di Cesare Cherchi

C’è qualcosa di sospetto in tutti quei libri che prospettano al lettore qualcosa di “diverso,” di cantare fuori dal coro, di essere appunto “eretici” come promette il titolo dell’ultimo saggio di Alessandro Baricco “Breve storia eretica della Musica Classica.” Specialmente in ambito storico, queste affermazione di diversità giustificano i sospetti; il messaggio di fondo pare essere che, fin’ora, qualcuno ci avesse nascosto qualcosa, qualcosa che solo ora ci viene finalmente rivelato.
Questo tipo di promesse raramente vengono mantenute dall’autore, il più delle volte il prezzo da pagare per dire qualcosa di diverso è dire semplicemente qualcosa di falso. Ciò accade perché è difficile che qualcuno ci nasconda qualcosa, e nel caso specifico viene difficile immaginare quali nascondimenti possano venire operati in Storia della Musica. Si potrebbe pensare che anche questa Storia eretica di Baricco cada nella categoria, ma non è così o meglio lo è solo in parte. In cosa consiste dunque, questa eresia?
Il libro ha una struttura ad aforismi come La Gaia Scienza, e come ne La Gaia Scienza gli aforismi variano ampiamente in lunghezza, da due righe a due pagine. Numerati, la numerazione si interrompe in ognuno dei sette capitoli che affrontano in ordine (quasi) cronologico la storia della musica occidentale, da Pitagora (o Giamblico) a Stravinskij. Il libro inizia, come molti manuali di storia della musica convenzionali, con il problema del temperamento. Il tema è trattato in maniera piuttosto confusionaria, con molte semplificazioni e alcuni fraintendimenti. Si dice, per esempio, che Pitagora scoprì che suonando due corde di lunghezza l’una doppia dell’altra (e uguale tensione) si ottiene “lo stesso suono.” La cosa ovviamente è falsa (si ottengono due suoni diversi che oggi, essendo a distanza di ottava, sono rappresentate da due note, anch’esse diverse, ma con la medesima posizione nella scala) ed è sintomo di una confusione continua che Baricco fa tra suono, nota e posizione in una scala.
Come invece nessun manuale di storia della musica farebbe più (era forse più comune in passato), Baricco compie un salto millenario con cui arriviamo all’improvviso da Pitagora a Guido d’Arezzo. Ovviamente non ci si aspettava che Baricco sapesse dirci qualcosa di musica bizantina o di Egon Wellesz, ma allo stesso modo non gli si chiedeva di scrivere una storia della musica.
Un vezzo del libro è che tutti i periodi storici della musica occidentale vengono rinominati, e i nomi ricorrono spesso una volta introdotti, ci sono la Prima Musica, il Disordine, la Musica Classica e la Modernità. La cosa che lascia perplessi di questi nuovi nomi è che non hanno nessuno scopo apparente: ricalcano esattamente le usuali categorie storiografiche, in cui la Musica classica è sempre la stessa (grosso modo, la musica viennese da Haydn a Beethoven), il Disordine è il barocco, la Prima Musica è la musica rinascimentale e medievale, e la Modernità è il romanticismo. Quella che agli sprovveduti può apparire come un totale ripensamento è in realtà una innocua ri-denominazione dal movente inizialmente misterioso, ma di cui vedremo più avanti lo scopo.
Tutta la parte sulla Prima Musica è di natura sostanzialmente metaforica, leggendo il libro non si potrebbe in nessun modo immaginare come suonasse e come fosse composta, viene solo utilizzata per tracciare un percorso (un percorso che per essere verosimile richiede inderogabilmente di non capire davvero cosa sia il problema del temperamento) che ci possa portare al momento per cui Baricco pare avere il maggiore interesse, ossia il passaggio dal classicismo al romanticismo.
Sarebbe inutile mettersi qui a elencare tutte le cose fattualmente non corrette dette sulla musica barocca e sulla musica classica, ne verrebbe fuori un’appendice noiosa che non avrebbe in sé nulla che il lettore non potrebbe trovare in manuale di Storia della Musica ben fatto. È invece più interessante parlare della natura di questo libro, che solo arrivati a Beethoven inizia a emergere con più chiarezza.
Infatti la storia eretica di Baricco, una volta arrivato ai confini del diciannovesimo secolo, inizia a snocciolare una serie di luoghi comuni che sono più che familiari per chi ha avuto a che fare con altre storie della musica approssimative: se alla musica rinascimentale si riconosce un credito di spiritualità, la musica barocca è invece superficiale: Lully “traduce il nulla in musica” mentre Rameau è un freddo burocrate del suono. La musica classica (Mozart in particolare, più soggetto ai luoghi comuni di Haydn) è invece cortigiana, graziosa e innocua ma, a quanto pare, meno vuota di quella barocca (o meglio, del Disordine) anche se non è mai chiaro perché. In particolare sullo stile classico Baricco si profonde in un aforisma che, presso qualcuno immagino, sia esempio delle sempre celebrate sue abilità di prosatore:
La vocazione intima che gli umani coltivavano e che la Musica Classica portò in superficie era quella a sciogliersi in una qualche leggerezza.
Diventare bersaglio imprendibile. Vivere di profilo – un profilo sottilissimo.
Disinnescare qualsiasi turbamento col potere benefico della simmetria.
Sostituire col finto la rovinosa opposizione di vero e falso. Adottare l’eleganza come categoria etica. Vivere in fretta e morire spesso. (5.2)
È un espediente spesso usato e sempre sgradevole quello di affermare con sdegno che non si è capito qualcosa, come a dire che se non lo ha capito chi scrive certamente non lo capirà il lettore, che si sottintende più stupido. Tuttavia, a rischio di farne uso, non saprei dare nessuna interpretazione significativa al testo citato (che non è decontestualizzato, ma un aforisma intero) e così a molti altri dello stesso genere sparsi per il libro.
Possiamo ora tentare di rispondere alla domanda che ci eravamo posta qualche pagina fa: in cosa consiste l’eresia di Baricco? Non nel dire il falso pur di dire qualcosa di diverso, anzi, il libro tradisce – indipendentemente dai risultati – una volontà di apparire ben informato e ossequioso del lavoro degli storici della materia. Non è neanche una trasgressione di forma, come le bestemmie dette da ragazzi davanti ai catechisti prima di scappare. L’eresia sta invece in una totale e parodistica adesione ai precetti, un tentativo di essere più santi di Cristo, una bigotteria che lascia anche il povero catechista un po’ perplesso. Fuor di metafora; la cosa che questa Storia fa e che non troverete in nessun’altra è l’adozione totale e acritica di tutti i luoghi comuni (in gran parte abbandonati nell’imbarazzo) che si possano trovare nella storiografia musicale più vecchia, retrograda e scadente: nessun manuale sarebbe più disposto a raccontare una storia della musica fatta di una successione lineare e progressiva di autori (Bach, Haydn, Mozart, Beethoven, Schumann, Brahms, Wagner, Schoenberg) che realizzano lo Spirito della Musica (tedesca); certo, in molti può essere un vizio di fondo rivelato dalla struttura dei capitoli (è il caso di Mila o Grout, dove i capitoli su Verdi, Puccini o Mayerbeer sono inseriti quasi a caso trai passi della progressione) ma anche il più ideologizzato dei musicisti tedeschi – persino Furtwängler – avrebbe avuto pudore a proporre esplicitamente una cronologia tale. Ci sono troppe cose che non tornano.
Questo però, per Baricco, non è un problema. Procede infatti a disegnare, passo per passo, proprio questa grande colonna di grandi autori, stando attento a elidere di volta in volta tutto ciò che ne eccede. Se il teatro musicale non entra nella narrazione basterà fingere che non esista, che faccia parte di una Storia in qualche modo distinta e parallela. Si profonde in questo raggiro in misura tale da riuscire a parlare di Mozart per pagine senza nemmeno accennare al fatto che fosse il più grande autore di musica per teatro del suo secolo. O parlare di Beethoven ancora più a lungo senza accennare che il lavoro a cui dedicò quasi dieci anni della sua vita e le sue maggiori energie fu, anche qui, un’opera lirica.
Questo è possibile perché Baricco non pare particolarmente interessato alla musica in quanto tale: un esercizio divertente è vedere come tutte le cose cose che dice su uno stile musicale possano essere dette di qualsiasi altro senza mai dire nulla di veramente falso (o di veramente vero). Lully può facilmente diventare elegante e “di profilo,” e la musica di Mozart può altrettanto facilmente diventare musica “sul nulla” come era quella di Lully o magari – nelle sue declinazioni sacre – spirituale e rarefatta come la Prima Musica. Quello che pare interessare l’autore è, piuttosto, costruire “una storia perfetta che a costo di molte imprecisioni racconti una cosa esatta.” Un ambizione che pare realizzata solo a metà.
La natura teleologica del libro sembra nuovamente confermata dal fatto che Baricco pare non vedere l’ora di arrivare all’inizio della sequenza classico-romantica per mettere in moto il meccanismo che le cinquanta pagine precedenti servivano solo a preparare. Tanto che una volta arrivati al culmine – alla perfezione della musica wagneriana, e alla sua perversione dodecafonica – la storia, realizzatasi, termina. Suggerendo che tutto ciò che viene dopo altro non siano che vani esercizi privi di senso. Anche qui, pagine e pagine vezzose che finiscono per riproporre le opinioni più reazionarie.
Visti così i nomi nuovi dati alla vecchie categorie acquistano un senso, servono a camuffarle e nascondere – forse anche a Baricco stesso – la natura conservatrice di tutta la sua concezione sotto nomi nuovi, leggeri e trasognati.
Giunti fin qui vale la pena chiedersi che senso abbia questo libro. Cosa ottiene il misterioso lettore medio da un’opera che, seppur stilizzata, è la quasi letterale trasposizione dei peggiori luoghi comuni che la Storia della Musica abbia prodotto negli scorsi due secoli? Luoghi comuni dai quali la materia si sta proprio ora lentamente affrancando.
In questi casi la prima difesa è dire che è un libro di “divulgazione,” ma varrebbe la pena chiedersi cosa si divulghi qui esattamente. Non c’è nulla nel libro che possa rendere un lettore informato di qualcosa che non sapeva già. Le poche questioni tecniche che vi sono nominate non sono mai spiegate, ma sostituite da glissandi metaforici. Paradossalmente questa Storia Eretica rende un lettore che non sa nulla di musica più ignorante; non gli dà nessun mezzo ma lo lascia con la convinzione di avere qualcosa da dire – forse addirittura opinioni da condividere – sulla Musica Classica.
Quello che rimane alla fine di Storia eretica della Musica Classica è quello che rimane dopo tutti i saggi di Baricco. Una certa aria rarefatta; in cento pagine e poche più sì è stati ben attenti a dire il minimo indispensabile che ne giustificasse l’esistenza (e quel poco è ciò che abbiamo già detto). Ci sono poi tutti i tipici vezzi dell’autore, il gusto per una prosa tanto piana da fare il giro e apparire affettatissima, con tanto di “cool,” “trick” e “farm” a decorazione. C’è il solito gusto dell’incertezza e del mistero: ci sono cose “inspiegabili” e “misteriose,” e eventi che “non capiremo mai abbastanza” quando, a guardar bene, l’unico mistero è cosa veramente ci sia di misterioso. Non mancano nemmeno le tipiche paroline à la Baricco; commenti laconici messi dopo la fine della frase, o dell’aforisma, per rafforzarne il senso. Fastidiose.
Rimane, in fondo, una persistente nausea, la nausea di quando non si è mangiato nulla.







































