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Apprendistato alla salvezza

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di Marino Magliani

In un catalogo di bellissimi titoli di narrativa e di sillogi e saggi, persino titoli di canzoni e quadri, che raccontano di scienze, come anatomia, fisica, geometria, il termine apprendistato si ritaglia uno spazio non definito, un percorso non compiuto: apprendistato come qualcosa di possibile. Anche il resto, alla salvezza, sembra trascinarne il valore verso lo sconosciuto, verso qualcosa di cui non sappiamo, non noi almeno, che restiamo e alla fine possiamo prevedere molto, ma non se l’apprendistato ha funzionato, se ha portato all’ottenimento della salvezza. Forse perché la salvezza sembra riguardare qualcosa di cui da qui si sa poco. Alla fine sembra giocarci la vita intera in un connubio del genere. Insomma un titolo così dovrebbe incoraggiare a darsi delle regole, essere una specie di regolario dell’apprendistato alla salvezza, ecco. No, in realtà, nessuna regola, qui, in questo apprendistato, nessun ordine, se non l’invito alla calma, la meravigliosa esortazione a un silenzio. Il primo verso ce lo indica. Il silenzio della notte modellato dalla voce. Non fosse che il poeta mi è amico da anni – collaboriamo da distante a un blog che si chiama La Poesia e lo Spirito- , e che questo libro mi è giunto da lui, leggendo il secondo verso della seconda poesia avrei desiderato saperne di più sull’autore. È un verso che sento tremendamente mio:

Oggi sono il cane di me stesso

Dev’essere qualcosa che lega scrittori e poeti il bisogno di identificarsi in un cane ”solitario”. In un mio libretto sul paesaggio olandese faccio chiedere a un camminatore con cane: “Lei non ha un cane?” La domanda è rivolta naturalmente a un camminatore senza cane. Uscire la sera in questo quartiere sbattuto dal vento e dalla pioggia è una forzatura, uno lo fa se deve portare fuori il cane. Come dire, se esce senza cane non ha un alibi. Il camminatore senza cane, dinnanzi a una domanda del genere, si compiace d’aver pronta la seguente risposta: “Io sono il mio cane”. Ecco, quando le poesie ci prendono. Quando, come scrive Vitagliano, ci portano in un posto che sentiamo, sconosciuto o già “nostro”, e costruiscono il nostro teatro anatomico e di certo lo condividono. A quel punto ci stupiamo, esattamente come lo fa il poeta:

 Non mi sembra vero

Di essere riuscito a fare delle parole

Copie che vibrano e dialogano

E rileggiamo. Questo faccio da tempo con Apprendistato.
E allora l’apprendistato diventa un processo di trasformazione, sembra una questione di trovare altri mezzi di respiro? Ci sono nate le branche starnutiremo senza paura – di tentarle tutte, per dire È completata questa vita.

Mots-clés__Perdersi

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Manuele Fior, copertina per "Il diavolo sulle colline", Cesare Pavese, Einaudi, 2020

 

Perdersi
di Valeria Nicoletti

Radiohead, How to Disappear Completely -> play

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Manuele Fior, copertina per “Il diavolo sulle colline”, Cesare Pavese, Einaudi, 2020

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Marco Mancassola, Non saremo confusi per sempre, La nave di Teseo, 2018, p. 167

Uno straordinario cielo bianco sull’intero paese. Aerei silenziosi a diecimila metri d’altezza. Treni stanchi lungo le pianure. Vivi e morti che coesistevano, avvinghiati gli uni agli altri, disputandosi lo spazio. E dovunque, come sempre, diffusa come un pulviscolo, la solita disperata urgenza di fuggire da qualche parte, pur senza sapere dove dirigersi.
Perciò, quel giorno, ad alcuni apparve chiaro che non ci fosse altra via d’uscita che questa, verso il dentro, verso il centro della propria difficile umanità, attraverso il pozzo che il dolore di ognuno scavava, silenzioso, fino a congiungersi con l’infinito.

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

Istoria del piccolo Iom

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Istoria del piccolo Iom, da indifendibile a miracolato

In ventidue paragrafi e prosodiche strofe. Nell’Anno del Signore MMXXII

di Salvatore Enrico Anselmi

Caro lettore, questa che mi accingo a raccontare è la storia del piccolo Iom che da indifendibile passò a miracolato. Non ti crucciare se gli eventi ti faranno sgranare gli occhi, portare le mani alle orecchie per non poter più sentire, premere la mano sulla bocca per trattenere le parole, perché di fantastica ma vera storia vorrei narrare. E potrai eccepire come mai di fantastica eppure vera storia si tratti. Te lo dirò immantinente perché la realtà è talvolta la più fervida delle fantasie e supera straordinari eventi che a ripeterli di nuovo ti sembreranno frutto della più improbabile invenzione.

Come titolo avrei potuto anche sceglierne un altro che questo è, se t’accontenti:

“Anatomia di un miracolo. Antefatto, svolgimento e risoluzioni”.

 

 

 C’era una volta,

puntuto negli occhi e nel corpo, spiritato di natura, insinuante e intrusivo per indole, il piccolo Iom, ordinario, perché ordinario era diventato in fondo, incapace d’inventiva propria, che sconfinava nel terreno limitrofo per saccheggiare il raccolto altrui. Perché nel campo del vicino maturavano mele succose, grappoli densi e frutta rubizza in ogni stagione, mentre nel suo campo si potevano cogliere solo bacche, ghiande e frutti secchi, racchiusi da un guscio renitente a farsi aprire.

A forza di ghiande gli era cresciuto il setolame sulla schiena e sulle orecchie diventate pinzute. I denti a sciabola ricurva gli erano usciti fuor di bocca, lustri e taglienti da far paura quando rideva e spalancava la gola, e di quel medesimo, sinistro bagliore gli riluceva anche lo sguardo. Era quello lo sguardo del predatore che, millantando vello e mansuetudine d’agnello, sotto i riccioli lanuti e bianchi, nasconde il pelo nero della sedizione.

Anche la voce, acuta di natura come quella di verginella condotta a prima messa, che sembrava fargli pronunciare solo dolcezze, quando di dolcezze si riempiva l’ugola, s’era intorbidita alquanto. E senza che egli stesso la potesse più controllare gli faceva dire sozze lordure a ogni canto, contro l’uno e contro l’altro, anche se s’erano seduti accanto a mangiar il pasto dal suo stesso piatto.

«No, no! Non è colpa mia, che voce di mio petto e mio pensiero questa non è!» – si schermiva Iom, rosso in faccia – «Forse male l’hai compresa e interpretata perché dorme nel tuo orecchio cerume vecchio, steso a strati come crema di meringa e cioccolato dalla spatola del pasticcere tra i filari del pane di Spagna!»

Divenuto ipertricotico autoreferenziale, egotico celebrante dell’auto-culto, catechista del misfatto e imbonitore mellifluo, Iom arrivava appena al numero civico XV, poi era costretto a deflettere all’indietro perché quando sconfinava verso il XVI e oltre, e ci provava spesso, si perdeva, smarriva l’orientamento, sparigliava le carte, straparlava, dichiarava l’inesistente e spesso era costretto a ritrattare. Rettificava allora i suoi improbabili contorcimenti verbali, i suoi ready-made da pochi soldi, perché erano senza l’estro dell’artefice innovatore.

Allora s’aggiustava sul viso la remissiva maschera del penitente, il cappuccio e la schiena a vista del flagellato, il cero dell’offerta quaresimale, la bussola delle elemosine da devolvere a cuore largo a beneficio del piccolo rimasto senza pane.

Ma era tutta una commedia. Una recita adulta, ma condotta in scena e lì interpretata come se fosse stata nuova e bambina: «Più non lo farò! Lo giuro e lo prometto. Croce sul cuore, libro aperto da leggere e in testa sempre il berretto!»

Ma il pentimento durava sempre per poco tempo e attecchiva con epidermica contrizione. Mentre recitava il fervorino di ciò che si deve fare e di ciò che è proibito, sentiva già pungerlo al fianco la spina che non lo abbandonava fino a quando ne avesse combinata una nuova, peggiore di prima…Come se lo spino, se di spino si trattava, lo punzecchiasse da sotto rendendogli faticosa la seduta e lo scatto in piedi. Come se qualcuno gli spegnesse un ferro arroventato addosso e Iom dovesse saltare in aria per il dolore e combinarne un’altra.

Con manuzze nodose in perenne ricerca di suo vello capillare, ormai caduto insieme alle idee di un tempo, si aggirava per stanze e corridoi, che avrebbe voluto acconciare al gusto suo, curvo da un lato come se il peso di qualcosa che doveva portarsi dentro, lo gravasse alquanto. E tentava di dissimulare, – come conseguenza di sodale meraviglia per il suo interlocutore, – il gonfiore delle sclere fuoriuscite dalle orbite come per incontenibile azione pressoria dal basso e dall’interno. Forse il senso di colpa, il peso della sua non risoluzione identitaria, di casacca, di stemma, di logo, di genere: mai stato padre, figlio non figlio, negletta produzione eiaculatoria di un trasmettitore di geni più sordo di lui, egocentrico al parossismo, dolosamente distratto e assente che diceva sempre: «Chi Iom? Ma quello non capisce niente. Gli dovrò io procurare una bardatura, entrature potenti, fargli conoscere notabili irti di pelo sulla pancia e consenzienti, condiscendenti ad assecondare il mio volere come banderuole che ruotano al mutare del vento. E il vento sono io! Se io non fossi vento, o foco, o tempesta a Iom poco di suo resta come un allocco meravigliato e stolto! Ma per il momento che viva manzo solo e negletto, In tal modo e guisa diventerà più forte»

Iom, quindi, era stato vittima del padre impositore che dapprima non gli aveva assicurato vesti o corposi interessi annuali, ma gli aveva comminato soltanto crudelissimi disinteressi decennali. Malgrado questo, affinché il nome della loro famiglia e il logoro titolo di Gransciamberlani – dell’Imperial – decadimento – etico – di – Cacania – scribacchini non venisse meno, lo sgrullò dalla guazza nella quale l’aveva prima immerso e poi esiliato.

E lo miracolò comunque – «Perché non si dica che io, fondatore del Giornale degli araldi liberi di parola incatenati, abbia fatto perir di stenti la mia medesima figliolanza. Che non si dica mai! Che non si dica! Ne va della buona creanza e fama del mio nome, che non s’appanni mai la luce di mia lanza. Voscenza, Illustrissimo Regnante, Reverendissimo migrante dall’etica insalda alla quale or’ io m’appello per fortificare in rocca il frutto dei mei lombi, quand’ero ancora giovine e bello!»

Mingherlino malvissuto, livoroso, perennemente aggrovigliato all’altezza delle budella strapazzate di scorcio, Iom si aggirava per le strade del centro antico, in pescosa cerca di carne fresca per colmare presto il suo carniere. Spesso i manzi più triviali lo giubilavano con recisa insofferenza e lo mandavano lì nel luogo dove la liberazione del digerito maleodora, impregnando dello stesso tanfo il deiettore che non sa come nettarsi.

Ominide riottoso, Iom non sapeva scrivere, ma s’incaponiva a farlo.

Confuso ricercatore, cantore di pensieri in lasca sequenza, quando parlava per obbligo o per svago, apriva parentesi tonde, quadre e graffe, lunghi marginalia a bordo pagina, senza essere in grado di concludere la risoluzione secondo ordine critico o filosofico. Per cui, a soliloquio concluso, lui stesso non aveva ben chiaro il percorso tracciato. Idealmente imbalsamato, mummificato nel groviglio dei pensieri enunciati oralmente, ci rimaneva dentro, prigioniero della sua stessa costruzione fatta di spalti e torri incasellate. E nessuno, di ciò che diceva e didatticamente sillabava, capiva niente.

L’avrebbero potuto trovare rinsecchito e cadaverico, senza cibo, né acqua, chiuso nello stesso edificio illogico che egli stesso aveva progettato senza porre fine alla lessemica autogenesi, organica e incontrollabile, con cui aveva costruito intorno tetre muraglie e pinnacoli irrazionali.

Iom allora riteneva opportuno non aggirarsi tra gli scaffali di cancellieri o computisteria perché le poche volte che ci si era infilato s’era sperduto e l’avevano dovuto tirare fuori da sotto una pila di faldoni che gli erano rovinati addosso, seppellendolo quasi. Non sapeva leggere personalmente i testi antichi, i documenti di prima mano, le testimonianze dirette, ma si ostinava comunque a farlo ricorrendo all’aiuto di qualcuno, famiglio, sottoposto o prezzolato, che li leggesse in sua vece.

Quando si doveva confrontare con la pagina bianca e vuota, con lo schermo algido e respingente per dare senso al programma di scrittura installato nella sua mente, avrebbe preferito spellarsi le mani senza anestesia perché ogni volta che si accingeva a farlo, s’invischiava in una selva selvaggia, in un ginepraio nel quale infognarsi e disparire. Di solito, dopo aver rimestato per vari giorni tra le parole da usare e le espressioni che potessero far sembrare il suo scritto affidabile e sicuro, s’avvedeva in realtà di aver partorito un’immonda poltiglia, proprio lui, nuovo Tiresia transeunte non più primiparo ma inabile come se lo fosse stato, in preda alla depressione post parto, per aver scritto quello che gli sarebbe stato rifiutato come scarto.

E allora per ripicca scartava lui o faceva patire chi gli presentava testi e studi da poter diffondere e intorno far gire. Gli trovava tubercoli e difettucci, di forma e contenuto. Faceva ribaltar il costrutto anche a chi gli poteva esser, se non padre o madre, sorella o fratello maggiore per anni ed esperienza di ricercatore.

Ma il miracolo si compì lo stesso, – caro lettore, – quando, ricevuta dapprima la porta gracchiante in faccia – «Faccia da indifendibile senza onorificenze sufficienti sul petto!», – Iom innescò, comunque, procedura atta ad esser miracolato. Si rivolse all’ufficio apposito, quello che di fatto nell’oscurità e sottobanco esisteva da tempo. Quello che da sempre esisteva fondato primo corrotto e dal suo corruttore. Sottoscrisse questua e supplica dimostrando di poter sostenere le uscite corrispondenti che avrebbero fatto giungere doni ai giusti destinatari e concludere, con gloria sicura e squilla di tromba, la procedura.

Il sovvertimento della vicenda, secondo retto cammino, avvenne quando, su coloro che l’avevano allontanato perché ritenuto stitico produttore di stocastici contributi, di stentate indagini e di frastagliati studi, egli cominciò a riversare regalie e doni da far sciogliere il sangue rappreso del santo, da far sorgere il sole due volte al giorno, da far giudicare inetto il prolifico lavoratore e onesto il corruttore di sempre.

Le rade medaglie che portava in petto si moltiplicarono, piccole, grandi, incrostate di pietre rare e rai a saetta, come se da sempre Iom fosse stato orafo, abile ed esperto, incastonatore di algide perle e preziosissimi ori. Onorificenze e gloria diventarono viatico perfetto per salire in alto, più di Psiche o meglio ancor di Ganimede, che pressato dall’augusto usbergo, da sempre prende e mai recede.

Fu così che tutte le sue critiche produzioni che parlavano di segni zodiacali e dei suoi contrari, dell’arte del venare ma anche dell’ecologica conservazione d’animali, del verde stinto e della bava di lumaca usata come solvente, sì insomma del tutto e del niente, del suo effetto e del suo opposto, furono considerati grande prodotto di mente che poteva appartenere a un professorone d’ordinaria, elevatissima complessione.

Fu presa tosto decisione.

Fu così che i capitoletti isolati, i brevi contributi e gli articoli mal titolati divennero per prodigio considerati ognuno tomo lungo e ben relato, tale da esser consigliato in lettura sia allo studente capace che a quello annoiato. In tutte le accademie del regno e dell’impero, di notte, di giorno e all’imbrunire gli scritti di Iom ognun dovea sorbire insieme al latte caldo prima del riposo o come bevanda che corrobora dopo che il sole è sorto in suso.

Ora Iom – circondato dal debole di cuore e d’intelletto, dalla sposa del famiglio impresentabile per schiatta e nome, fatta comunque salir da questi ad alto grado, insieme al mostruoso Occhidipalla, rimasto greve e parassita di sua donna diventato, – s’è messo a studiare l’effetto che dal bosco di querce l’intelletto committente ha fatto suo per tirare su palazzi e regge avite. Anche se di tale ardimentoso cimento il gruppo di aiutatori niente sa e niente ha mai saputo perché di regge e palazzi tirati su dagli uomini di farnia mai niente ha studiato e conosciuto.

E se atlantico, enciclopedico sapere da tali imprese si caverà, stai attento gruppo ardimentoso, perché se non si deduce bene, per dovere e creanza da dove è stato tratto tutta l’informanzia, il preludio, tesi, svolgimento e conclusione con giusto nome e giusta citazione, solo un altro miracolo salverà. Ma dopo il primo, il secondo e il terzo prodigio ben donato, il ciel che già troppo ha erogato forse non più così benigno tornerà a mostrarsi. Perché la sorte, più volte manipolata, stretta ora alla spada di giustizia punitiva s’abbrancherà alla rudimentale, violenta mazzolata che il deretano ossuto o pingue, ancora integro o già rotto da percosse, a gran voce chiede.

Attenti che lo chiede lui, a gran voce, a gran voce! E presto peste saran tutte l’osse!

 

Colonna (sonora) 2023

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di

Claudio Loi

 

PLAYLIST 2022. 15 album da non sottovalutare

Come ogni anno eccoci alle solite classifiche, un’operazione che non serve a nulla e proprio per questo indispensabile. Un giochino che serve – così spero – a tenere viva una passione che a sua volta ci tiene vivi e a continuare a divertirci ascoltando musica, cercando di cogliere i nuovi fremiti che arrivano dalle diverse parti del mondo conosciuto. E di stimoli ne arrivano davvero tanti e di ottima qualità ed è facile perdersi in questo universo così ricco e multiforme. Per il resto questa lista rappresenta una visione soggettiva e opinabile e ognuno potrà essere in grado di farsi la propria playlist. Buon divertimento!

  1. Alvvays. Blue Rev (Transgressive)

Dal Canada con amore e una dose massiccia di suggestioni contrastanti. Una proposta che spiazza nella sua instabile composizione chimica: canzoncine d’autore cantate con suadente naïveté con sfondo noise che spiazza e destruttura. C’è di che uscirne pazzi (in senso buono) da questa strana dialettica degli opposti ed è come perdersi in paesaggi ameni e bucolici a la Twin Peaks o nella oscura immensità della nostra mente. Il miglior pop del pianeta è un ibrido formato da anime che finalmente trovano pace tra le sperdute lande del nord e la voglia di essere altrove. Instabile quiescenza dei sensi.

  1. Anteloper. Pink Dolphins (International Anthem)

La label International Anthem sta a Chicago che non è una città qualsiasi. In quel mondo violentato dal freddo e da temperature estreme si è creato un habitat favorevole alle migliori espressioni musicali divergenti: dal free al post free a tutte le vertigini successive. A Chicago ha trovato cittadinanza anche la visione laterale proposta da Jaimie Brunch e i delfini rosa del titolo sono piccole rimembranze di un sogno che purtroppo si è interrotto sul più bello. Jaimie ci ha lasciato con un patrimonio di suoni che saranno la base per ulteriori viaggi e scoperte e questo disco rimane un testimone prezioso e da tenere caro. Per chi vuole andare oltre le proprie certezze e immaginare un mondo diverso questa è la giusta base di partenza.

  1. Big Thief. Dragon New Warm I Believe In You (4AD)

Loro arrivano da Brooklyn ma sembrano dei fuorusciti di un racconto di Faulkner o da polverosi scenari descritti da John Fante. Folk nell’accezione più folk possibile ovvero di quelle cose fatte a mano con pochi ingredienti e tanta genuina passione. E poi amano fare le cose doppie: nel 2019 sono venuti fuori con due album (Two Hands e U.F.O.F.) che erano la quintessenza di una passione senza limiti verso il lato più poetico dell’esistenza. Nel 2020 la cantante Adrianne Lenker ha pubblicato Songs and Instrumentals, un doppio album dove la sua voce è protagonista assoluta e inesauribile scrigno di emozioni. Questo nuovo disco è anch’esso doppio e strapieno di umori ed emozioni e nessuna voglia di postproduzione, mixaggi, ritocchi superflui: questa è materia prima allo stato puro e una voce che non ha eguali.

  1. Black Country, New Road. Ants from Up There (Ninja Tune)

Le nuove leve del post-punk di scuola british sanno bene dove andare a pescare per fornire le giuste coordinate di un suono che può ancora stupire. Basta rovistare nei cassetti dei propri genitori per trovare quello che serve: la storia si ripete all’infinito e non è mai uguale a sé stessa ed è alquanto straniante rivivere emozioni che pensavamo ormai andate. In questi solchi riecheggia persino qualche reminiscenza prog che tanto ci fece inorridire e che il primo punk ha demolito con veemenza. Nella loro seppur breve storia ritroviamo tutti i topos del rockandroll style: passione, fremiti di innocente ribellione, ma anche studio e applicazione e persino le solite diaspore umane che riemergono quando il chitarrista ha lasciato stizzito la sua band.

 

  1. Black Midi. Hellfire (Rough Trade)

Anche in questo caso colpisce il rapporto tra età media dei concorrenti e capacità di leggere la storia del rock nel suo divenire. La gioventù inglese nasce e pascola tra le colture che del rock e allora viene facile citare, copiare e ricomporre un corpus musicale che così si rigenera e rivive in nuove mutazioni. Loro sono incredibili nel riuscire a fornire un prodotto coerente nonostante la schizofrenia citazionista che li anima. Rock, jazz, prog, elettroshock sonoro a velocità folle con continui cambiamenti di direzione. Qualcuno lo chiama math rock per la sua natura spigolosa e computazionale e ci può stare ma qui siamo di fronte a qualcosa di ancora più complesso e indefinibile.

  1. Cate Le Bon. Pompeii (Mexican Summer)

Una riflessione piuttosto amara sulla condizione umana generata nel profondo Galles nel periodo pandemico con lo sfondo delle eruzioni vesuviane che ben conosciamo. Nel nuovo disco di Cate le Bon tutto è profondo: la voce, i suoni, gli arrangiamenti, persino quell’aria di leggera frivolezza che arriva dalle tastiere e dai computer di bordo. Un’artista da cui è difficile prescindere e che rimanda alle migliori pagine di Kate Bush pure lei incredibilmente tornata in auge. Pochi elementi, quelli giusti e ben dosati e un ascolto che ogni volta rilascia sapori nuovi.

  1. Dry Cleaning. Stumpwork (4AD)

Li si aspettava al varco per capire se tutta quella magia profusa nell’album d’esordio fosse un fuoco fatuo o qualcosa di più duraturo e l’attesa non è stata vana. Il progetto è sempre quello: la voce ieratica e divina di Florence Shaw e un tappetto sonoro percorso da fremiti post-punk e noise di grana fine. Se una cosa funziona è anche giusto passarci il giusto tempo ma siccome noi siamo gente che ambisce all’infinito e ci stanchiamo e seguiamo quell’istinto evoluzionista come scelta di vita ecco che le cose iniziano a complicarsi. E loro questo l’hanno capito e persino affrontato con il giusto piglio trovando nuove soluzioni armoniche e con la Shaw che si permette persino di cantare come quella volta che Greta Garbo accennò un sorriso che sconvolse il pubblico. Stumpwork (il titolo) si riferisce a quella tecnica di ricamo in rilievo che troviamo nei cuscini che spesso invadono le case dei nostri cari e questa cosa ha qualcosa di commovente e scuote sentimenti arcaici. Ma la cosa più stupefacente è l’artwork della copertina con la sua estetica da toilette ed è curioso immaginare l’impegno profuso a sistemare con pazienza la peluria sulla saponetta. Arte estrema che farebbe emozionare anche Hermann Nitsch.

  1. Fontaines D.C. Skinti Fia (Partisan)

Irlandesi dal sangue caldo, hanno il piglio dei veterani pur essendo solo al terzo disco. La loro musica è quella dei muscoli sempre in tensione, di vibrazioni, sudore e fremiti e una nota di esotica baldanza nell’utilizzo della lingua madre e nel recupero di mitologie e fantasmi di matrice irlandese. Ormai li diamo per scontati consci che quello che fanno lo fanno sempre al meglio ma non per questo si rilassano sull’enorme successo ottenuto in questi pochi anni. Questa è gente seria che lavora duro e si conquista ogni giorno il giusto spazio nella scena della musica dei nostri tempi.

  1. Gigi Masin. Vahinè (Language of Sound)

Chissà cosa si prova ad essere veneziani e frequentare quella città, sentirsi assediati dal mondo, da tutto il mondo per tutti i giorni della tua vita. Un assedio che ti obbliga a sviluppare sistemi immunitari a prova di un virus subdolo e maledetto. Forse la miglior autodifesa è quella messa in atto da Gigi Masin capace di costruirsi un universo parallelo, un sistema di protezione che isola e allo stesso non trascura le dinamiche della vita in laguna. La musica di Masin contiene continenti e moltitudini, arriva da lontano, forse dal cosmo o dalle periferie di Dusseldorf o forse dalle oscure manifestazioni del proprio inconscio. La sua forza è quella di essere qualcosa che travalica le pose e le mode, manifestazione di un pensiero coerente e sincero. Arte fuori catalogo adatta ad assecondare la naturale predisposizione all’escapismo ma anche sintesi raffinata di strati sonori e sedimentazioni storiche. Il tutto con le referenze qualificate di Mirko Salvadori a cui potete rivolgervi per un tour subliminale tra campi, bifore e le acque torbide dei canali.

 

  1. Makaya McCraven. In These Times (International Anthem)

Makaya ci consegna il suo testamento spirituale con un’opera destinata a rimanere momento fondante della nuova estetica musicale contemporanea. Una gestazione lunga e ragionata, anche sofferta, l’apporto di un numero enorme di collaboratori, la giusta collocazione editoriale ci consegna un lavoro che spiazza, commuove, ipotizza nuove linee di ragionamento. Siamo oltre ogni genere, il jazz diventa in queste tracce un semplice punto di partenza e si disperde nella nuvola del caos dell’oggi e i suoni che si diramano da questo disco sono pieni di pathos e di infinite suggestioni. Ancora una volta Chicago e la sua gente si dimostra incubatori di sogni e, soprattutto, la patria della libera creatività e di un nuovo umanesimo. Ne abbiamo bisogno.

  1. Nina Nastasia. Riderless Horse (Temporary Residence)

La struggente atmosfera che trapela da queste canzoni ci riconsegna un’artista di cui si erano perse le tracce. Questo disco arriva infatti alla fine di un lungo e tragico percorso personale ed è probabile che la cara Nina sia riuscita a superare le atrocità del quotidiano attraverso una seduta di autocoscienza e ritrovo del sé che talvolta la musica fornisce. Quando ci si trova di fronte a opere così personali, aperte, senza nessuna difesa non possiamo che lasciarci andare al melanconico flusso di sussurri e lacrime. Musica che arriva dal tunnel, dalle profonde immensità della nostra vita e che ci accompagna con affetto. Mica poco!

  1. Not Moving LTD. Love Beat (Area Pirata)

Hanno iniziato le ostilità agli inizi degli anni Ottanta in quella meravigliosa bolgia sonica che si rifaceva a gruppi come Cramps, X, Gun Club e tanti altri e sono arrivati fino ai nostri giorni con qualche aggiustamento nell’organico ma con la stessa voglia di suonare e vivere di rock. Il miracolo sta nel fatto che non si legge in questa storia nessun rigurgito nostalgico, nessuna parodia dei bei tempi andati. Si fa semplicemente quello che si sa fare al meglio delle proprie possibilità (insieme a mille altre cose) schivando le insidie del tempo e delle stagioni. Love Beat è il battito del nostro cuore che imperterrito continua a tenerci vivi.

  1. Paolo Angeli. Rade (ReR)

Paolo Angeli e la sua chitarra o meglio Paolo Angeli è la sua chitarra: un organismo in continua evoluzione, un loop emozionale che non è mai lo stesso, l’isola che c’è e che non c’è. Quella di Paolo Angeli è una mitologia a cui ormai non possiamo rinunciare con la differenza che il rito non è ripetizione meccanica di suoni e parole ma sempre qualcosa di nuovo e inaspettato. Lui continua a rovistare nella storia della musica e si infila nei meandri della tradizione sarda senza passiva rassegnazione. Ogni volta arriva puntuale qualcosa di inedito, di inaudito, suoni che prima non conoscevi che per magia riescono a dialogare con i baluardi del passato. Tutto questo avviene con apparente semplicità e la forza di un sorriso. In realtà dietro questa storia si nasconde un continuo lavorio sulle cose, sui mezzi di produzione del suono e persino sulle dinamiche della fruizione. E siamo solo all’inizio…

  1. Verdena. Volevo Magia (Capitol)

Sono tornati dopo alcuni anni di quiete (apparente) e con un bel cestino pieno di nuove canzoni forse recuperate tra le colline di Albino o nelle cantine polverose delle loro case. Anche per loro arriva il tempo di capire dove andare e come portare avanti una carriera iniziata a metà anni Novanta che ha segnato in modo indelebile la storia del rock italiano. Volevo Magia è il disco che non ti aspetti, carico di energie primarie, di distorsioni, di belle canzoni, ricco di quella magia che di solito troviamo nei primi dischi di una band e poi lentamente si disperde e sfuma col passare del tempo. Loro sono ancora tra noi seppure con le differenze dovute alle normali vicissitudine della vita, del mondo che cambia, della trasformazione. Sarà interessante valutare anche dal vivo la forza reale di queste nuove composizioni ma sul palco loro non hanno mai deluso e anche stavolta sarà così.

  1. Weyes Blood. And in the Darkness, Hearts Aglow (Sub Pop)

Il suo vero nome è Natalie Mering è questo è il suo quinto album, quello della maturità e della consacrazione nel quale si configura la sua visione della musica e del mondo. Un disco complesso e strutturato con una produzione che esalta le capacità vocali della Mering e si posizione in quella zona grigia chiamata chamber pop che talvolta è stata abitata da fragili eroi come Rufus Wainwright, da Antony e tanti altri affascinati da un’estetica carica di ridondanze, di barocchismi e leziosità che possono anche dar fastidio. Weyes Blood è invece molto brava nel superare lo scoglio del kitsch e navigare in queste acque turbolente. Il suo è un universo decadente, pieno di contrasti e di apparenze che possono ingannare, ma anche di luce che appare, di speranze mai abbandonate.

 

 

 

Lost in translation

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di

Francesco Forlani

Qui poesia del nostro tempo presenta l’Archivio virtuale de L’Italia a pezzi. Antologia dei poeti italiani in dialetto e in altre lingue minoritarie, a cura di a cura di Manuel Cohen, Valerio Cuccaroni, Rossella Renzi, Giuseppe Nava, Christian Sinicco

Manuel che mi aveva voluto nell’antologia mi chiese di provvedere alla traduzione in italiano dei testi scritti in furlèn, nel mio idioletto come del resto ogni poeta aveva fatto per le proprie composizioni in dialetto. È stata la sola volta in cui ho tentato di autotradurmi e sinceramente non so se l’esperimento sia andato a buon fine. Essendo il furlèn una creolizzazione di tutte le esperienze linguistiche in cui mi ritrovo la difficoltà maggiore che ho riscontrato è stata nella sua riduzione a una sola lingua, in questo caso l’italiano quasi standard. Voi che dite?

da Il peso del Ciao
Paysage du Sarrà chi sa

(Su una canzone di Renato Forlani e Roberto Murolo)

Sitte sitte facimme, sitte sitte
Que personne ne puisse entendre nos lèvres
A lingua emmocca e’ vase a’ schiocche a’ schiocche
On dirait une fièvre une maladie, un attrape-bouches
Facimme allore sitte sitte allore faie
Ton corps vêtu se déshabille d’une lumière rose
Sta luna chiena chiena, sta curona e spine
Tu me chouchoute: meurs! tu me murmure: vis!
Sitte te staie e chiù sitte ie nun me saccie
La profondeur des yeux dépend de la posture des jambes
Tu me fai suspirà ie te voje bbene
Ton vague à l’âme enjambe, mon respire claque
Cu sti vase facimme sitte sitte, mo mo mo
Je suis Tristan, mais tu t’appelles Juliette
Tu m’adduvine a vocca ie m’annammore
Tu me caresse, je brûle, je deviens chandelle
Sti vase sitte sitte, sàrra sàrra
Ta peau s’enflamme à l’eau de ma salive
St’addore è rose e ciure ’mbuttunate
Une fière créature, une musique lointaine
Sitte facite sitte, vuie facite sitte?
Tu étais mon songe, mon demain, mon hier
Che all’intrasatte mo cull’ate staie
Tu te souviens de moi? Dis-moi, j’existe?
Sitte facite sitte mo chiù sitte maie
Là j’aimerais siffler-divine-ta bouteille
à faccie toie m’embriaca, e sò curtielle e mmane
Je dégueulerais ton âme, comme une chose vive
Sitte sitte facite, facite sitte sitte
Aux larmes citoyens jettate ’e mmane
Il n’y aura plus personne et chiù nisciune sape,
Saura celui qui sait, sarrà sta luna chiena

 

Zitti, facciamo zitti zitti / Che nessuno possa sentire le nostre labbra / la lingua in bocca e i baci a schiocchi a schiocchi / che poi uno dice è febbre, malattia, un acchiappabocche / facciamo zitti zitti allora zitta fai / il tuo corpo vestito d’una luce rosa è spoglio / con questa luna piena piena, questa corona di spine / e mi sussurri: muori! E mi mormòri: vivi / Zitta te ne stai zitta ed io zitto non mi so stare / la profondità degli occhi alla postura delle gambe tiene / tu mi fai sospirare t’amo / l’onda tua all’anima s’ingroppa, il mio respiro schiocca / con questi baci facciamo zitti zitti / Sono Tristano e tu ti chiamerai Giulietta / e m’indovini la bocca io m’innamoro / e mi carezzi, brucio, divento cera / e questi baci zitti zitti, sarà, sarà / la pelle tua s’infiamma all’acqua della mia saliva / quest’odore di rose e fiori fasciati / una creatura fiera, una musica lontana / Zitti, ora voi fate zitti zitti? / eri il mio sogno, il mio domani, ieri / e all’improvviso te ne stai da un altro / e ti ricordi di me? Dimmi, esisto? / Zitti, fate più zitti, zitti più che mai / ora che desidero baciare il collo della tua bottiglia / la faccia tua mi ubriaca, e coltelli sono le mani / vomiterò l’anima tua, come una cosa viva / zitti, fate zitti zitti fate / alle arti compagni gettate le mani / non risarà nessuno più e nessuno mai saprà / saprà soltanto colui che sa, sarà una luna piena

 

Acqua, minerale

0

 

di Saverio Marziliano

Erano i primi giorni di giugno e verso sera l’aria iniziava a diventare molto calda e umida. Per sopperire alla calura, in realtà più per abitudinaria tradizione che per effettivo beneficio, alcune famiglie e molti anziani cercavano refrigerio sedendosi all’aperto davanti ai vari portoni d’ingresso dei palazzi e lungo i marciapiedi. Nei suoi ricordi d’infanzia Aldo ricordava lunghe serate trascorse tra folti gruppi di anziani e genitori stanchi intenti a vegliare distrattamente sui bambini che giocavano accanto mentre intorno infuriavano le discussioni sull’attualità o su erronee rievocazioni di eventi del passato.

Per un forestiero che fosse appena arrivato, osservare i gruppi di famiglie assiepate avrebbe costituito una buona approssimazione dei legami che intercorrevano tra le famiglie del quartiere e, in una qualche misura, anche della città. Mentre attraversava la via principale che divideva il quartiere dalla stazione notò qualche sparuta sedia vuota davanti a delle aiuole, mentre un anziano signore in bermuda e calzettoni compressivi tesi fino al ginocchio sonnecchiava sull’uscio di un villino sotto lo sguardo distratto della sua badante intenta a scorrere gli aggiornamenti sullo smartphone. Dalle poche finestre aperte si udivano suoni di stoviglie e TV accese; pensò che le altre fossero chiuse per evitare che il caldo potesse intaccare il microclima da condizionatore di quei miniappartamenti, per lo meno a giudicare dalle luci accese e dalle decine di motori esterni per condizionatori che donavano un tocco di contemporaneità alle anonime facciate pallide dei numerosi palazzi che si susseguivano lungo la via, stinte da anni di lenta esposizione al sole feroce della canicola. Pensò che forse fosse quello il motivo per cui la strada gli sembrò più silenziosa, vuota e desolata di come la ricordasse. Era però questione di qualche settimana e poi il quartiere si sarebbe temporaneamente ripopolato per l’estate. Lungo il tragitto per raggiungere la collinetta posta alla fine dello stradone, ripensava a quelle parole che aveva ascoltato la sera prima. Non era la prima volta che assisteva a un dibattito pubblico a scuola o in città, anche se a casa e tra i parenti si cercava sempre più spesso di schivare questi argomenti, non tanto per evitare di rovinare l’atmosfera quanto per non riaprire fratture mai del tutto sanate. Il discorso dell’anziano professore lo aveva però colpito e non riusciva a capire bene perché. In quel contesto ci era nato e ci viveva, eppure sebbene lo sentisse proprio continuava a trattarlo come un corpo estraneo, un altrove dove ogni tanto gli toccava approdare per poi ripartire verso paradisi artificiali che gli consentissero di affrancarsene. Quelle frasi però avevano smosso qualcosa di diverso dentro di lui. Per la prima volta ebbe la sensazione che qualcuno fosse riuscito ad esprimere con le parole quel mondo che da sempre sentiva di avere dentro, ma a cui non era mai riuscito a dare forma.

Questo era il primo anno che era rimasto sostanzialmente solo. Pisa, Milano, Roma, Firenze, perfino Trento, erano solo alcune delle città dove i suoi amici si erano trasferiti per studiare o lavorare. Tra meno di un mese li avrebbe finalmente rivisti. Era felice, certo, ma anche un po’ confuso. Per schiarirsi le idee aveva quindi deciso di uscire per una breve passeggiata e si era diretto verso la collinetta al termine del quartiere. Superato il parcheggio del discount market e arrivato ai piedi della montagnola aveva dunque percorso i duecento scalini due alla volta per arrivare allo spiazzo in cima e lì si era seduto sull’unica panchina rimasta ancora a presidiare la fortezza. Era ormai notte, eppure il cielo sembrava illuminato quasi a giorno dalla solita luce rossastra per lui ormai familiare. Sebbene non molto alto, quello era un punto di osservazione privilegiato sul golfo e la città; da lì, anche a occhi chiusi, sarebbe riuscito a indicare con estrema precisione dove si trovavano il mare, la città vecchia, l’antica acropoli cittadina, il porto. E la fabbrica.

A guardare quel moloch dall’alto sulle mappe satellitari si aveva l’impressione che il satellite avesse avuto qualche problema di messa a fuoco o anomalia nella trasmissione dei dati. Infatti, accanto alle immagini nitide del mare, dei palazzi e degli sconfinati appezzamenti di terreno frammentati in tanti piccoli pixel di vari colori a seconda della messa in coltura, ad un certo punto compariva un alone rossastro tendente all’amaranto scuro. Era la fabbrica, con i suoi parchi minerari en plein air. Il passato e il presente della città. Di recente, a custodia di quell’enorme polmone collassato color amaranto erano stati posti però due enormi sarcofagi bianchi che dopo meno di un anno dall’inaugurazione avevano già assunto un timido color nicotina. Suo padre, operaio in pensione che aveva lavorato nell’arsenale militare della città, diceva invece che visto così dall’alto il parco minerario gli sembrava un enorme bacino di carenaggio. Vista così di notte, racchiusa tra gli uliveti e gli agrumeti a nord-ovest, il mare ai suoi piedi e le luci della città che si confondevano con il cielo stellato velato dal fumo notturno delle ciminiere e dal bagliore delle luci di segnalazione poste su di esse, si sentì come un astronomo davanti a un buco nero; un’enorme massa dotata di un campo gravitazionale così violento da attrarre a sé qualsiasi elemento circostante. Si accese una sigaretta e davanti a quella vista pensò ai suoi amici e a chi come loro era partito anni addietro e sarebbe tornato a breve per le vacanze. Non si trattava dell’unica città a vivere quella diaspora e lui certamente non era l’unico ad affrontarne le dirette conseguenze sulla sua pelle. Pensò ai famigliari di chi era andato via, che restavano in città, e ai tantissimi volti giovani e adulti che vedeva sciamare per le vie del centro a Natale, Pasqua ed agosto e su cui non si era mai soffermato finché a quei visi sconosciuti non si erano uniti quelli dei suoi amici. Si chiedeva quanti e quali fossero i motivi di chi era partito, il loro stato d’animo, i sogni, le speranze e le aspettative. Sarebbero tornati? Il mondo che avevano trovato fuori dalla città era come immaginavano? Si guardavano mai indietro? E cosa vedevano? Chi e cosa trovavano quando tornavano? Chi decideva di restare lo faceva perché sceglieva di non partire o perché non aveva scelta? Aldo su questo non aveva dubbi, se avesse potuto decidere sarebbe partito anche lui. I suoi amici gli ripetevano che a vent’anni per loro il viaggio era aprirsi al mondo, ma anche alla scoperta di sé. Vero, pensò, ma forse per chi restava era più difficile affrontare se stessi, o per lo meno così era stato per lui da quando era rimasto solo in città. Fece un ultimo tiro alla sigaretta, ripensò alle parole dell’anziano professore, ai suoi amici, alla sua condizione e a quella di chi era partito e di chi restava a casa in attesa. Si alzò, lanciò lontano nel buio il mozzicone della sigaretta, poi si voltò ancora una volta a guardare il mare e la fabbrica, smisurato fenomeno collettivo che incombeva sulla città e aggregava ogni storia individuale, i palazzi, gli appartamenti, i villini, le luci e i lampioni che di notte rischiaravano il cielo e accarezzavano le acque del golfo. C’era ancora tempo per invertire la rotta o era ormai troppo tardi?

 

La “Storia della notte” di Borges

1
Photo: kyriakosmauridis.gr
J.L. Borges, Caricatura di Kyriakos Mauridis -> kyriakosmauridis.gr

Quest’anno per Adelphi è uscito Storia della notte di Borges, a cura di Francesco Fava, con testo a fronte. Ne pubblico alcuni testi, ringraziando l’editore e felicitando il curatore [o.t.]

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UN LIBRO

Niente più che una cosa tra le cose
però anche un’arma. Forgiata nell’anno
1604, in Inghilterra,
è stata caricata con un sogno.
Racchiude suono e furia e notte e porpora.
La soppeso sul palmo. Chi direbbe
che contenga l’inferno: le barbute
streghe che sono le parche, i pugnali
esecutori di leggi dell’ombra,
l’aria leggera che avvolge il castello
che ti vedrà morire, la leggera
mano che sa coprir di sangue i mari,
la spada e le alte grida di battaglia.

Quel silenzioso strepito ora dorme
entro lo spazio di uno dei volumi
del placido scaffale. Dorme e attende.

L’INCISIONE

Perché, mentre la chiave apre la porta,
torna ai miei occhi con stupore antico
l’incisione di un tartaro che infilza
dal suo cavallo un lupo della steppa?
La belva si contorce eternamente.
Il tartaro la guarda. La memoria
mi offre questa tavola di un libro
il cui colore e la cui lingua ignoro.
Saranno anni ormai che non la vedo.
A volte la memoria mi spaventa.
Le sue concave grotte e i suoi palazzi
(disse Agostino) accolgono di tutto.
L’inferno e il cielo in lei trovano posto.
Del primo ne racchiude a sufficienza
il più comune e tenue dei tuoi giorni
e un incubo qualsiasi della notte;
per l’altro, c’è l’amore di chi ama,
la freschezza dell’acqua nella gola
della sete, il pensiero e il suo esercizio,
il nitore dell’ebano invariabile
o – luna e ombra – l’oro di Virgilio.

L’INNAMORATO

Avori, lune, marchingegni, rose,
le lampade e la linea di Albrecht Dürer,
le nove cifre e il mutevole zero.
Farò finta che queste cose esistano.
Fingerò che ci furono in passato
Roma e Persepoli e che una sottile
sabbia segnò i destini di fortezze
che i secoli di ferro hanno disfatto.
Fingerò armi, fingerò la pira
dell’epopea e i mari che gravosi
erodono i pilastri della terra.
Fingerò che altri esistano. È menzogna.
Tu solamente, sei. Tu, mia sventura
e mia ventura, tu incessante e pura.

LE CAUSE

I crepuscoli e le generazioni.
I giorni senza il giorno del principio.
La freschezza dell’acqua nella gola
di Adamo. L’ordinato Paradiso.
L’occhio che indaga e scruta nella tenebra.
I lupi che si accoppiano nell’alba.
La parola. L’esametro. Lo specchio.
La Torre di Babele e la superbia.
La luna contemplata dai Caldei.
Le sabbie innumerevoli del Gange.
Chuang Tzu e la farfalla che lo sogna.
Le tre mele dorate del giardino.
I passi dell’errante labirinto.
La tela senza fine di Penelope.
Il tempo circolare degli stoici.
La moneta che il morto ha nella bocca.
Sulla bilancia il peso della spada.
Nella clessidra ogni singola goccia.
Le aquile imperiali e le legioni.
Cesare la mattina di Farsaglia.
L’ombra delle tre croci sulla terra.
L’algebra e la scacchiera del persiano.
Le tracce delle lunghe migrazioni.
La conquista di regni con la spada.
La bussola incessante. Il mare aperto.
L’eco dell’orologio nel ricordo.
Il re decapitato dalla scure.
La polvere di secoli di eserciti.
La voce d’usignolo in Danimarca.
La scrupolosa riga del calligrafo.
Il volto del suicida nello specchio.
La giocata del baro. L’oro avido.
Le forme delle nubi nel deserto.
Ogni arabesco del caleidoscopio.
Ogni rimorso pianto in ogni lacrima.
Sono servite tutte queste cose
perché le nostre mani si incontrassero.

EPILOGO

Un evento qualunque – un’osservazione, un incontro, una separazione, uno di quei curiosi arabeschi di cui il caso si compiace – può suscitare l’emozione estetica. Il destino del poeta è proiettare quell’emozione, che è stata intima, in una favola o in una cadenza. La materia di cui dispone, il linguaggio, è, come afferma Stevenson, assurdamente inadeguata. Che cosa farsene, delle parole logore – gli idola fori di Francis Bacon – e di alcuni artifici retorici contenuti nei manuali? A prima vista nulla o molto poco. Eppure, è sufficiente una pagina dello stesso Stevenson o una riga di Seneca per dimostrare che l’impresa non sempre è impossibile. Per eludere la controversia, ho scelto esempi trapassati; lascio al lettore il vasto passatempo di ricercare altre felicità, forse più immediate.
Un volume di versi altro non è che una successione di esercizi di magia. Il modesto incantatore fa quel che può con i suoi modesti mezzi. Una connotazione mal riuscita, un accento sbagliato, una sfumatura, possono rompere l’incantesimo. Whitehead ha denunciato la fallacia del dizionario perfetto: supporre che per ogni cosa ci sia una parola. Lavoriamo a tentoni. L’universo è fluido e mutevole; il linguaggio, rigido.
Fra tutti i libri che ho pubblicato, questo è il più intimo. Abbonda in riferimenti libreschi, come pure vi abbondò Montaigne, l’inventore dell’intimità. Si può dire lo stesso di Robert Burton, la cui inesauribile Anatomy of Melancholy – una delle opere più personali della letteratura – è una sorta di centone, inconcepibile senza lunghi scaffali. Come alcune città, come alcune persone, una parte estremamente grata del mio destino sono stati i libri. Mi sarà permesso ripetere che la biblioteca di mio padre è stata l’evento capitale della mia vita? La verità è che non ne sono mai uscito, come Alonso Quijano non uscì mai dalla sua.
Buenos Aires, 7 ottobre 1977
J.L.B.

Tungsteno

2

di Fabio Rodda

 

Alexander si era sciacquato il viso e aveva buttato giù un bicchiere di samogon con qualche fetta di pane nero e carne essiccata. Lo aveva diluito con l’acqua presa nel secchio vicino alla grande stufa, che da ottobre a marzo non si spegneva mai. Lo allungava perché il suo samogon era il più forte della regione, lo sapevano tutti: lui distillava una volta sola e non tagliava tutta la testa e tutta la coda. Una roba per veri uomini. Aveva visto amici svenire dopo solo quattro o cinque bicchieri del suo samogon. Era per il veleno, si lamentavano loro. La parte migliore, secondo Alexander. Fuori era ancora buio. 24 sottozero, diceva il termometro sulla porta di casa. La pelle si tende fino a rompersi, se non la copri con il grasso di foca o di balena. Aveva preso il sentiero per raggiungere la fermata dove gli altri sarebbero passati a raccoglierlo. Mezz’ora di cammino, poi il sole era sorto e aveva acceso il bianco improvviso, il bianco che acceca. Alexander era salito sul UAZ già fermo a bordo strada. Lo aspettavano Artyom, Mikhail, Ivan e Andrey, che, come al solito, guidava il furgone. Ivan gli fece posto vicino al finestrino. Due chiacchiere, niente di nuovo nelle poche ore che ognuno aveva passato lontano dalla miniera. Poi, solo luce che bruciava gli occhi e faceva saltare i nervi. Alexander aveva promesso a Zhanna che non avrebbe bevuto samogon al lavoro, né vodka, né nessun intruglio che gli amici avrebbero certamente portato. Ma quel bianco, quel bianco gli entrava nel cervello, si faceva strada scavando dalle retine fin nei punti più oscuri e segreti e poi tutto diventava luce che abbaglia la ragione, che stana i pensieri, che non da tregua. Mikhail gli passò una bottiglia torbida. Aveva promesso a Zhanna: quel giorno a casa c’era Maxim. Fece un lungo sorso, poi tornò a guardare fuori quel mare di fuoco bianco che adesso faceva appena meno male, dietro le iridi quasi trasparenti.

Zhanna stava rassettando casa, spazzava il pavimento di legno e aveva sul fuoco lo stufato di carne, piselli e cipolle. Iska sarebbe arrivata prima di pranzo con Maxim: doveva andare in città, aveva un colloquio di lavoro e Dmitriy era in fabbrica. Oggi avrebbe dovuto lasciare Maxim coi nonni tutto il giorno, il viaggio era lungo, sarebbe tornata col buio, non c’erano alternative. L’aveva chiamata una settimana prima, per dirle che aveva bisogno di aiuto. Zhanna era ubriaca, ma non ancora così tanto da non riuscire a parlare e aveva promesso a sua figlia che si sarebbe occupata del nipote. Era un giorno solo, non c’era problema. Aveva portato in casa più legna del solito, che la stufa fosse bella calda per il piccolo. Sarebbe stata contenta, sua figlia, di vedere il cibo sul fornello e sentire che caldo usciva dall’enorme stufa. Sarebbe stata contenta, almeno una volta.

Iska era inquieta. Non avrebbe voluto lasciare Maxim coi suoi, ma non aveva scelta. O, meglio, forse avrebbe potuto chiedere a Katya, ma Dmitriy aveva così insistito: per una volta, non potevano i suoi genitori fare i nonni? Non sarebbe neanche rimasto per cena, loro figlio. Era assurdo che non potessero mai contare sull’aiuto della sua famiglia, lei che ne aveva una. Katya già stava con Maxim tutti i pomeriggi e non voleva in cambio nient’altro che qualche torta e dei grazie. Era troppo chiederle di prendersi un giorno da lavoro, un permesso dall’emporio di Mirjana, per badare a Maxim. C’erano i nonni. Non avrebbe nemmeno dovuto deviare di molto dal tragitto per andare in città. Quel colloquio era importante, avevano bisogno di soldi. Fosse andato bene, avrebbero subito pensato a tutto, a cambiare casa, ad andare in città. Sarebbe stato meglio anche per Maxim. Per una volta i suoi sarebbero stati responsabili: si sarebbero comportati da nonni.

Ogni giorno, spaccare lastre di granito per tirarne fuori wolframite, pezzi neri o rosso cupo di roccia da cui estrarre il tungsteno. Per farci i fili delle lampadine. Almeno così dicevano gli altri, giù in miniera. Alexander odiava il tungsteno, odiava la luce. Non bastava quella riflessa dalla neve per otto mesi all’anno? Non bastava quel bianco accecante tutto attorno? In casa, teneva accese solo candele e lampade a olio. Odiava il tungsteno e la polvere di roccia che s’infila ovunque, che non si lava mai via del tutto ed entra nei polmoni, nei pori della pelle che diventa dura, ruvida e scura.

Quel giorno aveva chiesto di fare solo mezzo turno. Dopo pranzo, sarebbe andato via con Andrey, che doveva tornare verso Abaza a recuperare dei martelli pneumatici in riparazione e gli poteva dare un passaggio. Stavano salendo sul montacarichi che li portava in superficie. Andrey tirò fuori una borraccia, levò il tappo e fece un sorso. La passò ad Alexander. Aveva promesso. Ne avrebbe bevuto solo un goccio.

Quando Iska salutò il piccolo Maxim, che dormiva tranquillo vicino alla stufa, sentiva lo stomaco pesante. Sua madre era stata carina: la casa, se casa si poteva chiamare, era quasi pulita e nell’aria c’erano caldo buono e odore di stracotto. Restò a guardare suo figlio, il suo naso così piccolo, come le orecchie. Era così bello, Maxim. Così perfetto. Salutò sua madre, si raccomandò ancora. Zhanna la rassicurò di nuovo e la accompagnò alla porta. Iska salì sul piccolo fuoristrada, il motore sempre acceso: bastano pochi minuti, già a fine autunno, per far ghiacciare le parti meccaniche e dover lasciare la macchina ferma fino al disgelo. Rimase qualche istante a guardare quella stamberga che ancora oggi visitava i suoi incubi. Sognava, sempre più di rado per fortuna, quell’odore. L’odore strano che aveva sentito venire dal piano di sotto. Si era svegliata per un rumore improvviso, un guaito nel silenzio e aveva sentito quell’odore, quel puzzo che non capiva. Suo padre era così ubriaco da aver appestato l’aria coi miasmi di mele marce e zucchero che si mischiavano a un tanfo acre come quello della lana bruciata, ma più sporco, un flato sulfureo che non conosceva. Era scesa a piedi nudi sulle scale di legno senza far rumore e, nel vuoto tra i gradini, aveva inquadrato sua madre addormentata sul divano. E poi l’aveva vista: Nevà, la loro cagnolina, bruciava nella grande stufa. Suo padre, il volto sfigurato dall’alcol e dalle fiamme, la guardava arrostire senza dire una parola. Iska si era tappata la bocca per trattenere un urlo. Era tornata di sopra, si era chiusa in camera, certa che quella sorte, fra poco, sarebbe toccata anche a lei. Tratteneva il respiro, ma quell’odore, quella peste s’infilava da ogni interstizio fra la porta e i muri e il pavimento e per quanto lei avesse riempito con le sue felpe e i maglioni tutte le fessure, quel fetore era entrato nella stanza e non l’avrebbe lasciata più. Si addormentò per terra, la schiena appoggiata alla porta. La mattina dopo, non aveva avuto il coraggio di chiedere niente. Sua madre disse che la loro cagnolina, col buio, era stata male e suo padre l’aveva aiutata. Lei non rispose. Nevà stava bene. Le aveva dato lei, come ogni sera, la buonanotte e lei stava bene. L’aveva guardata coi suoi occhi buoni e si era nascosta nel fondo della cuccia, nell’angolo più facile da scaldare. Forse, quella notte faceva troppo freddo e Nevà si era lamentata. Forse, aveva abbaiato e suo padre, che quando puzzava di mele andate a male diventava un’altra persona, si era infuriato. Iska aveva sei anni, come Nevà: erano cresciute insieme. Quella mattina, non disse nulla e non pianse.

Si scosse. Respirò a fondo e guardò il fumo uscire dal camino di ferro arrugginito. Era passato tanto tempo. Infilò la marcia e partì per andare in città.

Alexander era tornato a casa ubriaco. Meno di tante altre volte, ma comunque ubriaco. Zhanna lo aspettava in cucina. Gli mise davanti una scodella di stufato e aprì una bottiglia di vino: se doveva sopportare suo marito in quelle condizioni, non poteva farlo da sobria. Maxim dormiva.

Poi, si svegliò e cominciò a piangere.

Le grida del bambino. Quel suono era come la luce bianca del mattino, abbacinante, che penetrava nel cervello e andava a scavare fra i pensieri più bui, che non aveva pietà e illuminava tutte le miserie della mente. Fuori, il sole era tramontato e Alexander aveva trovato, come ogni sera, un po’ di pace nella penombra. Ma quelle grida, era come se, ad ogni strillo, un po’ di luce bianca s’infilasse dietro gli occhi, fra i bulbi e il cervello, come filamenti di tungsteno incandescenti che scavavano nel cranio, come le trivelle che usava tutti i giorni, giù in miniera. Maledetta luce e maledetto quel pianto insopportabile.

Zhanna era stanca per il vino e per le botte di Alexander, furioso di samogon e delle urla di Maxim. Era riuscita a calmare il piccolo, finalmente. I suoi occhi grandi le ispezionavano silenziose rughe scavate anzitempo. Si era addormentata col nipotino stremato a fianco.

Iska aveva fretta, voleva passare a prendere suo figlio e correre a casa: avrebbe fatto in tempo a cucinare qualcosa per Dmitriy. Avrebbero brindato alla bella notizia con del vino buono. Dovevano cercare casa, organizzare il trasloco. Ma ci avrebbero pensato domani, adesso bisognava festeggiare. Adesso, voleva solo prendere Maxim e andare via. Doveva allontanarsi da lì, da quella baracca che illuminava coi fari della sua Lada. L’ansia, che da qualche minuto le chiudeva lo stomaco, le diceva di sbrigarsi a entrare e andar via. C’era tanto fumo, lì attorno. Troppo fumo. Parcheggiò davanti a casa dei suoi, il motore acceso. Il camino stretto sbuffava nuvole dense e scure che rotolavano davanti ai fanali puntati sulla porta di legno. Iska scese dalla macchina, sentì il freddo. Poi, le sue gambe cedere sulla neve compatta, mentre le narici si riempivano di quell’odore.

 

Così parlò Malatestra

0

di

Errico Malatesta

Amare tutti somiglia molto a non amare alcuno.


Nota

Una riflessione problematica e per questo estremamente interessante sul sentimento dell’amore.

Fonte: La Questione Sociale, Paterson, New Jersey, nuova serie, n. 18, 6 gennaio 1900.

 


 

A prima giunta può sembrare strano, ma è un fatto che la questione dell’amore – dell’amore tra i due sessi – e tutte quelle che ad essa si connettono, preoccupano molto la mente di una gran parte degli uomini e delle donne, anche quando problemi più urgenti, se non più importanti, sembrerebbero dovere attirare tutta l’attenzione e tutta l’attività di coloro che cercano il modo di rimediare ai mali che affliggono l’umanità.

Tutti i giorni incontriamo gente, che è schiacciata sotto il peso delle istituzioni della Proprietà e del Governo; gente che non ha abbastanza da mangiare o è minacciata ad ogni momento di cadere, per mancanza di lavoro o per malattia, nella più assoluta miseria; gente che non può allevare decentemente i proprii figliuoli e spesso li vede morire per non poter dar loro le cure necessarie; gente cui sono preclusi i vantaggi e le gioie dell’arte e della scienza; gente che è condannata a passare la vita senza essere un giorno solo padrona di sé, sempre sottoposta all’arbitrio dei padroni e dei birri; gente per la quale il diritto di avere una famiglia, il diritto di amare, è niente altro che un’atroce ironia – e che pure non accetta i mezzi che le proponiamo per sottrarsi alla schiavitù economica e politica, se prima non siamo riusciti a soddisfarla sul modo come in una società anarchica si soddisferebbe al bisogno di amare e come si organizzerebbe la famiglia. E naturalmente questa preoccupazione cresce, e certe volte fa trascurare e disprezzare gli altri problemi, nelle persone che han risolto per loro il problema della fame, che possono normalmente soddisfare i più imperiosi bisogni, e vivono in un ambiente di relativa agiatezza.

Il fatto si spiega, perché grande, immensa, è la parte che l’amore occupa nella vita morale e materiale dell’uomo, e perché è nella casa, nella famiglia, che l’uomo spende la parte maggiore, e migliore, della sua vita.

E si spiega pure per una tendenza verso l’ideale che infiamma l’animo umano non appena esso si apre alla luce della coscienza. Fino a che l’uomo soffre senza darsi conto delle sue sofferenze, senza cercarvi un rimedio e senza ribellarvisi, esso vive animalescamente e piglia la vita come viene, o come gliela fanno. Ma quando incomincia a pensare, ed a capire che i suoi mali non dipendono da insuperabili fatalità naturali, ma da cause umane che gli uomini possono distruggere, allora è subito invaso da un bisogno di perfezione e vuole, almeno idealmente, godere di una società in cui regni l’armonia assoluta, ed il dolore sia scomparso completamente e per sempre. Tendenza questa utilissima, poiché sprona sempre in avanti; ma che riesce dannosissima quando induce a trascurare il realizzabile ed a restare nello stato in cui si è per la ragione che anche in questo realizzabile s’incontrano dei difetti e dei pericoli.

Ora, diciamolo subito, noi non abbiamo nessuna soluzione per rimediare ai mali che possono venire all’uomo dall’amore, perché essi non si possono distruggere con riforme sociali e nemmeno con un cambiamento di costumi. Essi dipendono dai sentimenti profondi, diremmo fisiologici, dell’uomo, e non sono modificabili, se lo sono, che per lenta evoluzione ed in un modo che noi non sapremmo prevedere.

Noi vogliamo la libertà; noi vogliamo che gli uomini e le donne possano amarsi ed unirsi liberamente senz’altro motivo che l’amore, senz’alcuna violenza legale, economica o fisica. Ma la libertà, pur essendo la sola soluzione che noi possiamo e dobbiamo offrire, non risolve radicalmente il problema, visto che l’amore per esser soddisfatto ha bisogno di due libertà che s’accordano, e che invece molto spesso non si accordano affatto: e visto che la libertà di fare come si vuole è una frase vuota di senso se non si sa che cosa volere.

È presto detto “quando un uomo ed una donna si amano si uniscono, e quando non si amano più si separano”. Ma bisognerebbe, perché questo principio fosse fonte sicura e generale di felicità, che essi si amassero e cessassero di amarsi contemporaneamente. Ma se uno ama e non è riamato? Ma se uno ama ancora quando il suo coniuge non lo ama più e vuol correre a nuovi amplessi’! E se uno ama nello stesso tempo più persone, e queste non sanno adattarsi a tale promiscuità?

“Io sono brutto”, ci diceva un tale; come farò se nessuna donna vorrà amarmi!” La domanda si presta al riso; ma non è meno rivelatrice di vere, strazianti tragedie!

Ed un altro, preoccupato dallo stesso problema diceva: “Oggi, se non trovo amore, lo compro, magari economizzando sul mio pane: come farò se non vi saranno più donne costrette a vendersi’?” La domanda è orribile, poiché mostra il desiderio che vi siano esseri umani che la fame costringa a prostituirsi; ma è anche terribile – e terribilmente umana!

Alcuni dicono che il rimedio sarebbe l’abolizione radicale della famiglia; l’abolizione della coppia sessuale più o meno stabile, riducendo l’amore al solo atto fisico, o meglio trasformandolo, col congiungimento sessuale in più, in un sentimento simile all’amicizia, che ammetta la molteplicità, la varietà, la contemporaneità degli affetti. E i figli . . . figli di tutti.

Ma è possibile abolir la famiglia? È desiderabile?

Prima di tutto notiamo che, malgrado il regime di oppressione e di menzogna che ha prevalso sempre, e tuttora prevale, nella famiglia, questa è stata, e resta ancora, il più gran fattore di sviluppo umano, poiché essa è il solo luogo dove l’uomo normalmente si sacrifica per l’uomo e fa il bene per il bene, senza desiderare altro compenso che l’amore del coniuge e dei figli.

Certamente vi sono casi di sacrifizii sublimi, di lotte e martirii affrontati per il bene della collettività tutta quanta; ma sono sempre casi eccezionali, la cui influenza sullo sviluppo dell’istinto sociale dell’umanità non può paragonarsi a quella, più modesta sì, ma costante ed universale della coppia che si dedica all’allevamento ed all’educazione dei figliuoli.

Ma, si dice, eliminate le questioni d’interesse, tutti gli uomini diventerebbero fratelli e si amerebbero tutti.

Certo, non si odierebbero più; certo, si svilupperebbe fortemente il sentimento di simpatia e di solidarietà, e l’interesse generale degli uomini diventerebbe un fattore importante nella determinazione della condotta di ciascuno. Ma questo non è ancora l’amore.

Amare tutti somiglia molto a non amare alcuno.

Noi possiamo forse soccorrere, ma non possiamo piangere tutte le sventure, o dovremmo passare la vita piangendo: e pure la lagrima di simpatia è la più dolce consolazione per un cuore che soffre!

La statistica delle morti e delle nascite ci può offrire dati preziosi per conoscere i bisogni della società, ma non dice nulla ai nostri cuori. Noi non possiamo rattristarci per ogni uomo che muore; non possiamo sussultare per ogni bimbo che nasce.

E se non amiamo alcuno più intensamente degli altri, se non v’è alcun essere pel quale più specialmente siam disposti a sacrificarci, se non conosciamo altro amore che quello tiepido, moderato, quasi teorico, che possiamo sentire per tutti, non sarebbe la vita meno ricca, meno feconda. meno bella? la natura umana non ne resterebbe castrata nei suoi slanci più nobili? Non resteremmo privi delle gioie meglio sentite? non saremmo più infelici?

Del resto, l’amore è quello che è. Quando uno ama fortemente, sente il bisogno del contatto costante, del possesso esclusivo dell’essere amato. La gelosia, intesa nel senso migliore della parola, sembra essere, è generalmente una cosa sola coll’amore. Il fatto si può lamentare, ma non si può cambiare a volontà, nemmeno a volontà di colui stesso che ne è affetto.

Secondo noi, dunque, l’amore è una passione per sé stessa generatrice di tragedie: tragedie che certamente non si tradurrebbero più in atti violenti e brutali, quando l’uomo avesse il senso del rispetto che si deve alla libertà altrui, quando esso avesse abbastanza controllo sopra sé stesso per comprendere che non si rimedia ad un male aggiungendovene un altro peggiore, e quando l’opinione pubblica non fosse più, come è oggi, morbosamente indulgente pei cosiddetti reati passionali, ma che resterebbero sempre dolorosissime.

Fino a che gli uomini avranno i sentimenti che hanno – e non ci pare che basti a cambiarli un cambiamento nell’assetto economico e politico della società – l’amore produrrà, nello stesso tempo che grandi gioie, anche grandi dolori. Si potrà diminuirli ed attenuarli eliminando tutte le cause eliminabili, ma non si potrà completamente distruggerli. Ma è questa una ragione per non accettare l’anarchia, e voler restare nello stato attuale? Sarebbe fare come uno che non potendo vestirsi di costose pellicce volesse andare ignudo, o non potendo mangiare pernici tutti i giorni rinunziasse anche al pane; o come un medico che, vista l’impotenza attuale della scienza a guarire tutte le malattie, non volesse curare nemmeno quelle che si possono guarire.

Distruggiamo lo sfruttamento e l’oppressione dell’uomo sull’uomo, combattiamo la brutale pretesa del maschio a credersi padrone della femmina, combattiamo i pregiudizii religiosi, sociali e sessuali, assicuriamo a tutti, maschi e femmine, uomini e fanciulli, il benessere e la libertà, diffondiamo l’istruzione . . . e avremo ben ragione di rallegrarci se non vi resteranno altri mali che quelli d’amore.

In tutti i casi, gl’infelici in amore potranno rifarsi con altre gioie, poiché allora non sarebbe più come oggi che l’amore – insieme all’alcool -·è la sola consolazione della più gran parte dell’umanità.

 

Autodafé nell’acqua: su Dovunque acqua sia voce di Domenico Brancale

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di Lorenzo Mari

Ci sono molti modi sbagliati per provare a parlare dell’ultimo libro di Domenico Brancale, Dovunque acqua sia voce (Edizioni degli Animali, 2022). E non si sta necessariamente parlando di modi di vento e di terra, perché, se è pur vero che nel libro dominano acqua e fuoco – «Numerose poesie bruciano in fondo all’acqua» è la citazione, dall’interno del volume, opportunamente riportata nella bandella –, questo non toglie che la “voce” sia un fatto di anima/ánemos, dunque alito di vento, e trovi, sempre, radice materiale, terrestre, in un corpo. Questo, Brancale lo sa bene e lo propone di continuo nel libro, la cui alchimia è innanzitutto alchimia del testo e della voce, prima che alchimia in senso tradizionale o esoterico.

Un altro modo sbagliato potrebbe essere quello di evocare la trama intertestuale del libro, andando a pescare la «lista di medicine» (p. 44) che Brancale offre nella sezione “Autobiografia dell’acqua” – titolo, peraltro, che poco ha a che spartire e di sicuro non è in relazione agonistica con la nota Antropologia dell’acqua (Donzelli, 2010) di Anne Carson. Certo, a «una fiala di Dostoevskij, una supposta di Flaubert, tre compresse di Walser, infusione di Kafka, sette gocce di Bernhard, pomata Lispector» (p. 44) si potrebbero aggiungere gli echi degli autori che Brancale ha tradotto e che sono riportati nella sua biografia – Cioran, Giorno, Royet-Journod, Scelsi, Artaud – e ancora i molti altri che si stagliano con maggior nettezza nelle pagine di questo libro: Friedrich Hölderlin, Thierry Metz, José Bergamín, Rubina Giorgi, John Berger, John Giorno… Quello di Brancale è un taccuino – alla maniera del Taccuino nero di Joë Bousquet, senza dubbio – ma non è certo un centone dominato da una volontà enciclopedica o indicale, da un tentativo, di qualche tipo, di narcisistica autoconferma. Tutt’altro, la sfida è intesa in modo più assoluto, nel senso della libertà dai vincoli (anche da quelli del canone letterario), come si legge, ad esempio, e sempre a proposito di Bousquet: «Forse il solo modo di opporre resistenza alle condizioni dell’esistenza è imprigionare il proprio pensiero. Joë Bousquet: devo molto a questo poeta, alle sue gambe i libri che mi hanno lasciato camminare» (p. 17).

Paradosso e rovesciamento non sono mai sacrileghi, in Brancale, se non nella misura in cui restituiscono una certa dimensione sacra. Il sacrificio è dappertutto, anzi, e il primo a cadere è, naturalmente, l’io: l’Autobiografia dell’acqua non può essere mai “autobiografia” in senso stretto – se non per ricordare che, appunto (e nonostante una sempre più implacabile messa a nudo della propria vicenda esistenziale, nel corso delle pagine del libro di Brancale), anche il genere autobiografico si regge su uno specifico patto con il lettore e non su un qualche tipo di referenzialità “dura” – e, soprattutto, dell’io bisogna liberarsi. Un insegnamento della mistica, questo, e di tutti quegli autori e autrici che con la mistica si sono misurati – come Cristina Campo, della quale si sta avvicinando il centenario della nascita, celebrato in anticipo dalla casa editrice Ripostes, che ha rimesso in circolazione già da qualche mese Cristina Campo in immagini e parole, curato, a suo tempo, anche dallo stesso Brancale – ma anche un insegnamento del buddhismo, cui certi passaggi del libro sembrano puntare, e soprattutto insegnamento dell’asino.

«Ih-Oh» dice l’asino che non sa dire “io”, se non a suo modo «Ih-Oh, Ih-Oh e io non voglio più essere Ih-Oh, non voglio più l’essere» (p. 80) – scrive Brancale ritornando sui passi del suo precedente libro, Scannaciucce (Mesogea, 2019), ma anche all’amore per gli asini di un autore come John Berger. In fondo, bisogna «Credere all’asino che vola. Fino alla fine. Fino alla voce» (p. 80) ribadisce, poco sotto, Brancale, usando quei giochi di parole, anche minimi, che ogni tanto si possono rintracciare nel testo, a testimonianza di una dolcezza – che, non per questo, è falsamente consolatoria – che resta e resiste tra quelle righe che, per altri versi, si confrontano di continuo con il dolore, la morte e, in genere, l’inappartenenza della vita per chi vorrebbe possederla.

Di nuovo, sulla stessa pagina: «Intendere il raglio è riscoprire la propria identità nell’altro, scoprire nel volto umiliato della bestia l’invisibile divino» (p. 80, corsivi nell’originale). L’autodafé continuo e sincero di Brancale – di quell’unica sincerità che è possibile in poesia e che non ha niente a che fare con l’immediatezza viscerale di certa lirica anche contemporanea, ma che è “senza cera”, come il miele più puro, quello che non ha messo alcuna cera di essere altro, e quindi, traslitterando, non ha alcuna faccia – è, innanzitutto, apertura all’altro. E dunque anche a linguaggi altri: Brancale non soltanto non esibisce alcuna saggezza canonica, se non per farne un uso totale, nel campo della letteratura, ma non lo fa nemmeno nel campo delle arti visive – di cui pure l’autore è esperto conoscitore e praticante, come testimonia il suo lavoro per la collana Prova d’Artista della Galerie Bordas – e questo lascia spazio all’altro che abita questo testo. I tre preziosi acquerelli di Miquel Barceló, artista che non ha bisogno di presentazione, restano incastonati nel testo e al tempo stesso assoluti, senza vincoli. Solo così lasciano trasparire gradualmente alcune forme nell’acqua: emerge qualcosa, ed è l’altro.

È anche per questo, – per la fascinazione di un testo che, finalmente, parla! – che in questa piccola nota di lettura si è voluto procedere più che altro per negazione: qualcosa emerge, sicuramente, ed è tanto, ma è qualcosa che va ascoltato come esperienza nuova e irripetibile di ciascuno, nel fare dovuto spazio ai colori dell’acqua di Miquel Barceló e alla voce dell’acqua di Domenico Brancale.

Democrazia e riscaldamento climatico: oltre la politica dei piccoli gesti

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di Andrea Inglese

 

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Suicidio come soluzione ecologica

Si potrebbe pensare che i Ginks – Green Inclination, No Kids – siano l’avanguardia nella lotta contro il riscaldamento climatico. Certo, la scelta di non riprodursi per non moltiplicare il consumo di energia, l’inquinamento, la distruzione della biodiversità è radicale e ammirevole. Dando però un’occhiata alle cifre, non dal lato tanto dei volonterosi cittadini dalla propensione verde, ma dal lato multinazionali delle energie fossili, questi sforzi pur eroici rischiano di apparire lillipuziani. Forse si potrebbe fare di più: piuttosto che differire la riduzione dell’impronta carbonica individuale nel futuro (impedendo nuove nascite), si potrebbe procedere a un più efficace Green Suicide, ovvero ci si toglie di mezzo ora, azzerando la nostra triste contribuzione all’emissione di gas serra, ed inoltre si tronca la domanda energetica, che giustifica tutte le turpitudini delle multinazionali. Anche questo ragionevole piano, però comporta un rischio. Chi ci assicura che gli Elon Musk rimasti in vita, la cui contribuzione al riscaldamento climatico è proporzionale alla loro ricchezza, non ne approfittino per estendere ulteriormente la loro impronta carbonica? E decidano – nelle autostrade che il nostro sacrificio estremo ha lascito sgombre – di far circolare SUV a motore diesel senza conducente ma con l’algoritmo della guida automatizzata? Sarebbe una bella fregatura. Essersi ammazzati, per permettere ai i più ricchi “senza propensione verde” di godersi da soli il pianeta prima della catastrofe.

 

La scienza (da sola) non ci salverà

La questione climatica è la questione politica del secolo XXI, ma non ci riguarda, perché non vogliamo, non sappiamo più, fare politica, e siamo d’accordo, con i nostri nemici, che la soluzione migliore è trasformarla in una questione morale. Questa scappatoia ha i suoi vantaggi e svantaggi. Innanzitutto, dà ai più benestanti e acculturati di noi la possibilità di essere virtuosi, di elevarsi moralmente rispetto alla plebe inconsapevole e inquinante, per limitarci ai vantaggi. Inoltre, abbiamo l’idea di riappropriarci del nostro destino, così come sui social ci riappropriamo quotidianamente della nostra immagine pubblica. Gli svantaggi, però, ci sono, soprattutto per i più giovani. Anche se virtuosi, gli piglia spesso una certa fifa, una certa ansia, che gli psicologi hanno già catalogato: è l’angoscia climatica. Come tutte le angosce, dovrebbe anch’essa essere curabile, previo numero più o meno grande di sedute terapeutiche.

Una cosa è certa: non è la scienza che sarà in grado di limitare il degradarsi del clima. Gli scienziati hanno già fatto il loro lavoro. Nel 1979, alla prima conferenza mondiale sul clima di Ginevra, han detto all’umanità grosso modo quel che era importante sapere: l’attività umana è responsabile di cambiamenti climatici, che avranno impatti negativi per gli esseri viventi sull’intero pianeta. La verità è stata formulata nelle sedi istituzionali apposite, ma nonostante ciò essa non ha avuto forza vincolante, non ha prodotto necessarie conseguenze sul piano pratico. Dire come le cose stanno (verità scientifica) non permette di dedurre quali decisioni bisogna prendere, ossia quali azioni compiere. La verità, dunque, è stata dapprima cercata, poi trovata e formulata, e infine è stata perfettamente compresa, restando – come spesso accade – lettera morta. (Questo fatto ha persino permesso la produzione di discorsi negazionisti, che quella stessa verità smentiscono, senza ingombrarsi con criteri di scientificità, ecc.). Quei dati di fatto hanno atteso almeno 26 anni per tradursi in qualche vincolo legale, in qualche obiettivo specifico da realizzare, in occasione del protocollo di Kyoto nel 2005. L’aggiornamento di quegli obiettivi e vincoli si è avuto nel 2015 con l’Accordo di Parigi sul clima, entrato in vigore l’anno successivo. Si tratta di un contratto di diritto internazionale che ha l’obiettivo di ridurre le emissioni di gas serra, di mettere in opera programmi di adattamento rispetto ai peggioramenti climatici, di indirizzare risorse statali e private verso uno sviluppo a emissioni ridotte. Approssimativamente, potremmo dire che, rispetto ai primi allarmi lanciati dalla comunità scientifica, gli Stati e il diritto internazionale hanno lasciato passare un mezzo secolo prima di reagire in modo conseguente. (Si pensi alle difficoltà enormi, anche solo a livello europeo, per introdurre una qualche forma efficace di Carbon Tax. E la tassa sulle emissioni inquinanti per gli importatori stranieri approvata questo dicembre dalla UE – Carbon Border Adjustment Mechanism (CBAM) – è salutata come la decisione politica più avanzata a livello mondiale nella lotta contro il mutamento climatico. Peccato che tutto ciò avvenga diciassette anni dopo il protocollo di Kyoto, che doveva segnare l’era delle “misure concrete”.)

Una tale inerzia in ambito decisionale dovrebbe ricordarci che, come la verità scientifica non è bastata a contrastare di per sé il mutamento climatico, così accadrà con il progresso tecnologico o la disponibilità finanziaria. L’organo che solo può indicare dove la ricerca scientifica vada indirizzata, quali priorità dare alle sue applicazioni tecnologiche e quali programmi energetici finanziare, è la politica, intesa non come sede decisionale – i governi dei vari Stati del mondo – ma come processo di confronto pubblico e di scelta collettiva. Si capisce ora che la concezione del rapporto tra comunità scientifica e cittadinanza democratica, come quella sviluppata da un Paul K. Feyerabend, è più che mai attuale. In La scienza in una società libera del 1978, il filosofo austriaco scriveva: “Gli specialisti, compresi i filosofi, possono naturalmente essere interpellati, si possono studiare le loro proposte, ma si deve riflettere con precisione per stabilire se tali proposte e le regole e i criteri che le hanno ispirate siano desiderabili e utilizzabili”. Si tratta, in realtà, di generalizzare il principio della giuria popolare che già vige nel diritto: “La legge richiede l’interrogazione in contraddittorio di esperti e la valutazione di tale interrogatorio da parte dei giurati”.

In realtà, quello a cui Feyerabend – e altri pensatori come Cornelius Castoriadis o Bruno Latour – fa riferimento è un processo che implica varie tappe e vari soggetti. Oltre ai lobbysti buoni e cattivi, oltre alle ONG, oltre ai dirigenti politici, oltre agli scienziati, ossia a coloro che già oggi partecipano a questi incontri mondiali sul clima, finalizzati ad accordi più o meno vincolanti sul piano delle politiche industriali, sociali e territoriali, è necessario che sia mobilitato il numero più ampio di cittadini, e questo non può avvenire che in seguito a pubbliche discussioni, inchieste, capillari opere di divulgazione realizzate dagli organi d’informazione, dalla letteratura e dalle arti. Non sto evocando un mondo utopico dove la cittadinanza costantemente ben informata possa intervenire in tutta chiarezza e trasparenza sui processi decisionali che riguardino indirizzi scientifici o sviluppi tecnologici. Sto solo affermando che, nell’attuale contesto di minaccia climatica su scala planetaria, è auspicabile che i cittadini in un modo o nell’altro riescano a costituire un contropotere nei confronti dei potentati economici, in particolar modo i giganti delle energie fossili (carbone, petrolio, gas). Ora, anche ammesso che esista, almeno potenzialmente, un contropotere, esso deve porsi degli obiettivi pratici, e può farlo con una certa efficacia solo in cognizione di causa.

Il termine “contropotere” non è neppure forse il più adatto, perché suggerisce l’esistenza di un potere illegittimo (le multinazionali dell’energia? i dirigenti politici? gli esperti?) a cui si oppone un potere più legittimo. L’uno e l’altro, in realtà, sono definitivamente legati, e non potranno funzionare come realtà indipendenti e autonome. Nella capitolo conclusivo del suo libro fondamentale, Carbon Democracy. Political Power in the Age of Oil (Verso, London, New York, 2011), Timothy Mitchell scrive riguardo alla duplice minaccia che inquieta il XXI secolo: il limite “fisico” delle energie fossili – ne vorremmo all’infinito, ma esse sono risorse finite – da un lato, e il limite “climatico” dall’altro – se continuiamo a sfruttarne quante ne vorremmo, andiamo incontro alla catastrofe. L’appello ai “limiti” naturali dei “maltusiani” è contraddetto inevitabilmente dall’appello all’innovazione tecnica dei “tecnologi”, che contro qualsiasi affermazione di un limite “naturale” predicano l’imprevedibilità delle soluzioni “tecnologiche”. Di fronte a queste due prospettive, scrive Mitchell:

“Si può preferire una posizione alternativa, che consiste a riconoscere, non che gli esseri politici sono determinati dalle forze naturali, o, all’opposto, che il progresso continuo della scienza e della tecnologia li libererà dai vincoli naturali, ma che noi ci troviamo nel bel mezzo di un numero crescente di controversie sociotecniche. Contrariamente a quello che sostiene l’idea convenzionale della scienza, il cambiamento tecnico non sopprime le incertezze: le fa proliferare. (…) Queste controversie tecniche sono sempre delle controversie sociotecniche, ovvero dei conflitti sui tipi di tecnologie con le quali noi desideriamo vivere, ma anche sulle forme di vita sociale, e sociotecnica, che noi siamo pronti a fare nostre.”

La controversia energetica e climatica non si affronterà semplicemente come un conflitto di cittadini contro le multinazionali dell’energia o contro lo strapotere della tecnologia, ma come una riorganizzazione dei processi democratici, che permettano ai cittadini di parteciparvi efficacemente.

Limiti della politica dei “piccoli gesti” quotidiani

Qualcuno dirà che da tempo i cittadini “comuni” sono entrati nella controversia climatica. È ormai diffuso un discorso sulla responsabilità di ogni individuo nei confronti dei suoi consumi di energie fossili (diretti e indiretti) e dell’emissione conseguente di gas serra nell’atmosfera; in quest’ottica, d’altra parte, è nato il concetto di “impronta carbonica individuale”, elaborato all’inizio del secolo dall’agenzia di comunicazione statunitense Ogilvy & Mather, su richiesta della British Petroleum (BP). I giganti delle energie fossili hanno un chiaro interesse nello spostare la responsabilità sull’individuo consumatore piuttosto che sull’azienda estrattrice. E l’operazione ha avuto un notevole successo. Ma il tipo di responsabilità a cui fa riferimento Mitchell va ben al di là del tentativo individuale di ridurre i consumi d’energia – tentativo, sia chiaro, non solo lodevole, ma necessario. Non è sufficiente l’emersione di nuove emozioni collettive, come la “vergogna di prendere l’aereo”, perché sia possibile esercitare una significativa responsabilità politica. (Faccio questo esempio, in quanto Greta Thunberg, in un suo recente intervento citava la nascita in Svezia del neologismo “flygskam”, che si riferisce appunto alla vergogna di viaggiare in aereo.) Ora, un calcolo sull’impatto che avrebbero comportamenti individuali “eroici” e “realisti” sulla riduzione dei gas serra, secondo gli obiettivi dell’accordo di Parigi – riduzione dell’80% entro il 2050 dell’impronta carbonica media di un cittadino francese – è stato fatto da Carbone 4, un’agenzia di consulenza indipendente e specializzata in strategie a basse emissioni di gas serra, che ha sede in Francia.

Secondo questo studio, nel migliore dei casi, ossia applicando un controllo virtuoso dei gesti quotidiani (rinuncia alla carne e all’aereo, prevalenza dello spostamento in bici, ecc.) si otterrebbe una riduzione del 25% sulla percentuale globale dell’80%. Se tutti questi cittadini virtuosi avessero, inoltre, anche notevoli capacità d’investimento, essi potrebbero attraverso ristrutturazioni, sostituzioni di caldaie, acquisto di auto elettriche, ecc., ridurre di un altro 20% la loro impronta carbonica. La virtù e i soldi di questi cittadini eco-responsabili non li sottrarrebbero però alla necessità di inventarsi qualcosa per fare in modo, stavolta al di fuori della politica dei “piccoli gesti” individuali, che qualcosa si ottenga collettivamente, ossia a livello istituzionale e giuridico affinché sia ridotto quel restante 35% di emissioni che non dipende da loro. In soldoni: anche se fossimo tutti delle irreprensibili Greta Thunberg, noi cittadini europei non potremmo evitare di passare dalla sfera delle scelte individuali e autonome a quella delle azioni pubbliche e politiche, affinché siano realizzati da tutti gli attori in gioco (Stati e imprese incluse) gli obiettivi di contenimento del riscaldamento climatico (accordo di Parigi). Più realisticamente, Carbone 4 ricorda che l’impegno individuale potrebbe in media ridurre le emissioni del 20%, lasciando fuori un corposo 60% che dipende dal nostro ambiente sociale, tecnico e politico. In questa fetta da ridurre, rientrano le emissioni dell’industria, del sistema agricolo, dei servizi pubblici, del settore trasporti, ecc.

 

Politiche contro i criminali climatici o contro le vittime del riscaldamento globale

L’insistere sull’efficacia dei “piccoli gesti” quotidiani e sulle nostre abitudini di consumo ha probabilmente qualcosa di rassicurante, ma di certo ci allontana da realtà spiacevoli che riguardano gesti di ben altra efficacia e che vanno in direzione del tutto contraria alla nostra buona volontà. Penso a quelle multinazionali dell’energia che il giornalista francese Mickaël Correia chiama criminali climatici e che hanno fornito il titolo del suo ultimo libro d’inchiesta (Criminels climatiques. Enquête sur les multinationales qui brûlent notre planète, La découverte, Paris, 2022).

Correia ha realizzato un ritratto in effetti agghiacciante delle tre multinazionali che sono in testa alle classifiche delle emissioni di CO₂ sul nostro pianeta: si tratta di Saudi Aramco, gigante saudita del petrolio, China Energy, conglomerato nazionale di aziende che producono elettricità dal carbone e dell’oggi ben noto Gazprom, leader internazionale del gas sotto controllo del governo russo. “La sinistra trinità delle energie fossili. Se oggi questo trio climaticida fosse un paese, incarnerebbe la terza nazione per emissione di gas serra dietro la Cina e gli Stati Uniti”. Uno dei punti più interessanti dell’inchiesta riguarda non solo le malefatte di questi attori delle energie fossili non occidentali. I criminali climatici (di Stato) godono, infatti, di una vasta complicità nel settore privato dell’energia, della finanza mondiale e della stessa politica in Occidente, e particolarmente in Europa. (Sul fenomeno generale in Europa delle revolving doors, ossia di personale politico che continua la sua carriera nelle lobby delle energie fossili, si può leggere questo studio degli ecologisti europei ; sulle infuenze di Gazprom in amibito francese, questo articolo di Correia.) Il capitalismo estrattivista, insomma, non ha frontiere né geografiche né culturali né religiose.

L’intervento su tali realtà implica non solo un lineare passaggio dal privato al pubblico, dal personale al politico, ma implica – come suggerisce Mitchell – l’invenzione di nuove forme di azione politica assieme a nuove forme di diffusione delle conoscenze, di discussione e confronto pubblico, di auto-educazione collettiva, dentro e fuori i contesti istituzionali. Purtroppo la crisi ecologica, di per sé, non garantisce nessun tipo di necessaria “presa di coscienza rivoluzionaria”. E questo neppure ora, dove si passa dalla previsione scientifica all’esperienza empirica diretta. A partire dall’estate del 2021, anche i San Tommasi della climatologia hanno potuto toccare con mano il cambiamento climatico. Non solo esso esisteva per davvero, ma era già lì, a portata delle loro orecchie e dei loro occhi. Tutti, d’altra parte, ci siamo ritrovati come in un film distopico, a fissare imbambolati all’ora di cena immagini televisive di città sventrate dalle inondazioni e massicci incendi di foreste nelle più svariate parti del mondo.

Questa nuova paura climatica potrebbe avere su quegli stessi europei che si ritengono l’avanguardia ecologica del pianeta (anche con qualche legittima ragione), effetti devastanti, innanzitutto sul funzionamento delle nostre democrazie. La volontà individuale e collettiva di cambiamento si scontrerà sempre di più con l’idea che il nostro mondo, ossia le nostre istituzioni politiche e sociali vadano preservate così come sono (con il dispendio energetico che le tiene in piedi) e che queste istituzioni non siano compatibili con i flussi migratori attuali e futuri. Le diverse forze politiche saranno in disaccordo sull’età pensionistica, sulla legislazione relativa all’aborto o ai matrimoni gay – cose certo fondamentali – ma condivideranno un’attitudine bellica e autoritaria nei confronti dei migranti poveri alle loro frontiere. Insomma, come già da tempo si dice, la questione ecologica è indissolubile dalla questione sociale (di classe, all’interno di un paese, e di rapporto tra paesi ricchi e paesi poveri, sul piano internazionale), ma essa determinerà anche il destino politico dei nostri paesi, ossia la capacità di quest’ultimi di sottrarsi o meno a soluzioni sempre più barbare nei confronti della popolazioni di non-cittadini che cercano di giungere sul nostro territorio.

[Le immagini sono tratte dal fumetto di Jancovici – Blain, “Le monde sans fin”, Dargaud, 2021.]

La più recondita memoria degli uomini

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Mohamed Mbougar Sarr, La più recondita memoria degli uomini, Edizioni e/o, 2022

 

di Valerio Paolo Mosco

L’incipit di La più recondita memoria degli uomini spiega molto, fissa il tema del libro. È un incipit che cattura: “Di uno scrittore e della sua opera possiamo almeno sapere una cosa: l’uno e l’altra camminano insieme nel labirinto più perfetto che si possa immaginare, una lunga strada circolare in cui la destinazione si confonde con l’origine: la solitudine”.

La solitudine aleggia nel libro di Saar come atmosfera e destino. I personaggi si muovono tra incontri continui, in luoghi sempre diversi, ma sono soli, soli con il loro destino. Solitudine e destino vanno perfettamente d’accordo: solo nella solitudine appare il destino e nella solitudine più totale appare ciò che il destino porta con sé: l’ineluttabile. Romano Guardini parlava di “fiducia nell’ineluttabile”, ovvero la fiducia nel tragico, nel grande disegno, anche se il grande disegno è destinato a sopraffarci. È questo un paradosso con cui si sono confrontati i grandi autori tragici, spesso schiacciati dal loro stesso compito. Ecco allora che appare l’intelligenza e l’astuzia di Shakespeare che ad ogni monologo metafisico faceva seguire l’irrompere di un fool, di un pazzo canzonatorio, stemprando così quell’inesorabilità che sarebbe stata troppo per il pubblico e probabilmente anche per sé. Saar non ha paura dell’inesorabilità tragica, ci si immerge in un romanzo denso e compatto, un thriller sulla condizione di più personaggi che corrispondono a lui stesso, ovvero con l’autore destinato a confrontarsi con un’opera che lo può schiacciare. Il ritmo del libro è ipnotico e allo stesso tempo mantiene sempre qualcosa di sfuggente e di arbitrario.

Ecco allora che appare il fine del libro, quello di mettere in scena il tragico passando attraverso il polimorfismo postmoderno, allora è come se Sarr si fosse chiesto se fosse possibile coniugare un postmoderno che ormai da decenni associamo all’alleggerimento della realtà, alla finzione, alla manierata sofisticazione estetica con l’ineluttabilità del tragico. Quello di Sarr è dunque un progetto teorico che in parte trova delle assonanze con quello di Houellebecq, ma che in Sarr acquista maggior respiro narrativo, quasi una plasticità e dei chiaroscuri mancanti all’autore francese. Diversi temi si intrecciano nella narrazione di Sarr: il tragico e l’ineluttabile, il magico e l’enigmatico, la condizione dell’esule e di colui che vive in bilico tra due culture, quella di appartenenza e quella di afferenza, quella senegalese e quella francese. La peculiarità della narrazione di Sarr è quella di disseminare questi temi nel testo facendoli affiorare e immergerli con destrezza nei diversi personaggi in una coralità che dona agli stessi temi quella che potremmo definire una profondità di campo. Si ha allora la sensazione che la costruzione narrativa sia asservita proprio a questa profondità di campo e ciò per evitare quel moralismo d’accatto e quella tendenza didascalica che fa sì che ad ogni interrogativo dobbiamo dare risposta, possibilmente quella più assertiva possibile. Non giungere a conclusioni, quasi essere condannati a non giungere a conclusioni definitive: è forse questo il senso di quel tragico postmoderno che sembra tenere insieme la letteratura contemporanea più convincente.

A sovrintendere poi il tutto nel libro di Sarr il tema dell’autorialità, della costruzione di un’autorialità ed è questo il vero tema tragico del libro. La tesi è chiara: un autore è colui il quale sacrifica e sacrifica, è colui che ha il coraggio di spingersi al di là dei sistemi difensivi, privati e pubblici che siano, è colui che sa che l’opera potrà sopraffarlo in quanto lo metterà a nudo, lo potrà sacrificare in quanto lui stesso si sarà messo in una condizione di vulnerabilità.  “Salvo solo ciò che è scritto con il sangue” sentenziava Nietzsche. Per anni le opere scritte con il sangue sono state evitate e i pochi autori che scrivevano con il sangue, per timore, hanno cercato di dissimulare il tragico in quanto rifiutato da un pubblico postmoderno perbenista. I temi sono cambiati e il libro di Sarr lo dimostra. Ci auguriamo che il suo messaggio possa essere raccolto da una letteratura italiana esangue, che dai tempi di Calvino si è alleggerita così tanto da risultare evanescente.

 

Diaporama

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Appunti sulle fotografie di Salvatore Cuccurullo

di

Enrico De Vivo

 

La sera del 15 settembre 2022 Salvatore Cuccurullo, maestro di pianoforte di Angri ed emigrato in Veneto circa vent’anni fa per insegnare, stava morendo in un ospedale di Vicenza. Dopo aver ricevuto la notizia, ho trascorso la serata fino a tardi a guardare le sue foto pubblicate sui social, a scorrere la sua pagina lentamente, soffermandomi su alcuni scatti che già conoscevo e su altri che mi erano sfuggiti. C’era sicuramente un sentimento magico, qualcosa di religioso o superstizioso, in questa mia reazione – forse la credenza inconscia di poter fare qualcosa intervenendo sugli oggetti collegati alla persona, o l’illusione che un miracolo potesse ancora accadere. Del resto, chi, in quelle ore, nonostante l’ineluttabilità della notizia, non ha sperato fino alla fine in un miracolo per Salvatore?

 

Ho sempre avuto l’impressione che le fotografie di Salvatore Cuccurullo fossero anacronistiche. Sembrano infatti concepite al di fuori dell’immediatezza telematica, estranee all’ideologia del carpe diem soffocante nel quale siamo immersi. Non sono consumabili perché non sono guardabili velocemente. Lo sguardo del frequentatore abituale di social vi scivola sopra, senza contare che spesso il dispositivo rende invisibile ciò che non gli aggrada. E invece quelle foto richiedono uno sguardo attento, essendo state concepite allo stesso modo: con attenzione e dedizione. Bisogna quindi fermarsi davanti alle fotografie di Cuccurullo, bloccare il thread dei post e prendersi una pausa, anche se a qualcuno potrebbe capitare di chiedersi: tutto qui? Ma in queste foto non c’è niente, solo alberi, cielo, monumenti… Come davanti a una “poesia della torre” di Hölderlin o a un haiku. Tutto qui?, ci si potrebbe chiedere. No. Non è tutto qui. Quello che devi cercare non si trova nel cosiddetto contenuto o soggetto dell’immagine, ma nella grazia con cui l’immagine è stata realizzata, nella sua forma studiata e nella composizione ragionata, nei suoi colori vividi e nel ritmo lento che le sottostà.

Le foto di Cuccurullo sono quasi sempre frutto di passeggiate, il bottino o meglio il residuo di escursioni, uscite, visite. Il cielo gli serve per far risaltare meglio i contorni delle cose, così tutto è più nitido e chiaro. Le ombre non sono molto presenti, Cuccurullo ama la luce e la chiarezza: la prima cosa che gli interessa è far capire bene agli altri quel che vuol dire. Era un fotografo della domenica? Difficile che un fotografo della domenica si ponga i problemi formali che si evincono dalle sue fotografie. Le immagini di Cuccurullo abbagliano per il nitore della compostezza formale e per il rigore compositivo, qualità che di certo ricavava dalla musica. I suoi scatti sono concepiti come fraseggi energici e allegri, mozartiani. Mai casuali. Ma neanche studiati con acribia. Le cose e le persone, gli animali e le piante sono messi insieme con ritmo musicale. Le sue foto è come se suonassero, e dunque prima del contenuto o del soggetto, offrono un incanto soltanto formale, coloristico, volumetrico. Come nella foto in cui il cielo per magia diventa verde, sovrapponendosi al paesaggio collinare che fa da sfondo a un volatore in parapendio.

 

Matteo Marchesini ha scritto di recente che Guido Piovene, riferendosi agli scrittori veneti (Zanzotto, Parise, Valeri), diceva che vivono il paesaggio come “un sogno di sé stessi”. Il legame di Salvatore Cuccurullo con il Veneto trapela dalle sue fotografie, che sono anche piccoli “sogni di sé stesso”. Probabilmente lo aveva catturato soprattutto questo del Veneto: la possibilità che il suo paesaggio offre di realizzare sé stessi come una proiezione onirica nell’esterno, in un “fuori di sé” che non ha nulla dell’impazzimento, ma è una forma superiore di sensibilità e conoscenza. Nelle sue immagini non c’è mai niente di narcisistico, le sue foto sembrano senza autore, quasi senza macchina fotografica: somigliano a epifanie. Il marchio personale, “d’autore”, che in genere è sempre sottolineato nella maggior parte delle immagini in circolazione, è come annullato. Le foto di Cuccurullo sembrano venute fuori dal nulla, scattate come da nessuno. Quello che l’estetica e le più raffinate poetiche otto-novecentesche hanno ricercato con tecniche sopraffine – l’ablazione dell’io, come diceva Beckett – nelle foto di Cuccurullo si realizza con naturalezza lampante, senza sforzo. Il fotografo ha lasciato che la macchina fotografasse, lui ha fatto soltanto da supporto, da cavalletto. È come se si fosse nascosto o fosse andato via, mentre l’immagine si faceva: e quando si è fatta, è riapparso per osservarla e magari commentarla con veloci didascalie oggettive. Cuccurullo nutriva quindi un grande rispetto per tutto quello che capitava davanti al suo sguardo, accolto nel riquadro dell’immagine e sistemato come un ospite in casa propria: un animale, un albero, un monumento, e tanto tantissimo cielo, come si vede ad esempio nell’ultima foto pubblicata ad agosto sui suoi profili social, in cui la torre di Romano d’Ezzelino svetta nel cielo azzurro su alcune figure umane in miniatura. Sotto vi leggiamo la didascalia: “Chi pedala, chi legge, chi passeggia, chi chiacchiera, chi guarda il panorama, chi stringe una mano, chi fotografa… È la torre dei sogni”. Poi, aggiunto nei commenti, in calce a un ingrandimento del medesimo scatto che mostra un minuscolo parapendio che galleggia sulla torre: “E c’è chi vola…”.

 

 

Adesso forse capisco meglio perché mi ci sono soffermato tanto, su queste foto. Perché Cuccurullo era così anche nella realtà, come le sue foto: aperto nei confronti di tutti con una gentilezza naturale, una delicatezza di modi e gesti di rispetto che mettevano sempre a proprio agio. Ti sorrideva sempre, come sorrideva alle cose che passavano nel suo obiettivo e alle quali faceva spazio per farle accomodare nel posto migliore, ossia per far venir fuori nel modo migliore il loro splendore ordinario (“Scene di ordinaria meraviglia”: sua didascalia a una foto). Uno sguardo, il suo, generoso, protettivo – quasi ansioso. Ansioso di far male o di provocare noia o danno. E per questo, forse, anche nervoso, alla ricerca di una perfezione dell’assenza che certamente non riusciva a raggiungere durante le sue interminabili divagazioni con gli amici, ma che la fotografia rendeva possibile, consentendogli di ritrarsi completamente dalla scena, in modo che ogni cosa potesse apparire nella propria “evidenza di immagine” (Hölderlin) – perché le immagini sono lì da sempre, si fanno da sole o le ha fatte dio, e noi possiamo soltanto aiutarle ad apparire, a vedere la luce.

Salvatore Cuccurullo ammirava molto Gianni Celati. Leggeva con passione i suoi libri fin dai tempi del DAMS di Bologna, frequentato dopo il diploma in pianoforte al Conservatorio di Salerno negli anni Ottanta. Anche Celati è morto quest’anno, a gennaio. Anche lui ha inseguito per tutta la vita le forme espressive che consentono all’io di farsi da parte in favore del mondo, in favore del divenire che paradossalmente è sempre possibile immortalare con un ritmo, un canto, un’alternanza di chiari e scuri. Negli scritti di Celati come nelle fotografie di Cuccurullo non prevalgono mai i “chicchirichì dell’io” (definizione di Celati), non ci sono le pose creative o le vanterie tecniche tipiche di chi si atteggia a scrittore o artista. Da questo punto di vista mi sento di azzardare che le fotografie di Cuccurullo erano qualcosa di più di oggetti artistici: l’”arte” – con le virgolette perché intesa nel senso degenerato al quale ho appena alluso – Cuccurullo l’aveva superata, guardava oltre, e pubblicando su Facebook e Instagram cercava di intuire dove avrebbe potuto condurlo la ricerca della calma, della serenità. Dove avrebbe potuto portare in futuro quelli come lui e come noi che studiando, scrivendo, suonando hanno cercato e cercano nella vita qualcosa di più della ricchezza o del successo: qualcosa di più umano, di più sopportabile e di più amichevole – un’immagine, un racconto, una musica – che ci salvi dai cani-pensieri inviati da una dea impietosa. Non mi stupisce che una delle sue foto più belle sia proprio dedicata a una scultura (nella Reggia di Caserta, riprodotta in questa pagina) del cacciatore Atteone, che secondo l’interpretazione di Giordano Bruno è sbranato dai cani dei propri pensieri, essendo andato in cerca di una preda troppo difficile: “I’ allargo i miei pensieri/ Ad alta preda, ed essi a me rivolti/ Morte mi dàn con morsi crudi e fieri”. Eppure la foto di Cuccurullo ci sorprende, perché non si limita a illustrare l’episodio mitico, ma quasi lo interpreta: una coloratissima paperella in primo piano, indifferente alla crudeltà della natura e del mito, se ne va per la sua strada beatamente, scampata infine ai propri terribili cani-pensieri.

 

 

Bisogna dire qualcosa infine di un altro tipo di fotografie che riguardano Cuccurullo: i ritratti che gli facevano i suoi amici (non ho mai visto un suo selfie). Nelle foto che lo riprendono in primo piano Salvatore mostra quasi sempre il suo sorriso ampio e fiducioso, in una posa naturale da monaco zen, imperturbabile ma determinato, calmo e nello stesso tempo infervorato. Le sue fotografie e i suoi modi pacifici con tutti ci trasmettono anche il suo profondo sentimento della totalità unitaria dell’esistente (natura e cultura, grandi e piccoli, Nord e Sud). La sua morte ci ha fatto male, molto male, ma ora ci resta la sua arte – senza virgolette –, ancora tutta da scoprire e valorizzare.

Evviva allora il nostro poeta della luce, evviva il nostro Hölderlin emigrante!

 

 

L’aperto giorno all’uom brilla di immagini

Quando in piana lontananza il verde appare,

prima che volga la luce al tramonto

e ceda ai tenui baglior la diurna face.

 

Spesso par chiuso, cupo il cuor del mondo,

dubbioso e scosso il sentir dell’uomo:

natura fulgida i suoi dì allieta,

e lungi è l’oscura domanda del dubbio.

 

[Friedrich Hölderlin, Veduta, in Poesie della torre, traduzione di Gianni Celati]

 

* Il 25 novembre scorso sono partite in Veneto una serie di iniziative – concerti, eventi, mostre – dedicate a Salvatore Cuccurullo. Auspichiamo che presto anche nel suo paese natale, ad Angri, possa nascere un giusto interesse per la sua figura esemplare di maestro di musica, insegnante e fotografo. Questo testo è dedicato alla sua memoria e vuole essere un primo contributo in questa direzione.

Quattro sonetti di Terrance Hayes

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Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo un estratto da Sonetti americani per il mio assassino del passato e del futuro, Edizioni Tlon 2022.

di Terrance Hayes (traduzione di Mario Capello)

You don’t seem to want it, but you wanted it.
You don’t seem to want it, but you won’t admit it.
You don’t seem to want admittance.
You don’t seem to want admission.
You don’t seem to want it, but you haunt it.
You don’t seem too haunted, but you haunted.
You don’t seem to get it, but you got it.
You don’t seem to care, but you care.
You don’t seem to buy it, but you sell it.
You don’t seem to want it, but you wanted it.
You don’t seem to prey, but you prey,
You don’t seem to pray but you full of prayers,
You don’t seem to want it, but you wanted it.
You don’t seem too haunted, but you haunted.

Non sembri volerlo, ma lo volevi.
Non sembri volerlo, ma non lo ammetterai mai.
Non sembri volere l’ammissione. 
Non sembri volere accettazione.
Non sembri volerla, ma la perseguiti.
Non sembri troppo perseguitato, ma perseguitavi. 
Non sembri capirlo, ma lo hai capito. 
Non sembra importarti, ma ti importa. 
Non sembri farlo tuo, ma lo svendi.
Non sembri volerlo, ma lo volevi. 
Non sembri predare, ma predi.
Non sembri pregare ma sei pieno di preghiere, 
Non sembri volerlo, ma lo volevi.
Non sembri troppo perseguitato, ma perseguitavi. 

∞∞∞

Seven of the ten things I love in the face
Of James Baldwin concern the spiritual
Elasticity of his expressions. The sashay
Between left & right eyebrow, for example.
The crease between his eyes like a tuning
Fork or furrow, like a riverbed branching
Into tributaries like lines of rapturous sentences
Searching for a period. The dimple in his chin
Narrows & expands like a pupil. Most of all,
I love all of his eyes. And those wrinkles
The feel & color of wet driftwood in the mud
Around those eyes. Mud is made of
Simple rain & earth, the same baptismal
Spills & hills of dirt James Baldwin is made of.

Sette delle dieci cose che amo nel viso
Di James Baldwin hanno a che fare con la spirituale
Elasticità delle sue espressioni. L’ancheggiare
Tra il sopracciglio sinistro e quello destro, per esempio. 
La ruga tra gli occhi come un diapason
O un solco, come un alveo che si dirama 
Nei tributari come righe di frasi estatiche 
In cerca di un punto fermo. La fossetta sul mento
Si restringe & si allarga come una pupilla. Più di tutto, 
Amo tutto dei suoi occhi. E quelle grinze
Della consistenza & del colore del fasciame umido nel fango
Intorno a quegli occhi. Fango fatto 
Di semplici pioggia & terra, le stesse battesimali
Fonti & colline di terriccio di cui James Baldwin è fatto.

∞∞∞

The earth of my nigga eyes are assassinated.
The deep well of my nigga throat is assassinated.
The tender bells of my nigga testicles are gone.
You assassinate the sound of our bullshit & blissfulness.
The bones managing the body’s business are cloaked
Until you assassinate my nigga flesh. The skin is replaced
By a cloak of fire. Sometimes it is river or rainwater
That cloaks the bones. Sometimes we lie on the roadside
In bushels of knotted roots, flowers & thorns until our body
Is found. You assassinate the smell of my breath, which is like
Smoke, milk, twilight itself. You assassinate my tongue
Which is like the head of a turtle wearing my skull for a shell.
You assassinate my lovely legs & the muscular hook of my cock.
Still, I speak for the dead. You will never assassinate my ghosts.

La terra dei miei occhi da nigga viene assassinata.
Il pozzo profondo della mia gola da nigga viene assassinato.
Le tenere campane dei miei testicoli da nigga sono andate, perdute.
Tu assassini il suono delle nostre stronzate & della nostra beatitudine. 
Le ossa che si occupano delle faccende del corpo sono rivestite
Fino a quando tu non assassini la mia carne da nigga. La pelle viene rimpiazzata
Da un involucro di fuoco. Certe volte sono un fiume o la pioggia
A rivestire le ossa. Certe volte noi giacciamo lungo il ciglio della strada
In cespugli di radici contorte, fiori & spine fino a quando il nostro corpo
Non viene ritrovato. Tu assassini l’odore del mio fiato, che è simile a 
Fumo, latte, il crepuscolo stesso. Tu assassini la mia lingua
Simile alla testa di una tartaruga che indossa il mio cranio come guscio. 
Assassini le mie belle gambe & l’aggancio muscolare del mio uccello. 
Eppure, parlo per conto dei morti. Tu non assassinerai mai i miei fantasmi.

∞∞∞

Probably, ghosts are allergic to us. Our uproarious
Breathing & ruckus. Our eruptions, our disregard
For dust. Small worlds unwhirl in the corners of our homes
After death. Our warriors, weirdos, antiheroes, our sirs,
Sires, our sighers, sidewinders & whiners, winos,
And wonders become dust. I know a few of the dead.
I remember my sister’s last hoorah. I remember
The horror of her head on a pillow. For a long time
The numbers were balanced. The number alive equal
To the number in graves. After a very long time
The bones become dust again & the dust
After a long time becomes dirt & the dirt becomes soil
And the soil becomes grain again. This bitter earth is a song
Clogging the mouth before it is swallowed or spat out.

Probabilmente, i fantasmi sono allergici a noi, al nostro cacofonico
Respiro & al nostro casino. Alle nostre esplosioni, alla nostra mancanza 
di rispetto 
Per la polvere. Piccoli mondi ruotano negli angoli delle nostre case
Dopo la morte. I nostri guerrieri, tocchi, antieroi, i nostri sovrani, 
Stalloni, i nostri sospiratori, crotali & piagnoni, ubriaconi, 
E meraviglie si fanno polvere. Conosco un po’ di morti. 
Ricordo l’ultimo urrà di mia sorella. Io ricordo
L’orrore del suo capo sul cuscino. Per molto tempo
I numeri sono stati in equilibrio. Il numero dei vivi uguale
Al numero nelle tombe. Dopo un tempo molto lungo
Le ossa si fanno nuovamente polvere & la polvere
Dopo molto tempo si fa terra & la terra si fa terriccio
E il terriccio si fa grano ancora una volta. Questa Terra amara
è una canzone
Che ostruisce la bocca prima di essere inghiottita o sputata fuori.

Dalla nota dell’editore:
«Il giorno dopo le elezioni presidenziali del 2016, Terrance Hayes scrisse il primo dei settanta sonetti raccolti in Sonetti americani per il mio assassino del passato e del futuro. Il momento storico era stato sconvolto in modo incerto e nefasto: il sonetto offriva un’unità di misura alternativa, antica, con le sue caratteristiche di base immutate da secoli, e al tempo stesso urgente, con le sue quattordici righe che correvano a un ritmo serrato. Ex stella del basket universitario, Hayes tratta la poesia come un gioco con il tempo, teatro per finali drammatici dell’ultimo secondo. Scritte durante i primi duecento giorni della presidenza Trump, queste poesie sono infestate dalla storia e dagli errori passati e futuri dell’America, dai suoi sogni e dai suoi incubi».

Al cospetto dell’angelo. Tre libri su Benjamin

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di Ludovico Cantisani

Nato nel 1892 a Berlino e morto nel 1941 lungo la frontiera spagnola, Walter Benjamin è un pensatore unico, e per parecchi motivi diversi: uno fra i tanti, la straordinaria molteplicità dei suoi scritti, al tempo stesso kafkianamente inconclusi e frammentariamente densissimi. Addentrandosi nella costellazione Benjamin non si tarda ad avvertire la sensazione che i passaggi più fertili, i movimenti più folgoranti del suo pensiero, si trovano soprattutto nelle note a piè di pagina, negli appunti mai ordinati, nelle intuizioni lasciate a latere della sua corrispondenza privata. Il suo carteggio con Gershom Scholem, pubblicato in Italia da Adelphi sotto il titolo di Archivio e camera oscura, ha le carte in regola per essere uno dei più begli epistolari del secolo scorso, certo il più rappresentativo dello stato della cultura ebraica nell’imminenza del nazismo.

Non può essere una coincidenza se, nell’ultimo periodo, Walter Benjamin è tornato “di moda”, con un profluvio di nuove pubblicazioni e trattazioni come non se ne vedevano da anni. A differenza che per Carl Schmitt, questa congiuntura si può spiegare solo in parte con l’avvento del Coronavirus: vero è che una delle più profonde intuizioni di Benjamin sancisce così, “che tutto vada avanti come prima è la vera catastrofe”, e giustamente la si è rievocata nei primi mesi di lockdown; ma se il fantasma di Schmitt è stato esplicitamente e surrettiziamente ripreso anche per contrastare le dinamiche da “stato di eccezione” rese necessarie della pandemia, il mormorio di Benjamin, su Benjamin è meno retorico, più laterale, liminare, ben più fecondo delle polemiche televisive dell’intellettuale contestatario di turno. Per non farci mancare nulla, ai primi di novembre al Teatro India di Roma è andato in scena anche uno spettacolo ispirato a Benjamin, L’angelo della storia di Sotterraneo, piacevolmente frammentario, monadistico.

C’è una Benjamin reinassance, o questo Privatdenker non era mai scomparso dai nostri scaffali, dal nostro orizzonte mentale? Fatto sta che solo nell’ultimo anno, in Italia ci sono state tre notevoli pubblicazioni critiche sul meno sistematico dei pensatori tedeschi: il Dossier Benjamin del grande teorico americano Frederic Jameson, edito da Treccani Libri; la riedizione, a cura di Ombre Corte, del Segnalatore d’incendio di Michael Löwy, incentrato sulle Tesi sul concetto di Storia; e il terzo volume del Manifesto Incerto di Frédéric Pajak, Ezra Pound chiuso in gabbia, la morte di Walter Benjamin, memorabile ripercussione della storia del pensiero europeo del secolo scorso che intreccia testo e disegno, la cui pubblicazione in Italia è in corso d’opera presso L’orma.

Perché Benjamin si presta così drasticamente alla (meta-)letteratura critica? Evidentemente perché la sua filosofia – ma è giusto chiamarla così? – tuttora appare come un discorso spezzato, con cui si fa forte la tentazione di riprendere il dialogo. In vita, Benjamin in fondo non ha mai scritto un libro propriamente detto, un vero volume a sé stante – ancor più paradossale quindi il profluvio di pubblicazioni, accademiche o divulgative, sul suo conto. Tutti e tre questi libri su Benjamin colpiscono per la loro notevole originalità di lettura – e ciascuno dei tre elegge un prisma diverso, un sentiero autonomo lungo cui incamminarsi per affrontare le curiose architetture del pensiero benjaminiano. Come scrive il curatore Massimo Palma nella presentazione del Dossier Benjamin, “in pochi, prima di Jameson, hanno davvero visto in Benjamin un teorico rigoroso, acuto, inquieto, di quell’interrogativo aperto che oggi chiamiamo democrazia”.

***

In una vita vissuta tutta all’ombra della nomadismo e della catastrofe, sotto l’insegna dei vari totalitarismi che si affacciavano in Europa, inseguendo per decenni il fantasma di una fuga impossibile verso terre promesse come gli Stati Uniti o l’Israele sionista, Walter Benjamin appare tuttora come uno dei più lucidi analisti e critici di quella democrazia occidentale che nemmeno fece in tempo a vedere, sorta in un mondo reduce dal nazismo e dal comunismo, ma non dal capitalismo. “L’individualismo borghese sembra raggiungere il suo apogeo con la scomparsa degli individui stessi”, rimarca Jameson nel suo Dossier parlando (anche) per Benjamin. L’attenzione del pensatore tedesco per le metropoli non si limita alla sola, notoria Parigi dei passages: “Berlino può essere raccontata solo attraverso i suoi oggetti, una città spettrale che può essere davvero vista solo ricorrendo alla prospettiva del bambino”; e Napoli, che Benjamin visitò assieme ad Asja Lacis e a Theodor Adorno, appare ai suoi occhi come incarnazione di una “vita pre-borghese, giustapposta alla vita post-borghese della Mosca sovietica”.

Nel suo Dossier, Jameson cerca di smarcarsi da alcune categorie critiche fin troppo applicate alla prosa e al pensiero di Benjamin, o perlomeno di coglierle attraverso prospettive inedite. La concezione stessa di Benjamin come flâneur, concetto ripreso, a detta di Jameson erroneamente, dall’immaginario baudelairiano, si lega fino in fondo alla sua biografia, alla forte miopia che affliggeva il filosofo, costringendolo a scrutare le cose da molto vicino – un tratto, evidenzia Jameson, che lo accomunava a Nietzsche e anche a Joyce. Jameson invita inoltre a fare molta attenzione nell’affibiare a Benjamin l’etichetta di modernista, perché i termini come “moderno”, “modernità” o “modernismo” erano da lui ripresi soprattutto dalla letteratura di Baudelaire, da lui più volte indagata. “Benjamin possedeva senz’altro quel tratto tipico della feticizzazione modernista di tutto il che è nuovo, e lo sperimentalismo lo interessava molto”, rimarca Jameson, “ma la sua ostilità per l’estetica e l’estetizzazione gli precludevano quello che convenzionalmente consideriamo essere stato il telos del modernismo, così come lo troviamo in sequenze che vanno da Manet e gli impressionisti fino a Cézanne, da Mallarmé o Pound fino a Olson o Ashbey”.

Più che ad una estetizzazione, nella sua personalissima idea di rivoluzione culturale Benjamin puntava a una vera e propria politicizzazione, e non solo dell’arte, ma della vita tout court: bisogna rileggere bene il saggio sull’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, suggerisce lo studioso… E proprio partendo dall’idea più celebre di quel saggio benjaminiano, la perdita dell’aura provocato dall’avvento del cinema e delle altre forme di arte “industriale”, Jameson cerca di trovare alternative e nuove vie in “momenti come quelli dei festival del cinema, che recuperano le molteplicità del cinema internazionale e mettono in mostra i prodotti di industrie cinematografiche minori, potrebbero senz’altro essere i luoghi dove esiste un’aura di tipo nuovo”.

“Benjamin ha cercato di usare la storia per trovare una soluzione alla storia”, è questa la chiastica conclusione di Jameson, che conclude il suo saggio ricordando il finale beffardo del Dottor Stranamore kubrickiano. Lo stesso Angelus Novus di Klee, eletto a Benjamin a suo personalissimo angelo della Storia, si fa portavoce di una chiliastica, paradossale apocalisse salvifica: “sarebbe un errore concludere che le ali dell’angelo, aperte come un ombrello rotto rovesciato dai venti di una bufera, stiano a significare ‘la fine della storia’. L’immagine, piuttosto, esprime l’esperienza della sconfitta, ponendo domande senza risposta su quale sarebbe il modo giusto di ricevere l’emozione messianica, ovvero la speranza”. La salvezza c’è per gli altri, non per noi, mormorava Kafka, echeggiava Benjamin.

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Non per nulla è (anche) un kafkiano, l’autore di Segnalatore d’incendio, altro saggio benjaminiano recentemente portato in Italia da OmbreCorte, un editore che peraltro sin dal nome si fa all’immaginario del pensatore tedesco e, nello specifico, a una raccolta dei suoi scritti di fine anni venti. Franco-brasiliano, classe 1936, Michael Löwy è uno dei più originali sociologi della Sinistra contemporanea. Oltre che di Benjamin, al quale aveva dedicato in passato la raccolta di scritti La rivoluzione è il freno di emergenza, e di Max Weber, Löwy si è cimentato anche con la figura di Franz Kafka sognatore ribelle (elèuthera, 2014), una delle più originali interpretazioni recenti dell’immaginario dello scrittore praghese, a sua volta debitrice della pionieristica lettura che di Kafka aveva dato Benjamin ad appena dieci anni dalla morte dell’autore de Il Castello. Una prevedibile costellazione, per dirla con Benjamin.

La scuola materialistica, rappresentata da Brecht, definisce Benjamin un marxista che si esprime per metafore. La scuola teologica, rappresentata da Gershom Scholem, vede in Benjamin un teologo cifrato, in cui il marxismo è mero linguaggio, mai contenuto. La scuola della contraddizione, propugnata da Habermas, soprattutto, ritiene che Benjamin tentò e fallì nel conciliare ebraismo e marxismo, materialismo e messianesimo: dittici di un’incompatibilità radicale. Di fronte a queste tre, grandi linee critico-interpretative del pensiero di Benjamin, Michael Löwy propone una quarta via, affermando che Benjamin fu in maniera unica e coerente un marxista e un teologo, un Giano bifronte, con un volto rivolto a Mosca, l’altro indirizzato verso Gerusalemme.

Segnalatore d’incendio di Löwy, che trae il suo titolo da un passaggio di Strada a senso unico, si articola come un lungo commentario delle Tesi sul concetto di storia. Una prima sorpresa c’è già nelle prime pagine, quando Löwy rivela di aver scoperto, tra gli appunti inediti di Gershom Scholem custoditi presso l’Università ebraica di Gerusalemme, delle analoghe Tesi sul concetto di giustizia mai pubblicate, redatte da Scholem e datate tra il 1919 e il 1925, che rappresentarono un’indubbia influenza, a detta di Löwy, sull’ultimo testo che Benjamin scrisse, in fuga dal nazismo due decenni più tardi.

Mosso dalla convinzione che “i concetti di Benjamin non sono astrazioni metafisiche, ma si riferiscono a esperienze storiche concrete”, Löwy non esita a illustrare e ad accostare alcuni passaggi delle Tesi benjaminiane a specifici momenti della storia recente del Sud America, fino a vagheggiare un’influenza del pensatore tedesco sulla Teologia della Liberazione. La quindicesima delle Tesi di Benjamin ricordava che, durante la Rivoluzione di luglio 1830, “avvenne che in più punti di Parigi, indipendentemente e contemporaneamente, si sparò contro gli orologi dei campanili”, agli occhi di Benjamin simbolo di una deflagrazione, apocalittica e grandiosa, del tempo lineare, con la sua vuota omogeneità. Ecco, ci fa sapere Löwy, quando in Brasile il governo istituì delle celebrazioni ufficiali per festeggiare il cinquecentesimo anniversario della “scoperta” del paese da parte dei conquistador portoghesi, con tanto di maxi-orologio per fare il countdown sponsorizzato da una rete televisiva locale, un gruppo di indigeni tirò le frecce contro il quadrante. Molto più dei dati statistici relativi alle pubblicazioni accademiche o editoriali sul filosofo, sono questi episodi a confermare la ferrea attualità di Benjamin. E, per inciso, non si riflette mai abbastanza sulle assonanze tra le concezioni della storia propugnate in contemporanea da Benjamin e da Marc Bloch, e sull’influenza che lo stesso Benjamin potrebbe aver avuto su certi modelli a venire di storiografie “minoritarie”, capeggiati, almeno in Italia, dalla ricerca di Carlo Ginzburg.

Dei tre interpreti benjaminiani di cui stiamo parlando Löwy è sicuramente il più politico, politicizzato, ma la sua lettura di Benjamin, che a raggiera dalle Tesi sul concetto di storia arriva a sfiorare grossomodo tutti i punti salienti dell’opera omnia del pensatore, è di una chiarezza cristallina, che fa luce anche su risvolti poco considerati del pensiero del tedesco. Löwy, che giustamente evidenzia anche l’influenza del Romanticismo tedesco su Benjamin, ci fa scoprire anche le riflessioni di Benjamin sull’Anticristo, ovviamente da lui identificato, negli ultimi anni della sua vita, con il Terzo Reich nazista. “In un momento di supremo pericolo si presenta una costellazione di salvezza che collega il presente al passato. Un passato in cui brilla, malgrado tutto, nell’oscura notte del fascismo trionfante, la stella della speranza, la stella messianica della redenzione, la scintilla dell’insurrezione rivoluzionaria”. Così Löwy parafrasa il concetto benjaminiano di costellazione: il passato che salva il presente e consente il futuro, senza alcun vezzo dialettico, in nome di una speranza che scardina il presente.

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“Noi siamo, nostro malgrado, gli eredi delle ideologie del Novecento. Ne siamo gli ospiti inebetiti, languiamo nel rifiuto delle loro illusioni ancora tiepide. Non vogliamo accogliere nulla di questi convincimenti marci, perché conosciamo benissimo la devastazione che hanno generato”. Dietro queste parole, che Frédérick Pajak colloca al centro del suo terzo Manifesto Incerto, riecheggia l’antico detto nietzschiano: è difficile essere eredi. “L’ideologia moderna nega di essere un’ideologia. Si sforza di apparire sgombra di qualsiasi carattere ideologico, e riesce a fingerlo davvero. Contrariamente al cristianesimo e ai totalitarismi, si esonera da squilli di tromba e terrori. Non si costringe né a pregare né a tacere. Si insinua ovunque, in ogni minuscola cosa”. Rispetto al secolo scorso, al di là della secolarizzazione e del crollo delle ideologie, c’è un essenziale cambiamento di prospettiva temporale. “Il futuro: ricordiamoci che le ideologie del Novecento hanno provato in ogni modo ad accantonare il presente per dimenticarsi nella promessa di un futuro necessariamente migliore, necessariamente radioso. Oggi il futuro è prima di tutto una minaccia, un mondo malvagio e pericoloso che dobbiamo rimuovere. E per far ciò basta gettarlo nell’oblio. Una volta dimenticato il futuro allora si potrà dimenticare anche il passato”.

Manifesto Incerto di Frédérick Pajak è un polittico di difficile collocazione: Emanuele Trevi ha definito la serie come “una delle imprese artistiche più originali e illuminanti del nostro tempo”, il Nouvel Observateur l’ha salutata come l’invenzione o reinvenzione del “saggio grafico”. Annunciata come “l’impresa letteraria di una vita”, l’intreccio di esistenze, parole, schegge autobiografiche ed immagini di grandi figure dell’arte e del pensiero del XIX e del XX secolo, già i due precedenti volumi di Manifesto Incerto editi in Italia da L’orma vedevano Benjamin tra i massimi protagonisti: il primo si (sotto-)titolava Con Walter Benjamin, sognatore sprofondato nel paesaggio, e prendeva le mosse da un viaggio di Benjamin ad Ibiza; il secondo Sotto il cielo di Parigi con Nadja, André Breton, Walter Benjamin, e rievoca, fra le altre cose, l’esilio parigino di Benjamin e il suo rimpianto della Parigi dell’Ottocento, da lui definita “capitale del XIX secolo”.

Manifesto Incerto. Ezra Pound chiuso in gabbia, la morte di Walter Benjamin, il terzo numero di questa fantomatica rubrica, procede nella carrellata novecentesca di Pajak a passo serrato, introducendosi nei due decenni più rovinosi di tutta la storia occidentale. I due principali fantasmi evocati, il poeta che sprofondò volontariamente nel nazismo e il filosofo che ne fu barbaramente risucchiato, si intrecciano nuovamente con riferimenti autobiografici di Pajak, e con riflessioni generiche come quella riportata di sopra.

Il ritratto di Benjamin che traccia la penna di Pajak non può fare a meno di evidenziare le paradossalità di cui furono imbottiti i suoi ultimi anni. Testimoniò un compagno di prigionia, che aveva conosciuto il pensatore quando, subito dopo lo scoppio delle ostilità tra la Francie il Terzo Reich, l’apolide Benjamin era finito in un campo di internamento per rifugiati: “mai la tragicità del conflitto tra pensiero e azione mi è parsa così chiara come in quell’uomo che, da marxista, cercava esattamente di realizzarne l’unione, e mai ho visto fallire altrettanto dolorosamente un metodo che, nella sua amabile ignoranza della vita, credeva di poter cambiare la realtà, quando invece si limitava a interpretarla e inseguirla zoppicante”. Con fare accorato eppure ironico, Pajak racconta così episodi al margine del grottesco, come la fallimentare fuga di Benjamin e dello psichiatra Fritz Fränkel che, corrompendo le guardie portuali, avevano provato a travestirsi da marinai per imbarcarsi su un cargo diretto oltreoceano, per poi essere immediatamente intercettati dalla polizia francese. Altrettanto paradossali furono gli eventi che seguirono alla morte di Benjamin, avvelenatosi con una forte dose di morfina sulla frontiera franco-spagnola: il filosofo, morto dopo ventiquattr’ore di agonia, viene sepolto secondo il rito cattolico e il feretro viene addirittura accompagnato da una processione di monaci; per conservare la sua salma venne affittato un loculo per cinque anni, ma quando Hannah Arendt si recò al cimitero di Portbou subito dopo la guerra scoprì che il corpo dell’amico era stato quasi sicuramente gettato in una fossa comune poco tempo dopo l’inumazione.

Ad accompagnare il racconto che Manifesto Incerto fa degli ultimi anni di vita di Benjamin, intervellato da un’altrettanto grottesca ricapitolazione della vita di Pound dall’infanzia fino all’arresto a Rapallo e al trasferimento forzato in America, ci sono i disegni di Pajak. Disegni che si intrecciano alle parole, disegni che le affiancano senza mai illustrarle, disegni che ci portano congiuntamente nel vivo delle sensibilità di Benjamin e di Pajak, disegni che ci disperdono, anche, che tentano l’azzardo di farci vivere in una soggettiva quasi filmica la concitata fuga di Benjamin e dei suoi compagni lungo i Pirenei, nei meandri di una natura splendida e assassina. Ma Benjamin stesso non si era mai affidato unicamente alle parole, nel suo percorso di letterato, continui punti di fuga si erano intersecati nella sua produzione concettuale, inducendolo a rivolgersi ora verso il teatro, ora verso l’arte contemporanea, ora verso la musica, ora verso la mistica, quel linguaggio che annulla il linguaggio. Da una commistione di tutte queste diverse discipline, filosofia e teologia in testa, nacque quella che, per parafrasare Hillman, di Benjamin rimase l’ultima immagine: un angelo in fuga, un angelo sconvolto, un angelo di troppo, sorto in Europa nel cuore del Novecento quando i cieli ne erano già vuoti.

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Dipinto nel 1920 da Paul Klee, l’Angelus Novus venne acquistato l’anno successivo da Benjamin, che da questo acquerello, poco più di uno schizzo, non si separò mai, nemmeno al momento della fuga verso la Spagna e un’impossibile America. Quasi non c’è bisogno di ripercorrere la vertiginosa lettura che Benjamin stesso ne diede nella nona delle sue Tesi: “c’è un concetto di Klee che si chiama Angelus Novus. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie, e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge inarrestabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che noi chiamiamo il progresso è questa bufera”.

Con questa scheggia delle Tesi, Benjamin all’improvviso resuscita un’ultima propagine di testo sacro nel cuore del XX secolo. Testo sacro, sacralizzante, autosacralizzantesi – la IX Tesi sul concetto di storia è tutte queste cose insieme, un vero e proprio teologumeno. Dei due amici, Scholem era, sulla carta, l’unico credente e praticante, eppure è Benjamin, non senza porgli omaggio con una citazione iniziale, a resuscitare in ultimo fuoco un imprevedibile tono da profeta ebraico, che ha concesso al suo goffo suicidio i tratti misterici del martirio. Come spesso capita, a scatenargli quest’incredibile visione era bastato poco: un abbozzo, quasi una parodia di angelo, tracciato con fare volutamente infantile o primitivo da Klee, inconsapevole che di tutta la sua produzione proprio questo schizzo sarebbe stato eletto al rango di icona sacra.

“L’angelo è immobile. Ha ali troppo magre per poter volare. Il suo viso non è rivolto al passato, ma con ogni evidenza al presente. Guarda di sbieco, con un’espressione inquieta, quasi impaurito”, è l’ecfrasi di Frédéric Pajak, che di disegni se ne intende. “La bocca aperta esprime spavento. Sta forse dicendo qualcosa? Oppure grida? Se proprio dovessi corredare il dipinto di una spiegazione, allora al contrario di Benjamin direi che è l’angelo del presente, fragile e interdetto. Non sta dando le spalle al futuro, ma al passato, un passato vuoto quanto il resto del quadro”. Benjamin, che aveva sempre saputo trarre una forza rivoluzionaria dalla nostalgia del passato, tutt’a un tratto ne scoprirebbe la violenta vacuità. “L’angelo è solo e smarrito, pietrificato da una temporalità sospesa che si chiama presente, e che non può contemplare né dal cielo né dalla terra: di terra e cielo non v’è traccia”. Dei tre saggi che stiamo indagando su Benjamin, è proprio il terzo Manifesto Incerto di Pajak a consegnarci la lettura più coraggiosa dell’Angelus Novus, coraggiosa proprio perché ne denuncia l’arbitrarietà, ne contesta la sacralizzazione ad Angelo della Storia. Non dimenticheremo la puntualità politica del Segnalatore d’incendio di Michael Löwy, né l’ampiezza ermeneutica del Dossier Benjamin di Frederic Jameson, eppure forse è proprio l’antiaccademico, eclettico Pajak quello che più a fondo è penetrato nello spirito di Benjamin – fino a ribaltarlo, fino a contestarlo, fino a disegnarlo, innalzando Benjamin a simbolo della modernità proprio come Benjamin aveva fatto con lo schizzo di Klee eletto ad allegoria della Storia, perché il sottinteso del Manifesto Incerto sembra proprio questo, identificare la modernità di Benjamin nella sua frammentarietà, nella sua confusione, nella sua capacità di prevedere il disastro e nella sua incapacità di prevenirlo.

***

“L’espressione ‘in certo modo’ è il segno di un’opinione che si sta formando”, scrisse una volta Gershom Scholem. “Da nessuno l’ho udita usare così spesso come Benjamin”. Molte cose si potrebbero scrivere ancora su Walter Benjamin, sul suo stile visionario ed esoterico, sul linguaggio biblico ma a tratti anche paganeggiante, e difficilmente potrebbero superare, in profondità, questo rilievo mosso da quello che fu l’amico di tutta una vita – l’equivalente di Brod per Kafka, se vogliamo. In fondo, in certo modo, Benjamin è un critico che si nasconde dietro gli autori di cui tratta, per lui Kafka stesso era, testuali parole, un “angelo infermiere”, non un oggetto di studi, Benjamin è sempre vittima e campione di un nascondimento che della sua personalissima interpretazione dell’identità ebraica rappresentò un punto fermo e martellante. Benjamin, che pure ambiva ad essere il più grande critico letterario tedesco dei suoi tempi, aveva sempre obbedito a una certa concezione di cinosi autoriale: “se scrivo in un tedesco migliore della maggior parte degli scrittori della mia generazione”, si legge in diversi passi del suo epistolario, “lo devo alla ventennale ottemperanza a un’unica piccola regola. Suona così: mai usare la parola ‘io’, tranne che nelle lettere” – uniche eccezioni, l’incompiuto dittico autobiografico della Cronaca e dell’Infanzia Berlinesi.

Un ulteriore elemento che colpisce della figura filosofica e letteraria di Walter Benjamin è la drastica corrispondenza tra il suo percorso, si scrittore e di uomo, e quello di due degli autori su cui più intensamente aveva rivolto la sua attenzione, Baudelaire e Kafka per l’appunto. Come Baudelaire, per tutto il corso della sua vita letterari e soprattutto negli ultimi, fagocitati anni Benjamin fu costretto alla letteratura d’occasione, scrivendo alcuni dei suoi testi più incisivi proprio su argomenti assegnatigli a mo’ di commissione, verso i quali non aveva particolari interessi. Con Kafka c’è condiviso l’aspetto più doloroso del lascito benjaminiano, solo che, invece di un solo Max Brod, la fortuna postuma di Benjamin fu merito di un nutrito gruppo di esecutori testamentari contraddittori, che solo per diplomazia riuscirono nella non facile impresa di superare ogni potenziale fonte di conflitto. Theodor Adorno, un tempo suo “discepolo” al di fuori di qualsivoglia vincolo accademico, e il già citato Gershom Scholem, amico di una vita e corrispondente fisso delle sue missive, furono senza dubbio tra i maggiori responsabili della collocazione di Benjamin a classico del pensiero del novecento, non meno di Hannah Arendt e Max Horkheimer. Più defilato Bertolt Brecht, con cui pure Benjamin aveva intessuto un sodalizio prezioso, nell’ultimo decennio della sua vita.

Questi tre libri su Benjamin ci confermano ancora una volta che Benjamin seppe coniugare illuminismo e mito come nessuno aveva fatto prima di lui – e come nessuno sapé replicare. La Scuola di Francoforte, che pure mai nascose il debito nei confronti di Benjamin e senza la quale oggettivamente il suo nome sarebbe rimasto confinato in una schiera assai minima di talmudisti brechtiani, criticò separatamente l’una e l’altra cosa. Negli otto decenni che ci separano dalla morte di Benjamin, tanto il mito quanto, e ancor più, l’illuminismo sono scomparsi; e in questa crisi congiunta del simbolo e della ragione solo un benjaminiano del calibro di Roberto Calasso ha saputo descrivere, a parole, l’inafferrabilità del reale. “La sensazione più precisa e più acuta, per chi vive in questo momento, è di non sapere dove ogni giorno sta mettendo i piedi. Il terreno è friabile, le linee si sdoppiano, i tessuti si sfilacciano, le prospettive oscillano. Allora si avverte con maggiore evidenza che ci si trova nell’Innominabile Attuale”. Era il 2017, il libro si intitolava, non per nulla, L’Innominabile Attuale, ed era attraversato da parte a parte dal fantasma di Benjamin. Da allora, il mondo si è fatto ancor più frammentario, confusionario e convulso, e il Covid ha rintuzzato l’attualità delle riflessioni di Benjamin sulla catastrofe. Ma “solo per chi non ha più speranza ci è data la speranza”, continua a ripeterci Benjamin. Non è mai troppo tardi per scoprire, indietro tutta, un senso cifrato alla Storia, un senso che, a mo’ di messia, solo dagli uomini potrà essere evocato, solo dagli uomini già è stato pianto.

La Provenza e Giono: bonheur, malheur

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di Carlo Grande

La Provenza sa di Alpi e di roccia, è aspra e dolce nello stesso tempo. È lavanda, querce e mele cotogne, sempre a metà strada fra tragedia e luce, come disse Izzo di Marsiglia.
Al pari della Sicilia e della Langa, la Provenza è contadina, pietrosa, sa essere dura. Conosce il candore e le cattiverie dei contadini di Pagnol, attaccati alla terra e alle sorgenti. Ha la perfidia e la grandezza di Jean de Florette e Manon des sources, film magistrali con Yves Montand, Daniel Auteuil, Gérard Depardieu ed Emmanuelle Béart.
Tutta la Provenza è bagliore e ombra, è equilibrio sopra e sotto la follia.
A Manosque faccio tappa: è la città di Jean Giono, lo splendido autore pacifista e anarchico di origine e carattere piemontese, canavesano, accademico Goncourt che scrisse tra gli altri L’Ussaro sul tetto e L’uomo che piantava gli alberi.
Giono rivive nel paesaggio della Valchiusella, dove nacque Pietro Antonio, il nonno carbonaro che partecipò ai moti del marzo 1821 e poi, fuggendo una condanna a morte, riparò in Francia, arruolandosi nella Legione Straniera. Jean non lo conobbe (morì nel 1854), ma grazie ai ricordi del padre Jean Antoine (calzolaio con il ritratto di Voltaire e la Bibbia nel cassetto), fu il modello per Angelo Pardi, straordinario protagonista della trilogia che comincia con l’Ussaro e prosegue con Una pazza felicità e Angelo.
Giono nutrì profonda tenerezza per il Piemonte: «La felicità – scrisse – mi viene appena sento fremere un pioppo piemontese, o fischiare una marmotta, o i passi del vento degli alti pascoli del Viso, lo sgranellare del pietrame sotto i piedi del camoscio, o il grido dell’aquila».
Manosque è una cittadina che ho amato, nella casa di una zia dove abbiamo trascorso cene di Natale serene, passeggiando tra i negozi e la campagna, chiacchierando e mangiando alla marsigliese, alla provenzale.
Esplorando le vie medievali, entrai nel Centre Giono e scoprii L’uomo che piantava gli alberi, pochi fogli ormai datati che parlavano tra l’altro di «bianche querce» nei boschi; traduzione del 1958, un po’ antiquata e inesatta, perché Quercus alba è una specie a sé stante. Il racconto era talmente bello che sperai di ritradurlo per un piccolo editore. Chiamai Gallimard, risposero che un importante editore italiano aveva già comprato tutto Giono. Il racconto uscì per Salani di Luigi Spagnol, vendette molto ed è ancora oggi un cult. Pochi anni dopo Luigi – affinità elettive? – avrebbe pubblicato il mio romanzo La via dei lupi.
Al Parais, la casa di Giono – non lontana da quella degli zii, sul fianco sud del Mont d’Or, la collina con in cima la vecchia torre – andai a intervistare per L’Indice la vedova Elise e la figlia Sylvie, nel centenario della nascita dello scrittore.
Le rivedo: Elise Giono (98 anni) esce dal cono di luce dell’abatjour e sporgendosi dalla poltrona batte il dito ossuto sul bordo del tavolo: «Vivo qui dal 1930, ho passato giorni e giorni in questa cucina, ho scritto a macchina tutte le opere di mio marito».
Per un istante la gatta Violette sgrana gli occhi verdi. La vedova di Giono ricordava bene le serate trascorse con il marito a correggere manoscritti. Al suo fianco la figlia Sylvie, un’esistenza dedicata al padre.
La Francia ormai lo omaggia da grande scrittore quale è (amato da Malraux e Henry Miller), in Italia non ha ancora avuto la meritata fortuna. Gli fanno torto l’angusta etichetta di scrittore regionalista e “provenzale” e le ingiuste accuse di collaborazionismo.
Molti devono ancora scoprire le stupende pagine del poeta e scrittore “contadino”, che dal padre e dal nonno ereditò la mistica rivoluzionaria.
Giono anarchico e pacifista, lirico e panteista: è un mâitre à penser che in anticipo sui tempi ha toccato temi attualissimi, l’ecologia, la ribellione ai bisogni artificiali del consumismo, l’istinto di sfuggire allo spirito gregario, all’asfissia della civiltà di massa.
Non sognava idilli campestri: «Non sono un nemico della tecnica, sono nemico delle forme moderne con cui viene impiegata la tecnica» diceva. Intuì il pericolo dei mulini bianchi (meglio quello di Daudet, a Fontvieille) e del turismo “pittoresco”, dei paesaggi alla moda, lanciati «come un profumo, un tweed, un ballo, una marca di whisky» dagli uffici del turismo, da «commercianti oculati e avidi». Sapeva che la bellezza «è legata a un filo. Non c’è nulla di più facile che distruggere un’armonia, basta una falsa nota… qualche traliccio giudiziosamente piazzato».
Negli anni ’50 e ’60 vide l’Alta Provenza, terra di Pan e di Virgilio, spopolarsi e vacillare sotto i primi colpi dello «sviluppo», della «civiltà, del denaro». Un giorno Greta e gli ecologisti leggeranno tutto Giono, le sue pagine sulla felicità, sul bonheur, cui ha dedicato la vita e la poetica: «Bisogna seminare la gioia, radicarla e fare in modo che sia come un prato fertile, con milioni di radici».
«Mio marito voleva che tutto il mondo fosse felice – diceva Elise Giono –. Eravamo felici quando andavamo in Italia, la terra dei suoi avi. Amava soprattutto Torino. Milano gli piaceva meno. Troppo grande». Fu amico di Luigi Bàccolo, cui è intitolata la biblioteca civica di Savigliano. Giravano per la città, nessuno si accorse (va sempre così) che erano due grandi.
Secondo Giono il segreto della felicità è nella vita a contatto con la natura, nell’umiltà del lavoro disinteressato e nella generosità: lo scrive nello splendido L’uomo che piantava gli alberi, storia di un vecchio contadino simbolo della cocciutaggine e della speranza provenzale. Vive solo, in una landa desolata e passa quarant’anni a seminare alberi. Cento querce al giorno, finché il deserto diventa foresta e la foresta riporta l’acqua e la gioia di vivere.
Dallo studio al Parais, la sua casa sulla collina di Manosque, ho apprezzato la celebre vista sui tetti antichi della città, sui quali corre l’ussaro Angelo per sfuggire al colera e al linciaggio dei concittadini. Davanti alle onde di coppi rosa oggi torreggia un condominio moderno: per Giono, spirito solitario e contemplativo che passò gran parte della vita passeggiando al bordo del minuscolo canale, godendo il sole e l’acqua, fu un brutto colpo; non ci poteva far nulla, girò la scrivania dall’altra parte e volse le spalle alla finestra, guardò la collina.
Finì in prigione due volte. Dal 1937 al ’39 aveva più volte esaltato l’obiezione di coscienza e lo sciopero, criticava l’ideale di patria, alla base della guerra: «Io – scrive in Jean le Bleu – quando vedo un fiume dico “fiume”; quando vedo un albero dico “albero”; non dico mai “Francia”». La sua è una critica radicale contro l’autorità: «In verità non c’è che la solitudine… Bisogna distruggere i partiti e i capi… Il capo, il dittatore, l’eletto, la guida, l’uomo di acciaio, eccolo!». Nel ’39 Giono strappa alcuni manifesti di chiamata alle armi. È troppo. Viene imprigionato nel forte Saint-Nicolas, a Marsiglia, sarà liberato grazie all’intervento di André Gide e, si dice, della regina madre del Belgio.
Alla Liberazione, il “comunista” Giono viene ancora arrestato con l’accusa di aver collaborato con il regime filo-nazista di Vichy. Nega, viene prosciolto dopo qualche mese. Anche in quei momenti Sylvie lo ricorda sereno: «Lo chiamavano il “console giudeo” per il bene che faceva agli ebrei. Li aiutò, li nutrì. La verità è che non aveva nessun partito. Noi bambine non abbiamo potuto renderci conto dell’angoscia che provava. Si è sempre fatto in quattro per rassicurarci. Diceva che tutto si può aggiustare. Quando fece la prima guerra mondiale mandò 400 lettere ad amici e parenti, fece tutte le grandi battaglie, da Verdun alla Somme».
«Nello zaino – rivela la moglie – teneva La certosa di Parma di Stendhal, suo nume letterario. Alla fine di ogni giornata i compagni scommettevano se l’avesse ancora nel sacco. Ce l’aveva eccome. Avrebbe perso il fucile ma non Stendhal».
La prima guerra mondiale lasciò in lui ferite profonde: «Non mi vergogno – scrive in Rifiuto d’obbedienza – ma a ben vedere quello che facevo era una vigliaccheria… Non ho avuto il coraggio di disertare. Non ho che una sola scusa: ero giovane… In guerra ho paura, ho sempre paura, me la faccio addosso. Perché è stupida, perché è inutile».
Lo accusarono di essere reazionario per la sua filosofia naturalista, contrapposta alla civiltà moderna, espressa ne Le vere ricchezze, nella trilogia della Presentazione di Pan e nell’utopia aristocratica del Contadour, altipiano dove lo scrittore si insediò nel 1935 con 40 compagni. Esperienza che durerà sei anni, lasciando un penoso strascico di equivoci. Sylvie: «Era un gruppo di amici, venivano dalla città, sentivano il bisogno di respirare, di leggere, di ascoltare la natura. Mio padre non era un guru, disse subito che la ricerca della felicità è un fatto personale e non di gruppo, ciascuno percorre quella strada da solo».
Eppure, scrisse Giono, «molti si presero terribilmente sul serio». «L’ha raccontato – disse Sylvie – nel romanzo Que ma joie demeure: è la storia di un uomo che cerca di portare un po’ di serenità in un villaggio contadino, fra gente abbruttita dal lavoro e dalla routine. Ma alla fine è costretto ad arrendersi. Mio padre era un po’ naif, ma non ingenuo. Sapeva bene che anche l’eccesso di bontà può diventare mostruoso. Credeva nella parola, pensava che potesse fermare la guerra. Un semplicismo forse sconcertante, ma credeva nell’amicizia. Tutti lo abbandonarono, anche i concittadini. L’Ussaro è stato una specie di vendetta: li ha fatti morire di colera».
Sulla collina di Manosque – mi raccontò lo zio Michel – lo ricordano ancora passeggiare, con l’inseparabile giacca di renna, fermarsi con i gomiti sulla rete di un giardino, a parlare per ore di nomi e parentele di questo e di quello, chiedere dettagli su amori, odi, litigi. Propellente per la sua fantasia. Adorava il cinema, diffidava degli elettrodomestici. Profetico, nella carestia di umano e nella deprivazione sensoriale che ci affligge.

NdR: questo passo è tratto dal libro di Carlo Grande “Tutt’intorno è Francia. Gran tour sentimentale dalle brume di Calais alla luce di Marsiglia”, edito di recente da TS Edizioni

Prime annotazioni su magnetofoni, mani & farfalle

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di Andrea Inglese

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La prima cosa da fare è azionare il magnetofono.

Bisogna cominciare con il registrare tutto.

Tutto, inutilmente, sia chiaro.

Lasciandolo ronzare, con le bobine, dal giro assonnato, lento.

Le bobine elettromagnetiche, quelle con il nastro avvolto, e che si svolge.

Da una parte all’altra, c’è il ronzio del nastro che registra il ronzio di fondo.

Non è una comunissima cosa, che tutto, da dentro e fuori, si metta

si metta propriamente a ronzare.

Non che sia vero.

È uno scivolare piuttosto, dentro e fuori. La macchina, un pochettino. La vita grande intorno.

Tutto riversandosi poi, il sospiro del magnetofono e il respiro delle cose, soprattutto se mosse.

Anche la mia mente conosce il ronzio, attende una registrazione.

Bisogna capire se sorga o giunga, se il sistema nervoso o l’inconscio…

Chi, insomma, abbia cominciato per primo.

Anche il movimento dei sessi, se ci fosse. Qualora arrivassero a sbandierarsi per bene i sessi.

Le bobine, intanto, sono state nuovamente verificate, nuovamente installate.

Ce ne andiamo dove, mentre registra?

Lasciamo che le cose vadano da sole, che rotolino sui pavimenti, come le bobine girano intorno al loro perno, come il nastro di seta elettromagnetica che s’imprime, che s’impregna, perché dirgli qualcosa, perché dover depositare proprio lì la voce, andiamocene via correndo, saltando oltre la finestra, grugnendo soffocati, mentre lui registra lo sbattere delle sedie, se per caso cadessero sul fianco, il rotolare dentro il lavello di un bicchiere.

⇒ ⇒ ⇒ ⇒

Vediamo cosa possiamo fare con le mani, vediamo.

Vediamo fin dove arrivano, le mani.

Le tendi, le giri di taglio, poi tagliano l’aria, le mani, e ritornano calme, non fanno più nulla.

Le mani se ne stanno basse. Le mani si alzano.

Le mani non sono granché senza gli avambracci.

Ma adesso le usiamo, le mani sono frenetiche, viaggiano e tramano, si battono l’una contro l’altra.

Dobbiamo mettere anelli alle mani, e pulire le unghie delle mani.

Le mani si tagliano, ma anche: tagliano l’aria, tagliano il tempo.

Le mani vanno e vengono, ma come legate ai polsi.

Le mani sbucano fuori dalle maniche, come non ci fosse polso.

Le mani dicono questo e altro, le mani tacciono sempre.

Le mani immote, le mani remote.

Qualcuno le mette in tasca.

Volta la mano, mostra il palmo, c’è tutto la storia del palmo.

Il palmo è solo una somma di pieghe.

Il dorso è una questione di promontori.

Disegniamo una mano.

Le mani poi vanno a posto.

Quando dormo le mani dormono.

⇒ ⇒ ⇒ ⇒

Sì, certo che le ho viste anch’io, le farfalle.

Le vedo spesso queste farfalle. Volano. Volano di qui e di là.

Posso dire per ora che alcune sono piccole e altre sono più grandi.

Ma è soprattutto quelle piccole che mi svolazzano davanti.

Non è che uno deve misurare la bellezza di una farfalla dal suo peso o dalla sua stazza.

Una farfallina è già molto, quanto a farfalle.

Loro hanno tutto un modo particolare di volare.

Non è molto lineare, è il meno che si possa dire.

Ma non sarò certo io a giudicarle per questo.

Non mi metterò certo io a pontificare sul fatto che volano male,

che sono poco disciplinate nella traiettoria,

che amano avanzare a casaccio, come fossero insetti ubriaconi.

A me sta bene così il volo di una farfalla.

Anche perché poi, ora che ci penso bene, non è che io passi delle ore a guardarle.

Che magari nella loro follia volatile c’è un metodo.

Però io come uomo c’ho sempre parecchio da fare.

Se mi pagassero per fare l’entomologo, certo.

Se poi potessi fare l’entomologo nel mio giardino, ancora meglio.

Pagato molto bene, farei l’entomologo stando seduto.

Potrei bere delle limonate ghiacciate, ora che anche a settembre fanno trenta gradi.

Seduto, con lo stipendio dell’entomologo che cade a fine mese, allora sì

Che mi concentrerei a lungo sul loro volo, magari farei anche

Dei tentativi di acchiapparle con il retino, ammesso che gli entomologi di oggi

Maneggino ancora il retino. E comunque non se ne parla.

Sono anni di specializzazione. Io non voglio più specializzarmi in niente.

Siamo tutti nella stessa barca ( dettagli)

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di Giorgio Mascitelli

A un certo punto la cassiera al supermercato dice che in pensione è meglio non andarci perché non sai cosa fare, la vita perde di senso e io rispondo ( e già mi sbaglio perché non sta parlando a me, sta proclamando una verità generale) che basta organizzarsi, non chiudersi, ma lei mi dice che i pensionati coi soldi vanno all’estero e gli altri sono qui a fare una vita grama, lei li vede con il suo lavoro che contano fino al centesimo per pagarsi la spesa e in Italia del resto ci sono sempre meno soldi perché gli stranieri li mandano  a casa, basta vedere quanti  transfermoney ci sono. Poi aggiunge che siamo tutti tartassati con le tasse, in particolare i poveri commercianti.
In fondo non c’è nulla di strano in tutto questo: siamo nella periferia di Milano e si sa che da queste parti il ceto mediobasso da tempo o si astiene, il che a livello popolare vuol dire che il silenzio è anche nelle idee sul mondo, ed è la maggioranza, oppure ha le idee della destra. Certo mi è venuto in mente, due giorni dopo, che avrei potuto almeno dirle che i soldi all’estero li portano le multinazionali che spostano la sede in Olanda o la bella gente che li mette in banca a Lugano, ma uno dei motivi per cui fin da giovane mi sono messo a scrivere è che ho la battuta pronta in differita, per cui  la risposta giusta mi viene sempre in mente ore o giorni dopo, sicché non posso che consegnarla alla carta anziché al legittimo interessato. In realtà lo so che, anche se avessi risposto a tempo, la risposta sarebbe caduta inutilmente perché non sarebbe stata capita, non in senso intellettuale, ma in senso morale, infatti per  questa mentalità non c’è scandalo che i ricchi e i potenti si comportino come tali esportando il denaro, ma c’è, se lo fanno i poveri. Nel primo caso si tratta di un evento naturale paragonabile a un’ondata di calore o alla pioggia, nel secondo c’è sfacciataggine.
Eppure anche questo tipo di ragionamento mi era già noto, quello che mi colpisce è la pietas verso i commercianti, cioè verso una figura terza tutto sommato con un’immagine socialmente rispettabile, di solito questi discorsi hanno sempre una chiave autocommiseratoria. Poi, uscendo dal supermercato, mi arriva l’illuminazione la cassiera si considera parte dei commercianti in quanto lavora nel commercio. Per lei il fatto di essere una lavoratrice dipendente non fa differenza, sono tutti commercianti: è la variante spontanea del corporativismo.
In una poesia ispirata al suo viaggio a New York, La signorina e il Woolworth, Majakowski guarda con superiorità la commessa di un grande magazzino che filtrando con il poeta ben vestito lo scambia per un impiegato di Wall Street, insomma per il principe azzurro dei ruggenti venti che la libererà dalla povertà, e Majakowski  conclude che in Russia dopo la Rivoluzione si hanno ben altri mezzi per risolvere il problema. Temo che nel frattempo anche in Russia abbiano rivalutato il metodo prediletto dalla signorina di New York. Insomma la situazione è questa, ma talvolta non farsi illusioni può aiutare a sopravvivere.

La situazione dell’agricoltura biologica

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Utilissime queste note di Roberto Pinton sulla situazione dell’agricoltura biologica, in particolare in Germania e in Italia. Si parla molto di crisi del biologico, ma le flessioni – che seguono a molti anni di grande crescita, e che riguardano in realtà soprattutto il canale di vendita specializzato (a fronte di aumenti nel discount) – sono in realtà relativamente limitate:

“Su 25 categorie di prodotto secco per i dodici mesi terminanti a ottobre 2022 in ipermercati, supermercati, discount e libero servizio si registra (NdR: in Italia) un calo medio del 6.4% in valore e del 7.9% in volume rispetto ai dodici mesi terminanti a ottobre 2021 (il che sta a dire che, nella media, non si registrano aumenti di prezzo).
Se ci concentriamo sui discount, invece, registriamo un aumento di vendite del 6.3% in valore e del 3.5% in volume (quindi in media con un incremento di prezzo, anche se nettamente inferiore all’inflazione); il tasso di crescita è superiore a quello registrato nel canale per l’assortimento complessivo delle categorie in esame (bio e non bio), che è del 4.2% in valore.
Escludendo i discount, in iper, super e libero servizio il calo è del 10% in volume e dell’8.2% in valore.
Visto l’andamento, tra i buyer non serpeggia soddisfazione, ma per ora nemmeno il panico (per le stesse categorie nel complesso bio e non bio non c’è alcuna variazione in valore, ma il volume è calato del 3.9%), sono ancora possibili nuovi inserimenti, mentre si rinviano ampliamenti di gamma.
Per l’ortofrutta si usciva da un triennio con vendite medie intorno ai 300 milioni e volumi intorno ai 68 milioni di kg (relativamente ai prodotti a peso imposto, sia a marchio del produttore che a private label).
Il 2022 era partito bene, ma l’invasione dell’Ucraina ha cambiato le carte in tavola, con pesanti rincari in primis per l’energia, poi per gasolio, carta e altri materiali per imballaggio, personale e manutenzioni, per finire con la minor propensione all’acquisto.
Mentre produttori e trasformatori subivano questi rincari, la GDO si è lanciata in sconti e promozioni per dimostrare la sua vicinanza alle famiglie. Come investimento a tutela dei consumatori e del mercato, produttori e grossisti non han scaricato gli aumenti sui clienti, salvo qualche correzione in casi eccezionali di prodotti ricercati, ma di difficile reperibilità (le proverbiali zucchine ad agosto e settembre e i limoni a giugno, gli avocado siciliani che, con il blocco dei container, si sarebbero potuti vendere a peso d’oro).
Nel frattempo, nonostante le difficoltà in molti mercati, l’export ha tirato ed è stato redditizio, il che ha comportato qualche difficoltà a garantire le quantità e la pezzatura richieste dalla GDO nazionale.
Il 2022 ha visto un incremento dei costi dei trasporti del 25/30%, dal 20 al 70% per il materiale da imballaggio, con enormi difficoltà di reperimento dei materiali biodegradabili o compostabili ormai standard nella GDO.
Un’altra criticità da non sottovalutare è stata l’aumento della frequenza delle assenze del personale per malattia, con il corollario della difficoltà a trovare sostituti a chiamata, della necessità dei distanziamenti e di formazione continua.
Anche a causa del lancio del residuo zero (che, come in Francia il marchio patacca Haute Valeur Environnementale HVE, confonde i consumatori) e della scelta di alcune catene di inserirlo in assortimento come categoria intermedia tra il prodotto di massa e il biologico, le vendite di ortofrutta a novembre sono intorno al -1% in volume e al -2% in valore, ma questo grazie al circa +15% del primo semestre.”

In Germania invece:

“Anche se l’eco-attentitività dei tedeschi è da sempre nettamente superiore a quella mediterranea e non cala (bene o male, alle elezioni federali del 2021, i Grünen hanno sfiorato il 15%, esprimono il vicecancelliere, guidano i ministeri dell’economia e clima, dell’agricoltura, dell’ambiente e della famiglia; dovrebbero fischiare molto fastidiosamente le orecchie dei responsabili della distruzione del potenziale del movimento verde italiano) si sta vedendo un divario tra i valori dei consumatori e i loro comportamenti d’acquisto.
Nonostante i prezzi al consumo dei prodotti biologici siano aumentati meno (5,2%) rispetto a quelli dei convenzionali (8%), si registra lo spostamento verso prodotti più economici (con un ritorno agli ingredienti biologici a scapito dei prodotti trasformati, se non ai prodotti convenzionali locali: complice una narrativa ruffiana, al “km zero” è riuscita la magia di posizionarsi come alternativa ai prodotti biologici) o verso altri canali, come supermercati, discount e on-line, dove alle considerazioni legate ai prezzi, si aggiunge l’opportunità di one-stop shopping: vai a far la spesa solo una volta e trovi quanto ti serve per la settimana, pazienza se ti devi accontentare di quel che c’è.”

Ma come sempre – nota dolente finale – riusciamo a distinguerci:

“Da questa parte delle Alpi il settore biologico è invece affetto da almeno trent’anni dalla malattia infantile del frazionismo e dell’interesse particolare.
È funestato dal fatto che, magari dopo averci provato senza gran costrutto, gli imprenditori han smesso di impegnarsi nelle organizzazioni e s’impegnano nelle loro imprese, lasciando spazio a galletti sazi di essere primi in Gallia piuttosto che secondi a Roma.
Le collaborazioni sono sporadiche, tattiche e non strategiche; dopo che IFOAM Organics Europe è riuscita a far istituire l’European Organic Day di settembre per celebrare il biologico continentale e per promuovere la transizione agroecologica non si è nemmeno stati capaci di organizzare unitariamente una giornata biologica italiana richiamando i riflettori dei media sul settore.
No, correggo, qualcosa di corale si è visto: il plauso alla legge 23/2022 (ex DDL 988) che non ci tutela, non sostiene lo sviluppo e la competitività del settore e rischia di regalarlo –acciaccato- a chi per anni lo ha visto come fumo negli occhi e non ha affatto mancato di dimostrarlo, ampio archivio a disposizione degli studiosi…”

qui il pezzo completo

Nonne sporche di sangue: e se ci stessimo chiedendo che razza di nipoti siamo diventati?

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di Francesco Spiedo

Si è sempre in naturale antagonismo con i genitori e in simpatia con i propri nonni.
Gertrude Stein

Marguerite Duras scrive che la solitudine della scrittura è una solitudine senza la quale lo scritto non si realizza o si sbriciola esangue nel cercare cosa scrivere ancora[1]. E non è l’unica: non si contano gli autori e le autrici che hanno sottolineato quanto lo scrivere sia una questione privata, un fatto intimo. C’è persino chi, ostentando delle abitudini al limite della sacralità, smette addirittura di leggere durante i periodi di scrittura più intensa. Per non lasciarsi condizionare, dicono. La distrazione proveniente dagli altri, siano essi mondo reale o echi su carta, appare inopportuna. Questo rifuggire, o rifugiarsi, prevede almeno in parte l’idea di novità: sto lavorando a qualcosa di nuovo, di diverso. Al di là del sentirsi o meno all’interno di un movimento, di una scrittura tra contemporanei, c’è la sensazione d’aver trovato una piccola e personalissima vena d’oro. Almeno è quello che provo io. E la scrittura di Non muoiono mai[2] non ha rappresentato un’eccezione. Centrale è la figura della nonna, pretesto per ritornare e per condividere uno spazio, simbolo dell’arte del racconto e strumento per avviare ritualità. Figura, quella della nonna, che mi pareva essersi momentaneamente eclissata nel panorama editoriale italiano. E invece. Attorno a me non si faceva altro che scrivere di nonne.

Da quando ho consegnato il romanzo mi sono accorto del proliferare di figure archetipiche rappresentate dalle nonne nei testi in uscita o appena pubblicati[3], forse ideati e scritti quasi in contemporanea con il mio. Attenzione: nonne e non nonni in generale, ma nonne al femminile. Le ho ritrovate come protagoniste – o coprotagoniste – nei testi di Giovagnoli (Cos’hai nel sangue, Nottetempo), Meozzi (Piccolo nome, grande sangue, Moscabianca) e Canepa (Quel che resta delle case, Tetra), ma anche nelle ultime opere di Fusconi (I giorni lunghissimi della nostra infanzia, Nottetempo), Forgione (Il nostro meglio, La Nave di Teseo) o Starnone (Vita mortale e immortale della bambina di Milano, Einaudi). E non escludo di averne tralasciate moltissime. Per questa analisi fa fede e viene eletto a unico criterio scientifico la sincronicità che me ne ha fatte rintracciare alcune e reso invisibili delle altre[4]. Ma chi sono queste figure? Sono nonne unite, nel caso di Giovagnoli, Canepa e Meozzi, da una certa narrazione affascinata dal weird e dal sangue, quest’ultimo, il sangue, presente in due volumi su tre anche nel titolo. In bella mostra in copertina. Come un monito, un messaggio neppure troppo cifrato. Però sono anche nonne che invece in Forgione, Starnone e Fusconi appaiono come figure tradizionali, familiari in senso stretto, custodi dell’infanzia dei protagonisti. Come un album dei ricordi che viene sfogliato, col tentativo di innovare e capaci di rinnovare un filone che vedeva ne L’incendio dell’oliveto (Deledda), Va dove ti porta il cuore (Tamaro) e Mal di pietre (Agus) quasi dei classici. Donne anziane che preservano segreti e potere, che tengono le file della famiglia e che fanno i conti con un presente che soffia cambiamenti.

Come scrive Daniele Cerrato siamo sempre di fronte a un gioco di matriosche: pezzi che contengono altri pezzi, questo è la famiglia, ma anche pezzi che possono muoversi autonomamente, perché figli, madri e nonne sono entità a sé.  Dalla ‘madre’, così come si chiama la matriosca più grande, si può passare direttamente al ‘seme’, la matriosca più piccola, che non ne contiene altre, ma è quella da cui tutto si genera, in una relazione di continua reciprocità.[5] Come se fosse in atto la costruzione di una nuova genealogia, una linea che collega pezzi che tendono ad allontanarsi, quasi a respingersi. La figura della nonna, custode e allevatrice, si lacera e si esaspera, si contamina e si perverte. Non è più sacra, ma si fa umana, quindi colpevole, bugiarda, debole, persino maligna. Il rapporto con l’infanzia si manifesta in tutta la sua problematicità: il rapporto costante tra nipoti – solitamente giovani, se non giovanissimi – e nonne viene filtrato attraverso figure genitoriali assenti, combattute, problematiche e in ogni caso incapaci di tenere le redini della famiglia e della narrazione. Siamo la generazione cresciuta con i nonni e nell’assenza dei nostri genitori.

Il romanzo della Tamaro ha avuto il pregio di dare visibilità a un rapporto tra donne, nelle figure di una nonna e di una nipote, non sempre semplice né dolce, ma allo stesso tempo necessario: una discendenza che non fosse soltanto appannaggio del diritto di sangue paterno e maschile. Una famiglia che si costruiva anche nel femminile e attraverso le figure femminili. Nel confidarsi della nonna c’è il racconto di tutto il non detto familiare, di ciò che i nipoti in genere – per età, solitamente – rischiano di non conoscere mai: o si è preservati, esclusi dalle vicende più torbide oppure vi si è catapultati con una tale violenza da non riuscire comunque a comprendere alcunché. Quindi se spesso si ha il tempo per costruire un rapporto padre/madre/figlio tra pari, tra esseri umani,  nei confronti dei nonni/nipoti si vive una sorta di idealizzazione: la nonna come santa, nata già vecchia e cadente, già saggia e perfetta, e nipoti incolpevoli, buoni, perfetti, pieni di qualità e privi di difetti. È un rapporto assurdo e metafisico: perché quando siamo piccoli noi loro sono già vecchi, quando diventiamo adulti noi loro tornano bambini e si parlano sempre due lingue diverse, non si costruisce mai un rapporto tra pari. Solo amore, nient’altro.  Nel testo della Tamaro vi è un dialogo sospeso e interrotto tra queste figure, che riprende soltanto grazie a delle lunghe lettere: parole che denunciano un’assenza di rapporto tra figlia e madre, madre e nonna. Qualcosa che riporta al romanzo di Giovagnoli dove si può leggere l’ambiguità di rapporti costretti e sofferti: Caterina, la protagonista, neppure è consapevole di avere una nonna, concretamente, ma lo sa solo perché come lei ha una madre anche sua madre deve averne una. Con la madre non ne ha mai parlato, una madre che è malata e della quale conosce poco o nulla. Anzi è proprio la scoperta di questa nonna dimenticata e l’assumersi sulle spalle un ruolo di figlia che sua madre ha trascurato, finendo per raccogliere l’eredità di una nonna strega – o forse santa o forse pazza – che chiude la storia. Salda il rapporto mancante, cuce l’anello saltato. Rapporti che si riflettono, ruoli che si scambiano. Sono nipoti che diventano figlie, nonne che diventano madri. “[…] questa lettera avrei dovuto scriverla a tua madre, invece l’ho scritta a te. Se non l’avessi scritta per niente allora sì che la mia esistenza sarebbe stata davvero un fallimento. Fare errori è naturale, andarsene senza averli compresi vanifica il senso di una vita”[6].

Ribaltata è la situazione proposta dalla Agus: è la nipote che si confida, la nipote che racconta, la nipote che muove l’atto narrativo. Ancora una volta è la scrittura – non delle lettere, ma un quaderno – a spingere gli eventi. Quaderni che somigliano al Diario di Campo e agli appunti presenti in Cos’hai nel sangue, sottolineando il valore del ricordo, del recupero, della memoria. Sebbene Giovagnoli infarcisca il testo di misticismo, di leggende, di una dimensione onirica e a tratti allucinatoria che è sintomatica di un testo più recente e meno tradizionale. Non sono soltanto i rapporti a intrecciarsi, a confondersi, ma alle volte anche il tempo e lo spazio assumono confini instabili. Canepa e Meozzi costruiscono due narrazioni ambigue e imprevedibili, conturbanti. Lo fanno ancora più di Giovagnoli, forse aiutati dalla forma della novella che permette di confondere grazie a una maggiore brevità: il patto con il lettore si stringe più facilmente, l’assurdo viene mantenuto e accettato per un tempo limitato. Giovagnoli costruisce comunque un romanzo, offre coordinate sociali estremamente reali, impreziosite da momenti di lirismo e visione. Meozzi invece propone una favola nera, capovolta, una storia di metamorfosi e di costruzione del sé che passa attraverso l’incubo, il doppio, il sangue. Qui vi è l’abbandono di un figlio problematico e scisso nelle mani di una donna che recita la parte della nonna senza esserlo. È affettuosa e premurosa. È una saggia guida. Eppure non vi è nesso di sangue, tra i due: ma non nipote e non nonna si vincolano, bevendo quello delle bestie.

Non è nera, ma è nebbiosa, la scrittura della Canepa: una casa abitata dallo spirito di una nonna, di una nonna un po’ strega e un po’ angelo custode, che comunica e parla soltanto con la nipote. Una donna che si presenta come anziana, che vive un rapporto stanco e logorato con figlia e genero, ma che cerca di trasmettere la propria conoscenza alla bambina protagonista. Una bambina con la quale riesce a intrecciare e mantenere un rapporto anche e soprattutto dopo la morte. Aleggia, riempie le stanze, vive con lei anche dopo la fine del tempo: si mette in scena l’abusatissima formula i nonni non ti abbandonano mai. E così diventa, ma non è un bel vedere: un imprevisto drammatico, un furto domestico con conseguente sequestro di persona, rende l’atmosfera pesante e lo spirito della nonna terribilmente pericoloso. Si compie il male, la bambina diventa strumento di morte. Nell’inconsapevolezza dei genitori. Genitori assenti e distratti, vuoi per colpa vuoi per necessità, si ritrovano anche nell’opera di Fusconi: una storia a tre voci di altrettanti bambini. Una, quella problematica ed emarginata, dichiara un rapporto perfetto con la nonna. Una nonna che è amica e madre, che è capace di capire anche quando lei non parla: un idillio che si interrompe con la malattia improvvisa. Cambiano le regole e la certezza viene meno. La nonna diventa quindi strumento di ricordo e memoria, perché alle volte può essere la malattia altre è semplicemente il tempo che passa, ma anche il più perfetto tra i rapporti nonni/nipoti è destinato a concludersi presto.

Ma il ricordo e la memoria sono al centro anche dei romanzi di Forgione e Starnone: testi che infarciscono le figure delle rispettive nonne con tratti nostalgici, quindi compiacenti, positivi, innamorati. In tutti i testi fin’ora citati sottende un dolore indicibile. Il sangue e la sofferenza traspare nei titoli e nelle scelte linguistiche di alcuni, nelle atmosfere delle storie, ma si avverte anche nel lavoro dei due napoletani: una malinconia affettuosa, nonne che sono carne e ossa anche quando sono sul punto di morire, come in Forgione, o interpretano un ruolo oracolare, quasi mitologico, impersonale, come in Starnone. Tra Fusconi, Giovagnoli e Forgione è forte il richiamo della malattia: di qualcosa che arriva e condiziona, rende gli eventi ineluttabili e definitivi. Sono nonne che custodiscono abitudini e saggezza, familiare o popolare, familiare e popolare, che accompagnano questi due nipoti nel mondo degli adulti: in Forgiono lo fa morendo, impartendo forse la più terribile delle lezioni, in Starnone lo fa accompagnandolo nel primo amore, che come lezione di vita neppure scherza. Entrambe vestono i panni di figure consolatorie, oltre che risolutive come in tutti i testi qui citati: forse è un caso che gli autori condividano luoghi d’origine e sesso? Che i protagonisti siano anch’essi uomini? Potremmo dire di sì, riuscendo anche a includere la nonna non nonna di Meozzi: terrificante, ambigua e pericolosa, ma più nei rapporti con la madre del protagonista che con il protagonista stesso. Questa assonanza, alla quale sto pensando nel momento stesso in cui ne scrivo, mi porta alla mente anche il romanzo di Notaro, Densità[7]. Purtroppo, già soltanto il romanzo della Fusconi smentisce l’ipotesi: non è forse tanto una questione di genere, di uomo donna, di nonna e nipotino o nonna e nipotina, ma di sentimento. Ricordare, rimpiangere, ricostruire, risolvere? In base alla postura di chi scrive il rapporto viene declinato con una sfumatura differente. Si potrebbe persino parlare, volendo semplificare, del dualismo tra il Senex e il Puer Aeternus: archetipo il primo di una figura legata al sapere, alla tradizione, alla conoscenza e alla saggezza, ma anche connessa alla rigidità, alla solitudine, all’ordine. Il Senex al femminile, quindi  nel caso delle nonne, riporta a diversi archetipi: la saggia, la sciamana, la guaritrice, la missionaria, la scienziata, tutte entità nelle quali scorre energia vitale e positiva, ma anche terribile e potente.[8]

Continuando sulla scia dei punti di contatto, è curioso notare come l’archetipo resiste anche a dispetto della forma: Canepa e Meozzi lavorano a due racconti lunghi, entrambi pubblicati infatti in collane dedicate proprio alla narrazione breve. Questo sembra confermare un’interesse e una sensibilità che travalica non solo l’età degli scriventi e delle scriventi[9], ma anche la forma narrativa prescelta. E neppure l’età diventa strumento per analizzare il ruolo, narrativo e metaforico, delle nonne all’interno dei testi: verrebbe da pensare che i più giovani puntino verso figure di rottura, alternative, sperimentali, mentre con l’avanzare dell’età si finisca a confezionare ricordi, simulacri, commemorazioni. Non è così. Potrebbe essere non tanto l’età anagrafica quanto i momenti della vita a spingere verso queste figure. Ed è un piacere leggerne e interrogarsi. Nonne che custodiscono segreti e preservano il segreto del raccontare in un mondo dove parlare e parlarsi, comunicare, pare diventato impossibile. La nostra più grande mancanza. Tutti questi testi contribuiscono a una riflessione sulla generazione che sta partendo per l’ultimo viaggio, ma anche su chi si sta affacciando o si è affacciato da poco sul mondo dei grandi. Perché se ci sono delle nonne devono esserci necessariamente dei nipoti, e noi che nipoti siamo diventati? In definitiva pare questa la domanda che ognuno dei lavori qui citati continua a porsi, ognuno a suo modo. Ognuno con le proprie ferite. Chi sono stati e chi sono i nonni, ma soprattutto chi siamo noi e qual è il nostro ruolo. Cosa resta di quel che è stato e cos’è che saremo poi. Il rapporto con i propri genitori spesso ha tutto il tempo per logorarsi, per scoppiare, per ricomporsi: quello con i propri nonni, invece, ha un tempo limitato. Troppo breve per essere compreso fino in fondo, per esaurirsi nel tempo della vita. È destinato a bruciare un compleanno dopo l’altro, un Natale dopo l’altro e a finire sulle pagine. Perché le nonne, come scrive Ramondino, sono Le visioni, che sono verità rivelate, come le ossessioni, che sono verità non ancora rivelate, non si possono dimenticare; né però spiegare.[10] Qualcosa che non si conosce, né si dimentica né si spiega, ma si continua a raccontare.

[1]    In Scrivere, Feltrinelli (1994);

[2]    Fandango Libri (luglio, 2022);

[3]    Si fa riferimento al periodo che va dalla seconda metà del 2021 alla prima metà del 2022;

[4]    A tal proposito ringrazio tutti quelli che mi hanno segnalato, in fase di correzione, alcuni titoli. Tra i più recenti citiamo, per spirito di completezza: Teresa degli oracoli, Cecconi, Feltrinelli 2020; Sono difficili le cose belle, Nucci, HarperCollins 2022; Noi non abbiamo colpa, Zura-Puntaroni, MinimumFax 2020; Non muoiono le api, Natalia Guerrieri, Moscabianca 2021; La stagione più crudele, Chiara Deiana, Mondadori 2021;

[5]    Daniele Cerrato, Matriosche: nonne, madri e nipoti. Tre esempi di genealogie femminili nella letteratura italiana del novecento, Università di Siviglia (2018);

[6]    Susana Tamaro, Va dove ti porta il cuore (1994);

[7]    Pubblicato da Mondadori (2021) ritroviamo una nonna che mantiene un ottimo rapporto con il nipote, potremmo dire quasi salvifico, e che in chiusura di romanzo svolgerà nuovamente il ruolo di saggia risolutrice;

[8]    Si consigliano sull’argomento: C.G.Jung e A. Jaffè, Ricordi, sogni, riflessioni, Rizzoli 1978 e J.Hillman Puer aeternus, Adelphi 1999;

[9]    Gli autori e le autrici avevano, al momento della pubblicazione dei libri citati, dai 20 agli 80 anni. Meozzi (28), Giovagnoli (30), Forgione (35), Notaro (37), Tamaro (37), Deledda (47), Agus (47), Canepa (55) e Starnone (79);

[10]  Questa citazione è presente come nota a piè pagina del primo capitolo La nonna di Althénopis, Einaudi 2016. L’incipit a cui si fa riferimento è il seguente: Era sempre vestita di nero, ma quando passava per la piazza di Santa Maria del Mare, come fiamme d’inferno i colori le guizzavano intorno, dei gialli, dei viola, perfino talora dei rossi e dei verdi; non portava bracciali, eppure bagliori dorati sembravano splenderle intorno ai polsi.

Un «insopprimibile senso di vivere». L’«inverno freddissimo» di Fausta Cialente

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di Francesca Rubini

«Non vedevo l’inverno da ben ventisei anni, avevo completamente dimenticato tutti i suoi aspetti e le sofferenze che possono accompagnarlo», ricorda Fausta Cialente in un’intervista degli anni Settanta. Dal 1921, quando ventitreenne raggiunge la famiglia del marito Enrico Terni ad Alessandria, Cialente ha vissuto e scritto l’Egitto: una lunga insistente estate sconvolta dalla Seconda guerra mondiale (che vede l’autrice impegnata nella lotta antifascista al Cairo) e interrotta nel 1947 dal ritorno nell’Italia del neorealismo, dove continua la militanza politica fra le pagine culturali dell’«Unità» e di «Noi donne». 

Dal nomadismo di un’esistenza sempre in fuga verso un altrove (alla fine degli anni Cinquanta ricomincerà a viaggiare, per poi stabilirsi e morire, nel 1994, in Inghilterra), lontana dai clamori della scena letteraria, restano splendidi racconti di ambientazione levantina e di interni borghesi, rubriche radiofoniche, decine e decine di servizi giornalistici, importanti traduzioni, e alcuni tra i romanzi più belli del Novecento. Libri sempre fuori tempo, spesso stonati rispetto al clima culturale del momento, sostenuti dalla critica e presto dimenticati, ma ciclicamente svelati come tesori nascosti, perfino inattesi. 

L’ultima riscoperta è quella di Nottetempo, guidata dalla sapiente cura di Emmanuela Carbé, che suggerisce ai lettori un testo assente nelle librerie da oltre quarant’anni. Pubblicato nel 1966 nel clima dello sperimentalismo e della neoavanguardia, Un inverno freddissimo è un romanzo dal carattere quasi teatrale che mette in scena, nel rigido inverno del 1946, la vicenda di Camilla, madre separata dal marito che mantiene figli, nipoti, vicini di casa in una soffitta abusiva, piccolo ricovero contro il freddo di una civiltà lacerata e in lenta ricomposizione. 

A Milano, città «così gravemente sfregiata», «stordita e inerte», in cui la guerra ha offeso l’inviolabilità degli luoghi privati (le finestre dei palazzi sono «occhiaie vuote» aperte sull’abisso dei palazzi sventrati), la protagonista si ostina a ricostruire nel perimetro della soffitta la perduta corrispondenza fra gli individui e lo spazio, fra le coscienze e la Storia. La rieducazione alla vita passa per i quieti sospiri delle stuoie, i soffi del camino, lo scricchiolio dei mobili, i gemiti nelle grondaie dove si annidano le ambizioni e il malessere degli abitanti (alcuni destinati ad essere sommersi, altri salvati), i loro egoismi, i loro conflitti, le loro solitudini. 

La soffitta non è un’isola felice nel mezzo della metropoli distrutta, ma il frammento di un grande crollo storico che riflette la sorte di due generazioni (quella degli adulti che hanno ridotto il mondo in macerie; quella dei più giovani, che pretendono di ereditare un mondo a misura dei propri desideri), le contraddizioni di un intero paese colto nel passaggio fra lo slancio civile della Resistenza e la nuova corsa al benessere materiale della ricostruzione. 

Nella cronaca di un’anonima quotidianità, la prosa intimamente suggestiva e la raffinata tensione stilistica di Cialente costringono a trattenere lo sguardo (senza compiacimenti sentimentali e senza eroismo) sulla paura, la privazione, l’incertezza dell’esistenza interrotta e per sempre ferita. Quando gli esseri umani si scoprono incapaci di immaginare il futuro, la realtà diventa un inverno «feroce», «maledetto», «terribile», che un solo personaggio è in grado di soffrire e superare. 

Camilla è la sponda luminosa del romanzo e conserva i termini di una denuncia radicale: priva di qualsiasi preparazione ideologica e di contrassegni esclusivi ma dotata di una spontanea immunità al pregiudizio, di buon senso e di vivace intelligenza etica, la moglie-madre-massaia costruisce la sua identità fuori dalle categorie della morale borghese, rifiuta il suo ruolo di cura come annullamento e difende sopra ogni altra responsabilità il rispetto per se stessa e il suo diritto alla felicità. Non una figura esemplare, ma un carattere esposto alla fragilità, condannata nonostante tutti gli sforzi a fallire nei propri doveri, ma che al cedimento degli affetti e all’incoerenza del destino continua ad opporre un «insopprimibile senso di vivere». 

È con questo personaggio che Cialente sfida il tempo freddissimo delle sconfitte individuali e collettive, in un libro che racconta il lutto e il rimpianto, il bisogno difficile e irrinunciabile di vivere attraverso la perdita, senza indulgenza e senza conforto, ma senza disperazione. Scoprendo che per scrivere serve «rimpiangere e soffrire […] ma è pure necessario ambire, godere, stringersi ad altri esseri umani, riceverne il calore, con qualcuno procedere insieme». E che per vivere, forse, non è così diverso.