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I delitti del Bianco

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di Bruno Morchio

Nuova indagine per il commissario Ferruccio Falsopepe, investigatore di origini messapiche trasferito a Genova e ora in procinto di partire per Roma. Uomo saggio e flemmatico, marito affettuoso e padre attento ma propenso all’autoflagellazione, il capo della squadra anticrimine incappa in una caso quanto mai spinoso: la giovane farmacista Egle Presutti, figlia di un potente uomo politico genovese, viene barbaramente uccisa a coltellate mentre trascorre le vacanze agostane in quel di Courmayeur. Egle è legatissima alla inquieta gemella omozigote Mira, entrambe sono orfane di madre e poco possono contare su un padre così assorbito dall’attività politica. Il delitto si consuma sulle rive della Dora ed è messo in opera con le stesse modalità di un omicidio occorso nell’agosto 1953, nei giorni in cui il segretario del Partito comunista, Palmiro Togliatti, da poco scampato a un attentato che fece tremare l’Italia,  trascorse un periodo di vacanza nella valle insieme alla compagna Nilde Iotti  e alla figlia Marisa. La vittima si chiamava Angela Cavallero, era una sartina torinese e aveva la stessa età di Egle. Quanto alle indagini, la confusione regna sovrana in entrambe le inchieste, gli investigatori del posto si muovono con scarsa perspicacia e Falsopepe verrà inviato, dapprima quasi in incognito, per farsi un’idea della situazione. La agognata vacanza nel trullo di Ceglie Messapica sembra sfumare, ma in compenso lo status ufficioso dell’incarico consentirà al commissario di accompagnarsi col figlio Salvatore appena tornato dagli Stati Uniti.
Il romanzo si legge con grande piacere, perché l’autore sfodera come al solito la sua ironia e una scrittura leggera e precisa, non scevra di richiami linguistici regionali – liguri, valdostani e pugliesi – puntualmente chiariti da uno stringato apparato di note che il lettore troverà in fondo al volume.
La struttura per molti versi è quella del giallo classico, con un poliziotto che mostra grande empatia umana verso le vittime ma che non si lascia coinvolgere visceralmente nella vicenda, ma solo apparentemente, perché qui Paternostro compie un’operazione ardita (e riuscita) che sfida i canoni del genere e merita di essere analizzata.
Anzitutto ponendo a stretto confronto due dimensioni: quella della fiction (l’omicidio di Egle Presutti) e quella reale, storicamente ben scandagliata attraverso gli articoli dei maggiori giornali dell’epoca, compresa L’Unità, organo del PCI, che mentre rendiconta le criticità dell’indagine ci fornisce una ricca messe di notizie relative al soggiorno del Migliore a Courmayeur e alle complesse vicende politiche legate alla formazione del governo Pella. Dunque anche in questo i due “casi” si assomigliano: entrambi chiamano in causa una dimensione più ampia, politica, sociale e di costume, alla quale un giornalista di lungo corso come Paternostro certo non poteva sottrarsi.
Stante il fatto che il delitto di Angela Cavallero è avvenuto nella realtà, l’autore costruisce la trama della nuova vicenda prendendo le mosse da quella storia assai ingarbugliata così come possiamo riscostruirla sulla base dei documenti. Nel testo ricorre l’espressione “delitto in fotocopia”, giustificata dalle molte coincidenze che rendono simili i due crimini. Muoversi sul crinale fra fiction e realtà è un’operazione ardua. Nella storia della letteratura crime ricordiamo alcuni esempi illustri e di grande spessore, da Capote alla Atwood a Carrère, ma l’originalità di questo testo consiste nel fatto che non si limita ad affrontare romanzescamente una vicenda realmente accaduta, ma costruisce una storia di fiction che procede in parallelo con una analoga, verificatasi nella realtà. L’interesse dell’operazione è molteplice, linguistica e strutturale-compositiva. Infatti vengono messi a confronto due scritture e due linguaggi, quello della cronaca (per la vicenda Cavallero) e quello della narrativa per la storia attuale. Dissidio che evidentemente alligna nel profondo dell’autore, che è approdato al romanzo dopo una intera vita dedicata al giornalismo della carta stampata e televisivo. Quanto al piano compositivo, alla trama, l’operazione si sviluppa a partire da un assioma mutuato da uno dei più interessanti drammaturghi del Novecento, lo svizzero Friederich Dürrenmatt (a cui si fa ripetutamente riferimento nel testo): il romanzo giallo, così come lo abbiamo conosciuto nella sua versione classica, non è credibile perché è una costruzione intellettuale debole, basata sulla accurata costruzione di eventi fittizi dove tout se tient, mentre la vita è fondata sul caso. È il caso (e il caos) che regola le vicende umane e la pretesa del romanzo poliziesco di sistematizzarle è un inganno e un’illusione.
Quale migliore occasione per dimostrarlo che mettere a confronto un’indagine reale con una inventata, sia pure condotta da un investigatore intuitivo e sagace come Falsopepe? E infatti, in entrambe le inchieste, sarà il caso a sbloccare l’impasse investigativa; l’intuizione del detective si rivelerà giusta, ma senza l’intervento  della “mano di Dio” non si sarebbe mai usciti dalle panne (altro titolo di un celebre lavoro di Dürrenmatt).
Tutto ciò è narrato con una cifra ironica, lieve e spesso divertente, che origina dallo sguardo sornione del pugliese commissario Falsopepe (che a tratti ricorda il dottor Ciccio Ingravallo di Gadda), ma ovviamente è frutto della visione della vita del suo autore.

Buena Vista Social Club: Ippolita Luzzo

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Il mio Regno per un libro ( buono)

di

Francesco Forlani

Questa  rubrica è normalmente dedicata alle “cose belle” trovate sui Social, a dimostrazione del fatto che fare rete è oggi, più che mai, una risorsa. Oltre alle cose anche le persone attraversano talvolta le misteriose maglie delle reti, e sconfinano come pensieri liberi. Ippolita Luzzo ha dalla sua generosità e responsabilità. Ecco perché ho deciso di chiederle due, tre cose, anzi dieci per l’esattezza come gli anni di vita del suo Regno della Litweb.

Ci dici chi sei con un tweet?

Chi sono io? Un’astrazione mentale come modo di vivere. Un blog, un diario, un regno inventato  nella libertà della Litweb.

Ci racconti com’è nata la Litweb? Il suo regno?

Bruno Corino, professore di filosofia e studioso del fenomeno, aveva scritto, più di dieci anni fa, un saggio sulla Litweb, la letteratura che si origina sul web, cammina sul web, e quando ha letto i miei pezzi sui forum di scrittura allora molto in voga ha deciso di aprirmi un blog donandomi un regno. Il regno è nato proprio in quanto chiamandomi Ippolita già nella mitologia un regno avevo.

Com’è cambiata la rete in questi dieci anni?

Lo spazio sembrava immenso, ma ogni fenomeno umano più si allarga più diventa asfittico. Dall’iniziale sensazione di libertà ora ci troviamo di nuovo in un non luogo abitatissimo da troppe proposte, troppe riviste, troppi blog, e di libri ormai ne parlano tutti con un chiacchiericcio incessante. Per non parlare dei video su tik tok che veicolano il libro come un semplice oggetto di bellezza

Ci sono dei modelli a cui hai pensato quando ti sei lanciata nella magnifica impresa?

Ho amato moltissimo gli studi classici e i miei modelli sono rimasti i greci, Senofonte, Aristofane, Euripide, Sofocle, e via via Eraclito, e poi la poesia Mimnermo, Callimaco. Vado così a memoria come si presentano, amandoli tutti. I riferimenti rimangono i greci, e nei presocratici troviamo tutte le intuizioni che sono valide ancora oggi. Sono proprio loro insieme ai latini, a Lucrezio, a Orazio, a Ovidio, i modelli che ci hanno formato e che ci permettono di distinguere le scemenze dalle cose fatte bene.

 Quali le belle sorprese e quali le delusioni?

Sorprese moltissime. Mi sembra di vivere in un mondo magico. Dalla periferia della periferia e solo con in mano i miei pezzi ho avuto il piacere di partecipare come giurata al Premio Brancati e trascorrere la serata con Renzo Paris e chiacchierare con lui amichevolmente tanto da sentirmi paragonare da lui per il mio modo di fare a Dario Bellezza! Ti rendi conto? Io al settimo cielo. E poi giurata in molti altri premi nazionali, come l’ultimo, in ordine di tempo, Il Premio Malerba. Un onore per me far parte delle amicizie di Anna Lapenna, moglie dello scrittore e ideatrice del premio.

Le delusioni vengono sempre lasciate dietro alle spalle, sono legate ad individui che non conoscono il dono della riconoscenza e quindi dopo avermi chiesto di presentare i loro libri, o di scrivere un pezzo, mi dimenticano. Ma ciò serve a conoscere l’animo umano, non tutti hanno la generosità di riconoscere chi ci fa del bene.

Cosa ti piacerebbe che accadesse nel mondo culturale?

Mi piacerebbe maggiore serietà e meno piaggeria, mi piacerebbe che la scuola venisse risparmiata dai fenomeni di mercato e non invasa da progetti e proposte senza un autentico valore. Mi piacerebbe una televisione meno inquinata da figure di baraccone, mi piacerebbe ci fossero meno libri pubblicati, perché il proverbio ci insegna che il troppo storpia e non fa vivere la cultura che sarebbe anche  piacere di cercare, di separare, di desiderare.

Cosa ne pensi delle classifiche qualità?

Io ne faccio parte dal loro nascere, da quando la rivista l’Indiscreto ha deciso di riportarle in auge. Eravamo in duecento mi sembra, e fu proprio Vanni Santoni, nella sua generosità amicale, ad aggiungermi. All’inizio dunque era nata come un segnale forte di cernita fra i tanti titoli validi per mettere in luce i libri che non avevano spazio. Ricordo con emozione l’affermazione di Ezio Sinigaglia con Pantarei, ma tanti altri bellissimi, come il libro di Zanotti, il libro di Trevisan. Ora però il numero troppo elevato dei giurati, oltre seicento, mette in evidenza una varietà di indicazioni troppo vasta e mi sembra che anche qui il troppo non diventi più una scelta. Almeno è questa la mia impressione pur onorata di farne parte.

I dieci libri che anno dopo anno, uno per ognuno della vita della litweb, hai raccomandato e che sul lungo termine sono invecchiati bene

Io farò parlare i libri e ti metto anno dopo anno chi si presenta per primo alla mia attenzione. Poi vedrai che effettivamente una ragione ci sta

Breve trattato sulle coincidenze di Domenico Dara: il è del 2014 ed è stato ristampato ora in versione economica. Breve trattato sulle coincidenze che affabulando vanno da una Girifalco alle Langhe, da San Floro alla biblioteca di Borges, il luogo dei ritrovamenti, infatti è qui che ritroviamo e ci ritroviamo, come il postino ritrova il padre e Calogero, insieme a colui che chiarirà il mistero di lettere mai spedite.
Affabulando affabulando le coincidenze diventano una volta per tutte la nostra realtà, la vostra realtà, il tempo che abbiamo trascorso per far nostra la storia.

 

Panorama di Tommaso Pincio: Questo è un libro che si fa spazio fra l’importanza attribuita alla letteratura ” perché ciò che si dice di un uomo conta, in fin dei conti, più delle sue azioni” Qui nel libro di Tommaso Pincio la scrittura, in simbiosi con la trama, sta ferma. Il mondo è un foglio e un manoscritto. Inimicizie e vendette nascono per un manoscritto.

 

La forma fragile del silenzio di Fabio Ivan Pigola: Amo questa forma di scrittura che associa rughe al cielo, che avvicina concetti e crea coordinate dove sembra che non ce ne stiano. Amare uno stile narrativo vuol dire questo continuo copia e incolla dal testo per farvi conoscere un passaggio, un accostamento, una musica. Amare è far sentire una musica che vi entrerà in testa con suono e parole, immagini e personaggi.

Dietro l’arazzo conversazione di Antonio Tabucchi con Luca Cherici: Per la collana diretta da Paolo Di Paolo “Racconti d’Autore” questa intervista “Dietro l’arazzo” Conversazioni sulla scrittura, io penso sia un vademecum. Una guida. Comincia con “Consiglio” una poesia di Pessoa, citata da Tabucchi a memoria. Ciò che si deve mostrare agli altri, consiglia Pessoa, è una cosa coltivata, come un giardino. Non falsa, coltivata. Come un giardino. La letteratura come un giardino.

 

Il caso Braibanti di Massimiliano Palmese: Il testo è stato pubblicato nella collana Teatri di Carta dell’editore Caracò di Bologna. Il caso Braibanti rievoca un assurdo caso giudiziario degli anni sessanta, il processo ad Aldo Braibanti, partigiano, artista, filosofo e naturalista, accusato di plagio verso Giovanni Sanfratello. Assurdo, come il teatro dell’assurdo ci appare spesso il risultato della raccolta di atti quotidiani, del vivere fra i riti familiari e sociali, dello stare nelle carte processuali, dell’essere giudicati e processati per aver scelto quel che sembra difforme all”ortodossia imperante. Il processo Braibanti ci insegna che tutto può essere processabile, tutto, dal loro legame ad ogni altro comportamento diverso fino alla troppa castità intellettuale e fisica.

La stanza dei lumini rossi di Domenico Conoscenti: Stampato nel 1997 da E/O e riproposto nel 2015 e poi con ristampa a Marzo 2018 da Il Palindromo. Un racconto seducente, condotto con virtuosismo e conoscenza dei luoghi e delle situazioni, strutturato con quella verità di fondo che fa scolorare le fiabe più terribili, la fiaba della realtà.

L’invenzione dell’amore di Josè Ovejero: Nel ricordare tutti gli scambi su cui si reggono i tòpoi della letteratura rintraccio il filo conduttore della lettura ammaliante, della prigionia di un racconto ipnotico, affabulante e tanto vicino ai nostri più semplici e complessi pensieri.

Casa di morti di Francesca Farina: un romanzo immenso, una grande saga che avrebbe dovuto avere maggiore spazio sui giornali, nelle televisioni, nelle librerie ed avere moltissimi lettori. La storia dei Barones,

Il cadavere di Nino Sciarra di Davide Morganti: Tantissimi gli autori ormai dimenticati, autori del Novecento, spariti e ritrovati fra le stanze di una villa che dovrebbe nascondere un cadavere. Con questo espediente l’autore ci presenta, ci legge, ci parla e a sua volta parla con loro, con scrittori che non leggiamo più.

Pantarei di Ezio Sinigaglia credo che insieme al libro di Davide Morganti sia il libro che parla di altri libri, di come i libri vivano se invecchiano bene restando nella testa e nelle pagine di altri libri. Tutto il contrario di ciò che succede nel mercato editoriale. Il Pantarèi di Ezio Sinigaglia ha una lunga storia, ne sentivo parlare da anni da Giuseppe Girimonti Greco, traduttore e consulente editoriale, nonché amico di Ezio. Insieme, loro due, in alcune avventure: traduzioni di racconti, curatele. Entrambi una vita trascorsa nella letteratura. Ezio Sinigaglia scriverà questo romanzo dall’ottobre del 1976 al maggio del 1980, ed il titolo iniziale era I romanzi e i giorni.
Avrebbe dovuto raccontare il romanzo, come un ascensore, i romanzi stavano sull’ascensore di sinistra, i giorni su quella di destra. La dimostrazione che il romanzo non fosse morto. Il fascino sta tutto nella sparizione, sta tutto nella freschezza di un mondo eterno nelle sue dinamiche, nelle sue passioni per Proust, citato nel capitolo primo in una edizione francese, per Joyce, per Svevo, per Cèline, per Robbe-Grillet.
Il Pantarèi corre nei corridoi della letteratura con la stessa leggerezza con cui Ezio Sinigaglia passeggia fra la sua sterminata conoscenza regalandoci il romanzo per eccellenza.

Ovviamente non ho scelto io i libri, anno per anno, ma sono i libri ad essersi presentati, mentre io consultavo il blog per dare una risposta. Troverete nel blog il pezzo su ognuno di questi libri e su moltissimi altri, letti e amati nell’Attimo nascente. Libri che non hanno età.

Tutto il contrario di ciò che succede nel mercato editoriale

Il tuo pronostico per lo Strega

Qualche anno fa già a marzo io avevo pronosticato la vittoria di Emanuele Trevi, con Due vite, libro da me amatissimo, unico anno in cui hanno vinto in tre, Rocco Carbone e Pia Pera insieme ad Emanuele Trevi.

Questo anno vince una donna, sì vince una donna e io anche se so che sarà impossibile mi sento di vedere almeno in finale Francesca Veltri con Malapace.

 

Come va?

“Come stai che vuoi che dica che va bene dir che ho tutto e non ho niente non conviene” sono le parole di Serena, una canzone del ’73 che mi canta nella testa nel risponderti con tutta la serenità che mi ritrovo nell’avere il piacere di aver parlato con te, di essere su Nazione Indiana, un mito di rivista nella mitologia del Regno della Litweb. Grazie di esistere!

Raymond Depardon, una poetica dell’interstizio

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© Raymond Depardon / Magnum Photos
© Raymond Depardon / Magnum Photos

 

di Ornella Tajani

Il y a un autre monde, mais il est dans celui-ci.
Paul Éluard

«C’è un altro mondo, ma è in questo»: Serge Toubiana, critico cinematografico, sceglie una celebre citazione di Paul Éluard per aprire il testo che accompagna Entre-temps, l’ultimo lavoro fotografico di Raymond Depardon, apparso in Francia lo scorso dicembre per Atelier EXB.
È un mondo interstiziale quello ritratto dal grande fotografo tra il 1979 e il 2006, fatto di marciapiedi umidi, ristoranti cinesi deserti, ruote panoramiche su sfocati orizzonti, scritte murali che segnano il tempo: «Roulez moins vite, vous pourriez écraser Roland Barthes» [Andate piano, potreste investire Roland Barthes], pensata senz’altro a seguito dell’incidente di rue des Écoles nel 1980.

 

© Raymond Depardon / Magnum Photos

 

Molti scatti notturni, in Entre-temps, e molta Parigi, da parte di un fotografo-regista che in realtà è diventato celebre soprattutto per aver girato mezzo mondo: dall’Algeria, dove uno dei suoi primi incarichi come reporter fu quello di seguire i momenti salienti della decolonizzazione all’indomani dell’indipendenza, fino all’America latina, da New York a San Clemente, dove documentò gli anni a cavallo dell’approvazione della legge Basaglia. D’altro canto, una porzione della sua fama è dovuta invece all’aver raccontato la Francia interna, nascosta, quel gigantesco esagono che contiene moltitudini, eppure nella rappresentazione spesso scompare dietro l’astro di una troppo leggendaria capitale (si pensi a La France, 2010); in alcuni casi oggetto di attenzione è stato poi il territorio prettamente rurale (come nel più recente, bellissimo Communes, 2021).
Molta Parigi, dunque, con luoghi più o meno riconoscibili (il Louvre, i cinema, le brasserie, la punta della Tour Eiffel), ma anche un po’ di altrove: le lapidi di un cimitero recano nomi e cognomi italiani, la ragazza stesa sui gradini di marmo a fumare potrebbe trovarsi in una piazza toscana.
Sottolineando l’importanza dell’Italia come hors-champ, come «altrove immaginario fondato sul vuoto e sulla nostalgia», Toubiano esalta l’influenza di due registi sull’opera di Depardon: Antonioni, omaggiato dallo scatto di un cinema in cui si proietta L’Avventura, e Wim Wenders, cui il fotografo è associato dal gusto per una poetica della deriva, in cui l’unico punto d’equilibrio sta «nello sguardo posato sopra un mondo in fuga».

 

© Raymond Depardon / Magnum Photos

 

Non potrebbe essere altrimenti per Depardon, già autore di Errance (2000), sorta di récit de voyage fuori e dentro la fotografia, dedicato allo spazio e al tempo «intermediari», a una ricerca dell’esperienza del mondo dettata da un ritmo non frenetico ma placido, votato all’ascolto. Entre-temps, «nel frattempo»: il rinvio è alla dimensione della quotidianità, dell’apparente banalità, estranea al momento dell’incontro fotografico ideale; come suggerisce Toubiano, l’espressione delinea l’intervallo tra due tempi, due desideri, l’attesa prima che qualcosa accada — il frangente in cui prende corpo «le romantisme de l’absence et du vide».

 

 

ESISTE LA RICERCA

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Un evento a cura di Antonio Syxty, Marco Giovenale e Michele Zaffarano

sabato 18 marzo 2023, dalle ore 10 fino a esaurimento nervi
Teatro Litta – sala La Cavallerizza
corso Magenta 24 – Milano
– ingresso libero – 

Tutta una parte del lavoro della letteratura recente più avanzata, si può collocare in una linea ideale che dal 1961-68 del Gruppo 63, attraverso le sperimentazioni testuali e verbovisive degli anni Settanta, arriva alla Francia di autori come Denis Roche, Nathalie Sarraute, Jean-Marie Gleize, Nathalie Quintane, Christophe Tarkos, e poi alle scritture sperimentali italiane di inizio secolo XXI, alla prosa in prosa, alla postpoesia.

L’incontro

• confronto sulle scritture di ricerca, la scrittura complessa e la postpoesia, nel contesto della poesia italiana recente

• domande e ipotesi improvvise su linee di ricerca letteraria

Dopo un primo evento a Roma nel giugno 2022, gli autori, critici e studiosi di ESISTE LA RICERCA si ritrovano, insieme a molti altri invitati, a Milano il 18 marzo, allo spazio La Cavallerizza.

Il loro obiettivo è continuare a dialogare e intervenire, in modo estemporaneo e non accademico, sullo stato delle scritture sperimentali e postpoetiche, a fronte di un ben diverso mercato della poesia italiana, nutrito ed egemone sì, ma problematico.

Ormai da diversi anni ad essere in gioco (e forse in dubbio) parrebbe la stessa “percezione del letterario”, la sensibilità ai valori testuali (e relazionali) delle opere. Questo stato di cose innanzitutto complica la situazione anche per chi non fa poesia bensì sperimentazione, e inoltre crea un contesto che sembra insensibile all’innovazione e alla complessità più in generale, perché coincide con un clima poetico o ‘poetizzante’ in definitiva neolirico, confessional, rassicurante, forse nostalgico dell’Otto-Novecento.

L’incontro del 18 marzo è promosso da GAMMM.ORG, sito di sperimentazione letteraria fondato nel 2006 da Gherardo Bortolotti, Alessandro Broggi, Marco Giovenale, Michele Zaffarano e Massimo Sannelli. Da quasi 17 anni GAMMM con i suoi redattori (attualmente Giovenale e Zaffarano con Mariangela Guatteri e Andrea Raos) si occupa di tradurre materiali testuali interessanti dalle principali lingue europee, promuovere la ricerca letteraria italiana e straniera e le esperienze artistiche e musicali contemporanee (ma anche remote).

Gli interventi

Relatori del mattino:
Gherardo Bortolotti, Marilina Ciaco, Stefano Colangelo, Marco Giovenale, Mariangela Guatteri, Andrea Inglese, Luigi Magno, Giulio Marzaioli, Valerio Massaroni, Renata Morresi, Francesco Muzzioli, Luciano Neri, Vincenzo Ostuni, Giorgio Patrizi, Gian Luca Picconi, Daniele Poletti, Pasquale Polidori, Chiara Portesine, Andrea Raos, Claudio Salvi, Luigi Severi, Antonio Syxty, Paolo Zublena

Nel pomeriggio sono invitati a intervenire:
Lorenzo Basile Baldassarre, Simone Biundo, Niccolò Furri, Florinda Fusco, Antonio Francesco Perozzi, Sara Sorrentino, Isabella Tomei, Stefano Versace 

Saranno presenti inoltre:
Alessandro Broggi, Leonardo Canella, Mario Corticelli, Roberto Cavallera, Carlo Dell’Acqua, Luca Zanini

Sarà possibile trovare libri delle collane & edizioni:
Benway Series (Tielleci), [dia•foria (dreamBOOK), glossa (pièdimosca), Syn_scritture di ricerca (IkonaLíber), il verriTICManufatti poetici (Zacinto/Biblion)

I curatori

Michele Zaffarano lavora come traduttore dal francese. È tra i fondatori e redattori di gammm.org (2006). Per le edizioni Tic dirige le collane ChapBooks, UltraChapBooks e Gli alberi; e, per Zacinto, Manufatti poetici. È redattore della rivista francese «Nioques».Tra i suoi libri recenti, Sommario dei luoghi comuni (Aragno 2019), Istruzioni politico-morali (all’indirizzo dei nostri giovani poeti sul reperimento e sulla assimilazione dei concetti nuovi) ([dia•foria, 2021), Poesie per giovani adulti (Quarantuno tentativi di esaurimento di un concetto affatto contemporaneo di lirica disposti nell’ordine dell’alfabeto) (Scalpendi, 2022).

Antonio Syxty, legato al situazionismo e all’arte comportamentale e concettuale, fin dalla fine degli anni Settanta ha svolto attività di performance art e scrittura visiva, per poi passare alla regia (teatrale, televisiva, cinematografica). Da alcuni anni ha iniziato l’attività di streamer come pratica di comportamento e divulgazione di contenuti. È coordinatore artistico di MTM – Manifatture Teatrali Milanesi.

Marco Giovenale è tra i fondatori e redattori di gammm.org (2006). Dirige la collana Syn_scritture di ricerca (IkonaLíber). I libri più recenti sono Delle osservazioni (Blonk 2021), Statue linee (pièdimosca 2022) e il saggio Asemics. Senso senza significato (IkonaLíber 2023, collana Le forme del linguaggio). Suoi testi in Parola plurale (Sossella 2005) e altre antologie. Con i redattori di gammm è in Prosa in prosa (Le Lettere 2009, Tic 2020).

Linee spezzate: Gleize e De Angelis

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di Daniele Barbieri

Leggo Linea intera linea spezzata di Milo De Angelis (Mondadori 2021) e mi colpisce subito la sensazione di una magica fluidità sintattica e narrativo-poetica. Ma poi, progressivamente, in questa dimensione così positiva si insinua un fastidio. Penso, all’inizio, che si tratti di invidia, la mia, per uno che sa scrivere così bene. E quella un po’ c’è, immagino; eppure, come spiegazione, man mano che il fastidio cresce, diventa sempre più debole.

Cercando di capire, mi accorgo, ora, della frequenza di parole che, secondo la mia sensibilità, andrebbero utilizzate con estrema attenzione, possibilmente in contesti che ne neutralizzino l’eccesso di poeticità. Già subito ci sono infatti espressioni come tempo che hai misurato mille volte, che non è di questa terra, spettri che corrono; e poi poco più avanti un concilio segreto di secoli, l’infinita moltitudine, tutto è silenzioso per sempre, gli infiniti luoghi della sera. Si potrebbe continuare, in un’apoteosi di poetese che cresce sulla propria facilità (per non dire banalità).

Eppure, mi dico, ho sempre apprezzato De Angelis. Non me ne sono mai accorto, oppure c’è qualcosa di diverso qui? Vado a ripercorrere la sua produzione precedente e vedo che le espressioni incriminate erano presenti anche prima, e tuttavia il fastidio non si manifesta in me con la stessa forza; anzi, pur presente, è trascurabile, perché ben compensato, comunque, da una più compiuta integrazione della loro carica di echi. Che cosa è cambiato, allora? Incomincio a pensare di provare a valutarne la frequenza, pensando che magari prima fossero più rare e accettabili; quando mi rendo conto di qualcos’altro che qui c’è e che prima non c’era: non sono, cioè, soltanto i termini utilizzati a richiamare una dimensione di troppo facile efficacia sentimentale, ma anche e soprattutto le situazioni descritte dai singoli componimenti, con tutti questi amici che escono dalla morte, questo ripetersi della figura letteraria dell’evocazione, sempre suggestiva, sempre nostalgica, sempre crepuscolare. Da questo clima, non solo non si esce; ma vi si entra, pagina dopo pagina, sempre di più. E, pagina dopo pagina, cresce la mia voglia di smettere, di abbandonare quella che mi appare sempre di più come una celebrazione dell’io e delle sue ombre.

Mi viene da rifugiarmi nelle considerazioni di un autore ben diverso, anche lui letto da poco, e parlo di Jean-Marie Gleize, nel libro Qualche uscita. Postpoesia e dintorni, curato da Michele Zaffarano (Tic, 2021). Già nella prima pagina, commentando alcune parole da Illuminations di Rimbaud, Gleize ci dice:

Certo, si tratta di frasi senza frasi, di frasi nude ai limiti delle possibilità, di frasi molto vicine a quello che per me avrebbero rappresentato più tardi le pratiche e gli oggetti dell’arte: nulla che s’imponga come monumentale, o carico di senso, carico del peso di un senso; nulla che spinga alla fascinazione adorante, alla posa, alla recitazione ottusa, all’orpello, alla cosmesi, al costume. Nessuna di queste superstizioni. Solo materia e lingua, e forma; solo tratti e cifre, e lettere. Nulla di eccessivo, anzi tutto tendenzialmente a levare, sempre a levare: finalmente!, come dice Rimbaud con un’esclamazione, verso la «più semplice espressione». È una morale. Una politica. Una ragione d’essere, e di agire. (p.7)

Una boccata di ossigeno, almeno a prima vista. Di fronte alla monumentalità crepuscolare di De Angelis (di questo De Angelis), che certamente spinge alla fascinazione adorante, alla posa, questa esortazione al levare appare liberatoria.

Tuttavia, passato il primo entusiasmo, qualcosa che non quadra appare anche qui. Va bene stigmatizzare il monumentale (almeno per noi oggi – ma su questo tornerò verso il fondo), ma mica solo ciò che è monumentale è carico di senso, o del suo peso: per come la vedo io, semiologo, tutto quello che non è carico di senso è per noi semplicemente irrilevante. Se richiama la nostra attenzione, che si tratti di parole o di oggetti del mondo o di eventi, è perché un senso ce l’ha. Ma Gleize conferma: “Solo materia e lingua, e forma; solo tratti e cifre, e lettere.” Sembra che si stia passando da un condivisibile rifiuto dell’eccesso retorico a una poetica del nulla, peraltro non del tutto consapevole.

Naturalmente, bisogna andare oltre questa prima pagina e leggersi l’intero libro per capire dove Gleize voglia arrivare. Non dimentichiamo che Gleize è l’inventore dell’espressione prosa in prosa, a cui si ispira il titolo dell’antologia del 2009, in cui appare lo stesso Zaffarano, e con lui anche Marco Giovenale e Andrea Inglese, che sull’autore francese hanno scritto in varie occasioni.

Anche Gleize scrive bene e con chiarezza, ma conferma in più modi la mia sensazione iniziale che si stia (idealmente) buttando via il bambino con l’acqua sporca. Ecco un paio di riflessioni che questa lettura mi ha ispirato.

Gleize distingue nella poesia contemporanea quattro posizioni. Le chiama, rispettivamente, lapoesia (scritto tutto attaccato come lalangue di Lacan), ripoesia, neopoesia e postpoesia. “Lapoesia si presenta, si confessa e si rivendica in quanto tale e, in quanto tale, viene accolta senza la minima possibilità di dubbio” (p.45): siamo, insomma, nel pieno alveo della tradizione. Non è molto diversa la ripoesia, che però arriva a riproporre la tradizione dopo essere passati attraverso qualche contestazione (altrui) di tipo neo- o postpoetico. Penso che l’intera poesia di De Angelis verrebbe situata da Gleize nell’aera della ripoesia.

A distinguere la neopoesia da lapoesia e dalla ripoesia è il fatto che a praticarla sono tutti quelli che intendono il processo poetico come trasformazione della poesia e che, senza indugio e prima di ogni altra cosa, collocano la sua essenza specifica in questa sua rifondazione permanente, in questo suo eterno ridefining. Insomma, tutti quelli che pensano che la poesia possa benissimo non assomigliare più alla poesia proprio perché la sua definizione passa attraverso la sua particolare capacità di riformarsi in modi sempre altri, di alterarsi. Osservata da questa prospettiva, la poesia si sforza di negare sé stessa così com’era, così com’è e così come viene recepita, e tenta di reinventarsi in procedure sempre nuove. La poesia è costantemente a venire. E anche i neopoeti, così come i ripoeti, sono dei poeti. La loro pratica implica e mette in atto una negazione della poesia che è, allo stesso tempo, un’affermazione ulteriore della poesia. (p.48)

Per quanto riguarda invece gli attori della postpoesia, quello che va detto è che tendono a pensare il proprio lavoro come qualcosa che sta al di fuori della sfera della poesia. Il che ovviamente non significa che le istituzioni, a quella sfera, non cerchino di riportarli di continuo. Per modificare le griglie della ricezione sociale, della Scuola, della Biblioteca, della Libreria, ecc., per uscire dalla poesia, non basta in effetti dichiarare di volerlo fare, neppure se ci si è armati di una pratica che sembrerebbe confermare tale dichiarazione. (p.49)

È a questo punto (tra l’inizio degli anni Ottanta e i giorni nostri) che cominciano ad apparire tipologie diversissime di testi: oggetti testuali e oggetti specifici di cui qui mi limiterò a segnalare in termini molto generali solo pochi tratti peculiari.

-Si tratta di oggetti che non funzionano partendo da un’interiorità creatrice o da un’esperienza personale e che escludono qualsiasi dimensione espressiva.

-Si tratta di oggetti che non si piegano a particolari intenzioni estetiche e che non fanno riferimento ad alcun sistema estetico di valore, convenzionale o modernista che sia.

-Si tratta di oggetti estremamente compromessi con le proprie modalità di produzione e riproduzione (per esempio, sono inconcepibili senza i vari programmi per l’impaginazione o la manipolazione delle immagini e del suono).

-Si tratta di oggetti profondamente riflessivi, meta-tecnici e meta-discorsivi: fanno quello che dicono, dicono quello che fanno e rendono esplicito (cioè lasciano intravedere) il modo con cui le rappresentazioni che ci formiamo condizionano le nostre percezioni e i nostri discorsi.

-Infine (ed è questo che li rende più immediatamente spettacolari) si tratta di oggetti caratterizzati da dispositivi di montaggio che loro stessi pongono in essere: citazioni, prelievi, campionamenti, loop, formattazioni, compressioni, restituzioni grafiche e via dicendo. Montaggio e trattamento di materiali eterogenei. (p.50)

A Gleize le prime due posizioni non interessano. Ponendosi dal lato della postpoesia, ritiene comunque proficuo il dialogo con la neopoesia.

Sin qui, tutto molto chiaro. Con ammirevole modestia, Gleize usa questi due neologismi (il secondo in particolare) per definire il campo proprio e della poesia che lui sostiene. Sulla scena italiana sembra essere invece invalsa l’abitudine di utilizzare, per indicare all’incirca la medesima area, l’espressione poesia di ricerca, che non è un neologismo, e che sembrerebbe rimandare piuttosto a tutta la poesia che si basa su una ricerca, e non solo al campo indicato da Gleize. Questa cosa ha l’aria, insomma, di un’appropriazione un po’ indebita. Mi domando se le virgolette che “alcuni critici e studiosi sentono il bisogno” di mettere attorno all’espressione “poesia di ricerca” – come fa notare Marco Giovenale qui, dopo un’attenta disamina della storia dell’uso del termine (una storia che include anche Calvino, e non solo Balestrini) – dipenda davvero, come sostiene lui, dall’“astio che li separa dalle punte sperimentali del Novecento” e non piuttosto da un rifiuto di questa appropriazione. (Mi piacerebbe, a titolo di esempio, capire se un poeta come Luigi Di Ruscio sia ascrivibile alla ricerca intesa in questo senso, là dove, personalmente, io non avrei dubbi nel suo caso a parlare di ricerca poetica.)

Ma il problema vero della classificazione di Gleize sta altrove. Sembra cioè che si dimentichi, qui, la fastidiosa tendenza che ha la novità (qualsiasi novità, minore o maggiore che sia) a farsi sistema, nella poesia come altrove: la conoscenza umana stessa, sembra, in generale, funzionare così. Quando emergono delle novità, sullo sfondo di un sistema costituito da quello che è già noto, o esse sono scarsamente rilevanti (o solo localmente rilevanti) e vengono poi dimenticate, oppure, se un qualche rilievo ce l’hanno, vengono progressivamente assorbite dal sistema, e al prossimo giro di conoscenza fanno già parte del noto, del sistema medesimo.

Gleize chiama lapoesia questa poesia divenuta sistema, della quale quella che lui chiama ripoesia sarebbe la prosecuzione acritica, mentre neopoesia e postpoesia due diversi livelli di distacco e tentativo di rinnovamento. Il problema è allora che anche la postpoesia più estrema, nella misura in cui ha un successo almeno locale, e quindi un qualche numero di lettori ed emuli, nel giro di qualche anno acquisisce una qualche regolarità; entra cioè a far parte anch’essa di una regione de lapoesia. Il vero postpoeta, dunque, dovrebbe trovare delle soluzioni che si differenzino da quelle dei postpoeti precedenti, rendendo inevitabilmente obsolete quelle già percorse (quelle per esempio elencate qui sopra). Il vero postpoeta non dovrebbe mai appartenere a una corrente: l’intera cosiddetta poesia di ricerca italiana (su quella francese non mi sento a sufficienza competente) non dovrebbe di conseguenza essere considerata postpoesia. Sarà piuttosto semplice ripoesia di un canone assestato relativamente recente.

Questa conclusione mostra abbastanza chiaramente la difficile sostenibilità della posizione di Gleize, che, se si generalizza un poco, non è precipuamente sua, ma appartiene abbastanza diffusamente alle avanguardie del Novecento. La questione viene adombrata già da Claude Levi-Strauss nell’introduzione a Il crudo e il cotto (1964), quando accusa Pierre Boulez non tanto di voler portare la musica verso nuovi lidi (il che è del tutto legittimo) quanto di arrivare a considerare il viaggio in sé più importante della meta. Come dire, banalizzando un po’, che cercare sarebbe più importante che trovare, cosa che potrebbe anche apparire affascinante (specie dal punto di vista del creatore) se non fosse che una ricerca che non trova diventa rapidamente frustrante; mentre in una ricerca che trova, il trovato diventa base per nuove ricerche, e quindi si istituzionalizza, si fa sistema.

2.

Molto più confusa è la questione della letteralità.

Di fatto, esiste solo un modello che possa essere contrapposto a questa transitività, assoluta o relativa, diretta o indiretta, positiva o negativa che sia; e questo modello corrisponde a una rappresentazione della poesia che chiamerei letterale. In questo ultimo scorcio di Novecento, è a Jacques Roubaud che dobbiamo le formulazioni più nette e semplici al proposito. È da lui che prenderò quindi spunto per sostenere che la poesia non dice nient’altro se non quello che dice; o che la poesia dice letteralmente quello che dice. Formule da considerare come equivalenti o prossime all’assioma pongiano secondo il quale (appunto) non esiste verità se non letterale; o non c’è altra verità al di fuori di quella letterale. In sostanza: la poesia non ammette parafrasi. (p.64)

Definita in questo modo, la letteralità sembra pura tautologicità. Ma qualcosa che “non dice altro se non quello che dice letteralmente” in realtà non esiste nemmeno, perché il senso stesso è fatto per sua natura per rinviare indefinitamente (e il principio della semiosi illimitata di Charles Sanders Peirce è uno dei punti chiave di qualsiasi teoria sensata del senso). Gleize sembra persino accorgersene, quando a pagina 85 dice testualmente: “La letteralità non esiste, non può esistere”.

Forse dovremmo prendere la letteralità come una condizione verso cui tendere, come sembra suggerire Andrea Inglese in un suo interessante intervento di qualche anno fa (“Iconoclastia artistica e concetto di littéralité”) ma anche questa prospettiva porrebbe una serie di problemi che ho a suo tempo sottolineato qui (“La letteralità impossibile. Risposta ad Andrea Inglese”), e a questo dibattito rimando per approfondire la questione, perché i termini esposti anche da Gleize nel suo libro (certo con molti più esempi) vi sono già del tutto chiari.

Credo, in fin dei conti, che la posizione di Gleize si basi su una presunzione di stampo razionalistico, tipica delle avanguardie, quelle artistiche come quelle politiche: l’idea (platonizzante) che si possa ricostruire il mondo sulla base di un’idea razionale, e che tutto il passato debba essere valutato a partire da questa idea, accettandolo o rifiutandolo nella misura in cui va o meno nella direzione voluta. Per Gleize, mentre la neopoesia cerca di rinnovare le forme poetiche senza rifiutarne alcune basi tradizionali, la postpoesia tende a sovvertire tutto, nella sicurezza di restare comunque all’interno dell’ambito della poesia, perché l’ambito della poesia è un ambito residuale, dove si finisce comunque per mettere quello che non si può mettere altrove.

Per questo, in generale, la tradizione viene vista come un ostacolo, qualcosa che ci riconduce inevitabilmente ai vecchi lidi. Mentre, viceversa, la tradizione postpoetica (che ormai esiste da molti decenni) non viene nemmeno vista da lui come tradizione, bensì come semplice emanazione dell’idea (quella di riferimento). Del resto, per poter classificare i poeti in rapporto alla tradizione poetica, come Gleize fa, bisogna poter contare su un’idea molto chiara, e certamente statica, di quali siano i limiti di tale tradizione. Un’avanguardia non può, insomma, permettersi dubbi: deve poter distinguere chiaramente chi (o che cosa) ne fa parte, e chi no. L’area della cosiddetta poesia di ricerca italiana non fa eccezione.

Per chi ha dei dubbi la via è senz’altro più difficile: chi ha dei dubbi non può permettersi per esempio di distinguere cosa sia bene e cosa sia male facendo semplicemente uso di criteri che riguardino le modalità costruttive. Deve affidarsi piuttosto a quella cosa imponderabile che è il gusto, un canone pericoloso specialmente dal punto di vista della posizione avanguardista, in quanto inevitabilmente contaminato dalla tradizione. Si obietterà che un dubitante intelligente ha assorbito tutta la tradizione nel proprio gusto, avanguardie comprese, perché concepisce la tradizione (avanguardie comprese) come una risorsa, non come qualcosa da negare; come la base nota su cui costruire il nuovo, non come qualcosa da distruggere per fare emergere il nuovo.

Il che ci riporta al tema di partenza, la poesia di De Angelis. Questo rifiuto che essa può ispirare al nostro gusto, che valore ha? Rifiutare il platonismo di Gleize e dintorni non è rifiutare la ragione, ma solo i suoi eccessi. Il gusto (correttamente alimentato) può essere un buon punto di partenza per un giudizio, ma ha bisogno poi di trovare un sostegno critico. In altre parole, quali sono i valori che sosterrebbero la qualità della poesia di De Angelis, e che, correlatamente, si trovano in opposizione a quelli che sostengono la mia delusione nei suoi confronti?

Non basta appellarsi alla tradizione, visto che la tradizione comprende anche le avanguardie, ormai. Mi sembra che sia dominante in questi valori l’idea che il poetico possa essere una regione del commovente, del patetico. Il commovente e il patetico sono i registri dominanti del libro di De Angelis, ed è questo, viceversa, a causare il mio fastidio. Nel dettaglio: ciò che produce il fastidio non è che vi sia del commovente e del patetico, la cui presenza sarebbe in sé accettabile; ma che questi due valori siano fondanti dell’intera raccolta, e praticamente di tutti i suoi componimenti. Come dire che, in gastronomia, una sfumatura di dolce può benissimo essere accettabile e anche piacevole, ma un eccesso di zucchero può rendere stucchevole qualsiasi cosa, persino una torta.

Risalendo ancora a monte, indubbiamente, il mio rifiuto della dominanza del commovente e del patetico è legato a quella che sentiamo come un’immagine troppo facile, e quindi banalizzante, della poesia, legata al lirismo quotidiano che permette di definire “poetico” un bel tramonto. Come ogni banalità, anche questa è figlia di un successo storico. Io potrò anche sentire, insieme con Gleize, che la poesia non dovrebbe essere monumentale; ma questo non mi deve impedire di capire che in altre epoche la monumentalità della poesia è stata un fatto apprezzabile, ovvero apprezzato dal gusto dominante; e che lo è stata la sentenziosità (per riprendere il bell’intervento di Davide Castiglione che si trova qui, dove si parla in maniera intelligente sia di De Angelis che di Giovenale); e che lo è stata pure la pateticità (e così come lo sono state, possono pure ritornare a esserlo, prima o poi). Tutte queste cose si sono sedimentate nella tradizione. A un livello più raffinato, nella tradizione si è sedimentata anche la volontà di épater le bourgeois, ed è per questo che persino un eccesso di spirito avanguardista produce in me una delusione analoga a quella da cui siamo partiti qui.

Può essere di rilievo notare come, nonostante tutto, io continui a trovare interessanti molti testi poetici sia di Gleize che di Giovenale, segno che, per fortuna, essi sono i primi a non praticare sistematicamente quello che teorizzano. La novità in poesia, come altrove, sembra stare molto più in quello che si trova, che non in quello che si cerca.

Certo che hai proprio una bella Backpfeifengesicht!

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di Ornella Tajani

Quanti di noi soffrono di Keyjaculation, cioè della mania di prendere le chiavi dell’auto quando il parcheggio è ancora lontano? E chi non ha mai provato l’hyppytyynytyydytys, ossia il piacere di essere seduti su una sedia molto comoda? Una sensazione non lontana dal Bedgasm, l’orgasmo del letto, quello che si raggiunge quando ci si corica dopo una giornata stancante.

Il librino curato da Manuel Rossello per le edizioni Piano B, dal titolo Certo che hai proprio una bella Backpfeifengesicht!, cioè una faccia da schiaffi, contiene un breve, indisciplinato dizionario di parole appartenenti a oltre quindici lingue, dall’inglese all’arabo, dal quechua al napoletano: parole che per (de)formazione professionale non definirò «intraducibili», che non possono essere considerate realia secondo la consueta terminologia traduttologica, ma che nondimeno costituiscono delle piccole gemme nel panorama lessicale plurilingue.

Non sempre sono d’accordo con le definizioni proposte dal curatore, almeno limitatamente alle lingue che conosco, ma forse si può prendere il volume come un esercizio un po’ creativo e sfogliare questa raccolta di termini, ascientifica in tutto (giacché nessun ordine governa i ribelli “intraducibili”), senza prendere alla lettera le definizioni, bensì considerandole una sorta di prima chiave d’accesso a mondi paralleli, ogni lingua costituendo un sistema di pensiero a sé.

Unico rimpianto: sarebbe stato bello che ciascuna definizione fosse accompagnata da una frase in cui il termine veniva contestualizzato, come nel brillante esempio che campeggia in copertina.

La meraviglia è di tutti

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di Valerio Paolo Mosco

 

 

Luca Molinari, La meraviglia è di tutti. Corpi, città, architetture, Einaudi, 2023

 

Il libro di Luca Molinari La meraviglia è di tutti (Corpi, città, architettura) è un libro ottimista. Il sinonimo di ottimismo in architettura è progetto. Progetto, ovvero dal latino “getto avanti”, prevedo. La tanto criticata modernità è stata senza dubbio progettuale; ha prospettato non solo forme nuove, ma anche stili di vita nuovi: nuovi e collettivi. È stato, quello della modernità, il tempo delle grandi narrazioni volte al futuro, in cui ciò che era di valore era ciò che “gettava avanti” il genere umano. Nei primi del Novecento Max Weber andava ripetendo che “le idee cambiano il mondo” e la sua affermazione sembrava provata dai fatti: le idee cambiavano il mondo, non certo sempre in positivo. Poi il moderno è imploso in sé stesso; le narrazioni, accumulatesi nel tempo, hanno mostrato il loro lato oscuro; la modernità da promessa era diventata un meccanismo implacabile e stritolante: Rousseau aveva ceduto il passo a Hegel e la libertà era diventata l’incubo del bene comune imposto. Già dai primi anni Sessanta era diventato allora necessario decostruire la narrazione moderna, scegliere di essa alcuni frammenti e scartarne altri. Al limite era necessario anche dissacrarla, rendere il profetico, come scriveva Nietzsche, canzonetta da strada. La postmodernità, ci ricorda Molinari, ha avuto questa funzione che ormai, dopo più di mezzo secolo, possiamo consegnare alla storia. Ogni epoca paga un prezzo, è inevitabile. Se allora il prezzo della modernità è stato il dirigismo repressivo, quello della postmodernità è stato il relativismo debilitante, il comprimere la narrazione ad evento personale, edonista e triste al tempo stesso.

Ancora Max Weber aveva parlato all’inizio del secolo scorso di “disincantamento del mondo”, una profezia avveratasi proprio nella postmodernità. Molinari prende le distanze sia dal moderno che dal postmoderno: per lui (e in ciò concordiamo) sia il progetto impositivo che quello dissacrante sono archiviati dalla storia. Da dove ripartire allora? Molinari chiama questo punto di ripartenza la “meraviglia”. Il termine è chiaramente una metafora; in esso confluiscono il recupero dello stupore di fronte a ciò che si distacca dal mondo inflazionato e corrivo, ma anche meraviglia come recupero di una sensorialità che troppe immagini, troppi intellettualismi e sperticate interpretazioni, ci hanno fatto perdere. A riguardo l’autore parla di “imprevedibilità controllate”, ovvero di progetti che sono imprevedibili in quanto attivano in noi sensazioni e riflessioni tali da farci vedere in maniera diversa ciò che stiamo vedendo e vivendo. In fenomenologia ciò accade attraverso un’azione preventiva, l’epoché, ovvero la sospensione delle aspettative, o meglio la disattivazione di quel processo analogico che, inconsciamente, preclude il vedere il nuovo o l’inaspettato che dir si voglia. Il progetto dunque come dispositivo per un coinvolgimento, possibilmente pubblico, che ci aiuti a rinsaldare quelle relazionalità che il digitale, il Covid, l’eclissarsi dello spazio pubblico, tendono a negarci.

La meraviglia per Molinari non riguarda, come siamo abituati a considerare, lo stupore di fronte alla forma strabiliante, chiusa in se stessa, che al limite ci sovrasta, ma la meraviglia di sentirsi trasportati in un’atmosfera in cui restauriamo noi stessi e lo facciamo con gli altri, supportati dall’architettura e dallo spazio che ci circonda. In altre parole (e in ciò Molinari riscopre il primo Romanticismo) la meraviglia è l’arte di re-incantare il mondo. Aveva scritto Novalis che la meraviglia è prendere il noto per portarlo sulla soglia dello ignoto, prendere il corrivo e farlo affacciare sullo straordinario, prendere il dimenticabile e renderlo indimenticabile. Molinari tra le righe del libro descrive questa architettura della meraviglia: essa sarà capace di produrre opere “resistenti e imperfette”, che più che risposte riusciranno a porre domande. Sarà un’architettura accessibile e collettiva, ma non spudorata e invasiva; il suo carattere principale sarà allora un’assertiva fragilità, un proporsi senza invadenza ma un rimanere nel nostro animo per ciò che essa stimola, per ciò che essa attiva. Meno formalismi dunque, ma forme asservite al loro dovere di stimolare il vivere sociale, anzi la meraviglia di un vivere sociale che l’architettura ipotizzata da Molinari, avrà il dovere di stimolare e proteggere. Esiste oggi questa architettura? Per Molinari esistono esempi di uno sforzo di re-incantare il mondo, delle testimonianze di resistenze attive che la globalizzazione sparge continuamente in giro, spesso in posti inaspettati. Su queste pietre di inciampo fatte architettura dobbiamo affidarci per ipotizzare ancora una volta il futuro. Programma utopico e realista al tempo stesso, come devono per altro essere i programmi che possiamo fare oggi, non per noi ma per il loro futuro.

 

Lettere dall’assenza #6

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CUBA. Trinidad. 1998. A work horse is kept on a family's porch overnight.

GERMANY. Hanover. 1989. Berlin Wall. David Alan Harvey

di Mariasole Ariot

Caro K.,

alle prime ore del mondo il sogno naviga ancora come vischio tra le doglie del mattino: un fiume mi gronda dalla nuca. Sono andata a cercare i semi che hai sotterrato ad ovest, mi hai detto che le mani non avrebbero fatto rumore, che le vanghe non sono mani, mi hai detto di operare con un taglierino nella terra: ma ho spalancato il vuoto : non c’era nulla.

La sparizione dei tuoi occhi si fa tormenta, ad ogni istante si specchia nelle cose, e non c’è trasparenza nel passato, è tutto questo presente ancorato al suolo, che dice un dicembre mancato, la mia infanzia macinata dalle bocche, quei piccoli dentini che mi mostravi per parlare: ma le parole non sono affilate, K., la mia voce si è spenta. L’inchiostro a pozzanghera mi genera l’orrore di un mare nel suo contrario, caderci come pece nella pece, questo nero che sono, quel nero che non sei mai stato.
Mi dicono di aspettare, dicono che ho nascosto una voce per allarmismo, dicono che per i cuccioli gli allarmi sono più sicuri dei luoghi sicuri, e io non posso rassicurarti, K., le falangi stentano a muoversi: non c’è più carta ma un canto ossessivo di cornacchie – e le senti, K., le senti dimenarsi nella testa, lo senti questo errore che hai lasciato, un testimone a testimone del terrore.
Ho ricevuto la tua ultima domanda all’interno di un guscio vuoto, ho aperto la corazza, hanno seppellito la tua tartaruga divorata da un cane, hanno finto di non vedere, ma io li ho visti, K., li ho visti liberare l’animale per azzannare, incitato a divorare le ossessioni: in ordine una zampa, la piccola coda e la sua testa, li ho visti liberare l’animale e dire andiamo, un esperimento compiuto, la sottrazione di un nome. Il guscio ora è solo un guscio.

Siamo caduti nell’epoca sbagliata, innati e mai nati, quando a sera ci siamo distesi per un dettaglio, dimesso il corpo in una tana – quanti scheletrini siamo, K., quanto siamo stati. Sono sparita perché tu potessi tornare. Ho fatto della miseria quello che mi hai chiesto: oceinificare anche il deserto, ma il deserto è un compromesso, è questo stare accovacciata sulla fronte di una casa senza tetto: piovo a dirotto, non faccio dimora, abitata da un corpo che urla ogni frammento, – e loro placano, uccidono il frinire che dilaga.
Vociferano nei corridoi che avverrà presto: uscirò da questo luogo con il plico delle misure, ti manderò l’ammasso delle loro parole, non mi manderai niente.

Uscirò presto, l’hanno detto, lo ripetono ogni giorno.
Prima di andartene mi hai piantato un binocolo capovolto al posto del cervello, ogni immagine indistinta si è sottratta dalla nebbia, e ora vedo, K., vedo gli organelli di cui parlavi, la partecipazione dell’ugola e degli interni, quelle interiora che dicevi: non beccare, dicevi diventa la tua lingua, fornifica un linguaggio, dicevi non credere a chi dice che è scomparso.

Ma cosa diventa una lingua se non ha papille?

Dalla finestra sbarrata vedo i maiali appesi, le ragazzine corrono a festa per rosicchiarli, e quanta fame hanno, K., e strillano i maiali, strillano le ragazzine, strillano i crocifissi che portano al posto delle mani, quando pregano pagane che il filo si spezzi, che tutta quella carne si accasci al suolo, non attendono che le carcasse.
Dalla finestra sbarrata vedo una chiesa, una buca, un salice, i selvatici con poche zampe, vedo lo spavento negli occhi della terra, vedo una piccola crepa, sento la frana in lontananza. Tra poco esonderà il sommerso, questo dono che mi hai fatto: quanto hai riso K., quante pupille hai speso per andare.

Hai comprato la loro indifferenza, il loro plesso già bendato: liberarsi significa tacere.
Stagna il silenzio in una stanza, dalla porta posso vederne la forma: ma il silenzio non ha forma, si sforma nel suo peso, il silenzio ha questo piombo azzurro stanco, lo confondono con l’acqua che beviamo a litri, che sputiamo a litri, il gettito che ci getta faccia al muro. Dicono sia cura, e l’hai scampata.
Non credo uscirò mai più da qui: dico presto per stordirmi, ma questo sempre è già stato inoculato nelle vene: perché ho un posto, qui, K., mi è stato assegnato un numerino ed è un per sempre. Tu abiti un luogo, io abito una metafora.

Il grido dei maiali non è appeso: è la mia voce, una mancata sordina all’esistenza.

Tua S.

Da “Sonetti e specchi a Orfeo (da R. M. Rilke)”

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[Da Sonetti e specchi a Orfeo da R. M. Rilke. Scritti come Epitaffio (Valigie Rosse 2023) pubblichiamo una traduzione “a specchio” e il saggio conclusivo dell’autore.]

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di Luciano Mazziotta

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2.XXI

Canta, mio cuore, i giardini che non riconosci, i giardini

come versati nel vetro: impenetrabili e fatti di luce.

Acqua e Rose di Esfahan o Shiraz.

Cantale in estasi, esaltale: non le somiglia nessuno.

 

Dillo, mio cuore, che a loro non sai rinunciare.

Dillo che di te dicono i fichi che si maturano.

Che tu tra i rami fiorenti ti corrispondi a questi

come si corrispondono i venti levati al volto.

 

Lascia il pensiero errante di una rinuncia a questa

scelta che ti è successa, questa: quella di esistere.

Filo di seta tu: sei entrato ormai nell’intreccio.

 

A qualunque tra le figure sei avvolto fin dall’interno

(fosse pure l’istante di origine dell’angoscia)

senti: questa dice la trama, la trama radiosa. Tutta.

*

2.XXI

Dopo decenni d’indugi scrivi la parola cuore, scrivilo in prosa senza cesura o ragione, e fingi sia a scriverlo un altro, una voce non tua che ti assolve dal secolo che desertifica sempre, come se il male che strozza il tuo battito fosse quel male non degno di essere detto e rivelasse di più sull’adesso la parola arrivata da cento anni fa. E questa dizione incoerente, se la compari alla fonte, si insozza di sette catastrofi e ora filtrata da un vetro convesso è irriconoscibile a scriversi. Wolle die Wandlung, Cambiati forma: se hai creduto che fosse l’unica svolta l’errore, sceglilo allora per ritrovare la quiete. Non c’è altro da dirsi da dentro la corda intrecciata che ti contiene e ti soffoca ma non permette mai di morire del tutto: tutto qui esige si sopravviva al rovescio, anche se nella terra cosparsa di fichi caduti i piedi si incollano al vincolo come un tappeto sul quale è cucito il tuo globo. E quel puntino minuscolo che provi a scucire si porta con sé un gomitolo tanto compatto che per sbrogliarlo si formano nodi più fitti o dune che coprono tutte le porte d’uscita. Wolle die Wandlung, ché niente più ti assomigli. E se anche qualcuno ti riconosce, forse ha sbagliato persona, perché dove erano strade sono ora dune di sabbia, e di tuo, da lì sotto, sbuca soltanto la testa.

*

Negare, chiudere, sottrarre: cinque w su questo libro. 

Was

Sarebbe molto più facile definire questo libro per negazione, dire quello che non è, anche a dispetto di ciò che appare. Chiunque lo sfogli, prima di leggerlo, potrebbe avere l’impressione che si tratti di una traduzione di ventisette Sonetti a Orfeo, situati sulla pagina sinistra, accompagnati, sulla pagina destra, da una sorta di commento. La prima impressione inganna. Se, in effetti, ho operato una cernita, sottraendo gli altri ventotto dei cinquantacinque testi che compongono il libro di Rilke, non posso arrogarmi il diritto di definire traduzioni quelle dei sonetti selezionati. Non sono traduzioni, né tantomeno traduzioni d’autore. Non sono neppure riscritture, né ancor meno parodie. Adotterei in questo caso una formula suggeritami da una vera traduttrice quale Giusi Drago che, a proposito della mia appropriazione, ha parlato di Traduzioni incoerenti. Sulle incoerenze o le coerenze delle incoerenze specificherò meglio in seguito, quando mi concentrerò su come è fatto questo libro; intanto è opportuno qualche appunto riguardante la pagina destra, ovvero quegli apparenti commenti che sono emersi in qualità di specchi. Come i ventisette sonetti incoerenti, ventisette sono gli specchi. Di nuovo è necessaria la negazione: non sono commenti. Sono delle ekphraseis, in prosa, di cui Rilke è un suggeritore. Le prose, gli specchi, speculano, per l’appunto, talvolta sulla traduzione incoerente stessa, talvolta riflettono idee filosofiche e di metapoetica, talvolta approfondiscono elementi autobiografici mascherandoli con una patina di suggestioni rilkiane e di studi su Rilke, in un unicum stilistico e narrativo che riproduce, come le due sezioni dei Sonetti a Orfeo, due fasi del mondo: la glaciazione, nella prima parte, e la desertificazione nella seconda, senza soluzione di continuità. Ulteriore insegnamento rilkiano: non tutto è scindibile, non si può scindere lo Jubel dal Leiden, non si può scindere la fine glaciale dal cammino verso il deserto.

Da quanto detto fino ad ora la totalità del libro dovrebbe essere composta da cinquantaquattro testi, ed ecco che interviene un’altra incoerenza, ancora una eccezione che conferma la regola. I testi, in realtà, sono cinquantacinque, come i Sonetti a Orfeo, dal momento che, a fare da transitus tra la prima e la seconda parte, ho inserito un sonetto autografo con epigrafe tratta dalla Apocalisse di Giovanni. Ho immaginato questo sonetto come quella linea di nero che separa l’originale dalla copia, come “il punto più oscuro che si trova sempre sotto la lampada.” C’è un’altra ragione e la ragione è nel numero. Nell’Apocalisse di Giovanni si ripete più volte l’invito a valutare l’importanza del numero, dei numeri, e anche in questo caso il numero ha un suo ruolo primario. I testi devono e dovevano rimanere cinquantacinque, per un motivo filosofico e orfico. Cinquantacinque è un numero palindromo e non credo sia un caso che tanti siano i testi dei Sonetti a Orfeo; non lo è che siano cinquantacinque quelli di Sonetti e specchi a Orfeo. Il palindromo rappresenta la circolarità infinita senza via d’uscita, l’attorcigliarsi e ritornare sempre allo stesso punto che, forse, è anche una caratteristica non solo dell’opera rilkiana, ma proprio dell’Ur-Orfeo: quell’Orfeo che fugge dalla Tracia e ritorna a farsi smembrare in Tracia, il semi-dio che scende nell’abisso a mani vuote e risale dall’abisso a mani vuote, il cantore che fa sempre la scelta sbagliata, proprio alla luce del suo muoversi agevolmente, fallendo, nel mondo del doppio. E doppia è anche la tonalità nell’alternarsi di sonetti e specchi.

Vorrei che questo libro fosse letto come una composizione musicale in due tempi: da una parte il suono flebile, aperto, di uno xilofono nella pagina sinistra, nei sonetti, dall’altra un tonfo, cupo, claustrofobico, nella pagina destra, gli specchi. I sonetti sono la piuma che sale, gli specchi il macigno che cade.

 

Wie

Per quanto abbia voluto mettere in discussione il concetto di fasi, nonché, orficamente, il concetto di dialettica – l’alternanza sonetti e specchi non è dialettica ma sincronica – è innegabile che abbia conseguito la forma attuale attraverso fasi di lavoro successive.

Il primo momento è stato la traduzione, fedele, di tutti i Sonetti a Orfeo: questa è stata finalizzata soprattutto a comprendere il senso di alcuni passaggi dei testi che mi restavano oscuri – e in alcuni casi continuano a rimanere tali. Comprendere, d’altra parte, prevede ancora due possibilità: prendere per poi allontanare o prendere per impossessarsene definitivamente. Tra le due vie potenziali ho scelto quella dell’impossessamento, e qui è iniziata la seconda fase.

Non essendo una traduzione richiesta, non avendo nessun vincolo di tipo economico né di tipo filologico, i ventisette sonetti sono stati selezionati incoerentemente, così come incoerentemente sono stati rimodulati i superstiti.

Una certa continuità l’ho voluta mantenere espungendo i quattro sonetti dedicati a Wera Ouckama Knoop.  L’epigrafe ai Sonetti a Orfeo recita, infatti: “Scritti come monumento funebre per Wera Ouckama Knoop”; i Sonetti e specchi non sono più questo. Sono un monumento funebre e basta, un epitaffio collettivo forse per l’umanità, forse per una parte di me, o ancora per tutti i miei e i nostri morti, con la consapevolezza di non poterli riportare in vita, ma anche con una piccola invidia per il loro status di esseri (o non-esseri) conclusi. Ho sottratto, ancora, ma, sottraendo, alcuni testi sono rientrati qua e là, citati o parafrasati negli specchi. Valga per tutti il Wolle die Wandlung che apre il sonetto II.12. Escluso il testo da questo libro, il suo incipit ritorna come refrain nello specchio 2.XXI.

Se in merito al che cosa avevo parlato di negazione, in questo frangente, dunque, è il caso di parlare di sottrazione, di rimodulazione o, ancora più incoerentemente, di sostituzione. Gli Dèi, ad esempio, fatta eccezione per Orfeo, li ho sempre sostituiti: sono diventati mostri, abitanti dell’altrove, spettri, a volte gli spettri di tutti, molto più spesso i miei spettri, tanto nei sonetti quanto negli specchi.

In generale, quindi, ho proceduto a cambiare alcuni versi, a rimodularli, in alcuni casi a parafrasarli, in altri a riscriverli del tutto, in vista, soprattutto, di una necessità tonale, o, potrei dire, di timbro.

Se ciò che denota il timbro è soprattutto la domanda o l’esclamazione, nei sonetti ho riscritto in forma assertiva tutte le domande retoriche, così come tutte le esclamazioni. Le domande e le esclamazioni rilkiane aprivano la possibilità di futuro. Io ho voluto chiudere. Allo Staunen esclamativo, allo spiraglio di speranza, ho preferito il silenzio assertivo. Anziché riprodurre il Fragen come palcoscenico e postura tonale del dubbio, ho scelto di dare al dubbio il ruolo di protagonista muto, togliergli la voce perché non fosse neppure immaginabile una risoluzione. L’asserzione non lascia via di scampo. “Il disastro – scrive Blanchot – è la domanda senza risposta, il silenzio assoluto dopo una richiesta.” Se nel corso del secolo si perdono le risposte alle domande, se si perdono i tentativi di sciogliere il dubbio della domanda, l’asserzione diviene la forma laconica sospesa nel vuoto cosmico. Il disastro, qui, si dà per assodato. Per questo tra slancio negativo e positivo di Rilke ho fatto pendere tutto sempre verso il negativo.

 

Wann

Il quando è non solo l’oggi, anzi non lo è proprio. Seppure i Sonetti a Orfeo siano stati pubblicati nel 1923 e questo libro esca cento anni dopo, non con intenti celebrativi, ma ricorsivi, la dimensione temporale in entrambi i libri è totalmente indecifrabile, antiaderente. Non aderiscono a niente, se non a un tempo indefinibile. Si ricordi anche la riflessione di Heidegger, con il suo saggio celebrativo del 1946 in occasione del ventennale della morte di Rilke, dal titolo Wozu die Dichter in Dürftiger Zeit. Che cosa è cambiato dal 1923, dal 1946, dal sempre? Il Dürftig heideggeriano, a ridosso dalla fine della seconda guerra mondiale, tematizzava un tempo che avesse bisogno di qualcosa, quel qualcosa potenzialmente esperibile e significabile dai poeti che fossero riusciti a guardare l’abisso – in quel caso Hölderlin e Rilke. Noi, cento anni dopo, non abbiamo la possibilità di vederlo (E dirsi poeti suscita sempre un senso di nausea). Non si può osservare qualcosa entro il quale si è avvolti. Quindi il quando è questo tempo qui, un tempo non solo “mancante e bisognoso” ma un tempo mancato, un tempo che non può essere riempito, e un tempo, ribadisco, in cui il disastro si dà per assodato. Questo è l’oggi, il mio oggi, il senso della fine priva di possibilità di slanci ricostruttivi, né di fiducia in qualcosa. Ma non posso arrogarmi il diritto di parlare per tutti, e parlo solamente a titolo personale.

Il mio approccio alla poesia è stato sempre di tipo razionale. Ora, per quanto anche questa operazione lo appaia, in realtà si tratta del libro in cui mi sono lasciato alle spalle ogni tipo di razionalità e per questo è così tanto difficile scrivere quanto sto scrivendo, dare un ordine e far rientrare questa raccolta all’interno di un quadro di poetica. Quando è stato scritto, quindi? La prima fase di traduzione, coerente o incoerente che fosse, è avvenuta dieci anni fa, nel 2012. Ero un giovane appena uscito dall’università. Da una parte ci avevano fatto credere che il mondo si spalancasse dinnanzi a noi, dall’altra, in verità, una volta scoperto l’aperto il mondo si chiude e risponde che ognuno è uno dei tanti nessuno nel circuito del niente. Il 2012 è stato un anno bizzarro, in cui si viveva tra attese e superstizioni. Con un dolore di sottofondo irrazionale e sempre allontanato – se non schernito – ci si aspettava allora l’avverarsi della profezia dei Maya. Non so se si sia verificata o meno, ma la catastrofe prima o poi arriva e, per quanto nessuno ne sappia qualcosa, di certo ognuno avrà vissuto la propria personale piccola fine del mondo. Si tratta pur sempre di catastrofe. Nell’attesa della catastrofe, in momenti vissuti addentrato nella percezione della catastrofe, ho cominciato a leggere e tradurre Rilke, e da allora non ho più smesso, mentre si sono succeduti microcataclismi privati in attesa di quello universale e più grande. Che è arrivato e non smette mai di arrivare. Ma non mi riferisco alla pandemia.

Ho in mente una catastrofe indefinibile, astorica, e percepita ora dopo ora. A dieci anni di distanza dal 2012, ho iniziato a rendere più incoerente quanto poteva anche lontanamente apparire coerente, l’ossessione si è accresciuta e con lei la necessità di tematizzarla e farla rimbombare attraverso qualcosa che non fossero solamente i sonetti, ma gli specchi che di questa esperienza sono come un’eco infinita, pur con scopi terapeutici e di distanziamento. Distanziamento che non è ancora avvenuto, almeno fino a quando non saluterò il libro definitivamente.

 

Warum

Non ho mai creduto all’idea di una poesia consolatoria. Non ho mai cercato consolazione nella poesia, né credo di aver scritto un libro consolatorio. Ma questi sono pensieri altrettanto incoerenti e quello che in realtà devo dichiarare è che la poesia di Rilke, verso dopo verso, sonetto dopo sonetto, elegia dopo elegia, mi ha confortato, assistito, consolato, nonché ricondotto alla presa di coscienza di me, della mia lingua e della lingua tedesca.

Tradurre tradendo, o tradire traducendo, mi ha sollecitato in silenzio il pensiero nei momenti di buio, soprattutto perché arrivasse presto la notte. La traduzione mi ha impegnato, il primo tradimento mi ha fatto conoscere, il secondo, ovvero la scrittura degli specchi, sui quali ho lavorato incessantemente per sette mesi, dopo i dieci anni trascorsi sui sonetti, mi ha assistito.

L’oratore greco del V secolo a. C., Antifonte, da quanto riporta Plutarco, “proclamò pubblicamente di poter curare dalle paure attraverso i logoi.” Il verbo curare, in questo contesto, è therapeuein. Il perché di Sonetti e specchi risiede anche in questo verbo. Therapeuein non significa soltanto curare, indica qualcosa o qualcuno che sta accanto, vicino, qualcuno che fa da scudiero. I Sonetti a Orfeo mi sono stati vicini nei momenti di buio, gli Specchi stanno vicini, vicinissimi ai Sonetti a Orfeo. Non li curano, non li perfezionano, stanno accanto a loro, come sostegno ad una autorità, per far dire loro quel qualcosa in più che avrei voluto dire io. Lo scudiero, però, si trova sempre in una posizione speculare e di subordinazione: questo valga tanto per il me traduttore-traditore quanto per gli specchi.

Proprio alla luce di questa subordinazione, gli specchi-scudieri non avrebbero potuto essere in versi. Scrivere poesia, scrivere creativamente, in generale, significa sempre riconoscere i propri limiti. Se avessi posto accanto ai sonetti di Rilke dei versi miei, il rapporto sarebbe stato di imitatio-aemulatio. Il confronto con il modello non avrebbe avuto senso, né tantomeno avevo in mente un’idea parodica o di riscrittura. Ho dovuto scegliere una forma che non so se mi fosse più congeniale, ma che di certo mettesse al centro la differenza tra l’originale (tradito) e il riflesso. Mi sono confrontato con il limite della mia lingua e con il limite della conoscenza della lingua tedesca. Tornerei al flebile suono dello xilofono affiancato al macigno che cade. Perché scrivere questo libro in questo modo? Forse per scandire in due tempi sincronici, in passi affiancati gli uni agli altri, il ritmo di una processione verso la fine.

Ma c’è un altro warum. Da anni la critica si interroga sulla necessità cogente di superare il Novecento, e quando non lo fa, si scaglia direttamente su quella vaga poetica indicata altrettanto vagamente e sprezzantemente come simbolismo. Guardare il Novecento, guardare al simbolismo, essere troppo vicini alle scritture del Novecento, e soprattutto del primo Novecento, scrivere in tonalità apparentemente simboliste sembra un’accusa – se non una condanna. Quando una volta mi capitò di sentire, “morirete simbolisti”, io, d’altra parte, avrei voluto rispondere “magari!”. Questo libro è quel magari esteso per una sessantina di pagine.

 

Wo

Tutto quello che ho detto finora appare di per sé anche troppo autoesplicativo. Il dove posso risparmiarmelo, oppure, in breve, brevissimo, ribadire soltanto che l’ho scritto qui, in questa lunga lettera d’addio.

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Il primo Festival italiano di letteratura working class

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Si svolge a Firenze dal 31 marzo al 2 aprile ed è certamente un evento. È il primo festival di letteratura del lavoro che si tiene in Italia, dal basso, sotto la direzione di Alberto Prunetti e con l’organizzazione di Edizioni Alegre, Collettivo di fabbrica Gkn e la collaborazione di Arci Firenze.

LUOGO: presso presidio Gkn, via Fratelli Cervi 1, Campi Bisenzio (Fi)

Da anni Prunetti cura con estrema coerenza, sia come autore sia come editore e traduttore, la diffusione di una voce letteraria working class collettiva; coerenza (e coscienza) che non sempre trova sponda nel resto dell’editoria italiana, dove salvo rare e lodevoli eccezioni la narrativa del lavoro affiora ancora in modo troppo casuale, evenemenziale, sporadico. Leggo sulla pagina che lancia l’iniziativa del Festival:

A lungo liquidata come un’anticaglia del passato, negli ultimi anni la classe è tornata come categoria che attraversa la letteratura, dai memoir ai romanzi di fiction, intersecandosi con le tematiche di genere e razza. Nonostante questo l’editoria e la critica letteraria mainstream continua a non dare alle autrici e autori working class lo spazio e la dignità culturale che meritano. Ogni anno si parla delle persone che non comprano libri in Italia. Ma siamo sicuri che l’industria editoriale pubblichi libri in grado di parlare a queste persone facilmente denigrate come ignoranti? Noi crediamo che ci siano voci non ascoltate adeguatamente e persone con esigenze di lettura diverse da quelle presenti negli scaffali della grande distribuzione.

Le questioni nel menu del Festival sono importanti, come si vede. Parteciperanno tra gli altri Simona Baldanzi, Cynthia Cruz, Claudia Durastanti, Angelo Ferracuti e Alessandro Portelli.

IL PROGRAMMA INTEGRALE SI TROVA QUI

Quel piccoloborghese di Maigret: brevissima fenomenologia di un successo

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Illustrazione di Ferenc Pintér

 

di Sergio A. Dagradi

I romanzi e i racconti del commissario Maigret sono indubbiamente tra i più letti e diffusi nell’ambito della letteratura poliziesca, e non solo. Milioni le copie vendute, traduzioni in più quaranta paesi e cinquanta lingue: e poi le trasposizioni cinematografiche e televisive, che hanno ulteriormente contribuito al suo successo presso il grande pubblico, anche grazie agli attori che prestarono il volto al personaggio, da Jean Gabin a Gino Cervi o, più recentemente, da Rowan Atkinson a Gérard Depardieu. Un successo enorme, ma spiegabile, credo, con l’intonazione piccoloborghese – più che nazional-popolare – del personaggio. Sono i modi, i gesti, le abitudini, ma ancor prima gli ambienti e gli oggetti che ammantano il celebre commissario di quell’aura così piccoloborghese alla cui identificazione risulta difficile sfuggire.

Una brevissima fenomenologia del piccoloborghese

Definire brevemente la petite bourgeoisie risulta al contempo sociologicamente difficile ed economicamente più agevole. Piccoli proprietari, piccoli commercianti o contadini semi-autonomi, ideologicamente – come mostrato esemplarmente ad esempio da Sylos Labini – risultano più difficilmente identificabili, in quanto non portatori di una ideologia forte e coesa che li renda qualificabili come classe, piuttosto come ceto. In tal senso, la mentalità piccoloborghese emerge in negativo a difesa di quei valori o di quelle istituzioni che la rappresentano quando questi sarebbero o sembrerebbero loro sotto attacco. Attacchi che comporterebbero una messa in discussione dello status acquisito, un loro peggioramento: nel guado tra una condizione economica più affine alla working class, e l’aspirazione a uno stile di vita da upper class, ogni sgretolamento è percepito come insidia da rintuzzare immediatamente. Ecco allora la difesa della famiglia patriarcale, della casa, della chiesa; ma anche la repressione di ogni libertà e autodeterminazione sessuale, un avversione alle organizzazioni partitiche (soprattutto di ispirazione socialista, o peggio) e, più in generale, verso la politica e le sue istituzioni; e, ancora, la ricerca del capro espiatorio spesso individuato nello straniero o nell’altro in generale, anche quale formula auto-assolutoria rispetto ai propri fallimenti, percepiti sempre in un limitato orizzonte individuale, personale e mai inquadrati in una lettura di più ampio respiro. Essere piccoloborghese assurge all’identificazione di una mentalità gretta e infingarda: tendenzialmente conservatrice se non apertamente reazionaria o, addirittura, fascista. Parafrasando Paul Nizan, la piccola-borghesia rappresenterebbe il cane da guardia dell’ordine borghese.

Quel piccoloborghese di Maigret

Il commissario Maigret sembrerebbe dunque incarnare, lungo gli oltre settanta romanzi e i quasi trenta racconti scritti da Simenon, l’idealtipo del piccoloborghese. A partire, ovviamente, dall’essere un poliziotto, dall’essere tutore di un certo ordine che sembra messo in discussione a trecentosessanta gradi, giorno dopo giorno, ma che al contempo sembra refrattario – nella narrazione del suo autore – a quei mutamenti sociali che effettivamente hanno attraversato il Novecento: dalle prime apparizioni agli inizi degli anni Trenta (anche se l’invenzione del commissario risale ad alcune novelle pubblicate nel ’29 sulla rivista Détective) alle ultime, quarant’anni dopo, il mondo di Maigret sembra immobile, immutabile e refrattario a ogni cambiamento, esattamente come ipostatizzato nell’immaginario e nelle speranze di ogni piccoloborghese.

Di abitazioni e ambienti

La cifra prima di questo immobilismo è rappresentato da un lato dalla casa rifugio di boulevard Richard-Lenoir, dall’altro dal suo ufficio al 36 del Quai des Orfèvres. Sono due luoghi che immobilizzano la freccia del tempo, riconducendo a spazialità ogni narrazione e quindi anche a ripetizione degli stessi gesti e delle stesse interazioni.

A casa, pertanto, gli elementi che contribuiscono a creare stabilità sono gli odori che provengono da quella cucina che rappresenta il regno della signora Maigret, le pantofole e la giacca da camera dei giorni di riposo, da indossare con un volume di Dumas in mano, o il bicchierino da bere dopo le cene familiari coi parenti. In ufficio c’è la stufa famigerata, gigantesca nell’immaginario quasi come la corporatura del commissario, sempre accesa, sempre riattizzata dallo stesso; e poi i colleghi nell’ufficio attiguo, con i quali si alterna durante gli interrogatori, anche loro cadenzati secondo riti immobili (la cosiddetta ‘canzoncina’). E se a casa è la stabilità della coppia tradizionale a riempire di senso quegli spazi e le loro ritualità, al 36 di Quai des Orfèvres sono le gerarchie, le ripartizioni dei compiti, le figure sempre uguali che si muovono tra i corridoi, l’‘acquario’ e i vari uffici (del direttore, della scientifica, di colleghi) a dare senso al tutto.

La famiglia Maigret è una coppia rassicurante, senza mai alcun dubbio sulla fedeltà reciproca, finché morte non li separi. Mai che Maigret – a differenza del suo autore – provi non dico un’attrazione, ma financo una minima vibrazione per una delle tante donne, molte piene di fascino e di bellezza, con le quali ha occasione di relazionarsi nelle sue inchieste. Ancor più al di sopra di ogni sospetto la moglie, casalinga devota, interamente presa nell’accudire il loro appartamento – rigorosamente in affitto –, oltre che il commissario. Paziente, sempre presa a fare qualcosa di utile per la casa o per qualcuno, in una ottimizzazione del tempo degna appunto di ogni cultura piccoloborghese. Mancano i figli a completare il quadro idilliaco, ma quasi a rafforzarlo per ossimoro, ecco emergere ogni tanto il ricordo della figlioletta morta prematuramente, per ricordarci che la vita è dolore eppur bisogna andare avanti.

Anche la famiglia del Quai des Orfèvres è rassicurante: i nomi degli ispettori vengono scanditi da tutti con sicurezza, a partire da quelli di Janvier, di Torrance, di Lognon; i collaboratori della scientifica e della balistica hanno un rapporto quasi intimo col nostro ispettore. Il rispetto delle gerarchie è implicito nei loro comportamenti: anche laddove intervengono delle violazioni e delle piccole irregolarità, queste si inquadrano sempre nella conferma e rafforzamento di quei meccanismi e di quegli organigrammi di potere costitutivi della sicurezza del mondo piccoloborghese. Piccole e innocenti trasgressioni, per così dire, che non minano mai l’ordine istituito, semmai intendono rafforzarlo, in barba a quella burocrazia che sembra sempre un intralcio, più che un aiuto alla giustizia. Trasgressioni che appaiono sempre giustificate, pertanto, e giustificabili in nome di un interesse ritenuto evidentemente superiore al rispetto di qualsiasi principio di legalità: il mantenimento appunto dell’ordine istituito.

L’essere fuori posto del piccoloborghese

Da questo ambiente e da questa mentalità piccoloborghese il commissario non riuscirà mai a distaccarsi. In missione preferisce le locande agli alberghi: quando questi incarichi sono destinati a durare mesi tenderà ad affittare piccoli appartamenti già ammobiliati dove soggiornare anche con la moglie; ritiratosi in pensione realizza il sogno di una casettina in riva al fiume, con un po’ di terra attorno. Del resto in missione all’estero – per esempio a New York – si sente fuori luogo, fuori contesto. Come in imbarazzo lo si avverte sempre, nei romanzi o nei racconti, quando deve frequentare hotel di lusso, cene di gala o l’alta società. Più a suo agio nei bistrot o nelle brasserie. È la zona di confort, oltre la quale, sul versante opposto rispetto all’ambiente della high society, troviamo certi locali ambigui, certi night club, spesso in aree malfamate della città. Lì il suo modo di relazionarsi è verticale: non è tanto l’esercizio del potere, che pur rappresenta, a imporre la sua forza, ma prima ancora la propria morale. Nell’apparente accondiscendenza con cui si relaziona ad alcuni sfortunati fuorilegge, o quando si mostra maggiormente comprensivo verso, per esempio una prostituta, è perché intuisce nel loro immaginario il desiderio irrealizzato e difficilmente raggiungibile di condurre una vita normale, ossia piccoloborghese: la sua. In tal senso la morale a prima vista venata di umanismo si trasforma in moralismo piccoloborghese di difesa di un mondo. Il proprio, ovviamente.

L’altro, lo straniero e l’ebreo

Il rapporto con l’altro – e in particolare con lo straniero, ma anche con l’ebreo (per lo meno nelle opere che precedono la seconda guerra mondiale) – diviene così un altro indice della mentalità piccoloborghese con cui agisce e opera il nostro commissario. L’altro è infatti percepito sempre tendenzialmente con sospetto, con diffidenza, sebbene mai (altro tratto piccoloborghese) fino ad esporsi pienamente in manifestazioni xenofobe o antisemite. Molto, in particolare, ci sarebbe da scrivere sui continui rimandi agli ebrei, sull’indulgere nella descrizione del loro carattere, della loro indole, in alcune pagine fin della loro fisiognomia, ma questo ci porterebbe ben oltre i limiti di questo articolo. Del resto se il commissario Maigret è oramai in pensione durante l’occupazione nazista di Parigi (anche se ricompare in servizio nel 1946, lasciando quindi qualche dubbio di ordine cronologico …), è invece assai dibattuto, come noto, l’atteggiamento che tenne lo stesso Simenon durante quel periodo. Sospettato di collaborazionismo, salvo essere poi assolto, il rapporto con gli occupanti tedeschi fu meno lineare di quanto dica la conclusione delle vicende giudiziarie. Quanto meno Simenon fece parte di quella palude di ignavi che, con atteggiamento tipicamente piccoloborghese, non scelsero apertamente da che parte stare, cercando di trarre profitto dai cambiamenti di vento.

Una chiesa, nessun partito 

Da questo punto di vista anche il rapporto con la politica è significativo nella narrazione del commissario Maigret. Così com’è tipico della mentalità piccoloborghese, Maigret non aderisce a nessun partito; non solo, non sembra neppur interessarsi alla politica o farvi riferimento esplicito nelle sue inchieste, se non – nei rari casi in cui traspare direttamente o indirettamente il suo giudizio – per parlarne ovviamente male, per criticarla, per nutrire dubbi sulla reputazione e la dirittura morale di deputati, senatori, consiglieri comunali e quant’altro. Nei romanzi e nei racconti di Maigret la politica è il luogo per antonomasia del malcostume e del malaffare, lontana dalle esigenze e dal sentire immediato della gente: e se i giudizi non escono direttamente dalla bocca del commissario, vi è un silenzio assenso nelle sue non repliche.

La religiosità di sottofondo è un altro dei tratti peculiari della mentalità del nostro commissario. Religioso, ma non troppo, verrebbe da chiosare. Come molti piccoloborghesi la fedeltà alla religione tradizionale – non importa se cattolica, islamica o induista, quindi – si esprime più a livello di un’adesione generica, che in atti concreti. Maigret lo si vede raramente, e per obblighi in un certo senso lavorativi, partecipare a qualche funzione; però spesso ricorda e con nostalgia la sua fanciullesca esperienza di chierichetto. Il che ci riconduce alle sue umili – ma non troppo – origini contadine: il padre era l’amministratore del castello di Saint-Fiacre e delle sue proprietà agricole. E nella nostalgia si mescola sicuramente il ricordo di una fanciullezza e del suo mondo rassicurante, ma anche una religiosità peraltro in netto contrasto con lo stile di vita dell’autore.

Contro il metodo

Ultimo aspetto sul quale vale la pena soffermarsi è il metodo del commissario, vera cartina al tornasole per le nostre argomentazioni. A differenza di altri celebri investigatori – come il logico Sherlock Holmes, col proprio metodo abduttivo, o il razionale Poirot, con le sue ‘celluline grigie’ – Maigret non ha propriamente un metodo. O meglio, il suo è il lasciarsi immergere nel caso, nelle atmosfere; l’identificarsi con le situazioni e i protagonisti delle stesse, soprattutto con la vittima. Una volta giunto alla totale identificazione con quest’ultima, la soluzione è come se emergesse per soprammercato. Il rifiuto della ragione, del rigore logico, dell’argomentazione rigorosa appaiono come la pars destruens di quell’atteggiamento che vede invece come caso estremo l’emozione, il comun sentire, la ‘pancia’ avere il sopravvento nel prendere una decisione. Nella migliore delle ipotesi il cosiddetto ‘buon senso’. Ma, se è il buon senso piccoloborghese che sembra presiedere alla possibilità di un felice svolgimento dell’intrico, occorre ricordare che è proprio il buon senso a erigere le ghigliottine.

 

Il romanzo Mosè e l’archetipo di Freud

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di Ludovico Cantisani

Marx, Nietzsche, Freud: tre colossi del pensiero occidentale degli ultimi due secoli, accomunati dall’applicazione ossessiva di tattiche di svelamento che, pur facendo riferimento all’idea greca di verità nel loro procedere dialettico e nelle loro implicazioni tragiche, hanno aperto la strada alla modernità (non alla contemporaneità). Maestri del sospetto, li ha definiti Paul Ricoeur, con un’espressione giustamente diventata di moda. Capaci di formulare, soprattutto Marx e Freud, un pensiero in sé conchiuso ma capace di cambiare radicalmente le vite di quanti sarebbero entrati in contatto con le loro opere, tanto da prevedere, nel caso del primo, una perfetta continuità tra filosofia e politica, tra pensiero e azione.

Soprattutto dopo che lo stesso Freud ebbe formulato il tanto chiacchierato complesso di Edipo, il Novecento si affrettò nella lotta contro i padri: e in quel grandioso atto mancato che furono tutti i tentati parricidi del Novecento, gli stessi tre maestri del sospetto non uscirono indenni. Preso atto del parziale fallimento delle teorie marxiane, della loro non totale aderenza alla realtà e alla Storia per come si era sviluppata dal 1883 della morte del filosofo fino al 1917 della Rivoluzione d’Ottobre, già negli anni venti furono molteplici i tentativi di controanalizzare Marx con i suoi stessi strumenti, a volte nell’esplicito intento di scrivere una nuova versione, ancora più “scientifica”, del Capitale. In maniera identica seppure in contesti completamente diversi, si tentò di muovere contro Nietzsche le sue stesse armi, il suo stesso martellare, e in quest’impresa si è affaccendata la più contraddittoria sequela di filosofi del Novecento, da Heidegger a Derrida, tutti impegnati a denunciare quanto Nietzsche fosse irretito da tutti quei sistemi di pensiero – il platonismo, l’immaginario giudaico-cristiano, l’illuminismo stesso in un certo qual modo – che aveva tentato di confutare. A psicoanalizzare Freud fu soprattutto certo “fuoco amico”: discepoli più o meno ortodossi della psicoanalisi, che, partendo dalla conoscenza personale del maestro ove possibile, sennò direttamente da quanto della sua personalità affiorava dai testi, provarono ad applicare su Freud le sue stesse teorie. Ma la psicoanalisi si fondava sopra un consapevole paradosso: ogni psicoanalista diventava tale dopo un processo di analisi presso un professionista più maturo, ma Freud, l’analista primo, nessuno lo aveva psicoanalizzato. E a Freud andava benissimo così. Già in tempi non sospetti, quando nulla lasciava presagire l’immensa fama mondiale che lo avrebbe circondato negli ultimi quattro decenni della sua vita, era solito bruciare tutte le carte e tutti i suoi appunti preparatori, non appena terminava uno scritto. Nel 1924 Freud mandò alle stampe una sua succinta Autobiografia; tutti i suoi saggi e in modo particolare l’Interpretazione dei sogni sono ricchi di riferimenti personali, di “autoanalisi”, che a volte possono sembrare delle vere e proprie confessioni; ma in simili contesti Freud aveva un pieno e totale controllo di ciò che voleva filtrasse di sé. Arrivò a proibire a uno scrittore relativamente celebre in quegli anni, Arnold Zweig, di scrivere la sua biografia, e quest’atteggiamento venne preservato da Freud fino agli ultimi giorni della sua vita, fino a quell’esilio inglese a cui il cancro lo strappò il 23 settembre 1939.

Sono tanti i punti oscuri della vita di Freud, le zone d’ombra, forse molti più di altre biografie novecentesche: ma per una figura passata alla storia come il fondatore della presunta scienza dell’inconscio, questo è normale. Tra le numerosissime questioni in sospeso, che nessuna biografia o ricostruzione aneddotica saprà sviscerare fino in fondo, c’è il suo complesso rapporto con la religione. Nei primi paragrafi della sua Autobiografia Freud scrive che “i miei genitori erano ebrei, anch’io sono rimasto ebreo”, ma sono note le sue affermazioni sulla religione nel suo complesso, a prescindere dalle singole confessioni: una sorta di nevrosi collettiva, una fisiologica fase di passaggio nell’evoluzione dell’umanità destinata presto o tardi a scomparire. Gli effetti della secolarizzazione già iniziavano a farsi evidenti, in quella porzione di Novecento che Freud si trovò a vivere, e il patriarca della psicoanalisi con crescente sicurezza argomentava che l’origine della religione andasse ricondotta a una sovrapposizione tra la super-idealizzazione della figura paterna, la ricerca di un legame invisibile che cementasse lo spirito di gruppo delle prime comunità umane, un tentativo di esorcizzare le difficoltà della vita quotidiana grazie al riferimento a un livello metastorico di esistenza. “Nient’altro che un insieme di processi psicologici proiettati nel mondo esterno”, Freud definiva la religione in uno dei suoi primi contributi espliciti sull’argomento, nella Psicopatologia della vita quotidiana del 1904, e simili affermazioni vennero reiterate ne Gli atti ossessivi e le pratiche religiose, nello studio su Leonardo da Vinci, in Totem e Tabù, in Psicologia di gruppo e nel particolarmente controverso L’avvenire di un’illusione, che sembrava la sua affermazione definitiva sull’argomento. Il suo ultimo libro cambiò completamente le carte in tavola.

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Freud era nato in una famiglia di origini ebraiche e queste origini non le ripudiò mai, ma il contesto in cui crebbe era assolutamente laico. I genitori di Freud erano sufficientemente di ampie vedute da accettare il fatto che il piccolo Sigmund venisse cresciuto da una balia cattolica, che per farlo stare tranquillo ogni tanto gli raccontava di un Inferno dove Dio spediva i bambini cattivi, e che ogni tanto lo portava in chiesa: ma la balia finì per essere licenziata dalla famiglia Freud dopo un maldestro tentativo di furto, né il futuro fondatore della psicoanalisi attribuì mai grande importanza a queste reminiscenze infantili. Alla sua identità ebraica tout court Freud invece attribuiva le origini di alcun tratti del suo carattere che gli risultarono indispensabili per affrontare le reazioni moralmente scandalizzate o scientificamente polemiche che la teoria della psicoanalisi, dall’Interpretazione dei sogni in poi, non mancò di suscitare: “devo solo alla mia natura di ebreo le due caratteristiche che mi sono rivelate indispensabili nel duro percorso della mia vita: in quanto ebreo, ho constatato di essere libero da molti dei pregiudizi che limitano, negli altri, l’uso dell’intelletto, e sempre in quanto ebreo, sono pronto a mettermi all’opposizione”, disse pubblicamente nel 1926, in occasione delle celebrazioni per il suo settantesimo compleanno.

Come altri ebrei della sua e delle successive generazioni, Sigmund Freud prese veramente atto delle sue origini ebraiche solo come effetto collaterale dell’antisemitismo. “L’Università, alla quale mi iscrissi nel 1873, mi procurò all’inizio forti delusioni”, ricordò nella sua Autobiografia. “Prima di tutto mi feriva l’idea che per il fatto di essere ebreo dovessi sentirmi inferiore e straniero rispetto agli altri. Rifiutavo assolutamente l’idea d’inferiorità. Non ho mai capito perché avrei dovuto vergognarmi della mia origine, o, come già allora si cominciava a dire, della mia razza. Rinunciai anche, senza gran dispiacere, alla nazionalità, che mi veniva negata. Pensavo che un lavoratore instancabile, pur privo di una identità nazionale, avrebbe trovato comunque un posticino all’interno dell’umanità”. Ateo per natura, mai attraversato da inquietudini metafisiche che invece rappresentavano il pane quotidiano del discepolo-rivale Carl Gustav Jung, non per nulla figlio di un pastore protestante, tutta la teoria della psicoanalisi fondata e sviluppata da Freud era improntata su un radicale agnosticismo. Via via che i suoi interessi si spostavano dalla psiche e dalle nevrosi del singolo a uno sguardo più ampio e diacronico sulla specie umana tutta, Freud si trovava sempre più spesso a riflettere con fare archeologico sull’origine della civiltà, e sui rimossi, i sacrifici e le rinunce pulsionali che essa aveva comportato. Ma anche con l’evoluzione della civiltà “la debolezza dell’uomo rimane, e con essa il desiderio di un padre e quindi gli dèi. Gli dèi conservano la loro triplice funzione: esorcizzare i terrori della natura, riconciliare l’uomo con la crudeltà del destino, soprattutto quale si rivela nella morte, e compensare le sofferenze e le privazioni che la vita civile comunitaria ha imposto all’uomo”.

Con Totem e tabù del 1913, un libro frutto anche della sua fascinazione per Frazer, Sigmund Freud inserì definitivamente nel suo immaginario anche la teoria dell’orda primordiale: per come la formulò una volta qualche anno più tardi, “Dio Padre ha camminato un tempo sulla terra in sembianza corporea, esercitando la sua sovranità come capo della primitiva orda umana, finché i suoi figli si sono uniti per ucciderlo. È risultato poi che questo delitto di liberazione e le conseguenti reazioni provocarono la comparsa dei primi vincoli sociali, delle restrizioni morali fondamentali e della più antica forma di religione, il totemismo. Le religioni successive conservano questo contenuto; da un lato si preoccupano di obliterare le tracce di questo delitto o di espiarlo fornendo altre soluzioni alla lotta tra padre e figli, mentre dall’altro non possono esimersi dal ripetere l’eliminazione del padre”. Se James Frazer aveva costruito tutto il suo Ramo d’oro completamente bypassando una considerazione ovvia, ovvero che anche la storia di Cristo per come è raccontata dai Vangeli e dalla dottrina cristiana poteva inserirsi in quella genealogia di miti e di riti sacrificali raccolta nella sua immensa opera antropologica, Freud non aveva problemi a leggere nella passione di Cristo sul Golgota l’ennesima, forse l’ultima rielaborazione, e al tempo stesso un ribaltamento, di quel sacrificio primordiale compiuto dai figli ai danni del padre, poi divinizzato. (Da quest’analisi da lui giudicata clamorosamente sbagliata e clamorosamente vicina al vero avrebbe mosso i suoi passi René Girard, ma questa è un’altra storia). Le teorie di Freud sulla religione arrivarono poi a compimento con L’avvenire di un’illusione, datata 1927: in pagine brillanti e molto profonde, Freud spiegava il fascino rivestito dalla religione facendo riferimento al “sentimento oceanico” di appartenenza assoluta al mondo e all’eterno, ma ripeteva ancora una volta che la religione andava intesa alla stregua della “nevrosi ossessiva universale dell’umanità; come quella del bambino, essa ha tratto origine dal complesso edipico, dalla relazione paterna”.

Questa successione di giudizi granitici sull’esperienza religiosa ha un’unica, significativa interruzione: Il Mosè di Michelangelo, un breve testo del 1914 che rappresenta un’approfondita ecfrasi della statua custodita nella chiesa romana di san Pietro in Vincoli, e ammirata per la prima volta da Freud nel corso del suo viaggio romano del 1901. Nel testo sul Mosè di Michelangelo c’è un intento analitico e in parte polemico – Freud contesta l’interpretazione usuale che vorrebbe il patriarca biblico rappresentato da Michelangelo nel momento in cui, irato dalla scoperta del vitello d’oro, è in procinto di spezzare le prime Tavole della Legge; se mai vi vede il momento in cui Mosè si costringe all’autocontrollo, nonostante la rabbia e la delusione che cova interiormente – ma non si può parlare, evidentemente, di psicoanalisi strictu sensu. Il Mosè di Michelangelo di Freud è peraltro un testo curiosamente privo dell’usuale polemica antireligiosa, se mai è spia di un’attenta conoscenza delle Scritture da parte del patriarca della psicoanalisi; e l’attenzione che Freud dispiega nel descrivere fin nelle più minute volute la scultura di Michelangelo sembra tradire una sorta di identificazione. Che Freud si rispecchiasse in quel Mosè deluso dai suoi compagni di esodo, dal popolo che lui stesso aveva liberato dall’Egitto? L’anno di pubblicazione del breve saggio è il 1914, il dissidio con Jung è tradizionalmente datato all’anno precedente, a seguito della pubblicazione de La libido: simboli e trasformazioni, un testo che contraddiceva gran parte delle teorie freudiane sul principio di piacere. Che nel “contrasto tra la calma esteriore e l’emozione interiore” che riconosceva nella statua michelangiolesca si dovesse leggere un riferimento allo stato d’animo di Freud stesso, “tradito” e abbandonato proprio da colui che un tempo immaginava suo successore a capo della psicoanalisi?

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Verso la metà degli anni trenta si diffonde una sorprendente voce nei circoli psicoanalitici e intellettuali d’Europa e degli Stati Uniti: l’anziano Sigmund Freud, che ha faticosamente compiuto ottant’anni il 6 maggio 1936, sarebbe al lavoro su una grandiosa psicoanalisi della Bibbia in due volumi. Svariati editori si mettono in contatto con lui promettendo generosi anticipi pur di avere l’esclusiva sulla pubblicazione. La voce è sbagliata, ma non del tutto infondata: sin dal 1934, Freud è al lavoro su un’opera che ha al suo centro Mosè, ma per svariati motivi ritiene assolutamente inopportuno pubblicarla. Nei confronti di quest’opera Freud teneva un atteggiamento contraddittorio, anch’esso analizzabile secondo canoni freudiani: pochissime persone al mondo l’avevano letta – la figlia Anna, il figlio Martin ed Ernst Kris, dice in una lettera – ma a molti suoi corrispondenti ne parlava come il lavoro che più lo aveva interessato, nell’ultimo periodo, pur adducendo molteplici motivazioni per la scelta di lasciarlo inedito. “Manca alla mia teoria la base storica indispensabile e siccome le mie conclusioni, che contengono una confutazione della mitologia nazionale ebraica, mi sembrano importantissime, non sono propenso a sottoporle a una facile critica da parte degli avversari”, scrisse una volta. “Gli intrecci storici non sono il mio forte, lasciamoli a Thomas Mann”, pare abbia spiegato a Max Eitingon, tra i più importanti psicoanalisti del periodo, suo allievo diretto.

Tra i motivi che portarono Freud ad esitare quasi quattro anni prima di iniziare a pubblicare i suoi studi mosaici, non si può sottovalutare il periodo storico in cui si trovò a vivere i suoi ultimi anni: dal 1933 Adolf Hitler era in potere in Germania, e tra i primi libri a finire al rogo c’erano stati proprio gli studi di Freud e di altri psicoanalisti della sua cerchia, doppiamente colpevoli sia per il contenuto sia per le origini ebraiche del fondatore della disciplina. In un certo senso, l’antisemitismo, da lui conosciuto ai tempi dell’università e di nuovo portato alla riscossa da Hitler, aveva rappresentato proprio il punto di partenza per l’interesse di Freud verso le origini dell’ebraismo. Una delle prime volte che Freud parlò dei suoi studi su Mosè fu in una lettera del 1934 al già citato scrittore e amico Arnold Zweig: “dati i recenti decreti viene spontaneo chiedersi di nuovo come mai gli Ebrei son diventati ciò che sono e perché si sono tirati addosso un odio così inestinguibile. Ben presto ho scoperto una formula adatta al caso: è stato Mosè a creare gli ebrei”. Nella stessa lettera, spiegava meglio le ragioni che sin dall’inizio lo facevano desistere dall’idea di rendere pubbliche le sue teorie su Mosè: in Austria, scrive Freud a Zweig, “viviamo in un’atmosfera di rigida fede cattolica”, e uno dei più importanti uomini politici e religiosi del paese, padre Schmidt, si interessava a sua volta di etnologia e non aveva mai nascosto il proprio disprezzo per la psicoanalisi ed il suo fondatore. Pubblicando il libro su Mosè, Freud temeva di far bandire l’analisi da Vienna: “se il pericolo riguardasse me solo, la cosa mi impressionerebbe poco, ma privare i membri di Vienna dei loro mezzi di sussistenza comporta una responsabilità troppo grande. Non è l’occasione buona per il martirio”. All’obiezione di un altro interlocutore che la pubblicazione de L’avvenire di un’illusione di pochi anni prima non aveva provocato alcun danno alla psicoanalisi viennese Freud tergiversava. Al di là di tutto, non si sentiva ancora sicuro della sua tesi su Mosè.

Ma qual era questa sconvolgente rivelazione che Freud non voleva rivelare a nessuno, nemmeno per lettera? L’intuizione che aveva avuto ribaltava in un certo senso l’intero testo biblico: Mosè era egiziano, un egiziano fedele al culto monoteista di Aton che, dopo la caduta del faraone Akhenaton e il ripristino del tradizionale politeismo si era messo a capo di un gruppo di esuli trasmettendo loro il monoteismo; questi esuli, i futuri ebrei, avrebbero a un certo punto ucciso Mosè per poi sacralizzarlo, come nella teoria dell’orda primitiva, concependo parallelamente anche l’idea messianica del ritorno futuro di un liberatore; dal senso di colpa per l’uccisione di Mosè sarebbe nata così la religione ebraica, mescolanza tra l’immaginario tradizionale semitico e quel breve momento di monoteismo che l’Egitto effettivamente ebbe nel XIV secolo a.C.

Quando il libro Mosè e il monoteismo venne alla fine pubblicato, nel 1938, anticipato dall’apparizione di due capitoli sulla rivista ufficiale della psicoanalisi Imago sul finire dell’anno precedente, Freud si sentì in obbligo di aprire il primo capitolo con una frase che riassumeva tutto il suo dissidio interiore: “privare un popolo dell’uomo che esso celebra come il più grande dei suoi figli non è qualcosa che si compie volentieri o con facilità, tanto più quando si appartiene a quel popolo, ma nulla ci deve indurre a sottomettere la verità a presunti interessi nazionali, se dal chiarimento di uno stato di cose possiamo aspettarci un progresso della nostra conoscenza”. Forte di questa persuasione Freud argomentava approfonditamente le sue teorie, che in quel momento sembravano ulteriormente suffragate da un particolare ritrovamento archeologico nello scavo del tempio di Aton ad Eliopoli. Come Freud prevedeva, non tardarono le critiche anche pesanti sia da parte di egittologi e altri storici, sia da parte di correligionari e cattolici: ma la morte nel settembre 1939 provocata da quel cancro alla mascella che tanto a lungo lo aveva accompagnato gli impedì di replicare alle obiezioni riaffermando con vigore le sue teorie, diversamente da quanto accaduto ai tempi di Totem e Tabù.

Il saggio L’uomo Mosè e il monoteismo, nella sua forma canonica pubblicata per la prima volta ad Amsterdam nel 1938, si componeva di tre capitoli, che sembravano dare la parola definitiva di Freud sull’argomento. Nello stesso 1938 in cui Mosè e il monoteismo era uscito, Adolf Hitler con l’Anschluss aveva annesso l’Austria alla Germania, estendendo anche lì tutti i provvedimenti antisemiti in vigore nel Reich e costringendo la famiglia Freud alla fuga in Inghilterra, dove il fondatore della psicoanalisi era stato da poco nominato membro della Royal Academy. La fuga dal nazismo e la di poco successiva morte di Freud fecero a lungo sottovalutare un dato che tutti i principali interlocutori epistolari del patriarca della psicoanalisi conoscevano benissimo: gli studi su Mosè avevano preso una prima forma come un vero e proprio “romanzo storico”, e contrariamente al suo solito, non aveva distrutto il manoscritto della sua prima stesura. Dopo la pubblicazione francese di un’importante edizione critica a cura di Thomas Gindele, Mosè. Un romanzo storico è stato recentemente portato in Italia dalla Castelvecchi: quest’inedito freudiano forse non dà nessun particolare ragguaglio in più circa le teorie di Freud su Mosè, ma rappresenta un territorio più unico che raro da cui passare per entrare nel cuore dell’immaginario freudiano.

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In una delle sue ultime lettere a Lou Andreas-Salomé, Freud le aveva confidato che Mosè rappresentava per lui un problema che lo aveva accompagnato per la maggior parte della sua vita; e tentare per la prima volta un’esposizione simil-romanzesca dopo un’importante carriera letteraria come saggista puro e duro rappresentava senza dubbio un appassionato tentativo di catarsi. Come diceva Roberto Calasso in un’intervista con Doriano Fasoli, il fondo della psicoanalisi freudiano è più mitopoietico che scientifico: se per gran parte della sua vita adulta Freud si era sforzato per costruire e preservare, per dirla con Hillman, il mito dell’analisi, con L’uomo Mosè e il monoteismo la capacità mitopoietica freudiana tutt’a un tratto si era potuta fare esplicita, nel raccontare il contromito di un patriarca presentato come una verità riemersa…

Di quest’aspetto mitopoietico del pensiero freudiano, l’incompiuto Mosè. Un romanzo storico mostrava tutta la portata, fino al paradosso. “Così come l’unione sessuale tra cavallo e asino dà origine a due ibridi diversi, al mulo e al bardotto, anche la mescolanza tra storia e invenzione libera fa nascere prodotti diversi, i quali, sotto la denominazione comune di ‘romanzo storico’, vogliono essere apprezzati sia come opere di storie, sia come romanzi”, era il grottesco esordio del testo, un’annotazione datata agosto 1934. “La mia intenzione più immediata era di acquisire una conoscenza della persona del Mosè, il mio scopo più lontano invece di contribuire in questo modo alla soluzione di un problema ancora oggi attuale, che può essere nominato solo più avanti” – ça va sans dire, l’antisemitismo e il suo contraltare, l’“orgogliosa consapevolezza”, da parte degli ebrei, di essere il popolo eletto. Freud prende spunto da due caratteristiche particolarmente realistiche della descrizione che di Mosè fa il testo biblico – l’irascibilità e la balbuzie – per dedurre, in maniera un po’ apodittica, che l’uomo Mosè dovette essere esistito davvero, al tempo dei faraoni; poi Freud affronta il racconto della infanzia di Mosè, che ribalta la tradizionale leggenda della nascita degli eroi per com’era stata individuata da Otto Rank “in un trattato scritto sotto la mia influenza”, per concludere che “forse la leggenda ha ragione ad elevare Mosè a nobile egizio”.

Il punto di partenza, e in generale tutta la trattazione di Mosè. Un romanzo storico coincide a grandi linee con le tesi poi espresse nei tre saggi de L’uomo Mosè: ciò che cambia, da parte di Freud, è lo stile, tratto in cui l’analista era stato silenzioso campione, nel suo Romanzo storico Freud è al tempo stesso quanto mai sicuro delle sue affermazioni su Mosè, e quanto mai dubitativo nel formularle. “Cosa avrebbe potuto spingerlo, lui nobile egiziano, forse principe, sacerdote, ufficiale o più di tutto questo contemporaneamente, a prendersi cura di un branco di miserabili profughi stranieri, a insegnare loro una nuova religione, a fargli lasciare, con lui alla testa, la sua patria?” – forse, solo l’ambizione, il desiderio miltoniano di regnare su una schiera di inermi, anziché essere l’ultimo dei cortigiani. In queste righe, Freud è ancora a metà strada tra l’analista e il romanziere, che dopo aver scelto una trama di fondo ha difficoltà a far coincidere i caratteri e a dare le giuste motivazioni ai personaggi. Con uno sguardo nuovo, Freud rilegge la Bibbia senza avere timore a confrontarla con altre narrazioni mitiche dell’antichità, ma, al tempo stesso, senza esitare nel riconoscerne le unicità: quanto accade attorno al Sinai è ai suoi occhi un altro unicum, “ciò che sembra così nuovo e strano è l’idea che un dio scelga un popolo come una persona sceglie un oggetto d’amore”, con tanto di patto e di contrattazione.

L’operazione che Freud compie – prova a compiere? Fallisce a compiere? – con L’uomo Mosè e il monoteismo, sia nella sua variante ufficiale sia nella sua versione romanzesca recentemente riportata alla luce, si pone a sua volta in un singolare rapporto con le tradizioni del pensiero ebraico. Con Mosè e il monoteismo, argomenta Massimo Cacciari nel suo Icone della legge, Freud “non si limita affatto ad aggiungere un nuovo testo alla tradizione della letteratura haggadica, né ad interrogarne dall’interno alcuni elementi soltanto, bensì, esattamente come in Kafka, ne critica la possibilità stessa”. Col suo ultimo libro Freud non vuole più intraprendere “l’esodo… della tradizione, ma da essa. Freud vuole perderla – o meglio: egli mostra come la forma di quella tradizione coincida con lo smarrimento del Testo, con lo sprofondamento dell’Origine – come essa si sviluppi in tale dimenticanza”. È così che il suo gesto ermeneutico risulta ancor “più che iconoclasta”, quasi arbitrario: “se vi è scrittura dominata dall’impazienza, se vi è hybris interpretante, questa è proprio del Mosè di Freud”, che mescola qualche indizio scovato tra le Sacre Scritture, alcune prove archeologiche non cogenti e uno schema generale ripreso dallo stesso Totem e Tabù per rovesciare la tradizione del suo stesso popolo. Ma in fondo, cosa vi è di più novecentesco di questo? In cosa quest’ultimo azzardo di Freud differisce dai coevi esperimenti del Surrealismo, dalla di poco precedente parodia omerica firmata da Joyce?

“A nessuno le teorie di Freud si applicano meglio che a Freud stesso”, scrisse lapidario Roberto Calasso ne Il libro di tutti i libri. “Prima di essere scienza, la psicoanalisi è autobiografia. Questo non ne limita irrimediabilmente la portata, perché la psiche di Freud era vasta abbastanza da ospitarne molte altre, anche se non tutte. E a nessun libro di Freud la psicoanalisi si applica meglio che a L’uomo Mosè e la religione monoteistica”. “Obbedendo ciecamente al suo spirito mitopoietico, Freud temeva innanzitutto di colpire il popolo di cui egli stesso era figlio. E di farlo ricostruendo la storia di colui che di quel popolo era stato il padre. Complicati meandri. Freud stesso, secondo la conseguenzialità mitica, assumeva il ruolo di Mosè e dell’assassino di Mosè. Un doppio ruolo”. “Tutta la vicenda di Mosè, nella visione di Freud, è una storia di rimozioni, latenze, ritorni del rimosso. Ma la più importante rimozione è in Freud stesso rispetto alla Bibbia. E così imponente che i suoi numerosi commentatori di oggi non sembrano notarla: in tutto il Mosè, Freud ignora la storia precedente degli Ebrei, da Noè ad Abramo, a Giuseppe”. “La novità del Mosè stava innanzitutto nello stabilire una connessione necessaria fra l’uccisione e la Legge. Altrimenti la dottrina non avrebbe mai ottenuto il ‘privilegio di liberarsi dalla coazione del pensiero logico’. A causa di questo ‘privilegio’ gli Ebrei erano esposti a un ‘odio perenne’, in quanto ponevano sotto gli occhi di tutti ciò che avevano compiuto, ma non avevano alcuna intenzione di rammentare. E fu un audace artificio di Freud far passare tutto questo, che la Bibbia non dice, come fondamento della Bibbia stessa”. Also sprach Calasso.

Forse, per comprendere appieno la portata e la contraddizione incarnata da quella che, al di là del confronto tra le stesure, rimase l’ultima opera concepita da Freud, è errato soffermarsi troppo sul contesto storico – per quella che era la posizione degli ebrei alla fine degli anni trenta la pubblicazione di un’opera simile era, per ammissione stessa di Freud, quantomai inclemente. Forse, per capire davvero a fondo ciò che Freud tentò, nell’ultimo balzo del suo pensiero, piuttosto che psicoanalizzare con le sue stesse armi il fondatore della psicoanalisi conviene rivolgersi all’ultima opera di Freud prendendo in prestito un concetto-cardine dalle teorie di colui che fu, conseguentemente, il suo discepolo prediletto e il più atroce rivale. Mosè, per Freud, non è nient’altro che un archetipo: un vero e proprio predecessore, la cui vita strutturalmente anticipava certi momenti centrali dell’esistenza del fondatore della psicoanalisi. La stessa questione che divise Freud e Jung può essere ridotta – e forse non banalizzata – a una contrapposizione tra un monoteismo analitico, e un rinnovato politeismo, quando si scontrarono sulla preminenza da dare al principio di piacere. Nella rabbia feroce di Mosè dopo la scoperta del vitello d’oro non è poi arbitrario leggere la delusione di Freud per la perdita di Jung, di Ferenczi e di altri suoi discepoli della prima ora, come forse lasciava già intravedere, in quella data fatidica che fu il 1914, l’insistenza con cui descriveva la gravitas e l’autocontrollo del Mosè michelangiolesco, nel saggio dedicato alla scultura, come già dicevamo. Quest’interpretazione, quest’interpretazione dell’interpretatore può forse adesso dotarsi di un suo corollario: se davvero Freud si identificava in Mosè, se davvero Mosè era il suo archetipo, le tavole della Legge voluta da Dio, spezzate e poi riscritte, coinciderebbero nel Novecento con la psicoanalisi stessa, nella sua prima, freudiana formulazione. E il carattere del Mosè biblico, capopopolo giusto ma iroso, balbuziente ma fermissimo nelle sue decisioni, getterebbe ombre e luci sulla personalità dello stesso Freud. Al tempo stesso liberatore e legislatore – non fu questa la posizione anche di Freud, e rispetto al pensiero del Novecento tutto? Un post-nichilista come Heidegger terminò la sua cavalcata nel pensiero occidentale concludendo che ormai solo un dio ci può salvare, un post-marxista come Horkheimer andò inseguendo la nostalgia del Totalmente Altro: Sigmund Freud, ultimo dei maestri del sospetto e per certi versi ultimo dell’Occidente a tentare qualcosa di radicalmente nuovo in fatto di pensiero, non capitolò davanti all’archetipo biblico ma lo assunse dentro di sé, in un testo pluricomposito tanto arbitrario quanto sublime, tanto disarmante quanto profondo, in un ultimo corpo-a-corpo con l’immaginario occidentale che lo portava definitivamente addentro ogni pudenda Origo. O come disse il Karl Kraus di Benjamin – lo stesso Kraus a cui si dovette anche la più lapidaria confutazione della psicoanalisi: Ursprung ist das Ziel — l’Origine è la Meta.

La poesia non dice niente

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di Daniele Barbieri

 

Cosa ci importa in fondo di cosa dice la poesia? Non che sia irrilevante, ma non dobbiamo commettere l’errore di valutare quello che dice la poesia come valutiamo quello che dice la prosa. La musica non dice nulla, ma noi amiamo la musica. Amiamo la musica perché i suoi andamenti – senza dire alcunché – rimandano ad altri andamenti, musicali e non, e li ricombinano e in questo modo li trasformano, così che il mondo prima e dopo la musica non è lo stesso, perché le relazioni tra le forme e le associazioni tra loro sono cambiate. La poesia sembrerebbe fare la stessa cosa, e tuttavia la poesia, essendo fatta di parole, dice. Ma il dire della poesia sembra essere unicamente il modo di generare un’ulteriore dimensione di forme che si mettono in relazione con forme, rimandandole e ricombinandole, e così facendo trasformandole, in modo che il mondo prima e dopo la poesia non è lo stesso.

Quello che la prosa dice configura direttamente il mondo, pretendendo di dargli direttamente forma. La poesia gioca a fare finta di fare la stessa cosa, ma quello che conta è il gioco, non la forma dichiarata. Persino le eventuali grandi verità che la poesia esprimerebbe contano più per l’effetto “espressione di grande verità” che per quanto pretestuosamente ci insegnerebbero. La poesia, insomma, è una musica del senso, oltre che del suono, in cui il senso risuona con il suono e con il mondo. La ricchezza del senso permette alla poesia di recuperare il gap che avrebbe nei confronti della musica, la cui ricchezza sul piano del suono è indubbiamente maggiore.

Leggo su Nazione Indiana le parole che Nadia Agustoni dedica a Cristina Annino. Mi percorre un brivido. Ma non è per la mancata scoperta di chi sia cacciatore e chi cacciato, non è per il febbraio di pianura, né perché tutto sia un libro – in sé, un’antica banalità. È che l’andamento delle parole che esprimono queste finte verità richiama collegamenti e relazioni ben più significative. È che questa commistione di profetico e affettivo, con il richiamo alle parole della Annino, questa tonalità del suono e del senso arriva ad attraversarmi lasciando un segno profondo quanto nessuna delle affermazioni contenute in questi versi potrebbe mai fare.

Cosa mi importa in fondo di cosa questi versi dicono? La dinamica con cui lo dicono è in verità assai più significativa e coinvolgente. Estremizzando un poco, ma forse nemmeno troppo, potremmo dire che come la musica è una modulazione costruttiva sull’andamento dei suoni, la poesia è una modulazione costruttiva sull’andamento delle parole, per il loro suono così come per il loro senso, giacché le parole sono fatte di ambedue le componenti. Ridurre i versi a quello che dicono è come ridurre le frasi della musica a quello che dicono: niente.

Vent’anni di Nazione Indiana. Si comincia a Parigi

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di Redazione

Ebbene sì: questo sito, Nazione Indiana, compie vent’anni (2003-2023) e inizia a festeggiarli a Parigi il 23 e 24 marzo prossimi, con una due-giorni tra Maison de la Poésie, Université Paris Nanterre e Librairie Tour de Babel. Vent’anni di vita per una creatura del web sono un tempo immenso, impressionante? Forse sì, in apparenza. Ma, in sostanza e molto banalmente, sono solo e semplicemente tempo, perché anche Internet vive nel tempo, si evolve, ha una storia. E così, per paradosso, il mezzo di comunicazione, tra i recenti, più soggiogato dal presentismo, dall’esserci qui e ora, ogni volta che agisce o scrive o si esprime alimenta già un archivio, una memoria di sé e degli altri.

Noi in NI siamo consapevoli di avere una storia alle spalle, e non a caso la valorizziamo in home con un oggetto del quale andiamo molto fieri (la macchina del tempo). Detto questo, gli appuntamenti di Parigi e gli altri che verranno in questo 2023 del ventennale non ci serviranno solo per fare il punto e guardare indietro. Perché l’aspetto forse davvero sorprendente dell’avere compiuto vent’anni è scoprirsi ancora vitali, seppure cambiati in una Rete che non è più la stessa, e ancora capaci di progettare e pensare futuro.

Dunque, in attesa del 2043, data in cui un’intelligenza artificiale festeggerà (bontà sua) i quarant’anni di Nazione Indiana, ecco il dettaglio del programma parigino:

Giovedì 23 marzo

Presso la Maison de la Poésie, alle 20.00, cinque poeti di Nazione Indiana, nati tra il 1967 e il 1981, incontreranno i poeti Benoît Casas e Martin Rueff. Quasi tutti i poeti italiani presenti sono già stati pubblicati in Francia e sono essi stessi traduttori dal francese. Casas e Rueff, invece, traducono dall’italiano e conoscono bene la poesia italiana contemporanea. La serata sarà dedicata alla lettura di testi in lingua originale e in traduzione.

Venerdì 24 marzo

La mattina e il pomeriggio, il Centre de Recherches Italiennes (CRIX) dell’Università di Parigi Nanterre accoglierà redattrici e redattori di Nazione Indiana per una giornata riflessiva, creativa e festiva di scambi, letture, performance. Si ripercorrerà la storia del blog rilanciando in varie direzioni, con dei focus su alcuni spazi cari a NI: la narrazione della storia, la traduzione, la multimedialità.

In lingua italiana. In presenza e da remoto.

Venerdì sera in libreria…

Si conclude la sera del 24, alle 20.00: le autrici e gli autori di Nazione Indiana incontreranno i lettori presso la libreria Tour de Babel, in rue du Roi de Sicile 10.

Immagine tratta dal sito della libreria Tour de Babel

Materiali

Resoconto per immagini

1 maggio 2023. Abbiamo deciso di far concorrenza all’account parody di Internet Explorer. Loro annunciano l’elezione di Obama 15 anni dopo? Noi pubblichiamo le foto della festa parigina un mese e mezzo dopo. Tra un anno riveleremo anche cosa ci siamo detti, perché tutto siamo stati tranne che muti.

La serata alla Maison de la Poésie

 La giornata a Nanterre

La serata in libreria

Teoria del complotto e teoria del candore

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di Daniele Muriano

Definisco teoria del candore un sistema di affermazioni generiche, e per questo indimostrabili, sulla “natura” di un qualcosa, spesso un soggetto istituzionale o una superficie del potere, che viene descritto come moralmente ineccepibile, buono negli scopi e giusto nei metodi, per definizione e in maniera che si vorrebbe inconfutabile. Giusto un paio di esempi:

Come sappiamo, negli anni ’50 l’industria del tabacco inquinò la ricerca scientifica, finanziando studi farsa o decisamente fuorvianti, per evitare che la gente sapesse la verità sulla cancerogenesi del fumo. Il TIRC, un comitato per la ricerca finanziato dai diretti interessati, era la fucina propagandistica costruita per questo scopo. L’opinione pubblica era quindi divisa. C’era chi affermava che i potenti di turno manomettevano nell’ombra la ricerca scientifica, e c’era chi rigettava questa “ipotesi complottista” facendo leva sulla buona fede indimostrabile di quelle multinazionali. Fiorivano teorie del candore, secondo cui nessuno metterebbe in commercio un prodotto nella consapevolezza che provoca il cancro, perché semplicemente non sarebbe pensabile. In un paginone che nel ’54 apparve su 400 quotidiani statunitensi, firmato dai vertici di quelle aziende, il cosiddetto Frank statement to cigarette smokers, la teoria del candore assunse aspetti quasi istituzionali. A un certo punto, il documento dava per scontato “l’interesse per la salute pubblica come responsabilità fondamentale, superiore a qualunque considerazione” da parte delle aziende, perché il contrario non sarebbe pensabile. Anche le ricerche scientifiche finanziate dal TIRC dovevano essere utili e oneste, in quanto la ricerca scientifica in generale lo è, e dritti su questa strada.

La teoria del candore è un sottoprodotto arbitrario della presunzione di innocenza. In uno stato di diritto chiunque è innocente finché la sua colpevolezza non viene dimostrata (entro certi limiti e certe regole). L’innocenza è tuttavia una qualità neutrale, e non va confusa con l’innocenza nel senso del “carattere di ciò che è innocente per mancanza di malizia” (dizionario Gabrielli). Una teoria del candore attiva in noi l’immaginario giuridico della democrazia, cioè lo sfondo ideale sul quale ci stagliamo come cittadini. Abilmente trasforma in una giravolta retorica l’innocenza presunta in candore. Fa leva di solito su affermazioni generiche quanto all’umanità, al bene comune e via dicendo. Quando una teoria del candore si consolida nell’immaginario collettivo, e viene dunque ritenuta vera dai più (spesso senza che sia nemmeno possibile discuterla, perché agisce sullo sfondo di altre ipotesi e argomentazioni), tutto ciò che le si oppone assume facilmente i tratti di una teoria del complotto.

Ad esempio, come si sa, nel 1960 gli Stati Uniti cominciarono a bombardare Cuba truccando gli attacchi e gli aerei in modo che sembrasse una controrivoluzione interna al paese, in una delle tante operazioni CIA sotto copertura che gli storici conoscono bene (pure grazie ai documenti segreti declassificati successivamente in quel paese). La guerra sotto copertura continuò fino al tentativo di rovesciare il governo cubano, per i soliti motivi legati agli interessi di multinazionali americane, oltre che in una logica imperialista, come era stato fatto in Guatemala e in Iran negli anni ’50, e come sarà fatto in Nicaragua negli anni ’80 (il Tribunale internazionale dell’Aia ha condannato gli Stati Uniti per questo), e poi in altri paesi del medio oriente e dell’Europa continentale.

La teoria del candore, nei primi anni ’60, era che “gli Stati Uniti si impegnano da sempre a far progredire lo sviluppo economico e la democrazia in tutto il mondo”, pertanto era impossibile che fossero coinvolti negli attacchi illegali a un minuscolo stato che non aveva attaccato nessuno (e che fino a quel momento non aveva nemmeno un’alleanza strategica con l’avversario globale, l’Unione Sovietica). Il virgolettato, che viene da un ambasciatore all’ONU, è una delle tante teorie del candore che imperversano nel mondo a proposito degli Stati Uniti. Opporsi a una teoria del candore, anche attraverso fatti documentati, espone chiunque al sospetto di promuovere una teoria del complotto. Anch’io ora, nonostante stia parlando di fatti abbastanza ovvi, e in alcuni casi condannati da organismi internazionali autorevoli, sento l’ombra su di me di una teoria del candore, che non è, come detto, qualcosa di solido e dimostrato ma, piuttosto, una deformazione dell’immaginario collettivo che si basa su affermazioni generiche, risuonanti e iper-diffuse. Sento quindi di dover affermare queste ovvietà con più forza, per non cadere nella botola delle teorie del complotto. Questo accade perché, ovviamente, a una teoria del candore contribuisce l’immaginario cinematografico, narrativo, ancora più della disinformazione, e in generale tutto ciò che attraverso la finzione vuole imporre delle regole alla “realtà”.

C’è un ultimo aspetto, secondo me cruciale per la democrazia, che riguarda quel che scrivevo sopra. Una teoria del candore getta un’ombra su chiunque argomenti in senso contrario. È un’ombra che può essere difficile da gestire. Una specie di colpa preconfezionata che funziona da spauracchio. Vincerla nell’argomentazione richiede forza e controllo dei propri mezzi. Ci vuole insomma calma e distacco, condizioni emotive che non sempre sono a disposizione di chi argomenta (il più delle volte perché la situazione è emergenziale, o perché nell’opinione pubblica tutto è polarizzato e non si comprende quasi più nulla, o anche per la debolezza retorica di chi argomenta, per mancanza di strumenti). La mia ipotesi è infine la seguente. È una teoria del complotto sulle teorie del complotto, diciamo una meta-teoria di queste. Quindi ci andrò pianissimo. Non voglio passare per meta-complottista, o perderei la poca reputazione che ho guadagnato fin qui.

Una teoria del candore è portatrice di una tensione, diciamo sociale, nel momento in cui contraddice una credenza (vera o falsa) molto diffusa. O meglio: quanto più una teoria è candida, cioè viene percepita come inverosimile e al tempo stesso pervasiva da un gruppo sociale, tanto più è potente e agisce come tensore. Insomma, più una teoria del candore è forte nella società, più grande e pesante è l’ombra su chi ritiene di doverla contraddire. In altre parole, la teoria del candore offre una resistenza proporzionale alla forza. Andare contro una teoria diffusissima richiede una forza argomentativa grandissima, e anche un’altrettanto grande tenuta psicologica da parte dell’argomentatore. Chi non regge o non può reggere la tensione, rischia di esserne travolto. Sentimenti come rabbia, frustrazione e senso di ingiustizia producono distorsioni in chi argomenta: slittamenti logici, fallacie e procedimenti dialettici completamente sballati, cortocircuiti della ragione che portano nel territorio dell’insensato, dell’incoerente o, peggio, della paranoia. Non sto sostenendo ovviamente che la diffusione di una teoria del candore produca paranoia in chi sente di doverla contraddire. Sostengo semplicemente che colpisca, magari per la sfacciataggine con cui è enunciata o per l’ingiustizia che sottende, i nervi scoperti di un soggetto debole. L’effetto è appunto la rottura di un argine: l’uscita dal pensiero razionale verso credenze magiche o in ogni caso facilmente confutabili. E poi?

La teoria del candore si alimenta di questi effetti. Se è molto potente e molto sfacciata (nel senso di inverosimile), si attira argomenti ridicoli da parte di chi ne subisce l’influsso. Di chi non regge all’ombra di questo candore. Le nuove teorie del complotto che si oppongono a una teoria del candore, la rendono ancora più forte, e dunque più frustrante per chi sente di doverci argomentare contro. È una spirale abbastanza sicura, in grado di provocare una enorme distorsione democratica.

Infatti, una potente teoria del candore indurrà alla formulazione di potenti teorie del complotto. Queste ultime, una volta consolidate in seno a un segmento dell’opinione pubblica, autenticheranno la teoria del candore, perché chiunque vorrà mettere in luce la genericità e l’indimostrabilità di quest’ultima (o addirittura la falsità delle sue conseguenze) verrà etichettato semplicemente come complottista. Anzi, una teoria del candore non vede l’ora che nascano teorie del complotto assurde per potersi rinforzare alle spalle di queste. E per diventare ancora più potente e innescare reazioni ancora più sconnesse, che confluiranno nella sua forza. Fino a diventare insomma vera.

A volte, senza bisogno che si porgano esempi, si ha l’impressione che l’obiettivo sociale di una teoria del candore sia esattamente questo: attirarsi teorie del complotto che ne confermino indirettamente la validità. Per questo è sensato ipotizzare che la formulazione di una teoria del candore ragioni anche a partire dai suoi effetti. In uno schema:

  1. Produrre una simile teoria, particolarmente generica e del tutto indimostrabile, esagerando proprio quanto a genericità e indimostrabilità, e diffonderla con l’appoggio di soggetti particolarmente autorevoli o potenti sul piano mediatico.
  2. Attendere gli effetti di frustrazione che la teoria del candore induce in chi ha interesse a contraddirla ma non ne ha gli strumenti, il temperamento, ecc.
  3. Se possibile, alimentare per via retorica questa frustazione sui media.
  4. Raccogliere le teorie del complotto più confutabili o screditate e usarle per validare la teoria del candore, sparando cannonate dunque sul principio di falsificabilità.

 

Questo schema, che qualcuno potrà ritenere persino banale, spesso funziona anche per ragioni di dinamica. Le teorie del complotto assurde e screditabili sono più veloci. Sorgono quasi subito, in chiave irriflessa, perché non hanno bisogno di tempo di elaborazione. Vengono formulate direi immediatamente, come reazione scomposta dovuta in parte alla frustrazione di cui sopra. Si diffondono anche più velocemente, infatti non hanno bisogno di essere comprese davvero. Hanno dalla loro la velocità dell’intuizione, contro la pesantezza del ragionamento. Al contrario, gli argomenti più sensati che si oppongono a una teoria del candore, hanno bisogno di tempo per essere elaborati (e spesso vengono costruiti in un clima nero, inquinato dallo screditamento che è cominciato a causa di assurde teorie del complotto). Sono quindi più lente a formularsi, ma anche a diffondersi, in quanto necessitano di sforzo conoscitivo. Ecco perché soccombono, e diventano per comoda associazione teorie del complotto irragionevoli. Finiscono per divenire forza confermativa delle teorie del candore, e si perdono nell’irrilevanza. A questo punto il candore è potentissimo, e dovrà passare molto tempo prima che qualcuno possa metterlo in dubbio. Mesi, anni, o cambi di paradigma difficili a venire nel tempo. Non porto altri esempi, ma credo che alcune vicende legate alla guerra in Ucraina e alla pandemia di Sars-CoV-2 siano eloquenti a proposito dell’interazione tra teoria del complotto e ciò che qui chiamo teoria del candore – non porgo esempi in verità perché ne temo l’ombra.

 

Appunti su Charles Reznikoff, “Testimony” e la “documentary poetry”

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[A gennaio, pubblicavo su NI un saggio dedicato a Charles Reznikoff, uscito sul n° 80 del “verri”. In seguito, ho invitato Giuseppe Nava – che è attualmente uno dei pochi autori, in Italia, a interessarsi al poeta statunitense – a proporci un suo contributo. Lo ringrazio per aver risposto con questo intervento, e ricordo che sue traduzioni di Testimony sono apparse qui e traduzioni di Andrea Raos da Holocaust qui. a. i.]

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Di Giuseppe Nava

A reviewer wrote that when he read Testimony a second time he saw a

world of horror and violence. I didn’t invent the world, but I felt it. [1]

L’operazione che Reznikoff mette in atto per realizzare le sue opere più famose, Testimony e Holocaust, è estremamente semplice, ma proprio in questa semplicità sta anche il segno della sua radicalità. Reznikoff attua quella che Genette definirebbe versification, ovvero la messa in versi di un testo in prosa già esistente – nello specifico, deposizioni testimoniali in sede di processo. Un’operazione che non prevede nessun altro intervento se non questa spezzatura (che peraltro rimane come unica traccia di una “mano” del poeta, insieme alla scelta dei materiali). Quindi, come già rileva Andrea Inglese nel suo saggio [link], non si tratta propriamente di un collage, né risulta da una qualche forma di decostruzione testuale. Il fulcro è tutto nello scarto che si crea tra il materiale di partenza, ovvero il documento legale, e il materiale di arrivo, ovvero il testo poetico. Uno scarto che crea straniamento, che costringe a rimettere continuamente in discussione la lettura del testo.

Sempre Inglese cita il saggio di Marie-Jeanne Zenetti in cui si sottolinea l’esitazione costante del lettore di fronte alla duplice natura – poetica e documentaria – di un’opera di come quella di Reznikoff. Con particolare riferimento a Testimony, trovo che ci siano due approcci alla lettura che agiscono alternativamente, provocando una sorta di continuo stop and go. Inizialmente ci si lascia trascinare dal flusso continuo dei tremendi episodi narrati: il lettore dopotutto si avvicina al testo in quanto poesia – è in versi, è rubricato come poesia pure se non “tradizionale”, l’autore viene definito poeta. Ma questo trascinamento viene continuamente interrotto dalla consapevolezza della natura originaria del testo, ed emergono allora i quesiti intorno a ciò che del testo non sappiamo: chi sta parlando? Quali sono gli effetti del suo parlare? E anche, volendo: potrebbe aver mentito? Il critico Todd Carmody afferma che «Reznikoff sembra disinteressarsi della scena della testimonianza ed esclude il contesto dell’aula del tribunale, traducendo le dichiarazioni alla sbarra […] in racconti fluttuanti del tutto avulsi dalle circostanze della loro enunciazione. Né ci trasmette alcuna sensazione che queste storie appartengano a soggetti distinti, che fanno esperienza del mondo in modi diversi. Ogni racconto è riportato in terza persona, con niente che ci aiuti a distinguere tra i vari lui e lei di cui leggiamo le esperienze»[2].

Quello che accade nell’incontro tra poesia e documento in Reznikoff è una reazione in cui ciascun elemento disinnesca gli aspetti statutari dell’altro. Da un lato, una “certa idea” di poesia – assertiva, portatrice di una qualche verità soggettiva – viene meno: il poeta non crea nulla, si limita alla selezione e alla versificazione. Dall’altro tutti gli elementi autoritativi del documento vengono eliminati dalla trasposizione: il contesto del processo, il dibattito, soprattutto la decisione del giudice. Forse, a volte, anche il linguaggio: Benjamin Watson, un bibliotecario americano specializzato in legge, sarebbe riuscito a risalire ad alcuni dei documenti originali lavorati da Reznikoff, e confrontandoli con le poesie di Testimony, avrebbe scoperto che in molti casi i termini troppo legati al contesto legale erano stati cancellati o modificati. Ho usato il condizionale perché non sono ancora riuscito a recuperare il saggio[3]; oltre che un interessante sguardo sul metodo del poeta newyorkese, questi interventi sarebbero un segno ulteriore dell’obiettivo perseguito da Reznikoff, cioè una poesia oggettiva,  autosufficiente.

La sintesi della reazione documento legale/poesia in Reznikoff è dunque il fatto nudo, essenziale, senza interpretazioni né morali. Il fatto, e la musica dei versi, la cui disposizione e spezzatura segna, come già detto, l’unico indizio della cifra del poeta. Reznikoff non era certo indifferente all’aspetto musicale del testo – «what I wanted to do was to create by selection, arrangement, and the rhythm of the words used as a mood or feeling»[4]. Qui si possono ascoltare, tra le altre, due letture da Testimony da parte dello stesso Reznikoff.

Il lavoro di Charles Reznikoff si trova spesso citato tra i primi esempi di quella che negli Stati Uniti viene genericamente definita “documentary poetry” (o docupoetry). Secondo Jill Magi, è a circa metà degli anni novanta che si comincia ad accostare i due termini per indicare non tanto una corrente o un gruppo, quanto piuttosto una categoria di scrittura che fa del lavoro sul documento l’elemento fondamentale della costruzione dell’opera. Ma benché il concetto sia ampiamente sdoganato, con saggi e panel e corsi universitari, Magi rileva che gran parte della discussione critica su di esso «comincia e finisce con la domanda: “Che cos’è?”»[5].

Christophe Hanna ha dedicato un intero capitolo del suo libro Nos dispositifs poétiques al “fonctionnement documental” in poesia[6]: per Hanna il “documento poetico” non è un ibrido tra le qualità di due forme eterogenee, non è un documento che assomiglia a una poesia; ma è creato intenzionalmente, e risponde a un nuovo o diverso bisogno di informazione: «il documento poetico opera […] dando una nuova visibilità (una forma in una nuova sostanza) a un oggetto che ha già un nome (un’etichetta) nella storia o nell’attualità». E ancora, il paradigma enunciativo del documento poetico «non è l’enunciato privato (e indiscutibile) del tipo “io sento…”, “io credo che…” oppure “ho l’intenzione di…”. Al contrario, possiede una certa forma di veridicità, o perlomeno di effetto sulle nostre credenze collettive».

Le definizioni in effetti sono molteplici, e spesso in negativo, cioè dicono cosa non è la poesia documentaria. Ma si possono trovare delle problematiche ricorrenti: «la poesia documentaria transita in modo opposto alla poesia pura o “ispirata” dalla musa o dal numen […] nella poesia documentaria la coscienza si moltiplica o si riflette alla maniera di un gioco di specchi in altre coscienze, o meglio ancora, alla maniera del ventriloquo, in un enunciatore che dà voce ad altri. Quindi vale la pena dire che la poesia documentaria cerca di restituire la voce a coloro che ne sono senza, quelli senza possibilità di redenzione, perché non gli è stato permesso di prendere la parola o perché non sapevano come farlo; quelle voci che rischiano di essere spazzate via dall’oblio e dal silenzio»[7].

Questo porre l’accento sugli aspetti legati a un’idea di collettività, a un “ridare voce” ai vessati e dimenticati della storia, sembra tipico della documentary poetry statunitense, che infatti oltre che a Testimony guarda a The Book of the Dead di Muriel Rukeyser come a un antesignano. Inviata come giornalista in Virginia per raccontare quello che è passato alla storia come il disastro dell’Hawks Nest Tunnel (dove una società elettrica non ha protetto dai rischi dell’esposizione alla silice i propri lavoratori, impegnati nello scavo appunto di un tunnel, provocando di fatto una strage), Rukeyser raccoglie materiali documentari disparati che mette in versi e organizza in un poemetto, interpolandoli ai suoi propri versi. Ci sono estratti delle audizioni al Congresso, stralci dei processi, relazioni mediche, lettere e testimonianze delle vittime o dei loro famigliari. Diversamente da Reznikoff, che pure intraprendeva negli stessi anni la prima stesura di Testimony (The Book of the Dead è uscito nel 1938), Rukeyser non esclude soggetti e circostanze dai testi, ma anzi li esplicita, con nomi e riferimenti precisi.

Alcuni tra gli esiti più recenti della documentary poetry americana sembrano iscriversi nel solco di Rukeyser piuttosto che in quello del Reznikoff di Testimony. Mentre quest’ultimo, nel suo lavoro di selezione e allestimento e versificazione, restituisce un’opera che assume i tratti dell’epica (o di un’anti-epica, come ebbe a dire Charles Simic[8]), i contemporanei si concentrano su casi specifici, episodi e contesti precisi. Mark Nowak in Coal Mountain Elementary (2009) riprende il tema minerario a partire da una recente tragedia negli Stati Uniti, riportando le testimonianze dell’inchiesta, e mettendolo in una prospettiva globale con i resoconti paralleli di numerosi simili incidenti in Cina. One Big Self di Carolyn D. Wright (2007) racconta il mondo carcerario della Louisiana attraverso le voci dei detenuti, raccolte dalla stessa autrice; e ancora, H. L. Hix in God Bless (2007) accosta i discorsi pubblici di George W. Bush alle dichiarazioni di Osama Bin Laden, il tutto messo in versi. Questi sono solo alcuni esempi, ma si intuisce una decisa attenzione agli aspetti sociali e a una funzione politica militante della poesia: “poetry extends the document” dichiarò Rukeyser[9], ovvero laddove un documento può dire qualcosa del mondo, la poesia può amplificare questo effetto «sulle nostre credenze collettive»[10].

*

NOTE

[1] L.S. Dembo, Interview with Charles Reznikoff, in «Contemporary Literature», Vol. 10, No. 2 (Spring, 1969), p. 202.

[2] Todd Carmody, The Banality of the Document: Charles Reznikoff’s Holocaust and Ineloquent Empathy, in «Journal of Modern Literature», 32.1, 2008, p. 90. La traduzione di questa e delle altre citazioni è mia.

[3]  Se ne parla per esempio qui: http://stevenfama.blogspot.com/2009/01/poetry-from-law-part-one.html e qui: https://www.poetryfoundation.org/harriet-books/2008/08/i-fought-the-law. Purtroppo la pagina web a cui entrambi gli articoli rimandano non esiste più.

[4] L.S. Dembo, cit., p. 202.

[5] Jill Magi, Poetry in Light of Documentary, in «Chicago Review», vol. 59, n. 1-2 (fall 2014-winter 2015), p. 249.

[6] Christophe Hanna, Nos dispositifs poétiques, Question Theoriques, 2010, pp. 177-203.

[7] Mijail Lamas, El estamento ontológico de la poesía documental, in «Guaraguao» 2020, a. 24, n. 63: LÍriCAS híBRiDaS. CoNtaMInACioNEs GenéRIcaS, iNteRMEdiALIdAD y pOlifonía en la pOeSía lAtiNOaMericAna rECiente, p. 86.

[8] Charles Simic, A Brutal American Epic, https://www.nybooks.com/online/2015/08/25/brutal-american-epic-reznikoff-testimony/

[9] Citata da Catherine Venable Moore nell’introduzione a The Book of the Dead, West Virginia University Press, 2018, p. 11.

[10] Cfr. le citazioni da Hanna. Non a caso, Nowak – come già Muriel Rukeyser prima di lui – svolge anche attivismo sociale, in particolare rispetto alle problematiche della working class statunitense.

Sociopatici in cerca d’affetto, Michele Mellara (Bollati Boringhieri, 2023)

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L’esordio letterario di Michele Mellara, regista.

Una raccolta di storie interconnesse in quattro sezioni: Coloro che amano, Ritratti in bilico, Tra le orecchie e Paesaggi sghembi. Ogni sezione dà corpo a un’idea di scrittura, o almeno tenta di farlo. In Coloro che amano l’azione si regge sull’imperfetto, che è il tempo della fiaba, e i protagonisti, come eroi fiabeschi vi precipitano all’interno animati da una mania, da un affanno, da un sentimento esclusivo. Ritratti in bilico, che è anche la sezione col maggior numero di racconti, tratteggia una galleria di personaggi insoliti, in sospensione, tra le pieghe di un’esistenza a tratti comica, altre volte amara e indigesta. Mentre Tra le orecchie dà voce a un flusso di coscienza/monologo – spesso travestito da dialogo – di un personaggio, vittima della sua pigrizia, recluso nello spazio asfittico di una stanzetta a pigione, loculo che coincide, in un cortocircuito semantico comico-umoristico, con la sua testa. Infine, i pochi racconti di Paesaggi sghembi hanno l’obiettivo di ribaltare la realtà, di renderla manifesta al lettore solo alla fine, ammesso che sia quella giusta.Ogni racconto ha una sua unità anche se si richiama sempre a qualche altro. A volte è il precedente o quello a venire, altre un racconto di cui il lettore sembrerebbe aver perso traccia. Il tutto avviene in un lieve gioco di specchi che, mi auguro, possa rendere più gustosa e coinvolgente la lettura.


 

ritratti in bilico

I previdenti

 

Ogni giorno la morte entra più volte nel suo negozio.

A volte è corrucciata, con delle vistose borse sotto gli occhi – segno evidente di notti in bianco –, con un passo lento e stanco; altre volte invece è più sicura e determinata, sempre seria, ma con una serietà più legata ai numeri e ai conti che a un’afflizione esistenziale. Ci sono giorni, invece, che quando arriva sembra essere tutta dedita ai piaceri dell’arte, soprattutto quella scultorea, ed è allora che le sue domande si fanno fitte sulle proprietà del marmo, i suoi colori, i luoghi di provenienza, e può stare anche un’ora a chiedere le peculiarità e le differenze che intercorrono tra un botticino classico e un travertino, o tra un bardiglio fiorito e una calacatta.

Lui la conosce da un tempo lontano; era ancora un ragazzo quando la incontrò per la prima volta. Ha imparato, con gli anni, a gestirla; a piegarsi al vento dei suoi malumori, a rispondere a tono e con calma alle sue domande, a farle uno sconto quando lo richiede, a essere malleabile verso il suo gusto spesso bizzarro, ad assecondarla senza essere servile, e a rassicurarla quando la nota incerta e indecisa.

D’altro canto il negozio di marmista che gestisce era di suo padre e, prima ancora, in una botteguccia fatiscente e lurida, del nonno. Tutti marmisti di lapidi funerarie. Una famiglia d’arte, mortuaria, ma sempre d’arte.

La morte ha dato da mangiare a tutta la sua famiglia per più di un secolo, con loro sicuramente è stata magnanima, tutt’altro che crudele e arpia e viscida e infingarda, come la si vorrebbe credere. Una gran signora capace di munifici slanci sempre ben accolti.

La morte, lui lo sa, si appiccica alla pelle degli avventori del suo negozio, e tramite loro si palesa. Ma solo a lui. Gli altri, quelli che non hanno l’occhio allenato da generazioni, non possono vederla. Per un estraneo, la vecchia moglie che viene a chiedere una lapide per il marito defunto, non è altro che una signora affranta dagli eventi dell’esistenza. Ma lui sa, invece, che in quel momento è la morte che parla con la voce della vedova, è lei che le ha scelto i vestiti, che ha deciso quale passo darle, quale umore, curiosità, negligenza o attenzione farle mettere in campo. Il campo funebre non è solo nell’obitorio. Comincia nel suo negozio e si estende poi per un tempo e uno spazio che forse solo Dio può dire quanto grande sia. Lui ne occupa un minuscolo segmento, ma di quella infinitesima parte lui è il re, o perlomeno il guardiano. Ha un titolo, un ruolo, e gli viene riconosciuto. Quando parla lo si ascolta, quando enumera ancor di più.

Negli ultimi mesi, con una frequenza molto maggiore che in passato, varie persone, perlopiù donne, sono venute nel suo negozio per commissionargli, in evidente anticipo, le lapidi che andranno a ricoprire le loro tombe. Era già successo, è vero, ma di rado, e la richiesta era sempre venuta da parte di persone alquanto eccentriche alle quali non aveva mai dato troppa rilevanza. Ora, era abbastanza normale che qualcuno volesse, con precisione e piglio organizzativo, definire tutti i dettagli della propria lapide funeraria: tipo di marmo, forma, incisione scultorea – spesso gli si chiedeva di intarsiare un ramo di rose a bordo lapide, pratica nella quale mostrava una certa abilità –, costi, collocazione nel campo santo e risistemazione della lapide in caso di futuri smottamenti del terreno.

Lui ascoltava, prendeva appunti sul suo taccuino, consigliava nel caso ve ne fosse bisogno, elencava i prezzi e, a volte, accettava di fare un piccolo sconto sul totale.

Anche adesso, se qualcuno avesse messo il naso nel suo negozio, avrebbe notato, in bella vista, una lapide realizzata con un marmo bianco leggermente striato di grigio – bianco statuario è il nome tecnico – sulla quale erano già state stuccate una a una le lettere di un nome e un cognome: Fiorella Braccialetti. Nell’epitaffio, inoltre vi era la data di nascita e lo spazio lasciato vuoto di quella che sarebbe stata la data di morte.

La signora Braccialetti aveva scelto con cura il tipo di marmo, il colore e la grandezza delle scritte, la foto affissa in alto al centro dove la si vedeva sorridente, presumibilmente illuminata da un sole primaverile, con le mani aperte in un gesto di pacificata accoglienza. La signora Braccialetti aveva già saldato il conto e preso accordi in dettaglio col negoziante per quando sarebbe giunta la sua ora. Lui sapeva esattamente dove sarebbe stata sepolta e cosa avrebbe dovuto fare.

La particolarità, rispetto ad altri casi simili, era che la signora Braccialetti godeva di ottima salute e, soprattutto, che aveva solo quarantaquattro anni.

«Un po’ presto per pensare alla propria tomba, no?»

«Meglio essere previdenti nella vita, finché ci è dato esserlo, non trova?» gli aveva detto, lapidaria.

Se n’era poi andata con passo sicuro, senza voltarsi indietro, restituendogli l’impressione di una donna determinata che non torna mai sulle proprie scelte.

Da allora ogni tanto ci pensava.

Avrebbe dovuto preparare anche la sua lapide? Deciderne il marmo e tutto il resto, comprare il tombino al cimitero, svolgere tutti i consueti atti amministrativi che, di norma, espletava per i suoi clienti?

Aveva moglie e figli, non era solo. Ci avrebbero pensato loro. E poi non era vecchio, gli rimanevano ancora parecchi anni prima che la sua morte potesse essere interpretata come un dato di normalità. Non era sconsigliabile accarezzare la morte, proponendole già tutto il pacchetto infiocchettato? Come se le dicesse che era pronto e che poteva anche prenderlo subito, senza dover attendere un minuto in più.

E così, con questi pensieri in testa, ogni sera chiudeva il negozio, senza decidersi sul da farsi.

 

Una sera d’inverno, mentre pensava ancora se facesse bene a preparare la sua lapide al più presto oppure no, prese la macchina e si tuffò, come di norma, in tangenziale. Il precoce buio delle troppo brevi giornate novembrine veniva rischiarato dai lampioni stradali. Si era attardato in negozio, a casa sicuramente la cena era già stata consumata e lui riusciva a immaginare in modo vivido i volti dei suoi familiari: corrucciati per i suoi numerosi ritardi e borbottanti più d’una caffettiera sul fuoco. In quel preciso istante pensò di fuggire, di andarsene via, di abbandonare tutto. Bastava lasciarsi guidare dalla luce dei lampioni, semplicemente, dalla loro regolare cadenza, seguirne la linea che si perdeva all’orizzonte. Queste lucciole meccaniche esercitavano su di lui un potere tranquillizzante; cominciò a fantasticare, fino a giungere in una zona di confine in cui la realtà non era imbrigliata nei laccioli delle con-venzioni sociali e neppure da quelle matrimoniali, ancor più costrittive – almeno nel suo caso –, ma gli si presentava in un’altra veste: un futuro vissuto sulla strada, nella notte, rischiarata con una tranquillizzante regolarità dalla linea senza fine dei lampioni. Così il suo sguardo andò al cielo, o meglio, un po’ più in basso delle nuvole, a quelle luci che lo catturarono così come d’abitudine succede con gli insetti. E si librò in volo con loro, vagolando libero da ogni affanno terreno.

La libertà ha un prezzo e nel suo caso fu la dispensa dagli affanni del quotidiano: sbandò con la macchina che, dopo varie capriole, si andò a schiantare contro la granitica barriera stradale.

Morì mezz’ora dopo sull’ambulanza diretta all’ospedale.

 

La scelta della sua tomba rimase in carico ai familiari che, essendo avari e poco inclini a ricordarsi di chi aveva lavorato per il loro agio, decisero per una lapide di quarzo a buon mercato, un avanzo invenduto di magazzino. Quando lo seppellirono, in fondo al camposanto, fu un giorno di pioggia, desolato, in cui anche i corvi non ebbero il coraggio e tanto meno il desiderio d’involarsi dai loro nidi.

 


Michele Mellara, documentarista, regista e sceneggiatore, condivide la quasi totalità della sua produzione artistica con Alessandro Rossi col quale da oltre vent’anni scrive e dirige.  I loro film sono stati proiettati in centinaia di festival in tutto il mondo e trasmessi dalle emittenti televisive di oltre cinquanta Stati. È socio fondatore della Mammut Film. Insegna Cinema documentario all’Università di Bologna.

 

 

Hitch, l’architetto

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di Gianni Biondillo

 

Christine Madrid French, The Architecture of Suspense. The Built World in the Films of Alfred Hitchcock, University of Virginia Press, 2022.

 

Bruno Zevi si fidava poco di piante e sezioni per capire l’intima essenza dell’architettura. Credeva, ottant’anni fa, che forse il mezzo cinematografico sarebbe stato il più corretto per rappresentarla, laddove non se ne potesse avere un’esperienza diretta. Tempo e spazio. Cioè architettura (e cinema). Gli architetti hanno sempre amato il cinema, dispositivo perfetto per rappresentare il mondo, più ancora della fotografia. Gli architetti scrivono di cinema da sempre (si consultino, per capire cosa intendo, i numeri di Domus o di Casabella degli anni Trenta, dove giovani avanguardisti ne scrivevano con passione e competenza). Chi scrive di cinema, invece, di architettura ne capisce poco. Ecco perché ho apprezzato questo lavoro di Christine Madrid French, pubblicato dall’University of Virginia Press.

The architecture of suspense è un libro che inverte la polarità sul tema. L’autrice si occupa di conservazione del patrimonio architettonico negli Stati Uniti, è insomma una specialista, che però ha compreso quanto il cinema non sia solo un dispositivo per l’interpretazione del paesaggio, ma il creatore perfetto di immaginari architettonici. E il maestro, il guru, l’architetto assoluto di questa disciplina è stato (ed è tuttora, a ben vedere) Alfred Hitchcock.

Gli edifici, nei suoi film, non sono solo scenari dove far muovere i personaggi, ma spazi attivi, attori partecipanti, snodi narrativi: scalinate oscure e minacciose, motel diroccati, ville decò incombenti, cortili urbani panottici, campanili vertiginosi. Spazi emotivi. Che nella maggior parte delle volte non sono mai esistiti, tutti ricostruiti negli studios hollywoodiani, ma così veri – più veri del vero – che sono entrati prepotenti nel nostro immaginario.

Caso esemplare, per capire cosa intendo, è quello raccontato da Christine Madrid French nel secondo capitolo del libro, dove si tratta della “tana del cattivo”. Hitch è praticamente il primo che forza il tropo narrativo dell’abitazione del vilain trasformandolo da castello gotico, oscuro, figlio di una letteratura ottocentesca (da Frankenstein a Dracula, gli esempi sono infiniti) a luogo limpido, razionale, organico, modernista, colto. Il mostruoso architettonico, correlativo oggettivo del suo proprietario, è algido e chic, raffinato e contemporaneo. In North by Northwest (il nostro Intrigo internazionale), Phillip Vandamm, l’antagonista di Cary Grant, vive in una villa lussuosissima e wrightiana alle pendici del monte Rushmore. Edificio, ci ricorda French, talmente iconico, da essere stato cercato da anni dai turisti di passaggio.

Senza mai trovarlo, dato che è un set disegnato dallo scenografo Robert F. Boyle negli studi della Metro-Goldwyn-Mayer a Los Angeles. Eppure, insisto, questa architettura più vera del vero, ha saputo diffondere a livello pop un’idea di modernismo (elegante e inquietante) che ha segnato ogni futura interpretazione dell’idea di spazio costruito contemporaneo. Grazie al grande architetto e illusionista che fu Alfred Hitchcock. Hitch, per gli amici.

(precedentemente pubblicato su Abitare, gennaio 2023, n 621)

Zaffarano fa l’aedo in “Poesie per giovani adulti”

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di Leonardo Canella

 

1.

Ho trovato Poesie per giovani adulti di Michele Zaffarano dentro una scatola. Se prendi un libro online delle volte ti mandano una scatola. Appena ho aperto la scatola ho visto che il libro c’ha la copertina riflettente che ti ci specchi. Argentata. E ci puoi cuocere sopra anche un uovo. Su YouTube ho visto che i soldati di Rommel cuocevano le uova sulla lamiera dei carri armati. Lamiera luccicante. Nel deserto. Ecco, che in Poesie per giovani adulti di Michele Zaffarano manchi il carro armato è la prima osservazione che mi sento di fare. Manca anche l’uovo.

 

2.

Prendilo il libro, ne vale la pena. Dentro c’è un poemetto. Ti chiederai: è autobiografico? A me piace pensare che lo sia. Zaffarano ti fa credere che il finto è vero, e il vero finto. Ti do però questo filo da tenere in mano durante la lettura: chiediti anche se l’autore sta parlando di te. Ho rivisto Michele a RicercaBO, dicembre 2022. Nuovi occhiali barba più magro. Capelli più corti. Leggendo Poesie per giovani adulti ho pensato: anche Michele di notte apre il frigo e trova sul ripiano uno yogurt già iniziato. SOLO. Ecco: in Poesie per giovani adulti non trovi lo yogurt già iniziato. Ma c’è il resto.

 

3.

Tema centrale? Te lo dice la parola fidanzata, ripetuta per cinquantatré (53) volte. Sono come cinquantatré battiti. Sempre un po’ diversi l’uno dall’altro. «Prossima» e «futura» sono gli aggettivi che li accompagnano più spesso, questi battiti, uno un po’ diverso dall’altro (ti dicevo). Ma solo un po’. In mezzo tanta vita: madre, scarpe, viaggio, nipote, sorella, vacanza e sempre la «prossima forse futura fidanzata».

 

4.

Ti metto però anche gli altri ingredienti che trovi nel piatto: ironia, morte, dolore, solitudine, sesso, Catullo, suicidio. Leggi/mangi e ti viene voglia di psicanalizzare l’autore, pensi che è un giochino bello e facile da fare. Ma stai attento alle trappole. Io c’ho provato, ho sottolineato, ho scritto parole sul libro con una biro rossa (mi sono sentito bravo!), poi ho chiuso tutto e mi sono fatto un caffè. Ti dico solo che di quanto ho scritto mi piace non dirti nulla.

 

5.

Leggendo le centoventicinque pagine – ma il poemetto è in fondo breve-brevissimo, fatto di una pioggia di piccoli versi – ho sempre aspettato che arrivasse il battito, che arrivasse la parola «fidanzata». Futura prossima forse. Ecco, questo battito è la cosa che mi interessa di più. Mi tocca. Zaffarano per me è quel battito, sento leggere o leggo Zaffarano, e quel battito c’è sempre.

 

6.

Così nel 2014. Michele è a Bologna, sera. Via Mascarella. Legge sue poesie e io sono lì per ascoltarlo (Paragrafi sull’armonia). Lo presenta Stefano Colangelo. Fra gli autori della Prosa in prosa, Michele è per me suono ritmo silenzio musica. E poi parole, ma le parole vengono dopo la musica il silenzio il ritmo il suono. Michele Zaffarano mi ipnotizza le orecchie, l’udito zittisce la vista. Michele ha una capacità ipnotico/incantatoria. La sera vado su YouTube e mi metto ad ascoltarlo in cuffia mentre legge. Michele Zaffarano è un aedo.

 

7.

Due cose in Poesie per giovani adulti mi sembrano nuove per Zaffarano: la volontà di darsi una storia per costruire una trama e lo scavo in profondità. Troppa trama uccide la sperimentazione, questo mi pare di poterlo dire. Qui c’è un poemetto fatto di undici testi numerati con lettere maiuscole. Undici lettere diverse e consequenziali. Le lettere che mancano, i vuoti della storia a cui allude l’autore, evitano l’asfissia e danno leggerezza. E poi lo scavo in profondità, dicevo. Pericoloso perché a rischio noia (quanto è bello talvolta essere superficiali!). Ma qui la noia è evitata, te lo assicuro.

 

8.

Di classe infine è l’idea di mettere un foglio rosa staccato all’interno del volume. Su di esso l’autore si rivolge a due tu. TU libretto e TU fidanzata. Forse la «prossima futura fidanzata» si innamorerà del libretto e fuggirà con lui. Aspettiamo di saperlo, sarebbe una fidanzata che si intende di poesia. Intanto bravo Zaffarano che è riuscito a parlare di amore in modo nuovo.

Mots-clés__Fiammiferi

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Otto Dix, "Il ritratto di Sylvia Von Harden" (1926; Parigi, Centre Pompidou)

 

Fiammiferi
di Daniele Ruini

Blind Lemon Jefferson, Match Box Blues -> play

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Otto Dix, “Il ritratto di Sylvia Von Harden” (1926; Parigi, Centre Pompidou)

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Da: Sergej Dovlatov, La marcia dei solitari, tr. it. Laura Salmon, Palermo, Sellerio 2006, pp. 229-230.

Io non discuto. Lo Stato sovietico non è il posto migliore al mondo. E laggiù c’erano tante cose spaventose. Tuttavia c’erano anche cose che non dimenticheremo mai.
Sgozzatemi, squartatemi pure, ma i nostri fiammiferi erano meglio di quelli americani. È una sciocchezza, tanto per cominciare.
Andiamo avanti. La milizia a Leningrado agiva più operativamente. E non parlo dei dissidenti. Delle malefatte del KGB. Parlo dei normali, banali miliziani. E dei normali, banali teppisti…
Se si urla su una via di Mosca «Aiuto!», la folla accorre. Qui ti passano accanto.
Là, in autobus, cedevano il posto agli anziani. Qui non succede mai. In nessuna circostanza. E va detto che ci siamo abituati in fretta pure noi. In generale c’erano molte buone cose. Ci si aiutava a vicenda un po’ più volentieri. E ci si azzuffava senza paura delle conseguenze. E ci si congedava dall’ultima banconota senza tormentosi indugi.
Non sta a me criticare l’America. Io per primo sono sopravvissuto grazie all’emigrazione. E amo sempre di più questo paese. Cosa che non mi impedisce, penso io, di amare la patria che ho lasciato…
I fiammiferi sono una sciocchezza. Sono altre le cose importanti. Esiste il concetto di pubblica opinione. A Mosca era una forza reale. Una persona si vergognava di mentire. Si vergognava di adulare le autorità. Si vergognava di essere venale, furba, cattiva. Le avrebbero chiuso le porte in faccia. Sarebbe divenuta uno zimbello, un reietto. E questo era peggio della galera.

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

“Arle-chino. Traduttore-traditore di due padroni”

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di Silvia De March
 
Più di un anno fa, “Cuore di seta” ha conquistato con immediatezza uno spazio nel mio cuore e nella mia libreria e ad esso sono molto grata: si tratta dell’autobiografia di un uomo cinese, mio coetaneo, arrivato clandestinamente in Italia all’inizio degli anni Novanta e oggi affermato attore. Shi Yang Shi ripercorre in esso le sue fatiche, a volte schiaccianti e frustranti, nell’integrazione in un contesto culturale, linguistico, sociale, radicalmente alieno rispetto a quello d’origine; basterebbe questo per definire “Cuore di seta” una lettura imprescindibile per ciascun insegnante. Ma potrebbe essere altrettanto imprescindibile anche per chi segue gli stereotipi in base ai quali gli immigrati tutti ci rubano il lavoro oppure che è meglio aiutarli a morire a casa loro. Vi si leggono le vicissitudini familiari sopportate per sopravvivere economicamente, in un luogo – il Bel Paese – dove la formazione medica dei genitori non ha contato assolutamente nulla; un luogo dove la vita è caduta in un “buco”, nonostante sia stato scelto pur di evadere da una società in cui alcuni diritti fondamentali non sono assicurati e pur di dare un futuro migliore proprio a Shi – come probabilmente auspicavano fino a qualche giorno fa le 68 persone morte a 150 metri dalla costa italiana.
Ma al di là degli elementi documentaristici, Shi Yang Shi – un ‘banana’: ovvero giallo fuori e bianco dentro – con pacatezza, umiltà e un pizzico di autoironia ci accompagna nel suo viaggio introspettivo alla ricerca della propria identità e di una possibile sintesi tra cultura cinese e cultura europea, regalandoci alcune perle filosofiche luminescenti. “Cuore di seta” ci consegna un esempio utile per tutti di spirito di sacrificio e forza d’animo ed è inoltre capace di parlarci dei molti coi quali conviviamo, figli di immigrati, cresciuti qui in Italia, spesso smarriti nel tentativo di identificarsi.
Un applauso va dunque a Cristina Palumbo, direttrice artistica di Echidna Cultura, per aver proposto domenica scorsa a Vigonza “Arle-chino. Traduttore-traditore di due padroni”, di cui Shi Yang Shi è interprete e pure regista (insieme alla scomparsa Cristina Pezzoli). Una novità forse assoluta nel panorama teatrale è che lo spettacolo è svolto in una formula bilingue, includendo una lingua extracomunitaria: ebbene sì, ogni battuta viene pronunciata due volte, una in italiano ed una in cinese, intendendo rivolgersi e coinvolgere anche un pubblico cinese. E finalmente, in una platea piacevolmente piena, si sono visti i primi ospiti cinesi. “Arle-chino” segna quindi una possibile direzione verso un orizzonte di integrazione che è urgente concretizzare, indicandoci che può e deve essere realizzata anche sdoganando gli spazi culturali dove si promuove un’aggregazione virtuosa ed aprendoli alla frequentazione di chi resta ai margini, di chi continua ad essere soltanto oggetto di narrazioni e raramente soggetto, di chi resta giustificazione di operazioni culturali ma di cui raramente si promuove la partecipazione effettiva.
Lo spettacolo integra il libro con ulteriori episodi, alcuni dei quali meglio fanno capire le contraddizioni del regime comunista, il fardello che pesa e minaccia la vita privata di ciascuna famiglia e anche la radicale solitudine e l’abnegazione di coloro che hanno scelto l’Europa. Uno dei più agghiaccianti episodi portati in scena rievoca un momento di grande tensione tra la comunità cinese di Prato e i cittadini italiani, tra cui Shi Yang Shi si trovò a svolgere il ruolo di traduttore, all’indomani del rogo di un capannone in cui alcuni lavoratori cinesi persero la vita e la loro vita perduta non ebbe affatto risonanza nei media.
Senz’altro è anche questo lato militante dell’autore, il suo stare dentro le cose, che rende la sua stoffa più solida, consapevole ed autorevole. Per quanto riguarda la composizione teatrale, pur con qualche ingenuità, è indubbiamente apprezzabile la capacità di portare in scena una materia corposa e densamente tragica, facendo prevalere il registro comico e la cifra della speranza.
Nel dialogo finale con pubblico, Shi Yang Shi ha fatto brillare senza diaframmi la sua autenticità e il suo spessore: un misto di delicatezza, coraggio, voglia di vivere, simpatia, profondità di pensiero. La sua voce testimonia come la cultura e un profondo lavoro su se stessi possano riscattare le sconfitte imposte dalle circostanze attraverso una crescita personale che ci fa sbocciare al mondo come un dono, semplicemente grazie al proprio radicamento, a prescindere dalla capacità di arrivare a risultati artistici così complessi.
Infine, va dato merito al Comune Di Vigonza per aver affidato la gestione del Teatro Quirino de Giorgio a una delle poche realtà indipendenti di organizzazione dello spettacolo dal vivo che restano in questo territorio, fagocitato da un monopolio che sta nuocendo gravemente alla salute degli spettatori e alla teatro-diversità.
 
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Foto di Ilaria Costanzo, tratte dal sito di Nidodiragno CMC produzioni