesso espiriamola tutta… schuuuuuuh… schuuuuuuuh…’, disse Karin. Eravamo lì da cinque ore. E lei scrutava, scrutava dentro coi polpastrelli e poi, con discrezione, muoveva gli occhi verso la collega, come in quella vecchia puntata di ‘Touched by an angel’, dove Tess dice a Monica che il Padre Eterno l’ha adibita a una nuova missione ed è tempo di levar le tende…
«Dove senti spingere Elisa? Sul sedere?», le chiese con tono serissimo.
«La pancia», mugugnò Elisa. Era sudata fradicia e cantava, cantava sempre più forte.
«Come prego?»
«Davanti, sente spingere davanti… » disse l’altra. Le avevano dato il Buscopan, e poi di nuovo in bagno.
Fuori dalla finestra, la barra del parcheggio aveva preso ad azionarsi e il buio, dentro i rettangolini accesi dei palazzi in direzione Lichtenberg, era svanito di colpo. Lungo il cielo lattifero e nùvolo, si sentiva la scia delle prime auto, e un trionfale cinguettìo di uccelli.
«Elisa ti devo parlare» disse Karin. Erano le sei del mattino.
«Non riesco a vedere la testa e ho deciso di portarti in clinica. Adesso ti farò un’iniezione. Non interromperà le doglie, stai tranquilla. Junger Mann prende le vostre cose e ci segue in auto, sono solo cinque minuti, allora che ne dici? Sei d’accordo, andiamo?»
L’avevano fatta rivestire, giù al parcheggio, piegata in due dalle fitte e pallida, ripeteva sempre questa cosa di farlo smettere: «Per favore fatelo smettere!». Anche in clinica, quando l’hanno stesa per l’ecografia: «È uno Sternengucker!» ci spiegò la dottoressa, cioè uno che guarda le stelle, con la testa verso l’alto e non come avviene di solito, chino e curvo verso la terra.
«Ehm in questi casi si fa il cesareo… » disse Karin con un tono da missionaria. La dottoressa prese a fissarla con la classica circospezione della ‘laureata’.
«Sì ma il bambino sta bene?» le chiesi io
Karin è andata via dopo mezz’ora, baciandoci tutti in fronte. Quanto a me e a tua madre, ci avevano messo in una sala tutta per noi, a strillare con questa Cordula, l’ostetrica nuova. È arrivato un ragazzino dai grandi occhiali, in càmice verde. Elisa stava a pecora sul letto e lui dietro, stringeva la siringa in mano e con un grosso pennarello aveva disegnato una x, tra le vertebre settima e ottava per l’epidurale.
«E perché ha deciso di partorire in una “Casa del sole”? Perché è più bello?» le chiese ficcando l’ago in vertebra.
«Adesso non mi va di parlarne, se vuole glielo spiego dopo!» sbuffò Elisa gelida.
Il dottorino fissava tutti e nessuno. «È venuta perfetta!» disse, come per dare conferma a se stesso del suo livello di preparazione post-dottoraria. «Adesso deve solo spingere nel verso giusto, e se lo ricordi, la prossima volta in ospedale è meglio!» ripeté prima di uscire. Il male si era fatto innaturale, e dunque tollerabile, biblicamente e laicamente in regola.
«Cinque centimetri… » disse Cordula. E poi, verso di me, stavo di fianco al lettino, a massaggiare il culo aperto di tua madre… «Vuoi vedere? Vieni! Vieni a vedere, avvicinati non essere timido… ».
Era tutto di fuori, una grossa palla violacea, e quel misto di urine emorroidi e feci, adagiato su una tonda bacinella argentea che tutto accoglieva, tra le mani Cordula aveva pure questa lucina e l’agitava e mi diceva: «Ecco, la vedi la testa?». Tesi gli occhi verso il cattivo odore e poi, quando Elisa ha spinto ancora, e ancora, e ancora, gridava proprio… «Elisa ci sei! Manca davvero pochissimo!» ho strillato anch’io. Avevo una voce, letteralmente, ‘rotta’, in quel mare di grumi neri e merda, era la prima volta in vita mia che sentivo sulla pelle di qualcun altro, tutto il peso della parola vita. Sei uscita fuori come una molla. E Cordula a sua volta ha mollato, anche la bacinella. La prima cosa che ho visto è stata la tua fica.
«Elisa, è femmina guarda è femmina!». E lei si è mossa tutta, per vedere dov’eri, con quei due occhi lucidi, stava ancora a pecora, fra il cordone e il suo pulsare vivo, le avevano messo questo coso di plastica, come una specie di mezza coda che pendeva giù dal culo. Poi hanno portato le forbici. Erano d’oro, minute e arrotondate sulle punte. Cordula ha stretto per bene, pareva l’inaugurazione di un transatlantico.
«Qui junger Mann, devi tagliare qui!» mi ha detto.
E io ho tagliato, il suo pulsare vivo.
Non so dire per quanto tempo, dopo che ho tagliato, eri tutta blu. I piedini il naso le gote tutta blu e ti guardavi intorno, come se qualcosa volesse venire fuori. E spingesse forte. E non riuscisse a uscire dalla tua bocca il respiro o il grido, una cosa solo tua il distacco definitivo dal corpo di tua madre…
Elisa ti aveva tirata al petto, aveva un’aria da fine della storia: «Anita tesoro… respira… Ma che c’hai!». Ti sorrideva. Ti sorrideva sempre e tu eri blu.
Cordula invece era bianca. Non solo il camice, e i guanti di lattice, e la targhetta col nome… Ti ha preso senza dire nulla e ti ha portato via di corsa.
Non sapevo dove andare, in quei momenti, non capivo nemmeno che era successo, o meglio sì, lo capivo, ma sembrava non vero, irreale, fiction, come ti dicevo prima.
Sono uscito a cercarti nel corridoio. Sentivo il rumore dei passi, questi camici senza faccia, che entravano a passi rapidi da una porta a vetri, come sospinti dal lampeggiare di una lucetta. Elisa era rimasta sola, nella stanza vuota. Girava la testa di continuo, agitando come una gatta isterica quella specie di coda mozzata: «Perché me la portate via? Non dovete!» strillava e la porta era aperta e non poteva uscire.
La prima cosa che mi ha riportato alla realtà, è stata vederti in mezzo al circolo di alieni verdi. Ti avevano messo su una lastra di acciaio, con dei tubicini trasparenti ficcati su per il naso e ti osservavano dalle loro maschere. Forse avevi inghiottito del liquido amniotico, c’era il dubbio che potessi averlo respirato, tutto giù nei polmoni, i tuoi occhi erano vispi, curiosi e muovevi le gambe e le braccia come una tarantola… C’era il medico magro e le sue parole Adesso è stabile… Massaggio cardiaco… Non possiamo ancora stabilire se ha subito danni cerebrali… A sua moglie è meglio dire che va tutto bene… mi passavano in testa come grandi e veloci astronavi.
Ecco appunto, mia moglie (che poi non è mia moglie, è Elisa), quando tornai in stanza la stavano trasportando nell’altra sala, quella delle operazioni in anestesia totale, continuava a sanguinare erano rimasti i pezzi di placenta nell’utero, tutta roba da raschiare e da farlo subito, aveva detto la dottoressa, altrimenti c’era il rischio emorragia. Il corridoio era lo stesso tuo. Stessi vetri stesse ombre verdoline in trasparenza, che agitavano negli echi di parole il mio fervente senso della tragedia e quell’incerto, feroce oscillare, fra te e lei…
Forse l’avevano già addormentata. Il fatto è che dopo dieci ore di travaglio, voglio dire sì insomma saranno stati anche una “quindicina di minuti scarsi”, e poteva pure non esserci “nessuna plausibile connessione” con l’epidurale, come dicevano quelli, però, dopo dieci ore di travaglio, voglio dire…. E comunque la connessione la sentivo io, nitida, sul suo viso oscenamente sfigurato dalla tua assenza, quell’insano bisogno di tenerti, Anita, di allattarti, avevano preso le forme di un rossore acquoso e tutto, anche la sua stanchezza, anche il vuoto nulla da cui ti aveva fatto uscire, e quell’intenso, inverosimile colore blu come dicevano loro… “Signor Riolo mi ascolti bene. Oggi è stata una giornata bellissima, ma anche difficile…”.
Così me ne rimasi zitto su una seggiolina, quasi mortificato per come mi sentivo adesso, a fissare lo ‘scorrere’ delle rotelline, a ticchettare con le adidas su quell’odore greve di pavimenti disinfettati, su quell’asettica pulizia che ti entrava in bocca, quasi a disagio per l’insana voglia di prendere un camice a caso e picchiarlo a sangue, fino a che non mi avesse garantito, “signor Riolo”, che era tutto chiaro, ineccepibile certo, e che “stasera tornerete a casa insieme”. Quel luogo così confortevole che corrispondeva agli interni della mia testa, lo vedevo adesso come un’immonda sala di attesa, come un bosco disincantato dove la Morte, assumendo sembianze rigorosamente femminili, mi avrebbe spiegato ogni cosa per ciò che era. Avevo i sensi sviluppatissimi e tutto al tatto, alla vista, si ingigantiva di particolari, che fossero le sedie di ferro occupate cinque minuti prima da esseri più in ossa che in carne, o le lancette dell’orologio a muro, o quel senso di veglia forzata che ristagna nelle sale operatorie, assieme all’alito dei visitatori, al fumo del brodino e ad un olfatto potenziato, quasi animale nella sua esattezza.
Ho aspettato, Anita, ho contato i passi e anche loro passavano. Càmici bianchi, invece che verdolini. Alieni nuovi, affrettati, e col sorriso stampigliato sulle maschere… A tutti chiedevo sempre la stessa cosa, non sapendo nemmeno da dove venissero, o a chi diavolo stessi parlando: «Respira adesso, non è vero?».
Tutto il resto lo sai. Anche la storia di quel video di te a otto ore, quel groviglio di fili e filetti che ti pendevano dal collo, la flebo di zuccheri e la scatolina di plastica, con una piccola escoriazione sul naso e gli occhi blu, l’unica forma di blu che ti era rimasta addosso. Ripresi tutto. Anche l’aria il gonfiarsi leggero del petto, sotto la lana della coperta… Ogni volta che tiravi su col naso, fissavo le linee rosse sullo schermo, regolari, serenamente spezzate… Non l’ho fatto mai vedere a nessuno. Forse l’ho pure cancellato non mi ricordo sono passati un sacco di anni e tu sei diversa, adesso lo siamo tutti… Anche tua madre, quando ne riparliamo e mi fa leggere questi articoli sul clampaggio precoce del cordone. Lei sostiene che «se avessi avuto la prontezza per dire di no, di non tagliare subito, pulsava ancora… Per favore, parlale di questa cosa nella lettera, per favore è importante per me… ».
Non dire assolutamente nulla di questa cosa ai nonni. A loro dicemmo solo di Elisa, non di te, anche dopo quando ti abbiamo portata a casa ed era tutto finito concluso, anche la paura che avevamo i primi tempi che ti andasse qualcosa di traverso in gola, o che uno sguardo severo ti soffocasse, neanche il mio senso di gelosia e frustrazione, quando Elisa stava solo con te, pensava solo a te e io volevo andarmene via da voi, dalla forza annientatrice del vostro amore… e tutte le volte che ti ho addormentata, davanti a quella finestra chiusa e siamo andati insieme al Tierpark a vedere l’elefante e poi hai cominciato a strisciare hai messo i denti hai distrutto i miei dischi hai imparato ad aprire e chiudere cassetti e battevi le mani mi facevi ciao dalle fotografie…
Tua madre mi ha odiato quando le ho fatto leggere la storia della tua nascita. Lei dice di no ma è così, si è sentita come se le avessi tolto qualche cosa dal suo corpo e c’ha ragione, non c’ero mica io là dentro. Chiedo venia se non potrò mai gonfiarmi tutto come una mongolfiera, ospitare niente di simile a un figlio dentro di me! Averlo solo fuori, davanti agli occhi: lo capite che voglio dire? Lo capisce il vostro corpo che significa: diverso?
Quando ho detto a tua madre che volevo mettere il racconto in rete, spedirlo a ilmiolibro.it, beh è stato come se qualcosa si fosse riaperto, mi fissava come un’erinni con quegli occhi tutti di fuori, continuava a ripetermi a strillarmi addosso: «Era il mio parto, così mi fai sentire nuda!». E poi: «No. Non è andata così… Devi scrivere anche… ». «E ora a che pensi? Stai pensando di farci l’editing?».
Ho pensato che era tutto un grandissimo equivoco, che in realtà non era successo proprio, che mi ero inventato tutto e che nemmeno tu esistevi, ho pensato che almeno cambiare i nomi, trovarci un titolo, una cosa snella, veloce, agile, che hai il diritto di interromperla a metà, o finirla una volta per tutte… E comunque non era nemmeno di quella specie di 11 novembre del 1989, ore 11.30 città di Berlino, che ti volevo parlare con la mia lettera. O meglio sì, era quel giorno, ma per come lo vivo adesso, nel tempo presente, sento che se ne sta lì piantato dentro come un muro e che non crolla mai, e che mi giudica, e che è molto severo… Sento che non riesco a metterci il punto, la parola fine e ripetermelo ancora, all’infinito: fine. Come se tutto fosse già successo e non restassero che i colori, le sfumature, quell’attimo in più, bastava davvero un nulla ecco, lo capisci che volevo dirti, Anita?
di Domenico Pinto
«Non sapersi orientare in una città non vuol dir molto. Ma smarrirsi in essa come ci si smarrisce in una foresta, è una cosa tutta da imparare.»
di Massimiliano Panarari
Con il fortunato Il corpo del Capo, Marco Belpoliti ha inventato e inaugurato un genere. L’analisi fisiognomica e in stile cultural studies di una gallery fotografica delle metamorfosi (fisiche, ma soprattutto, sociopolitiche) di Silvio Berlusconi si è così imposta nel dibattito, diventando un punto di riferimento per chi, a vario titolo di studio, si è occupato del fenomeno rubricato come «berlusconism».
Oggi, il critico letterario e saggista che insegna all’Università di Bergamo ci offre la fenomenologia di colui che dell’ex premier è stato il sodale di ferro, e de facto l’interprete all’italiana (anzi, à la lumbard) di una certa nuova (o forse vecchissima) destra diffusasi in tutta Europa. Si deve, allora, partire proprio da La canottiera di Bossi per decodificare una delle traiettorie di leaderismo politico più impressionanti (e, per lungo tempo, impreviste) dell’Italia contemporanea. In questo libro – naturalmente corredato da un apparato di foto che restituiscono i cambiamenti dell’iconografia bossiana lungo il tempo – Belpoliti disseziona semiologicamente e linguisticamente il creatore di quel partito anfibio, miscela di cesarismo e «carisma padano» e (a dire dei suoi dirigenti) oltre la sinistra e la destra, che in questi anni ha raggiunto percentuali assai elevate nel Nord del Paese.
Non sembri incredibile, quindi – tutt’altro – il fatto che per comprendere a fondo il capo della Lega Nord si debbano prendere le mosse dall’idealtipo (diciamo così) del vitellone. E precisamente nel senso felliniano (seppur in una versione «rivista e aggiornata» agli Anni Settanta e Ottanta), allorquando «il Bossi» irrompe sulla scena politica, inizialmente alla chetichella e senza molti riconoscimenti, e poi, via via, sempre più fragorosamente e con successo. La carriera politica, del resto, rappresenta quasi un ripiego e lo stadio successivo al flop come cantante simil-Celentano e simil-Buscaglione (in arte «Donato»), attività nella quale si era cimentato peregrinando per balere e incidendo pure un 45 giri, tra la fine degli Anni Cinquanta e l’alba dei Sessanta. Ecco, quindi, perché il futuro detrattore di Roma ladrona, e aedo della virilità della Lega, si configura, per molti versi, come un performer, per il quale il «colore» (stile, abito, gesti, oltre, e ancor più, che le parole), come sottolinea Belpoliti, è tutto. Lo si vede (decisamente) anche nelle variopinte tribù leghiste dei tanti raduni – una costante della storia della formazione nordista – così differenti dalle adunanze democristiane o comuniste, socialiste o missine, e, successivamente, anche dei partiti che rappresentano una continuazione di quelle storie politiche. Laddove il capo leghista, lontanissimo dalle figure dei protagonisti dei comizi della Repubblica dei partiti, si avvicina al microfono, mutatis mutandis, come un cantante, afferrandolo a due mani e intonando la sua omelia politica con una vocalità rauca, ma molto variabile che parte «sottovoce», proprio come avrebbe fatto in gioventù all’interno di qualche dancing. È il Bossi che, nei primi appuntamenti della kermesse nazionalpopolare (o forse, meglio, padanopopulista) di Pontida, scendeva in mezzo al suo «pubblico», e si metteva a firmare autografi; roba da far inorridire schiere di professionisti della politica della Prima Repubblica. Un oratore focoso e aggressivo, per i cui gesti «incitatori» mentre arringa le folle sui pratoni della Lombardia profonda si attaglia perfettamente, come nota Belpoliti, la classe tassonomica dell’etologo inglese Desmond Morris del «colpo d’ascia»: la mano destra che colpisce di taglio, quella di sinistra aperta e indirizzata verso l’alto, per non parlare del pugno chiuso in aria e dell’indice alzato o teso. Un oratore «fisico», che, rivolto agli avversari, sfodererà a ripetizione anche il tristo dito medio.
Questo è il Bossi d’antan, della fase eroica. Ma a Belpoliti, attento anatomopatologo del corpo del Re padano e dell’evoluzione gestual-semiotica della carriera politica del conducator celodurista, non sfugge nulla, fino alla carezza sulla testa fattagli da Berlusconi, nel settembre dell’anno passato, quando la Camera nega l’autorizzazione all’arresto di Marco Milanese: un gesto di ringraziamento politico, ma anche un’autentica manifestazione di intimità.
E così, in qualche modo, il cerchio si chiude, e un ciclo politico finisce sotto il segno dello stesso simbolo con il quale era iniziato, tra squilli di trombe celtiche. Ovvero, dalla famigerata canotta, che dà il titolo al libro: al debutto espressione di un abbigliamento intimo provocatorio e piuttosto «prolet» (do you remember Marlon Brando?) che voleva comunicare vigoria, e, sul viale del declino fisico, quasi candida veste che prefigura una beatificazione dell’icona e della guida carismatica del «popolo padano».
[Pubblicato su La Stampa, il 17-02-2012]
La resistenza è sempre possibile. Ma dobbiamo impegnarci nella resistenza sviluppando prima di tutto l’idea di una cultura tecnologica. Nonostante tutto, ai nostri giorni, quest’idea è enormemente sottosviluppata. Per esempio abbiamo sviluppato una cultura artistica e letteraria. Ma gli ideali di una cultura tecnologica rimangono sottosviluppati e, per questo motivo, al di fuori della cultura popolare e degli ideali pratici di democrazia. Ecco perché la società come insieme non ha controllo sugli sviluppi tecnologici. E questo rappresenta una delle più gravi minacce alla democrazia nel prossimo futuro”. Paul Virilio (Intervistato da John Armitage in “The Kosovo War Took Place in Orbital Space” in C Theory, 18, 2000)
Un corso di formazione per giovani aspiranti autori edizione 2012
Festivaletteratura, con il sostegno di Fondazione Cariplo e illycaffè, promuove un corso di formazione rivolto a dieci giovani aspiranti scrittori nell’ambito del progetto Scritture Giovani. Scritture Giovani, che dal 2002 ad oggi è impegnato nella valorizzazione di autori europei under 32 non ancora pubblicati nel proprio paese attraverso la partecipazione ai principali festival letterari europei, si arricchisce di una sezione “cantiere”, rivolta a giovani che ancora non hanno pubblicato propri lavori.
1. Finalità del corso
La finalità di Scritture Giovani – cantiere è di offrire, attraverso un corso di formazione, un primo orientamento al mondo editoriale e alle professioni della scrittura, in modo da aiutare giovani di talento a capire quali sono le strade percorribili per far arrivare al pubblico le proprie creazioni e a far crescere progetti letterari di valore.
2. Struttura del corso
Il corso formativo prevede una serie di testimonianze tenute da professionisti dell’editoria e del libro (editori, agenti letterari, editor, traduttori, critici letterari) nonché da scrittori, alcuni dei quali partecipanti alle scorse edizioni del progetto Scritture Giovani di Festivaletteratura.
Il corso si articola in due sessioni di lezioni, ciascuna di 16 ore complessive che si terranno dal 23 al 25 marzo e dal 30 marzo al 1° aprile.
3. Modalità di partecipazione
La partecipazione al corso è gratuita. Il corso avrà carattere residenziale, e le spese di viaggio e soggiorno sono a carico dell’organizzazione. La sede delle lezioni sarà comunicata congiuntamente all’esito della selezione delle domande.
4. Requisiti richiesti
I requisiti richiesti per la partecipazione sono:
– avere un’età compresa tra i 18 e i 27 anni entro la data di scadenza del presente bando;
– non avere ancora pubblicato in volume (monografico o collettivo) propri lavori di narrativa.
5. Presentazione delle domande
Per partecipare al corso è necessario inviare:
– la scheda di partecipazione compilata (scaricabile dal sito internet www.festivaletteratura.it a partire dal 30 gennaio 2012);
– un curriculum vitae aggiornato;
– una copia del documento di identità;
– un racconto di massimo 10 cartelle (18.000 caratteri in totale, spazi compresi) sul tema “perché” (tema del racconto richiesto agli autori che parteciperanno a Scritture Giovani incontri 2012);
Le domande e i materiali richiesti andranno inviati per posta elettronica all’indirizzo sgcantiere@festivaletteratura.it entro e non oltre sabato 3 marzo 2012. Non verranno prese in considerazione domande incomplete, pervenute oltre la data indicata o ad altri indirizzi di Festivaletteratura.
6. Criteri di selezione
La selezione delle domande verrà effettuata sulla valutazione dei racconti pervenuti effettuata da una commissione interna a Festivaletteratura. Il giudizio della commissione è insindacabile. L’esito della selezione sarà reso noto sui siti www.festivaletteratura.it e www.scritturegiovani.it da lunedì 12 marzo 2012.
7. Diffusione del bando
Il presente bando verrà diffuso tramite la pubblicazione sui siti internet www.festivaletteratura.it e www.scritturegiovani.it e attraverso altri mezzi ritenuti idonei.
Per ogni ulteriore informazione o chiarimento è possibile contattare la segreteria di
Festivaletteratura (tel. 0376.223989; fax 0376.367047; e-mail sgcantiere@festivaletteratura.it).
Il 7 novembre scorso è stato assegnato dal Ministero dei Beni Culturali il Premio Nazionale per la Traduzione a Tadahiko Wada (premio condiviso con Anna Maria Carpi e che sarà consegnato il 26 marzo a Roma) per la sua attività complessiva di traduttore delle nostre lettere, soprattutto di quelle contemporanee. E’ un riconoscimento giusto a uno dei maggiori conoscitori giapponesi della nostra poesia e del nostro romanzo del XX secolo. Fin da ragazzo, Wada, nato a Nagano e laureatosi all’università di Kyoto, ha coltivato la sua passione per il nostro paese con talento e determinazione. Il suo destino fu probabilmente segnato quando nel 1976 fu chiamato a far da guida e interprete a Italo Calvino che si trovava in Giappone per un giro di conferenze. All’epoca gli studi nipponici di italianistica erano agli albori e il giovane Wada era già uno dei più brillanti allievi della “scuola di Kyoto”, con alle spalle diverse traduzioni. Calvino fu evidentemente colpito dal giovane Wada, tanto che alcuni anni dopo, nel 1984, quando pubblicò Collezioni di sabbia, gli dedicò un cammeo in una delle sue prose. Wada, diventato nel frattempo professore a Tokyo, ricambiò il suo illustre ospite, traducendone nel corso degli anni molte opere importanti, da La speculazione edilizia a Palomar, da La strada di San Giovanni a Lezioni americane. Negli anni ottanta Wada, durante i suoi continui viaggi in Italia, ha frequentato e conosciuto i più importanti poeti e scrittori italiani. Ed è credo questo dialogo personale con gli autori, nutrito di sottigliezze e suggerimenti, che rende la sua opera di traduzione così sicura e profonda. Sia che traduca Sereni, Giudici, Roversi o Zanzotto, Wada riesce nell’impresa più ardua per un traduttore di poesia: dare un volto al poeta, disegnare una fisionomia del suo stile. In questo senso la sua traduzione di Variazioni belliche di Amelia Rosselli è esemplare, viste anche le implicazioni culturali e le difficoltà linguistiche che i versi della poetessa impongono non soltanto a un lettore straniero. Wada ha tradotto anche Montale, a cui è particolarmente legato e di cui sta preparando una vasta antologia, la prima in giapponese. Infatti, per quanto il suo lavoro pionieristico sia stato intenso, il lettore colto giapponese non dispone ancora di un’ampia traduzione della poesia italiana del Novecento. Gli unici poeti di cui può farsi un’idea non frammentaria sono Ungaretti e Saba. Per gli altri deve affidarsi alle riviste letterarie che, nella terra del Sol Levante, non sono così obsolete come in Occidente. Negli anni novanta e nell’ultimo decennio Wada si è dedicato soprattutto alla traduzione delle opere di Umberto Eco, di cui già nel 1985 pubblicò Opera aperta, libro che anche in Giappone suscitò un vasto dibattito critico, e in particolare di Antonio Tabucchi, di cui è appena uscita la versione giapponese di Autobiografie altrui ed è in corso di stampa Il tempo invecchia in fretta. Infine mi piace ricordare che si deve a Wada anche la traduzione di uno dei capisaldi della nostra infanzia (parlo di quando l’infanzia era un’età dell’uomo e non un target librario), Cuore di Edmondo de Amicis che, con Pinocchio di Collodi, è senz’altro il libro più amato dai giovani giapponesi che vogliono apprendere la lingua italiana.
Nella mia vita ho incontrato qualche grande capitano: sono uomini molto rari…
Tra i veri Capitani Emilio Lussu è stato il più grande” (Mario Rigoni Stern).
Da martedì 6 a domenica 11 marzo 2012
Milano – Teatro della Cooperativa
STORIE DI UOMINI
Ispirato al libro “Un anno sull’Altipiano” di Emilio Lussu
drammaturgia Andrea Brunello
regia Michele Ciardulli
con Andrea Brunello
composizione e adattamento musiche Andrea Lucchi
luci di Simone Brussa
“Nella mia vita ho incontrato qualche grande capitano: sono uomini molto rari… Tra i veri Capitani Emilio Lussu è stato il più grande” (Mario Rigoni Stern).
Non neghiamo l’orrore della guerra ma allo stesso tempo vogliamo ricordare che è proprio nei momenti di crisi che si materializzano gli istinti peggiori e migliori degli uomini. Questo spettacolo nasce con la speranza che la storia ci possa insegnare qualche cosa.
Uno spettacolo, durissimo e delicatissimo allo stesso tempo, a tratti ironico e lucidamente divertente, una riflessione collettiva: siamo ancora capaci di emozionarci per un ideale?
Per ulteriori informazioni:
Compagnia Arditodesìo | Teatro Portland Tel 0461.924470
Web www.arditodesio.org | Mail info@arditodesio.org
Da martedì 6 a domenica 11 marzo 2012
Passioni di Lidia Riviello
(con Massimiliano Manganelli, Francesco Forlani, Giacomo Trinci…) su RADIOTRE “La vita in versi” va in onda sabato 3 e domenica 4 e sabato 10 e domenica 11 marzo alle 10.50
Metti la vita in versi. Così inizia una poesia di Giovanni Giudici che resta memorabile per chi intenda per poesia una traduzione della vita stessa. Ma come si inizia a scrivere? E perché la poesia diventa il linguaggio scelto, quasi predestinato per dire di sé nel mondo? E come vivono i poeti? Con quali e quanti altri linguaggi ed esperienze entrano in contatto? Quali sono i mestieri di vivere che portano avanti senza mai allentare l’esercizio della scrittura poetica e della sua resa in pubblico? Chi sono gli altri “attori” della scena poetica? Gli editori e i critici, ad esempio. E’ vero che si scrive poesia più di quanto in realtà non si legga? In Italia sembra che la stima delle vendite di un libro di poesie si aggiri quando va bene sulle 1.500/2.000 copie. Ma a scrivere non si smette mai, anzi aumentano i poeti che pubblicano o si autoproducono pubblicazioni oppure trovano piccole case editrici che scommettono su di loro. Numerosi sono i blog letterari che ospitano contributi poetici senza parlare dell’apporto fondamentale della rete per la diffusione della poesia. Il critico Alfonso Berardinelli, alla fine degli anni settanta, dichiarò che il pubblico della poesia era formato dai poeti stessi. E’ ancora così oppure sono in atto dei cambiamenti per cui questo pubblico è più complesso e stratificato e la poesia comincia a trovare spazi e contesti analoghi a quelli destinati ai narratori? Editori coraggiosi o incoscienti, critici appassionati e militanti, lettori che sostengono partecipando a letture pubbliche e convegni i loro poeti elettivi, aspiranti poeti e artisti che hanno scelto di dedicare una grande parte della loro ricerca alla collaborazione attiva con autori di versi. Questo e molto altro è “La vita in versi”.
[A Beppe Fenoglio. Che oggi avrebbe compiuto 90 anni. Sempre sulle lapidi, a me basterà il mio nome, le due date che sole contano, e la qualifica di scrittore e partigiano (ndr)]
Intervistatore: Permette una domanda?
Fenoglio: La prego… Mi perdoni. Debbo mettere un po’ d’ordine in questo foglio. È così difficile, è tanto complicato… Sa, io non scrivo per divertimento. Ci faccio una fatica nera! La più facile delle mie pagine esce spensierata da una decina di penosi rifacimenti. Quindi abbia pazienza… ancora un secondo.
I.: Certo, ci mancherebbe…
di Giuseppe Zucco
Accade tutto con abbagliante ironia, e da inizio settembre duemilaundici non c’è strada stradina viale circonvallazione tangenziale della città di Roma che non sia bucherellata da enormi gigantografie o da più modeste locandine, miriadi di oblò disseminati ovunque, oblò che già rivelano in piccolissima ma significativa percentuale il contenuto del transatlantico appena attraccato in città, la mostra su Piet Mondrian in programma al Vittoriano.