Tentativo serenamente fallimentare di descrivere la mostra di Reggio Emilia
di Fabio Pedone
Come chiamarle se non ‘scritture’? Esse si impongono in quanto tali. Nella chiesa di San Giorgio ci sono i resti (bruciati, brucianti) di un’esplosione di segni, i relitti di un big bang irrimediabile, una magmatica costellazione. A un primo colpo d’occhio la navata appare occupata da quattro file di teche, con fogli, testi, opere-operazioni, riviste e manifesti, oggetti. Impressione di potenza e di fragilità. Ci sono manoscritti inediti, fogli e foglietti, carte e cartulae, taccuini, quaderni a quadretti, lettere, fotografie, bozze e prove di stampa, edizioni con correzioni autografe, testi scritti su vetro, cartone, lastre di zinco; le Idrologie escogitate con Cegna e Craia; i numeri di «Appia Antica», della brasiliana «Habitat», di «Arti visive» burrascosamente condiretta con Colla, le cinque uscite di «Ex» preparate con Mario Diacono e altri, «Tauma» e le altre riviste che ospitavano la smisurata operatività villiana. Ci sono i dattiloscritti, con aggiunte autografe, della traduzione della Bibbia. Ci sono edizioni antiche di Athanasius Kircher, per la cui eclettica polimathia Villa nutriva ammirazione. Quasi tutto il materiale manoscritto (spesso su labili supporti) e le traduzioni bibliche vengono dal fondo della Panizzi, diverse opere verbovisive (molte delle quali esposte proprio davanti alla chiesa, dentro la biblioteca) dall’Archivio di Nuova Scrittura di Bolzano. Molti i prestatori di edizioni introvabili e opere d’arte. Un cartello esplicativo con un testo non firmato (ma di Nanni Cagnone) evidenzia in Villa «la speranza di ottenere un silenzio originario a furia di dire», la ostinata tensione verso l’elusione della storia, raccordando origine e futuro, scavalcando arcaicità e avanguardia; l’importanza della figura del labirinto manieristicamente intesa, il foedus significante-significato rotto e calpestato, gettato in una segreta circolazione fra copertura e rivelazione, in una sfida sbilenca, sberleffo e implorazione, con la Sibylla: «una lingua sconosciuta, esagerata, insieme beffarda e sacrale».