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Estrogeni Open Source

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È da poco uscito per KABUL magazine Estrogeni Open Source, libro con cui Mary Maggic «sfida e rovescia i pregiudizi sugli ormoni proponendo un esperimento performativo che destabilizza le tradizionali distinzioni tra maschile e femminile».

Ospito qui la postfazione, curata da Laura Tripaldi.

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Se cercate su YouTube “Alex Jones comes out as a gay frog”, troverete un video del 2018 in cui il famoso youtuber alt-right, travestito da rana con un tutù rosa, balla davanti alla telecamera gracidando e bevendo da una bottiglia etichettata atrazina, il nome di un comune erbicida. La lore di questo delirante reperto di cultura internettiana comincia nel 2015, quando Alex Jones dedicò un episodio del suo show InfoWars a un’ipotetica epidemia di omosessualità nelle rane. Stando alla teoria, le sostanze contenute in alcuni prodotti chimici e sversate nelle acque starebbero irreversibilmente alterando la biologia sessuale e il comportamento riproduttivo negli anfibi. L’implicazione sottintesa è che le stesse sostanze stiano gradualmente trasformando anche la nostra identità di genere e la nostra sessualità, cosa che spiegherebbe, nella mentalità ultra-conservatrice e paranoica dell’alt-right americana, la crescente presenza di persone dichiaratamente omosessuali e transgender nella società occidentale. La paura che le sostanze inquinanti prodotte dall’uomo siano in grado di modificare la biologia sessuale non è una novità. Ad oggi, l’effetto concreto di queste sostanze – spesso chiamate “interferenti endocrini” o “xeno-ormoni” – sulla sessualità degli animali e degli umani rimane ancora da chiarire. Ma la paura che una sostanza estranea possa insinuarsi nei nostri corpi, minando dall’interno l’ordine “naturale” del binarismo sessuale, riemerge ciclicamente nelle narrazioni dei media. Degli “xeno-ormoni” si dice spesso che sono molecole che “simulano” gli ormoni naturali del corpo umano. Lo stesso prefisso “xeno-” che li identifica sottolinea la loro provenienza aliena, come a ribadire l’esistenza di un confine rigido tra queste molecole inquinanti e quelle prodotte naturalmente dai nostri corpi.

Eppure, c’è sempre stato ben poco di naturale nella nostra idea normativa degli ormoni sessuali. Da decenni, modifichiamo i nostri corpi con ormoni sintetici prodotti in massa, dalla pillola anticoncezionale agli steroidi dei bodybuilder. Anche l’idea che il testosterone sia un “ormone maschile” e che gli estrogeni siano “ormoni femminili” è più una costruzione culturale che un fatto biologico. Tutte queste molecole sono presenti nei corpi di ogni sesso e genere in concentrazioni diverse, variando a seconda dell’età, della genetica e dello stile di vita. Come ha evidenziato l’antropologa Nelly Oudshoorn nel suo influente saggio Beyond the Natural Body, la nostra comprensione degli ormoni, e più in generale del binarismo sessuale, nasce all’intersezione tra sapere scientifico e potere politico. Gli ormoni non sono semplici oggetti della scienza, ma sono anche e soprattutto costrutti culturali che ci permettono di distinguere i corpi “accettabili” e “sani” da quelli “innaturali” e “devianti”. Eppure le molecole, e i corpi viventi che esse attraversano e trasformano, sono indifferenti (se non apertamente disobbedienti) alle nostre ambizioni di controllo e alle nostre barriere discorsive. Come possiamo emancipare gli ormoni sessuali dalle gabbie semiotiche e politiche in cui li abbiamo rinchiusi, e, in questo processo, emanciparci a nostra volta? In Estrogeni Open Source, Mary Maggic non affronta questa domanda attraverso la riflessione teorica, ma piuttosto sviluppando nuove pratiche al confine tra la scienza, l’arte, l’attivismo e l’hacking. Anche per questo, più che un saggio in senso stretto, Estrogeni Open Source è scritto, e pensato per essere consultato, come un manuale o un quaderno di laboratorio, in cui la riflessione teorica è compenetrata e rafforzata dal racconto operativo, a tratti anche tecnico, delle pratiche che vi sono contenute.

Del resto, è proprio il dialogo costante con questa dimensione tecnica a conferire alla ricerca di Mary Maggic la sua originalità e la sua efficacia. In sintonia con lo spirito “open source” che anima il libro, a chi legge vengono sempre fornite tutte le informazioni necessarie per replicare in autonomia gli esperimenti dell’artista. Se gli ormoni sessuali non sono un fatto naturale, ma piuttosto una costruzione tecnologica e politica, è necessario per prima cosa effettuare un’operazione di demistificazione.

Le pratiche e i saperi della scienza, infatti, esistono in mondi chiusi, impenetrabili dall’esterno e del tutto separati dalla società. Per quanto i nostri ormoni siano, appunto, “nostri”, l’unico modo che abbiamo di conoscerli – e, eventualmente, di modificarli – passa attraverso il sapere medico istituzionalizzato e i prodotti dell’industria farmaceutica. In questo senso, la percezione diffusa che la tecnologia e la scienza siano lontane, esoteriche e incomprensibili per la gente comune è funzionale a una logica di controllo e di sorveglianza. Perciò, il primo obiettivo della ricerca di Mary Maggic è una riappropriazione delle pratiche della scienza attraverso un approccio Do It Yourself. Questa modalità, spiega Maggic, “si impegna a rendere trasparenti le ‘scatole nere’ della scienza attraverso la democratizzazione degli strumenti e dei saperi, solitamente segregati dentro i laboratori” (p. 27). Così, ad esempio, Mary Maggic insegna a chi legge come estrarre i propri ormoni direttamente dall’urina utilizzando filtri di sigaretta. Ogni persona, del resto, possiede un mix di ormoni del tutto unico, un fatto che di per sé è già sufficiente a dimostrare come la nostra visione rigida e binaria del sesso sia incapace di riflettere la complessità e la specificità delle nostre identità e dei nostri corpi. Nel processo di estrazione degli ormoni, queste molecole smettono di apparirci come forze misteriose e incomprensibili, rinchiuse nei libri di medicina o dentro a pillole di cui non conosciamo il funzionamento. Si svincolano dalla gabbia violenta di significati biopolitici di cui sono portatrici e si rivelano finalmente come qualcosa che possiamo vedere, toccare, annusare e capire. La demistificazione delle pratiche della scienza non passa soltanto attraverso l’hacking del corpo, ma anche, e forse soprattutto, attraverso un hacking dell’immaginario.

Uno dei modi in cui Mary Maggic realizza questo obiettivo è la decostruzione della figura dello scienziato. Mentre nel nostro immaginario culturale lo scienziato è un maschio in camice bianco che lavora in un laboratorio asettico, Maggic si dipinge come una casalinga squilibrata che si cimenta in esperimenti di scienza freak. Il laboratorio di biotecnologie si trasforma in una cucina domestica, spazio femminile per eccellenza, dove la casalinga – divenuta bio-hacker – può cimentarsi nella sintesi e nell’estrazione di ormoni per riconfigurare a proprio piacimento 88 89 il suo stesso corpo. “Lo spazio ibrido della cucina-laboratorio”, spiega Maggic, “funziona come uno spazio di hacking di genere, ma uno spazio in cui la pratica dell’hacking non è confinata esclusivamente alla dimensione biologica attraverso l’implementazione di ormoni, ma reclama al contempo le nozioni rappresentative di sesso e genere” (p. 62). Emancipare gli ormoni sessuali significa incontrarli al di fuori delle categorie di maschile e femminile, naturale e sintetico, sano e tossico attraverso cui siamo statə sempre abituatə a conoscerli. Queste categorie non sono evidenze scientifiche, ma strutture culturali e politiche che limitano le potenzialità dei nostri corpi. Leggendo Estrogeni Open Source, è inevitabile giungere alla conclusione che, nella loro molteplicità di forme ed effetti, tutti gli ormoni sono, in realtà, xeno-ormoni: agenti molecolari sovversivi e impuri, indifferenti all’ordine eteropatriarcale, capaci di attraversare i confini tra i generi e le specie. E, se questo pensiero ti fa sentire un po’ inquietə, niente paura. Come ci ricorda Mary Maggic, “sei già unə alienə”.

Jeannette

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di Bea Orlandi

Da dov’ero distesa potevo vedere un pezzetto di cielo grande quanto il mio ventre. Col tempo avevo imparato ad indovinare quanto ci avrebbero messo le nuvole a sparire al di là della cornice della finestra, e quando invece il cielo era scuro, mi concentravo sulla più piccola particella di blu finché questa non cominciava ad espandersi, dissolvendo via il grigio come fosse aspirina.

Lasciavo che il ritaglio di luce vagasse libero sul mio corpo.  Partiva dai piedi, poi passava alle gambe e a mezzogiorno, puntualmente, raggiungeva la pancia, rendendola candida, incandescente. Il contrasto con il resto del corpo era allora talmente forte che, se premevo il mento contro il collo e guardavo in giù, si sarebbe detto che le mie gambe fossero state mozzate via con un taglio netto. In momenti così avevo la sensazione che il mio punto di vista un po’ storto dovesse per forza essere finto, immaginato: non mi credevo capace di sopravvivere a una tale frammentazione, se non nel pensiero.

Non so dire da quanto tempo fossi distesa così. Sotto di me, oltre al materasso, sentivo i piani dell’edificio accatastati uno sopra l’altro addormentarsi a uno a uno, come presi da una grande contagiosa stanchezza. Sentivo le strade soffiare, roventi, e i raggi del sole che sbattevano contro le vetrate, facendosi via via sempre più intensi. Erano ormai settimane che la gente cercava di lasciare la città. Potevo udire il ronzio delle piante d’appartamento che boccheggiavano, cercando aria. A volte mi alzavo, andavo in cucina a preparare del tè, oppure in bagno, per farlo rifluire fuori, più fresco.

Mi capitava di rosicchiare della frutta ogni tanto, svogliatamente. Il primo morso era gustoso, poi nel vedere il boccone mancante e l’impronta dei denti sulla carne del frutto mi veniva la nausea. Lasciavo pesche, mele e albicocche mezze mangiate in giro dappertutto, sopra un libro, dentro una tazza o tra i cuscini. In modo repentino e totale avevo smesso d’interessarmi agli altri, alle loro disgrazie, anche a quella che, per mia mano, aveva colpito la frutta. Ogni tanto indossavo qualcosa, una camicia rossa così logora che sembrava quasi seta, un paio di boxer da bambino, una sottoveste gialla trasparente che era finita per sbaglio tutta accartocciata nel mio bucato, un vecchio gilet da cacciatore, un grembiule da cucina a quadretti. Quando per caso coglievo il mio riflesso nello specchio, quei miseri indumenti offrivano il vantaggio di coprire ora l’una, ora l’altra porzione della mia figura, allontanando il momento in cui mi sarei stufata del mio corpo completamente, nella sua interezza.

Mi avevano detto che se ne sarebbero andati all’inizio dell’estate. L’ultima volta che ero scesa per prendermi cura dei loro figli, mi avevano chiesto, allora te ne torni a casa per le vacanze, Jeannette? Avevo annuito senza pensarci su. Per un anno intero avevo trascinato i loro bambini dentro e fuori da quelle stanze dai soffitti altissimi, li avevo staccati con cura dai tappeti pregiati non appena cominciavano a piangere, così che lacrime e muco non li rovinassero, avevo raccolto loro i capelli in piccole trecce e gli avevo pulito le bocche sudice con le maniche della mia divisa, e come ricompensa prima di andarsene i genitori mi avevano dato in dono un cestino, da portare via con me. Dopo la nostra partenza andrà tutto a male in fretta, mi avevano detto sorridendo, forse perché provavano pena. Il cestino conteneva frutta e verdura pregiate, d’élite, un pezzo di tortino ripieno di macinato di maiale e dei dolcetti di pasta sfoglia le cui pieghe contorte e delicate mi facevano pensare a orecchie umane. Mangiai queste per prime, in piedi accanto al lavandino. Ad ogni morso una cascata di piccoli fiocchi dorati pioveva sul mio corpo nudo e mi si appiccicava alle clavicole e alle cosce sudate, all’ombelico. Poi affondai un dito dentro al tortino e tirai fuori un po’ di ripieno. Il grasso animale mi rivestì il palato, rendendomi fin troppo consapevole di essere una cosa cava, cavernosa quasi. Mi infilai la mano coperta di unto tra le gambe e mi addormentai così per quel che mi parve un’eternità.

Il mio nome non era nemmeno lontanamente Jeanette. L’avevo scelto io quel nome, per capriccio, il giorno in cui avevo cominciato a lavorare lì. Nel bel mezzo del colloquio per quel posto mi ero scusata ed ero andata in bagno, avevo la faccia indolenzita per lo sforzo di sorridere. Finii per far scorrere a lungo l’acqua nel lavandino mentre me ne stavo seduta sul water a leggere una rivista di moda, fingendo di fare pipì. Guardare le immagini mi affaticava, le decisioni dietro ogni scelta, ogni gesto, mi facevano male alla testa, e quasi mi addormentai dallo sfinimento. Poi un paio di stivaletti gialli catturò la mia attenzione. La didascalia diceva: “lo stivaletto Jeanette”. Tornai, e il colloquio riprese come se non me ne fossi mai andata. Parlammo a lungo delle allergie alimentari di ciascun figlio. Non mi avevano ancora chiesto come mi chiamavo. Fu così che divenni Jeanette.

Dovevano essere ormai partiti. Non sentivo più le urla dei bambini, l’incessante calpestio delle loro scarpette nuove, le risate orchestrate dei genitori. Preferivo aspettare però che le superfici su cui avevano posato le mani si raffreddassero, che le loro impronte digitali sui vetri delle finestre venissero sfumate dalle ali delle falene che andavano a sbatterci contro. Volevo essere sicura che i resti dei loro pasti ancora incastrati nelle tubature si fossero decomposti, che si fossero già dispersi nel mare. Non ero pronta a scendere le cinque rampe di scale, a passare di fronte alle infinite porte dietro alle quali qualcuno poteva ancora star lì in attesa, pronto a chiamarmi con il nome che io avevo dato loro il permesso di usare. Le bocche dei bambini, umide e carnose come funghi, continuavano ad affollare i miei sogni. Lì, le loro manine paffute si aprivano e si chiudevano ininterrottamente nel tentativo di afferrare la mia attenzione.

L’abbaino era posizionato proprio là dove il soffitto era più alto. Stando in piedi sul letto potevo raggiungere facilmente la finestrella e sollevare il vetro in modo che entrasse un po’ d’aria. Poi il soffitto cominciava a scendere, e dovevo prestare attenzione a non sbattere la testa quando andavo in bagno o in cucina, e avrei dovuto accucciarmi un po’ se avessi voluto passare attraverso la porta che un giorno, forse, mi avrebbe portata fuori di lì.

Di fronte al lavandino e ai fornelli c’era un tavolino verde e una seggiola dove avrei potuto sedermi a consumare i miei pasti, se ne avessi mai avuto voglia. Preferivo piuttosto osservare la stanza, da lì. Potevo piegare la testa all’indietro, appoggiare la nuca contro il soffitto spiovente e fissare rapita l’intonaco bianco che spellandosi disegnava figure bizzarre sul muro. Di notte, i topi si impadronivano delle pareti. La loro attività notturna faceva crollare l’intonaco, contribuendo ad un’iconografia in costante evoluzione.

Giusto di fronte a me, largo quasi quanto l’intera stanza, c’era il mio letto. Da dove stavo seduta si vedeva bene il riquadro di luce che entrava dal lucernario e che si spostava sulla superficie grinzosa delle lenzuola. Potevo vedere dov’era stato il mio corpo, le depressioni nel materasso ne attestavano il peso, la sagoma di luce ne indicava le proporzioni. Questi elementi erano così vividi al confronto della mia presenza di osservatrice che mi sono chiesta più volte se non fossi già morta. Mi incuriosiva sapere dove fosse finito il mio corpo.

Mi trovavo lì seduta ad osservare la stanza quando il fatto accadde, quando la cosa arrivò. Oltre la cornice dell’abbaino, il cielo era violaceo e pulsante come un allarme. La finestra era aperta ed entrava un’arietta piacevole che portava su dalla strada un odore di patate fritte e di fiori marci. Mentirei se dicessi che lo sentii arrivare, che lo sentii schizzare via da chissà da dove, che mi accorsi del rumore che produceva facendo attrito con l’aria, oppure che feci in tempo a sentirne il suo canto disperato, il suo odore. La verità è che fu solo quando passò all’improvviso attraverso la cornice della finestra ed entrò nella stanza che me ne accorsi. Pensai fosse un brandello di sole che si era staccato dal troppo calore, e che, come una cometa, stesse per collidere con il mio letto, e con il mio corpo che però non era più lì.

Rimase invece sospeso a mezz’aria con le ali infuocate. Mi avvicinai, aggrappandomi come potevo a me stessa, nascondendo con mani e braccia la mia nudità, e fu lì che, con imbarazzo, pensai per un attimo agli angeli, a quant’erano ambigui. Ma via via che le fiamme gli consumavano la figura, intravidi il piumaggio colorato, non adatto ad un angelo, e la pancia giallina, le ali verdazzurre e le piume annerite che sfarfallavano nell’aria prima di lasciarsi cadere a picco, spegnendosi in volo. Quando fui più vicina, vidi che il dolore gli lustrava i piccoli occhietti scuri con un bagliore vivace che mi sembrò familiare.

Anch’io, come tutti, mi ero dimenticata della sua esistenza. I bambini raccontavano spesso del loro pappagallo colorato, ma solo una volta mi avevano permesso di vederlo. Era confinato nello studio del padre, dove a noi tutti era assolutamente proibito di entrare. Quando tenni finalmente tra le mani l’animale con le piume che sfrigolavano ancora, e gli vidi il cuoricino premere contro il petto spennato, mi domandai come una tale creatura avesse potuto evadere dalla sua gabbia, mentre io, a cui le porte erano state lasciate aperte, io non ero capace di uscire.

Aveva forse preso fuoco dopo essere stato colpito da un raggio di sole, magari amplificato da uno dei tanti vasi che stavano qua e là, sui tavoli o accanto alle finestre, senza contenere un bel niente? E forse proprio con le fiamme si era scavato un passaggio, lasciando dietro di sé, su quegli antichi portoni di legno, sulle pareti tappezzate di seta, il vuoto della sua sagoma carbonizzata, oppure si era sbrogliato dalla sua gabbia dorata e da quella di pietra dei suoi padroni usando soltanto il becco appuntito e tutta l’astuzia appresa in anni e anni al servizio dell’uomo? O era stato solo quando era già in libertà e svolazzava nell’aria rovente che la creatura aveva cominciato a bruciare? Glielo chiesi mille volte, mentre accarezzavo quel poco che restava del suo piumaggio, mentre lo imboccavo con i resti della frutta mezza mangiata da me. Dal suo becco usciva soltanto un tubare basso e desolato, simile a un singhiozzare. Se qualcuno mi avesse chiesto da dove venivo, avrei risposto così. Gli misi nome Jeanette.

Tutto d’un tratto le giornate erano diventate bellissime. Tenevo Jeanette contro il mio petto mentre stavo lì distesa sotto il frammento di cielo che sembrava essersi espanso, era più grande del solito, totalizzante, inclusivo. Le ferite erano guarite in fretta, e qua e là spuntavano già delle nuove piumette che mi facevano il solletico. Al sole, il piumaggio sopravvissuto cambiava colore. Avida com’ero di trasformazioni, reggevo la creatura in alto, spostandola dentro e fuori dal fascio di luce. Mi guardava con gratitudine, con adorazione quasi. A volte premevo il becco di Jeanette contro la mia bocca. Allora lei, spingendo con la sua linguetta grigia, si apriva un passaggio tra le mie labbra screpolate, come se fossi anch’io uno di quei frutti marci di cui si nutriva. Giacevamo così, scavando l’una dentro il corpo dell’altra con astuzia, come per aggiustarci, e continuavamo fin quando il ritaglio di luce spariva, fin quando poi tornava a brillare di nuovo. L’aria era leggermente dolce e soffocante, e la finestra era sigillata con cura affinché Jeanette non scappasse.

Passarono settimane, poi mesi, e il cielo pian piano perdeva colore e lo sostituiva col peso. Il mio corpo era solido, pieno, seppur coperto di fessure in cui Jeanette s’innestava, ricco di protuberanze in cui il suo corpo si poteva posare. Sapeva secernere fluidi che le placavano la sete e sapeva sfregolarsi in briciole che la sfamavano. La luce che arrivava dall’abbaino si aggiustava al mio ventre come se fossi io stessa a generarla, dentro di me.

Era una mattina serena, Jeanette se ne volava in giro per la stanza leggera, come se fosse in parte fatta d’aria anche lei. Il suo piumaggio, ormai guarito, era strabiliante, conteneva colori che io non avevo nemmeno mai visto. Stavo preparando del tè fatto con dei vecchi noccioli di pesca, il suo preferito. Avevo messo la teiera sul fuoco, e mentre stavo lì, distesa ad aspettare che l’acqua bollisse, provavo a spingere via le nuvole con un incantesimo: che settembre, che i bambini, che la fame, non arrivassero mai.

Non sentii la teiera fischiare, o l’acqua gorgogliare contro il metallo smaltato. Non sentii il recipiente che si ribaltava o lo sgocciolare dell’acqua sul pavimento, non sentii strillare. Fu l’odore che finalmente richiamò la mia attenzione. Non sapeva né di pesca né di tè: era un odore acre ma appetitoso, e la sua comparsa improvvisa mi fece strizzare le viscere. Mi alzai e balzai in cucina come se potessi spiccare anch’io in volo. La teiera era stata rovesciata e giaceva su un fianco, e l’acqua bollente cadeva, goccia dopo goccia, sul pavimento. Questa volta non erano solo le piume a essere in fiamme, ma il corpo intero. Si era appollaiata sul fornello, le ali piegate con cura, come covasse, e le fiamme erano prima rosse, poi blu. La sua carne stava già allentandosi ed era pronta a staccarsi, ormai cotta. Rimasi lì ad osservare placidamente, come se fossi anch’io una delle tante figure che emergono dallo scrostarsi del muro. Con uno sguardo deliziato, ardente, per il quale io ero invisibile, Jeanette finalmente bruciava.

Foto di Manfred Richter da Pixabay

“Autorizzare la speranza”: una lettura a più voci #1

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[Per Interlinea è uscito un libro importante: Autorizzare la speranza. Giustizia poetica e futuro radicale di Italo Testa. In questo saggio, a cavallo tra teoria della poesia e esemplificazione di poetica, l’autore mette a frutto la propria duplice esperienza di poeta e filosofo. Ne risulta un libro denso di riferimenti e riflessioni, che approfondisce in modo particolare il nesso tra genere poetico e utopia. Abbiamo invitato alcuni autori a realizzare una lettura di questo saggio. I primi due interventi sono di Vincenzo Bagnoli e Francesco Deotto. a. i.]

 

Dal’io al qui. Per Autorizzare la speranza

di Vincenzo Bagnoli

 

Autorizzare la speranza per me offre un robustissimo contributo a una possibile poetica contemporanea, per una serie di consonanze profonde e stratificate con le mie idee fondamentali; allievo di Guido Guglielmi e Niva Lorenzini, ho sempre sentito il bisogno di  motivare la mia scrittura con una «teoria del fare» che ne determinasse non tanto le modalità, quanto gli obiettivi possibili e i percorsi praticabili, le basi estetiche da cui muovere e una dinamica del dialogo con e attorno ai discorsi (e da questo punto di vista per me Roberto Roversi ha contato in particolar modo). Fin dal 1994, sul primo numero di «Versodove», avevo tentato quindi, con mezzi teoretici ancora acerbi e nettamente inferiori a quelli di Italo Testa, di elaborare una mia idea, che si richiamava al concetto di sguardo sul paesaggio (inteso come l’esperienza umana dell’ambiente), per suggerire la necessità di una radicale obliquità dello sguardo stesso (con allusione al «contropelo» di Benjamin): quella stessa obliquità che Italo, ponendosi propria volta il problema del «come guardare», chiama un «approccio obliquo al vero», richiamando la «suprema finzione» di Stevens, tale per cui «l’idea della poesia è una critica dell’idea di verità piuttosto che un’altra formula positiva per essa». Io collegavo questa obliquità alla figura retorica dell’eironeia; Italo in conclusione del suo volume ci ricorda poi che la poesia, per darsi, deve al tempo stesso essere una critica dell’idea di poesia.

Al centro del mio interesse c’era il concetto di parergon (la parte né dentro né fuori) come ciò che «dà luogo» all’opera, secondo Derrida: nella mia ottica un framing che non è solo cornice ma inquadratura, allargando però il concetto dalla questione meramente testuale a quella esistenziale e riferendomi a qualcosa che poi avrei definito,  con von Uexküll, la bolla cognitiva dell’animale uomo. Quello che cercavo confusamente di dire lo trovo spiegato molto bene in «Verso la X. Poesia e terzo paesaggio», paragrafo conclusivo del capitolo Futuro radicale. Dove ci viene ricordato che il significato è un evento e in quanto tale può essere solo, come diceva Stanley Fish «qualcosa che accade non sulla pagina, dove siamo soliti ricercarlo, ma nell’interazione tra il flusso dei caratteri della stampa (o dei suoni) e l’attiva coscienza mediatrice del lettore-ascoltatore». E prima ancora, questo Italo lo chiarisce perfettamente, nell’interazione tra il corpo e il mondo.

Questo intendevo a mia volta quanto sostenevo e ribadivo la necessità di passare dall’IO al QUI. E dove io mi rifacevo alle «mappe cognitive» di Fredric Jameson, Italo richiama l’«istanza di conoscenza»: «uno sforzo di mappatura del nostro luogo terreno, di misurazione del qui nella luce dell’altrove» (in «Metriche della felicità» ci ricorda che la poesia è inevitabilmente metrica, laddove il metro è proprio – etimologicamente – null’altro che misura).

In questa idea dell’altrove, ma in tutta la discussione anche sulla «giustizia poetica», ho ritrovato poi la mia convinzione che la poesia non dovesse essere intesa come utopia, ma come eterotopia: da qui ero partito, con scandagli teorici sull’Ariosto di Calvino, su Leopardi, su Porta e altri contemporanei per il mio saggio del 2003 su Lo spazio del testo.

Migliorati così i miei strumenti teorici, quindi, per «Materiali di Estetica» nel 2020 potevo dare una definizione più precisata, dove entra in gioco la questione del montaggio o, piuttosto e meglio, dell’assemblaggio come procedere ideale del fare poetico davanti alla riduzione in frantumi dell’esperienza: ciò che ritrovo, ancor meglio precisato sotto il profilo teoretico, in Individuazione senza riserve, laddove si affronta il tema del «ricostruire un senso dello stare al mondo» in un «mondo in frammenti»; e di nuovo nei «Futuri a rovescio», dove si parla del paesaggio come di uno «spazio ibrido» o «spazio di transizione», fra «interno ed esterno, concreto e astratto, natura e artificio» che «s’impone come il soggetto stesso dell’esperienza». Ed è questa idea dell’attraversamento che si rilancia nell’ultimo capitolo, Paesaggio in movimento, e che rilancia la «tessitura poetica» come ciò che, andando oltre l’opposizione figura/sfondo delle architetture verbali e affidandosi alla «concezione topografica figura/figura», rende l’individuazione non più il riconoscimento in un sistema di valori, ma un processo «fuso nel terreno dell’esperienza». Di nuovo un QUI che permette alla pratica, dell’agire, del fare (poièin) di darsi anche in assenza di legittimazioni esterne, quando «le strutture consolidate, le tradizioni si sfaldano».

Su «L’Ulisse» n. 18, in Landscape e soundscape: il ritmo del paesaggio io parlavo anche di una metrica nata dall’ascolto come «logica metonimica di contiguità-continuità sulla base della quale cerco di costruire un’immagine dell’esperienza come attraversamento/percorrimento (il fahren di Erfahrung)». E qui ritrovo l’Italo di «Camminare tra i fenomeni», dove è il ritmo dei passi a collegare la mente al mondo, citando di nuovo Wallace Stevens sull’uscire come modo per «realizzare un’apprensione del mondo con il corpo e del corpo con il mondo»: molto, molto vicino a quanto intendevo io citando invece un verso di Ian Curtis: «Let’s take a ride out, see what we can find».

Allo stesso modo nella sua attenzione per il «terzo paesaggio» come paesaggio ibrido, dove s’incontrano antropizzazione, periferizzazione e rinaturalizzazione, in ragione del rilievo antropologico che l’ambiente dell’esperienza ha, ritrovo la mia attenzione per quello che lui chiama «l’espansione e la contrazione siderale della cintura suburbana» della «città diffusa» nei poemetti di Soundcapes e (accompagnati dalle foto di Valeria Reggi) di Offscapes, dove davvero credo questi fenomeni si rivelino , come dice Italo, «frammenti di qualcosa di più vasto, altrettanti fenomeni in cui si manifesta un’approssimazione erosiva tra caso e progetto, natura e artificio», dove può darsi il processo di individuazione solo come un «riconoscere […] la nostra non differenza rispetto a essa [natura]». All’epoca dei miei primi passi poetici poco certo di un aspetto veritativo della poesia (al di là della dimostrazione della fallibilità delle immagini), oggi trovo nelle indicazioni di Italo una certezza.

 

Dalla parte del futuro radicale e dell’ibridità.

Note su Autorizzare la speranza

 

di Francesco Deotto

 

1.

Ancora poco studiato in quanto tale, il rapporto tra poesia e utopia può rivelarsi determinante per riflettere sulla poesia contemporanea, o quantomeno su diverse tra le sue espressioni più innovative. Basti pensare a un autore molto lontano dalle utopie classiche come Paul Celan, che nel Meridiano – in un passaggio che viene citato ben tre volte in Autorizzare la speranza – afferma che è «alla luce dell’U-topia»[1] (im Lichte der U-topie) che è possibile sviluppare una ricerca topologica che permetta di misurare (e quindi pensare e scrivere) l’umano e il mondo. Si osservi come non sia un caso che Celan utilizzi qui una grafia apparentemente eccentrica nello scrivere il termine utopia, con un trattino che al tempo stesso separa e unisce la u iniziale dal resto della parola. Oltre a essere una scelta strettamente legata alla sua poetica (Donatella Di Cesare l’ha ad esempio associata all’idea di un «margine escatologico», con il trattino che corrisponderebbe a un «punto di inversione del respiro»[2]) questa scelta è anche indicativa di una particolare dialettica che caratterizza in generale l’utopia nell’ultimo secolo. Da un lato, dopo le catastrofi e i crimini del Novecento, è ormai improponibile riproporre forme tradizionali di utopia. O, meglio, succede ancora che ci sia chi si arrischia a proporre una descrizione minuziosa di un mondo ideale, ma è molto difficile che riesca a farlo senza produrre un risultato ingenuo e ridicolo. Al tempo stesso, l’esigenza di immaginare un mondo diverso, meno ingiusto e meno alienato, non è però meno impellente che nel passato, con diversi scrittori e poeti impegnati nella ricerca di nuove forme e nuovi concetti per farlo. In questo contesto, quanto mai frammentario, confuso e in via d’evoluzione, Autorizzare la speranza è un’opera che offre preziosi strumenti critici e di riflessione. Tra di essi vorrei soffermarmi soprattutto su due aspetti che mi sembrano particolarmente fecondi (quindi da discutere e da approfondire) per chiunque cerchi di orientarsi nel mondo della scrittura poetica (sia come attore/scrittore, che come lettore/spettatore, o da entrambe le posizioni): un certo carattere plurale e ibrido della poesia e dell’utopia contemporanee e l’idea di futuro radicale.

 

2.

Quest’ultima espressione, che costituisce sia la seconda parte del sottotitolo (“Giustizia poetica e futuro radicale”) di Autorizzare la speranza che il titolo della seconda sezione del volume, si situa in stretta continuità con la nozione di speranza radicale coniata da Jonathan Lear in un libro del 2006 che è ancora poco conosciuto in Italia: Radical Hope. Lear vi descrive la storia di Plenty Coups (1848-1932), l’ultimo capo indiano della tribù dei Crow, che pur trovandosi costretto a vivere l’esperienza della fine del proprio mondo non rinunciò a una forma di speranza («We shall get the good back, though at the moment we can have no more than a glimmer of what that might mean»[3]). Tanto Lear che Testa riconoscono una forte analogia tra la posizione di Plenty Coups e la nostra, trovandoci noi stessi in un momento storico di forte indeterminatezza, in cui tendono a venir meno i riferimenti tradizionali che rendevano intellegibile il modo di vivere delle precedenti generazioni. Se Lear si interessa soprattutto alle implicazioni etiche dell’esperienza di Plenty Coups, senza approfondire il ruolo della scrittura e della poesia, quest’ultima è invece precisamente al centro di Autorizzare la speranza, dove viene anche difesa l’ipotesi che la poesia abbia una specifica «capacità di futurazione», legata alla sua capacità «di stare dentro e fuori il mondo conosciuto, di sporgere per così dire dall’interno verso il mondo a venire, di intercettare la corrente sotterranea del mutamento che attraversa il presente»[4], secondo una prospettiva che viene ritrovata anche in Hölderlin e in Audre Lorde. Già queste indicazioni e questi riferimenti possono essere emblematici del carattere al tempo stesso complesso e cruciale delle questioni trattate in Autorizzare la speranza, ma per mettere ciò ancora più in evidenza vorrei suggerire la possibilità di riconoscere una continuità anche tra il volume di Testa e un saggio del 1913 di Mandel’štam intitolato Dell’interlocutore. Quest’ultimo è un poeta molto caro a Testa, che in Autorizzare la speranza in diverse occasioni ne cita un altro saggio, La parola e la cultura, del 1921, sottolineando l’attualità del poeta russo per pensare il nostro rapporto con la natura e la città. In un contesto storico in cui molti altri scrittori e filosofi erano legati a un’idea di città che ora ci sembra ingenua e superata, Mandel’štam, interessandosi alla presenza delle piante infestanti nelle citta («gli steli d’erba sulle strade di Pietroburgo») sarebbe invece riuscito a immaginare la possibilità di un nuovo rapporto con la natura, sorprendentemente vicino a quello che oggi è associato al cosiddetto terzo paesaggio. Per riflettere sull’idea di futuro radicale, Dell’interlocutore non è però meno significativo, poiché, proprio come in Autorizzare la speranza, anche in questo saggio di Mandel’štam la poesia è caratterizzata da un rapporto aperto e indeterminato col futuro. Per Mandel’štam in effetti ciò che distingue i poeti dagli scrittori è un diverso rapporto con i loro interlocutori, e se per uno scrittore l’essenziale è rivolgersi ai propri contemporanei, il poeta viene paragonato a un navigatore in difficoltà che getta nelle onde dell’oceano una bottiglia con un messaggio. Questa può trovare il proprio destinatario, ovvero qualcuno che la troverà e potrà leggerla, anche dopo secoli. Nelle parole di Mandel’štam, inoltre è proprio nella misura in cui la poesia ha un rapporto costitutivo con ciò che non conosce, e nel suo rivolgersi a ciò che non conosce, che essa ha una particolare forza conoscitiva: «aria della poesia è l’inatteso», «rivolgendoci al conosciuto, possiamo solo dire ciò che si conosce»[5]. Sempre leggendo insieme Testa e Mandel’štam, si può infine anche osservare come per entrambi il rapporto radicale col futuro non porti a dimenticare o a disprezzare il passato. In entrambi vi è anzi un continuo dialogo e confronto con esso, all’interno di una prospettiva secondo la quale non è strano che un testo proveniente da un passato remoto possa esserci più vicino di un testo recente.

 

3.

Passando al carattere plurale e ibrido dell’utopia e della poesia, per introdurlo vorrei invece richiamare un autore che non viene citato da Testa, ma che ha scritto diversi libri che sarebbe interessante rileggere alla luce di Autorizzare la speranza: Furio Jesi.  A proposito dell’utopia, ricordo in particolare un saggio del 1972 intitolato Eros e utopia e raccolto in Mitologie attorno all’Illuminismo, nel quale viene esposta un’idea che è al tempo stesso semplice e di grande efficacia. Jesi, commentando l’Aline e Valcour di Sade, descrive l’utopista come qualcuno che appartiene a due mondi. L’utopista, più precisamente, sarebbe una «creatura dalla doppia etnia, l’uomo dell’altro e di questo mondo»[6]. Alla luce di quanto abbiamo osservato a proposito della nozione di futuro radicale, si può allora avanzare l’ipotesi che ancora oggi l’utopista appartenga a due mondi, ma con delle modalità differenti rispetto al passato. Se ai tempi delle utopie classiche, l’appartenenza a entrambi i mondi implicava una conoscenza precisa del loro funzionamento, e la possibilità di descriverli minuziosamente, ora, nel contesto contemporaneo, il legame tra appartenenza e conoscenza è del tutto saltato, almeno nel caso di uno dei mondi a cui l’utopista appartiene, ma non per questo egli rinuncia a cercare di conoscerlo, attivandosi anzi nella ricerca di nuove forme di scrittura. Quest’ultimo aspetto mi permette allora di evidenziare anche il carattere ibrido di Autorizzare la speranza, ovvero il suo non essere un semplice testo teorico, ma un volume costituito anche da poemi (alcuni scritti dallo stesso Testa, altri da alcuni dei poeti da lui commentati) e da immagini fotografiche (alcune da lui stesso scattate, altre raffiguranti delle opere da lui commentate). Ebbene, nella misura in cui si tende spesso a considerare testi teorici, testi poetici e immagini come mondi separati (o quantomeno come modalità diverse di fare esperienza del nostro essere al mondo), anche il fatto di farli coabitare e dialogare è parte integrante della natura utopica di Autorizzare la speranza. In rapporto a quest’ultimo punto vorrei allora concludere osservando la stretta coerenza tra una simile forma ibrida di scrittura e l’attenzione che Testa rivolge al terzo paesaggio e al carattere ibrido del pianeta in cui viviamo, pieno di «spazi indecisi, privi di funzione […], e che, per la loro contingenza, la loro apertura e imprevedibilità, sono la matrice di uno spazio globale in divenire»[7]. Tanto nel caso di simili spazi che in quello di forme di scrittura che, come quella di Autorizzare la speranza, uniscono saggistica, poesia e immagini, il loro carattere ibrido contribuisce a rendere difficile la possibilità di prevedere con precisione ciò a cui porteranno. Ciò però è anche una delle ragioni che permettono di poterli associare all’idea di futuro radicale e che li rendono particolarmente interessanti, se non inaggirabili.

 

 

(settembre-ottobre 2023)

[1] P. Celan, Il meridiano, in La verità della poesia, a cura di G. Bevilacqua, Einaudi, Torino, 1993, p. 17.

[2] D. Di Cesare, Utopia del comprendere, Il melangolo, Genova, 2003, p. 319. In passo successivo del Meridiano Celan utilizza poi la stessa espressione scrivendo in modo tradizionale il termine utopia («alla luce dell’Utopia»). Ciò evidentemente rende ancora più significativa la scelta di averlo scritto con un trattino nel passo citato in Autorizzare la speranza.

[3] J. Lear, Radical Hope, Harvard University Press, Cambridge, 2006, p. 94.

[4] I. Testa, Autorizzare la speranza meridiano, Interlinea, Novara, 2023, p. 11-12.

[5] O. Mandel’štam, Dell’interlocutore, in Sulla poesia, traduzione di M. Olsoufieva, Bompiani, Milano, 2003, p. 59.

[6] F. Jesi, Mitologie attorno all’Illuminismo, Ed. di Comunità, Milano, 1972, p. 123.

[7] I. Testa, Autorizzare la speranza meridiano, Interlinea, Novara, 2023, p. 69.

Memorie da Gaza #2

1

di Yousef Elqedra

“Un segno di vita sotto le macerie”

Bombardamento del negozio del barbiere

Mentre vengo esiliato dal mio dolore personale verso la sofferenza altrui, le mie stesse lacrime trattenute, annego in un mare molto più grande di pianto e dolore che si estende attraverso Gaza, dal sanguinoso nord al sanguinante sud, dall’est in fiamme al mare della desolazione a ovest.

L’altro giorno ero seduto lì, impotente e distrutto. La casa dei nostri vicini era stata bombardata ed era crollata, travolgendo i suoi occupanti, così come i venti giovani lì davanti in attesa che aprisse il negozio del barbiere e alcuni altri all’interno del negozio di telefoni cellulari al piano di sotto.

 

Seppelliamo rapidamente le vittime e torniamo alla ricerca di sopravvissuti per soccorrerli

In un solo istante, l’edificio di quattro piani è crollato su se stesso e su tutti coloro che si trovavano all’interno, creando un’enorme nuvola di polvere e fumo che ha inghiottito il quartiere. Nei primi minuti sono riusciti a tirare fuori Ahmed Ali al-Shanna, ma era già morto, quindi l’hanno portato all’ospedale Nasser, dove il suo corpo è stato preparato per la sepoltura e la preghiera. Poi è stato rapidamente trasportato al cimitero e sepolto sotto il ronzio incessante dei droni di sorveglianza.

Ma la storia non finisce qui: la madre e le due sorelle di Ahmed erano ancora sepolte sotto le macerie. Sono iniziati tutti gli sforzi per tirare fuori quelli che si trovavano davanti all’edificio in attesa del barbiere; Abu Mahmoud e Mahmoud Al-Tabash (il barbiere e suo figlio) martiri, Ali Amer martire, il piccolo Ahmad martire – un martire dopo l’altro. Alcuni sono stati estratti vivi, ma avevano riportato gravi ferite.

 

Aspettando Al-Baqir

Era scesa la notte e il lavoro si era fermato. Il mio amico e vicino Ali al-Shanna era ancora sotto le macerie, così come i suoi figli. Poi, più tardi quella notte, altre due incursioni israeliane e conseguenti massacri hanno colpito la stessa zona, lasciando distrutti due edifici residenziali e mietendo decine di vittime tra famiglie diverse. Dico questo per sottolineare che con il numero molto limitato di macchinari in grado di rimuovere le macerie, ora l’attesa per Al-Baqir, l’unico macchinario pesante in grado di rimuovere completamente le macerie, ora sarà ancora più lunga.

Erano passate trenta ore dal bombardamento ed erano svanite le speranze di trovare sopravvissuti. Il nostro obiettivo prioritario ormai era quello di onorare i defunti e seppellirli. Quando è finalmente arrivata una ruspa, non è stata in grado di spostare in modo efficiente né di rimuovere le macerie, ma è riuscita solo a estrarre i corpi di due bambini, altre due vittime di questa terribile guerra.

Mi sono fermato per guardarmi attorno e mi sono reso conto che metà della casa era ammonticchiata a pezzi sulla strada, mentre l’altra metà era appoggiata sulla moglie e sulle figlie del mio amico Ali Al-Shanna.

 

La voce di Afnan emerge da sotto le macerie

Mentre vagava tra le macerie, un uomo ha urlato che c’era un rumore proveniente da sotto le macerie. Suo zio ha confermato che era la voce di Afnan. Si è trattato di un miracolo. Dopo più di trentasei ore, da sotto le macerie si sentiva ancora un segno di vita.

I soccorritori hanno portato il macchinario Al-Baqir per scavare un tunnel nella zona da cui provenivano le urla di Afnan. La ragazza è stata recuperata, tutto bene, cosciente, con qualche piccolo graffio sul viso e alcune fratture alle costole. Il salvataggio ha ravvivato la speranza e abbiamo visto la vita ritornare sui volti di suo padre, suo fratello e suo zio. Che atto misericordioso di Dio! Abbiamo tirato fuori Afnan e sembrava che da sotto le macerie stessimo salvando la vita stessa.

Calava la notte riprendendo il suo regno e ancora una volta la nostra missione di salvataggio ha dovuto attendere. Nonostante che la moglie di Ali e l’altra figlia fossero ancora intrappolate sotto le macerie, è stato necessario interrompere gli scavi. Tuttavia, grazie alle insistenze, gli sforzi di soccorso sono continuati fino a tarda ora, senza però alcun risultato.

 

“Mia sorella stava giocando proprio davanti a me”

La mattina del terzo giorno sono ripresi gli scavi per recuperare la madre e la sorella di Afnan. Questa aveva raccontato che sua sorella stava giocando proprio di fronte a lei, e sua madre era lì vicino sul divano, a leggere il Corano. Gli uomini hanno iniziato a rimuovere le macerie, con l’obiettivo di raggiungere il luogo descritto. Scavavano a mani nude, alimentati solo dalla speranza e dalle preghiere.

Durante quei tre giorni, il mio amico Ali è rimasto forte, risoluto, grato e composto, solo di tanto tanto lasciava scivolare una lacrima, frutto della furia che gli infuocava il petto. La sua forza ci dava forza, ma nonostante la pazienza e la perseveranza i suoi occhi non riuscivano a nascondere il dolore.

Le operazioni di scavo sono andate avanti a mani nude, sgretolando lentamente quella schiacciante impotenza. Ma la caratteristica della speranza è che non dà garanzie. Dopo tre giorni, la madre di Ahmad è stata estratta dalle macerie, martire, insieme alla figlia Ikhlas, anch’essa martire. Si erano unite ad Ahmad, vivi alla presenza del loro Signore ( أحياء عند ربهم يرزقون ).

*

Yousef Elqedra è un poeta palestinese residente a Gaza. Questo testo è stato pubblicato per la prima volta in arabo su Raseef22; qui la versione inglese. Su Nazione Indiana appare nella traduzione di Sana Darghmouni e Pina Piccolo.

Memorie da Gaza #1

 

 

 

 

La trappola e il diniego. Riflessioni a margine della guerra

15

di Andrea Inglese

[Questo testo fa parte di un dialogo innescato da Giuseppe A. Samonà in risposta a un mio intervento del 17 ottobre. La sua replica scritta è apparsa il 26 ottobre. Ma lo scambio è continuato per mail e di persona. La capacità di salvaguardare un ascolto reciproco, di continuare a ragionare, pur nel frastuono delle voci della propaganda e delle immagini di morte e distruzione, è qualcosa di importante, anche se appare derisorio di fronte alla potenza dell’accecamento collettivo. Questo è un ulteriore episodio del dialogo, e una riflessione sulla pace a margine della guerra.]

  1. La trappola di Israele

Caro Giuseppe,

questo mio intervento non vuole limitarsi a un appello generico alla pace o alla nostra comune umanità, per ricordare che, nell’attuale guerra tra Hamas e Israele, le atrocità contro i civili e i crimini contro il diritto internazionale sono perpetrati da entrambi gli attori del conflitto. Spiegherò più avanti perché questo approccio, nella situazione attuale, mi sembra necessario, ma non sufficiente a comprendere quello che sta accadendo. Nemmeno voglio, però, limitarmi a condannare Israele, in nome del sacrosanto diritto all’autodeterminazione dei popoli, ribadendo, come già ti dissi, che non posso non essere filopalestinese. Quanto al giudizio sui bombardamenti indiscriminati e sistematici su Gaza, è stato chiaramente espresso dalle più importati istituzioni internazionali come dalle popolazioni in piazza in una gran quantità di paesi non solo arabi. Le grandi manifestazioni della gioventù di sinistra proprio in Occidente (Stati Uniti, Regno Unito, ecc.) mostrano, per altro, quanto sia difficile giustificare, nel XXI secolo, uno Stato che porta avanti una politica di colonizzazione. Come potrebbe essere altrimenti, visto che da anni ormai uno dei temi progressisti all’ordine del giorno è la lotta contro le discriminazioni perpetrate da individui o istituzioni che, in modo consapevole o inconscio, si arrogano il privilegio della piena umanità, fabbricando un altro da sé disumanizzato? La condanna nei confronti della politica israeliana non ha niente a che fare ovviamente con la negazione del diritto di Israele a esistere, ma vuole anzi essere un invito a una definitiva “normalizzazione”, cioè a divenire uno Stato come qualsiasi altro, fissando una volta per tutte i suoi confini secondo le norme condivise del diritto internazionale.

Il punto che voglio affrontare è comunque più specifico e riguarda non tanto la politica dei dirigenti israeliani – che mantiene per altro una triste continuità nonostante le alternanze di governo – ma la cultura dei cittadini che quei dirigenti hanno bene o male fino ad ora sostenuto. Ma sarò ancora più esplicito: voglio capire come sia possibile, ad esempio, che degli israeliani di sinistra, dei “liberal”, che hanno fino a ieri contestato il governo Netanyahu come corrotto e antidemocratico, oggi lo appoggino in un’azione militare dalle finalità dubbie e dalle conseguenze politiche disastrose, che per di più scredita Israele sul piano del diritto internazionale, a causa dei continui massacri della popolazione di Gaza. C’è qualcosa di assurdo nell’ascoltare editorialisti di “Haaretz” (il più grande quotidiano di sinistra) affermare, da un lato, che la risposta militare contro Hamas è per ora inevitabile (costi quello che costi in termini di vite civili) ma che, dall’altro, finita la guerra, i cittadini israeliani faranno i conti con il primo ministro, la cui politica è risultata disastrosa sul piano della sicurezza nazionale. Questa incongruenza, però, ha una storia ben più lunga, e io l’ho constatata anche, come ti dissi Giuseppe, nelle parole di amici ebrei italiani o francesi di sinistra. Per alcuni di loro, al di là delle malefatte più o meno gravi del governo israeliano in carica, la guerra con i palestinesi appare come una sorta di maledizione, di fatalità, dal momento che il desiderio profondo del popolo israeliano, o di una maggioranza di esso almeno, sarebbe la pace. Senza il nostro dialogo non avrei compreso appieno la natura di questa contraddizione, che riguarda – lo ripeto – non tanto la politica dei dirigenti israeliani, ma la cultura politica della società che li ha in maggioranza eletti e legittimati. Alcuni di questi dirigenti – lo si è visto da quando l’estrema destra è al potere – non hanno alcun problema a rifiutare apertamente qualsiasi ragionevole soluzione di pace, predicando l’estensione ulteriore delle frontiere di Israele sui territori palestinesi. La difficoltà sorge in quella parte della società israeliana che afferma di volere la pace e riesce però a convivere quotidianamente con uno Stato colonialista. Perché una tale situazione si stabilizzi, come è accaduto nella storia di Israele, è necessario introiettare diffusamente un’attitudine sistematica al diniego. Ed è questo, mi sembra, il male più grave della società israeliana, anche di quella parte laica e “liberal” che poco o niente ha da spartire con i fanatici religiosi e con i fascisti che Netanyahu ha portato al governo.

Appare oggi evidente che Israele, come progetto politico nazionale, è prigioniero di una trappola. Ma questa trappola si è andata costruendo fin dall’inizio della sua storia, ed è stata rafforzata attraverso tappe successive. Una trappola costruita da Israele stesso, ma con l’ampia collaborazione delle sue forze nemiche, gli Stati arabi e i palestinesi* (vedi glossa a fine pezzo). Oggi, quella che è stata giustamente definita la “trappola di Hamas”, la trappola in cui Hamas ha trascinato Israele, è possibile anche perché a monte vi è una trappola più vasta e dalle strutture storicamente profonde, che minaccia Israele dal proprio interno. L’ho già scritto nel mio primo intervento, l’ho ripetuto a te voce, ma lo riscrivo qui a scanso di equivoci. Comunque si voglia definire Hamas come entità, quello che ha fatto il 7 ottobre è un atto terroristico, sicuramente un crimine di guerra, che nessuna forma di occupazione coloniale o guerra giustifica né moralmente né militarmente. Nella formula di George Orwell (in un articolo del 1943): “Un’atrocità è un atto terroristico senza un autentico obiettivo militare”.

Ma ritorniamo alla trappola di cui Israele e la sua società sono oggi prigioniere. In una formula estremamente succinta: Israele ha deciso, nella sua storia, in modo più o meno consapevole, di assicurare la difesa del proprio popolo attraverso la forza piuttosto che attraverso il diritto. La trappola è questa. E la storia ha già dimostrato, e purtroppo dimostra ancora, che si tratta di una postura controproducente e distruttiva (per i palestinesi certo, ma anche per gli stessi israeliani). Essa, infatti, presenta due linee di fuga, due prospettive, due tendenze, e nessuna di esse è destinata ad assicurare la pace (e quindi la sicurezza) a lungo termine. La prima tendenza sfocia nella situazione propriamente tragica nella quale Israele si trova attualmente. Uso questo termine, estrapolandolo dalla riflessione che fa Peter Szondi nel suo Saggio sul tragico. Szondi, a un certo punto, analizzando l’Edipo Re, afferma che “l’uomo soccomb[e] proprio percorrendo quella strada che ha imboccato per sottrarvisi”. Quello che soccombe nell’attuale situazione in cui si trova Israele nella guerra con Hamas, non è Israele stesso, ma l’obiettivo che si è dato fin dall’inizio: garantire la sicurezza dei suoi cittadini, e questo – ne conveniamo credo tutti – non può avvenire sul lungo periodo che attraverso una situazione di pace condivisa. Non certo lasciando dietro di sé una scia di odio e disperazione, per l’enormità delle vittime civili prodotte tra la popolazione palestinese, come accade oggi.

Vi è una seconda tendenza, che potrebbe imporsi a partire dalla medesima situazione bloccata, una tendenza priva, in questo caso, di ombre o ambiguità. Non sembra tragica, ma puramente criminale: è la soluzione dell’estrema destra più dura, che sogna l’espulsione definitiva dei palestinesi dalla Cisgiordania ed eventualmente anche da Gaza. L’estrema destra israeliana, così come gli elettori che la sostengono, da tempo non fa mistero dei propri obiettivi. Bisogna riconoscere che, anche se nessun “liberal” israeliano è disposto ad accettarla, questa soluzione ha una sua logica stringente: l’unico modo per non concedere ai palestinesi ciò che vogliono – uno Stato – e per continuare a occupare le loro terre in totale sicurezza, è quello di allontanarli definitivamente da Israele e dagli israeliani.

Ho già detto che considero quest’ultima un’opzione non realistica, ma anche se lo fosse, in definitiva, non sarebbe che una variante più spaventosa della situazione tragica: senza i palestinesi alle proprie porte (perché espulsi altrove), gli israeliani potrebbero essere al sicuro, ma non certo tutti gli ebrei sparsi nel mondo e gli israeliani stessi al di fuori del “loro” territorio fortificato. Il terrorismo islamista e antisemita avrebbe sicuramente un lungo futuro di fronte sé al di fuori di Israele.

In termini storici è chiaro che il sionismo è responsabile di questa cultura che affida alla forza piuttosto che al diritto la salvaguardia di Israele, ed è per questo motivo che una critica del sionismo è necessaria per creare i presupposti “realistici” della pace. Una tale critica, per Israele, non avrebbe alcun bisogno di presentarsi come una negazione di sé, ma condurrebbe a una difficile ma sana demistificazione rispetto al mito delle proprie origini e al riconoscimento delle ingiustizie e degli orrori che fanno parte della propria storia nazionale. È un processo questo, d’altra parte, che ha riguardato e riguarda ancora una gran quantità di nazioni nel mondo, a partire dagli Stati Uniti d’America. Insomma, anche in questo Israele non avrebbe né privilegi ma neanche colpe eccezionali: sarebbe una nazione “normale” come tante altre, con un “romanzo nazionale” da sottoporre, in una fase avanzata della sua storia, a lucida revisione critica. (Lavoro di revisione critica, che diversi studiosi e storici israeliani hanno per altro già cominciato.)

Vorrei aggiungere una considerazione sulla scelta del sionismo di scommettere sulla legge del più forte piuttosto che sulla legge del diritto internazionale. E si tratta di un attenuante che va riconosciuta agli ebrei che direttamente o indirettamente hanno contribuito alla nascita dello Stato israeliano in Palestina. Due terzi degli ebrei d’Europa furono sterminati sotto il regime nazista, in virtù di leggi dello Stato, che permettevano di discriminarli, di spogliarli di tutti i diritti civili, d’impossessarsi di tutti i loro beni materiali, di deportarli in massa, di separare le loro famiglie, di farli morire di fatica, di fame, o assassinandoli direttamente. Nessuna legge umana, fuori o dentro la Germania nazista, poté salvaguardare, proteggere, le vite degli ebrei. (E varrebbe qui la pena di ricordare che fu soprattutto la pietà fuorilegge a contribuire in Europa alla salvezza di un certo numero di vite ebree.)

  1. Perché ci interessiamo della guerra tra Israele e i palestinesi?

Veniamo ora, Giuseppe, ad alcune questioni di cui abbiamo parlato, e che mi preme chiarire anche per iscritto, pubblicamente. Perché siamo qui a parlare di Hamas e Israele, perché seguiamo i bombardamenti dell’esercito israeliano su Gaza, e non ci occupiamo con altrettanta attenzione della guerra che continua ormai da una trentina d’anni nella Repubblica Democratica del Congo, ad esempio? Una guerra che ha prodotto, secondo stime recenti (fine ottobre) un numero di sfollati interni pari a quasi sette milioni di persone. La domanda è pertinente, e la risposta dev’essere chiara. Il destino di israeliani e palestinesi m’interessa molto da vicino per ragioni storiche, è un dato di fatto. Sono un italiano, nato in un paese che ha prodotto il fascismo e ospitato i nazi-fascisti. Ho letto Primo Levi, un italiano ebreo, che dai nazi-fascisti è stato spedito nei campi di sterminio. Vivo attualmente in un paese dove è esistito il regime di Vichy, che ha collaborato alla deportazione nei Lager di decine di migliaia di uomini, donne e bambini ebrei. Più in generale, sono la storia lunga dell’antisemitismo europeo, oltre a quella breve e devastante della Shoa, e infine la storia del colonialismo europeo (inglese, in particolare) a determinare la nascita dello Stato di Israele nella Palestina mandataria. Inoltre, sono un occidentale, impregnato di cultura statunitense, e gli Stati Uniti sono il principale alleato politico e militare di Israele. Tutti questi elementi, oltre alle mie amicizie con ebrei francesi o italiani, fanno sì che la mia attenzione nei confronti degli orrori e delle guerre nel mondo si rivolga in modo prioritario a quanto accade laggiù. Inoltre, intorno a questa ennesima fase di una guerra mai sopita, si gioca un’altra cosa che mi riguarda: la credibilità di quell’Occidente a cui culturalmente appartengo. Le contraddizioni e le ipocrisie di Israele, degli Stati Uniti, dell’Europa non fanno che indebolire quei valori, che all’interno dell’eredità occidentale, m’interessa difendere come cittadino e scrittore.

  1. L’approccio umanista e la pietà selettiva

Nel tuo intervento uscito il 23 ottobre su NI, Giuseppe, scrivevi: “è la questione umanista, prima che politica, che mi opprime, mi annoda lo stomaco, e che è importante capire, sciogliere, per poter tornare a parlare e fare politica”. E aggiungevi in un passo successivo: “Laggiù per altro, da una parte e dall’altra, sono comprensibilmente troppo pieni dei propri lutti, della propria paura, per poter pienamente abbracciare i lutti e i dolori degli altri: noi, più distanti, abbiamo il dovere di farlo”.

Ora condivido del tutto quest’ultima frase, e il tuo discorso, più in generale, è stato per me importante, in quanto mi ha costretto a confrontarmi anche con le mie tentazioni di pietà selettiva. Malgrado ciò rivendico l’idea che non sia possibile disgiungere pietà e giustizia, nel momento in cui ci sforziamo di comprendere quanto accade oggi. Non posso quindi limitarmi a un discorso che si appelli alla nostra umanità, di fronte alla minaccia di tutta quella disumanità che vediamo all’opera nel corso di questa guerra tra Israele e Hamas. Naturalmente possiamo tentare di fare questo gesto comunicativo, possiamo tentare di risvegliare in noi – esseri umani, testimoni del conflitto e più o meno coinvolti in esso – possiamo, dicevo, tentare di risvegliare la nostra umanità, e possiamo farlo additando la disumanità, la mancanza radicale di pietà e compassione, esibita dagli attori di questa guerra. Ma la nostra umanità sedicente universale – senza bandiera e colore della pelle, senza appartenenze nazionali e specifiche credenze religiose – appena si pronuncia su questa guerra, vede certe disumanità, ma non certe altre, riconosce le atrocità di Hamas, ma non quelle dei bombardamenti israeliani sulla popolazione di Gaza, oppure riconosce il massacro israeliano dei bambini palestinesi, ma non quello di Hamas sui civili inermi del 7 ottobre. Dove non avviene una sorta di aprioristica selezione, dove i testimoni si pretendono più spassionati, entra in gioco il criterio gerarchico: in questo caso si riconoscerà che alcune disumanità sono più necessarie di altre. Vista la situazione senza via d’uscita del blocco di Gaza (dal 2007) e dell’occupazione palestinese della Gisgiordania (dal 1967), i militanti di Hamas sono stati costretti a commettere delle atrocità; visto l’attacco barbaro del 7 ottobre contro i civili israeliani, Israele è costretto a difendersi militarmente, procurando ingenti perdite civili, nonostante la sua volontà di perseguire unicamente i combattenti di Hamas. Insomma, l’appello alla comune umanità non funziona come l’appello a un superiore e ultimo tribunale, un tribunale senza confini nazionali, esteso ovunque sulla terra, e nello stesso tempo ben custodito nel cuore di ognuno. Il grado di tolleranza nei confronti della disumanità – quella disumanità che ovviamente si esprime vigorosamente in ogni guerra – varia a seconda delle nazionalità, delle convinzioni politiche, delle appartenenze religiose. Questo non significa che un discorso sulla nostra capacità di umanizzarci o disumanizzarci non sia importante, anche riguardo all’attuale conflitto di cui molti di noi sono, nel migliore dei casi, testimoni esterni.

Trovo in un pezzo scritto da Antonio Prete su “doppiozero” (“I corpi, le vittime, la pace” I corpi, le vittime, la pace | Antonio Prete (doppiozero.com)) un approccio consonante con tuo. Egli scrive:

“L’insidia dell’astrazione talvolta può operare togliendo alla pietà la sua propria natura, quella di non avere collocazione di parte, perché prossima alla verità dei corpi, al loro respiro, al loro sentire. È invece da questa presenza corporea della vittima, una presenza singolarmente definita, che può muovere sia l’indignazione contro le forme di potere che portano alla distruzione delle vite umane sia la ricerca delle cause, queste sì politiche, che hanno preparato giorno dopo giorno la scena del disastro.”

Non si potrebbe esprimere meglio il legame che esiste tra pietà e deliberazione politica, ma perché questo nesso funzioni, dev’essere possibile uscire dall’astrazione e avvicinarsi alla singolarità dei corpi. Ed è proprio questo che è difficilissimo fare. Chi è in grado e come è possibile accedere a quello che Prete chiama “la presenza corporea della vittima”? In realtà non vi è nulla di meno trasparente, di meno evidente, di tale presenza. Ne è prova proprio la diffusa empatia selettiva, di cui è impossibile non fare esperienza sia nelle ordinarie discussioni che in ciò che si scrive sui giornali o si dice in televisione. Possono le immagini dell’orrore ovviare a questo? Dobbiamo anche noi, semplici cittadini, vedere il video che l’esercito israeliano ha mostrato ai media internazionali, 44 minuti d’immagini montate appositamente a partire dalle centinaia di ore filmate dai telefonini delle vittime e dei soccorritori, dalle telecamere di videosorveglianza installate nei kibbutz, dalle bodycam rinvenute sui cadaveri degli assalitori uccisi? E basteranno i tre quarti d’ora d’eccidi per avvicinarci alla singolarità dei corpi delle vittime? O dovremmo visionare qualcosa di più “vero”, dal momento che ogni montaggio è una inevitabile forma di manipolazione, d’intervento soggettivo, sulla presunta oggettività di un’immagine documentaria? Dovremmo insomma sottoporci alla visione integrale di tutto quanto è stato filmato il 7 settembre, da vittime, carnefici, occhi elettronici? E i morti di Gaza, i cadaveri dei civili, delle donne, degli anziani, dei bambini soprattutto? Dovremo senz’altro cominciare a guardare anche in direzione di quelle vittime, ma in quale proporzione? Il 22 novembre, ad esempio, le agenzie di stampa riportano la cifra fornita dal governo di Hamas: 14532 persone uccise, delle quali 6000 sono minorenni e 4000 donne. Questi numeri, ovviamente, ci tengono prigionieri della più insopportabile astrazione: ma quante immagini di palestinesi morti sotto i bombardamenti dobbiamo vedere, per convincerci della disumanità della risposta militare israeliana? Basterà passare venti minuti di fronte agli schermi di Al Jazeera, ogni giorno, per visionare tutti i filmati che fanno da sottofondo agli aggiornamenti sulla situazione della popolazione a Gaza o costituiscono specifici reportage su nuovi massacri causati dall’aviazione israeliana? Ma dovremo dare credito a un’emittente televisiva araba, e che, per di più, ha sede in Qatar, nazione che ospita la direzione politica di Hamas?

Fare un discorso che si pretenda innanzitutto capace di percepire il dolore di tutte le vittime non è per nulla facile, anche se è doveroso incitare le persone ad agire in questo senso. Ma anche quando riuscissimo a riconoscere le sofferenze (e le memorie traumatiche) dell’uno e dell’altro popolo, non saremmo di per sé in grado d’immaginare una qualche soluzione del conflitto. Se alla fine tutti sono stati sia vittime che carnefici, tutti sono al contempo responsabili e innocenti. Ma una tale prospettiva, seppure è in parte giustificata, non permette di progredire verso la pace. Inevitabilmente, la questione della giustizia dev’essere sollevata e non rinviata a un secondo momento.

4. Il diniego

Non è necessario entrare ogni volta in un dibattito specialistico sulle occasioni di pace perse tra i dirigenti israeliani e le autorità palestinesi, per constatare un fatto che ho ricordato all’inizio del mio intervento. L’inarrestabile processo di colonizzazione della Cisgiordania, ossia dei territori occupati nel 1967, non è lontanamente giustificabile in termini militari, di sicurezza, ed è la prova che Israele, sia sotto governi di sinistra che di estrema destra, non considera vincolanti le norme del diritto internazionale, nel rispetto delle quali solo potrebbe avere senso una pace duratura. Nello stesso tempo, io credo che una parte della popolazione israeliana voglia la pace, voglia la sicurezza per sé e per i propri figli. Ma com’è possibile volere e non volere la pace nello stesso tempo? Questa domanda riguarda soprattutto i cittadini israeliani, e non i loro dirigenti, dal momento che quest’ultimi hanno perseguito e perseguono i loro obiettivi con triste lucidità. L’unico modo per comprendere una tale situazione assurda è quella di riconoscere che un diniego diffuso abiti la popolazione israeliana e che questo diniego sia un fatto culturale oltre che politico.

Un esempio lampante di questo diniego l’ho riscontrato in un’intervista a una coppia di coloni di Cisgiordania (Oranit), presentata in un documentario di Arte Israele: le strade dell’annessione del 2021 (Israël : les routes de l’annexion | ARTE Reportage – YouTube).

La coppia in questione non corrisponde per nulla al ritratto del colono fanatico religioso o apertamente fascista, che difende l’idea del Grande Israele ed è favorevole all’espulsione dei palestinesi dalle terre che il dio biblico ha assegnato al popolo eletto. Le motivazioni che hanno spinto questi israeliani a installarsi a Oranit sono semplici e del tutto pragmatiche: sono a venti chilometri da Tel Aviv, possono accedere a strade veloci che percorrono i territori occupati ed entrano in Israele (“Se non ci sono ingorghi, in venti minuti sei a Tel Aviv”), il prezzo al metro quadro è straordinariamente conveniente rispetto all’affollatissima e carissima metropoli israeliana. La zona è più amena e priva d’inquinamento che la periferia di una metropoli.

In poche frasi, che riporto qui, marito e moglie esibiscono, in modo innocente ed esemplare, il sintomo della trappola coloniale e dell’attitudine al diniego che permette di tollerarla. Ecco il passaggio dell’intervista, al minuto 16 e 20 del documentario:

“Il marito:

Non siamo qui per realizzare il comandamento divino di popolare la terra di Israele, Non diciamo: abbiamo conquistato questa terra e ci appartiene, e non ci muoveremo. Qui potrete trovare ogni tipo di persona, dei religiosi, dei laici, di tutto.

La moglie:

Questo non ha niente a vedere con la politica. Nessuno qui pensa al fatto che siamo nei territori [palestinesi occupati]. Quotidianamente non ci accorgiamo di nulla, quando torno a casa non vedo nessuno sbarramento, nessuno mi chiede un lasciapassare, o da dove vengo e dove vado, nulla di tutto questo.”

Non è un caso che un’associazione israeliana che milita veramente per la pace si chiami: “Guardare in faccia l’occupazione”. Un semplice proverbio riassume la trappola che Israele ha costruito per sé: volere la botte piena e la moglie ubriaca. I francesi dicono: volere il burro e i soldi per il burro. In questo caso è ancora più parlante. Gli israeliani voglio approfittare delle magnifiche occasioni immobiliari della Cisgiordania e nello stesso tempo vogliono la pace con i palestinesi. La trappola delle colonie, d’altra parte, coinvolge nella contraddizione gli stessi palestinesi. Chi lavora per costruire le superstrade che permettono concretamente l’annessione sempre maggiore delle terre della Cisgiordania? Gli stessi operai palestinesi, che hanno delle famiglia da sfamare, e che vivono in una sorta di limbo territoriale privo di economia e lavoro.

Nessuno può negare che l’orrore del 7 ottobre ha finito con il configurare anche un’allegoria macabra. L’allegoria di una guerra che non solo è sempre e ancora presente, ma che è in grado di assumere (di nuovo) le manifestazioni più estreme e atroci. E tale guerra emerge inaspettata, colpendo magari proprio coloro che siccome non la vogliono vivere, neppure la vogliono vedere. Una testimonianza mi ha particolarmente colpito, di quelle relative a parenti di vittime del massacro di Hamas. Viene da un giovane ragazzo israeliano di ventuno anni che sia chiama Noy Katsman. Interviene in un documentario girato da un altro giovane israeliano, trasmesso sempre da Arte nelle settimane scorse: Israele: vivere dopo il terrore (Israël : Vivre après la terreur | Tracks East | ARTE – YouTube). Noy ha perso suo fratello maggiore nell’attentato di Hamas, un fratello che era un attivo militante per la pace. È breve il suo spazio di parola, ma in qualche minuto dice l’essenziale (dal minuto 21): “Il mio governo non è stato in grado di garantire la mia sicurezza, né quella di mio fratello né quella di tutte le altre persone che vivono in Israele. Ma il nostro governo non vuole riconoscere i propri errori e preferisce attaccare Gaza e commettere delle atrocità che non ci fanno minimamente progredire. (…) Israele bombarda la regione, ma non vedo in che modo questo ci aiuterà a instaurare la pace né a costruire una vita migliore”. Se qualcuno è davvero interessato alla pace (e non, ad esempio, alla vendetta), non vedo come le sue parole possano essere confutate. Certo, non è facile rinunciare alla vendetta, ma Toy mi sembra dire che, ad un certo punto, devi scegliere: o la vendetta o la pace. Non puoi avere entrambe, e soprattutto non puoi dire che t‘interessa la pace, ma adesso bisogna lasciare spazio alla vendetta. La trappola tragica di Israele finisce, però, per colpire anche quelli dei suoi figli che vorrebbero neutralizzarla. È il caso del fratello di Toy, ucciso a pochi chilometri da Gaza, lui che aveva militato sempre contro l’occupazione in Cisgiordania e aveva collaborato con i palestinesi.

Sulla bacheca della sua pagina Facebook trovo oggi un post di una sua amica sulla questione degli ostaggi. Una frase in traduzione risulta del tutto comprensibile: “La più grande minaccia attualmente che galleggia sulle teste dei rapiti è un’operazione militare per salvarli.” Già, un’altra manifestazione della medesima trappola.

E con questo Giuseppe, per ora, passo e chiudo. Senza conclusioni. Senza troppe speranze, se non quella incarnata da gente come Toy, o da quegli ebrei francesi che, in questi giorni, a Parigi, protestano contro l’azione israeliana a Gaza, nell’incomprensione dei molti altri ebrei francesi, che sostengono invece il governo.

*

Non si vuole ignorare il peso delle aggressioni che Israele, fin dalla sua nascita, ha subito da parte sia degli Stati arabi che dai Palestinesi. Ma la difesa di Israele, fin dalla guerra del 1948-49, ha legittimato un uso della forza che ha spinto Israele al di là dei confini stabiliti delle Nazioni Unite.

Sulle diverse interpretazioni della specificità del “colonialismo” israeliano da parte di diversi storici, fuori e dentro Israele, è possibile consultare un articolo che ritengo equilibrato su Mediapart: De quel colonialisme Israël est-il le nom ? | Mediapart

Infine, qualsiasi critica nei confronti di Israele, del sionismo, della politica coloniale e persino dei bombardamenti disumani su Gaza, non deve implicare l’idea di una fantomatica riparazione, attraverso l’espulsione degli ebrei dai territori israeliani oggi riconosciuti (quelli legalmente riconosciuti). Come scrisse in modo chiaro e del tutto condivisibile Alain Gresh, in Israele, Palestina. La verità su un conflitto (trad. Einaudi 2014):

“D’altra parte, anche se è stato fondato su un’ingiustizia, Israele è ormai uno stato riconosciuto dalla comunità internazionale, dalle Nazioni Unite. Pensare, come è stato fatto e alcuni continuano a fare, che si possano ‘espellere’ gli israeliani, rispedirli ‘a casa loro’, non è moralmente difendibile né politicamente realistico. Un’ingiustizia non si puo’ riparare con un’altra ingiustizia. Vivono ormai in Terra Santa due popoli, uno israeliano, l’altro palestinese.”

 

Immagine: Absalon, “Cell. n° 5”, 1992.

“Il fattaccio”: intervista ad Antonio Rezza

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a cura di Andrea Carloni

Da quasi oltre 35 anni l’attività di Antonio Rezza ha dato luogo a numerose realizzazioni artistiche in coautorialità con Flavia Mastrella, sia in forma teatrale che televisiva e cinematografica, fra cui Pitecus e Escoriandoli negli anni ‘90, fino ai recenti Hybris e Il Cristo in gola. Numerosi anche i premi e i riconoscimenti ricevuti: fra tutti il Leone d’Oro alla Carriera al Festival Internazionale di teatro della Biennale di Venezia nel 2018.

Questa intervista si rivolge precisamente ad Antonio Rezza scrittore in occasione del suo quinto romanzo Il fattaccio, uscito da poche settimane con La Nave di Teseo.

Come si è svolto il processo compositivo di questo tuo ultimo libro, in cui la scrittura non si avvale di canoni affermati, ma è attenta a sé stessa e all’autorialità?

Il fattaccio è un libro scritto senza alcuna furbizia e ammiccamento con uno statuto violentemente anti-produttivo, essendo stato composto in quindici anni. Cominciai a scrivere un giallo fra il 2008 e il 2009 e, non appena iniziai ad annoiarmi della mia destrezza nel riuscirci, pensai di far rassegnare al protagonista le dimissioni come Commissario, per affidargli un compito più ambizioso: possedere fisicamente ogni vecchio, aspettando che questo gli muoia sotto mentre lui lo prevarica sessualmente. Mi sono dilettato nel trattenere a lungo questa idea lasciando che a fare il libro fosse il tempo stesso e non io meschino autore, che come ogni autore non può che farmi una tenerezza che non potrebbe neanche chi soffre.

Triste cosa il lettore quando chi scrive è uno scrittore. Chi scrive non è niente più di un marginale, uno che compila da solo e viene letto da soli, praticamente un disilluso, un asociale che non è stato in grado di scrivere mentre lo leggevano e ha ripiegato sul compromesso di esser letto mentre lui era altrove.

Il romanzo dunque nasce come giallo e come tale striscia nei meandri più spietati dell’umano. Quanto è stato decisivo che il seme della malvagità trovasse il suo terreno nella scrittura e lo facesse a discapito di ogni buonismo e di ogni riscatto morale?

La violenza sull’essere umano – a prescindere dal genere – è sempre esistita: attualmente sta diventando un fenomeno da merchandising a causa di gravi falsi ideologici i quali, affermando strumentalmente che oggi si compiano sempre più assassini, si rivelano come potere di propaganda e tolgono dignità a tutti coloro che sono morti precedentemente. Nei nostri lavori, Flavia Mastrella ed io, siamo sempre sfuggiti a questa scorciatoia: l’arte deve essere cattiva e solo così riesce a farsi mitizzare ed automitizzarsi, mentre la rappresentazione della bontà è solo l’ennesima grande menzogna dell’artista.

Durante un prezioso dialogo che ho avuto con la scrittrice Francesca Serafini [sua l’introduzione al romanzo, ndc] riguardo un brano del libro molto cattivo nei confronti degli zoppi, lei mi incitò: “Ma hai fatto di peggio!”. Leggendo questi passaggi un mio amico con problemi di deambulazione potrebbe pensare che io sia malvagio: però io lo sono non come Antonio Rezza, ma in quanto Antonio Rezza nell’esercizio delle sue funzioni. Dunque non può esserci nulla di strumentale o calcolato in un’opera fatta in quindici anni, a meno di essere degli ingegneri della menzogna.

Gli zoppi mi danno un brivido che fa tremar la schiena, sapere che su un letto ogni zoppo non lo è più mi abbassa il senso del decoro, nessuno zoppo lo è mai stato da sdraiato e quindi invece di schernirli questi quasi verticali, mettiamoli sdraiati a copulare. E non capirai mai se è zoppo o è depravato.

Scorrendo le pagine i canoni del romanzo giallo si sfaldano, la trama è prima sedotta e poi abbandonata e la scrittura stessa rompe gli argini delle convenzioni letterarie. Cosa accade in una sfida letteraria che non si gioca più fra i personaggi e l’intreccio, ma anche proprio fra scrittore e lettore?

Conoscendo l’emozione nei nostri spettacoli di trovarsi sul palco con tante persone difronte, penso che se fossi solo scrittore mi sentirei infelice. Il rapporto uno a uno fra scrittore e lettore è molto sacrificato, non potendo mai conoscere in tempo reale la reazione di chi legge. E anche se la solitudine è una virtù, c’è ineleganza e scarsa igiene nel lettore che si trova da solo a casa a leggere. Io sono un patito dell’igiene, non in quanto maniaco, ma perché penso che uscendo di casa, anche facendolo poco, riesco sempre a darmi una rabbellita per frequentare e avere un rapporto con gli altri. Io non prevedo il gusto di chi leggerà il libro, ma prevedo come lo leggerà e non mi piace. Per questo voglio che egli sia scardinato da questa comodità. Un libro viene inteso sempre più oggi come uno strumento di evasione, ma evasione da cosa? Perché l’arte dovrebbe tranquillizzarci? L’arte dovrebbe aggredirci sempre, proprio come fa la realtà, anche leggendo al mare sotto l’ombrellone in quel mese che il padrone ci regala. È veramente triste la vita del lettore e non bisogna averne pietà.

Tu lettore che con la prepotenza dell’acquisto ti fai vendicatore, che quando leggi ti pulisci il naso con le dita, le stesse dita con le quali vai a girare pagina più volte alla ricerca della storia ladra che si dipana per la voluttà del tuo cervello rattrappito. Io lettore la trama te la scippo sotto il culo, ti tolgo la matassa e il filo del discorso che ti impicca, ti privo delle indagini sui pezzi appiccicati alle ringhiere. Io ti sfilo la questione dalle dita incaccolate.

Con il congedo dall’idea di trama iniziale, gli argomenti che prendono piede sono quelli della vecchiaia e della morte. Per affrontarli e, utopicamente, liquidarli Commissario abbandona lo studio del “fattaccio” particolare (il caso della singola vittima) per un “fattaccio” universale: il destino della morte di tutti.

Io amo Cioran e lo sento fratello quando afferma che seguire un’idea priva l’autore delle possibili derive verso l’ignoto. Mi fa tenerezza l’autore che difende la sua prima idea e non la regala ai poveri. Nel mio caso non c’è stato alcun calcolo nel trovare questa nuova idea fulminante secondo cui chiudendo l’orifizio violentato del vecchio morente, la morte vi rimarrebbe incastrata: eliminare la morte intrappolandola nel corpo di chi muore è come una bottiglia di spumante che non verrà mai stappata. Il Commissario dopo molto tempo riuscirà ad ottenere questo risultato finché a cascata tutti i vecchi moriranno mentre lui li possiede.

Non dobbiamo compatire la vecchiaia come l’anticamera della fine, né pensare che i vecchi siano innocenti perché non possono più nuocere: la vecchiaia stessa è un’ammissione di colpevolezza e diventando vecchi ci si costituisce. La tenerezza che il vecchio sprigiona è una facciata: lui è il responsabile della vita infame che facciamo, così come noi lo saremo di quella che lasceremo ai giovani di oggi.

…i vecchi sono i responsabili di quello che viviamo noi che non lo siamo, e devono pagare con la vita per ciò che hanno lasciato (…) Non si vive per fare il passato, ma per offrire a chi non ha presente il futuro di chi è nato prima, andremmo condannati alla rinfusa per quello che daremo ai successivi, e invece la sanzione è esecutiva quando ormai il lasciato è fatto. Non esiste vecchio innocente.

La trama iniziale del giallo sarà ripresa verso la conclusione del libro, ma il fatto di non essere io uno scrittore a gettone, di non lavorare su commissione, di scrivere il libro per conto mio, infliggendomi da solo i tempi della produttività e della produzione del libro, mi ha dato possibilità di tradirla, la mia stessa trama. Il risultato è quindi un inno alla libertà, un libro su come dovrebbe vivere l’arte un artista. E lo dico non per presunzione, ma perché io vivo così. Oggi l’artista se vuole essere libero deve combattere con il coltello fra i denti e occuparsi anche della gestione economica di quello che fa. Perdiamo tanti talenti che non hanno il coltello fra i denti ed è un peccato.

Gran puttana la trama e gran puttana lo scrivano, è l’unico caso in cui due puttane fanno una il pappone dell’altro. A me la trama non è d’ispirazione, nel momento in cui vedo che il rocchetto sovrasta la volontà, vado oltre, senza sentimentalismi, “Siamo stati bene? Adesso ognuno per la mia strada”.

Fin dalle prime pagine la famiglia entra in scena nella sua profonda ed evidente disfunzionalità. Basti pensare al personaggio della sorella del protagonista, una donna disabile con la quale è impossibile stabilire un contatto, una comunicazione. Se non c’è salvezza dalla morte, può esservene dalla famiglia?

La famiglia è l’anticamera dell’associazione a delinquere di stampo mafioso e camorristico. È come la preghiera in cui ci si rivolge prima nell’interesse di chi ci è vicino e poi degli altri, trattando Dio come un assessore ai lavori pubblici. Questo è un processo normale perché vi siamo abituati, ma ciò non vuol dire che non sia fallace. Decidere la priorità del benessere verso i propri cari è un crimine morale e il fatto che siamo tutti così non significa che non dobbiamo smascherarlo. I mostri e il pensiero criminale nascono e si sviluppano nell’ambiente famigliare, che è un ambiente chiuso, in rovina e che vive nell’interesse di se stesso. Anche io ho un figlio e una persona a cui voglio bene, che non considero una famiglia, ma come tre individui che per sbaglio trascorrono parte della loro vita assieme. E se anche io ho una sorella e dei genitori a cui voglio bene, dunque sono fallato pure io, non c’è salvezza. Ma se questo pensiero non sono io l’unico ad averlo, bisogna però trovare il coraggio di esprimerlo e metterlo in pratica, somigliare ai grandi pensatori, ognuno con la propria estetica, anche a costo dell’alienazione e dell’antipatia. Fossimo immortali capirei un’arte prudente, ma vivendo noi a scadenza e in breve tempo, bisogna che invece essa sia spregiudicata.

Povera cosa la famiglia, sconfitta dell’individuo, tripudio della paura di restare soli, attenuante per non uscire più, travaglio nel tornare a sera e trovare quest’ammasso di carne che t’aspetta raggiante come se tu avessi conquistato il mondo, e invece il festeggiato non ha espugnato niente se non il companatico da ficcare a viva forza nella bocca di chi ti fa “Papà” e poi rintuzza “che hai portato?” e infine accenna “mi sei mancato”. “Vorrei mancare ancora, vorrei lasciarti orfano ma non ne ho l’ardire. Sono solo tuo padre”.

Un elemento che non può sfuggire all’orecchio del lettore è quello della musicalità e del ritmo nel tuo testo. Derivano da un’esperienza pregressa, da un’educazione musicale o piuttosto dell’espressione di un principio ritmico corporeo e istintuale?

Questo è un libro sonoro, di prosa e poesia, in cui ogni pagina deve avere la sua musicalità e muovere il corpo di chi legge, così come fa la musica che mettiamo in scena nei nostri spettacoli. Quando entro in libreria, apro a caso un libro e ne leggo mezza pagina: se la struttura sintattica tende alla sorpresa e allo stupore il libro lo leggo, altrimenti lo ripongo sottosopra così che non si veda il nome dello scrittore. Chi scrive male non deve scrivere. Oggi si scrive troppo e assistiamo a un’eccedenza di brutte pubblicazioni che vanno a schiacciare le poche belle. Al contrario, se si apre a caso questo mio libro la musicalità la si troverà sempre avendo io lavorato su ogni pagina proprio nell’immagine di chi lo apre a caso e togliendo a chi lo farà la possibilità di girarlo sottosopra.

M’illumino d’immane se strabuzzo, e quindi do un buffetto a chi m’intuzzo. Se veglio sulla donna incaprettata la bramo di corteccia inebriata, se inciuccio il vecchierello a cazzettone, lo attocchio col prepuzio allampanaccio, la giovane è d’impaccio e l’accomiato, vetusto lo posseggo indaffarato, lo porto dentro al bagno e lo sommetto, lo impalo alla ragione e lo sgrovetto, mi raglia nelle orecchie mentre gode, lo bacio sulle guance cascaticce e torno fumantino al tavolino

Alla luce di tutto ciò che ci siamo detti, personalmente ritengo che Il fattaccio sia un libro che possa raccogliere i riconoscimenti e il successo che giustamente merita. Vorrei appunto chiudere la nostra conversazione chiedendoti quali sono le tue aspettative su una tua opera in genere e su questo libro in particolare.

L’arte deve far fraintendere chi guarda e non guidarlo in modo unilaterale: in un quadro di Francis Bacon posso vederci ciò che voglio io mentre in uno di Ligabue vedrò quel che vuole lui. Allo stesso tempo non si può nemmeno fingere amicizia fra scrittore e lettore, né quando il libro lo si scrive, né quando lo si presenta in pubblico. Anche questa nostra conversazione, per quanto possa essere obiettivamente bella, non potrà mai essere all’altezza del libro, in quanto io Antonio Rezza, avrei fallito se fossi più bravo per quello che dico rispetto a quello che faccio; ma non importando nulla a me di Antonio Rezza, quello che dico sarà sempre un surrogato di quello che faccio. Anche con Flavia usiamo questo criterio ferreo. Bisogna raddrizzare le ossa a coloro che prendono l’arte come un diversivo o come una scorciatoia ipocrita per sostenere se stessi come autori. Il Leone d’Oro che abbiamo ottenuto io e Flavia, due artisti indipendenti che non hanno mai chiesto alcun aiuto economico allo Stato e che rifiutano lo Stato come protettore delle nostre opere, è un esempio per quelli che verranno dopo di noi. Per questo io istigherò tutti coloro, te compreso, a cui il libro è davvero piaciuto ad affermare che merita di vincere il Premio Strega e tutti gli altri a essere impietosi e stroncarlo. Ma se si ha la fortuna di scrivere bene, oltre a fare bene gli spettacoli, non capisco perché ciò non debba essere riconosciuto come oggettivo quando lo è. Per questo pretendo il premio più importante che esiste per farne un vessillo e dimostrare che si può raggiungere il risultato che si vuole senza compromessi e con i modi e i tempi inflitti dall’autore stesso e non dalla casa editrice, che si può lavorare con il solo talento e che l’arte è l’unica cosa che portando bellezza può contrastare l’abbrutimento culturale e il potere politico. Ma per tutto questo pretendo una responsabilità morale da parte della critica, dell’editoria e dei lettori che ritengono meritevole di premio non l’autore, ma il libro. Altrimenti non scriverò più.

Minaccia che non può che farmi unire all’esortazione, anzi all’imperativo: mi aspetto che Il fattaccio di Antonio Rezza vinca la prossima edizione del Premio Strega.

 

Ninna Mamma

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di Federica Rigliani

Me la ricordo a letto, mamma. E io di lato che cullo il suo dormire.

In casa siamo sempre stati noi due. Una camera ciascuno e la cucina, che odorava di legna e affacciava sull’aia. Lì, quattro galline ovaiole razzolavano tra il basilico e i gerani, compressi nelle latte di pomodoro e addossati tutt’intorno al muro.

Mio padre le ha aperto le gambe una sola volta. A lei ha lasciato me. A me l’altezza, la corporatura robusta e il neo in rilievo sotto l’occhio destro.

Quanto gli somigli, diceva mamma.

Guardi me per rivedere lui, rispondevo.

Lei ripeteva che era una mia ossessione. Che ero io a immaginare, pensare, credere; e che immaginavo, pensavo e credevo male. Ma ero certo: perché vedesse me, dovevo scardinare l’invadente fisionomia paterna che avanzava tra la peluria imberbe del mio viso.

Incurvare le spalle mi ha tolto nel tempo cinque centimetri: parlo col mento sul collo e guardo il mondo con occhi ribaltati. La robustezza l’ho asciugata coi brodi vegetali, orgoglioso delle spigolosità che affioravano e tronfio del sottopeso degno del corpo segaligno di mia madre. E sul neo, grande poco meno della sigaretta che ci ho spento sopra, resta una stigmata purificatrice.

Ho fatto tutto da solo. Di nascosto e con il ghiaccio. Mamma ha gridato quando mi ha visto.

È stato allora che ha chiamato la vecchia.

Capelli bianchi intrecciati a crocchia, gonna nera al polpaccio, scialle corvino. Al collo, un rosario. Con la sinistra sfila un crocifisso dai seni cadenti, lo punta al cielo, lo bacia. Mette l’olio nella scodella piena d’acqua. Recita mugugni. Mi guarda. Una volta, due volte. Alla terza, la chiazza d’olio esplode in tante goccioline; la legna della stufa stride con acuti; lo sportellino di ferro si apre e uno sbuffo grigiastro disegna un vortice in aria.

La vecchia si alza.

Ribalta la sedia.

Inciampa, quasi cade.

Si fa il segno della croce con una velocità che sdoppia il braccio. Picchia forte fronte petto spalla spalla. Strozza le parole tra i denti, strangola l’Amen tra le labbra, appoggia un bacio tra pollice e indice.

Indietreggia. Fronte petto spalla spalla. Bacio.

Mi fissa. Fronte petto spalla spalla. Bacio.

Fa impressione.

Tira fuori un corno rosso e un santino di carta. Leggo: “San Alberto degli Abati”.

Mettiglielo sotto al cuscino. Tuo figlio ha il male dentro, dice. E se ne va intonando una lugubre nenia, con le spalle curve e la voce lamentosa delle préfiche.

Mamma era rimasta incollata alla sedia. Gli occhi di marmo e le mani sulla gonna palmi in su.

Nel mobiletto a specchio del bagno, pasticche e flaconcini. Su uno, sotto a una parola troppo difficile da ricordare, c’era scritto a penna Rilassante. Ho diviso il contenuto in tre e gliel’ho dato per tre sere. Il quarto giorno, non si sentiva bene. Ho chiamato il medico.

Deve riposare. Venti gocce dopo cena per quindici giorni; poi quindici, dieci e cinque a settimana. Vedrai, migliorerà, ha detto prima di uscire. E ha lasciato la ricetta sul comodino.

Ho fatto bene a non credergli e ad aggiungere una dose la mattina e due dopo i pasti. La vecchia doveva averle messo la pazzia in testa coi suoi riti, perché mamma dopo i primi giorni trascinava i passi. In bocca, la stessa nenia: Dormi dormi, mio bambino, che la mamma… Ma non la cantava a me, la cantava e basta: seduta sulla sponda del letto con gli occhi al pavimento; mentre dondolava in cucina sulla sedia impagliata; in piedi davanti alle pentole tracimanti. Io la chiamavo, e lei niente.

Poco mi importava il suo modo di disertarmi quando mi avvicinavo con le medicine: la schiena a metà e l’eterno profilo da cui spiccava quell’unico occhio torvo. Voleva andare da Ada per l’orlo ai pantaloni, dalla signora Gina per il vestito da finire, anche fare la spesa o una passeggiata può distrarmi, diceva. Tutto pur di non stare in casa. Ho cambiato la serratura. Doveva guarire per tornare a vivere.

Prima che si allettasse la portavo a prendere il sole nell’aia: io seduto sui gradini della veranda; lei che dava il mais alle galline e raccoglieva le uova calde nella rimessa. Amava le sue galline. Le teneva solo per le uova, le piacevano così tanto le uova. Quando ero piccolo me le batteva con lo zucchero, ora le battevo io per lei. Dopo i pasti contavo una, cinque, dieci… e le cantavo Ninna Mamma. L’avevo scritta con tutto l’amore che potevo.

Ma lei ha iniziato a rifiutare le gocce. Davanti al bicchiere tirava fuori l’espressione grifagna dei rapaci, arretrava, mi scostava con le braccia lunghe davanti a sé e si voltava dall’altra parte. Per fargliele ingoiare, le aggiungevo allo zabaione e al cibo del pranzo e della cena. Le occhiaie ancora non erano viola, ma le emicranie prendevano il sopravvento. La terapia del dottore l’aiutava, ma a mitigare la spossatezza fisica e l’eterno malessere con cui conviveva erano le mie dosi aggiuntive. Insieme al buio. Perché le finestre sono chiuse anche di giorno? chiedevano le vicine.

Sapevo quanto conforto le desse la penombra, sapevo sempre cos’era meglio per mamma. Quindi ho comprato lampadine fioche e spessi tendaggi marroni. Contavo uno, cinque, dieci… e subito dopo cantavo per lei. Che scuoteva il capo fin quando non si addormentava, con la riversina fino agli occhi stretta tra le dita e il solco nella fronte sempre più profondo.

Ninna Mamma
Fai la nanna
Che nei sogni troverai
Quella pace che non hai 

Scaccia tutti i tuoi pensieri
Quelli grigi e quelli neri
Che tuo figlio ti è vicino
Non ti lascia il tuo bambino 

Se apri gli occhi te li chiude
Così scaccia le tue pene
E fa buio tutt’intorno
Per il bene del tuo sonno 

Ninna Mamma, fai la nanna
Fai la ninna, cara Mamma

È stato il dottore a modificare la cura, a ordinare iniezioni, ad aggiungere capsule. Nausee, vomito e mal di pancia sono comparsi allora. Le gocce di sempre non avevano mai influito su stomaco e appetito. Pur pigramente, mamma aveva sempre mangiato. Per questo continuavo a dargliele. Eppure, si nutriva sempre meno e non si alzava più. Preoccupato per la sua inappetenza, ho tirato il collo a una delle sue galline.

L’ho spiumata in cucina. Su e giù nell’acqua bollente del calderone, tra miasmi di piume marcescenti e carne sudata. Lei mi guardava con disgusto dalla camera. Poverina, l’odore di cibo doveva disturbarla. Ho fatto brodi e bolliti anche delle altre, non li ha voluti mai. Stringeva le labbra, girava la testa, si sbrodolava fin dentro al seno, sporcava le lenzuola. Una, cinque, dieci… poi le capsule, poi le siringhe, poi Ninna Mamma. E finalmente chiudeva gli occhi.

Dopo una settimana, la pelle aderiva al viso tirata e raggrinzita come quella degli stoccafissi.

Ho maledetto la vecchia e ho chiamato l’ambulanza.

Tac, indagini, risonanze, ossigeno, ago a farfalla, flebo in vena. Cinque notti in ospedale senza lasciarla mai. Ninna Mamma, Fai la nanna, Che nei sogni troverai, Quella pace che non hai… Il quadro organico era buono, ma fegato e pancreas erano inspiegabilmente compromessi e i valori del sangue tutti sballati. Non capiamo perché, dicevano i medici. L’hanno predisposta per la nutrizione parenterale e dimessa.

Una, dieci, venti… Spingevo lo stantuffo nei tubicini trasparenti perché le gocce dessero sollievo immediato. Poi, Ninna Mamma… e coperte su coperte da quando strani tremori la attraversavano improvvisi. Scuotevano il letto, tanto erano forti.

A poco serviva alimentare il fuoco nella stufa, mamma tremava sempre. Allora, ho riesumato il prete dalla rimessa. Ho tolto le ragnatele prima di impregnarlo di kerosene e incellofanarlo per due giorni, affinché l’olezzo asfissiasse i tarli. Poi ho messo il braciere nel prete e il prete sotto le lenzuola, rinvigorivo i tizzoni non appena si annerivano e li rimettevo ardenti.

Deve essere stato uno dei suoi tremori a smuovere la brace. Quando ho sentito l’odore di fumo, ho aperto la porta. Un’unica colonna di fiamme univa il letto alle travi del soffitto.

Sotto il sole sbiadito, un piccolo escavatore solleva le zolle.

Frammenti di lettere dorate su fondo viola si mescolano ai sassi e ai cocci di vasi di altri morti, una pioggia sorda che a poco a poco ricopre la bara.

Mi fanno le condoglianze con un cenno del viso. Ogni tanto mi fissano. Se alzo gli occhi, distolgono lo sguardo. Tranne la vecchia. Lei non smette di guardarmi e muove le labbra in silenzio. Riconosco il rosario, e anche gli abiti sembrano quelli di allora. L’avranno portata qui i sensi di colpa.

Ho lanciato un fiore prima che la sepoltura emergesse oltre il livello del prato. Il becchino sorregge la croce provvisoria e si scosta di lato per far spazio al braccio metallico dell’escavatore. Il macchinista lo appoggia sul legno e conficca la croce in profondità. Sostituirla con una lapide degna di mia madre è tra le ultime cose che farò per lei, oltre a comprarle fiori e a farle visita fino all’ultimo mio giorno.

Ti accolga la pace che non hai avuto in vita. Tuo figlio. Depongo il cuscino sulla terra fresca e canto ancora per lei, così a bassa voce che non sento le parole. Sistemo la scritta. Addrizzo il gambo ritorto di una rosa. Allargo la nebbiolina tra le foglie per coprire un buco nella composizione. Sono accucciato quando alla vecchia cade il rosario.

Guarda dietro di me.

Giunge le mani.

Un’ombra mi scavalca e muore lunga sul nome di carta di mia madre. Mi volto. È un uomo alto. Robusto. Indossa un cappotto nero e il cappello a tesa larga è dello stesso colore. Ha un grande neo in rilievo sotto l’occhio destro. Ai suoi piedi, una blatta ribaltata graffia l’aria.

Foto di 1113990 da Pixabay

L’egemone degli anelli

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di Giorgio Mascitelli

Nei giorni scorsi l’apertura della mostra dedicata a Tolkien a Roma ha portato numerosi commentatori, italiani e britannici, a parlare di costruzione dell’egemonia culturale della destra, in particolare per la presenza della stessa Giorgia Meloni all’inaugurazione e per il finanziamento dell’iniziativa da parte del ministero della cultura. Per parte mia devo confessare che la fotografia della presidente del consiglio che gioca con un flipper che riproduce personaggi tolkieniani mi è parsa un’immagine bizzarra, ma non particolarmente egemonica. Più prosaicamente ritenevo che con l’espressione gramsciana i diretti interessati si riferissero all’ondata di nomine di giornalisti d’area nei consigli d’amministrazione di molte istituzioni culturali.

Mi sbagliavo perché una mostra ha indubbiamente un significato più profondo ed è spesso stata una rivendicazione di una politica culturale se non di un programma politico. Se però penso a casi illustri del passato, come la mostra sugli Anni Trenta a Milano nel 1982, tuttavia non riesco a trovare un senso politico così immediato in questa di oggi: allora c’era un’ambigua rivalutazione del ventennio nella sua quotidianità e nella sua cultura provinciale, sulla quale il PSI giocava un ruolo di partito che si rivolgeva a una platea rampante di destra. Anche la mostra del 1937 a Roma per il bimillenario della nascita di Augusto, ebbe delle evidenti referenze politiche: è appena terminata la guerra in Etiopia, si avvicinano le leggi razziali, il mito di Roma imperiale è fondamentale per il fascismo. Qui invece avrei più difficoltà a indicare un disegno, che non sia una sorta di gioco di società per ex missini che si ricordano dei tempi di Campo Hobbit.

Intendiamoci non solo Tolkien in Italia è stato introdotto da un editore non certo di sinistra come Rusconi e da un intellettuale tradizionalista come Elemire Zolla, ma lo stesso scrittore inglese era un conservatore cattolico caratterizzato da una notevole estraneità alla modernità. E questo suo aspetto politico non è evidente solo agli italiani, se è vero che l’aracnologo russo Kirill Yeskov ha pubblicato nel 1999 una versione del romanzo intitolata L’ultimo portatore dell’anello, dove Mordor e i suoi alleati meridionali sono rappresentati come potenze povere il cui processo di sviluppo tecnologico è ostacolato da Gandalf e dagli elfi per mantenere lo status quo: ne ha parlato a suo tempo su Nazione Indiana Jan Reister  qui: https://www.nazioneindiana.com/2011/12/05/the-last-ringbearer-una-fanfiction-tolkeniana/Peraltro, per quanto conservatore, mi sembra che Tolkien sia separato dall’attuale destra italiana da almeno due valori non secondari ossia un amore per la natura incontaminata (e conseguentemente uno scarso apprezzamento per le automobili) e il suo senso dell’umorismo.

Da antico lettore di Tolkien posso solo dire che trarre insegnamenti o modelli politici da una straordinaria avventura della fantasia come Il signore degli Anelli non mi sembra il modo giusto per leggerlo: è un mondo fantasy, ispirato in parte al Medioevo effettivo e in parte a quello fantastico dell’epica, dove le categorie di destra e sinistra non esistevano. Tra l’altro non credo che Tolkien volesse proporre utopie politiche, bensì solo cercare rifugio nel fantastico da un mondo che non gli piaceva e da certe sue ossessioni personali per la mortalità e la caducità umane. E poi la terra del male Mordor e il suo signore Sauron  così come sono stati identificati negli anni cinquanta con l’URSS di Stalin, lo possono essere altrettanto agevolmente con la Germania di Hitler. Indubbiamente però chi vuole proporre degli insegnamenti politici tratti da un mondo medievale, più o meno fittizio, produrrà automaticamente un discorso reazionario, soprattutto perché ha a che fare con materiali particolarmente adatti ad alimentare quella macchina mitologica a cui la destra, da De Maistre in poi, ha sempre fatto ricorso. Eppure penso che la fruizione ludica e infantile dell’opera, che si può notare per esempio con il fenomeno del cosplay, finisca in questo caso con il costituire un serio ostacolo, involontariamente democratico, all’uso della saga nella costruzione di una macchina mitologica. Insomma lo spirito del gioco e della favola, dove buoni e cattivi operano in un mondo per definizione lontano dal reale, rendono scarsamente credibile ogni tipo di interpretazione, o mitologizzazione, attualizzante e ideologizzante dei testi, salvo presso piccole nicchie di pubblico.

Peraltro se guardiamo all’accezione più generale del concetto di egemonia culturale, e non alla sua versione tascabile da consiglio d’amministrazione, non c’è alcun bisogno che la destra ricorra a Tolkien per ottenere l’egemonia culturale per il semplice motivo che questa egemonia nella società, in particolare italiana, ma più in generale occidentale, ce l’ha già. L’atto di nascita di questa egemonia è l’intervista che nel 1981 il premio Nobel per l’economia Von Hajek rilasciava al giornale cileno Mercurio durante la dittatura fascista di Pinochet, dichiarando di preferire una società autoritaria che garantiva le libertà individuali, ossia quelle connesse con la proprietà privata, a tante democrazie che pianificavano l’economia limitando i diritti individuali dei ceti proprietari. In questa contrapposizione tra libertà individuale e democrazia politica, bisognosa dello stato sociale per rafforzarsi, Von Hajek realizzava le condizioni ideologiche per unificare tutta la destra, quella più moderata e quella più estrema, superando l’impossibilità di fatto che la seconda guerra mondiale aveva prodotto, in ragione del fatto che quell’intervista non era un fatto estemporaneo, ma la conseguenza di una collaborazione della scuola di Chicago con l’amministrazione di Pinochet, che trasformò il Cile in un laboratorio economico, e politico, per l’attuale società. In questo modo il culto dell’uomo forte, declinato ambiguamente ora come individualismo proprietario teso a difendere le proprie ‘libertà e a costruire la propria carriera, ora più riconoscibilmente come soggetto tradizionalista che deve difendersi da striscianti intrusi nella sua privata proprietà, veniva sdoganato, pur senza toccare apparentemente i punti saldi del discorso democratico, e proposto dagli anni ottanta come modello di successo in tutto l’Occidente.

E’ solo in un mondo del genere che diventa possibile che in Italia un partito con la storia di Fratelli d’Italia possa vincere le elezioni, aiutato da una sinistra che rinuncia ai propri valori cercando di offrire versioni soft ed edulcorate di quelli della competizione e dell’individualismo, per esempio con il cosiddetto welfare delle opportunità di blairiana memoria o con la meritocrazia. Il discorso pubblico o meglio il discorso mediatico è a tal punto dominato egemonicamente dalle idee di destra, che ormai esse sono usate tranquillamente da commentatori che si sentono di sinistra, basti pensare al ricorso sistematico alle categorie semplicistiche di buoni e cattivi nell’analisi politica o ancora alla diffusa allergia, sviluppatasi in questi mesi nei confronti di coloro che trattando di Ucraina o di Palestina, parlavano di complessità della situazione, rifiutandosi di prendere in considerazione il fatto in sé isolato dal contesto. Ora è indubbio che questa allergia alla complessità del contesto è emersa la prima volta quando la destra ha usato il tema delle Foibe per scardinare la natura antifascista della Costituzione, presentandole come evento completamente avulso dal quadro storico della seconda guerra mondiale.

Per questi motivi non credo che ci sia bisogno di ricorrere agli Hobbit per raggiungere un’egemonia delle idee di destra che già esiste nella società. Peraltro gli Hobbit, secondo il loro creatore, sono gente discreta e godereccia, che ama sopra ogni cosa mangiare, bere e stare in compagnia, e per ciò non credo che si troverebbero particolarmente a loro agio in un mondo dominato da un superomismo di ritorno sia in versione manageriale sia in quella standard.

Perché un libro sul naif?

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Marino Magliani intervista Roberto Carvelli

MM Perché un libro sul naif?

RC Sono partito – è un po’ la matrice della collana della Piccola Filosofia di Viaggio di Ediciclo, per la quale avevo già scritto una sorta di matrice di osservazione del viaggio urbano del flâneur, La gioia del vagare senza meta su cui mi ero più volte adoperato al vivo – da un discorso e da una parola. Qui naif. Sono partito da uno stigma, quello della semplicità. Inaccettabile in cultura, inaccettata in società. Anni fa ho sentito un signore giapponese essere incalzato da una domanda su una parola. All’ennesimo ‘in che senso?’ rispose così: ‘in senso di vocabolario’. Sono partito da un vocabolo che purtroppo ha dovuto essere registrato in questa omissione, “originale”. La naïveté è l’originale. La naturalità, per citare l’etichetta antica della nostra birra più nota. Il naif vive in natura. Forse siamo noi che viviamo in cattività e ci siamo disabituati a quell’osmosi con il mondo. L’ingenuità è lo stigma.

MM Parli poco di pittura ma a sorpresa molto di letteratura…

RC Ci sono molti scrittori che praticano, così come nella vita, non l’ingenuità, ma la naturalezza. Il lavoro meritorio di una casa editrice di Ladispoli, RFB, che ha fatto conoscere le prove di autori italoamericani come Pascal D’Angelo o Pietro Di Donato, e del suo bellissimo Cristo fra i muratori, si unisce al meraviglioso lavoro di intercettazione del personale autodidatta che fa l’Archivio dei Diari di Pieve Santo Stefano – penso a Vincenzo Rabito che è il caso più di scuola di quanto il racconto di sé possa assurgere alla letteratura per la strada dell’improvvisazione “ad orecchio”. Poi mi sono permesso di recuperare il bellissimo lavoro poetico dell’abruzzese di Colledimacine Clemente Di Leo, di cui non si parla da un po’, purtroppo.

MM E poi mi ha colpito questa tua incursione nell’opera di Antonio Delfini…

RC Delfini non si potrebbe definire di per sé naif, ma mi sono permesso di unire i puntini di una cosa che avevo letto in Pianura di Belpoliti. Meglio, partendo da Cesare Garboli, annotato da Marco Belpoliti su Delfini. Mi vien da pensare che l’atto di scrivere in sé, credo che lo sappiano ingenui e non, genera da solo un’emozione. E Delfini la provava in un modo del tutto evidente e forse indecente. Leggendo questa cosa che scrive Belpoliti di Garboli ho pensato che lo scrittore “professionale” è uno che sa gestire e governare questo processo di riduzione o semplificazione dell’emozione creativa. È come se non fosse in grado di fingersi scrittore, per non tradire questa emozione perfetta e pura dello scrittore che in qualche modo non voleva inquinare. Magari era scrittore di racconti per questo, o magari per lo stesso motivo per cui lo era Carver – che lo scrive con più dolore – per aver troppo tempo impiegato nella vita. Ma ora per ribaltare la tua domanda, a sorpresa abbiamo parlato poco di arte.

MM Già, nel libro ce n’è pure tanta, come è logico.

RC Come premettevo la regola del gioco del libro (e della collana) è il discorso. Non è un saggio, non prova a esserlo. C’è molta osservazione e nello scrivere il libro mi è stato prezioso ritrovare e rivedere a Terni – si fa fatica a trovarlo e nel mio caso è passata una domenica abbastanza solitaria nell’esposizione – il lavoro di Orneore Metelli. Il modesto calzolaio che dipingeva in cantina e firmava con nome e cognome aggiungendo una scarpa forse come captatio benevolentiae. Il naif non finge, dipinge e manca alcune regole prospettiche, ma Metelli, per esempio, riesce a rappresentare il passaggio dall’agricoltura e dall’artigianato all’industria, dall’ufficialità all’intimo. In questo è naif: chi lo è manca le proporzioni, non sente il grande, non si fa intimidire dagli ingombri o dalla mancanza di tecnica. Poi, se dipinge la domenica per dirla con Conte, può essere in un museo o una collezione il lunedì rimanendo lo stesso calzolaio che era la settimana prima.

MM Ma tu metti anche la pulce nell’orecchio del falso naif…

RC Sì, spesso la voce naif è finita per essere imitata, una cosa tipica ad esempio dell’avanguardia post 63, anche interessante spesso. La mia è una chiamata alla verifica più che di identità di rispetto. Non si può cercare di essere un semplice e poi essere snob. Molta scrittura è stata ed è spesso imitazione di voce più che di sentimento. Nulla di male ma la naïveté vera, quella che andrebbe ricercata più che temuta, passa per un sentimento di purezza, più che della ricerca di una purezza fine a sé

Il magico potere della danza di comunità

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testo e foto di Paola Ivaldi

Il corpo è la nostra casa e la danza è la sua poesia.
Carolyn Carlson

È nato in estate, il gruppo. L’atto fecondante è scaturito dalla call lanciata per i festeggiamenti del ventennale de La Piattaforma – La Città Nuova, il festival teatrale che in quattro lustri ha saputo saldamente radicarsi nel fertile sottobosco del milieu artistico torinese al contempo aprendosi alla cittadinanza e ramificandosi in virtuose quanto inedite azioni creative, una su tutte: la danza di comunità.

Gli incontri, propedeutici alla mise-en-scène della restituzione pubblica programmata per fine ottobre, si svolgono sotto la nobile guida di Raffaella Giordano che, ancor prima del primo giorno, invia al gruppo un messaggio delicato quanto il titolo della performance cui insieme daremo vita: Filo d’Aria.

Quelle di Raffaella sono parole alate, dotate di particolare grazia e luccicano preziose, infondono fiducia: evocano lembi di terra fertile da arieggiare, dissodare, per piantare semi, nutrire il campo, parlano di correnti, spifferi o venti, che ci porteranno suoni, gesti e segreti. I semi del gruppo potranno germogliare verso il cielo o silenziosamente avanzare dentro terre nascoste. Chi può dirlo?

Il gruppo assume dunque, a fine giugno, una propria forma germinale per dare avvio alle prove, inizialmente chiamandosi semplicemente con i nomi di coloro che ne fanno parte ed essendo del tutto ignaro di che cosa sia il campo di cui scrive Raffaella nel proprio messaggio. Il campo lo faremo noi, ma questo lo metteremo a fuoco solo più avanti.

Le prove sono distribuite in tre distinte sessioni: cinque giorni a cavallo tra giugno e luglio, cinque a settembre, un’intera settimana a ottobre che si chiuderà con la restituzione finale di fronte al pubblico nell’ambito di “FESTE”, l’evento che, dal 28 settembre al 31 ottobre, fungerà da contenitore di numerose tappe di celebrazione dell’arte, della comunità, della natura, con il contributo appassionato di dodici coreografi, trenta musicisti, novanta performer.

La danza di comunità si basa sul coinvolgimento attivo di persone con età e abilità eterogenee e comunque non danzatori professionisti. Il gruppo che siamo noi, infatti, risulta molto diversificato sia sotto il profilo anagrafico, che va dai 25 ai 68 anni, sia per provenienza e interessi, ma – e questa è la sensazione straordinaria che fin da subito si rivela quasi tangibile – siamo accomunati dal desiderio di dissodarlo e nutrirlo, quel campo che torna e ritorna nel discorso, non solo coreografico, di Raffaella.

Durante le quattordici giornate dedicate alle prove, in tutto una cinquantina di ore distribuite in un arco temporale di quattro mesi, nel tentativo di dare anima e corpo alla nostra architettura immaginaria, ho appuntato sul taccuino molte domande e poche risposte. Impariamo a familiarizzare con l’apparente disordine del nostro movimento all’interno del campo, entrando in confidenza con il tantissimo poco o il pochissimo tanto. L’incitamento ricorrente di Raffaella è, senza ombra di dubbio, release!

La difficoltà maggiore, almeno per me, è quella di conciliare la vita lavorativa e le esigenze famigliari con la disciplina degli orari; poi c’è il corpo, a volte impacciato, ingolfato, così poco allenato a dare adeguata attenzione e cura al gesto, al movimento, al rapporto tra gli spazi e gli oggetti, tra il vuoto e i corpi, tra noi-soli e noi-insieme… alone together.

Per l’intensità dell’impegno richiesto dalla full immersion di ottobre decido di concedermi qualche giorno di ferie. E mi sorprendo a considerare che non ho valigie da preparare né tantomeno check-in online da effettuare. Mi appresto, infatti, a compiere il tratto finale di un viaggio intrapreso nel raggio di pochi chilometri da casa. Avverto l’intima gioia di un privilegio, quello di addentrarmi, a piccoli passi, nel territorio della prossemica, per esplorare una geografia misteriosa, che dà infinito spazio alla poetica del movimento ed è in grado di nutrire, di un nettare sublime, i rapporti fisici tra gli esseri umani messi così a dura prova dalla crudele velocità e dalla distrazione di massa oltre che dalla graduale dissolvenza dei medesimi in una sorta di impostura virtuale.

Al termine di ogni incontro, la voce carezzevole di Raffaella scioglie come per incanto tutte le tensioni muscolari: dai, forza, facciamo il nostro cerchio… al che noi, stanchi e remissivi, molliamo tutto, morbidamente sedendoci a terra, esprimiamo gratitudine per il lavoro svolto insieme, gratitudine verso il gruppo. Gratitudine, indugiando in un silenzio lieve di piuma. Perdutamente offline e felici, ci teniamo per mano, chiudiamo gli occhi. Stiamo. Siamo.

Il gruppo, che nel frattempo non si chiama più Cristina Gaia Giuseppe Lorenzo Michela Nadia Paola Silvia, essendo stato promosso a “comunità estemporanea di cittadinanza artistica” (così veniamo presentati nella brochure e in conferenza stampa), si esibisce il 29 ottobre nella sontuosa scenografia del Salone d’onore della Palazzina di caccia di Stupinigi, patrimonio UNESCO dal 1997. Nata per il piacere e il divertimento della corte sabauda, luogo di sofferenza e di morte per un numero incalcolabile di animali, l’inconsueta location viene appositamente scelta per essere abitata da dispositivi artistici trasversali, facendosi palcoscenico di riconciliazione per molti degli eventi di “FESTE”.

“Connessi con la domanda se sia possibile che la danza trasformi la nostra relazione con la natura, abbiamo aperto il campo all’ascolto e seminato indizi nella fiducia di potervi accogliere in questo spazio comune”. Le parole di Raffaella sostengono e, a loro volta, sono rinvigorite dal paesaggio sonoro della performance che si apre con il potente bramito di un cervo e si chiude con la voce di Laurie Anderson… lovecompassion… le parole si levano alte nell’ampio Salone juvarriano, restando come sospese per poi andarsi auspicabilmente a sedimentare nelle coscienze dei più.

Nel mezzo, tra il cervo e Laurie Anderson: noi, alle prese con i nostri corpi e il filo d’aria che – adesso lo sappiamo – altro non è che il respiro: il gruppo, alleandosi con la forza di gravità, si assume la responsabilità dei propri movimenti, di esserci, stare, in una semplice naturale nudità identitaria, senza cadere nella trappola di una lentezza di autocompiacimento, senza cedere alla tentazione di esibirsi, ma limitandosi a esporsi allo sguardo altrui.

Filo d’Aria ormai alle spalle non posso tacere che il farne parte è stato un dono inatteso e un grande privilegio: il lungo processo di paziente tessitura della sua trama ha acceso sorprendenti scintille creative, scaldato cuori intirizziti, rinnovellando fede nei rapporti umani. Come diceva Pina Bausch? Danziamo, danziamo… altrimenti siamo perduti.

Nella mia città ideale realtà associative come La Piattaforma – La Città Nuova dovrebbero avere davanti a sé una vita lunga e fertile, contribuendo a fare di una città danzante una città più felice. Nella mia città ideale le opportunità di incontro e aggregazione andrebbero incoraggiate e sostenute, alimentando un’attività artistica variamente declinata, supporto inclusivo e generativo di una rete di sostegno su scala locale; l’arte intesa non solo come esercizio di passiva contemplazione, ma concepita anche in plurime forme partecipative.

La danza di comunità, sempre nella mia città ideale – quasi utopistica, ancora invisibile, ma non impossibile – è in grado di esercitare un’azione di resistenza verso quella forte corrente che ci sta spingendo, con metodica ostinazione, in direzione opposta, tendendo a incurvare le schiene e a piegare verso il selciato sguardi sempre più miopi di persone sempre più sole.

Ecco: il magico potere della danza di comunità consiste nella capacità di creare spazi e tempi di gioia collettiva, così utili a coltivare il campo di cui ci scrisse Raffaella in un mese di giugno che pare già così lontano, ma ancora ci vive dentro, soleggiando le nostre terre nascoste.

Bookcity

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di Roberta Salardi

Olio di gomito per pulire gli elementi della cucina, poi di corsa a un evento pomeridiano di Bookcity. Quest’anno forse riesco a seguirne due o tre, anche se me ne ero prefissa cinque o sei.

Nel grande teatro del centro la sala principale è dedicata alla presentazione di un romanzo storico-rosa che sta spopolando. È difficile entrare per la ressa: una moltitudine di ragazze in coda per farsi firmare le copie dall’autrice ostacola non poco l’accesso alle altre sale che ospitano diversi eventi. Il mio è al primo piano: Mappe nel caos della poesia contemporanea. I relatori cercano di dire qualcosa su un mondo corporativo e autoreferenziale (sic), quello della poesia contemporanea che cita e ordina sé stessa, consegnandosi alla posterità già confezionata in alcune antologie e mappe orientative.

La saletta non è proprio vuota, anzi più piena del solito, perché, a differenza dei tre-quattro ascoltatori che abitualmente costituiscono il fedelissimo pubblico dei reading, qui si stanno concentrando una decina di persone, forse qualcuna in più, delle quali soltanto alcune si salutano, altre è la prima volta che si vedono: e questa sì che è una gran differenza rispetto alle solite letture pubbliche di poesia, dove i pochi convenuti si conoscono, si sono già letti e ascoltati, se la cantano e se la suonano, comunque contenti di ascoltarsi e auscultarsi vicendevolmente. I lettori di poesia sono i poeti stessi, si diceva qualche tempo fa; ora si può aggiungere che i poeti stessi sono anche i critici della poesia. Un relatore osa di più: per un certo periodo i veri e propri critici (quelli non poetanti?) hanno avuto paura a pronunciarsi sulla poesia attuale.

Qui solo un gruppetto chiacchiera, mentre altri presenti, perlopiù estranei, sono calati ciascuno sui suoi appunti, su pagine sfogliate qua e là della rivista che viene presentata o sull’immancabile telefonino. Il mio l’ho spento per evitare spiacevoli interruzioni, odiatissime in questi casi, in ogni altro luogo invece perfettamente consone all’ambiente, tranne in chiesa forse. Il silenzio discreto mi predispone bene fin dall’inizio.

Osservo la quantità di carte stampate e foglietti scritti a mano visibili un po’ dovunque. Se addirittura qualcuno sfoglia degli appunti, vuol dire che vi saranno tanti interventi, rifletto però con una punta di ansia. Rischio di perdere l’evento successivo, non ho molto tempo per fiondarmi da una location all’altra. Vedo schierati alla cattedra quattro relatori: un professore universitario + un assistente che introduce il discorso (era quello pieno di appunti) + un poeta anche giornalista anche conoscitore del mondo editoriale (così si presenta) + un altro poeta anche editore. Tutto si tiene, tutto delinea fin dalle premesse la ragnatela sottostante i discorsi che seguiranno. Gli ambienti di provenienza degli attori/autori in questione sono: l’editoria, il giornalismo culturale annesso e connesso, la frangia di accademia limitrofa alla società culturaleditoriale. Buona parte dei poeti nominati durante tutte le quattro relazioni sono a loro volta redattori o editori o addetti al lavoro editoriale, tra i pochi fortunati superstiti in un settore sempre più ridottosi nei decenni, con manovalanza ormai esigua, marginalizzato dalla più proterva industria dello spettacolo, dell’informazione e dei media.

In ogni caso noi lettori sfigati, che ancora si ritrovano perdendo ore di tempo libero intorno a una rivista cartacea vecchio stampo, siamo ospitati al piano di sopra, in una stanzetta piccola ma sopraelevata; l’esordiente romanziera con grande seguito di pubblico e tante follower in attesa di una copia-feticcio, al pianterreno, che appena fai qualche passo sei sulla strada nella polvere.

“La polvere mangia i libri,” asseriva mia madre invitandomi a spolverare la libreria cui ero tanto affezionata. “Più polvere in casa meno polvere nei nostri cervelli,” pensavo io, la mente fissa agli slogan femministi, il corpo buttato in tutto tranne che nei lavori domestici.

Si analizzano i principali orientamenti della poesia contemporanea, fondamentalmente due, veniamo edotti con un certo sollievo: i lirici e non, i classici e non, i neo-neo-neoavanguardisti (si potrebbero aggiungere prefissi a iosa) e i tradizionali, avanti di questo passo. Uno dei relatori, il più simpatico, pare per un attimo confondersi nel groviglio interpretativo. Sta elencando le ulteriori biforcazioni e ramificazioni (sottocategorie in cui addirittura compaiono sottoinsiemi occupati da un solo poeta, il che comporta una serietà della situazione, perché è vero che ogni artista deve avere una sua originalità, ma anche una comicità derivante dall’immaginarsi il poeta solo sull’isola deserta, tipo il disperato Tom Hanks nel film che tutti conosciamo) di quei due rami principali dell’albero sempre più biforcatosi, che mostrano etichette difficilmente distinguibili l’una dall’altra, espressione di una maniacale esigenza di linneico ordinamento (quasi a dire: siamo qui, canonizzati sul nascere… nasciamo già canone… canonici, codificati, etichettati e chiusi nel nostro apposito  contenitore o posti sull’apposito scaffale di una biblioteca nazionale… tutti questi fogli imbrattati ma anche ragionati, ponderati, categorizzati sono già tradizione, nuova, ma pur sempre tradizione, la futura storia della letteratura… ci affrettiamo a sigillare il tutto, a salvarlo dall’oblio in saecula saeculorum eccetera eccetera).

Valuto a più riprese se acquistare una copia della rivista. Accanto alla scrivania delle vendite la maneggio un po’. Hanno parlato molto della copertina, che in effetti è significativa: mostra una grande nuvola foriera di tempesta che sta per abbattersi su delle rovine o su di una città, non è chiaro, la città potrebbe anche trovarsi sotto i bombardamenti e quella nuvola essersi levata dopo un’esplosione. Ci si sofferma sulle possibili letture dell’enigmatica copertina, si scattano molte foto a testimoniare che l’evento c’è stato davvero, nel caso qualcuno per i motivi più strani decidesse di dubitarne. Tutti ammiriamo la copertina ma il ragazzo volontario assegnato alle vendite ci mette in mano un opuscolo, non so se dell’editore o di Bookcity, incoraggiandoci a guardare quello, che è una sintesi e ha il considerevole vantaggio di stringere i tempi: “Questo è gratis”. Non ho tempo di guardarlo; gli avventori dell’evento successivo ci spingono per entrare. Ho rinunciato alla rivista: non sono riuscita a vedere l’indice, troppo complicato in mezzo alle correnti di entrata e di uscita. Le sottocategorie “conoscenza e mondo”, “mondo” senza conoscenza e “conoscenza” senza mondo m’incuriosivano non poco: non era affatto intuitivo capire la differenza tra l’una e le altre.

Il pomeriggio precedente a un altro incontro di Bookcity avevo visto un film sulla biblioteca di Umberto Eco; il film compreso e applaudito, Umberto Eco un po’ meno. In una delle interviste registrate aveva asserito che chi non legge non ha curiosità intellettuali quindi non è vivo. Quanto di più contraddetto dalla mia esperienza di vita: per quello che ho potuto constatare, le persone meno istruite e meno attratte dagli studi sono in genere le più vitali e gioiose. Del docufilm mi avevano affascinato i molti libri inquadrati nella casa di Eco e quelli distribuiti su molteplici piani in alcune grandi biblioteche del mondo, ma le parole dell’erudito showman sotto sotto lasciavano intravedere una sua spocchia da aristocratico che aveva accumulato un non indifferente capitale culturale e, con esso, sapere potere ricchezza. La curiositas certo l’aveva sospinto, ma la sua chiusura nello studio lo aveva forse allontanato da quella sensibilità profonda che invece dimostravano Leopardi, Proust, Cortázar quando parlavano del più bel fiore dell’anno e della vita o delle intermittenze del cuore che casualmente, per una suggestione esterna, un sapore, una luce, ci fanno recuperare il nostro passato perduto o dei nuovi rapporti umani, e sinceri, che potrebbero formarsi se un mutamento radicale avvenisse nel nostro stile di vita.

Mentre mi faccio largo per guadagnare l’uscita, sono attirata dal romanzetto rosa ma ironico della giovane autrice dal nome inglese ma italiana, si sussurra, mentre viene narrato già qualcosa di lei tra le fanciulle in coda. Sì, perché la fila per la firma delle sue copie, passata un’ora, non è ancora terminata. Troppo rosa però per i miei gusti, che sono ancora una ragazza degli anni Settanta e corro a un altro appuntamento con Bookcity, spero problematico, discutibile, contraddittorio, segnato su una mappa ingarbugliata sia per arrivare sia per uscirne.

( Nota dell’autrice: il presente racconto è ispirato a un aneddoto rielaborato liberamente)

 

Memorie da Gaza #1

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“Quella è mia sorella minore che riposa in una fossa comune”

di Yousef Elqedra

 

03:00… il bombardamento

Dormivano, tutto qui, quando alle tre del mattino, gli aerei dell’occupazione israeliana hanno fatto crollare la casa sopra le loro teste, riducendo in un solo attimo tre piani in macerie.

In pochi istanti abbiamo perso ogni singola persona che abitava nella casa, proprio nel centro della città. Sono morti tutti coloro che si trovavano all’interno, per un totale di ventisei martiri, per lo più donne e bambini. Tra le vittime c’erano mia sorella Shaima, sua figlia Marwa e suo marito, tutti uccisi nel brutale bombardamento israeliano.

06:00

A causa delle difficoltà di comunicazione, abbiamo ricevuto la notizia alle sei. Mio fratello ed io ci siamo precipitati sul posto, impotenti di fronte alle macerie che sembravano necessitare di un potere divino per essere rimosse. Fin dal primo momento, sapevo che non c’era speranza, che nessuno sarebbe potuto sopravvivere. L’esplosione aveva schiacciato i vari piani l’uno sopra l’altro. Le squadre della Protezione civile hanno fatto attenzione a qualsiasi rumore, cercato ogni corpo, ogni segno di speranza tra le rovine. Ma lì non c’era altro che un’opprimente impotenza e l’odore della morte.

09:00

Abbiamo aspettato fino alle nove del mattino quando è arrivata una ruspa che ha tentato di rimuovere le macerie. Dopo ore di lavoro attento ed estenuante, sono stati rimossi i corpi di cinque bambini e trasportati all’ospedale Nasser. La ruspa ha continuato a lavorare fino a quando non ha potuto più andare avanti. Purtroppo le macerie potevano essere rimosse solo attraverso macchinari specializzati.

11:00

Alle undici di quella mattina sono arrivati sul posto le ambulanze e gli uomini della protezione civile. Tutti aspettavano con ansia l’arrivo del macchinario “al-Baqir” specializzato nella rimozione di macerie, che aveva impiegato molto tempo per accedere al luogo.  Manovrando Al-Baqir hanno iniziato a rimuovere con perizia i soffitti e i muri crollati, in un processo che ha richiesto quattro ore.

15:00…verso la fossa comune

Alle tre del pomeriggio ventisei corpi sono stati estratti da sotto le rovine. Nessuno era sopravvissuto. Le ambulanze hanno trasportato i corpi all’ospedale, dove sono stati controllati, identificati, documentati, avvolti in sudari. Dopo l’ultimo addio, è stata recitata una preghiera per loro nel cortile dell’ospedale. Poi sono stati caricati sul retro di un camion, portati al cimitero e infine sepolti in una fossa comune.

Mia madre… la nonna con il cuore spezzato

La verità è che erano tutti addormentati nei loro letti ed è così che sono rimasti. Mia sorella Shaima era la figlia più piccola, quindi quella più amata e più viziata da mia madre. Essendo l’ultima, era la più vicina a lei negli ultimi 21 anni. Una vita breve, come quella della nipote Marwa, che non aveva ancora compiuto due anni. La notizia della perdita ha spezzato il cuore di mia madre, eppure di fronte a chiunque la guardi, lei è orgogliosa, più forte di una montagna, resistente, paziente, composta, sempre in preghiera e colma di gratitudine. Conserva le sue lacrime per il prossimo inverno, quando nessuno sarà in grado di distinguerle dalla pioggia.

Mio padre… “Ciao Sido”

Per quanto riguarda mio padre, è stata la prima volta che l’ho visto piangere, in ospedale, vedendo Shaima e sua figlia, con i loro corpi spezzati che giacevano lì. Piangeva, piangeva come un bambino. Aveva vegliato insieme a loro fino a tardi quella notte e mentre usciva di casa, sua nipote Marwa si è aggrappata a lui, dicendogli: “Ciao, Sido! (nonno)”. Mio padre continuava a ripetere questa frase più e più volte all’ospedale, al cimitero e al ritorno. Era in uno stato di shock, inorridito. Ho temuto che perdesse la testa, rendendomi conto di quanto fosse profondamente legato a loro e di come fossero il fulcro della sua vita, che aveva dedicato a loro.

Esiliato dalla mia storia a quelle degli altri

Quanto a me, ho lasciato Shaima undici anni fa, quando aveva dieci anni. Al mio ritorno a Gaza, ho scoperto che si era sposata e aveva una figlia che le somigliava incredibilmente sia nell’aspetto che nello spirito. Lei è stata la gioia che mi ha accolto al mio ritorno in patria, e ci ha reso felici, una felicità di breve durata culminata in una lunga giornata in spiaggia il venerdì precedente “la guerra”. La guerra che ha divorato quel poco di vita rimasta in questo piccolo lembo di terra assediato da diciassette anni.

Non ho ancora pianto mia sorella, sua figlia o suo marito. Non ho ancora sparso una sola lacrima per loro. Subito dopo la sepoltura, mi sono preoccupato di raccontare le storie delle persone sfollate dal nord di Gaza al sud, mentre la mia storia è stata dimenticata nel mezzo, come se non ne avessi una mia, come se fossi stato esiliato dalla mia storia verso quelle degli altri.

 

*

 

Yousef Elqedra è un poeta palestinese residente a Gaza. Questo testo è stato pubblicato per la prima volta in arabo su Raseef22; qui la versione inglese. Su Nazione Indiana appare nella traduzione di Sana Darghmouni e Pina Piccolo.

 

Sotto il cielo del mondo

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Gianni Biondillo intervista Flavio Stroppini

Flavio Stroppini, Sotto il cielo del mondo,
Gabriele Cappelli editore, 2020, 168 pagine

 

Uno dei temi fondamentali del tuo libro è la paternità. Quella all’apparenza negata ad Alvaro, il tuo protagonista, quella che dovrà vivere lui, essendo il tuo romanzo una lettera indirizzata alla figlia che verrà. Credi che oggi sia necessaria una ridefinizione del ruolo paterno?

Viviamo un periodo storico e sociale che ha portato a una ridefinizione del ruolo del padre. Fortunatamente l’autoritarismo del padre-padrone ha perso legittimità e interesse. All’interno del nucleo familiare ciò che è più importante è la coesione dei genitori nelle strategie educative. Credo che nella necessità di aiutare le nuove generazioni a capire, vivere e sognare il mondo che lasceremo loro in eredità la cosa più importante per un padre sia “esserci”.

 

Sotto il cielo del mondo è, a ben vedere, un viaggio iniziatico. Una sorta di giro per i porti di mare di mezzo mondo fatto da un uomo di montagna. Che rapporto nostalgico esiste, per un ticinese, nei confronti di questi paesaggi conradiani?

Ho sempre trovato la gente di mare simile a quella di montagna. In quei luoghi la grandezza della natura e i suoi tempi portano l’uomo a concepirsi non al centro del mondo ma piccola parte di esso. Gli elementi regolano il vivere delle comunità e l’uomo si adatta creandosi un carattere all’apparenza rude e selvatico. Mi è sempre piaciuto immaginare le isole come montagne capovolte, dove il cielo diventa il mare. Più che un rapporto nostalgico, quello con i paesaggi “di mare” raccontati nel romanzo, è un’occasione per guardarsi allo specchio.

 

La tua scrittura è continuamente “sopra le righe”, piena di immagini al limite del surreale (penso alle mucche volanti) e con toni trasognati e lirici. È una fiaba, in realtà, quella che racconti?

Ho bisogno di respirare i luoghi che racconto, di sbatterci addosso. Se lavorassi solo seduto alla scrivania di casa mi scatterebbe un allarme ogni volta che “un qualcosa” mi appare “al limite”. Invece è proprio vero che la realtà supera la fantasia. Se stiamo per un po’ fermi da qualche parte e osserviamo… abbiamo sempre delle sorprese. Ogni porzione di mondo riserva dei momenti “sopra le righe”. Ad esempio “la vacca volante”, una bestia ferita trasportata a valle da un elicottero, che ho visto mentre riposavo nei dintorni di un alpeggio.

 

(se v’interessa, l’incipit del romanzo l’abbiamo pubblicato qui)

 

Un dettaglio minore

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Questa storia inizia durante l’estate del 1949, un anno dopo la guerra che i palestinesi chiamano Nakba, la catastrofe – che ebbe come conseguenza l’esodo e l’espulsione di oltre 700 mila persone. Alcuni soldati israeliani attaccano un gruppo di beduini nel deserto del Negev, uccidendo tutti tranne un’adolescente. La ragazza viene catturata, stuprata, uccisa e sepolta nella sabbia. Molti anni dopo, una donna di Ramallah prova a decifrare alcuni dettagli che aleggiano attorno a quell’omicidio. È colpita da quel delitto a tal punto da trasformarlo in un’ossessione, non solo a causa dell’efferatezza del crimine, ma perché è stato commesso esattamente venticinque anni prima lo stesso giorno in cui è nata.

Adania Shibli sviluppa magistralmente due narrazioni che si sovrappongono e, in trasparenza, evocano un presente che non può prescindere da ciò che è stato. Con una prosa tagliente e inquietante. Un dettaglio minore va al cuore di un’esistenza segnata dall’annullamento e dalla privazione di sé, com’è la vita nella Palestina occupata, rivelandoci quanto sia ancora difficile riunire i frammenti di una narrazione rimasta troppo a lungo nascosta nelle pieghe della storia.

La nave di Teseo. Di Adania Shibli. Traduzione di Monica Ruocco.

Adania Shibli è nata nel 1974 in Palestina. È autrice di romanzi, racconti, opere teatrali, saggi. Nel 2001 e 2003 le è stato conferito il premio Qattan Young Writer’s Award-Palestine. Il suo romanzo Masās (Dār al-Ādāb, 2002), è stato tradotto in italiano con il titolo Sensi (2007), seguito dalla raccolta di racconti brevi Pallidi segni di quiete (2014). Il suo romanzo qui tradotto, Tafsīl thānawī (Dār al-Ādāb, 2002), è stato finalista al National Book Award 2020 e all’International Booker Prize 2021. Adania Shibli è anche impegnata nella ricerca accademica e nell’insegnamento.

Futuro (sillabario della terra # 20)

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di Giacomo Sartori

I danni che infliggiamo alla terra sono sempre meglio stimati, meglio documentati e più mediatizzati. C’è voluto che diventassero catastrofici, e che il clima impazzisse, perché si cominciasse a prendere atto che qualcosa va fatto. Ci sono voluti molti decenni, durante i quali chi metteva in luce gli effetti delle agricolture solo mirate ai redditi immediati era tacciato di incompetenza, di rifiuto della scienza, di velleitarismo, se non di oscurantismo, di esoterismo. Ora tutti sono d’accordo, almeno a parole, che bisogna pensare a non nuocere alla terra.

Le tecniche per ridurre o contenere i guasti al suolo ci sono, come a dire la verità c’erano anche prima, perché per millenni l’agricoltura ha imparato a misurarsi con i pericoli di degradazione. Tutte hanno in comune una grande attenzione alla sua salute e alla dotazione di sostanza organica. Non è quindi questione di mancanza di alternative. E nemmeno di carenza di risorse: spesso i costi delle soluzioni ecologiche non sono elevati. Si dice che producono meno, il che è vero solo in parte. Avendo l’accortezza di conteggiare anche i vantaggi ambientali annessi e connessi, si prospetta piuttosto un indiscutibile guadagno, sul lungo periodo. Si deve però uscire da quella visuale di paccottiglia che considera i suoli dei substrati inerti, dei supporti per uno sfruttamento che vede solo i guadagni immediati, valutando solo le rese a ettaro, senza monetizzare i danni e le azioni per correre ai ripari. Troppo comodo, e troppo grave.

La logica vorrebbe che per forza di cose ora si deva tornare a rispettare la terra e le sue esigenze. Ma le cose non sono così semplici. I colossi agroindustriali si affannano per sostituire i composti chimici, sempre più impresentabili, con prodotti più naturali, compresi batteri e funghi che possono rivelarsi utili. Per assodato vizio l’assioma resta quello di trovare la medicina miracolosa per una specifica malattia o uno specifico parassita, i coadiuvanti e le vitamine più promettenti, senza guardare all’insieme e ignorando le soluzioni già esistenti, rincorrendo esclusività e brevetti. Quasi in natura non ci fossero interconnessioni, e nelle coltivazioni non contasse più di tutto la prevenzione e la salute generale.

La loro ragione di esistenza resta quella di guadagnare il massimo, con qualsiasi mezzo e a qualsiasi costo. Ora vedono aprirsi un nuovo immenso fronte di potenziali guadagni, questa volta con il cappello del rispetto per l’ambiente e dell’high tech. Dove non hanno impedimenti, e cioè nella maggior parte dei paesi poveri, continuano imperterriti con la chimica durissima, facendo gli stessi danni con gli stessi composti messi fuorilegge dai Paesi più benestanti. La morale, il senso di responsabilità, o anche solo il buon senso non hanno alcun spazio.

E la scienza agronomica? Per altrettanto consolidata cattiva abitudine anche lei propone più spesso soluzioni puntuali, preferibilmente altamente tecnologiche, leggasi costose, piuttosto che cercare di mettere assieme tutti gli elementi in gioco, mirando a visioni d’insieme, cioè realmente ecologiche. Si piega alla religione delle nuove mirabolanti tecnologie, ben foraggiata dalle ditte che contano di guadagnarci sopra, e ignara di come funziona la natura, predica di avere soluzioni miracolo. Credo che si deva pensare a questo, quando si strombazza che c’è bisogno di più scienza e più tecnologie. Scienza e tecnologie possono fare molti e irreparabili danni, il recente passato dell’agricoltura deve servire da monito.

E cosa dicono gli agricoltori convenzionali? Temono le regole restrittive e i maggiori costi che accompagnano i cambiamenti in direzione ecologica, paventano un ulteriore rosicchiamento dei loro redditi, già molto ridotti. Considerano di doversi fare carico di enormi grane aggiuntive per fare contenti gli abitanti delle città, che non hanno idea di quanto sia complicato il loro lavoro. Sono sempre più a disagio, e spesso pronti a seguire caporioni populisti arroccati su posizioni becere, in combutta con le loro organizzazioni di categoria, altrettanto retrive, che negano danni e cambiamenti climatici.

Sono avvezzi a fare quello che i tecnici, formati nell’egemonia culturale dell’agrochimica, dicono di fare. Hanno perso l’abitudine di osservare la terra e a interpretare la sua salute, a prendere atto delle evoluzioni nel tempo, a ragionare e a avere voce in capitolo. Quando invece le vere soluzioni non impattanti, adatte alle infinità di situazioni – ogni micro-regione è diversa, e perfino ogni campo tende a esserlo – possono essere trovate solo con gli agricoltori che sono sul pezzo. Con la loro capacità di osservazione, la loro esperienza e la loro inventiva. La vera e forse unica agroecologia è questa, e solo questa.

Ma allora, mentre sono in corso questi sommovimenti di portata in realtà epocale, il comune mortale può fare qualcosa, può in qualche modo influire? Certo, può fare moltissimo. Può non dimenticare mai che la nostra esistenza è strettamente legata a quella della terra, e solo la follia nella quale ci siamo imbarcati può averlo rimosso dalla nostra coscienza. Può guardarla quando passeggia e quando viaggia, contemplandola come si contemplano le cose importanti, badando al suo aspetto e provando a immaginarsi se è contenta di come è trattata. Anche senza avere nozioni particolari può cercare di metterla in relazione con le rocce del posto, con le piante che fa crescere e con il paesaggio. Non occorre essere degli psicanalisti, per capire le persone e avere intuizioni al loro riguardo, per porsi delle domande. È la stessa cosa. Ma va benissimo, e forse è ancora meglio, un po’ di sana soggezione, liberandosi della nostra sete di spiegare e comprendere tutto.

E può fare poi mentalmente il legame, l’abitante della Terra che vuole convivere in pace con la terra, tra quello che mangia e i suoli. Pensando che tutti i vegetali – cereali, leguminose, verdura e frutta che siano – compresi quelli dei cornucopici banconi dei supermercati, vengono coltivati da qualche parte con metodi che possono essere più o meno impattanti per la terra. E quindi può scegliere di acquistare alimenti con i marchi biologici e biodinamici, pur sempre una gran bella garanzia, o provenienti da mercati locali dove l’impiego di metodi non nocivi si basa sulla fiducia, alla vecchia. Restando sui prodotti di stagione e meno sfiziosi la differenza di prezzo molto spesso non è grande. Molti marchi che di ecologico non hanno proprio nulla si sono fatti furbissimi, e tentano di abbindolare con questa e quella millanteria, gli zero residui e compagnia bella, ma con un po’ di accortezza si sgamano gli specchietti per le allodole, le fandonie e le imposture. Del resto basta dedicare un po’ di tempo per documentarsi, come lo si fa quando si compra un qualsiasi altro aggeggio. Perché non per il cibo? È forse l’atto militante più importante: i presupposti della devastazione sono l’indifferenza e l’ignoranza.

E può mangiare, il cittadino che vuole esprimere il suo dissenso per le agricolture devastatrici, pochissima carne. Gli animali, e in particolare i bovini, richiedono quantità enormi di alimenti, che requisiscono il grosso delle terre agricole mondiali. Derrate che possono nutrire gli uomini, terre che possono alimentare direttamente gli umani. Una grossa fetta dell’umanità è vegetariana, non è vero che la carne è necessaria. Ma si può benissimo mangiarla, basta che sia poca. In quantità ridotta gli animali fanno molto bene, con le loro deiezioni, alla terra.

Naturalmente poi ci sono le elezioni, e la politica: è nelle istanze istituzionali che le decisioni vengono prese, è lì che le grandi svolte possono essere finanziate. L’inerzia e il negazionismo ambientale diventano sempre più i grandi cavalli di battaglia delle destre e dei populisti, ormai è evidente. Ci sono le campagne di sensibilizzazione, le tante forme di militanza, le manifestazioni, e dall’altra la strapotenza economica e mediatica delle agroindustrie, la miopia delle organizzazioni degli agricoltori. Ci sono gli equilibri internazionali, le politiche europee e quelle mondiali, le sfere geopolitiche. Cosa serve che faccia attenzione io se altri non lo fanno, se la maggior parte dei governi assecondano i distruttori, se altri Paesi non fanno il contrario?, può legittimamente chiedersi il nostro amico della terra.

Contano invece anche le persone, è così che il movimento biologico è nato e s’è affermato. È cresciuto perché un numero crescente di agricoltori ci si è messo, mettendo a rischio i propri averi, adattandosi a redditi bassi, spesso creando tensioni in famiglia, e tutto ciò in barba ai detrattori e alla feroce guerra della quale sono stati vittime in tutti i Paesi. È diventato una realtà ineludibile, e paradossalmente anche un modello per l’agricoltura convenzionale, per molti aspetti, perché c’erano degli acquirenti disposti a comprare i suoi prodotti, anche pagandoli di più. Delle persone singole che hanno voluto associarsi a un’idea di cambiamento che si presentava come un‘utopicissima scommessa.

Pure adesso è così. Pure adesso contano anche gli acquirenti che fanno attenzione e che cambiano dieta per non fare troppo male alla terra, per provare a vivere in accordo con lei. Che si interrogano sulla nostra pazzia di non considerare le sue esigenze e sui prevedibilissimi esiti. Che si rendono conto che gli artificiosi prezzi bassi del cibo, e le misere remunerazioni degli agricoltori, implicano annientamento e enormi consumi di energie fossili. Che si dicono che in ogni caso tra pochi anni diventeranno scelte obbligate, se non vogliamo continuare a dividerci tra una minoranza che si ingolfa e spreca e una maggioranza che patisce, e a guerreggiare – l’esito è scontato – per questo. Tanto vale portarsi avanti, mettersi dalla parte della terra.

 

 

Cose da Paz

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Quando le macchine danzano, i poeti dormono?

di Massimo Rizzante

Partiamo da qui: la poesia, l’arte in genere, non ama ripetersi. Ciò non significa che non possa ripetersi. Ecco la mia teoria: quando la poesia non si accorge che si sta ripetendo, la Storia inevitabilmente si ripete. Ciò se si crede, come io mi ostino a credere che, a differenza della poesia di Omero, nessuno studio storico potrà mai dirci qualcosa di essenziale su chi sono stati gli antichi Greci.

Da almeno trenta, quarant’anni ci troviamo in questa situazione di ripetizione dell’identico che, sebbene in modi sempre meno fastidiosi, ancora non si è smesso di chiamare epoca “postmoderna”. Parola sbagliata, scrive Octavio Paz in L’altra voce, Poesia e fine del secolo (1990), per più di una ragione. Primo, perché “postmoderno”, che significa letteralmente “ciò che viene dopo il moderno”, dovrebbe semmai chiamarsi “ultramoderno”. Noi contemporanei, che lo vogliamo o no, siamo più moderni dei nostri simili di ieri e dell’altro ieri. Secondo, perché non basta porre un “post” davanti a una parola, montarci su come se fosse un trampolino, compiere un salto triplo avvitato e, una volta riemersi dal tuffo, nuotare d’incanto nelle acque di una nuova situazione storica. Terzo, perché l’epoca cosiddetta “postmoderna” non mi sembra abbia superato del tutto la concezione lineare del tempo e la sua identificazione con la critica, il cambiamento e il progresso, ovvero la concezione di un tempo aperto verso la terra promessa del futuro. Quarto, il “postmodernismo” in poesia e in arte è stata un’invenzione della cultura anglosassone che, con l’arroganza e l’insularità che sono proprie di quella cultura, le ha piazzato un “post” davanti al suo modernismo (Joyce, Pound, Eliot, etc.) facendo finta di dimenticarsi che più di trent’anni prima, agli inizi del XX secolo, in Francia e in Europa quello che in inglese si chiamava Modernism aveva preso il nome di avanguardia. Per non parlare dell’America Latina, dove un certo Rubén Darío diede inizio con la sua poesia al modernismo di lingua spagnola. Pensate che si tratti di una querelle linguistica? Io sono d’accordo con Paz: il mondo è un insieme di parole. O meglio, il mondo è un mondo di parole. Se le parole ci abbandonano, è il mondo che ci abbandona.

 

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Certo, scrive Paz, tutti più o meno sentiamo di essere alle soglie di un’altra epoca.

Tuttavia, non siamo alla fine della storia della poesia né alla fine della Storia (come qualche buontempone pronosticava), ma siamo, questo sì, alla fine di una tradizione poetica. Stiamo assistendo al “crepuscolo dell’estetica del cambiamento”. L’arte e la letteratura hanno perduto la loro forza di negazione, di critica (“Il poeta è moderno perché è critico ed è critico perché moderno”), il loro potere rivoluzionario (“Poesia moderna e rivoluzione sono sempre andate a braccetto”). Da diverso tempo le loro negazioni sono diventate ripetizioni rituali, formule prive di irriverenza e di spirito di rivolta, cerimonie senza trasgressioni. Mi chiedo: a che cosa sono servite le valanghe di studi sul “postmodernismo” che dal 1990, anno della pubblicazione del libro di Paz, ad oggi sono piombate come bombe a grappolo sulle nostre teste indifese? Beh, un risultato lo hanno ottenuto: hanno raso al suolo i pochi bastioni che restavano della critica letteraria, una struttura basata su gerarchie, livelli e talento. Ah l’élite del talento! Il nemico numero uno dei democratizzatori postmodernisti! E così a suon di bombe teoriche hanno fatto fuori (assieme a tutto il resto) il talento e raggiunto il traguardo che si prefiggevano: farla finita con il privilegio del sentire. Non ci sono modi più profondi o più autentici di sentire, e perciò di cogliere il valore di un’opera. I modi di sentire sono tutti uguali e tutti ugualmente importanti. Del resto, chi potrebbe metterlo in dubbio? Ci sarebbe bisogno di qualche transfuga uscito vivo dall’impallinamento postmodernista. Ma dove trovarlo? Forse in qualche casa di riposo per vecchi artisti o in qualche istituto di reduci dall’ultima battaglia sul canone occidentale!

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La nostra civiltà, dicevo, è un motore imballato: per quanto la scienza acceleri, l’arte gira a vuoto. Ciò accade in fondo perché la fede in Dio è stata a un certo punto sostituita dalla fede nella cultura e infine dalla fede nella scienza (e nella tecnica, sua sorella invadente). Se la Storia si trasforma in storia della scienza, cioè se si concepisce l’avanzare della civiltà occidentale solo come progresso scientifico, è evidente che ereditare e rinnovare la storia della poesia (dell’arte, della cultura) non riveste più alcun interesse. Qui Octavio Paz ci avverte. Oggi il posto del greco e del latino lo occupano le scienze. Un cambio, tutto sommato, naturale e giustificato. Per nulla naturale e tanto meno giustificato, afferma, il dominio dello scientismo, una “superstizione moderna”. Eh sì, perché le scienze non se ne sono state al loro posto, ma hanno traslocato abusivamente in campi che non hanno nulla di scientifico: la storia, la società umana, l’individuo, le sue passioni. Per cui una domanda, per quanto démodée, torna attuale: è possibile esercitare le scienze cosiddette esatte senza tener conto di quel grumo di saggezza e di sensibilità che le opere letterarie riescono a sprigionare ad ogni lettura? Risposta di Paz: “Forse, ma il costo è enorme. Né Freud né Einstein hanno mai dimenticato i classici. Beh che gli scienziati di oggi non solo li abbiano dimenticati, ma che non li abbiano mai letti è sotto gli occhi di tutti.

Ecco: la lettura, i lettori, il libro. Un’altra questione su cui Paz riflette. Quanti leggono libri di poesia? Pochi, pochissimi. Certo. Una volta Juan Ramón Jiménez (ripreso da Paz) affermò in una sua dedica che erano “un’immensa minoranza”. Pochi, dunque, ma allo stesso tempo molti, tanto che non si possono contare, “come tutto ciò che è immenso”. La frase, inoltre, può contenere un altro significato: i lettori di poesia, per quanto pochi, sono molti nella misura in cui “partecipano individualmente e collettivamente all’immensità”. E che cos’è l’immensità? Ancora una volta ciò che non si può misurare. Perciò, conclude Paz, i pochi-molti che leggono poesia esplorano “realtà incommensurabili e in quegli specchi di parole scoprono la loro immensità E che cos’è l’immensità? Ancora una volta ciò che non si può misurare. Perciò, conclude Paz, i pochi-molti che leggono poesia esplorano “realtà incommensurabili e in quegli specchi di parole scoprono la loro immensità”. Tuttavia, ancora più che nel 1990, bisognerebbe chiedersi quanti sono i lettori in generale. I lettori, ad esempio, di romanzi. Martin Amis, morto alcuni mesi fa, nel suo ultimo libro, Inside story (2020), notava che romanzi come Lolita (1955) di Nabokov o Il dono di Humboldt (1975) di Bellow (due dei suoi maestri) oggi sarebbero improponibili. Oggi ogni informazione deve essere esposta in un linguaggio elementare: quando c’è da dedurre o congetturare, i lettori non hanno più gli strumenti”. I lettori deduttivi, per così dire, non ci sono più, così come non esiste più la pazienza, lo zelo e il piacere di soffermarsi sui dettagli che spesso sono gli indicatori più importanti per imboccare la strada maestra di un romanzo. Oggi o, meglio, da diversi decenni, prospera quello che Amis chiama il “romanzo aerodinamico, affusolato, accelerato”. Il romanzo “accelerato” è la risposta “al mondo accelerato”.

Forse il romanzo può sfrecciare alla velocità di uno Shinkansen Tokyo-Kyoto. Ma la poesia? In modo ancora più vitale del romanzo ha bisogno di fermare il tempo. Ci impone una epoké, una sospensione dell’assenso al tempo sempre più accelerato che è il nostro tempo. Ci chiede, pur nella sua brevità, più tempo. Più tempo per fermare il tempo. Che cos’è la lettura, in fondo, se non una forma di redenzione per gli innumerevoli peccati di dissipazione del nostro tempo? Leggere, afferma Paz, è “un esercizio mentale e morale di concentrazione che ci porta in mondi sconosciuti che a poco a poco si rivelano la nostra patria più antica e più vera: è da lì che veniamo”. Quanti oggi possono leggere così? Pochi, pochissimi. I più salgono a bordo di un romanzo “aerodinamico” o si gingillano con un romanzo-drone, telecomandato dagli editor del bestsellerismo planetario. Ma Paz non demorde, non si arrende: è in quei pochi lettori che dobbiamo confidare, perché non è nei numeri delle statistiche che “risiede la possibilità che la nostra civiltà continui”.

C’è un aspetto complementare a quello relativo alla scarsa quantità di lettori di poesia: lo scarso numero di esemplari di opere poetiche in commercio. Ora, questo aspetto diventa un problema se non sapessimo come sono andate le cose da almeno due secoli a questa parte. Dalle sue origini, la poesia moderna ha avuto sempre una relazione ambigua con la modernità. Il conflitto si è accentuato soprattutto nel corso dei primi decenni del XX secolo ed è durato almeno fino agli inizi degli anni ottanta. L’indifferenza del pubblico è sempre stata messa nel conto dai poeti moderni, i quali non si sono mai troppo preoccupati di quanti copie vendessero le loro opere, soprattutto le prime edizioni. Andate a vedere quanti esemplari sono stati messi in circolazione delle prime edizioni delle opere di Baudelaire, di Whitman, di Machado, di Seferis, di Montale… La quantità di lettori di poesia diventa un problema se il numero di copie vendute si fa beffe della continuità storica, cioè della capacità di un’opera di infiltrarsi con il tempo nelle vene e nelle menti dei lettori di diverse epoche. Quanti best-sellers sopravvivono al loro successo? E quanti ne vengono riscoperti? Quasi nessuno. Cerchiamo di essere onesti: non sono opere, ma prodotti. I loro autori non hanno cercato, a dispetto della vita, la perfezione dell’opera, come diceva Yeats. Che cosa distingue un’opera da un prodotto? Il secondo viene letteralmente consumato dai suoi lettori, mentre la prima, afferma Paz, ha la proprietà di resuscitare grazie ai suoi lettori. La poesia non cerca l’immortalità ma la resurrezione”. Ora, per credere nella resurrezione, bisogna avere fede. E se la sola religione che ci è rimasta è quella nella scienza e nella tecnologia (dopo la morte di Dio e della cultura), si capisce come le opere si siano ridotte all’osso.

 

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Mi chiedo se il monoteismo scientifico-tecnologico potrà mai accettare l’eresia poetica. Quando le macchine danzano, i poeti dormono? O sonnecchiano in attesa di tempi migliori? O sono tutti morti e non lo sanno? O, ancora, “la mania”, il sacro furore poetico è stato definitivamente sostituito da una laica trance accademica? È possibile, dato che “la mania”, così definita da Platone e dalla medicina antica, era solo un polo dell’inguaribile malattia poetica. L’altro era l’assenza, il vuoto, l’accidia, lo spleen, la mancanza, il non saper che cosa fare della propria vita così priva di forma, così priva di coerenza, così breve, così vulnerabile, così poeticamente morta. Entusiasmo e vacuità, entusiasmo che ogni volta si rinnova di fronte alla vacuità. Elogio della pienezza della vita ed elegia della sua vacuità, anticamera della morte. Forse è questo la poesia. Che ce ne facciamo del consapevole blablà dei professori la cui percentuale di entusiasmo è inversamente proporzionale alla loro capacità di coprire, come ragni laboriosi, ogni mistero poetico con le loro ragnatele teoriche? Non coprono il vuoto, ma il già pieno. Hanno il cervello intasato di idee, mentre i loro demoni, per mancanza di interlocutori, se ne sono andati da un pezzo. E che cosa dire di quell’inferno di stupidità che è il nostro mondo eternamente connesso? Un individuo eternamente connesso non conosce né entusiasmo né vacuità. Non può né elogiare la vita né scoprirne il volto elegiaco. Non è in grado di essere né nemico del presente né amico del passato. Non può far altro che “navigare” in un’attualità senza peso. Fluttuare tra le onde senza sapere dove andare. Nel nostro presente attualizzato i fini evaporano a causa della quantità di mezzi che usiamo per raggiungerli. Troppi mezzi, nessun fine. Troppe possibilità di scelta, nessuna scelta. L’ansia di perfezione ha ceduto il passo all’ansia di accumulazione. Qualcuno, tanto tempo fa, ha scritto che ogni tradizione si conquista. Il passato è sempre in guerra con il presente. E la sola possibilità per un poeta o per un artista di essere originale è quella di partire alla conquista del passato. Dall’epoca romantica fino al surrealismo, scrive Paz, ogni movimento e ogni singolo poeta ha “inventato la sua tradizione”. Senza tale invenzione del passato non c’è nessun futuro artistico, non c’è nessuna possibilità per un poeta di essere letto, in modo probabilmente più profondo, da quelli che verranno dopo. La sua non è “sete di fama, ma sete di vita”. Capite bene che anche in questo caso si tratta di fede. Se ogni poeta, per essere tale, deve diventare un ponte tra passato e futuro, deve credere che i piloni che lo sorreggono siano saldi, o perlomeno non sospesi tra due abissi di cui non si scorge la fine. Il suo smarrimento nel presente non ha nulla a che fare con il fluttuare ondivago nel mare dell’eterna attualità.

 

***

 

Nell’ultimo capitolo, quello che dà il nome all’intero libro, Paz riassume il suo pensiero. Nella tradizione critica e ribelle della modernità, la poesia occupa un posto allo stesso tempo centrale ed eccentrico. Centrale perché è sempre stata a fianco del pensiero critico e sovversivo che ha attraversato il XIX e il XX secolo. È difficile trovare un grande poeta che non abbia partecipato in modo più o meno flagrante a un movimento di emancipazione. Tuttavia, la particolarità della poesia moderna è che è stata “l’espressione di realtà e aspirazioni più profonde e più antiche delle geometrie intellettuali dei rivoluzionari e delle carceri mentali degli utopisti. Ha spesso sfiorato le visioni religiose. Per questo motivo è stata sia rivoluzionaria che reazionaria. In ogni caso eterodossa, eretica nei confronti di tutte le chiese e di tutte le dottrine. Eppure vicina alle realtà più umiliate e riluttante rispetto ad ogni impresa ideologica come a ogni speculazione razionalistica. “Tra rivoluzione e religione, la poesia è l’altra voce”. Che cosa intende dirci Paz?

Intanto che la poesia è voce. Ne rivendica l’origine antica e orale. In solitudine o in pubblico, la poesia prima di essere scritta è detta e il poeta è perciò qualcuno in ascolto. Ma il suo non è un soliloquio. Non ascolta la sua voce, ma l’altra. Chi parla allora? Da dove viene questa voce? Dall’oltretomba? Si tratta di follia, possessione? Di eliotiana impersonalità dell’arte? O di una spontanea facoltà di associare parole, immagini, suoni, forme?

Si può dire che non viene da fuori, ma da dentro e che tutti i veri poeti, in quei “rari momenti sebbene frequenti” in cui sono poeti – l’hanno ascoltata. Si può dire che, essendo voce, parola detta, non è precisamente moderna, ma viene da dove è sempre venuta, almeno da quando l’uomo è uomo. Si tratta di una voce premoderna e perciò antimoderna che fa sì, come scrive Paz, che il conflitto tra poesia e modernità non sia “accidentale, ma consustanziale”. Ecco il passaggio-chiave di tutto il libro:

 

Una poesia può essere moderna per i suoi temi, per il suo linguaggio e per la sua forma, ma quanto alla sua natura profonda la poesia è una voce antimoderna La poesia esprime realtà estranee alla modernità, mondi e strati psichici che non solo sono più antichi ma anche impermeabili ai cambiamenti della Storia. Sin dal Paleolitico la poesia ha convissuto con tutte le società umane; non c’è una società che non abbia conosciuto questa o quella forma di poesia. Ora, benché vincolata a un suolo e a una storia, la poesia si è sempre aperta, in ciascuna delle sue manifestazioni, verso un al di là sovrastorico. Non alludo a un al di là religioso. Parlo della percezione dell’altro lato della realtà. Si tratta di un’esperienza comune a tutti gli uomini di tutte le epoche e che mi pare anteriore a tutte le religioni e a tutte le filosofie.

da Filosofía & Co

 

Post-scriptum

 

La coscienza può essere un perizoma che cerca inutilmente di nascondere la nostra nudità. In realtà, è quasi sempre una rete a strascico che porta in superficie ciò che non vorremmo vedere. Tutto questo per dire che in un mondo retto dalla logica di mercato e dall’efficienza scientifico-tecnologica, per una mente mediamente in sintonia con la nostra epoca la poesia si riduce a essere un oggetto superfluo e di poca utilità: uno spreco. Un uomo ricco di poesia, che cosa possiede? Senza contare che le poesie non si possono mettere in banca. Si devono spendere, cioè dirle. Anche per Paz è un mistero: “le poesie contengono poesia a condizione che questa non venga conservata”. Se nel XXI secolo la poesia potrà essere un “antidoto alla tecnica e al mercato” molto dipenderà da questa misteriosa e poetica facoltà dell’uomo, presente sin dal paleolitico, di donarsi senza chiedere nulla in cambio.

Il testo pubblicato è l’ introduzione a “L’altra voce” di Octavio Paz Mimesis, Milano 2023,

 

La grande crociata del negazionismo in agricoltura

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di Giacomo Sartori

invito a leggere questa lucida cronaca di Roberto Pinton (pubblicata da STORIEDEL BIO) che racconta di come si stia completamente smantellando l’ambiziosa strategia della EU “Farm to Fork”; su istigazioni delle organizzazioni professionali degli agricoltori, trincerate su posizioni retrive e negazioniste, e molto influenti sui partiti di destra e su molti governi della EU (a cominciare dall’Italia, dove nei fatti le posizioni governative e delle organizzazioni di categoria sono indistinguibili, come viene spiegato); approfittando non solo per sdoganare le nuove tecniche genomiche, ma per imporle – abile strategia per minare la loro credibilità – al mondo dell’agricoltura biologica;

 

Dal produttore al consumatore (alla discarica?)

Roberto Pinton

Il contesto

La strategia Farm to Fork [da noi: dal produttore al consumatore] è (era?) parte integrante del Green Deal europeo, che si propone di costruire entro il 2050 un’economia efficiente sotto il profilo delle risorse e della competitività, garantendo la neutralità climatica, senza più emissioni nette di gas a effetto serra.

Obiettivi della strategia, tra gli altri, arrivare al taglio del 50% dei fitofarmaci più pericolosi e degli antibiotici negli allevamenti, al dimezzamento della perdita dei nutrienti attraverso la riduzione del 20% dei fertilizzanti e portare al 25% la superficie agricola europea condotta con metodo biologico, tutto entro il 2030.

È evidente che si tratta di uno scenario che rivolterebbe la produzione agricola come un calzino, con molte sfide entusiasmanti per la produzione attualmente convenzionale, ma anche per quella biologica (presumibile crescita del segmento del “residuo zero”, diffusa corsa ai claim sulla sostenibilità, aumento della competizione tra operatori biologici, ecc.).

Non mancano le misure a corollario: obbligo per l’industria alimentare di integrare la sostenibilità nelle strategie aziendali, codice di condotta per pratiche commerciali responsabili nella filiera, iniziative per promuovere la riformulazione degli alimenti trasformati (con livelli massimi per grassi, zucchero e sale), nuova etichettatura nutrizionale per facilitare scelte alimentari salutari, revisione della normativa sugli imballaggi per ridurre l’impronta ambientale del settore, riscrittura della normativa in materia di benessere animale, iniziativa sul sequestro del carbonio nei suoli agrari, etichettatura di sostenibilità dei prodotti alimentari e contrasto al greenwashing, criteri minimi obbligatori che favoriscano i prodotti biologici e gli altri sostenibili negli appalti pubblici, ri-orientamento dei programmi UE di promozione per potenziarne il contributo alla produzione e al consumo sostenibili, potenziamento della cooperazione tra i produttori per rafforzarne il peso nella filiera, iniziative per migliorare la trasparenza.

In sostanza, l’agroalimentare dovrà dimenticare il calduccio della comfort zone.

Nel 2020 il pacchetto è stato presentato dalla Commissione al Parlamento europeo, che a larga maggioranza ha approvato la strategia, riconoscendola come strumento efficace per garantire una produzione sostenibile di alimenti sani; parere favorevole anche da Consiglio, Comitato economico e sociale europeo e Comitato delle regioni.

Tutto a posto, con tanto di sol dell’avvenire che s’intravedeva all’orizzonte?

Col fischio.

Ostacoli e inciampi

Per correre alle elezioni nazionali da leader di un accordo tra i socialdemocratici e Sinistra Verde Frans Timmermans si è dimesso da Commissario per il clima e per il Green deal (alla fine, pur avendo guadagnato il 50% di seggi in più, è arrivato secondo dopo il Partito per la libertà, di estrema destra) ed è stato sostituito nell’ottobre scorso dal connazionale cristiano democratico Wopke Hoekstra, già dirigente della multinazionale britannica Shell (fatturato 2021 di 261,5 miliardi di dollari da petrolio e petrolchimica) e il cui partito CDA ha brillato nei tentativi di sabotare il Green Deal: quando si dice l’uomo giusto al posto giusto.

Ma già prima che Hoekstra potesse cominciare a far danni, il lavoro di logorio da parte di popolari, conservatori e liberali (non è una malattia italiana, tutti pensano alle prossime elezioni e alle cambiali da onorare con il proprio elettorato di riferimento e con gli amici degli amici) ha cominciato a mandare in frantumi il Green Deal prima che il necessario quadro normativo fosse del tutto definito.

Andiamo alla rinfusa.

Il 22 novembre lo stesso Parlamento europeo che pure aveva approvato il documento sulla strategia Farm to Fork che ne prevedeva il taglio del 50% entro il 2030, ha bocciato la proposta di regolamento della Commissione sull’uso sostenibile dei pesticidi (Sustainable Use Regulation, SUR) presentata nel giugno 2022 come parte del pacchetto di misure volte a ridurre l’impronta ambientale del sistema alimentare.

299 deputati hanno respinto la proposta, 207 a favore e 121 astenuti.

È improbabile ci siano i tempi (e la volontà: a urne imminenti vuoi metterti contro le lobby agricole che sostengono di manovrare milioni di voti?) per un nuovo passaggio in Consiglio, per cui la questione verrà ereditata dal nuovo parlamento che uscirà dalle elezioni del giugno prossimo.

Oggi è un buon giorno per gli agricoltori e per chi pensa che la UE non debba imporre ulteriori ostacoli”, ha dichiarato la vecchia volpe PPE (CDU) Peter Liese, al parlamento europeo dal 1994.

Richiama alla riflessione il plastico titolo di ieri di Winenews (https://winenews.it/it/niente-accordo-sui-fitofarmaci-lutilizzo-non-sara-dimezzato-esulta-lagricoltura-italiana_511518/): “Niente accordo sui fitofarmaci, l’utilizzo non sarà dimezzato: esulta l’agricoltura italiana”.

Liberi tutti, nessun ostacolo, nessun taglio dei pesticidi, nemmeno nelle aree sensibili come quelle protette da Natura 2000, nemmeno negli spazi verdi urbani.

E l’Italia? Esulta.

Non cambia molto la situazione sulla proposta di regolamento sui requisiti per l’intero ciclo di vita dell’imballaggio, dalle materie prime allo smaltimento finale: “Il Parlamento europeo annacqua il regolamento sugli imballaggi. Passano le deroghe sul riuso e l’Italia festeggia”, titola Eunews.it.

Sull’argomento il PPE si era inizialmente spaccato in commissione ambiente, con i deputati di FdI a votar contro parlando di “deriva ultra-ambientalista”; la posizione del governo era nettamente contraria perchè “Il nuovo regolamento favorirebbe il riuso a svantaggio del riciclo”.

Così com’era la proposta avrebbe avuto ripercussioni sull’economia italiana che vede consorzi che fondono barattoli e scatolette, lattine e vetro e mandano al macero carta e cartone: la riduzione della loro materia prima e il suo riuso avrebbero messo in crisi una filiera che si alimenta di spazzatura (va detto che anche la Francia era dubbiosa, preoccupata per gli astucci di balsa del camembert).

Ma al momento giusto la posizione si è ricompattata: niente vetro a rendere, salve le buste di plastica, salve le vaschette di polistirolo più film in PVC per confezionare una singola melanzana prezzata 61 centesimi (vista on line ieri: quanto incassa l’agricoltore e quanto l’industria della plastica?).

E l’Italia? Festeggia.

Pochi giorni prima, in mancanza di una maggioranza qualificata tra i Paesi membri, la Commissione ha ri-approvato per dieci anni il glifosate (voto favorevole al rinnovo da parte dell’Italia in ottobre, astensione a novembre, così come la Francia di Macron –che pure nel 2017 ne aveva annunciato il bando entro il 2020- e la Germania della Bayer).

Il nostro ministero è dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste, non dell’agricoltura, della sicurezza alimentare e delle foreste, altrimenti (forse) avrebbe tenuto conto che gli inquinanti prioritari glifosate e il suo metabolita AMPA sono già le sostanze contaminanti più frequentemente rilevate nelle acque superficiali italiane (42% l’uno, 68% l’altro), dove superano gli standard minimi di qualità ambientale nel 52.7% dei casi (AMPA) e nel 21.2% (glifosate).

Poco prima, la cristiano democratica svedese Jessica Polfjärd, relatrice in Commissione per l’ambiente, la sanità pubblica e la sicurezza alimentare sulla bozza di “Parere sulla proposta di regolamento relativa alle piante ottenute mediante alcune nuove tecniche genomiche e agli alimenti e mangimi derivati”, non solo ha proposto la soppressione di disposizioni sull’etichettatura delle sementi, che avrebbero almeno rappresentato un punto di partenza per la trasparenza, ma ha anche scritto che “Il relatore ritiene che le nuove tecniche genomiche dovrebbero essere consentite in agricoltura biologica. Lo scopo di questo progetto di relazione è garantire che qualsiasi operatore senza discriminazione possa utilizzare le tecniche. Pertanto, il divieto proposto dalla Commissione per le tecniche da utilizzare nell’agricoltura biologica viene revocato per garantire condizioni di parità senza imporre la tecnica a nessun operatore.

La proposta dovrebbe garantire che ogni operatore possa avere accesso a queste nuove tecnologie. La libertà di scelta è essenziale per gli operatori e la tecnica dovrebbe rimanere disponibile”.

Molto liberale, non c’è che dire, ma in totale contrasto con quanto chiesto con forza dal settore, da ultimo nella risoluzione “Keep Organic GMO-free” adottata da IFOAM Organics Europe nell’assemblea generale del giugno 2023 (ma il primo position paper sulle New Plant Breeding Techniques risale al 2015, appena si cominciava a parlarne).

Il documento IFOAM Organics Europe (al quale si era allineata la proposta della Commissione, che oltre a vietare in agricoltura biologica le piante geneticamente modificate richiedeva l’etichettatura delle sementi, punti che la Polfjärd ritiene siano da cassare) ribadisce che il processo di produzione biologica deve rimanere libero da OGM vecchi e nuovi, e che la libertà di scelta e il diritto degli operatori biologici a produrre senza NGT sarà efficace solo se accompagnato da strumenti tecnici e legali integrati nel regolamento.

Come ben ha commentato Jan Plagge, presidente di IFOAM Organics Europe, “Questa bozza di parere invalida la visione di un intero movimento e di un intero settore economico”.

Mantenere la fiducia dei consumatori nell’integrità della filiera biologica è fondamentale per il suo successo: tracciabilità e chiara etichettatura delle sementi OGM vecchi e nuovi servono anche a garantire che non ricadano sugli operatori altri oneri finanziari e legali per garantire lo status di produzione OGM free.

La bozza di parere ha fatto brindare l’industria biotech: “Molte tecnologie interessanti arriveranno sul mercato nei prossimi anni”.

Il ministro Lollobrigida, dal canto suo, ritiene che sia “necessario investire in queste tecniche senza ideologie o pregiudizi”, mettendo sul piatto quante più risorse possibili.

E le rappresentanze degli agricoltori?

COPA COGECA (il COPA è il Comitato delle organizzazioni professionali agricole -soci italiani Coldiretti, Cia, Confagricoltura-, il COGECA è la Confederazione Generale delle Cooperative Agricole, socio italiano l’Alleanza delle Cooperative Italiane Agroalimentare – ACI, che ingloba le tre organizzazioni Agci/Agrital, Anca/Legacoop e Fedagri/Confcooperative) in una sua nota, a nome degli (inconsapevoli) agricoltori europei, aveva sottolineato la necessità di campagne di comunicazione da parte dei settori pubblico e privato affinché i consumatori accettino e si fidino delle nuove tecniche OGM.

Qualcuno ricorderà che nella (vecchia) “Task Force per un’Italia libera da OGM” con Aiab, Slow Food, Legambiente, WWF e Greenpeace c’erano anche Coldiretti e la sua appendice Campagna Amica, con Cia, Legacoop Agroalimentare e CNA alimentare, mentre oggi nella (nuova) “Coalizione Italia Libera da OGM” son rimasti Aiab, Slow Food, Legambiente, WWF e Greenpeace (con altri) ma si son perse le tracce delle organizzazioni di categoria a vocazione generale.

Non si scherza nemmeno sul Nutriscore (qualcuno ne ha più sentito parlare?), concepito non per la promozione dei prodotti alimentari, ma per la promozione di un’alimentazione meno insana: come rivelato da Il Fatto Alimentare (https://ilfattoalimentare.it/beuc-nutri-score-lobby-italiane.html), appena insediato, il governo, con Federalimentare e Coldiretti ha tenuto diversi incontri con la DG SANTE e la DG AGRI per scongiurare l’adozione dell’etichetta a semaforo (già adottata da sette Paesi europei) temendo una penalizzazione dei consumi di Nutella ®, ovetti Kinder®, lardo di Colonnata e prosciutto di Parma.

A volte è difficile capire dove finiscono le autorità italiane e dove iniziano le associazioni agroalimentari” è il commento sconsolato del Bureau Européen des Unions de Consommateurs (l’organizzazione ombrello di 45 associazioni di consumatori di 31 Paesi) (https://www.beuc.eu/blog/food-label-ambush-how-intense-industry-lobbying-halted-eu-plans/).

Da noi la sinergia (l’obbedienza?) con alcune organizzazioni di categoria e rappresentanze d’interessi, senza manco fare il beau geste di audire le altre, si è palesata in tutto il suo splendore di recente con l’approvazione della norma che non vieta solo la carne da coltura cellulare, ma anche denominazioni ormai tradizionali e che proprio non paiono in grado di ingannare nessun consumatore come “würstel di soia” e “burger vegetale”.

Mentre Coldiretti festeggiava con una chiassosa manifestazione muscolare, ASSICA (l’associazione degli industriali delle carni e dei salumi, che sulla questione ha speso in una decina d’anni molto tempo e molto denaro), più sobriamente, plaudeva defilata alla norma che, a suo dire, riporta correttezza e chiarezza sul mercato, restituendo la dignità sottratta “a un settore fatto di tanta competenza e capacità umana, tradizioni e impegno, nonchè investimenti”, e ringraziava il vice presidente del senato Gian Marco Centinaio e il presidente della commissione Agricoltura della camera Mirco Carloni “il cui impegno e attenzione al dossier sono risultati chiave per il successo dell’iniziativa e la soddisfazione dei settori direttamente tutelati dalla norma”.

Tra ottusità della politica, miopia dell’industria e maneggi vari potremmo continuare a lungo, ma siccome sono sprezzante del pericolo di farmi nemici, passo alle organizzazioni agricole.

Sbaglierò, ma a me pare che il settore biologico non abbia nulla da spartire con le organizzazioni agricole che esultano per esser riuscite a ostacolare l’adozione di misure per favorire la sostenibilità della filiera agroalimentare.

COPA-COGECA ha 51 gruppi di lavoro; ben uno di questi 51 è dedicato all’agricoltura biologica, presidente la danese Lone Andersen, vice-presidente l’imprenditore vitivinicolo veneto Emilio Fidora, di Confagricoltura.

Chi va a leggere il sito comune delle due organizzazioni trova indicato “Nutriamo insieme il futuro dell’Europa! Il Copa e la Cogeca esprimono la voce unanime degli agricoltori e delle cooperative agricole dell’Unione europea. Unendo le nostre forze, assicuriamo un’agricoltura europea sostenibile, innovativa e competitiva, garantendo nel contempo l’approvvigionamento alimentare di 500 milioni di persone in tutta Europa”.

Sbaglierò, ma questa sedicente “voce unanime” non è la mia.

Chi va a leggersi i documenti accessibili, trova la raccomandazione alla Commissione di ri-autorizzare per dieci anni il glifosate (“Attualmente non esiste un’alternativa a questo erbicida, senza il quale molte pratiche agricole, in particolare la conservazione del suolo, sarebbero rese più complesse, lasciando gli agricoltori senza soluzioni o con l’alternativa di usare ancora più erbicidi”).

Trova il position paper sulle nuove tecniche genomiche (nel documento non si dà il minimo conto del fatto che il gruppo di lavoro sull’agricoltura biologica ha espresso la sua contrarietà, anzi, si riesce nel miracolo di non citare nemmeno una volta l’agricoltura biologica: per la sedicente “voce unanime degli agricoltori dell’Unione europea” semplicemente non esiste) che raccomanda di non etichettare le varietà NBT di categoria 1 (in fin dei conti hanno non più di 20 modifiche genetiche…), dato che si tratterebbe di una questione irrilevante per i consumatori e, soprattutto, comporterebbe costi aggiuntivi per la filiera.

Trova la netta contrarietà alla Nature Restoration Law Legge (“Possiamo lavorare sul ripristino della natura, ma sarà difficile con la norma proposta dalla Commissione, che rimane fondamentalmente mal preparata, senza budget e inattuabile per gli agricoltori e i proprietari forestali”), poiapprovata dal parlamento europeo il 12 luglio, ma con lo stralcio dell’articolo 9, quindi senza gli impegni per gli agroecosistemi (miglioramento dello stato di conservazione degli uccelli e delle farfalle degli ambienti agricoli, mantenimento di almeno il 10% di elementi naturali negli agro-ecosistemi) in ossequio alle pretese dell’organizzazione e delle destre europee.

Trova l’accusa alla commissione Ambiente del parlamento europeo di retorica politica sulla proposta di Regolamento sull’uso sostenibile dei pesticidi.

Trova in un documento che “è prevedibile che l’imposizione dell’agricoltura biologica in ampie zone d’Europa provochi difficoltà esistenziali a innumerevoli aziende agricole senza alcun beneficio apprezzabile per l’ambiente. I metodi biologici e meccanici di eliminare gli organismi nocivi non sono sufficienti in alcune regioni (…). La conversione al biologico non è semplice. Oltre ad applicare nuove tecniche e rispettare nuovi requisiti, gli agricoltori avranno bisogno di una formazione adeguata per rispettare i criteri stabiliti dal regolamento 2018/848”: troppo complicato, meglio lasciar perdere e continuare nel business as usual.

Trova un documento che contesta con vigore gli ipotizzati cambiamenti della densità di allevamento perché porteranno a devastanti riduzioni della produzione di uova, di conigli e di suinetti.

La posizione di COPA-COGECA è chiara, da sempre: il mantra costante è che non è necessaria una regolamentazione, che vanno evitati obblighi di attenersi a inutili criteri di sostenibilità e che meglio lasciar fare al mercato (salvo prevedere nuovi premi per gli agricoltori).

Nel 2021 era trapelato un documento interno (ne scrissi su Greenplanet: https://greenplanet.net/cosi-copa-e-cogeca-tentano-di-distruggere-la-farm-to-fork/) in cui COPA-COGECA raccomandava a tutte le organizzazioni aderenti nei diversi Paesi di impegnarsi nel ritardare il voto del Parlamento europeo sulla strategia Farm to Fork, esercitando pressioni su parlamentari e ministeri, coordinandosi tra loro e prospettando azioni congiunte con l’AgriFood Chain Coalition (soci AnimalHealthEurope, l’associazione dei produttori di antibiotici e farmaci veterinari, CropLife Europe, quella dei produttori di pesticidi, la lobby dell’industria OGM EuropaBio, le industrie sementiere di Euroseeds, i mangimisti di FEFAC e FEFANA, l’industria dei fertilizzanti Fertilizers Europe eccetera) e European Livestock Voice, il raggruppamento dell’industria della carne (soci italiani nell’orbita di Assocarni: Carni Sostenibili, Carni Rosse Buone e sicure).

La mobilitazione era tesa alla modifica degli obiettivi di riduzione di pesticidi, fertilizzanti e antibiotici, ma anche al contrasto alle etichette nutrizionali e alla lotta allo spreco alimentare.

I parlamentari europei dovevano essere invitati a eliminare dal documento della Commissione la scomoda affermazione “attualmente il sistema agroalimentare è responsabile di una serie di impatti sulla salute umana e animale, sull’ambiente, il clima e la biodiversità” (non sia mai),a modificare la parte che addirittura riconosceva l’impatto dell’agricoltura e dell’allevamento sull’emissione dei gas serra: avrebbe piuttosto dovuto sottolineare che l’agricoltura europea è l’unico grande sistema al mondo ad aver ridotto significativamente le emissioni, che in ogni caso derivano da processi naturali.

Doveva essere assolutamente eliminata la previsione del taglio del sostegno economico climatico e di altri incentivi ai sistemi agricoli intensivi e industriali con impatto negativo sulla biodiversità. Anche qui, non sia mai.

Bisognava smettere di “perdere tempo astenendoci dall’utilizzare tecnologie all’avanguardia come le nuove tecniche di gene-editing di animali e piante”.

Ciliegina sulla (nostra) torta, COPA-COGECA e il resto della combriccola biotech e agrochimica chiedevano che non si prevedessero quantità minime obbligatorie di prodotti biologici nelle scuole e nelle altre istituzioni pubbliche e che, al più, si favorissero “alimenti locali e sostenibili”, qualunque cosa significhi.

Mi chiedevo allora, e continuo a chiedermi adesso come possano gli 82.627 agricoltori biologici italiani sentirsi rappresentati da un’organizzazione europea (costituita dalle organizzazioni nazionali) che ha una politica negazionista, che assieme alle multinazionali produttrici di fitofarmaci s’impegna ad affossare ogni politica di rinnovamento sostenibile del settore primario, che non tiene in nessun conto le posizioni che esprimono, ma ha a mente soltanto gli interessi dei loro colleghi convenzionali (oltre che delle multinazionali produttrici di fitofarmaci e biotech) e che mette le mani nelle loro tasche, cercando di sottrarre loro opportunità.

Come possano fare riferimento alle organizzazioni nazionali che continuano a esprimere scelte che hanno impatto negativo sui beni comuni e sono contrarie ai loro orientamenti e alle legittime attese dei consumatori, nel superiore interesse sempre di qualcun altro.

Come possano coricarsi senza un groppo allo stomaco per la consapevolezza della propria irrilevanza e del loro ruolo strumentale di utili pupazzi i dirigenti delle associazioni biologiche afferenti alle organizzazioni a vocazione generale (organizzazioni che pure, in base alla legge 23/2022 avranno incomprensibilmente un ruolo nel Tavolo tecnico per la produzione biologica, che è tutto fuorché tecnico, dovendo occuparsi di delineare indirizzi e priorità per il Piano d’azione nazionale, esprimere pareri sui provvedimenti nazionali ed europei, proporre interventi per la promozione e individuare strategie per favorire la conversione). Possiamo attenderci abbiano a cuore lo sviluppo del biologico più di quanto lo abbia la loro organizzazione europea?.

Antonio Sposicchi, sulla base di un’esperienza professionale vissuta per oltre tre decenni in Cia, ha scritto di poter affermare chiaro e tondo che le organizzazioni professionali a vocazione generale non riusciranno mai a rappresentare adeguatamente gli imprenditori agricoli che adottano il metodo biologico.

È un’affermazione che magari non sarà condivisa dai rappresentanti istituzionali (né, ovviamente, dalle associazioni), ma che è confermata, oltre che dai tristi avvenimenti qui accennati, dal fatto che esistono IFOAM Organics Europe e COPA/COGECA con le relative piattaforme programmatiche che su molte, troppe questioni strategiche sono in netto contrasto sia in ognuno dei 27 Paesi della UE che a Bruxelles.

Vogliamo cominciare a pensarci?

NdR: l’originale si può leggere qui

Alcuni metri

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di Fabrizio Pelli

Due strade innervano la collina, due fibrille rilassate sul crinale: il monte di neve è sul bivio: Puttana troia, dice, Puttana: sul bivio, proprio sul bivio. Lo guarda, dalla jeep, splenico, sentinella, il guardiacaccia. Lo guarda da dietro il finestrino: non si capisce se brillino gli occhi o il vetro, dietro le percosse del fanale.

Dunque tua moglie non sta bene?, chiede l’amico.

No, risponde lui, Non volevo lasciarla a casa da sola, lei ha insistito che venissi.

L’amico tace: un silenzio lungo fin troppo, che si denatura nel giro di poco. Loro, gli amici, la coppia unita di fronte a lui, granulano l’imbarazzo in una risata.

Cosa si sente?, chiede l’amica.

Le è venuta la febbre dopo, risponde lui, Dopo la frattura, le è venuta la febbre, fra la gamba rotta e la febbre ha preferito stare a casa.

L’amico appoggia la forchetta sul tavolo — un tintinnio.

Con un tintinnio si rompe il moschettone e lei precipita al chiodo di sotto. La gamba, assediata, rimane fra la parete e il suo corpicino — corpicino che schiaccia l’osso. Si rompe senza un rumore. L’urlo cade, pietra, lungo la parete e rimbalza nella valle.

Lui è sotto, legato al chiodo più in basso: la domanda è: come ci si fida del ferro. Lei rimane sola penzolante dall’alto.

Mi sa che dovrà anche dormire da sola, dice l’amica, poi si volta verso la finestra — sembra che la stanza salga: non che la neve scenda.

Nevicava già quando sono partito, dice lui, È già alta la neve?

Molto, dice l’amica.

Alta quanto?, chiede lui.

L’amico si alza e si affaccia. Fa così con le mani, le apre fin dove non vorrebbe: sono distanti.

Rimani a dormire, c’è un letto per te, dice l’amico.

Meglio non mettersi per strada con questo tempo, dice l’amica.

 

L’uscita di casa, la partenza per andare dagli amici, è stato per lui l’abbandono. Più come se lei abbandonasse lui, che il contrario. Autonomo è la parola che lo poteva descrivere: si sentiva autonomo, capace di essere solo. E, mentre scendeva, non saliva come nelle ferrate con lei, ma scendeva al sicuro nella macchina dalla collina, mentre scendeva per lui era una piccola rivoluzione.

Quando è arrivato a valle, davanti a casa degli amici, guarda la collina alzarsi fino a coprire la luna. La collina, ricorda dalla scuola, è tale fino ai 600 m di altitudine — oltre è montagna: montagna, lui si dice, è tutto ciò che copre la luna.

Non veniva a nevicare così da qualche anno. Un anno è venuta una bufera: la neve si è accumulata sui rami dei pini e per le strade, il giorno dopo, si sono trovati i rami, braccia strappate, per terra.

Un anno, dico, è venuta una bufera, ma è da tempo che non nevica così. Lui si alza dal tavolo e va alla finestra — l’amico si sposta — e la apre. Fuori gli alberi svettano soli dal velo di neve. Sparisce quel che sta sotto alla neve — le cose diventano inesistenti fino allo scioglimento. In un certo senso, è una controversia nicciana: una costruzione e una distruzione; si dimentica, con la neve, quel che sta sotto, fossili i viventi, una strada il letto di un fiume, rovine i palazzi.

Ed è come vivere l’ultimo istante di questa terra: un’eruzione vulcanica; le cose: non altro che corpi pompeiani, divisi dall’aria da un velo di neve, sepolti dallo stesso catrame bianco.

Rimani, dài, avvisala che non puoi andare e rimani, dicono, coro, gli amici.

Ti preparo il letto, dice l’amico, In cambio puoi dare una mano a sparecchiare.

Nel letto non si copre nemmeno. Prova a dormire coprendosi gli occhi con il braccio; l’orologio è proprio di fianco all’orecchio, batte i secondi, ticchetta. Il problema dei secondi è che passano: anzi: non passano: son fermi, lui li attraversa. E a sentirli, quei minuscoli rimbombi incapaci di arrivare all’orecchio — nemmeno se ne accorge, a volte, di sentire il ticchettio: lo sente per un istante e pensa sia un rumore ambientale, bianco, invece è il ticchettio; si chiede, preda, da dove arrivi il battito, a braccarlo, un fruscio nel fogliame, una nocciola che casca — a sentirli, i secondi, gli sembra che vadano troppo veloce: anzi: gli sembra, sembra a lui, di andare troppo veloce.

La neve, invece, tace. Qualche volta, da piccolo, ha provato ad ascoltarla. Si buttava, stava fermo per ascoltare. Non sentiva niente, allora faceva l’angelo: muoveva le braccia così, su e giù, e scavava nella neve uno stampino a forma d’angelo. La neve faceva il rumore di un tessuto sfregato troppo forte.

Prova a chiamarla, ma non prende: non squilla nemmeno, non prende.

Prova a mandarle un messaggio: Troppa neve, dormo qui. Domani mattina torno a casa. Come stai? — non parte, non arriva.

Buonanotte, gli dicono dall’altra parte dell’uscio — La voce è analogica, funziona sempre, pensa.

Non dorme: è passata un’ora e più, ma non dorme. Il messaggio non arriva, con lui nemmeno il sonno. La bufera, fuori, sembra essersi calmata.

Prende le sue cose, le ammucchia sul braccio, le stringe. Scende in salotto: l’amico dorme sul divano, di fianco al camino.

La mano gli trema, ma lascia scritto su un foglio che se n’è andato, che non poteva restarsene lì senza riuscire ad avvisarla: Non sono autonomo, scrive. Poi esce, schiaccia la neve fino alla sua macchina. Con due calci abbatte il monte che si è formato di fronte alla portiera.

Una volta sedutosi, dal vetro guarda la porta della casa degli amici: le tracce si sciolgono lentamente in altra neve, scompaiono come se non fosse mai esistito — spariscono così le tracce dalle case, dalle stanze. E si chiede se, una volta morto, rimarranno delle tracce, se qualcuno si ricorderà della sua presenza: se lei o un genitore andranno a frugare nella sua roba, cercando significati in una foto strappatosi per errore, in un pantalone che gli era stato regalato rimasto con il cartellino attaccato. Si chiede se sia mancato anche a lei, ora che il messaggio non le era arrivato; se lei, nel letto, stanca di febbre, si chieda di lui.

Accende la macchina e, con lei, si accende una luce in salotto: dalla finestra l’amico, sentinella, lo saluta con la mano.

La strada è pulita fino al bivio. Dal bivio partono due strade che innervano la collina, due fibrille rilassate. Puttana troia, dice: sul bivio è crollato un albero, su di esso la neve ha formato un monte. Strada bloccata fino all’arrivo dei soccorsi — soccorsi, però, che non arrivano da ore, dice il guardiacaccia, uscito dalla macchina mentre lo ha visto arrivare.

Non riescono ad arrivare, dice, C’è troppa neve, e troppe piante hanno ceduto sotto la neve.

Abito di sopra, come ci arrivo?, chiede lui.

Non ne ho idea, risponde il guardiacaccia, Ha presente la via Emilia in centro? Il vialone alberato? È tutto bloccato dai rami caduti. La gente ha paura di non poter arrivare in ospedale. Sgombreranno prima quella e finiranno domani mattina.

Domani mattina, dice a se stesso.

Il guardiacaccia risponde comunque: Comunque era stato detto in TV, dell’allerta meteo, lo dicono da giorni, dice, Ci stia attento la prossima volta.

Lui non risponde — guarda la montagna di neve.

Esce dalla macchina mentre il guardiacaccia torna alla sua. Arriva fino ai piedi della montagna di neve: non copre la luna. Non è una montagna, dice, ma è alta alcuni metri, alta così, pensa, tanto così, e nella mente apre le braccia più di quanto vorrebbe. Si butta sulla neve, che tace persino quando sprofonda — la gamba rimane fra lui e la parete, ma sprofonda, la scava, non si rompe. Prova ad arrampicarsi sui rami dell’albero sepolto.

Un uomo sulla neve — un ragno su un muro.

Foto di mdr da Pixabay

Intervista a Yasmina Melaouah: ritradurre “La peste” di Camus

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[È uscito per Mucchi il volume Una conversazione infinita. Perché ritradurre i classici, a cura di Antonio Bibbò e Francesca Lorandini, nella collana “Strumenti nuova serie” diretta da Antonio Lavieri: si tratta di una raccolta di contributi firmati da Andrea Binelli, Ilide Carmignani, Franca Cavagnoli, Claudia Demattè, Massimiliano De Villa, Giulia Giorgi, Yasmina Melaouah, Luca Morlino, Elisa Aurora Pantaleo e Giulio Sanseverino. Pubblico qui di seguito, a mo’ di anteprima, l’intervista di Sanseverino a Melaouah, a proposito della sua nuova traduzione di La peste di Camus. ot]

 

Sanseverino: Dal momento che risulta difficile preconizzare la frequenza temporale delle ritraduzioni, che non seguono una cadenza sistematica, partirei proprio con una domanda sul perché ritradurre La Peste oggi, considerando la necessità di una traduzione meno datata di quella del 1948.

Melaouah: Posto che non voglio neanche mettere la punta del piede sui massimi sistemi, sul perché si ritraducono i classici, mi domanderei piuttosto perché ritraduciamo. Io sono abbastanza renitente a quell’idea, che ormai mostra un po’ la corda, secondo cui i classici invecchiano e bisogna togliere la polvere. Proprio dopo aver lavorato a La Peste, che nel corso della mia vita avevo già incontrato spesso (a quindici anni la prima volta, nei panni di lettrice; poi laureandomi su Camus e in vari altri momenti successivi), mi sono resa conto che non siamo noi traduttori ad andare nel passato in veste di archeologi per dissotterrare, ma sono i grandi classici a trovarsi molto più avanti di noi e ad aspettarci, per così dire, nel futuro; bisogna rincorrerli. Capisco che possa sembrare solo un’immagine a effetto, ma ho davvero la sensazione che fra i vari traduttori che si susseguono sullo stesso testo è come se si instaurasse una specie di staffetta: ci passiamo il testimone, all’inseguimento di un testo che è più avanti di noi. Nel 2019 non eravamo ancora arrivati alla pandemia, eppure La Peste era già lì, per raccontarcela. Aprendo una parentesi personale, confesso che prima di ritradurlo io mi ero già paurosamente ritrovata in questo romanzo. Erano gli anni tra il 2015 e il 2017, in cui, soprattutto in Francia, la peste più virulenta era la cosiddetta peste verte, cioè il terrorismo islamico, per dirla in maniera un po’ rudimentale. Nell’estate del 2016 leggevo le pagine di Camus mentre i mezzi d’informazione raccontavano la strage della Promenade des Anglais di Nizza, avevano già raccontato Charlie Hebdo, e il Bataclan ancora prima. Sentivo che questa comunità di uomini, colpita nel romanzo dal flagello dell’epidemia, rappresentava anche una comunità sgomenta e spiazzata da un altro tipo di pestilenza (uso questa parola non a caso, perché sono proprio alcuni intellettuali algerini e altri politologi a parlare di peste verte come immagine del fanatismo islamico[1]). Quando poi siamo arrivati al 2020, ho sentito ancor più vivamente, senz’altro, come l’opera era capace di raccontarci la nostra pandemia. E tanto più confermava l’idea – poco nobile, scusate – che con i classici succede un po’ come quando ci si aspetta agli autogrill: noi lettori partiamo, con i nostri tempi, ma sono i classici ad aspettarci più avanti, e vanno raggiunti. Direi che proprio questa capacità di riformulare il mondo in una narrazione nuova, di essere testo aperto, è la dominante cruciale per un traduttore. La possibilità di continuare a dire diventa allora una bussola nel silenzio. La cosa che a me sta più a cuore quando traduco, infatti, è il non riempire mai i silenzi che un testo racchiude, non riempirli mai di un senso forzato che è frutto solo di una circostanza, di un’esperienza; come sarebbe stato, per esempio, riempire La Peste con la pandemia del 2020. A questo proposito è illuminante il saggio di Nicola Gardini[2] sull’importanza dei vuoti e delle lacune nei testi letterari. Lasciare che il testo parli vuol dire fare un passo indietro, fare economia testuale, togliere perché il lettore possa giocare la sua parte e portare il suo senso dentro a quei vuoti. Chissà che ogni tanto non possa servire anche come giustificazione per qualche dimenticanza! Riguardo a La Peste, oltretutto, ritengo che la prima traduzione di Beniamino Dal Fabbro meritasse davvero una ritraduzione – e non lo dico solo perché me ne sono occupata io. Mentre per la prima de L’Étranger a cura di Alberto Zevi poteva bastare qualche ritocco, quella di Dal Fabbro era invecchiata troppo, o forse era proprio nata male. Peraltro, lui era anche scrittore, poeta, pianista, pittore, di tutto e di più, e questo la dice lunga su come talvolta rischino di essere ingombranti quelle personalità eclettiche che si prestano anche, ma non principalmente, alla traduzione. Nel proteggere i silenzi, appunto, la traduzione del ’48 non fa un gran lavoro: Dal Fabbro interviene massicciamente sulla punteggiatura andando verso la normalizzazione (un tic di molti traduttori non consapevoli), per esempio fondendo molte frasi, cioè eliminando dei punti, quando proprio il punto fermo è un momento di silenzio. Continuare a toglierli ossessivamente, nella fattispecie sostituendoli con i punti e virgola, significa sottrarre al testo i suoi spazi.

S: Trovandosi davanti a un monumento letterario come La Peste, le scelte che si impongono a chi traduce si riducono sostanzialmente a due poli, con diversi gradienti nel mezzo: da un lato, prendere in considerazione, prima di avviare il lavoro, tutto o parte del bagaglio paratestuale che accompagna il romanzo (studi critici sull’opera, sull’autore, vicende bibliografiche, ricezione del testo originale, etc.); dall’altro, adottare quello che i New Critics chiamavano close reading, quindi isolare il testo da eventuali filtri esterni (storici, biografici, politici) per cercare di dar voce soltanto alle parole sulla pagina. Nel caso di una ritraduzione, a questo si aggiunge la presenza ineludibile, che la si interpelli o meno, delle traduzioni precedenti. Entrambi gli approcci comportano dei vantaggi, forse più lampanti nel primo caso, quello degli approfondimenti preliminari. In realtà anche una lettura ravvicinata e che si presume priva di influenze potrebbe mettere al riparo da quelle che Wimsatt e Beardsley definivano nei rispettivi saggi « intentional » e « affective fallacies »[3], ovvero, da un lato, evitare di sovrapporre ciò che dice il testo con le intenzioni del suo autore (supponendo che si possano intercettare) e, dall’altro, non riuscire a distinguere il testo in sé dagli effetti che esso produce sul lettore. Nel caso de La Peste, quale linea di condotta ha seguito? E come ha pensato la strategia di traduzione prima di iniziare il lavoro, anche rispetto alla prima traduzione?

M: Il guaio è che avevo già lavorato tanto su Camus alla fine degli studi universitari, per cui l’opzione “io e la pagina” era comunque impraticabile. Così ho letto il leggibile, esaurendo praticamente tutto ciò che ho trovato alla Bibliothèque nationale de France, a Parigi; con gran piacere, peraltro. Mi ha salvato e insieme frustrato, però, il fatto che in mezzo alla sconfinata bibliografia su Camus, tranne forse per L’Étranger, i testi che analizzano e trattano nello specifico la sua lingua e il suo stile sono pochissimi: ci si concentra piuttosto sulla sua figura di intellettuale, sui suoi temi. Questo mi ha aiutato nell’aprire una fase di faccia a faccia con la tenuta della parola sulla pagina, che poi è sempre l’approccio del traduttore: a un certo punto filtri e digerisci le letture, lasciandole fuori dalla porta.

S: Considerati i due atteggiamenti evocati prima, quale grado di disciplina occorre adottare per mettere tra parentesi il proprio bagaglio di conoscenze al fine di ascoltare il testo e, al contempo, rispettarne i silenzi?

M: Il traduttore è come se fosse, dicono i francesi, tra due casquettes. In prima battuta siamo lettori e, come tali, rispondendo al richiamo del testo letterario (più di quanto non accada con altri testi), portiamo il nostro processo interpretativo, riempiendo così i silenzi. Dopodiché togliamo la prima casquette e indossiamo quella d’autore – che si chiami autore in seconda, al quadrato o invisibile, poco importa. È a quel punto che va lasciato spazio affinché il nostro lettore, italiano, possa anche lui fare il gioco che abbiamo già fatto noi. Da qui forse tutte le derive in termini di nevrosi del traduttore, che è dilaniato tra i due ruoli. A me piace però lasciare che sia il lettore a fare la fatica di abitare quei silenzi. E occorre tanta disciplina, sì. Frequentando molti traduttori, un dato anche caratteriale lo ritrovo spesso: ci sono quelli a cui piace occupare la pagina, che vogliono lasciare in vista la propria autorialità; ad altri piace meno. Nel mio caso, mettermi al servizio dell’autore con tutta me stessa, fare un passo indietro, non mi sembra sminuisca il lavoro o lo renda di statuto secondario, perché in esso convoglio comunque le mie idiosincrasie. Poi noi traduttori siamo abituati ad essere funamboli tra l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande, per cui rientra tra le nostre competenze la capacità di giostrarsi tra una parola apparentemente casuale ma che ritorna spesso, da un lato, e tutto ciò che sappiamo riguardo a quella parola dagli studi preliminari, dall’altro. È un equilibrio che si impara, o si spera di imparare, con il tempo.

S: Qualche anno fa, sulla rivista Tradurre, mi capitò di leggere un articolo[4] in cui parlava del suo primo incontro da lettrice con Camus, attraverso una certa reticella dorata. Oggi invece le chiedo qualcosa in più sul suo incontro con Camus da traduttrice, considerando anche la collaborazione con Bompiani. Com’è nata?

M: Devo dire che li ho un po’ tormentati quand’ero giovane, perché Camus evidentemente è l’uomo della mia vita, con tutto il rispetto per i congiunti! Innanzitutto mi sono laureata con una tesi su Camus. Quando nel 1984, curato dalla figlia Catherine Camus, esce in Francia Le premier homme (che secondo me tra l’altro è il suo romanzo più bello, ancora inedito nella sua valigetta al momento dell’incidente d’auto in cui perse la vita, nel gennaio 1960), io lo leggo immediatamente. Poi, con un candore ancora da ragazzina, prendo il telefono per chiamare Bompiani e dire: « Ho fatto la tesi su Camus e questo voglio tradurlo io. » Ricordo che la Sgarbi[5], carinissima peraltro, rispose che le faceva molto piacere ma che avevano già affidato la traduzione a Ettore Capriolo. Mollo il colpo, ma qualche anno più tardi, per l’edizione completa dei Classici Bompiani – che è un po’ la loro versione della Pléiade francese – mi viene affidata la revisione redazionale delle traduzioni che stavano per mandare in stampa. Si erano accorti che in alcuni testi c’erano molti errori di traduzione, anche marchiani, e quindi mi diedero tutta l’opera di Camus da rivedere rapidamente, in due mesi, per scovarli. Probabilmente perché ero giovane e un po’ sprovveduta, ma anche a causa dei tempi strettissimi, qualcosa di quegli errori è rimasto ancora, soprattutto ne Lo Straniero. Errori peraltro in parte riportati anche nella nuova traduzione; ma pazienza. Quindi un filo conduttore c’è sempre stato. In realtà, il mio sogno era di tradurre L’Étranger. Nel 2015 invece accetto la proposta di ritradurre La Peste, all’interno di una precisa politica di Bompiani: Beatrice Masini, l’attuale direttore editoriale, con una bella definizione la chiama “manutenzione del catalogo”, ossia una rivalutazione dello stato corrente e una revisione periodica di quelle traduzioni, spesso molto vecchie, che riguardano autori stranieri fondamentali per la casa editrice. Su loro richiesta, ad esempio, io ho riguardato la traduzione di Capriolo de Il primo uomo[6], e quella è una traduzione che sta ancora in piedi. Ci sono invece delle traduzioni in commercio che richiedono un rifacimento. In questa manutenzione un ruolo preponderante lo hanno soprattutto gli eredi e gli agenti che curano i diritti di Camus, puntigliosi e attenti al destino dei suoi testi in traduzione. A ogni ritraduzione di Camus, infatti, gli eredi chiedono il mio curriculum, anche se la traduzione precedente l’ho fatta due mesi prima. Persino sulla scelta dei titoli il loro peso conta: ad esempio, tra poco uscirà il carteggio Camus-Casarès e Bompiani aveva proposto di non usare semplicemente “Corrispondenza” nel titolo, ma gli eredi erano in disaccordo[7].

S: A proposito del lavoro su La Peste, può dirci qualcosa riguardo al rapporto con il testo, facendo magari qualche esempio a partire dall’incipit?

M: Come sempre gli incipit sono cruciali in quanto luoghi di ingresso per il lettore. Anche dal punto di vista editoriale, molto biecamente, nel momento in cui uno è in piedi in libreria a leggere le prime quattro righe di un libro, se non funzionano lo chiude e lo posa sullo scaffale. Ma non è questo il caso. Sulle prime righe de La Peste[8] io sono tornata decine di volte, per diversi motivi. Innanzitutto, quel « qui font le sujet de cette chronique » mi faceva diventare pazza. Per la soluzione « descritti » sono debitrice alla traduzione inglese (che avevo e ogni tanto consultavo), che riporta « described »[9]. Gli inglesi vanno via molto più disinvolti nel tradurre, alle volte fin troppo. In italiano non avevo voglia di appesantire con “che sono oggetto”, “che fanno oggetto”, anche perché molto più importanti ritenevo altri due elementi, su cui deve cadere il peso della lettura: le parole chronique e ordinaire. Il narratore usa subito la parola “cronaca”, sia perché erano cronache della peste quelle che Camus aveva letto come documentazione[10], sia perché la pone in antitesi alla parola “romanzo”: la cronaca è qualcosa di asciutto, neutro, anche un po’ noioso, simile a un verbale, a un resoconto dove non c’è ornamento, e quindi dove non si inganna. La Peste è la cronaca rigorosa di una comunità di uomini alle prese con il flagello. Il narratore, la cui identità si scoprirà solo alla fine, vuole dunque farsi il cronista di una città colpita da un flagello. Anche ordinaire creava problemi: non si parla solo di qualcosa di ordinario, ma di comunissimo, di grigio, comune nel senso di condiviso da tutta la comunità degli uomini, tema fondamentale dell’opera. Nell’incipit, il pasticcio per l’italiano era che il primo dei due « ordinaire » è un sostantivo, l’altro un aggettivo che non permetteva di conservare la stessa forma. Grazie a una di quelle intuizioni che arrivano durante le passeggiate, usare « fuori dal comune » e poi « comunissimo » mi era parsa una soluzione leggibile (per quanto io, della leggibilità, me ne infischi abbastanza) e che, nello stesso tempo, teneva insieme i sensi di ordinaire. Comunque credo che ci siano davvero delle parole chiave, in dialogo continuo. Più vado avanti, più cadono anche certe prese di posizione che avevo qualche anno fa a livello teorico (sull’essere una bermaniana di ferro, una sourcière). Più traduco e sprofondo nelle reti di parole, più diventano labili queste appartenenze categoriche. Per me ci sono piuttosto l’attenzione e l’ascolto alla pagina. Se essere una sourcière comporta un ascolto quanto più possibile scrupoloso della pagina e dei suoi silenzi, allora sono una sourcière, o forse una sorcière[11]! A volte dico ai miei studenti, lasciandoli molto frustrati, che le versioni finali saranno sempre “il meno peggio”: ciò che importa davvero, è la voce da ascoltare. Se l’ascolto è ben fatto, la traduzione sarà buona. Ma l’attenzione posta all’esito è sempre maggiore, specialmente nei giovani traduttori, che corrono verso l’italiano.

S: Su cosa le sembra di aver dovuto lavorare di più rispetto alla prima traduzione?

M: Una delle dimensioni che mi sembrava mancasse di più nella vecchia traduzione, ma che io trovo sotterranea al testo, è quella del pathos che viene fuori in alcune scene. Dal Fabbro aveva schiacciato molto il pedale dell’aspetto cronachistico, di noia e grigiore, anche talvolta appesantendolo. Tuttavia, la forza di questo romanzo è che, accanto al rigore della cronaca e al rifiuto dell’ornamento, ossia accanto alla voce dell’intera città, ci sono poi momenti in cui erompe la voce dei singoli, la sofferenza e il senso dell’esilio, cioè quella nostalgia delle felicità individuali che – adesso lo sappiamo bene – bisogna mettere da parte nei periodi di flagello, e che viene tenuta a bada ma non eliminata, all’interno del romanzo. Nelle righe conclusive[12], infatti, è come se l’emozione potesse finalmente emergere e, di conseguenza, il ritmo trova sintonia con il pathos. Ci sono alcuni momenti di vera e propria commozione, che credo colgano anche il lettore alla sprovvista, perché staccano rispetto al tono da verbale del romanzo. Stando lì a mettere in fila le parole, io ho sentito questa commozione fuoriuscire attraverso un senso davvero molto compiuto del ritmo; sul finale, appunto, come il fluire di una musica segreta, che chiude. È lì che mi è sembrato di dover lavorare maggiormente. Così pure in alcune scene delle parti interne, quando ad esempio il giornalista Rambert si aggira nella stazione vuota guardando i cartelli che invitano a una vita felice a Cannes o a Bandol: un’immagine che restituisce l’idea dell’esilio più di qualsiasi discorso già affrontato sull’esilio e sulla solitudine. Il ritmo è una bussola terribile, perché poco studiato per la prosa. Quindi bisogna un po’ navigare a vista, con il proprio metronomo interiore. Mi ricordo che alla mia primissima traduzione, un romanzo di Héctor Bianciotti, l’autore mi scrisse poi un biglietto molto carino, in cui diceva: «Madame, la cadence, c’est tout!».

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Note

[1] Una definizione sintetica di peste verte si trova in Giniewski e Matteoli, Israël, les islamistes extrémistes et les démocraties occidentales, « Rivista di Studi Politici Internazionali », Vol. 71, No. 2, 2004, 231: « La “peste verte” désigne l’infime minorité des islamistes extrémistes qui se couvrent de la religion pour camoufler leurs buts politiques et tenter de justifier leurs activités criminelles sous le manteau du jihad, et dont l’opprobre rejaillit sur une majorité d’innocents. »

[2] Nicola Gardini, Lacuna. Saggio sul non detto, Einaudi, 2014.

[3] Inclusi nella raccolta The verbal icon: Studies in the meaning of poetry, in W. Wimsatt e M. Beardsley (a cura di), Lexington, University of Kentucky Press, 1954, 3-18.

[4] Y. Melaouah, La reticella dorata. Come sono diventata traduttrice, Rivista Tradurre, 15, 2018.

[5] Elisabetta Sgarbi, direttrice editoriale di Bompiani fino al 2015.

[6] Albert Camus, Il primo uomo, Milano, Bompiani, 1994.

[7] Il testo è stato infine pubblicato da Bompiani nel 2021 con il titolo Saremo leggeri. Corrispondenza (1944-1959).

[8] Per comodità di consultazione e confronto, riportiamo in nota l’incipit originale e le sue due traduzioni:

T0 : Les curieux événements qui font le sujet de cette chronique se sont produits en 194., à Oran. De l’avis général, ils n’y étaient pas à leur place, sortant un peu de l’ordinaire. À première vue, Oran est, en effet, une ville ordinaire et rien de plus qu’une préfecture française de la côte algérienne. (Camus, La peste, Gallimard, 1947, p. 11)

T: I singolari avvenimenti che dànno materia a questa cronaca si sono verificati nel 194… a Orano; per opinione generale, non vi erano al loro posto, uscendo un po’ dall’ordinario: a prima vista, infatti, Orano è una città delle solite, null’altro che una prefettura francese della costa algerina. (Camus, La peste, Bompiani, 1948, p. 5)

T: I singolari avvenimenti descritti in questa cronaca si sono prodotti nel 194. a Orano. Era opinione diffusa che capitassero nel luogo sbagliato, trattandosi di avvenimenti un po’ fuori dal comune. E Orano è invece, a prima vista, un posto comunissimo, una semplice prefettura francese della costa algerina. (Camus, La peste, Bompiani, 2017, p. 9)

[9] La prima traduzione statunitense è di Stuart Gilbert: The Plague, pubblicata nel 1948 da Alfred A. Knopf.

[10] Per un approfondimento sui documenti medici e storici da cui attinse l’autore, si rimanda a Marie-Thérèse Blondeau (1986, 1999) e Jacqueline Lévi-Valensi (1991, 1999).

[11] Cioè una strega, parola che in francese ha una pronuncia molto vicina a quella di sourcière.

[12] Che riportiamo di seguito: « Écoutant, en effet, les cris d’allégresse qui montaient de la ville, Rieux se souvenait que cette allégresse était toujours menacée. Car il savait ce que cette foule en joie ignorait, et qu’on peut lire dans les livres, que le bacille de la peste ne meurt ni ne disparaît jamais, qu’il peut rester pendant des dizaines d’années endormi dans les meubles et le linge, qu’il attend patiemment dans les chambres, les caves, les malles, les mouchoirs et les paperasses, et que, peut-être, le jour viendrait où, pour le malheur et l’enseignement des hommes, la peste réveillerait ses rats et les enverrait mourir dans une cité heureuse. » (1947, p. 279).

Le solitudini smarrite di Paolo Zardi: “La meccanica dei corpi”

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Josef Albers, "Homage to the Square: Renewed Hope", 1951

 

Josef Albers, “Homage to the Square: Renewed Hope”, 1951

 

di Daniele Ruini

Sopportare la vita: questo è pur sempre
il primo dovere d’ogni vivente.
(S. Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e la morte)

 

Quante sono le circostanze che possono mettere un essere umano all’angolo? E come reagiamo quando siamo alle strette o quando ci sentiamo ormai completamente estranei al mondo che ci circonda? Non so se Paolo Zardi sia partito da domande analoghe, ma di certo nelle cinque storie raccolte in La meccanica dei corpi (Neo edizioni) il prolifico autore padovano –tornato in libreria a due anni dal romanzo Memorie di un dittatore (Giulio Perrone editore)– coglie i suoi personaggi in momenti di profondo smarrimento. E come già per una sua precedente raccolta, Il giorno che diventammo umani, anche in questo caso il titolo –che rimanda alla citazione newtoniana in epigrafe– condensa in maniera suggestiva ciò che Zardi ha voluto raccontare, ovvero il modo in cui funzioniamo quando mettiamo in moto una reazione a una situazione che ci sfugge di mano e che quasi sempre è, in realtà, il prodotto di nostre scelte.

Quelle offerte da Paolo Zardi sono vicende di deragliamento a partire da un momento di crisi; può trattarsi dell’azzardo compiuto per non affogare in un contesto lavorativo sempre più soffocante; della percezione da parte di un vecchio di aver esaurito le motivazioni per rimanere in vita; del tentativo di aprirsi a incontri bizzarri per dare un’ultima chance a un’esistenza solitaria; di un incidente che sposta gli equilibri e sfigura le relazioni più intime; dell’incapacità di sottrarsi a un desiderio tanto travolgente quanto autodistruttivo.

Complessivamente ne La meccanica dei corpi domina un senso di solitudine e scadimento del presente. Il nostro tempo, così come emerge da queste storie di ambientazione contemporanea (si citano lockdown, lavoro a distanza e mascherine), è un’epoca di scarsa socialità, avidità e ultracompetizione; non a caso torna più volte la metafora della lotta per la sopravvivenza, una lotta che riguarda tutti e in cui anche chi sembra trovarsi stabilmente dalla parte dei vincitori, come il protagonista dell’ultimo racconto (Il Signor Bovary), può soccombere.

Curiosamente il libro si apre con la descrizione di una città, ma in verità tutti i racconti si svolgono in provincia. E Zardi si mostra molto abile nel pennellare con pochi tratti dettagli che, da soli, compendiano lo squallore di ambienti ed esistenze ordinarie; penso, per esempio, nel primo racconto, al padre che va a prendere la figlia in stazione «con il pi­giama sotto il maglione e un pezzo di salsiccia ancora incastra­to tra i denti»; oppure, nel quarto racconto, alla descrizione di una vecchia zona industriale i cui marciapiedi sono occupati da «bottiglie rotte, sacchi dell’immondizia, scarpe abbandonate: ingredienti di un mondo finito chissà quando».

Se è vero che «c’è una calamita piazzata davanti a tut­ti, e tutti andiamo in quella direzione, ciechi e sordi a ogni di­strazione», lo scivolare verso il centro di un imbuto (altra immagine adoperata da Zardi) dei personaggi de La meccanica dei corpi non rappresenta nient’altro che il compimento dei loro destini, un compimento che non ha alcuna spiegazione se non il suo stesso manifestarsi. E il lettore precipita insieme a loro, trascinato da un autore che non lascia respiro e che sa maneggiare come pochi la meccanica del racconto.