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Troppo stretta, questa morte

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di Ornella Tajani

Troppo stretta, questa morte è il romanzo d’esordio di Serena Cacchioli che, seppur ancora inedito in italiano, è stato fin da ora pubblicato in portoghese per le edizioni Lingua Morta (Lisbona) nella traduzione di Sofia Andrade. Già nell’infanzia editoriale di questo libro c’è dunque una spaccatura, che ne è in fondo la figura strutturale: non solo perché la narrazione è divisa tra due paesi, e due città in particolare – Lisbona e Parma –, ma anche perché il punto focale del testo si situa fra due grandi temi, il lutto e il desiderio.
In Un destino di felicità, sorta di abbecedario rimbaldiano, Philippe Forest sceglieva il termine Deuil (lutto, appunto) per la lettera D, ossia quello che a suo avviso rappresentava il rovescio della medaglia del Désir. Riprendendo una definizione di Aragon, Forest spiegava che Deuil e Désir formavano il suo “Sistema Dd”, il suo sistema Dada. «Deuil è la parola che spezza la vita in due, stabilendo un prima e un dopo; ma è anche il vuoto, la mancanza strutturante che il desiderio cerca per tutta la vita di colmare», scrivevo nella recensione.
Anche il romanzo di Cacchioli sembra governato da un «sistema dada», alla cui origine sta il lutto materno: un vuoto, un enigma rimasto tale finché la narratrice non intraprende una sorta di indagine sulle tracce della madre, per ricostruirne la figura e il percorso, per recuperarne le tracce e i ricordi – indagine che necessariamente si rinfrange su chi narra, costringendo a interrogarsi e accompagnando nuove tappe della formazione. La ricerca di chi non c’è più diventa anche racconto di chi c’è, di chi parla; l’intento di ricomporre un ritratto porta a (ri)disegnare due figure femminili, figlia e madre.
Troppo stretta, questa morte, il cui titolo è ripreso da una frase che Alfio pronuncia in La storia di Morante, resta dunque più un racconto di formazione che un récit de filiation, come il critico Dominique Viart ha definito i testi in cui il protagonista è un ascendente di chi narra – o, al limite, è un racconto di filiazione in absentia, che dunque si presta a esercizi di immaginazione sulla cui legittimità s’interroga la stessa narratrice.
L’italiano di questo romanzo è ibridato dalla conoscenza e dall’esperienza di altre lingue, dalle quali ha assorbito molto, salvo poi distaccarsene e conservarne soltanto delle venature, che a tratti rilucono tra le righe; è una lingua intrisa di letteratura e poi lasciata essiccare a lungo, fino a raggiungere una pulizia e una potenza notevoli – il tutto incorniciato in una struttura in frammenti ben governati, quasi dei piccoli quadri autonomi.
Presento qui alcuni estratti del libro, con l’augurio di vederlo presto pubblicato anche in Italia.

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2.

Rimasugli mentali di un viaggio in treno verso Cesinali con la nonna materna, la nonna Italia. Era sorridente e sferica, sferruzzava in carrozza e rispondeva con poche parole alle mie domande. Nel nostro vagone passavano varie persone, ma nessuna si fermava per tutta la durata del viaggio. La prima volta che la nonna aveva visto il mare, mi aveva raccontato, era stato dal finestrino di un treno. Aveva quarant’anni e pensava che fosse un campo di verze. A lei nessuno aveva mai detto che esistesse il mare. Andavamo, scorrendo sui binari, verso un posto dove lei era nata e cresciuta, dove avrei potuto immaginarla bambina come me. Il posto dove aveva messo al mondo i suoi figli, tra cui mia madre. Un posto che poi mi era sembrato solo un paesino incastonato fra le montagne, freddo anche in estate, devastato da ricordi di terremoti e tragedie. Un posto attraversato da continue processioni, feste di paese, pannocchie fritte, musica di chitarra e concertina. Non riuscivo a immaginarla lì. Mi raccontava che andava a piedi dal paese più piccolo fino a quello più grande, molti chilometri che allora io non sapevo concepire come distanza, tutti fatti con una cesta di verdure dell’orto sulla testa, sulla capa, da vendere al mercato. Una vita di avanti e indietro a piedi, senza conoscere nient’altro se non il suo orto, il paese più piccolo e il paese più grande. E la strada tortuosa e in salita che li univa. Tutta una vita racchiusa nel percorso tra un paese e l’altro. Io, la nonna, la sapevo immaginare solo dove l’avevo conosciuta: nel suo appartamento al quarto piano di via Abbeveratoia, con due stanze piccole piccole, dove il massimo del suo percorso era andare dal divano alla sedia e dalla sedia al divano, ricevendo in viso il riverbero azzurro della televisione che non guardava.

 

3.

L’ultima volta che sono tornata in Italia ho preso e portato con me alcuni oggetti che sono appartenuti a mia madre. Di tutti, il mio preferito è un maglione giallo opaco e sformato. Era un maglione che aveva passato anni da solo nell’armadio di casa, un po’ scostato da una pila di altri indumenti che le zie non avevano preso. Ha aspettato paziente il momento che io raggiungessi la grandezza giusta per riempirlo. Verso i quindici anni potevo già metterlo e forse ogni tanto lo provavo davanti allo specchio, ma ho cominciato a indossarlo veramente soltanto all’inizio dell’università. Lo usavo nelle sere d’estate quando fa caldo di giorno, ma fresco di sera. È un maglione di cotone, sembra pesante e invece è leggero, lascia passare tutta l’aria. Mi ero sorpresa a usarlo nelle occasioni che mi sembravano importanti. Lo portavo un pomeriggio sul lungomare di Livorno, a mo’ di portafortuna e poi lo portavo una sera, a Pisa, una volta che si doveva mettere un punto a una storia, oppure trovare il modo di continuare. La sera che invece si rovesciò, inavvertitamente, un bicchiere di vino rosso sul mio maglione. Irrecuperabile. La macchia si allargò arrestando il dialogo all’improvviso. Noi, sotto ai portici di Piazza Vettovaglie, in bilico sulle sedie d’acciaio, con lo stuzzicadenti a metà tra la bocca e l’oliva, le tartine sparse sul tavolo e i dialoghi interrotti. Quando ci scongelammo, sentii una voce che diceva te lo lavo, te lo recupero, lascialo a me, non preoccuparti. Sapeva quanto fosse importante. Ma ci stavamo lasciando, quella sera. Non potevo di certo dare in affidamento il maglione così. Ma sì invece, che c’entra, te lo lavo, te lo pulisco, poi te lo restituisco. Ma no, invece, e se non ci rivediamo mai più? Ma non dire sciocchezze, le so togliere le macchie di vino, te lo riporto in settimana. Lo tenni con la macchia e in settimana non ci rivedemmo. Io non le sapevo togliere le macchie di vino. E ogni volta che lo guardo, quel maglione sbiadito, mi ricordo di quella sera dolorosa, l’inizio di un’incrinatura definitiva. Da quel giorno in poi ho iniziato a metterlo solo ogni tanto, solo in casa. Mi ci sdraio dentro, mi ci dimentico di me. Ho una foto della mamma con quel maglione. Siamo io e lei contro un parapetto, abbiamo il vento nei capelli, io sono piccola, con il caschetto scompigliato, forse non so nemmeno ancora scrivere e ci teniamo per mano. Lei ha i capelli corti, un po’ mossi, non so dov’eravamo, né che anno fosse. Dopotutto la geografia non conta e l’anno nemmeno. Quello che conta è la testimonianza di quella calma atemporale, di quel maglione nel vento ancora senza macchie, e della mia mano nella sua mano, piccola com’ero.

4.

Ma provo sempre una certa difficoltà anche solo a scrivere o dire la parola madre o mamma. Difatti non la dico mai, neanche quando mi devo riferire a quella delle mie amiche. Cerco sempre il nome proprio della persona o un altro modo per chiamarla. Quella parola ha, nella sua facilità linguistica, qualcosa di arcaico e di morbido che mi turba. Mi ha sempre messo in imbarazzo la naturalezza con cui sta sempre sulla bocca di tutti, anche abbreviata o vezzeggiata: ma’, mami, memi. Mi chiedo come far fronte a questa parola. Mi chiedo se non sia il caso di riafferrare qualche filo, anche solo linguistico, rimasto spezzato da qualche parte nel tempo, e riannodarlo a me. Ho sempre fatto poche domande in casa e, ogni volta che chiedevo qualcosa, mi sembrava di dover sollevare una pietra enorme che richiedesse delicatezza e destrezza nel maneggiarla, oltre a una gran fatica. Non sapevo mai cosa avrei trovato sotto quella pietra. A volte polvere, a volte ricordi, spesso lacrime, a volte, invece, niente. E quel niente ha riempito tutto il tempo dell’infanzia, dell’adolescenza, fino all’oggi. Un vuoto di memoria dopo l’altro, ognuno pieno di niente. Un tentativo dopo l’altro di sollevare la pietra senza trovarci sotto granché. Non per assenza di informazioni, né per un qualche tabù. Non per estrema delicatezza, né per morbosità. Non per mancanza di domande, né per mancanza di risposte. Soltanto che veniva più facile non parlarne più. Abbiamo iniziato tutti a fare altre cose. Ognuno si è infilato nella propria vita portandosi dentro di sé un lutto segreto. Io ero piccola, con poco criterio di me stessa e non so dove avessi deciso di nascondere la tristezza. La vita poi si è sempre sovrapposta ai vuoti come la carta da schizzi nei disegni degli architetti. O dei geometri. Credo di avere iniziato, a un certo punto, la mia scoperta del mondo e di aver creduto di dimenticare il resto. Prendevo aerei, andavo a concerti, mi affacciavo su persone sconosciute, m’infilavo in posti ignoti. Cambiavo città, mi tagliavo i capelli. Mi facevo infrangere il cuore e infrangevo cuori io stessa. Ma forse certe sofferenze che pativo da lontano erano legate a quei vuoti.

8.

Lisbona è facile da controllare. La vivo ormai da molti anni. Ci sono arrivata per studiare e poi per viverci dentro. La vedo dall’alto ogni volta che la sorvolo, in aereo. Si snoda e si attorciglia su edifici grossi e pericolanti, si apre su piccole rotonde, ospedali e biblioteche come blocchi di cemento in mezzo al traffico. A volte si arriva volando da Sud e si assale la città dal fiume, dal ponte rosso, dalla riva brulicante di persone. A volte, invece, si arriva da Nord o Nordest e si attraversa l’aria delle periferie sfilacciate, si vola così basso che si possono vedere le persone alle finestre, i cortili con le sedie fuori, i terrazzi con i panni stesi. In lontananza il ponte Vasco da Gama sembra un sottile filo di gomma da masticare che si allunga da una riva all’altra, da un labbro all’altro. Lisbona è tutta lì, chiusa tra la periferia e il fiume. E si sviluppa in altezza, sulle colline. […]
Parma, riesco a vederla solo riflessa nelle pozzanghere delle piazzette dell’Oltretorrente. La vedo sporchina, nebbiosa, piena di fumi. Ma all’inizio dell’autunno, con la luce rosata del pomeriggio, dà il meglio di sé. Ha le polveri sottili, le targhe alterne, i capannoni e le fabbriche affacciate sulle strade di provincia. Emana sentimenti sottili. Impossibile da abbracciare, si può solo osservare dal suo stesso ventre. È come una palla di vetro con dentro la neve finta in cui la torre Eiffel, immobile e spaurita, sono io. Non mi ricordo i nomi delle sue vie, dei suoi ponti, non mi ricordo i numeri e i percorsi dei suoi autobus. Non mi ricordo quasi mai quasi niente di lei. Ogni volta che ci torno, gli amici mi danno appuntamento nei loro luoghi che io non so più riconoscere e non so mai come arrivarci. La mia città mi dà le vertigini, non mi appartiene e sono dentro di lei. Io non le appartengo e lei è dentro di me.

10.

Siamo a bordo di una bicicletta bordeaux con le ruote sottili. Io sgambetto seduta sulla canna, ho sette o otto anni; il babbo pedala fischiettando, ne ha trentasei o trentasette. Siamo rimasti soli, noi due, ma non siamo preoccupati. Solo tristi. In estate, alla sera, andiamo sempre al Parco Ducale, in giardino, diciamo tra noi. Ci sediamo ai tavolini del chiosco e lui chiede un gin-fizz. I camerieri sembrano appena sbarcati da un’altra epoca. Sono tutti uguali con le loro camicie bianche e scuotono i muscoli per shakerare i cocktail. Sono sempre molto gentili con me, mi trattano come se fossi una signora. E il mio accompagnatore ride. In giro c’è solo gente del quartiere che arriva in ciabatte, mangia un gelato e se ne va. La formalità dei camerieri fra i tavoli sembra fuori luogo. Io prendo una granita al tamarindo e stiamo lì ad aspettare che la sera ci rinfreschi le gambe allungate sotto il tavolo, con il naso sull’odore del limone che friccica dentro al gin-fizz del papà.

13.

Poi, certo, c’è la questione dell’archivio e dell’archiviare. Cosa teniamo e cosa buttiamo di noi stessi? Dei nostri rapporti con gli altri? Di lei non mi è rimasto niente di scritto. Solo uno scontrino, trovato per caso in un cassetto qualche anno fa, sepolto da altri oggetti inermi. Il dorso dello scontrino dice «oggi è una giornata così così». E poi dice «Giuliana» varie volte, con grafie diverse e alcuni scarabocchi, come di chi prova una penna nuova e non sa cosa scrivere. Quel giorno era una giornata così così. Di tutte le quattordicimilanovecentosessantacinque giornate che ha vissuto, nei suoi quarantun anni di vita, è rimasto solo questo scontrino spiegazzato testimone di una giornata così così. Forse dà testimonianza di quello che sono la maggior parte delle nostre giornate. Senza grandi sconvolgimenti, senza grandi drammi, senza grandi esuberanze. Senza nulla da registrare per i posteri. Una distesa languida di calma o di noia con qualche pensiero che deraglia sulle impossibilità del presente, qualche sguardo al paesaggio che ci circonda.

 

Una storia finita bene

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di Walter Nardon

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La corriera frenò in modo brusco, andando quasi a sbattere contro il cestino posto accanto al palo della fermata: l’autista era nuovo. I passeggeri già in piedi oscillarono aggrappandosi chi a un sedile, chi alla propria valigia. Poi le porte si aprirono e cominciarono a scendere. La prima fu una donna bionda che teneva per mano un ragazzo di undici anni con un enorme zaino e nell’altra un trolley di medie dimensioni. Per quanto potesse sembrare inverosimile, aveva scritto alle amiche che si sarebbe regalata un fine settimana di vero relax.

Si fermò un istante a controllare il telefono. Mentre il soprabito grigio e la cartella di pelle nera indicavano un’eleganza ordinaria, ma innegabile, il figlio era ingolfato in un enorme piumino nero con felpa viola oversize, pantaloni da paracadutista e scarpe da basket il cui abbinamento esprimeva un che di ostinato e di casuale.

«Non ci sarà nessuno della mia età».

«Ci saranno al corso. Te l’ho già detto. Non lamentarti».

«Posso avere almeno il gelato?».

«Arriviamo in albergo e poi vediamo».

Anna aveva già soggiornato in quella località balneare per famiglie: la prima volta ci era rimasta dieci giorni, in una meta che a vent’anni avrebbe trovato improponibile ma che a ventiquattro, con le amiche, aveva assunto un’altra fisionomia e che a ventotto l’aveva addirittura conquistata con l’atmosfera e la vita capricciosa che muoveva i turisti verso le uscite più improbabili. Naturalmente, allora stava con Paolo.

Si voltò indietro: «Finiscila di lamentarti, siamo quasi arrivati».

In effetti l’albergo era proprio lì a due passi. La facciata aveva subito una risistemazione che l’aveva resa meno monumentale; anche il colore, ora verde oliva al posto del bianco, se nelle intenzioni avrebbe dovuto renderlo più accessibile, in realtà l’aveva sminuito fino a farlo confondere fra gli altri, mentre allora era inequivocabilmente uno dei più eleganti piccoli hotel della cittadina, un tre stelle che avrebbe meritato di più. Comunque, nonostante la bassa stagione, quasi non era riuscita a trovare posto.

Da uno dei tavolini davanti all’entrata la salutò una signora robusta che si stava alzando proprio in quell’istante: «Buon giorno, ben arrivati». Aveva più di settant’anni.

Anna rispose con un cenno di capo.

«È sempre un piacere incrociare una donna indipendente».

Appena dentro, la signora chiamò un commesso perché si prendesse cura della valigia.

«Le do subito i documenti», disse Anna.

«Oh, no, per carità, non a me, può farlo alla Reception con tutta calma. Si tratterrà a lungo?»

«No. Solo per il fine settimana»

«Beh, spero di avere il tempo di conoscerla. Ricordo al nostro eroe che a partire dalle quattro si serve la merenda» disse, allontanandosi verso l’interno e rimettendo a posto il soprabito sopra uno splendido vestito a fiori. Il ragazzo intanto giocava con le caramelle poste in un vaso sul banco della Reception.

«Mirco, non farmi incazzare».

 

2.

Il rapporto col denaro nasconde spesso motivazioni complicate. Ad esempio, per quale ragione entrare in una boutique monomarca a comprare un abito da mille euro se, grazie a qualche sapiente indicazione, per lo stesso capo ce la si potrebbe cavare con meno della metà rivolgendosi direttamente a un outlet, o meglio allo spaccio aziendale? Di fronte al dilemma, e al prezioso suggerimento che aveva dato a sua cugina, lei gli aveva risposto: «Per una volta non voglio fare calcoli, voglio fare come quelle che se lo possono permettere» ed era corsa felice a buttar via i suoi soldi. Ecco, avere stima di sé in virtù della capacità di affrontare un sacrificio gratuito è sicuramente un argomento da approfondire.

Da quasi undici mesi Enrico era un uomo libero, se non fosse che tutta quella libertà – più apparente che effettiva – gli era piombata addosso improvvisa dopo la separazione e certo non per scelta sua. Partito alle undici da Rimini, dove si trovava da due giorni per chiudere una compravendita, ora guidava lungo le distese dell’A14 Adriatica. Si sentiva meglio. Certo sua cugina cercava il riscatto in direzione sbagliata. Come sempre si faceva strada in lui qualcosa di spontaneo, che si accompagnava però a una determinazione incerta, come se la volontà, prima di giungere a effetto, dovesse passare il vaglio del raziocinio pagando di volta in volta un prezzo più alto e finendo per estenuarsi; in parte questo era frutto di un carattere poco volitivo, ma la parte prevalente andava ricondotta alla crisi che l’aveva colto nei mesi della separazione e che non era ancora scomparsa. Sì, aveva ricominciato a uscire, prima con qualche amico poi, su consiglio dei suoi familiari, in contesti lontani dalle sue abitudini, ma non ne era ancora fuori. I corsi di ballo lo avevano stufato, così a un certo punto era passato alle gite. L’aveva conosciuta proprio in una di queste, in un viaggio verso un museo di Treviso che non gli sarebbe mai venuto in mente di visitare (la mostra era stata messa in piedi attorno a cinque tele di valore, il resto era poca cosa); anche se non disprezzava di dare di tanto in tanto un’occhiata alle pagine culturali, l’arte lo consolava poco. Era più che altro un uomo da esercizi all’aria aperta, o almeno era contento di pensarlo. In realtà usciva poco e si muoveva solo per i sopralluoghi legati all’acquisto o alla vendita di capannoni dismessi; lo faceva con grande accortezza, parlando con tono pacato e lasciando in albergo mance ragionevoli e altrettanto discrete che rispondevano a una strategia personale per affrontare l’imprevisto: supponeva di aver reclutato in un certo numero di alberghi del Triveneto una schiera di alleati pronti a venire in soccorso del meno rilevante dei suoi bisogni. Del resto, non amava gli inconvenienti. Rosa, la sua quasi ex-moglie, lo riteneva unico nel suo genere, ma poi se n’era andata con un imprenditore del settore plastica con la passione per l’e-bike. Proprio perché lavorava in un mercato turbolento – e, dopo la separazione, in una congiuntura peggiorata – il ricordo dei sacrifici sostenuti per uscire dalle aule universitarie reclamava di tramutarsi in qualcosa di durevole.

Il piano di spedire Mirco al corso di scherma era suo; dopo una rapida valutazione, Anna non aveva trovato nulla da ridire.

 

3.

In effetti, il primo pomeriggio andò meglio del previsto. Si era fatta dare in anticipo il pezzo di torta della merenda di Mirco e lo aveva accompagnato – recalcitrante ma fiero della sua nuova tuta – fino alla storica palestra di scherma distante ottocento cinquantatré metri dall’albergo (così il cellulare). Lì, dopo le rassicurazioni sulla regolarità dell’impianto, si era fermata solo un quarto d’ora; del resto, e in questo caso provvidenzialmente, Mirco non amava che sua madre si fermasse a guardarlo mentre impugnava il fioretto. E dunque era rientrata. Enrico era già arrivato: camera sullo stesso piano ma dietro l’angolo. Per Anna e il figlio, invece, camera doppia con porta comunicante. Per lei letto matrimoniale: «Voglio stare comoda».

Certi alberghi sanno offrire ogni sorta di confort.

 

4.

La sera, Anna e Mirco erano scesi a cena in un tavolo in mezzo alla sala da pranzo. Dietro di loro la signora dal vestito a fiori, ora in un’elegante fantasia color vinaccia, conversava con un’amica che era venuta a trovarla. Enrico stava in un angolo, col tablet davanti, simulando la posa di chi non ha tempo da perdere neanche quando mangia (anche se un’occhiata verso Anna, ogni tanto, continuava a darla).

Scomposto sulla sedia, Mirco era seccato con i compagni di corso «degli stronzi», ma aveva imprevedibilmente apprezzato il maestro perché fin dall’inizio – nella prontezza e precisione nell’uso dell’arma – aveva saputo intuire alcune qualità che nel suo gruppo sportivo erano state già colte come promettenti. Ora, due pareri a favore erano quasi una certezza. Non era arrivato al punto da ringraziare la madre, ma non era troppo scontento e quindi lei si era complimentata da sé:

«Hai visto che abbiamo fatto bene? Io sto un po’ al mare e tu migliori nella scherma. Vedrai come ti guarderanno i tuoi compagni di squadra al ritorno, già lunedì».

«Sì, ma resta il fatto che qui sono stronzi».

La signora dietro il loro si chiamava Erminia. Dalla conversazione (una delle due aveva problemi di udito) Anna aveva compreso che si trattava della moglie di un giornalista che si occupava di cose di Chiesa, un vaticanista. Questa specializzazione esotica doveva aver portato con sé un gran numero di relazioni, poiché la donna – col tono ricorrente di certi ambienti della capitale – parlava di personalità note come se fossero di casa. E non solo l’amica non aveva nulla da ridire, ma nella sua conversazione confermava la disinvoltura con cui l’altra parlava di queste relazioni. Aveva ovviamente incrociato molti cardinali e giornalisti; di passaggio aveva perfino fatto cenno a Enzo Biagi; conosceva il mondo cinematografico. E poi la politica, i nomi dei maggiori esponenti di orientamento democratico cristiano per lo più scomparsi, o anziani e acciaccati. Si fermò pericolosamente sulle soglie del caso Moro, di cui però, a sentirla, si era fatta un’idea che sintetizzando si poteva riassumere in questo modo: hanno lasciato che le cose seguissero il loro corso. Nella sua aggettivazione musicale mostrava di essere invecchiata in un ambiente in cui il bene era un contrassegno di riconoscimento che rendeva più facile intendersi, almeno «fra simili».

«Dici del vescovo di ***? Sì, l’ho visto di recente. Sarebbe una testa finissima, se non fosse impaludato in mille questioni della diocesi. Deve trovare qualcuno, gliel’ho detto, non può mica sperare di fare tutto da solo. Suo fratello, invece, è uno psicologo. Uno bravissimo, dicono; e così serio. Dovrei proprio scrivergli».

La soddisfazione del pomeriggio (e dei quattro passi in solitaria sul lungo mare, poco prima di tornare a prendere Mirco) aveva lasciato in Anna un appagamento che la rendeva padrona di sé. Non aveva quasi guardato in direzione di Enrico. Fra il primo e il secondo aveva preso in mano il telefono e aveva confermato quanto già detto alle amiche: «Non avete idea. Qui si sta davvero benissimo».

 

5.

C’era di che riflettere. L’aumento degli affitti per gli studenti universitari aveva determinato un effetto secondario sulla generazione più vecchia, quella di chi lavorava con contratto precario – ma anche di un buon numero di partite iva – che per effetto di questa concorrenza d’un tratto si era trovata ad affrontare la questione-alloggio in modo molto più complicato del previsto. Non era una novità, questa semmai la vedeva nel tono del quotidiano finanziario, in genere poco sensibile al tema. Ristrutturando un immobile con i benefici per la destinazione ad alloggio per studenti, c’era chi aveva colto l’occasione di un buon profitto, ritoccando poi il canone verso l’alto perché ora si trattava a tutti gli effetti di un nuovo appartamento. Tutto legittimo, si intende, tranne – a ben vedere – i benefici statali, che non sembravano essere finiti nella direzione sperata, a meno che non si volesse malevolmente credere che questa fosse proprio quella di incentivare la speculazione. Lui, per ora, non ne era stato toccato.

Anna lo stupiva. La sua disinvoltura, il suo approccio così disinibito lo aveva conquistato più che nei loro precedenti incontri: si mostrava in completo accordo con lui, senza il minimo sforzo di piacergli. Lo aveva sorpreso, sciogliendolo per un istante dalle complesse necessità della sua prudenza per condurlo a vivere il presente senza imporvi, per così dire, la solita ipoteca. Aveva una coscienza del suo corpo così serena. O forse, più semplicemente, gli si era affezionata: gli voleva bene. Per quanto i loro incontri esigessero un’organizzazione complessa – e  per quanto questa comportasse senza dubbio costi non trascurabili – si sentiva propenso ad affrontarla; anzi, come in questo caso, aveva perfino cominciato a contribuire, a dare ad Anna una mano concreta.

Passò in rassegna le previsioni per la domenica, poi tornò a un articolo sui limiti degli investimenti in ambito digitale.

Certo, in astratto, la sua non poteva definirsi una situazione vantaggiosa: difficilmente Anna avrebbe potuto trasferirsi. L’affidamento congiunto di Mirco con l’ex-marito la vincolava, questo era inevitabile; ma il ragazzo stava crescendo. Dopo aver sperato, per lo più inconsapevolmente, che fosse lei a trasferirsi, da un po’ di tempo aveva cominciato a valutare un’opzione remota, quella di fare lui il grande passo; ma le difficoltà non mancavano e sapeva che gli ostacoli sarebbero cresciuti, proprio ora che stava riguadagnando un po’ di calma. Aveva intuito che non sarebbe stato tanto il lavoro a soffrirne, quanto proprio ciò che a lungo gli era stato più a cuore, il momento in cui staccava e poteva tornare a casa conscio di aver fatto il suo dovere. In fondo, non avendo figli, per lui la casa si era ridotta alla funzione di rifugio-tana in cui ritirarsi dalle eccessive preoccupazioni materiali, il luogo di un relax che non doveva essere interrotto.

Anna era discreta, elegante, cosa ancor più degna di nota, dato che lo stipendio era di molto inferiore al suo. In più aveva gusto; e si sa, il gusto in queste faccende è tutto. Prendere una nuova casa in affitto, arredarla quel minimo da avere ogni cosa a portata di mano (in sintesi, riprodurre su scala maggiore la sua organizzazione casalinga) poneva delle difficoltà, ma non era impossibile. Poi c’era la questione-Mirco. Ma tornare a trovare i suoi sarebbe stato più complicato, ancor di più se avesse dovuto seguirli, assisterli, cosa che ormai, vista l’età, non poteva escludere.

 

6.

La mattina dopo tutto appariva tranquillo. Le sale da colazione degli alberghi sul mare sono luoghi dove fra gli esseri umani regna un’armonia quasi edenica: non sembra vero di poter dedicare tanto tempo a un’attività il più delle volte risolta in fretta, addirittura in piedi; quella mattina, però, un cameriere aveva rovesciato una brocca di spremuta d’arancia su un tavolo, creando un momentaneo scompiglio accolto dai presenti con la più celeste delle comprensioni, tanto più che in quel momento al tavolo non era seduto nessuno. Mentre su indicazione del cameriere Anna e Mirco si stavano accomodando (Anna aveva ordinato), Erminia si fece loro incontro con una tazza da tè in mano:

«Vi dispiace se mi unisco a voi, mentre rimettono a posto?»

«No, anzi. Mi spiace per il suo tavolo».

«Oh, non fa nulla. Quando si è in vacanza si sopporta tutto, tanto più se ci si trova bene. E qui non manca niente, lei che dice?»

«Sì, anche noi ci troviamo bene».

Mirco fece giusto un cenno con la testa, prima di girarsi verso i due camerieri impegnati a pulire il pavimento.

«Le colazioni sono particolarmente apprezzabili».

Benché l’avesse sentita discorrere di persone note non risparmiando giudizi sintetici – «***, poverino, era un pozzo di scienza, ma spesso era anche di una noia mortale» – sembrava che giudicasse le persone a partire da un intimo convincimento, a prescindere dai risultati raggiunti; se questo la poneva nella condizione di ignorare la reale statura del suo interlocutore – che del resto le importava poco – la induceva però ad assecondare la sua generosa disposizione d’animo, trattando chiunque in modo equanime. Che poi arrivasse anche a comportarsi così, ossia che, chiusa la conversazione, non desse alcun credito alle disuguaglianze sociali, era già un’ipotesi più azzardata.

Mirco era corso al tavolo per prendersi una fetta di torta alle pere.

Il cameriere servì il caffè per Anna e il latte macchiato per il figlio.

«E il campione?»

«Mah, sta facendo un corso di perfezionamento in fioretto».

Mirco rivolse alla loro interlocutrice un breve sguardo, che accompagnò a un cenno poco più convinto del primo, continuando a tacere e a mangiare la torta. E in effetti, poco dopo chiese alla madre di poter salire in camera a cambiarsi e si dileguò.

«Lo scusi, è molto preso».

«Capisco. Ho un figlio anch’io. E non creda, benché ormai sia un uomo, conserva ancora molte abitudini di quando era ragazzo».

Nel frattempo, anche Enrico era sceso, aveva ordinato e con tutta calma si era diretto al buffet.

«Comunque,» riprese Erminia, «mi sembra che lei se la stia cavando benissimo. Volevo invece chiederle: mentre Mirco è in palestra, si è per caso già prenotata per i massaggi e il ciclo detox in spa? Ho già formato un gruppo di amiche per andarci insieme e credo che non avrebbero nulla in contrario se lei ci raggiungesse».

Anna rimase un istante in silenzio, poi disse: «La ringrazio, ma forse è il caso che cammini un po’ all’aria aperta». Lasciò passare un altro istante in cui Erminia si trattenne dall’intervenire e poi aggiunse, quasi come una precisazione non richiesta: «O magari rimango un po’ in stanza a leggere. Mi scusi, ogni tanto l’avere di nuovo del tempo per me mi coglie di sorpresa. Sono quasi impreparata».

Enrico aveva preso un tè con biscotti.

«Non me lo dica, lo so anche troppo. È una questione matematica. Essere soli a gestire un figlio richiede il doppio dell’attenzione e altrettanta disponibilità: e questo porta a dimezzare le possibilità di movimento. Alcune mie amiche rimaste sole non hanno saputo come rimettere in sesto la loro vita per parecchio tempo, ma immagino che oggi per chi è più giovane sia un po’ più facile: ci sono tante diavolerie digitali per conoscersi».

Mentre beveva il tè, l’amabilità di Erminia aveva fatto passi avanti; l’esperienza aveva tenuto a bada le ambizioni di una curiosità un tempo troppo impaziente e le aveva permesso di esprimere alcune considerazioni che ad Anna erano parse non prive di buon senso, benché generiche. Del resto, alla volontà di Erminia non si poteva negare un moto benevolo – il tratto caratteriale che, stando a lei, la distingueva anche da suo marito.

Enrico era passato alla torta di mele.

«Non lo so, provo molta diffidenza per le applicazioni di incontri».

«Beh, io sono davvero di un’altra generazione ma penso che l’incontro diretto, per quanto complicato, vada sempre favorito. Del resto, le gioie maggiori, come purtroppo i dolori più cocenti li dobbiamo conoscere direttamente. E io credo che esperienze come queste, intendo la possibilità di trascorrere un fine settimana in una struttura di tutto rispetto, siano l’occasione ideale per alimentare la nostra vita di relazione».

Anna avvertiva un fastidio incipiente: «Beh, magari in teoria. Poi dipende. Forse dovrò scusarmi con lei, ma trovo i gruppi e le associazioni un po’ troppo impegnativi per i ritmi di vita che mi sono imposta».

«Oh, ma la prego, usciamo subito da un equivoco. Qui non si tratta di esperienze collettive, ma delle più squisite fra quelle individuali. Dicevo, sono i posti ideali in cui conoscere qualcuno, o farsi conoscere; incontrare qualcuno o farsi raggiungere. Sotto questo profilo non è cambiato niente. È tutto come un tempo: per fare qualche esperienza non ci sono rimaste che le terme, con la loro vaporosa promiscuità o, in bassa stagione, queste stazioni balneari. Mi scuso se per caso le sto dando l’impressione di esagerare ma, pur essendo sposata, non posso fare a meno di sapere come vada il mondo».

«E come va, il mondo?»

«Ma come sempre, cara, ovviamente».

 

7.

Enrico era irrequieto. Dal suo tavolo sembrava che la conversazione di Anna con la signora anziana la turbasse: si chiese se potesse fare qualcosa per interromperla, ad esempio un passaggio accidentale accanto a loro, un finto inciampo, in modo da distoglierle per un istante dall’argomento che stavano trattando. Sul viso di Anna si era fatta largo un’espressione di improvviso imbarazzo, come se stesse subendo un interrogatorio a cui avrebbe voluto sfuggire. Si era trattenuto solo perché sapeva di essere incline a enfatizzare gli aspetti negativi. Perciò si diede un limite: se entro un paio di minuti non fosse successo qualcosa, si sarebbe diretto verso di loro.

Ma in effetti qualcosa cambiò. Dopo un istante di silenzio, Anna rispose alla sua interlocutrice sorridendo in un modo così goffamente complice che sembrava portare impresso il segno della spontaneità: al che la signora rise molto più apertamente. Forse, dunque, si era trattato di un equivoco.

Tutto questo però rendeva ancora più evidente che non avrebbe potuto continuare a lungo in quel modo, restando in un angolo a interpretare ogni dettaglio: doveva avvicinarsi, uscire dall’oscurità che lo tutelava, ma che non rendeva in alcun modo migliori le sue giornate. Avrebbe dovuto fare un passo avanti, magari anche con prudenza, per quanto questo – gli fu chiaro come un’intuizione definitiva – significasse in primo luogo presentarsi a Mirco.

Ci sono decisioni che si annunciano con la forma di una necessità non più differibile: davanti a queste non si può che assecondare il moto interiore cercando di mantenere un’espressione equilibrata. Enrico si alzò in piedi e si diresse verso il tavolo dove Anna era seduta con l’amica. In quel mentre, da una porta sbucò anche Mirco, vestito della sua tuta fiammante, tanto che i due, arrivando da direzioni opposte, vennero a trovarsi entrambi a un metro di distanza dalle due donne.

Tre mesi dopo Enrico e Anna presero casa insieme.

 

 

Investimenti e disinvestimenti ( dettagli)

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di Giorgio Mascitelli

 

Nelle scorse settimane campeggiava nelle stazioni della metropolitana milanese una réclame recante lo slogan Investi in borse, non in borsa. Confesso che la cosa che mi ha più colpito, essendo io fuori target per il prodotto pubblicizzato ed essendolo forse per qualsiasi merce, a giudicare dalle scarne e generiche proposte pubblicitarie che mi rivolge l’algoritmo, è la perfetta tempistica dell’uscita dei cartelloni, appena pochi giorni dopo il crollo delle borse a seguito del fallimento della Silicon Valley Bank e della successiva crisi del Credit Suisse. Di fronte a tanta prontezza devo dire che mi sono chiesto se esistessero anche gli instant billboard, esattamente come ci sono gli instant book.
Naturalmente non so come sia andata, anche se mi piacerebbe saperlo, quello che è certo è che una simile pubblicità rappresenta un piccolo sintomo di un cambiamento nell’immaginario contemporaneo. Difficilmente dei pubblicitari, infatti, affiderebbero la sorte di un prodotto a un messaggio, per immagini e per parole, che non sia codificato entro un sistema di valori accettato positivamente nella nostra società e proprio questo dato di fatto contiene un segnale inquietante per broker, banchieri e affini.
Dunque il messaggio della réclame è quello che sarebbe meglio investire il proprio denaro in un oggetto di moda che, anche se non privo di un valore pratico, ha evidenti finalità voluttuarie piuttosto che vedere andare in fumo i propri risparmi nei giochi speculativi di borsa. Non si tratta di una novità in assoluto, in fondo nell’avanguardia novecentesca possiamo trovare affermazioni analoghe, per esempio ne Il codice di Perelà di Palazzeschi, quando l’omino di fumo incontra il banchiere Teodoro Di Sostegno, quegli si affretta a spiegare all’illustre interlocutore che loro due a ben vedere si occupano della stessa materia perché se Perelà è di fumo, lui stesso, si potrebbe dire, è di carta e pertanto sa cos’è il fumo. Ma questo per gli operatori finanziari non è mai stato un problema perché Palazzeschi era uno scrittore, perdipiù futurista, ed è normale che gli artisti dicano verità del genere o collochino della statue a forma di dito medio alzato davanti all’entrati della borsa. Di diversa natura è la stessa affermazione, la stessa battuta, fatta da una pubblicità per due motivi: in primo luogo perché pubblicità e borsa fanno parte della stessa parte di mondo, quella dei valori solidi che reggono la società, quella del progresso, quella delle formiche, e in secondo luogo perché, a differenza degli artisti d’avanguardia, i pubblicitari conoscono e rispettano il valore del vecchio adagio popolare ‘scherza con i fanti, ma lascia stare i santi’ e mai e poi mai giocherebbero con valori portanti e socialmente condivisi perché la loro mission ne sarebbe danneggiata.
In altri termini il fatto che sia uscita una pubblicità di tale tenore testimonia che sempre di più tra le idee diffuse nella nostra società vi è quella di accostare i giochi di borsa a quelli d’azzardo; naturalmente poi i pubblicitari propongono come alternativa non il risparmio ma di collocare il denaro in beni più piacevoli e godibili dell’accumulazione, peraltro molto aleatoria, ma il segnale che ormai uno dei fondamenti più seri della religione informale del nostro tempo, la borsa, sia considerato alla stregua di un giocattolino inaffidabile è chiaro. Probabilmente questa trasformazione è dovuta al fatto che quindici anni tra una crisi e l’altra sono troppo pochi, specie se la società non si è ancora ripresa del tutto da quella precedente. Forse non è nulla, è solo una réclame che sparirà nel giro di pochi giorni o forse ci stiamo avviando a vivere una di quelle fasi storiche transitorie in cui le idee dominanti non sono quelle delle classi dominanti.

Termini senza mezzi

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Artwork by Lorenzo Trivelli
Artwork by Lorenzo Trivelli

Artwork by Lorenzo Trivelli

di Laura Mancini

Se a ossessionarmi non fosse la morte ma l’enigmistica troverei gustosa Termini senza mezzi. Prenderei nota della coincidenza idiomatica – che cos’è, una crittografia, un indovinello, un’inversione? –  e scatterei una foto di piazza dei Cinquecento nella sua inconsueta nudità, brutta insanabile, inondata di urina, segnata da affronti al poco arredo urbano che si ritrova. La direi tanto negletta quanto il campo di battaglia coloniale che il suo toponimo commemora e poi scomoda, faticosa da attraversare come quando gli autobus la affollano. Forse uno sciopero, azzardo, ma sembra sia altro, questo vuoto unanime, una radicale dispersione, la dichiarazione di inservibilità del servizio, la fine del pubblico, la città post-apocalittica che molti hanno profetizzato senza averne un quadro preciso. Eccolo, il quadro preciso.

Igino è partito da poco lasciandomi all’interpretazione della sua ultima sentenza – non credo sia più possibile infierire sui nostri cadaveri, sarai d’accordo ma per tua sensibilità restia a dirmi lo stesso. Interrogo il panorama sui termini violenti da opporre alla sua mancata fede o al mio presunto accordo, ma la maculazione del cemento, il marciapiede a cornice, gli spartitraffico, i tabulati del capolinea tacciono. Non resta che la vergogna della posa ebete e muta tirata fuori lì per lì, fino al fischio e al vero addio. Immagino le linee che ripartono e inchiodano, si sfiorano e incastrano, rombano, inquinano e non ho nostalgia di niente, all’orrore si sostituisce altro orrore, al treno in partenza altri treni in arrivo. In questo momento Igino sarà seduto nel convoglio lato corridoio, avrà incastrato gli occhiali tra i ricci e terrà una mano sul viso in segno di apparente disperazione ma effettiva mera ricerca di oscurità. È suo uso concludere lunghi periodi di solitudine in mia compagnia – silenzi, porte socchiuse, cuffie, sguardi eterodiretti, torri di carta, mancate risposte, improvvise uscite in impermeabile – con sintetiche spiegazioni su come io mi senta e comporti. È sempre suo uso confermare la nostra comune passione per la morte ponendola ad argomento, causa, figura retorica; peccato non ci sia riuscito di coltivarla insieme come il caso avrebbe favorito. Avere una fortuna e sprecarla così.

Da una casupola di cartoni da imballaggio e cassette della frutta spuntano una testa, due spalle ricurve, infine una schiena che srotolandosi mi ispira la massima: insospettabile è la maestosità di chi si accuccia entro piccole gabbie autocostruite. Ciao, fa con la mano l’uomo senza fissa dimora. Ciao, replico con lo stesso gesto. Igino può andare, ciao Igino. Era scotennato dalla tristezza per questioni che di politico hanno ben poco, afflitto, perduto, stremato da ciò che non sa smettere di fare, finirà male, può andare, che vada, prima che il suo viaggio termini la mia ira sarà risolta. Gli invierò uno scritto, ché lettera sarebbe troppo: un testo angosciante scevro da accuse o richieste d’attenzione camuffate da sdegno minimale, nudo come questa piazza all’alba e altrettanto brutto, faticoso da leggere, difficile da connettere nei suoi vari punti, disinteressato a essere compreso. Lo faccio per lui, per sua sensibilità restio a scrivermi lo stesso, per incoraggiarlo alla spietatezza.

Quando ero giovane mi tirava la pelle del viso per i troppi grazie! che distribuivo in cambio del solito commento sugli occhi – di norma detti belli o profondi, ma una volta fluorescenti e ipnotici da un poeta che faceva la maschera a teatro di cui ricordo tutto, anche il modo di fumare e toccarsi rapido gli angoli della bocca con la punta della lingua. Di notte, rigiravo tra le dita i fluorescenti e gli ipnotici sull’unica piazza stropicciata del letto costruendovi intorno le memorabili mura che oggi me li consegnano intatti e non meno solenni: fluorescenti, ipnotici. Mi tastavo le anche, l’interno coscia e la vita per verificare che i pane e nutella pomeridiani non scontornassero il tutto, stiravo i capelli, mettevo il rossetto. Come mi restasse tempo per studiare è un mistero. Igino non mi ha mai detto nulla degli occhi, certo li ha scavati a fondo coi suoi ed è stato un affare quasi morboso quello del guardarci senza fiatare, avremmo dovuto cronometrare le sessioni di fissaggio oculare, un continuo rialzo del record. L’uomo senza fissa dimora si stira e sbadiglia, accende una cicca e un altro giorno ha inizio. Ancora oggi gioisco del riconoscimento, ma riservo la priorità agli scritti – molto avveduto, commenta il relatore della mia tesi di dottorato, una delizia! dice Saveria delle e-mail che le inviavo dalla Germania quando ero triste e sfavillante. Non è chiaro, però, aggiunge storcendo il naso il redattore che rimbalza il mio pitch per il semestrale e: l’apparato bibliografico manca di organicità, recita la blind review del progetto di ricerca che ho inviato d’istinto allo scadere dei termini. Vorrei non mi importasse più delle cosce né degli scritti, ma non è così, agogno l’approvazione, la esigo. Igino questo in me lo sentiva e detestava. Al solo vedermelo dentro lo rimbalzava con altrettanto sguardo, ma pregno di biasimo. Vada, vada, è atteso altrove, qualcuno con un cartello recante il suo nome lo guiderà al parcheggio, caricherà in macchina, condurrà all’appuntamento, lascerà proprio davanti all’ingresso.

L’ovvia metafora dello scenario cimiteriale che contemplo con ostilità è una tabula rasa. L’uomo senza fissa dimora… ma perché continuo a chiamarlo così? È un barbone, un barbone coi fiocchi, libero dal giudizio sociale e dalla fame di approvazione. Si stiracchia con un’espressione divertita dall’ironia della sorte e dall’afa d’inverno, non tutto deve sempre avere senso, dice quel ghigno. Considerando la questione dalla prospettiva più spiccia, nel corso della mattinata non mi importerà di nulla, ma non escludo l’indifferenza possa dilatarsi fino al dopo pranzo. Le parole sbiadiranno, le disporrò in fila per due come le uova nel plasticone bucherellato del frigorifero, pronte a essere rotte o dimenticate, sciatte e insulse, basi per altro, ma altro cosa? Era migliore l’ansia tutta corporea dell’adolescenza, quando se mi dicevano fluorescenti arrossivo e ammiccavo vagheggiando sviluppi di cui non contava l’esito ma la sola potenzialità. Grazie! Non ho mai raccontato a Igino ricordi analitici e masturbatori come questo, ero io ad ascoltare lui che però del passato conserva una traccia evanescente, troppo concentrato sull’oggi, sulla riunione, la mozione, la manifestazione, la legge. Dura lex sed lex, e invece col cazzo! urlava battendo il pugno sul tavolo in tarda serata quando gli amici trasformavano il gran discutere in bisboccia. Tutti stanchi, sbronzi e vogliosi di pensare ad altro tranne lui che anche dopo la mezza, occhi sbarrati dizione impeccabile e muscoli tesi, restava ancorato alle sue priorità. Quant’è già memoria, tutto questo, con quanta speditezza rielaboro, Saveria sarebbe fiera di me, vedova istantanea, un podio in fondo al binario. Ciò che facevo io, a quel tavolo, è interessante, una delizia, una fluorescente ipnosi. Tacevo fumando ed ero tutta con Igino, seguivo il suo discorso con una tale compenetrazione nel suo stato emotivo e una conoscenza tanto precisa del suo metodo ragionativo e dei suoi riferimenti da poter anticipare ciò che avrebbe detto di lì a poco. Ma a volte sorprendeva anche me con slanci inediti – leggendari quelli su povertà e morte in cella, pensiero recluso, pena e rieducazione come contraddizione in termini. Gli exploit creativi rinfocolavano il mio – mio, non nostro – legaccio – legaccio, non legame – l’idea che potesse stupirmi per sempre. Era instupidirmi, ciò che faceva. Il suo reale spessore non coincide con l’improvvisazione filosofica, questo me l’avrebbe svelato una più assidua frequentazione della saggistica psicoanalitica e del giro del carcere, al bar della biblioteca Nazionale. Il talento di Igino è l’identità, quel suo rimanere uguale a se stesso come la piazza della stazione, anche in assenza delle condizioni ottimali per il riverbero e la detonazione del sé, anche in presenza di urina e affronti. La coerenza è la sua qualità più alta, quella per la quale lo ricorderemo da morto. Era reso impermeabile allo svaccamento generale dalla concentrazione sul suo intento di agire, ogni giorno e da mattina a sera, contro la mortificazione dell’intelletto e per l’amnistia ma, più ampiamente, per l’abolizione del carcere. Se non è questo amore, dico col solo labiale al barbone. Non sembra raccogliere, si dirige a passo rilassato verso una fontanella con una damigiana di plastica. Ma era soprattutto amore per la morte e doveva finire qui, in questo campo di battaglia senza cadaveri né carrozzeria.

Ai margini, diceva spesso Igino, sono il bello e il brutto, l’oscenità che non vorremmo mai ammettere e l’umanità bandita da ogni altro contesto, o ci stai o non ci stai ai margini, o li accetti o non li accetti, ma se ci stai, ebbene eccetera. Durante il suo ultimo discorso al binario, quello in cui mi ha indicato come dovrei trascorrere il mio tempo, non ho mosso un passo dal mattonato, non un dito dal collo del thermos. Una posizione ridotta ai minimi termini, quella che occupo nello spazio in cui abito. Senza arrivare al punto di dirsi preoccupato per il mio stato di prostrazione dovuto al suo abbandono – ma è la tesi che mi cruccia, la tesi – mi ha spiegato che pur progredendo nella ricerca, dovrei dedicarmi alla letteratura di cui so più di quanto non ami sfoggiare, o alla musica modernista, che lui ha scoperto tramite me. Coltivare questi interessi significa leggere romanzi e discuterne con altre lettrici forti, andare ai concerti e applaudire o fischiare. E poi frequentare le amicizie, i vent’anni non tornano, la vita sociale è tutto, stempera i tormenti privati e crea bla bla, ho smesso di ascoltarlo più o meno a questo punto, non un passo fuori dal mattonato, non un dito lontano dal collo, gli occhi sbarrati, i muscoli tesi. Non è un parlare senza mezzi termini questo, Igino vorrebbe darla a bere al mondo intero col suo affondo diretto ma chi non vi ravvisi piuttosto un ridicolo attentato manipolatorio non fa che nutrire il suo mito, applaudire il suo cadavere, incoraggiare i suoi oltraggi. Gli stessi che, mentre cerco un appiglio nello squallore della spianata di cemento, mi gonfiano nello stomaco un rutto ciclonico prossimo a ribaltare la baracca di cartoni e cassette e arricciare in onde tsunamiche tutto il piscio di cui la piazza è innaffiata. Mi rammarica che gli unici spettatori dell’imminente Apocalisse siano il mio amico barbone e due commessi di un negozio della stazione venuti sotto la pensilina a fumare. Dal loro scambio colgo commenti sviliti sui turni, ma nulla sugli autobus, il vuoto resta un mistero, l’assenza irrisolta.

Igino andava e tornava da qui con un gran gusto dei cammei intercettati tra la banchina e il foyer, su e giù per le scale mobili e in tutto il quartiere pulsante dietro i binari, coi suoi locali malfamati e le sue tavole calde etniche. I compagni in arrivo su lenti convogli economici invece di essere accolti dall’abbraccio dell’amico dovevano raccattarlo in un bar senegalese preannunciato da un esplicito messaggio con posizione come il posto più bello di Roma. Ci cascavano tutti, ci cascavamo tutte. Il barbone mi saluta e sbaracca, vorrei seguirlo e imparare a campare, ma è tardi. Quando la nostra non era ancora una vera relazione sono andata ad ascoltare diversi interventi pubblici di Igino. Man mano che mi avvicinavo lo vedevo sbracciarsi al centro della situazione, lanciare fogli, stringere mani, urlare: urlava. Non conoscevo mai nessuno e sostavo ai bordi dell’evento fumando una sigaretta con l’aria un po’ torva. Al secondo appuntamento ho individuato altre due ragazze e una terza dall’aspetto più maturo che sostavano ai bordi dell’evento fumando una sigaretta con l’aria un po’ torva. Non osavamo avvicinarci, addestrate da espliciti messaggi con posizione su quale fosse il nostro posto. Ai margini, dove sono il bello e il brutto, i treni in partenza e quelli in arrivo, i termini di un’equazione tra chi giudica e chi è giudicato.

Termini senza mezzi è la mia condanna senza giusto processo, il fantasma dei bus, taxi e pullman bi-piano. Spio ai margini, ancora e ancora, ma non colgo che una coperta di pile e, sotto, una donna che conosce il proprio ruolo nel mondo, sa come trascorrere il tempo, al giudizio sociale dedica l’egregia indifferenza di chi è scesa a patti col proprio sentire. Io sono scesa dalla metro a Termini per continuare a capire poco, di me e del resto. Torno all’interno della stazione, scavalco i tossici che assediano le biglietterie automatiche, acquisto un titolo di viaggio da poco – Campo di Carne, un’altra battaglia persa ancor prima di essere combattuta – e supero i tornelli per dirigermi alla lapide di Igino, in fondo al binario, dove saluto la fame d’approvazione, gli occhi, le cosce, la tesi, i margini, il tempo. Ciao a tutte e tutti, anzi grazie! e poi addio: aspetterò che un viaggio qualunque abbia inizio perché il mio, senza offesa, termini.

Nulla si sa, tutto si immagina: Fellini e la letteratura

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di Daniele Ruini

Francamente, raccontare mi sembra l’unico gioco
che valga la pena di giocare (F. Fellini)

Chissà come avrebbe reagito Federico Fellini se gli avessero detto che il suo centenario sarebbe coinciso con una pandemia… Forse avrebbe pensato che questa nostra società, sguaiata e narcisistica, un po’ se l’era meritato; o magari, lui che aveva trascorso gli ultimi anni tanto celebrato quanto sempre più mal sopportato dai produttori, avrebbe riso sornione di fronte all’agitazione del gran circo dello spettacolo alle prese con chiusure e cancellazioni. Di certo tale coincidenza non avrebbe lasciato indifferente il Maestro, attratto dai mondi dell’occultismo e dello spiritismo e così attento al significato profondo di numeri e sincronicità.

Tra le iniziative per festeggiare i 100 anni del regista, nato a Rimini il 20 gennaio 1920, c’è stata anche la giornata che l’Istituto di studi italiani dell’Università della Svizzera italiana ha dedicato al tema “Il cinema di Federico Fellini e la letteratura”, e di cui Quodlibet ha pubblicato gli atti con il titolo Nulla si sa, tutto si immagina. Introdotto da una premessa del curatore Stefano Prandi, il volume contiene quattro interventi (a firma di Corrado Bologna, Valeria Galbiati, Giacomo Jori e Marco Maggi) più un’intervista a Ermanno Cavazzoni (che sceneggiò l’ultimo film di Fellini, La voce della luna, ispirato al suo Poema dei lunatici).

Come sottolineato da Giacomo Jori,

Il rapporto di Fellini con la letteratura è costante e articolato, e riguarda tanto le sceneggiature che rielaborano o si ispirano a opere letterarie, dal Satyricon a La voce della luna, quanto gli scrittori e letterati che lungo tutta la sua parabola artistica collaborarono alle sceneggiature dei film: Pinelli, Flaiano, Guerra, Pasolini, Zapponi, Cavazzoni. […] Fellini esordisce come scrittore, e anche nell’impegno per il cinema la pubblicazione delle sceneggiature fa di lui, a tutti gli effetti, uno scrittore in dialogo con scrittori.

In effetti il rapporto con i libri e la scrittura attraversa tutta l’esistenza del grande regista riminese, che non ha mai smesso di frequentare scrittori e di farsi ispirare dalle loro opere.

Tra i temi toccati nella giornata di studi ticinese vi è, per esempio, l’ammirazione sconfinata di Fellini per Kafka, scrittore di cui –come rilevato da Corrado Bologna– il Maestro amava in particolare la «comicità metafisica» e gli aspetti più grotteschi. Non a caso in Intervista (1987) Fellini ha messo in scena sé stesso impegnato a girare un film da America, romanzo dell’autore praghese di cui apprezzava soprattutto il personaggio di Brunelda (possibile modello dei vari donnoni che popolano il cinema felliniano: dalla Saraghina di 8 ½ alla tabaccaia di Amarcord). E si potrebbe ricordare che tra i sosia che partecipano alla becera trasmissione televisiva messa in scena in Ginger e Fred (1986) compaiono anche quelli di Proust e dello stesso Kafka.

Ragionando intorno al Viaggio di G. Mastorna (film mai realizzato di cui ci resta la sceneggiatura), sia Bologna che Valeria Galbiati toccano poi la questione della presenza di Dante nella cinematografia felliniana, un tema a cui alcuni anni fa era stato dedicato un convegno ravennate (si veda Fellini & Dante, l’aldilà della visione, Genova, Sagep. 2016) oltre a un bel saggio di Massimiliano Chiamenti (Effigi di Dante e di Leopardi in Fellini, in «The Italianist», n. 24/2, anno 2004, pp. 224-237).

Valeria Galbiati rimarca inoltre l’importanza rivestita per Fellini da uno scrittore come Tommaso Landolfi, molto presente nella biblioteca del regista (si veda I libri di casa mia: la biblioteca di Federico Fellini, a cura di Oriana Maroni e Giuseppe Ricci, Rimini, Fondazione Federico Fellini, 2008): se il racconto Cancroregina potrebbe aver influenzato la conclusione del Mastorna, altri testi dello scrittore frusinate (come La pietra lunare e Il racconto del lupo mannaro, e il romanzo La pietra lunare) hanno certamente contribuito alle atmosfere de La voce della luna, debitrici anche di Leopardi, come testimoniato da Ermanno Cavazzoni.

E, a proposito dell’attrazione di Fellini per quegli scrittori che –come Kafka e Landolfi–frequentano il fantastico, il grottesco, l’irrazionale e il mistero, vale la pena di menzionare sia la collaborazione con Dino Buzzati per il progetto abortito del Mastorna (la cui vicenda prende le mosse da un suo racconto), sia la partecipazione al film collettivo Tre passi nel delirio/Histoires extraordinaires (1968), che consiste di tre episodi ispirati a racconti di Edgar Allan Poe (quello girato da Fellini, Toby Dammit, è tratto da Mai scommettere la testa con il diavolo).

Giacomo Jori si sofferma invece sul rilevantissimo contributo offerto al cinema di Fellini da Andrea Zanzotto, autore dei versi in dialetto veneto che accompagnano due scene del Casanova di Federico Fellini (1976), tratto dalle memorie dell’avventuriero veneziano, nonché dei cori cantati su musiche verdiane in E la nave va (1983). L’apporto di Zanzotto per questi due splendidi film, forse tra i meno celebrati di Fellini, costituisce in effetti uno dei capitoli più entusiasmanti della storia del rapporto tra gli scrittori italiani e l’arte cinematografica (una storia ricostruita da Gian Piero Brunetta in Attrazione fatale: letterati italiani e letteratura dalla pagina allo schermo: una storia culturale, Milano-Udine, Mimesis, 2017).

Ai nomi degli scrittori italiani chiamati a partecipare alle sceneggiature dei suoi film (tra i quali, oltre a quelli già citati, anche Luca Canali, autore dei dialoghi latini per il Satyricon) si possono poi aggiungere i molti e importanti autori, anche stranieri, che il Maestro era solito frequentare e con i quali ha spesso corrisposto: Roberto Calasso, Pietro Citati, Mario Tobino, Alberto Moravia, Natalia Ginzburg, Georges Simenon, Milan Kundera, Patricia Highsmith. Complice l’insonnia sempre più snervante, negli ultimi anni Fellini divenne inoltre un appassionato lettore di letteratura italiana contemporanea, spendendosi per promuovere gli scrittori che lo avevano più colpito: da Marco Lodoli a Pier Vittorio Tondelli, da Susanna Tamaro a Ermanno Cavazzoni.

Ampliando il discorso agli anni della sua formazione, si può ricordare inoltre che, prima di cimentarsi dietro la macchina da presa, Fellini si fece le ossa scrivendo per altri registi e lavorando insieme a Brunello Rondi e Tullio Pinelli, futuri sceneggiatori di molti suoi film. E, tra i progetti a cui collaborò, vi furono anche alcune riduzioni di opere letterarie, come gli adattamenti per lo schermo del romanzo di Gabriele d’Annunzio Giovanni Episcopo (diventato nel 1947 Il delitto di Giovanni Episcopo per la regia di Alberto Lattuada) e dei Fioretti di San Francesco (alla base di Francesco, giullare di Dio di Roberto Rossellini), e due film –Il mulino del Po di Alberto Lattuada (1949) e Il brigante di Tacca del Lupo (1952) di Pietro Germi– tratti da opere di Riccardo Bacchelli. Come riportato da Stefano Prandi nella sua premessa, Fellini, parlando nel 1980 del suo lavoro giovanile di sceneggiatore, dichiara che si trattava di un’attività che lo immalinconiva e lo irritava: «Le parole, l’espressione letteraria, il dialogo, sono seducenti ma appannano quello spazio preciso, quella necessità visiva che è un film». Resta il fatto che per lui l’approdo al cinema avvenne attraverso la scrittura, attività che, ancora prima che in qualità di sceneggiatore, aveva esercitato come autore umoristico per la rivista «Marc’Aurelio».

Naturalmente, di fronte a un campo di approfondimento così vasto come quello del rapporto tra la filmografia felliniana e la letteratura, i saggi contenuti nel volume non possono che rappresentare un’inchiesta parziale che, pur toccando alcuni punti decisivi, lascia spazio per ulteriori analisi. Ad esempio, se non abbiamo visto male, nel libro non si fa mai il nome di Carlo Emilio Gadda, che era uno degli autori che Fellini stimava maggiormente.

A tale riguardo, chi scrive aveva suggerito l’ipotesi di una possibile influenza del Pasticciaccio gaddiano su Le notti di Cabiria (1957), seguendo una pista che tirava in ballo anche il rapporto di Fellini con Pier Paolo Pasolini, chiamato dal regista a collaborare alla scrittura del film. Ma, al di là di questa suggestione, è indubbio che la storia della presenza di Gadda nella filmografia felliniana resta ancora da indagare; così come quella dell’altro grande milanese delle lettere italiane del ‘900, ovvero Giorgio Manganelli, i cui libri –tre dei quali con dedica autografa– figurano nella biblioteca di Fellini giunta fino a noi. Tra di essi compaiono due edizioni di Pinocchio: un libro parallelo, il che sarà da ricondurre all’attaccamento del Maestro per la figura del burattino di legno: non solo Fellini dichiarava infatti che quello di Collodi, di cui possedeva varie edizioni illustrate, era stato il primo libro che mai avesse letto, ma alcuni studiosi (come Paolo Fabbri e Nicola Dusi) hanno sottolineato la presenza di Pinocchio nel cinema felliniano e, in particolare, nel Casanova (film che contiene anche citazioni di Petrarca, Ariosto e Tasso).

Possiamo allora concludere con le parole di Marco Maggi: pur avendo dichiarato di diffidare dell’accostamento tra cinema e letteratura, Fellini ha dato ampie prove di una «spregiudicata disponibilità ad attingere a fonti letterarie per dare forma ai propri sogni» (p. 69). Delle sue letture voraci e disordinate, così come del suo amore generoso verso gli scrittori, sono impregnati tutti i suoi film, che continuano ad incantarci e ad offrirci motivi per non smettere di guardarli e interrogarli.

Marco Bisanti: «e si diviene terra promessa»

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Ospito qui una selezione di testi da Nella camera. Esercizi per l’attesa di Marco Bisanti, AnimaMundi edizioni, 2023. Dalla nota di Franca Mancinelli: «un piccolo frammentato romanzo di formazione alla paternità e insieme il diario lirico di una gestazione vissuta, per bios, dall’esterno, nella consapevolezza del ruolo di sentinella e di custode di un prodigio che riconnette la quotidianità con il cosmo […]. Questa capacità di accogliere il mistero dentro i piccoli gesti e rituali quotidiani, fanno di questo libro lo spazio di un apprendistato alla vita, una guida nella gestazione dell’altro che vive nel profondo di noi stessi, un accompagnamento nel praticare l’attesa di dare luce al mondo.»

 

da Il sereno

Fuori c’è il sereno e fa freddo
ma tu dormi nella camera,
cresci nella camera del sangue
dov’è buio caldo liquido
e non c’è spazio
per le favole che conosco,
solo una resa al mistero.
Ti aspetto con la fata dei limoni.

*

La tua costruzione
su questa riva
miete già insonnie
fatte di molte perdite
nausee e gonfiori
con ricorsi a più consulti,
un apprendistato
che si esegue sulla pelle.

*

Il primo suono percepito
ricorda un’eco di vita
in fondo al mare,
poi le acque si rompono
come nel racconto
più antico
di una liberazione

e si diviene terra promessa.

*

Come padre ho un destino
di sapiente nei misteri del buio
– leggerò l’impatto
di una meteora, mi guiderà
la forma di un cratere
sulla superficie di Venere.

 

da Del sangue

La notte si accende
come un giglio di sangue
– fammi accogliere
il pianto e la debolezza
concedimi la resa
di essere sconfinato
sottile e forte, stremato e forte
debole e forte… forte.

*

Finché una mattina ti vedrò
tornare a casa,
negli occhi le arnie
delle api alla fine dell’inverno.

 

da Per la voce

Un’orbita sola di sangue abbiamo
contato attorno alla camera,
poi eravamo di nuovo
azzurri e gravi, impreparati.

*

Le fate quando ti parlano
credono sempre
che tu abbia le ali come loro.

 

da Nella camera

L’attesa rivive davanti alla finestra
nei piccoli abiti di fata
che asciugano sullo stendino,
pentagramma di note
disposte alla prima esecuzione.

*

Usciamo presto la mattina
per il lavoro, diciamo
ma è per la fotosintesi,
a pochi passi dal portone
la camera del sole
sulla pelle ancora di notte.

*

Sarà immenso vedersi
con la nuova vita sulla pelle,
faremo costellazione
se un altro disegnerà nell’aria
la nostra vicinanza.

*

Sei un fiume che unisce
continuità e inizio,
ti ho aperto al sole
con tua madre
e ti navigo per sempre.

*

Adesso entriamo nell’ombra
della Terra, noi
vivi al mistero
come esche all’amo del mondo.

Note d’altrove #2  – Gianluca Cangemi

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foto di Pietro Motisi (sx) e Marcello Cangemi (dx)

 

Due poesie inedite di Gianluca Cangemi

foto di Pietro Motisi (sx) e Marcello Cangemi (dx)

 

Ho le mani impolverate
di pollini e galassie.
Saetta la serpe.
La polvere di un sorriso mi resta
su un dito o l’altro
dopo la carezza
dal sottobosco
una pagliuzza d’oro.
Pieghe grandi e rigonfie,
parvenze d’anatomie
della terra elefante;
i laghi come i cieli
nelle cartografie
le copule,
le penetrazioni.
Trasformo gli escrementi selvatici
in fiore o stella,
rugiada i soffi della madre:
il vulcano.
Il bronzo crepita e pulsa
del suono di risa e terrori e
il vento delle mani in danza
è lievito alla terracotta.
Ogni ritratto è di per sé un rischio:
crediamo indizi, tracce,
arzigogoli della veglia…
… Ma io ho le mani impolverate
di pollini e galassie e la serpe
saetta e
un sorriso mi gusto
che sul mio dito resta,
dopo la carezza.

 

 

 

 

***

 

 

 

Trucioli

 

La sincresi nasce da
sincronismo e sintesi,
saldatura inevitabile e spontanea che
sfugge la tua maschia
razionalità.

Accade come quando
gli armonici degli archi sovracuti
crollano in scena, capelli e polvere,
e l’accordo emerge allora
più marcato degli altri tutt’attorno.

O ancora accade come quando
la Madonna piange in lutto la sua pena
per la morte del consorte e
Demetra la consola e i trucioli,
lì sul pavimento di santità
sapidi e ignari, si fanno semi
di sesamo e finocchio e
ne mangiamo infine noi mortali
il pane a primavera.

Il tuono nella valle e il colpo d’ala
insieme in un istante
del falchetto che scarta di lato –
e un bimbo appena nato piange la città.

 

 

 

 

***

_____

Immagini di Pietro Motisi (sinistra) e Marcello Cangemi (destra), poste dagli artisti in relazione tra loro e in dialogo con le due poesie
http://www.pietromotisi.it
http://instagram.com/marcello_cangemi

 

I segni sull’acqua

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di Roberto Carvelli

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

§
Notte, enfasi e intimidazione. Reparto correttori di bozze. Discorsi. O meglio: ordini. Siamo il reparto temuto, messaggeri di problemi e perdite di tempo. Su di noi agisce una specie di ansia che mira a una perfezione di velocità. Non dobbiamo creare troppi rallentamenti alla lavorazione. Garantisce l’orologio del proto: un’ideale pressione emotiva che, ai novelli, finisce per imporre una velocità di lettura controproducente. Per questo molti di noi sono anziani: gente navigata al cannoneggiamento di rimproveri e fretta. Il segreto e l’azzardo sono non pensare a quel che è scritto ma correggere come se fossero sagome geometriche di cui relazionare la giustezza. È il nostro lavoro da anni, conosciamo gli inganni dei refusi: le doppie m, le nn… sappiamo le insidie delle gambe e delle braccia in alto o in basso… le l e le i e gli 1. Guardiamo al testo come a una foresta in cui un albero può somigliare a un fiore, due laghi, due pozze. Insomma: siamo in guerra. Con le lettere e con i capi che ci vogliono spediti e superficiali ma perfetti. Da noi vengono pretese, al contempo, rapidità e compiutezza. Siamo il reparto dei rischi e facciamo il lavoro del rischio.
Per fare un lavoro così serve dirittura morale, serenità, fermezza e tanta fortuna. Molti di noi sono religiosi: cercano fuori di sé o in sé – a seconda dei culti – un sostegno per questo impari confronto con la sorte. Preghiamo per la concentrazione, ossequiamo la fortuna affinché la nostra attenzione riesca a scovare, nella foresta di segni, l’errore. Alle volte siamo costretti a sospendere ogni comprensione e guardiamo delle figure in un foglio e cerchiamo le stesse nell’altro. Nell’originale scrutiamo segni sconosciuti e cerchiamo di verificare che i fotocompositori li abbiamo rappresentati nel modo corretto. Ci aiuta pensare alle lettere come a figure di un paesaggio. Ecco una tegola – î – sopra una i. Un gabbiano su una n o su una a: ñ o ã. E ẫ: un gabbiano, su una tegola, su una a. Ecco che piove sulle e, sulle u: ë, ü. Un diapason o una fionda: Џ. , una testa sulle spalle. ß, una donna incinta. Ç, un cigno che guarda indietro. Ø, una testa con l’occhio bendato.
Sono lettere di cui non sappiamo nulla, lingue di un alfabeto sconosciuto. Dobbiamo solo accertare che siano state battute nel modo corretto. Leggiamo piano, come se verificassimo i particolari in una fotografia di paesaggio. Forse sono lingue morte con una grammatica nota a pochi, codici per nicchie colte e segrete. Forse stiamo leggendo imprecazioni o parole d’amore. Non lo sappiamo, ma abbiamo ben chiaro il nostro ruolo: non possiamo equivocare. Dobbiamo ottenere due fogli identici, con in mezzo il passaggio frettoloso e sbrigativo di chi le ha cercate uguali e impunemente le ha tradotte. Noi saremo puniti: troppi errori e
nessuna nocca batterà più alla nostra porta. Nessuno ci dirà nulla. Ci accorgeremo di essere soli nel nostro villaggio e capiremo che una squadra è stata chiamata ma non ne facevamo parte. Gireremo a vuoto per la nostra campagna, per i lunghi viali di ghiaia, senza rumori intorno che non siano lo sgradevole gracchiare delle cornacchie, il tubare delle colombe, il richiamo canzonatorio delle upupe, il tuffarsi fulmineo delle rane spaventate dai nostri passi. Se le nostre mancanze saranno state gravi o ripetute, vivremo giorni di vuoto dirompente perché della lontananza dei colleghi sapremo solo per intuizioni. Una perspicacia applicata alle case altrui. Quindi il dolore si rafforzerà nel tempo e nell’illusione ogni volta sconfessata dal
silenzio e dall’assenza. Un vuoto e un dolore che nessuno di noi vuole immaginare e neppure sperimentare. Per esorcizzarlo lavoriamo senza stanchezza e senza distrazioni come se
dovessimo bucare i fogli con lo sguardo.

§
Ma che stai facendo? Lo sai da quanto stai su quella pagina? Ti ho contato, sai? Hai letto tre pagine in venti minuti. Su questa pagina ci stai da dieci minuti. Gli altri hanno già finito la loro mazzetta di fogli. Cos’è, non sai leggere? Vuoi rimanertene a casa la prossima volta? Lo sai quante volte sei andato in bagno? Stai male? Se stai male stai a casa!
Il caporeparto non è il capo del reparto. È un ex-fotocompositore. Un anziano digitatore dalla pelle nera. Dicono un marocchinato. Nessuno sa il suo nome. Lo chiamano Io-io-io per l’attitudine a imbonire raccontando di sé. Ammonisce, biasima, rimprovera e controlla sospettoso. Nella sua vita precedente di semplice operaio, era dedito a intrighi e acutezze da imboscato. Arguzia che smaschera arguzia, inoperosità che coglie l’inoperosità. Così è un caporeparto: una funzione, non un’abilità.
Un caporeparto osserva e smaschera gli altri. Un fustigatore reprensibile. Così il potere sorveglia, amministra, si perpetua. Il mio reparto non ha un suo capo naturale, non lo ha per tra-dizione. I correttori di bozze sono malvisti perché chi corregge è un ostacolo
al lavoro della tipografia. Chi corregge è attento, minuzioso, non può guidare gli altri con il metronomo lento della meticolosità. Chi comanda deve essere rapido e dirimere nodi, non può rallentare per cura. Gli si preferisce un ex-fotocompositore, che ha anche più peso nel governo degli ex-colleghi, più numerosi e quindi più difficile da amministrare. I correttori sono raccolti in loro stessi, introversi, ciechi nel loro sviluppo della vista. Sono come somari della pagina. Occhi sulle lettere e poco sguardo d’assieme. Non sono adatti al comando e alla sua perpetuazione. È un plotone di attenzione, va governato da fuori e con massimalismo. La minuzia non si presta al ruolo del comando.

– Che problemi hai con quella pagina? – interroga severo Io-io-io.
– Nessuno… è…
– Vedi di sbrigarti, allora… se invece non te la senti firma e aspetta fuori. Sai quanta gente smania per essere chiamata?
Lo sai? Sai quanti se ne stanno a casa sperando che uno di voi si infortuni o abbia un malore? C’è gente che prega ché voi crepiate, che vi venga una malattia. Che i pulmini passino e voi non siete in casa.

Riprendo a leggere, cerco di recuperare concentrazione, calma. Non è facile lavorare con questa furia addosso. Non conviene rispondere, non serve opporsi. Riprendo a leggere.
Basterebbe andare più veloci, magari leggere con più facilità, meno cura, ma veniamo costretti a siglare ogni pagina, ogni mazzetta di fogli è registrata al nome di chi di noi l’ha letta. Basterebbe scorrere qualche pagina per togliersi di dosso gli occhi insistenti di Io-io-io che ora mi fissa al di là del vetro. Giro la pagina, anche se mancano dieci righe a completarne la lettura. Giro la pagina e spero si sposti dal vetro per lasciarmi tornare indietro ma nulla. E allora leggo velocemente anche la seguente, cercando di ricordarmi il numero di quella di cui ho saltato le ultime dieci righe. Ventisette: rileggere le ultime righe. Ventotto: riguardarla. Io-io-io è ancora dietro al vetro. Sono a pagina trenta.

– Dài dammi le pagine che hai letto che le riporto ai fotocompositori.
– Veramente… – provo a prendere tempo ma mi strappa i fogli di
mano.
– Che c’è? Vuoi tornartene a casa?

 

NdR: l’estratto che precede è tratto dal romanzo “I segni sull’acqua” di Roberto Carvelli, pubblicato da D Editore (2022)

Claudia Zironi: “Tratteggi friulani”

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di Federico Ielusich

Una regione il Friuli Venezia Giulia in cui “sembra tutto creato apposta per diventare ricordo”. In questo frammento dal sapore aforistico è racchiuso il fascino suadente di Tratteggi friulani di Claudia Zironi – volume di prosa poetica odepòrica impreziosito dalle fotografie di Benedetto Beny Kosic – edito nel febbraio 2023 per la giovane e dinamica casa editrice indipendente goriziana Qudulibri –Collana Porta Maggiore/Poeti 71 pag. in brossura- che costituisce la nona opera letteraria della nota autrice bolognese. Il titolo del libro è una sineddoche che rappresenta l’immaginario collettivo sulla Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia e non intende in alcun modo sottovalutare la ricchezza data dalla diversità di visuali linguistiche e storiche che la regione contiene e rappresenta. Ma da dove nasce l’esigenza della scrittura di questo libro? “Ricordo che ero alle medie – dice la poetessa nella prefazione del volume- quando il Friuli, quello vero, tremava, e c’erano in TV immagini in bianco e nero di paesi sbriciolati, di gente indaffarata e impolverata, dalla faccia triste […] Sarà per tutto questo che ho tenuto il Friuli Venezia Giulia per ultima tra le regioni da visitare, ne ho varcato il confine a ormai 50 anni […] con la bambina dentro di me, che ha raccontato questa storia, che ancora avrebbe voluto tornare indietro […] e ci ha trovato te, che sei casa.” Una storia d’amore a lungo agognato e alla fine corrisposto. La poetessa, da quando ha varcato per la prima volta nel 2015 i confini della RAFVG, non è più riuscita a smettere e ha voluto omaggiare questa splendida regione di confine -crocevia di genti e di culture- scrivendone una sorta di diario di viaggio. Un pegno d’amore. Così è nato Tratteggi friulani.

Ventitrè fermo immagine che l’autrice ha inanellato pazientemente con sguardo stupito, immacolato, terso, sapido, penetrante ma anche fanciullesco -in senso pascoliano- fra il 2015 e il 2022 con il fil rouge di una ricercata, raffinata prosa poetica, con frasi a tratti ermetiche, di sapore yūgen – di una profondità insondabile. Una prosa poetica che rimanda da un lato ai paesaggi del Friuli cantati nei loro scritti da P. Zorutti, E. Bartolini, L. Gazzino, A. Tomasìn, E. Sgubìn, C. Sgorlòn, P.P. Pasolini nella sua fanciullezza a Casarsa, da P. Cappello e dai loro epigoni, da un altro a richiami ed echi della prosodia di Ungaretti e Saba. L’autrice offre al lettore attento una visione filtrata dell’alterità, di ambienti usuali per i friulani e i giuliani secondo punti di vista alternativi che sono spesso inficiati per i residenti dal biais cognitivo della quotidianità che l’ordinarietà vela.

Come un calice fragrante di pinòt nòir -si apre- e scorre… la pagina -delicatamente sfogliata, assaporata e meditata. L’io poetico dell’autrice ci prende per mano guidando il lettore in un viaggio lento, molle e appagante nello spazio, nel tempo, nei panorami interiori, nei luoghi del cuore, nei paesaggi dell’anima e si va… Aquileia irreale nel tramonto con le sue rovine -accenti imperiali- così estranei alla terra. Il Carso in fiamme ove il fuoco discende nella terra a cercare l’oblio delle ossa dei caduti, per le vie nascoste dei torrenti, poi, riappare e non si doma…non si doma (immagini che ci riportano al Carso della Grande Guerra cantata da Ungaretti o alla contemporaneità del conflitto Russo-Ucraino). Cividale del Friuli -patrimonio UNESCO- in perfetto equilibrio sul ponte del Diavolo dove il cielo cola nell’acqua di un azzurro totale e le fronde e le verzure sommerse lo mutano in verde. E poi il Collio e la sua aria paglierina d’ebbrezza bello di morbidi filari, dove l’ordine è dolce e circolare, dove regna la mezza stagione nei colori e nei profumi. Il confine Sloveno che segna un passaggio dimensionale, di lingue, luoghi, non luoghi e percezioni, e poi Fogliàno, Gradìsca, Cormòns e le chiacchiere con Gaia presso l’enoteca in piazza grande, e Doberdò del Lago, Redipuglia con il sacrario condanna eterna al ricordo e alla celebrazione dove ungarettianamente “si sta” nel bianco del cielo, attenti, immobili e poi…e poi lame di mare e di celeste all’orizzonte con le falesie di Duino -un riflesso- uno scoglio lontano dove rovine inabitate promettono misteri ripercorrendo i passi di R.M. Rilke. Le calette sassose di Sistiana ove la pietra si tace sulle origini -incerta sul permanere o farsi sabbia. Ed ecco…Gorizia -città che non sembra città- piuttosto un dire di storie, un celare qualcosa del passato, dell’ineluttabilità del futuro, spettri lungo strade deserte e perturbazioni improvvise in giornate quiete di sole.  La laguna della Grado di Marin e Pasolini giallognola di luce notturna, pinete ordinate, giardini fragranti e lidi che paiono infiniti. E poi scendere, scendere nell’ancestrale, nel preludio del mondo della magnificenza della Grotta Gigante e poi il lento salire -rinascere alla luce nuova. Nello sguardo immenso di Saba ecco il bastione celeste e lussuoso del maniero di Miramare che si apre largo al golfo, a Muggia e Trieste – l’Algida- una “scontrosa grazia” che canta dal mare un ricordo, come attraverso un crocevia cosmopolita ma senza cadere e le sue genti, la bora e la nostalgia di “Ulysses“ di noi umani transeunti viaggiatori. Udine che solletica le corde del bello, piccola vertigine da un dislivello. E infine il pordenonese con Pordenone -fenomeno metaforico contratto- e Maniago giada e smeraldo.

L’editore propone in sinestesia ai testi in prosa poetica ventitrè foto a colori e b/n del fotoamatore autodidatta Benedetto Kosic. Fotografo animato dall’amore per la sua città -Gorizia- e per la terra meravigliosa che la circonda. Come asserito dallo stesso Kosic nella nota biografica i suoi generi preferiti sono in gran parte i paesaggi della sua terra: la valle dell’Isonzo, il Carso, le valli del Natisone, le zone sulla costa tra Trieste e Grado, Venezia e le foto “street” di Gorizia, specialmente del centro storico e dei suoi angoli più nascosti e suggestivi -oppure- foto di persone in situazioni “normali” e improvvisate, ritratti belli di una bellezza naturale realizzati con la sua Lumix micro 4/3. “Il mio obbiettivo” afferma Kosic “è riuscire a vedere il bello che mi circonda e saperlo mettere in un rettangolo in maniera da renderlo ancora più interessante. Per me la fotografia è provare ad incorniciare momenti e situazioni che senza i click finirebbero dimenticati nella frenesia di giornate sempre più veloci e spesso prive di significato”. Kosic pubblica le sue opere prevalentemente sui “social” e ha partecipato ad alcune mostre collettive.

Un’opera -quella di Zironi- che per la sua struttura rimanda -con le dovute evidenti differenze- agli haibun della poetica giapponese ove, come negli haiga della poesia del genere haikai, la descrizione sintetica e oggettiva di un viaggio si compenetra con l’immagine (dipinta/fotografata) e il testo dello haiku, senryū o tanka a fissare un attimo altrimenti perso negli infiniti cicli del divenire: in quest’ottica il fotografo Kosic si fa hijin né più né meno della stessa poetessa C. Zironi. Nelle pagine di questa pubblicazione risuona il mutuo, muto canto vibrante di viandanza del dàimon platonico della poetessa e del genius loci dei luoghi da lei visitati. Un canto muto in cui si compenetrano silenzi, i suoni della natura, luce, ombra, fragranze, visioni multicolori a volte in contrasto con l’architettura dell’uomo novello Demiurgo. Un percorso poetico nel solco della lezione leopardiana dello “Zibaldone” (pagine inerenti la prosa poetica).

La letteratura odepòrica o di viaggio -in cui l’opera di Zironi si inserisce- ha una storia molto antica. Già rintracciabile nella storiografia greca-latina (Iliade, Odissea di Omero – Eneide di Virgilio) trova la sua piena espressione nel Milione di M. Polo (1300) e successivamente nella letteratura tardo-medioevale e rinascimentale francese con poeti e autori quali: M. Taillevent, A. de Sale, R. Hakluyt o in forma onirica/allegorica nella Divina Commedia di Dante Alighieri. In seguito il genere ebbe notevole successo grazie al Grand Tour di cui Il viaggio in Italia di J. W. Von Goethe, edito nel 1817, ne è la massima espressione letteraria. Nel diciannovesimo secolo, le opere di R. L. Stevenson ne rappresenta la punta di diamante. Nell’ambito della letteratura di viaggio contemporanea meritano di essere citati gli autori anglosassoni: B. Bryson, P. Theroux, W. Least Heat-Moon, J. Morris, B. Chatwin, E. Newby, W. Thesiger, L. Osborne e C. Thubron. Tra tutti merita una menzione d’onore Jack Kerouac (Sulla strada) che più di tutti ha posto il viaggio al centro della sua produzione artistica. Tra gli italiani meritano menzione B. Severgnini, W. Bonatti, G. Bettinelli e i giornalisti T. Terzani, G. Piovene, S. Ramazzotti, M. Pennacchi e il triestino Paolo Rumiz.

Come afferma Giada Tecchio in un suo articolo inerente la teoretica della letteratura odepòrica “Quello fra viaggio e letteratura è un rapporto molto stretto, un “nesso privilegiato” che ha intrecciato fin dalle origini le imprese di viaggio dell’essere umano e l’atto di scrivere, di farne racconto, di condividerle con altri. […] L’esperienza del viaggio in sé per sé come situazione di mutamento e di trasformazione, è da sempre associata all’operazione di scrittura, quasi come se l’azione di raccontare il viaggio, attraverso il recupero scrittorio, (fotografico/grafico/pittorico/audio-video n.d.r.) e memorialistico di questa esperienza, costituisse una parte imprescindibile delle finalità del viaggiare stesso. […] La relazione fra viaggio e letteratura è stata esplorata a livello teorico, innanzitutto intendendo il testo come forma di viaggio e reciprocamente il viaggio come sistema narrativo, arrivando ad interpretare la scrittura stessa come un “atto di spaesamento”, o ancora un allontanamento dal noto e dal familiare, verso una conquista dell’identità. Si può concludere che ogni forma narrativa, in certo qual modo, includa al suo interno una forma di viaggio, così come ogni viaggio si costituisca come un movimento in uno spazio-tempo che implica una struttura intrinsecamente narrativa. […] All’interno del genere odepòrico si evidenziano alcuni tratti comuni nello specifico i rapporti fra la narrazione e la descrizione, con una spiccata preponderanza di quest’ultima, sia che essa derivi dall’esperienza diretta del viaggiatore-scrittore, sia che essa si basi su fonti esteriori o costruzioni immaginarie. Inoltre, particolarmente rilevante risulta l’elemento del “dialogismo”  dei racconti di viaggio, in quanto questi si adeguano al bisogno di “raccontare” un’esperienza, ma anche in quanto essi presentano una struttura implicitamente comparativa, che pone in relazione due visioni:  quella del “mondo di partenza”, assunta come punto di riferimento per il viaggiatore-scrittore e per i suoi lettori, e quella del mondo “Altro”, della destinazione del viaggio, che si pone necessariamente come termine di paragone dell’osservazione. [… ]. Il legame che l’odepòrica intrattiene con i concetti della spazialità e della rappresentazione del territorio, oltre a costituire una fonte per la possibile descrizione delle “immagini” che formano un dato luogo (per offrire cioè delle possibili “letture” di quest’ultimo, intendendo il testo come esempio di costruzione di una immagine spaziale), può anche rivelare le modalità culturali con cui l’osservazione dei nuovi paesaggi osservati nel percorso di viaggio conforma la descrizione letteraria. […] In sostanza, l’esperienza del viaggio e la sua scrittura assumono un significato particolare nella storia della cultura, e si intrecciano profondamente nel momento in cui essi divengono il metodo per eccellenza della scoperta, della comprensione e della catalogazione del mondo: il moto, la curiosità, l’osservazione e la loro traduzione letteraria si fondono in un nesso che ha giocato un ruolo centrale non solo a livello di esperienza letteraria nell’odeporica, ma più profondamente nel cuore stesso dei meccanismi della nostra conoscenza del reale.”

In conclusione, Qudulibri propone un volume di nicchia, elegante, molto curato nella veste grafica. Come asserito dalla stessa autrice a questa prima opera ne potrebbero fare seguito anche delle altre con un secondo e forse un terzo volume. Restiamo in attesa…

“Buon cammino, Claudia!”

Federico Ielusich

Bibliografia

Tratteggi friulani – fotografie di Benedetto Benny Kosic – di Claudia Zironi – Collana Porta Maggiore-I Poeti – Qudulibri -Gorizia -febbraio 2023 prima edizione

Eppure ancora i nespoli-dissertazioni sullo Haiku – di Antonio Sacco – NullaDieNuovoAteneo Edizioni – Saggi Nulla Die -agosto 2020 prima edizione – Piazza Armerina

La luna e il cancello-saggio sullo haiku – di Luca Cenisi – Castelvecchi – Cahiers- agosto 2018 – Roma

Il Chiasmo (/magazine/chiasmo/) -Lo sguardo del viaggiatore: la letteratura odeporica e l’osservazione del mondo – di Giada Tecchio

https://www.treccani.it/magazine/chiasmo/lettere_e_arti/Dinamismo/2_SNS_lo_sguardo_del_viaggiatore.html

 

La strada di chi resta

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di Federico Di Gregorio

 

Matteo B. Bianchi, La vita di chi resta, Mondadori, 2023

 

«Milano, nella sua casa, fra i suoi libri, fra i piccoli oggetti preziosi che ha comprato in giro per il mondo, fra le sue candele sempre accese e le decine e decine di bottiglie ben allineate sul tavolo di mogano dell’angolo bar, gli sembrava un rifugio antiaereo» scriveva Tondelli. Le cose materiali sono protagoniste nell’inizio del nuovo romanzo di Matteo B. Bianchi, La vita di chi resta, edito da Mondadori. Casa, ascensore, vestiti, scarpe, simboli del quotidiano e della discontinuità, uniti al mantra del parere popolare, per l’abbandono terapeutico delle cose materiali. Perché? Non ha senso, si dice l’autore: «Non riescono a capire che dai ricordi sono invaso». Inizia l’egida dell’irrealtà, in un memoir delicato, scarno e pacifico.

Cosa significa sopravvivere dovrebbe essere il tema del libro, forse non lo è. «L’assenza di intenzioni» mi ha colpito di più. Il sopravvivere deriva dall’assenza ed essa esiste solo nel soggetto che rimane, come da titolo. Per ciò il memoir di Matteo B. Bianchi è un viaggio illecito, tra gli oggetti e le persone che si avvicinano. Quindi è tutto. È poco altro la prosa essenziale, i flash come un post-it sul tavolo dell’ingresso, davanti una sala vuota sono parte della storia, della libertà di scriversi. Le parole e i pensieri diventano man mano, come ci si attende da uno scrittore, le uniche cose materiali. La geografia di un amore rimane lo strumento dell’abbandono dello stesso. Dove accade e perché, ossia chi. Dopo le scene iniziali, ci si immerge nel passato prossimo, che tale è diventato: prima dell’assenza il vissuto diviene lontano ed è un escamotage. All’improvviso, si cerca nella memoria del proprio tempo fatto di ricordi eterei, non visuali, per colpa di un’epoca analogica. Si palesa, nella mia testa, l’immagine di Pier Vittorio Tondelli, di Camere separate, che lo stesso autore de La vita di chi resta, inconsapevolmente, mi spinge a rileggere con il passaggio: «Non rileggo mai un libro due volte. Almeno non per intero». Bianchi parla della raccolta di racconti che sfoglia sul tram nell’ultimo giorno prima del dolore. Non è di Tondelli, non potrebbe esserlo. Poco importa.

Mi chiedo se il tema del romanzo sia il dolore. Il dolore che porta l’assenza di iniziativa. Non è proprio così. Dolore è un termine improprio, c’è scritto. Il dolore, nel testo, sembra estraniazione. Estraniazione dalla paura, dalle ansie, dai successi. Estraniazione dal ruolo umano dietro un «vetro». Il primo momento per lui autentico, dopo tanto, è quando un autore gli consiglia di prendere appunti: l’altro scrittore lo riconosce, nel suo essere fuori dalle regole, alieno prima della strada per «risalire». Intanto emergono riti mentali, che si incontrano nel lasciare o nell’essere lasciati. Il protagonista del libro vive un abbandono totale, è questa la differenza. Mentre si allontana dai sentimenti, con la gradualità e la prepotenza propria della situazione, è costretto a vivere una perdita assoluta: metafora che diventa verità. Allora il desiderio compare a lenire, in maniera creativa, in qualche modo. Con Carrère che firma gli episodi di Les Revenants e lui ci proietta la gioia ormai impossibile dello spiegarsi fino in fondo. Si parla di resistere. Arriva l’ispirazione per capire il tema del romanzo: l’inerzia, ossia la resistenza. I libri che parlano di resistenza non si posano nemmeno sotto tortura, in un singolare gioco di specchi. Sono esperienze che attraversano, quasi come fosse obbligatoria, la fase della colpa. La vita di chi resta è colpa, momentanea. Delitto perlomeno condiviso con gli altri, che qualcuno in maniera goffa, e altri in modo esemplare, affrontano. È un incastro che evoca il più banale dei concetti. Come scrive Edmund White, in La vita di prima: «Sì, ci vuole coraggio a innamorarsi. È come passeggiare distrattamente, fingendo di condurre una vita ordinaria, mentre in realtà si sta camminando in punta di piedi sul bordo di un burrone, vicino al cratere di un vulcano con il suo deposito di lava incandescente».

A metà della narrazione – che si costruisce intorno al punto di rottura, rimettendo insieme i pixel della sera che ha cambiato l’universo dell’autore – ci si chiede, credo in maniera diffusa, cosa sia la diversità. Diversità è una parola che cambia significante nel tempo. Evoca il gap culturale tra i due uomini protagonisti del memoir. Il primo, intellettuale, immerso nella Milano creativa, tra musica, libri e agenzie di comunicazione; il secondo, manovale, autista, padre di famiglia, a un certo punto lavoratore saltuario. Il primo, riflessivo e attaccato all’opinione degli altri, nella misura giusta; il secondo, poco interessato alle regole sociali, alle gerarchie di turno, legato al momento quasi fosse un personaggio pasoliniano. La diversità è una caratteristica singolare: favorisce l’inizio di una relazione e allontana nel mentre, anche se – ben descritto – c’è il ritorno di fiamma per l’imprevisto, metafora una caldaia nella sera al centro di Roma, a parlare di storie, astrazioni e sigarette. Alla diversità nell’interpretazione di un ruolo non crede più nessuno. In un dialogo, il Thomas Bernhard di Perturbamento, descrive: «Certe persone che non ci sono simpatiche non le lasciamo recitare nello spettacolo che abbiamo allestito; se vi si introducono, noi le scacciamo. Se uno si rende perfettamente conto dell’aspetto meccanico del proprio corpo, non riesce più a respirare».

Matteo B. Bianchi dice di aver stabilito «diverse successioni», di aver spostato «cose e persone nel tempo». Aggiunge: «Dovessero chiedermi cosa c’è di vero in questo libro, risponderei, senza esitazione: tutto». Si chiama fuori da possibili confusioni e le alimenta. È l’ultimo passo della strada compiuta, appuntata, scritta con la memoria. Non si affrancano l’esistenza reale e la letteratura. Spesso così coincidenti da essere imperturbabili, di fronte all’esposizione in un grande festival o nella mente del singolo. Parte il primo tour dell’autore, per presentare il suo esordio, chiuso poco prima del suicidio dell’ex compagno, in cui risultano evidenti tracce di vita e non potrebbe essere altrimenti. Finisce, nello spazio letterario che non è diverso dal reale, con il memoir di cui parliamo, che corre pieno di idee irrisolte fino al niente da poter scrivere, il momento in cui si chiude. La narrazione di una storia non è viverla, vivere una storia è semplicemente narrarla. Fa così Matteo B. Bianchi, in questo libro pieno di fantasmi, dall’inizio alla fine. Scrittore, editor, autore per la radio e la tivvù, curatore della rivista letteraria ‘tina, ci fa conoscere un aspetto per aprirne altri, comincia dal non sentire e finisce con una solida spiegazione. Parla della prevenzione, dell’ascolto. Racconta della ricerca e dell’esternalizzazione della stessa, tra medici, maghi e sopravvissuti. La vita di chi resta è commovente e utile, abbraccia il valore letterario di un testo per intero: la comunicazione di sé e la non-unicità del messaggio. In una riunione di letterati, spicca così per sensazioni positive, dentro un olocausto di ricordi da smarrirsi.

 

Nanni Balestrini – Millepiani

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[Questo articolo è apparso sull’“Indice”, n°2, 2023, e tratta del volume collettivo Nanni Balestrini, Millepiani, DeriveApprodi, Roma, 2022, p. 309.]

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di Andrea Inglese

Per Nanni Balestrini potrebbe valere la formula dell’identità moderna che Pirandello coniò per Vitangelo Moscarda, uno dei suoi più celebri protagonisti. Ma per l’autore siciliano, uno, nessuno e centomila esprime ancora uno scandalo della ragione, un paradosso che tende a paralizzare l’azione, laddove, applicata a Balestrini, tale formula sembra conseguire da una consapevole strategia produttiva d’opere e iniziative. Nell’intitolare un volume a lui interamente dedicato, il curatore Sergio Bianchi utilizza la traduzione italiana di Milles plateaux, titolo dell’opera filosofica di Gilles Deleuze e Félix Guattari. Di soggetto plurimo, però, ancora si tratta, in questo Nanni Balestrini Millepiani, corposo volume di una delle nostre case editrici più politiche, DeriveApprodi, che per altro, senza contraddizione, si è impegnata nella pubblicazione integrale dell’opera letteraria (poetica e narrativa) dello stesso Balestrini. Fedele al suo titolo, il volume di trecento pagine non fa una scelta di omogeneità nella selezione e nella raccolta dei materiali. Vi troviamo testimonianze dirette di sodali poetici e politici, ricostruzioni documentate di contesti e progetti culturali, letture critiche della sua produzione letteraria e artistica, il tutto corredato da cinquanta immagini a tutta pagina di opere plastiche e grafiche, ritratti individuali e di gruppo, copertine di libri o riviste, ecc. Tutto ciò non vuole essere un semplice omaggio a uno scrittore tra i più importanti del secondo Novecento, e che è stato attivo e presente fino a pochi mesi dalla sua scomparsa, nel 2019. Nanni Balestrini Millepiani è anche il tentativo di cartografare lo spazio senza contorni certi di una personalità e di un’opera, che si confondono con una quantità di soggetti e di creazioni collettive nel corso di sessant’anni almeno di vicende letterarie, culturali e politiche del nostro paese. Questa “confusione” (di piani di realtà così come di generi letterari e forme artistiche) è ciò che distingue il percorso di Balestrini, ma lo rende anche sfuggente e in parte enigmatico, per chi pretendesse di coglierlo attraverso una sola chiave di lettura. L’eterogeneità dei materiali raccolti nel volume di DeriveApprodi lascia comunque apparire una sorta di baricentro, di punto di convergenza e passaggio, delle tante e diverse esperienze che vi sono documentate. Questo baricentro è dato dall’anomalo e lungo decennio che prolunga il ’68 italiano fino alla vasta e indiscriminata repressione innescata dal processo del 7 aprile 1979, che vide lo stesso Balestrini imputato e poi assolto. Il Balestrini che incontriamo qui ha l’esperienza della neoavanguardia e la stagione delle polemiche letterarie alle spalle, così come l’attività di redattore del “Verri” e delle collane di narrativa per Feltrinelli, e si appresta a divenire uno dei più infaticabili e innovativi attori dell’editoria di movimento, a partire dall’esperienza della rivista “Quindici” e subito dopo di “Potere operaio”. Ed è in questo contesto di rivolta diffusa, rivolta esistenziale ancor prima che politica, che Balestrini sembra individuare un nuovo terreno di sperimentazione dei linguaggi verbali e visivi, in cui le esperienze collettive sembrano nutrire le invenzioni individuali e viceversa. (È il caso esemplare di Vogliamo tutto del 1971, romanzo sperimentale che, meglio di qualsiasi narrazione “realistica”, documenta l’avvento dell’operaio-massa e delle nuove lotte nelle fabbriche della Fiat alla fine degli anni Sessanta.)

Buona parte degli interventi raccolti nei due primi capitoli del libro (Sguardi e Percorsi), sono dedicati alle testimonianze dirette o alla ricostruzione più analitica di questa fase dell’attività di Balestrini, che si chiude con l’esperienza della prima “alfabeta” (nata nel 1979). Nella seconda parte, troviamo una serie di testi divisi per “genere” (Visive, Audiovisive, Suoni, Scene, ecc.) che trattano dei vari ambiti del suo agire artistico e letterario, abbordati in una prospettiva più tradizionalmente critica. Abbiamo saggi e interviste di Fabbri, Cortellessa, Lorenzini, Bello Minciacchi e altri. Nella prima parte, invece, abbondano le voci provenienti dalla militanza politica (Mario Tronti, Toni Negri, Sergio Bologna, Jaroslav Novák, Giairo Daghini, Franco Berardi Bifo, ecc.).

Un po’ come era successo a Debord, con il Maggio parigino, la marginalità di matrice letteraria e avanguardistica, nata nel corso della seconda metà degli anni Cinquanta, finisce per intercettare un movimento giovanile (studentesco e operaio) di massa, che alle soglie degli anni Settanta elabora una critica politica e culturale delle istituzioni e dell’organizzazione del lavoro, in seguito a un decisivo ventennio di modernizzazione capitalistica. La ricchezza e la singolarità del libro curato da Sergio Bianchi nasce dal tentativo di dare conto di questa tangenza, rara sul piano storico, ma anche su quello delle esperienze artistiche e intellettuali. Non sarà mai sufficiente dire, nel caso di Balestrini, era il poeta giusto nel momento storico giusto. La giustezza del caso è venuta dalla straordinaria capacità di adattamento del poeta e dell’intellettuale nei confronti di un ambiente culturale inedito nella storia nazionale, che permetteva la presa di parola di una molteplicità di soggetti che mai l’avevano esercitata nello spazio pubblico (studenti, operai, immigrati, donne, omosessuali, detenuti). A quelle tante (e nuove) parole non sue, Balestrini è stato capace di dare con grande efficacia la propria voce.

Ida Travi: «Jan, dobbiamo imparare a scrivere»

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«Ce ne andremo come dio ci ha fatto
come dio ci ha fatto – due volte almeno -»

 

Janìl’ora della cancellatura di  Ida Travi, ottavo libro dei Tolki, è il nuovo titolo dei Cervi Volanti, la collana di scritture poetiche che curo insieme a Giuditta Chiaraluce all’interno del progetto Edizioni Volatili.

«Libri come laboratori, primi confronti, materie pensanti, montaggi e scavi attraverso la carta; libri senza profitto, in tiratura limitata, consegnati interamente agli autori e alle autrici, che ne gestiscono liberamente il transito (esoeditoria); libri evidenti nella loro invisibilità, indirizzati a chi saprà ospitarne l’implicita consegna; libri col solo intento di essere vigilie per una geografia del dopo-diluvio.»
Pubblico qui alcune poesie in anteprima. Le partiture visive sono di Giuditta Chiaraluce.

(sotto il cielo di Zard)

 

Sotto il cielo di Zard

ho sentito scricchiolare le assi

ho sentito i morti che tornavano a casa

 

via, via! questa è la nostra casa

andate via, tornate giù

giù sulla terra, in terra

 

Siedono allora sospirando

si tolgono le calze gocciolanti

dicono – mamma, mettimi

vicino al fuoco – come facevi

con le castagne, così vivrò di nuovo

di nuovo, come un rametto, si.

 

*

 

(fu per via della dichiarazione di guerra)

 

Fu per via della dichiarazione di guerra

e la crosta terrestre si spaccò

e il cielo si spaccò, è così che nacquero

i sentimenti rotti

 

E come mai come mai – diceva il monte

come mai non si fa più la cerimonia

come mai sopra la testa

s’apre quel buco nero, come mai

sopra testa cresce quel buco nero

 

E come mai, come mai uno sparisce

e l’altro no, come mai la macchia

è scura, come mai la macchia bianca

in fronte è scura, scura

 

Non è una macchia, Jan

è solo la notte che s’avvicina, è solo

il giorno, Jan, è solo il giorno che s’avvicina.

 

*

 

 

( Janì, Janì )

 

Janì, Janì scenderai dal sasso

scenderai dal trono, finalmente

stenderai la coperta ai tuoi piedi

 

Porterai la richiesta in terra

giù nel rifugio, sotto il platano rosso

sotto l’Ufficio Postale, anche tu

mangerai le radici

 

Il primo giorno avremo il latte

il secondo giorno avremo il fuoco

il terzo giorno finalmente

vedremo le raffiche allontanarsi

 

Fino allo schermo, e oltre

fino al portone degli oscuranti

più avanti, più avanti, fino al ponticello verde

dove siedono in assemblea le stelle

la volpi rosse d’un secolo fa.

 

*

 

(il libro s’è aperto da solo)

 

Il libro s’è aperto da solo

l’ho visto, nessuno

ha voltato la pagina

nessuno ha chinato la testa

 

– Janì, quella era la pagina dell’assoluzione –

 

C’era solo quel canto

c’era quel bianco, Jan

dobbiamo imparare a scrivere.

 

La mente, l’odio, l’imitazione, l’inversione

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di Pasquale Vitagliano

Caino e Abele. Ovvero Castore e Polluce, i due dioscuri del romanzo novecentesco: Valerio Magrelli ci propone un duello letteraria tra Proust e Céline. La mente e l’odio è il titolo del suo saggio per la collana Einaudi, Stile Libero VS. La mente è Marcel Proust, l’autore di quell’opera monumentale che sono i sette volumi de Alla Ricerca del tempo perduto. L’odio è quello che ha ossessionato Céline, l’autore del Viaggio al termine della notte. L’immensa fatica letteraria di Proust, rivela Magrelli, non è descrittiva, bensì conoscitiva e corrisponde a un preciso progetto gnoseologico, unitario e totale. Il suo scopo è rappresentare il corpo, la vita e il linguaggio della mondanità parigina per decifrarne i significati storici e psichici. Al ragionamento, invece, Céline oppone il palpito. A lui non interessa la mondanità, ma il suo polo opposto, i bassifondi dove cova l’odio. Eppure, grazie a questo risentimento, l’autore del Voyage ha reso la lingua più sensibile ed emotiva.
A far incrociare i loro destini sono anche le sfortune editoriali. La Recherche viene rifiutata dall’editore Gallimard per volere di André Gide, che considerava Proust poco più di un viziato moccioso. Eppure, constatato il successo, dovette scusarsi e finalmente l’opera poté uscire con un editore all’altezza del suo valore. Anche Céline attese invano Gallimard. Questa volta la svista fu di un editor che pretendeva di tagliare in più punti il manoscritto. L’approdo alla grande casa editrice arrivò solo poi, grazie all’intervento di André Malraux, ministro della cultura di De Gaulle, intellettuale e scrittore egli stesso.
Come Magrelli precisa, lo scontro tra i due è asimmetrico. Hanno vissuto in epoche diverse. Proust non ha conosciuto Céline, dunque, non può rispondere al suo astio. Più correttamente, si tratterebbe di un’ “aggressione postuma”. In realtà, e siamo al centro nevralgico del saggio, i punti di contatto sono molti: la centralità dello stile, la malattia, la visione nichilista, la città di Parigi. Anzi, piano piano scopriamo che l’odio di Céline, in realtà, finisce per essere una magnifica ossessione. Si può sostenere che egli si sia dedicato, per tutta la sua vita, a comporre un’ininterrotta, maniacale riscrittura di Proust. Si può azzardare che l’irrisione verso il suo predecessore abbia in realtà nascosto un segreto, spettacolare omaggio.
A questo proposito, rivelatore è la pagina in cui Proust evoca la morte della nonna. Esplicitamente, Céline la considera la migliore di tutta la sua opera. Ma non si limita a quest’ apprezzamento. Infatti, la scena viene ripresa punto per punto nel suo secondo romanzo, Morte a credito. Sono altri i punti di contatto, per imitazione, oppure, al negativo, per inversione. Ad esempio, il leggendario incipit della Recherche (citato anche nel cinema da Sergio Leone) viene ripreso nel Voyage. Oppure, “dalla parte di Swann” diventa in Céline “dalla parte dei ricchi”.
D’altra parte, anche in Proust, l’odio scorre. Allontanandoci da Combray, entriamo nei salotti Parigini. Anche questa è una discesa all’inferno, un viaggio notturno nei bassofondi delle esistenze umane. Nell’universo di Céline non c’è sacro. Proust, invece, ci mette di fronte ad un processo di perversione e corruzione del sacro, fino ad avvelenare ogni fonte di vita.
Il saggio di Magrelli, alla fine, ci riserva un colpo di scena. Tutto Céline si appoggia su Proust. Cos’altro ha cercato di fare l’autore del Viaggio, lungo tutta la sua carriera, se non appunto espellere Marcel, la cui ombra planava così ostinatamente sulla propria opera? Dunque, ha ragione Roland Barthes quando scrive che oggi si potrebbe benissimo concepire un’epoca nella quale non si scriverebbero più opere nel senso tradizionale del termine, ma si riscriverebbero senza posa le opere del passato.
Insomma, Proust e Céline sono indissociabili come due facce di una stessa medaglia, come il diritto e il rovescio della stessa pagina. Come se al termine del nostro viaggio notturno ci ritrovassimo nell’alba di Combray, simbolo per tutti noi dell’innocenza perduta.

 

Mots-clés__Aprile

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Aprile
di Paola Ivaldi

 

Simon & Garfunkel, April come she will -> play

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Da: Il seppellimento dei morti, in La terra desolata, T.S. Eliot (trad. di Mario Praz, Giulio Einaudi Editore, 2007):

Aprile è il più crudele dei mesi: genera
Lillà dalla morta terra, mescola
Ricordo e desiderio, stimola
Le sopite radici con la pioggia primaverile.

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

 

Costruire una casa

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di Eduardo De Cunto

Cominci a costruire una casa, ma scopri che la partita di calce che hai acquistato è viziata. Poni lo stesso la prima fila di mattoni e non sembra esserci problema; che smotta un po’, tuttavia, è chiaro già dalla seconda fila. Tu vai avanti, trovi un equilibrio e tiri su un muretto che tiene. Peccato che qualcosa scricchiola. Prendi paura, vedi la piccola parete oscillare, capisci che non puoi mettere altro peso, ti fermi. E il muro torna fermo.

Tutto ti sembra calmo, dunque riparti, un po’ ritorto (ma impercettibilmente, tant’è che te ne accorgi appena). Prosegui. E prosegui ancora. Il peso delle fila aggiuntive sembra stabilizzante.

Che è ritorta tu lo sai, è un pensiero che non ti abbandona. Ma chi passa non batte ciglio. Cos’è questo se non un muro, un muro come tanti? Vuoi che gli altri muri non abbiano anch’essi una piccola crepa, una briciola di calce fuori dalla scanalatura? Ecco, qualcuno, addirittura, ci si siede e sciabatta pietre all’aria. Tra chi sciabatta c’è una ragazza: un tipo maschiaccio, ma carina; capelli biondi a caschetto, alla Semola scudiero di re Artù.

Hai pensieri vertiginosi. Hai voglia di sapere dov’è che immagina che cadono le pietre che fa finta di scalciare.

Ti dici che il muretto non è poi così instabile, che l’insicurezza è nella tua psiche e non altrove, e dal momento che siamo arrivati a un metro e mezzo/due bisognerà pure porre le basi per un balconcino, per delle finestre, bisognerà pure iniziare a ragionare in maniera quadridimensionale (sì, le dimensioni che aggiungi con un solo guizzo dell’intelletto sono due: la terza è per la profondità, la quarta per il tempo in cui verrà gente a stare con te nella tua casa).

Dunque: di buona lena, a colpi di calce e di cazzuola.

La ragazza che sciabattava le pietre al vento adesso è sul balcone: ha un seno, ha mani da donna per accarezzare, ha baci. Ma, soprattutto, ha gli occhi spaventati e il fiato mozzo.

La gente potrebbe passare e tirare avanti. Alcuni lo fanno. Altri, prima di perdersi lungo le loro lunghe strade, uno sguardo sulla tua casa lo poggiano. Quello che pensano glielo leggi negli occhi: il muro è sempre più ritorto.

Allora tu disfi.

Ti disfi di Semola, che piangerà ma non caverà nulla da nessuna roccia, ti disfi delle quattro dimensioni, ti disfi di otto o nove file di mattoni, torni a poggiare i piedi a terra.

Chi piange di più tra te e Semola? Te lo chiederai per tutta la vita.

Riparti dalle fondamenta. La calce che ti hanno dato è sempre quella, è cattiva. Le prime tre file di mattoni, ormai, rimarranno dove stanno. Ma puoi puntellare, puoi imparare dall’esperienza del fallimento, puoi fare un muro come tutti gli altri, che non si sono mai visti muri senza crepe e senza necessità di ristrutturazioni. Così fai. Ancora calce, ancora mattoni, ancora cazzuola, ancora calce, ancora mattoni, ancora persone, ancora l’idea di creare una stanza, un balcone, ancora l’idea del tempo da condividere con qualcuno, ancora, ancora persone e ancora cemento. Ed ecco una stanza. Con una finestra e un balcone. Ecco una casa, si direbbe, si potrebbe dire, se non si avesse quasi timore di dirlo.

Stavolta racconti tutto a tutti, preferisci giocare d’anticipo e lasciarli a bocca aperta: «La calce non era buona, questa casa non dovrebbe star su». «Ma dai!», ti si risponde in genere, «Non l’avrei mai detto!». Ti piace quando ti rispondono così. Li vedi rilassarsi, assopirsi sui sofà, non dar peso alle cose che dici. E intanto uno scricchiolio. Proprio come in quel racconto: conoscete quel racconto in cui c’è una goccia che, invece di scendere per le scale, le sale? Ecco, tu senti una goccia salire per le scale, mentre tutti dormono, e non è che ci sia un senso o una morale. C’è una goccia che sale per le scale. C’è uno scricchiolio che senti solo tu. E poi la casa crolla, con la gente addormentata dentro.

Voglio essere molto onesto: penserai agli altri, ma molto dopo. Prima pensi a te stesso. Sei vivo? Sei vivo o sei morto?

Non lo sai. In certe circostanze non è affatto semplice dirlo. Sei a base organica o sei un qualsiasi agglomerato di materia?

Ecco, ecco, sì, partiamo da qui: pensi?

Buon vecchio Escargot, sì che pensi, dunque sei.

Cosa sei? Una pietra? Un gatto? Un qualcosa di mai visto prima? Non lo si può stabilire. Potresti essere un mattone che pensa grazie alla materia grigia che gli hai prestato, potresti essere la casa che è crollata, potresti esserne l’ombra.

E invece, a due a due, ti separi dai tuoi negativi e ritrovi la tua identità. Perché lo sai e basta, non per deduzione. Dunque non sei un oggetto inanimato, ma un essere vivente. Ecco che spuntano i colori, e appartieni al mondo della luce e non del buio. Sei un essere aerobio e non anaerobio, perché ansimi. Animale e non vegetale, perché hai sangue in bocca. Maschio, perché tua sorella si separa da te, scostando le sue mutandine dalla tua bocca. Stai recuperando i ricordi.

Poi si spengono.

Poi non sei più a casa tua e la catastrofe è ai tuoi piedi. Nessuno si è fatto male, tranne te.

Ma si comincia da capo. E devi trovarti altri amici.

Dunque: hai una partita di calce viziata. Le prime tre file rimangono dove sono. Devi tirare su una casa che stavolta tenga, ne va della vita. Ma non hai più fiducia nel fatto che l’esperienza accumulata e gli errori fatti possano giovarti. Ti convinci che fallirai ancora.

Ma ne va della vita. E allora, ancora calce, ancora mattoni, ancora cazzuola, ancora gente, ancora mani che ti accarezzano, occhi che ti guardano, labbra che ti baciano. Il muro è dritto, perché ogni volta che vien su un po’ ritorto tu disfi, ti disfai di mani, occhi e labbra, riempi di lacrime la casa e la strada. Ma il muro è dritto.

Magari non avrai mai più un Semola scudiero di re Artù, ma ti riprometti che avrai una casa che non crolla. Dunque, visto che di nuovo siamo al metro e mezzo/due, inizi a lavorare sulla terza dimensione. Fai un rettangolo di mattoncini, semplice come un fortino Playmobil. Per esser certo che non abbia aperture e punti deboli, e che nessuno vi entri, non fai porte. Crei un enorme cubo di mattoni. Nessuno ne vedrà gli interni, nemmeno tu, dal momento che non avrà finestre, dunque non passi l’intonaco.

Fai il soffitto, con grande sforzo.

E ora sei lì dentro, al buio.

È stupefacente quanto tempo può durare una simile permanenza, per un essere aerobio. Passano forse millenni, ma hai ancora ossigeno, e sei ancora vivo.

Pensi.

Pensi alle idee, come diceva di fare Platone.

L’avrà avuto un corpo, Platone?

Per alcuni millenni pensi alle idee, poi sei troppo distratto dal corpo.

Poi ti capita di pensare alle persone.

Ogni muro, anche il tuo muro perfetto, deve pur avere una crepa. Altrimenti, davvero, aerobio come sei, saresti già morto. Pensando alle persone trovi la crepa e, stavolta deliberatamente, vai incontro al tuo terzo crollo.

È un crollo parziale e controllato. La luce del sole ti ha schiaffeggiato, ma adesso è gentile. Di sotto, una discreta folla ti guarda alquanto interdetta, ma non propriamente spaventata.

Hai un enorme punto a tuo vantaggio, è evidente: stavolta non devi ripartire da tre sole fila di mattoni, sei già a un metro e mezzo/due.

Chi l’avrebbe detto, ti ritornano vezzi che credevi abbandonati per sempre: immaginare un balcone, i gerani da mettervi su, una ragazza. Insomma una casa per persone.

Fai un balcone. Fai un perimetro con finestre. Ricevi delle prime visite.

C’è una ragazza con i capelli raccolti a foglie d’ananas e calzettoni da uomo che viene a trovarti spesso. È l’opposto di Semola, ma è uguale.

Pensi che è proprio giunta l’ora di fare un tetto e che stavolta ce la farai. Inizi.

Le forme squadrate ti sono venute a noia e non ti hanno portato bene. Così, più che un tetto, provi a fare una cupola. E visto che ci sei, sotto lo sguardo della ragazza, decidi di usare la manualità acquisita.

Le punte d’ananas ti osservano; chissà come, ti riesce di curvare le pareti.

La volta è talmente tonda che inviti la tua compagna ad abitarvi dentro, talmente perfetta che decidi di affrescarla.

Compri dei pennelli e della polvere colorata che stemperi nell’acqua. Finalmente stendi l’intonaco.

Il verde è il primo colore che usi. Ti serve per disegnare un pendio sul lato sinistro della scena (dietro, l’indaco di un colle lontano). Sul pendio si posa un giovane; il suo corpo nudo, semidisteso nell’erba, è scolpito e grande. Ne tracci i pettorali a riposo e gli addominali contratti, l’avambraccio destro è poggiato al suolo e il braccio sinistro proteso all’aria (bicipite sicuro, gomito che poggia sul ginocchio raccolto, mano rilassata, a palmo in giù con l’indice che sopravanza appena le altre dita). Lo sguardo, che corre sul braccio, è languido; il mento deciso.

Da sfondo: un cielo chiaro da accecare.

L’indice indica l’indice di un uomo maturo.

È l’altra figura. Tutto ciò che è altro da te. O almeno ne avrebbe le pretese, e si vede. È attorniato da ben dodici tra angeli e putti (quella che è sotto il suo braccio sinistro sembra piuttosto la sua puttana, ed è quella che conserva la maggior dignità nello sguardo). La nidiata lo sostiene senza che lui faccia alcunché. Indossa una tunica lilla. Tende il braccio, questo gli basta per darti vita.

L’aria è solida. È il tuo capolavoro.

Ma tra il dito dell’uomo e del dio, guarda un po’, Cristo di Buddha, c’è una crepa.

 

 

Matteo Bianchi: «ogni nome si conficca nel flusso di un tempo»

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di Matteo Bianchi

sei inediti e una riflessione inaugurale

 

Davide Conti – Modern Paint

La poesia, oggi come mai, appare lo strumento simbolico dell’indipendenza dai canoni ermeneutici e ideologici eterocliti, come quelli sociali e politico-culturali, proprio come manifestato da Luzi, nel dialogo Presso il Bisenzio, e da Pasolini con l’inquietudine di non riuscire a essere allineato ad alcuna idea preconcetta. Dagli esordi con Fischi di merlo (2011) a L’amore è qualcos’altro (2013) sino a La metà del letto (2015), il processo poetico è sempre stato fondamentale per trasformare il portato di realtà che non riuscivo a giustificare razionalmente. E tale disarmonia mi allontanava via via dal rapporto con gli altri, ma di più, dalle interazioni invisibili con il mondo esterno. Per questo la poiesi si è rivelata un approccio al quotidiano con cui assorbire ciò che mi impressionava delle vite altrui, ma senza imporre a me stesso una doverosa consapevolezza, per poi restituirlo con uno stile riconosciuto, con un verso capace di disinnescare la durezza dei vissuti più dissonanti dal mio. Ho inteso da subito la mia Metà come una presa di distanza dall’io spaventato e vulnerabile per ritrovare una dialogo collettivo. Con Fortissimo (2019) e con gli inediti di Christopher (2022), invece, l’ampiezza metaforica quanto ritmica del linguaggio poetico smonta in determinati momenti epifanici, coincidenti con la negazione delle scadenze accessorie e delle ripetizioni convenzionali, la vista del reale schiacciato dal presente, dalla logica imperante dell’hic et nunc; parimenti l’elaborazione di un lutto o lo stravolgimento di una nascita ci separano da una parte di noi, come un colpo di tosse che stacca dal respiro le scorie velenose. L’eco del passato mi aiuta a essere presente, mi rammenta che i rami degli alberi davanti a casa, o dietro al posto di lavoro, restano nudi sotto il tono di una stagione. 

Ho scelto di indagare alcuni passi dell’exemplum cristiano poiché già insiti nel mio panorama immaginifico, volgendomi a parte della traversata narrativa di Hesse, in particolare a Siddharta e a Il lupo della steppa. E se il Nuovo Testamento mi ha guidato al ricongiungimento con una prospettiva corale attraverso un dolore condiviso, lo stesso dolore che mette a nudo senza possibilità di impostura, ho sempre considerato inesauribile il bacino biblico in termini di archetipi. In Christopher, oltre all’isolamento sociale a cui è condannato il protagonista del poema, motivato peraltro dalla biografia travagliata del performer Christopher Channing, è centrale la questione del tempo. Ispirandomi alla passeggiata nel cimitero di Spoon River di Masters, sono convinto che grazie al medium poetico chi raccoglie le testimonianze, credendo nella dignità del racconto, riesca a interloquire con il passato sotto ogni lapide. Si compone così il mosaico di un’umanità di concezione dantesca, soggetta a una ciclicità rigenerante, ma visibile solo dopo essere usciti dal cerchio terrestre, «l’aloia che ci fa tanto feroci»; mentre ogni nome si conficca nel flusso di un tempo immemore con la propria singolarità passeggera, vibrante e imprescindibile solo se messa in relazione alle altre, ma di per sé insignificante. La ratio del mito, inoltre, emerge dal puro meccanicismo storico e da ogni tentativo, letterario o meta-letterario, che voglia inglobare la spiritualità nella realtà, per tracimare nella rivalutazione di un’energia vitalistica pure, aderente alle dinamiche del tempo in cui sorge, ma non coartata dalle medesime. E penso ad Alessandro Ceni, «se sulla soglia / al rovinìo tra i rami delle merle / hai visto il figlio discendere sul padre / e aprirsi alle parole / per dirgli la parola che non salva (…)». Semplificando Heidegger con disonore, imbastisco un discorso sulla trasformazione del reale, delle memorie e dei fatti contingenti da parte del linguaggio poetico che con meno parole di altri linguaggi riesce a significare la quotidianità con continui rimandi a ogni altra epoca umana.

 

Davide Conti – Modern Paint

 

Da Christopher

 

 

In ginocchio strofinavi lo smalto

di un piatto messicano fin de siècle.

In ginocchio sul pavimento del bagno

di un modesto atelier.

Spalmavi la cera abrasiva

sui decori dorati a mani nude,

piano, con le dita, e ti accanivi

dove l’ottone cedeva la luce

alla ruggine del tempo.

Insistevi con gli stracci e con le pezze

per lucidarlo, per levare

dai bordi il nero presagio

lasciato dagli anni.

 

Mi davi le spalle indaffarato

e benché il tuo buio

credessi di avermelo mostrato,

benché ne fossi persino convinto,

io non l’avevo mai notato;

di te mi era concesso soltanto

qualche fregio fugace

di un passato prezioso.

E ne rimandavo l’usura.

 

*

 

Era un moto istintivo.

Se volevi proteggere qualcuno

lo abbracciavi e, portandolo a te,

scoprivi la tua schiena.

Quando la luce era una minaccia,

ecco che compariva l’ombra.

Magari era per questo

che in te scorgevi più buio,

molto di più di quello che c’era.

 

A Jacques Lecoq

 

*

 

Ti scoraggiava il valzer

degli strumenti da cappello

vicino a Saint Luis:

«fare l’amore è circolare

e finale in tre quarti,

un, due, tre…

come un valzer straniero.

L’atto di amare si chiude a cerchio,

un, due, tre…

il quarto, lo spicchio voluto,

lo farebbe un quadrato,

spigoloso l’incastro dei rapporti».

Per te non c’era mai la luna piena.

 

*

 

Eravamo costretti, a volte,

a tralasciare certi particolari,

a fingere che la passeggiata fosse peggio

di quello che era, se messa a fuoco.

Non saremmo più riusciti, altrimenti,

a distogliere lo sguardo

dal brulichio infernale

del boulevard périphérique.

 

*

 

Sui marciapiedi sono tutti diversi,

ciascuno si appoggia alla terra a suo modo:

«c’è chi è tirato da un filo sottile

e chi cammina sospinto dal vento,

chi si pianta a ogni passo

e chi non si azzarda, in punta di piedi».

Noi finivamo a braccetto,

sincronizzati.

 

*

 

Entravi spesso al Sacro Cuore

per trovare pace

da un’estate ad ore,

nella cornice del tuo personaggio.

«In fondo all’androne il mosaico

del Cristo, una macchia

fervida di colore e,

a mano a mano che mi accingevo a Lui,

assumeva i tratti del dolore. Sfinito.

Mi sdraiavo sotto la sua croce».

 

MATTEO BIANCHI, trentacinque anni, si è specializzato in Filologia moderna a Ca’ Foscari sul lascito lirico di Corrado Govoni, sulla cui poetica ha curato l’Annuario govoniano di critica e luoghi letterari (La Vita Felice, 2020). Ha pubblicato le raccolte Fischi di merlo (Edizioni del Leone, 2011), L’amore è qualcos’altro (Empirìa 2013), La metà del letto (Barbera, 2015), Fortissimo (Minerva, 2019), e le plaquette Un’ombra in due (L’Arca Felice, 2014). È stato presentato su “Gradiva” sia da Giancarlo Pontiggia sia da Francesco Scarabicchi. Suoi versi sono apparsi in varie antologie, tra cui il Quadernario (a cura di M. Cucchi, LietoColle 2016), nel numero antologico di “Función Lenguaje” (n. 8, 2019) dedicato alla poesia italiana contemporanea, a cura di P. Ruffilli con le traduzioni di Josè Luis Reina Palazon, su “Poesia” di Crocetti, “l’immaginazione”, “Capoverso”, e le italosvizzere “Cenobio” e “Bloc notes”.

Dirige “Laboratori critici. Semestrale di poesia e percorsi letterari” per Samuele Editore, è redattore di Pordenoneleggepoesia.it e, come giornalista, collabora con le testate del Gruppo Sae, con “Il Sole 24 ore”, “Left” e Globalist.it.

Da “Il dolore delle soglie” di Amina Saïd

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di Amina Saïd

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traduzione di Jacopo Masi

Soglie 1 – Nascite

sono nata sulle rive

del mare del sole al tramonto

il grande mare il mare verdissimo

il mare dei Filistei

quello che bagna Cartagine

il mare bianco interno degli Arabi

i cui cavalli inondarono le sponde

*

alga sono cresciuta onda pesce

stella dalle molte braccia

la prima lettera dell’alfabeto

incrostata sulla fronte

*

a sette anni nuotavo sulle acque nere

nel sentiero di luce che tracciava la luna

andavo fino al vicolo cieco del sole

fino al paese dei limiti

prendevo lezioni di miraggio

scriba senza tempo

impegnato a calligrafare i secoli

con l’inchiostro azzurro del mare

*

a nove anni scoprii abbagliata una città inghiottita

al ritorno stesi le mie ali ad asciugare sulle dune

contavo le pietre prima di raccoglierle

avevo due volti vivevo in due mondi

*

a undici anni non parlavo già più a nessuno

eppure una lingua mi nasceva in bocca

cercavo nel silenzio i segreti della poesia

tentavo di definirmi nell’ordine delle chiarità

sotto il suo velo bianco dietro le sue palpebre imbellettate

la mia città custodiva i suoi misteri

non si consolava della sua bellezza perduta

la porta del mare non si apriva più verso il largo

trascurando le nostre più belle leggende

vivevamo i nostri giorni e le nostre notti seduti

attorno al marmo di una fontana prosciugata

*

a sedici anni avevo il sorriso grave

di chi ha sogni d’evasione

avevo due volti vivevo in due mondi

meravigliosamente immobili

sfingi cieche popolavano i miei giardini di sabbia

uccelli di fuoco attraversavano il mio cielo

crepe di silenzio nel lento lavorio del giorno

con la morte per orizzonte il mare ci tratteneva

le sue cosce di medusa ondeggianti sotto le nostre dita

*

vivevamo i nostri giorni e le nostre notti seduti

attorno al marmo di una fontana prosciugata

la porta del mare non si apriva più verso il largo

sfingi cieche popolavano i miei giardini di sabbia

vi facemmo piantare una palma che presto accarezzò le nuvole

restavo ai suoi piedi gli occhi al cielo

mia nonna apparve

è un segno disse ci lascerai

fece le raccomandazioni di rito

versò l’acqua verde sotto i miei passi

affinché un giorno tu ritorni disse

ero già sull’altra riva

*

a quarant’anni ancora abitata dalle mie ombre

tra passato e futuro

sono della mia infanzia e quindi di nessun altro luogo

ricordo una notte giovane

vissuta al ritmo del mare

c’era fra il mondo e me

così tanto spazio e così poco

l’incanto la connivenza

era prima della lenta agonia del pianeta

prima che la maschera si incrinasse

avevo due volti vivevo in due mondi

sognavo le increspature del deserto

di fronte all’abbraccio azzurro dell’orizzonte

*

sono della mia infanzia e quindi di nessun altro luogo

quale verità scoprire dunque

se non quella del sole di ogni giorno

quella di una pioggia di sabbia nella mia mano alata

la grande voce del mondo

nella trama unica

della lingua paziente che mi fu data

*

io che non faccio che tornare che non faccio che partire

ad ogni soglia varcata

avanzo verso la mia morte verso il primo giorno

così scava la nostra solitudine

come si esplora il fondo di un pozzo senza acqua

cercando l’ombra nient’altro che l’ombra

e di fronte a sé

quel luogo in cui giace un riflesso della luce

*

lodate siano le due sillabe libere del sole

l’arcipelago del silenzio in cui trovo le parole

il viaggio di soglia in soglia che è il vero viaggio

lodato sia colui che si perde

colui la cui parola è nello scarto

lodato sia il mondo perché tutto esiste

altrove che nella poesia e in lui

*

sempre tra passato e futuro

ho voluto trovare quella che doveva essere

cerco ormai quella che fu

sono della mia infanzia e quindi di nessun altro luogo

mezzanotte di luce alfabeto del niente

mare bianco mare del sole al tramonto

grande mare interno all’ovest dei nostri sogni

Seuil 1 – Naissances

je suis née sur les bords

de la mer du soleil couchant

la grande mer la très verte

la mer des Philistins

celle qui baigna Carthage

la mer blanche intérieure des Arabes

dont les chevaux déferlèrent sur les rives

*

algue j’ai grandi vague poisson

étoile aux multiples branches

la première lettre de l’alphabet

incrustée sur le front

*

à sept ans je nageais sur les eaux noires

dans le chemin de lumière que traçait la lune

j’allais jusqu’à l’impasse du soleil

jusqu’au pays des limites

je prenais des leçons de mirage

scribe intemporel

appliqué à calligraphier les siècles

à l’encre bleue de la mer

*

à neuf ans je découvris éblouie une ville engloutie

au retour je mis mes ailes à sécher sur les dunes

je comptais les pierres avant de les ramasser

j’avais deux visages je vivais dans deux mondes

*

à onze ans je ne parlais déjà plus à personne

pourtant une langue naissait dans ma bouche

je cherchais dans le silence les secrets du poème

essayais de me définir dans l’ordre des clartés

sous son voile blanc derrière ses paupières fardées

ma ville gardait ses mystères

ne se consolait pas de sa beauté perdue

la porte de la mer n’ouvrait plus sur le large

négligeant nos plus belles légendes

nous vivions nos jours et nos nuits assis

autour du marbre d’une fontaine tarie

*

à seize ans j’avais le sourire grave

de qui rêve d’évasion

j’avais deux visages je vivais dans deux mondes

merveilleusement immobiles

des sphinx aveugles peuplaient mes jardins de sable

des oiseaux de feu traversaient mon ciel

fissures de silence dans le lent travail du jour

avec la mort pour horizon la mer nous retenait

ses cuisses de méduse ondulant sous nos doigts

*

nous vivions nos jours et nos nuits assis

autour du marbre d’une fontaine tarie

la porte de la mer n’ouvrait plus sur le large

des sphinx aveugles peuplaient mes jardins de sable

on y fit planter un palmier qui bientôt caressa les nuages

je restais à ses pieds les yeux au ciel

ma grand-mère apparut

c’est un signe dit-elle tu vas nous quitter

fit les recommandations d’usage

versa l’eau verte sous mon pas

pour que tu reviennes un jour dit-elle

déjà j’étais sur l’autre rive

*

à quarante ans toujours habitée par mes ombres

entre passé et avenir

je suis de mon enfance et donc de nul ailleurs

je me souviens d’une nuit jeune

vécue au rythme de la mer

il y avait entre le monde et moi

tant d’espace et si peu

l’enchantement la connivence

c’était avant la lente agonie de la planète

avant la fissure du masque

j’avais deux visages je vivais dans deux mondes

je rêvais des rides du désert

face à l’étreinte bleue de l’horizon

*

je suis de mon enfance et donc de nul ailleurs

quelle vérité découvrir alors

que celle du soleil de chaque jour

celle d’une pluie de sable dans ma main ailée

la grande voix du monde

dans la trame unique

de la langue patiente qui me fut donnée

*

moi qui ne fais que revenir qui ne fais que partir

chaque seuil franchi

j’avance vers ma mort vers le premier jour

ainsi se creuse notre solitude

comme on explore au fond d’un puits sans eau

pour l’ombre rien que pour l’ombre

et face à soi-même

ce lieu où gît un reflet de la lumière

*

loués soient les deux syllabes libres du soleil

l’archipel du silence où je trouve les mots

le voyage de seuil en seuil qui est le vrai voyage

loué soit celui qui s’égare

celui dont la parole est dans l’écart

loué soit le monde parce que tout existe

ailleurs que dans le poème et en lui

*

toujours entre passé et avenir

j’ai voulu trouver celle qui devait être

je cherche désormais celle qui fut

je suis de mon enfance et donc de nul ailleurs

minuit de lumière alphabet du rien

mer blanche mer du soleil couchant

grande mer intérieur à l’ouest de nos rêves

*

Le poesie sono tratte dal volume, La douleur des seuils, Éditions de la Différence, Paris, 2002. Amina Saïd è nata nel 1953 a Tunisi da padre tunisino e madre francese e vive a Parigi dal 1979. È poetessa, scrittrice e traduttrice. Una parte della sua copiosa produzione poetica, che conta oltre una quindicina di raccolte, è stata tradotta in diverse lingue, principalmente in inglese e spagnolo.

Immagine dello street artist Hosni Hertelli, alias Shoof, nato a Tunisi e residente in Francia.

Marta Vive

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di Bruno Barbera

Marta vive. Ma non nel senso che è morta e che dobbiamo sorbirci uno di quegli slogan conditi da celtica sui muri della città, è viva e mi ricordo il sapore che c’era dentro la sua bocca, tra labbra e gengive, era rugiada e morfina insieme. Avrei potuto infilare una cannuccia in quello spazio e succhiare la saliva mentre lei la produceva, succhiare all’infinito.

Non sono d’accordo, rispondo a me stesso. L’infinito non è contemplabile per definizione, e la conclusione si manifesta sempre quando la saliva finisce, le bocche si fanno secche e non possono più articolare parole, questa è la morte e non c’è desiderio che tenga.

Lei è morta, dunque, morta sul serio. E sappiamo tutti chi è stato il mandante. Sei stato tu quando hai deciso di accartocciarla come un opuscolo informativo su sé stessa che lei ti aveva consegnato, e tu sei riuscito a dimenticarti della provenienza, della delicatezza della carta, e hai solo considerato svagatamente che degli opuscoli si è soliti liberarsi il prima possibile. O forse è perché non credi nelle lettere che formano le parole, e non hai mai avuto la pazienza per leggere un libro di mille pagine come fa la gente che muore insieme.

Non è così, mi rispondo ancora. Lei è morta, e su questo non ci piove, ma il mandante è un altro. È morta per fare spazio. Perché dal suo cadavere in decomposizione sbocciassero fiori, cosicché la natura fosse finalmente contenta.

Fuori è estate, mentre un turbinio imperterrito di foglie gialle, rosse e marroni mi definisce da dentro. Il mio colorito rimane però imperturbabile, non tradisce alcun indizio all’esterno.

È solo la storia di Marta che ho da raccontare a poter dare un’idea dei miei sommovimenti interni, ma mi sembra ormai da tempo che qualcuno abbia iniettato del botulino nella mia lingua, e quando succede questo le lingue non possono più articolare parole. E a ben vedere non si tratta solo degli organi della fonazione, sono i miei occhi che non saranno mai i tuoi, e il tuo cuore che non sarà mai il mio, e di conseguenza le parole non basteranno, diceva qualcuno.

Allora perché quando parlavo con lei le nostre, di parole, si intrecciavano semplici come paglia di un cesto, e brillavano anche se destinate a morire o forse già morte come le costellazioni, chiedo a me stesso. Ho sempre pensato alla comunicazione non verbale come a un atto insuperabile, che coinvolge epidermidi e mucose con esattezza chirurgica. Ed è vero, mi sembrava di sentire la sua aorta pulsare nel mio torace, la pelle dell’incavo dietro le sue ginocchia torturarmi il cervello, e la sua lingua tutt’altro che paralizzata sapeva lambire la mia e incidervi simboli disarmanti. Ma c’era pure, miracolosamente, dell’altro. Non hanno forse le parole, bellissime e vuote di impossibilità, a che fare coi miracoli?

Così avrei e non avrei cose da raccontare su di lei, e vago per i quartieri di periferia della città, chiedendo asilo a panchine e a spazi verdi come fossero scialuppe su un oceano di cemento.

Al funerale di Marta c’erano tante persone ma nessuna ha voluto parlare con me. Nei giorni seguenti ho ricevuto solo un sms sul cellulare, da un numero sconosciuto, ma era scritto con dei caratteri incomprensibili. Continuavo a rileggerli e mi pareva sempre di intuire che quei simboli avessero comunque un significato. A volte mi sembrava di essere sul punto di afferrarlo, e ripensavo a lei quando cercava di insegnarmi a leggere anche ciò che non si può leggere, come una foglia. Ma senza la sua voce viva a ricordarmi cosa fare, i caratteri di quel messaggio rimanevano alla fine solo un mistero piantato su uno schermo come chiodi in una bara senza nome.

Marta, giovane e determinata, aveva lasciato l’università per fare l’arrotina, l’arrotina e l’ombrellaia, e riparare le cucine a gas. Quando ci eravamo incontrati aveva affilato i miei sensi, mi aveva riparato sotto l’ombrello della sua amabile risolutezza, e poi mi passava anche endorfine. Formato granulare, come l’oki per il mal di gola, in pratiche bustine da portare in tasca sempre con sé. Sapeva bene che l’anedonia non se ne va mai da sola. Da quando è morta, a questa città io chiedo asilo e una risposta, a volte mi muovo seguendo la distribuzione dei tombini, e spesso cerco la vicinanza al suolo per ricordarmi il punto di vista della terra sulle cose.

Le lettere non andrebbero mai aperte, bisognerebbe rispettare il riserbo e il vincolo dell’inchiostro che non avrebbe mai voluto denudarsi sotto forma di parole intellegibili, mi dico quando penso.

Le lettere dell’alfabeto sono le ossa di un messaggio; i muscoli e i tendini e i legamenti ce li metteremo noi, soffiandoci reciprocamente parole soffici dentro la bocca, mi dico quando penso a Marta.

Un giorno, su una panchina, mi arriva finalmente la sua risposta a un mio improvvido messaggio. La combinazione delle sillabe che ha selezionato è perfetta, tagliente come la lama di Dio. Dio non ha forse a che fare coi miracoli? Ho percepito un taglio miracolosamente penetrante quando lei è morta, e un altro ancora quando ora mi scrive affilata e definitiva.

Prima di essere lama e prima di essere morta Marta però era mia, e prima ancora di essere mia era un sogno rimasto in sospeso, enorme ma tascabile, da portare sempre con sé, come un accendino che non si scarica mai perché mai utilizzato.

Perché almeno questo credo di averlo letto su un libro, e per una volta mi pareva che la verità fosse impressa nella cellulosa come la vita nelle nervature di una foglia, le cose si consumano come candele, e l’unico segreto per preservarle è non accenderle, al prezzo di non sentire il profumo come quello di Marta. Ma allora perché alcuni a questo mondo risolvono l’enigma della persistenza, trovano la formula chimica che arresta la scissione e cristallizza il sorriso, e custodiscono tutto questo come un segreto, chiedo a me stesso.

Quando viene meno anche il sostegno delle panchine vorrei sedermi sui marciapiedi, per essere ancora un po’ più vicino al centro della terra e delle cose. Poi penso che di questo passo mi consumerò i pantaloni e che forse sarebbe stato meglio non consumare mai niente, soprattutto lei, ma d’altra parte un desiderio appagato e uno che non lo è sono due facce della stessa tragedia, diceva qualcuno. Non c’è scampo. La tragedia in questione si incarna in una moneta che, proprio da un marciapiede, lancio in aria per decidere non ricordo più cosa e poi ricordo che non importa da quale lato atterri, perché tanto cadrà dentro a un tombino, e in quei liquami essere testa o croce è la medesima cosa.

Mi muovo. Periferia fuori e periferia dentro, casermoni scrostati che altro non sono se non ricordi conservati male e ammuffiti.

Marta ora probabilmente fluttua per la strada, e si è ricamata una nuova veste fatta apposta per emanciparsi dai miei sporchi sobborghi. Per dimenticare il brutto insieme a tutto il bello, perché erano due facce della stessa interazione e finiscono nello stesso secchio della raccolta differenziata. Così ora forse è ignara delle insurrezioni di fantasmi, del ghigno delle macchine che tramano nel buio, del suono dello tsunami prima dello schianto. Ignara come se fosse morta e fredda, come se fosse ancora in una stanza buia dalle librerie vuote e pericolanti, sola insieme a me.

Quando la sogno indossa contemporaneamente la sua gonna grigia a pieghe, i pantaloni della tuta che usava in casa, una camicetta bianca, una maglietta che non ricordo più cosa ritraesse ma aveva un che di commovente tenerezza, la collana di perle, nessuna collana di perle, il trucco che le avevo suggerito con molto garbo di usare con parsimonia, il suo colorito naturale fatto di capillari e gioia nell’incontrarmi.

La sogno, mi guarda. E dice sempre la stessa cosa.

Ciao.

Sono il tuo personale incidente automobilistico, interno e al rallentatore, il frastuono delle lamiere risucchiato dalle pareti insonorizzate del cuore.

Cosa ne farai?

La natura ha voluto che lei fosse morta perché ha un suo preciso piano che prevede il ricambio e la trasmutazione, e io non sono stato altro che un mezzo, un burattino mosso dai suoi capricci.

Siccome la natura comanda e noi obbediamo, al posto di Marta sorgerà quindi un campo fiorito, di fiori bianchi, il cui profumo sarà lo stesso che Marta usava. Sarà anche l’odore naturale della sua pelle e quello di tutte le cose che lei sapeva dire e delle matasse di pensieri che mi chiedeva a volte di dipanare, e io non sempre ce la facevo, e tutti questi odori potranno così incastonarsi nel cuore di qualcuno e offrire sollievo anche solo per un momento ma non a me, non per me, perché io a quel campo fiorito non avrò accesso, ci sarà un cartello con la mia faccia e su scritto “io non posso entrare”. Oppure potrò entrare, ma i miei recettori dell’olfatto saranno inerti per il sortilegio maligno che ho attirato su me stesso, e tutto quello che potrò fare sarà solo leggere un cartello piantato in mezzo ai fiori con su scritto “questa è Marta”.

Quando a novembre esco dal laboratorio con il periodico referto della mia vita vorrei piangere, sedermi su un marciapiede come un mendicante ma senza elemosinare, o almeno non palesemente. Solo piangere, piangere così per piangere e stare a vedere se per caso qualcosa succede, ma questo qualcosa devo sempre dannatamente farlo accadere io, ed ecco che allora la vedo all’improvviso sbucare da un angolo della strada, venirmi incontro e sollevarmi lo sguardo, sfiorandomi il mento con le dita. Le cose che lei sapeva dire offrirebbero un’iniezione di botulino alle mie ghiandole lacrimali e anestesia alla mia posa dolente da mendicante. Anestesia, perché di questo si tratta, non è una cura.

Ma allora perché quando Marta indossava il suo camice e praticava l’anestesia persino il crepuscolo della sua stanza sembrava splendente e sincero come costellazioni, chiedo a me stesso.

Lei è morta, e questo è palese. Però vive, solo che vive lontano da queste strade, dove i desideri rotolano nei tombini e laggiù si decompongono e dalle grate allora esce un fumo che però non ha l’odore di Marta.

Sul soffitto della mia stanza vedo al rallentatore lei e me mentre scherziamo a bassa voce in una chiesa, ci prendiamo un po’ gioco di quel Dio e dei suoi miracoli. Invece che un gesto di pace ci scambiamo endorfine attraverso le nostre dita intrecciate morbidamente come il braccialetto che lei portava legato alla caviglia. Eppure, dal soffitto a volta della chiesa, posso anche scorgere i miei occhi che continuano a cadere sulle candele liturgiche, che dovrebbero simboleggiare l’intreccio tra uomo e Dio, mi dico, ma ora mi sembra piuttosto che consumandosi scandissero e mi comunicassero il tempo prima della fine, meglio dell’orologio più spietato al mondo. E mi chiedo se per caso gli occhi di Marta, rischiarati dal riverbero delle fiammelle, fossero già capaci di scrutare dentro di me al punto da scorgere i germi di quella fine.

La morte vuole concime anche me, lo so bene, ma a me sembra di non avere ancora finito qui; vorrei seguire le tracce di Marta, entrare nei negozi dove entrava lei, mangiare quello che mangiava lei, essere schizzinoso su tutta una serie di piccole o grandi cose, dormire nel suo letto e nella sua stessa posizione liquida con gli arti gettati sul letto come schizzi su tela.

Vorrei diventare Marta, ed essere lei anche solo per una volta, e non soltanto aver avuto il limitato privilegio di ascoltarla parlare. Anche se Le parole sono bellissime, mi ripeteva. Non ci avevo mai creduto ma quando lo diceva lei e quando le sue sillabe rifinite e articolate giocavano a incastrarsi come in un tetris con le mie mi sembrava che fosse tutto dannatamente vero, che la verità fosse impressa su quelle sillabe come una scritta nel marmo. Ed è quando lei ha smesso di parlare che il gioco è finito.

Molta gente passa a salutarla al campo. In quei casi io devo tenermi lontano. La cosa strana è che, anche a debita distanza, mi sembra di sentirla rispondere a quelle persone, e forse sembra così anche a loro, perché parlano con fare sempre più concitato. Non so se è una banale allucinazione collettiva dettata dalla ritualità del rapporto che abbiamo con i morti oppure se Marta è davvero viva, e le sue parole sono le migliori che si potrebbero mai immaginare, sono petali e polline che si spargono nell’aria e offrono i suoi segreti e i suoi più recenti sospiri al cuore di qualcuno che non sono io.

Ho seguito il fumo dei tombini, l’unico odore che avevo a disposizione, fino a febbraio, quando l’ho intercettata attraverso la vetrina di un negozio di vestiti che lei era solita frequentare. Eppure ricordavo di averla vista poco tempo prima, attraverso una patina di fluido disilluso che mi velava gli occhi, scolpita nel marmo. O meglio, era il suo nome scolpito nel marmo, ma il suo nome È Marta. Cioè, voglio dire, lei è le lettere del suo nome. Le lettere non funzionano, provo a ricordare a me stesso. Sono solo l’anticamera delle parole, e questo dice tutto.

Allora perché le lettere del suo nome su una lapide pesano come un baule gonfio di lettere scritte da Marta, dove annotava tutte le cose che lei sapeva dire ma per qualche ragione non mi ha mai detto e che mai saprò, ora quel baule lo hanno seppellito nel campo fiorito che è lei, chiedo a me stesso.

Marta affonda nella memoria. Lì è viva ed è chiusa in una stanza piena di librerie vuote pronte a crollare al suolo. Non posso fare altro che gridare, gridarle Marta, stai attenta! Stai per morire! Lei mi sorride e prende le mie mani nelle sue. Solo allora mi rendo conto che le mie, di mani, sono sporche di sangue, e che lo stesso sangue macchia il suo vestito all’altezza dell’addome. Allora mi dice, con quel sorriso che è carta di caramelle e carta vetrata assieme, Non ti preoccupare, sarò fiori, e la gente verrà ad annaffiarmi e tu non dovrai curartene più, non dovrai più curarti di me. Avrei voluto dirle che in realtà io desideravo prendermi cura di lei fino alla fine, desideravo solo quello e con tutto il cuore, solo che la fine era venuta a bussare prima del previsto alla mia porta, e quando avevo visto il suo volto orribile scavato nella carne dell’assenza non avevo saputo fare altro che cedere terrorizzato. Così è andata che Marta l’ho dovuta uccidere io, per volere della fine, come anche per volere della natura. Questo avevo e questo ho, ripeto a me stesso. A parte una panchina e il mangime da dare agli uccelli, ma non sono né abbastanza piccolo né abbastanza vecchio per farlo.

Marta sdraiata nel campo guarda gli uccelli volare e riempire i vuoti dei cieli, contornare le nuvole e disegnare tratti da bambini, e le si riempiono gli occhi di grazia. Finché sarà capace di leggere le lettere incise in quelle traiettorie, non sarà morta. Avrà parole da regalare a chi sarà capace di dare loro un peso che le tenga a terra concrete, e una leggerezza che le lasci poi librarsi nell’aria, con il profumo di lei che si mescola a tanti altri appesi all’orizzonte.

Quel giorno di inizio febbraio, quando l’ho vista nel negozio, ben presto i suoi amici se la sono portata via, probabilmente avendo intuito che ci fossi io nelle vicinanze. Non credo avessero avuto bisogno di vedermi in faccia, dovevano piuttosto aver colto delle piccole vibrazioni nelle sue palpebre, come un tic nervoso o forse i prodromi di un disturbo post traumatico da stress candidamente legato al fatto che io l’avevo uccisa.

Allora ho dovuto lasciar perdere e sono andato al campo fiorito per salutare Marta. Stavolta non c’era nessuno, e vista la stagione nemmeno il muro mistico eretto dal suono delle cicale. Solo silenzio, come una singola lettera resa afona e disinnescata dal gelo dell’inverno ancora regnante. Così mi sono potuto avvicinare e no, non ho sentito alcun profumo, e quando poi ho alzato lo sguardo al cielo non c’erano nemmeno uccelli. Anche loro dovevano essere in giro a cercare Marta perché essere guardati da lei, da quei suoi occhi, dava tutt’altro senso alle loro traiettorie, dico a me stesso.

Quello che ho, oggi, è che lei è morta in un incidente quattro anni fa, ed era estate, anche se le foglie autunnali già vorticavano dentro di noi, ma ne facevamo un gioco e le leggevamo con le dita sfiorandone le nervature come fossero braille. Un normale, così avrebbe dovuto essere, normale tratteggio lungo una carta autostradale. Poi la negligenza, quella stria nera delle cose che scivolano via, quella che distingue l’omicidio volontario dall’omicidio colposo, ma a me sembra che sia lo stesso, perché il peso specifico non cambia. Poi solo il frastuono delle lamiere, risucchiato dalle pareti insonorizzate del cuore. Cosa ne faremo? Non so, Marta, sono passati quattro anni e ci sto ancora pensando, sai. Se però la smettessi di comparire dietro le vetrine e andare in giro con i tuoi amici per me sarebbe tutto più facile. Nel campo che tu sei io vorrei addormentarmi ma anche talvolta non tornare più, e risparmiare a me stesso almeno una delle tante sfumature del tuo volto che pure vado ancora cercando, così intanto proverò a scrivere una lettera come mi hai insegnato e proverò a spedirla mettendo i fiori come destinatario.

Clack, era il rumore che facevano le ossa della sua figura esile con le mie quando la stringevo a casa sua come negli spazi verdi oasi tra il cemento.

Le ossa non sono solo ossa, mi dicevo allora, sono il codice di un messaggio. È vero, non funzionano senza i muscoli, i tendini e i legamenti, ma niente funziona se non funziona qualcos’altro.

Marta, non conosco con precisione l’alfabeto di cosa ho fatto, ma forse importa più quello di ciò che non ho saputo fare. Sono i libri non letti quelli che finiscono per assorbire inchiostro e restituire sangue e così i tuoi vestiti, una volta ricoperti solo di lettere, saranno per sempre macchiati. Io però lo so che respiri altrove e in un altro tempo, che hai fatto del marmo un ciondolo e che stai studiando di nuovo il volo degli uccelli, stavolta non solo per innaffiare il tuo cuore come vorrei poter fare io con i fiori del tuo campo, ma anche per trarne splendide previsioni per il tuo futuro. Ora che ho capito che hai un futuro scritto in quelle chiazze scure e volatili nel cielo, Marta, ho capito anche tutto il resto. E cioè che quella libreria vuota che si è schiantata per terra non era in camera tua, era la mia, e ha ceduto alla gravità proprio perché inutile e impotente; i libri che non ho mai avuto la struttura per leggere ora sono tuoi, te li sei presi e mai avrei potuto avere qualcosa da ridire. E i tuoi vestiti macchiati di sangue sono in realtà i miei, perché i colpi che ti ho inflitto hanno trapassato il tuo candore e si sono ritorti contro di me; mentre per quanto riguarda i fiori bianchi nel campo, la verità è che li ho piantati io, così come il cartello “questa è Marta”. Su quella lapide di marmo, ora lo leggo chiaro come mai mi è successo in vita, c’è invece scritto il mio nome. E adesso che vedo le sue lettere scavate così nitide nella pietra capisco davvero, anzi mi ricordo davvero, qual è il potere delle parole: era nella pienezza che solo il tuo, di nome, poteva addizionare ad esse, mentre ora giace nella sottrazione tra quelle che tu mi dicevi e quelle che ormai non puoi dirmi più.

Overbooking: Francesca Sensini

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Eternamente Elena

di

Gigi Spina

Sfoglio un numero della settimana enigmistica del 2052: 17 verticale, la donna che ferra i cavalli, 8 lettere. Come contraltare dell’uomo che ai cavalli sussurrava, immagino. E mi viene subito Ferrante. Ma mentre lo scrivo, con una lentezza esasperante, quasi non sapessi più scrivere, mi sveglio.

Elena, giusto, quella che Domenico Starnone (ma guarda la combinazione) «Fino all’alba mi rigirai nella testa l’ipotesi che quella che mi giaceva a lato fosse un’immagine…. un’idea …. un idolo» (D. Starnone, Segni d’oro, Feltrinelli, Milano 1990, p. 66).

E poi riprendo dal comodino il libro che stavo leggendo prima di addormentarmi: La trama di Elena. L’ha scritto Francesca Sensini, per Ponte alle Grazie, ed è in libreria da marzo di quest’anno. Rileggo il sottotitolo: Da Sparta a Troia e ritorno: memorie della donna più bella del mondo. Finalmente un nostos anche per una donna del mito: la donna, scrissi una volta, che non visse solo due volte. E quindi anche per Gina Lollobrigida, che fu sullo schermo, fra tante donne, anche Lina Cavalieri, La donna più bella del mondo (1955).

Per questo, eternamente Elena, perché eterno è il mito ed eterna la sua riscrittura, la possibilità di raccontarlo di nuovo e magari in forme inedite. Esagero? Sì, certo, a buon diritto. Il mito è nato perché lo si ‘esageri’, lo si accresca in ogni nuovo racconto. Il mito non accetta la prudente sostenibilità. Il racconto del mito è, per natura esemplare, paradigmatico. Non lo si racconta solo per addormentare bimbi e bimbe. Quello è un effetto collaterale. Lo raccontano i più vecchi ai più giovani, dice Protagora, anzi, per essere più precisi, dice Platone nel Protagora, senza bisogno di asterischi, perché si sa che erano soprattutto le vecchie che raccontavano ai bambini. E lo raccontano per fornire un modello di comportamento da seguire o respingere. E il mito, come si sa, rende evidente, mostra, illustra: delòi, per dirla in greco.

Lunedì 7 ottobre 1957, all’interno della Tv dei Ragazzi, andava in onda: Penna di Falco, capo Cheyenne (Brave Eagle), serie USA del ’55. Con Keith Larsen (Penna di Falco), Anthony Numkena (Keena, un piccolo Hopi adottato da Penna di Falco), Kim Winona (Morning Star – Melograno, la compagna del protagonista), Bert Wheeler (Smokey Joe), Pat Hogan (Black Cloud). Gli Hopi sono quelli che hanno ispirato la trilogia di Godfrey Reggio, il cui primo, imperdibile titolo, è Koyaanisqatsi (1982). Ogni puntata di Penna di Falco terminava, come in una favola di Esopo, con una formula magica: «e così Keena imparò». Perché il mito è esperienza presentata in forma di parole, quando non c’erano ancora i video o le fotografie, parole capaci di mettere sotto gli occhi, far vedere una sequenza di vita. E da ogni esperienza altrui c’è da imparare, nel bene e nel male.

Ben vengano, dunque, le riscritture di quello straordinario patrimonio di miti delle culture antiche, a qualsiasi latitudine e longitudine appartengano, che hanno resistito al tempo e si spera resistano anche alle cancellazioni culturali.

L’Elena di Francesca Sensini racconta in prima persona, e già questa è una scelta feconda. Perché si può, nel riscrivere, prestare la voce a un autore o a un personaggio. Ora, senza generalizzare e con il dovuto rispetto per tutti i generosi tentativi di riscritture che si sono succeduti nei secoli, fin dall’antichità, per riscrivere come autore un po’ di megalomania bisogna averla nel fondo dell’animo: come se uno, per dire, riscrivesse l’Iliade come novello Omero. Un personaggio, invece, ha una sua storia parziale, segnata, che forse scalpita per trovare una nuova voce, un nuovo punto di vista.

Ma anche se riscrivi come personaggio, maschile o femminile che sia, puoi scegliere una forma, come dire, ossequiosa del modello oppure avventurarti sui pericolosi e affascinanti sentieri della diacultura (spiegherò fra poco cosa intendo con questo neologismo). Riscritture in prima persona, ossequiose del modello, fanno spesso rimpiangere l’originale, perché si limitano a offrire alla propria immaginazione (e anche alla propria cultura) una veste linguistica e una scelta lessicale che ricordano quelle recitazioni auliche della tragedia greca che l’indimenticabile Anna Marchesini, nei panni di Rossana l’attrice, smontò con geniale  ironia.

Sarò cattivo, ma molte riscritture mi hanno stancato fin dalle prime pagine.

Con l’Elena di Francesca Sensini non mi è capitato. Sono entrato subito in sintonia con una riscrittura, con un punto di vista che mi è stato subito familiare; perché è la scrittura di una donna dei nostri giorni che non nasconde la sua cultura, il suo punto di vista e, come tale, lo regala al personaggio del mito, in un delicato equilibrio fra passato e presente, fra antico e moderno, fra culture reciprocamente altre, ma che, grazie a quella voce ‘prestata’, riescono a comunicare al mondo contemporaneo senza che si debbano indossare i panni reali e curiali di cui parla Machiavelli nella lettera a Pietro Vettori del 10 dicembre 1513, per entrare «nelle antique corti delli antiqui huomini». Per quel tipo di comunicazione, allora, sono più autentici i testi originali, disponibili in ottime traduzioni, anche in metro, come quelle di Daniele Ventre.

La voce moderna prestata a un personaggio antico non può nascondere o sottacere la propria cultura. Anzi, deve offrila come omaggio di conoscenza al personaggio stesso, quasi come ricambio non richiesto per la tanta cultura dispensata dagli antichi. E quindi non perché ne sa di più, ma perché, mentre a noi moderni non manca la voce antica, pur se riprodotta con alcune distorsioni (volute e non volute), è agli antichi che manca la nostra voce.

L’onesto intreccio fra culture di epoche molto lontane incanalate in una sola voce, quella moderna, purché rispettosa della sostanza culturale antica, può riuscire a conservare insieme, in continua e percepibile dialettica, due approcci diversi, per dirla con l’antropologia: quello emico, più fedele alla cultura antica, e quello etico, più fedele alla cultura moderna.

Ho chiamato questo intreccio diacultura: certo, molto più gestibile in una scrittura narrativa di finzione che in una ricostruzione storica. Anche se, per dirla fino in fondo, difficilmente uno storico che indaghi l’antichità potrà tenere a freno la sua corposa presenza nel tempo che lo vede protagonista (presenza culturale, politica, editoriale, retorica, financo mediatica), proprio mentre ricostruisce eventi antichi. Solo che non la chiamerà diacultura

Ma qui chiudo questa parentesi; e torno all’Elena di Francesca Sensini. Volevo solo che fossero chiari i motivi della mia adesione convinta, e proprio in quanto filologo classico, al suo racconto: del resto l’Autrice si consente, ma solo alla fine, un intervento esplicativo (Tutti pazzi per Elena) in una più ‘autentica’ prima persona, ragionando sulle sue scelte narrative: «Certo, la scatola nera di Elena resta in fondo all’abisso dei millenni, che ancora stiamo contando, si incastrerà nel prossimo strato di senso destinato a sedimentarsi sul suo racconto».

Perfettamente padrona della maggior parte dei testi che hanno visto, nel corso dei secoli, Elena come protagonista o rilevante comprimaria («La bibliografia su Elena è vastissima» riconosce l’autrice all’inizio delle doverose e ‘leggere’ note bibliografiche finali), Francesca Sensini può ricostruire un’autobiografia al tempo stesso precisa e controfattuale: nel senso che proprio la varietà dei miti e delle riscritture offre anche possibili e intriganti rovesci della medaglia.

Elena ci parla dalla sua stanza, Una stanza tutta per me, come si intitola il primo capitolo. Stanza si chiama anche quello spazio su uno dei social una volta più frequentati, facebook, nel quale si possono invitare amiche e amici per comunicare qualcosa di proprio. Così, dunque, ho immaginato l’Elena di Francesca Sensini: collegata col mondo e presente a se stessa, con tutte le sue storie, pronta finalmente, una volta acquisita una voce diaculturale, a comunicare le sue memorie.

Non vorrei dimenticare che Sensini è autrice anche di uno straordinario libro: La lingua degli dèi. L’amore per il greco antico e moderno, il Nuovo Melangolo, Genova 2021. Il che spiega anche la familiarità con una storia lunga ma fatta di tanti capitoli diversi fra loro, pur nell’apparente continuità.

E così le memorie di Elena si dipanano per quasi duecento pagine, come su quella tela che Elena tesseva in tempo reale, diremmo oggi, mentre Achei e Troiani combattevano la guerra per lei; e con le stesse modulazioni di timbro vocale di cui Elena era capace quando tentava di far tradire i guerrieri nascosti nell’enorme cavallo, imitando le voci delle loro spose.

Si capisce che la voce di Elena, provetta affabulatrice, cambia intensità e anche spessore di coinvolgimento nel susseguirsi dei capitoli della sua vita, dalla nascita (Piena come un uovo) … non alla morte, ma a un Per non finire mai (l’ultimo capitolo), una continua resurrezione, infinita come la tela che, a differenza di Penelope, Elena è sicura di non voler mai disfare.

A questo infinito risorgere l’Elena di Francesca Sensini arriva dopo averci fatto ripercorrere, con la sua viva memoria, eventi cruciali e incontri fatali: Amore e Odio; Teseo, simile agli immortali; Menelao, il biondo, caro ad Ares; Paride Alessandro, il più bello; Achille, selvaggio e  perfetto; In principio è la discordia; Maledizione alla bellezza; Carte scoperte.

Che il viaggio nel futuro prosegua sotto i migliori auspici, cara Elena, se posso permettermi. E che i secoli a venire ti siano lievi.          

 

 

 

 

Tundra e Peive

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di Vanni Santoni

Francesca Matteoni, pistoiese classe ’75, è ormai un punto di riferimento imprescindibile nel mondo della poesia dopo il successo di Ciò che il mondo separa, uscito due anni fa per Marcos y Marcos, non è nuova a incursioni nella prosa: dopo il primo romanzo, Tutti gli altri, uscito nel 2014 per Tunué, torna oggi in libreria per Nottetempo con Tundra e Peive.

Matteoni, come nasce questo romanzo e cosa significa questo titolo così inusuale?

Tundra e Peive sono i due personaggi principali, il cui legame è il centro della storia. Tundra è un folletto; Peive il gatto che lo accompagna. La storia si svolge in una città, ma la provenienza di alcuni personaggi è il nord, da cui la scelta del nome Tundra e di quello Peive:Peive è la variante meno nota del nome della divinità solare presso i sami: Beaivi, di solito femminile, ma qui maschile, come tributo al poeta Nils-Aslak Valkeapää, autore di una raccolta dal titolo Il sole, mio padre.

Prima dell’inizio si legge: “Questa non è una favola”: è un po’ come la pipa di Magritte?

È certamente una fiaba. Anzi, è l’incontro e la rielaborazione di molte fiabe: Il pifferaio di Hamelin, Hansel e Gretel, Peter Pan, i miti della selkie e alcuni racconti sciamanici. Queste storie interagiscono con i luoghi del mio abitare, con la persecuzione delle streghe nell’età moderna, con la questione ecologica. Perché quella frase, allora? Perché non finirò mai di dire che le fiabe sono vere. È il mio manifesto contro un interesse eccessivo per la cronaca come unica realtà, quando la realtà è complessa e fatta dell’invisibile. Volevo anche affrancarmi dalle etichette come: “romanzo fantasy”. Che senso ha?

Come è nato e come si è sviluppato questo romanzo?

Ho avuto la prima visione di questa storia intorno al 2005, quando abitavo a Londra. Non sapevo che ne avrei fatto, ma avendo una memoria tenace, l’ho tenuto lì, da parte. Ho buttato giù la prima stesura nel 2013. Non andava bene, anche se avevo già definito i personaggi e i luoghi. Ci ho rilavorato negli anni, lasciando, riprendendo, pensando nuove strutture, fino a capire che la storia non poteva piegarsi a nessuna esigenza esterna: per esempio quella di farne un libro per bambini, secondo le regole di un certo mercato, ovvero annacquando la cupezza. Ma cosa esiste di più oscuro dei bambini? Ho pensato molto al ruolo dell’infanzia in quanto scrivo e vivo: la sostanza non è tanto diversa da quella che potevo sognare a cinque anni, solo che allora non avevo attraversato lutti e delusioni. Credo che in genere, nelle mie parole, il tentativo sia piuttosto quello di tornare bambini. Certe storie, come è capitato a questa, possono restare nella nostra testa per anni, come amici immaginari. Poi è accaduto tutto in un lampo. Ho detto al mio editor, con cui stavo parlando di un altro libro da scrivere: avrei un romanzo, è un po’ strano. Ed eccoci qua.

Si sente forte la presenza del mondo animale.

L’amore più grande della mia vita sono e restano gli altri animali (anche noi siamo animali, ricordiamocelo). Questa è la parte più fedele alla me bambina, quando mi dicevo di proteggerli dalle cattiverie umane, miei coetanei compresi. Mica tutti i bambini sono buoni. Come non sono buoni gli animali: vanno lasciati stare. Con alcuni si innescano legami d’affetto non necessariamente ricambiato. Gli animali custodiscono la nostra capacità di creare un linguaggio nuovo, ma nella nostra ottusità, poiché non li capiamo, pensiamo siano inferiori, oppure siano innocenti complementi d’arredo.

Che rapporto c’è, se c’è, con il suo libro di poesie Nel sonno?

C’è un forte legame temporale e formale. Ho scritto Nel sonno poco prima di sprofondare nell’universo di Tundra ed ero nel solito luogo: a Londra, per due anni di ricerca universitaria. Le poesie e le prose di quel libro nascono allo stesso modo: spegnendo l’attenzione e lasciando fluire le parole. Lì, il riferimento letterario è Alice. C’è poi una connessione più nascosta: Nel sonno si tiene attraverso legami familiari femminili. Questa linea è fortissima anche in Tundra e Peive. Gli uomini si perdono, feriscono, sbagliano, cercano redenzione. Le donne tessono riscatto, memoria, possibilità.

E col suo precedente romanzo Tutti gli altri?

Insieme alla questione femminile di cui ho detto sopra, la presenza dei fratelli perduti. Sono gli stessi, in un certo senso, che troviamo in Tundra e Peive, solo che nel mio nuovo romanzo racconto anche quello che non si vede, perché in più c’è la magia. Sono entrambi libri costruiti sui personaggi e sull’intreccio delle loro storie individuali. E in entrambi vale la memoria. Il passato è la terra che veniamo costruendo, quella che forse può salvarci, in questo pianeta che abbiamo tanto martoriato.

Nei ringraziamenti figura il centro per scrittori e traduttori nella città di Visby sullisola di Gotland, in Svezia.

Sono stata ospite nel 2019, poco prima che la pandemia stravolgesse le nostre vite; lì ho riscritto buona parte del libro. In quei giorni ho riletto la versione integrale di Il viaggio meraviglioso di Nils Holgersson di Selma Lagerlöf. Scrivere, leggere, passeggiare prima del crepuscolo che nell’inverno arriva verso le 15:00, nella città di Pippi Calzelunghe, affacciarsi sul Baltico nel vento notturno, condividere le serate con scrittori di ogni provenienza è una di quelle cose che ti fa sentire a casa. E poi, ero a nord. La mia bussola punta sempre a nord.

*intervista apparsa sul Corriere Fiorentino il 2 marzo 2023