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Bianciardi. Una vita in rivolta

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di Franco Ferrarotti

Il libro che Sandro Montalto dedica a Luciano Bianciardi è originale e penetrante. Per questa ragione va letto e meditato. Montalto vede in Bianciardi una vita in rivolta. Ma non è l’“homme révolté” di Albert Camus. E non è neppure il tipico intellettuale italiano, che tutti conoscono. Certamente, poiché Bianciardi fa un uso professionale del proprio intelletto, Bianciardi è un intellettuale. Ma è anche un giornalista, attento alla quotidianità della gente comune. 

Non ho avuto la fortuna di diventare un suo amico, non ne abbiamo avuto il tempo. Ma l’ho incontrato di persona, a Ivrea, quando si trattava di metterci d’accordo per un suo articolo sui minatori della Maremma e la tragedia di Gavorrano per la rivista di Adriano Olivetti «Comunità». Ci fu tra noi un’immediata, profonda consonanza. Bianciardi capì subito, a differenza di Geno Pampaloni e Renzo Zorzi, che ero l’unico collaboratore stretto di Olivetti, ma senza per questo essere un dirigente della Ditta, e quindi non diviso dalla duplice lealtà, verso le idee di Adriano, ma anche verso gli interessi dei familiari azionisti dell’impresa industriale. 

Da parte mia, non tardai a rendermi conto che Bianciardi era, in fondo come me, un «battitore libero», talvolta un radicale anarchicheggiante, impegnato. Ma il suo impegno non aveva nulla di dogmaticamente stabilito e definito, come all’epoca si insegnava nelle scuole di partito. Da questo punto di vista, Bianciardi era semplicemente un intellettuale scomodo, fuori dal coro, in qualche misura imprevedibile. «Servi sublimi»: così Cesare Garboli ha definito gli intellettuali italiani. Nessun dubbio sull’origine aulica e curiale della loro cultura ma, per una volta, l’acutissimo Garboli sbaglia. Non sono «servi sublimi», ma piuttosto servi di due padroni, magari per giocarli, all’occorrenza, l’uno contro l’altro, tenendosi a portata di mano, come livre de chevet, la «dissimulazione onesta» di Torquato Accetto. 

Un merito particolare di questo libro va infine riconosciuto: oltre a discutere (cosa non frequente) non “solo” il Bianciardi traduttore, redattore e sceneggiatore ma anche il Bianciardi soldato e bibliotecario, momenti della sua esistenza spiegati nel loro essere in realtà fibra importante di ciò che lo scrittore diventerà pochi anni dopo, Montalto decide di basare la sua analisi non prioritariamente, come solitamente si fa, sui romanzi (peraltro ampiamente radiografati) bensì sull’amplissima e in gran parte pochissimo conosciuta produzione giornalistica. Bianciardi non è il tipo di giornalista che aspetta l’imbeccata dal direttore e scrive a rimorchio dell’attualità: è un giornalista che non dimentica mai di esser uno scrittore. Di fronte al problema della censura, soprattutto a proposito della sessualità, non ha dubbi; è libero fino a sfiorare la spregiudicatezza, con accenti, talvolta, di ironia fustigante e anche di auto-ironia. Montalto colloca Bianciardi fra i veri inventori, in Italia, del “giornalismo investigativo” che forse, da noi, solo in qualche pagina di Giorgio Bocca e di Corrado Stjano ha trovato espressione.  

In sintesi, il libro di Montalto su Bianciardi è un contributo prezioso. Non è solo la riesumazione di un autore troppo presto dimenticato, ma indica una via positiva per l’avvenire, e anche l’esigenza della creazione di nuovi linguaggi, un’attenzione alla vita della gente comune, che fanno di Luciano Bianciardi una figura esemplare.

Da un rifugiato all’altro ( Dettagli)

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di Giorgio Mascitelli

‘Anzitutto non vorremmo essere definiti “rifugiati”’, così comincia l’articolo Noi rifugiati di Hannah Arendt, del 1943 e opportunamente ristampato oggi, nel quale racconta con sobrietà autobiografica e rigore filosofico la propria esperienza di rifugiata. Letterariamente, dato il titolo dell’articolo, è un incipit geniale come lo possono essere solo certe constatazioni della realtà, tanto evidenti quanto normalmente sottaciute. L’appassionato di dettagli, il dettagliante, non potrà fare a meno di notare che per buona parte di quelle persone che oggi si trovano nei vari nonluoghi più o meno concentrazionari posizionati alle frontiere del mondo occidentale, in cui finisce o comincia chi non ha i documenti a posto, riuscire a farsi definire ufficialmente ‘rifugiato’ significa invece abbandonare questa condizione di inesistenza legale, che Arendt ascrive alla condizione di rifugiato, per trovare finalmente posto dietro una figura legalmente riconosciuta e socialmente accettata, anche se disprezzata da parte di una fetta considerevole della società. Certo questo rovesciamento è proprio il portato delle esperienze tragiche della seconda guerra mondiale per cui la figura del rifugiato è diventata una situazione riconosciuta perlomeno nelle legislazioni e nelle costituzioni dei paesi democratici, come fa per esempio l’articolo10 della Costituzione italiana. E poi non bisogna esagerare con i paragoni, dai centri di detenzione per i migranti fortunatamente qualcuno ce la fa a uscire e a campare la sua vita, mentre se Arendt, approfittando dei giorni di interregno tra il governo francese e l’occupazione tedesca nel 1940, non fosse scappata dal campo di internamento di Gurs, dove le autorità francesi internavano le ebree tedesche fuggite dalla Germania di Hitler in quanto ebree perché divenute sospette in quanto tedesche, sarebbe finita come le sue compagne direttamente ad Auschwitz.
Il motivo per cui i rifugiati preferivano non farsi chiamare rifugiati negli Stati Uniti era di rispettabilità sociale perché rifugiato era chi era stato tanto sfortunato da essere privo di mezzi e da avere bisogno dell’aiuto di un comitato rifugiati. Insomma la riprovazione sociale del pezzente era quella riservata al rifugiato. Oggi in fondo per un motivo della stessa natura il termine migrante è di grado inferiore indicando colui che se ne è andato senza una reale giustificazione se non la propria povertà, mentre il rifugiato è dovuto fuggire a causa di qualche cosa che lo accomuna alle persone perbene, in quanto non è un semplice disperato ma è in grado di dimostrare di essere un portatore di diritti civili violati.
Certo potrebbe far specie che nell’epoca della globalizzazione qualcuno possa ancora chiosare con la propria pelle la frase di Hannah Arendt che passaporti e certificati di nascita diventano strumenti di differenziazione sociale. Ma questo rivela due aspetti ideologici della globalizzazione; il primo è che non è vero che la globalizzazione supera gli stati nazionali, semplicemente li subordina agli interessi del capitale privato, che è ubiquo, ma poi ne rispetta la loro funzione all’interno di questi limiti; il secondo è che la globalizzazione ha come fine la libera circolazione delle persone, sì, ma solo in quanto libera circolazione delle merci e che una parte di una merce abbondante e poco costosa come la forza lavoro vada persa, se questo serve a mantenere stabile la struttura generale della società, è  accettabile in quanto tale perdita non determina aumenti del suo costo.

Luigi Lo Cascio: «in ciascuno si annida un deserto»

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«di dolcissimo odor mandi un profumo, che il deserto consola»

Giacomo Leopardi, La ginestra

 

Sul deserto di Luigi Lo Cascio è il nuovo titolo dei Cervi Volanti, la collana di scritture poetiche che curo insieme a Giuditta Chiaraluce all’interno del progetto Edizioni Volatili.

«Libri come laboratori, primi confronti, materie pensanti, montaggi e scavi attraverso la carta; libri senza profitto, in tiratura limitata, consegnati agli autori e alle autrici, che ne gestiscono liberamente il transito (esoeditoria); libri evidenti nella loro invisibilità, indirizzati a chi saprà ospitarne l’implicita consegna; libri con l’intento di essere vigilie per una geografia del dopo-diluvio.»

Pubblico qui alcune pagine. Le partiture visive sono di Giuditta Chiaraluce.
Il libro verrà presentato in anteprima a Roma, da Tic – Libri e cose fantastiche, il 21 dicembre 2022.
***

 

Qualcosa

sul deserto…

Si prende

un foglio

in mano

e ti ritrovi,

chissà come,

un fatto incerto,

qualcosa

che ti cova

in una piega:

in sé racchiusa

un’inflessione

antica.

Non lo sapevi ancora

ma covava un deserto.

Cova

in ciascuno

di noi

– e scava –

in una parte

mascherata d’acqua

e di false fontane

almeno un rettangolo,

ruvido e attivo,

un trapezio

di sabbia

o di roccia

a volte scarno

di presenze

a volte sparso

d’instancabili ginestre.

Senza eccezioni

in ciascuno

si annida

un deserto,

un silenzio

che prepara.

S’installa

nel petto

(talvolta

nel ventre),

inesorabile

all’istante,

s’incorpora

nascendo

(la prima boccata

– non ricordi? –

d’aria esterna

che ti sorprese

in gola

era un fiato

di scirocco

o d’altro vento

esotico

africano

e ti parlò

della volta celeste

-foss’anche

il neon

azzurro

di un soffitto-

e ti animò

di un respiro

lontano).

È sempre qui

il deserto

e attende

al varco.

Perciò

lo puoi

coi versi

provocare.

Se pure

capitasse

d’ignorarlo

o di dimenticarlo

in superficie,

lui c’è,

c’è

la sola cosa

che, levando

tutto il resto,

resta, sempre

se ne sta

sotto il suo sole

(eterno a mezzogiorno),

inquieto e presente

lo stesso,

macchiando

di rosso

e di altri inferni

la luna,

a mezzanotte.

 

L’arte contemporanea in 15 ritratti

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di Leonardo Canella

È uscito Protagonisti (Postmedia 2022) di Renato Barilli, 15 ritratti di artisti-faro nell’arte contemporanea degli ultimi trent’anni. Barilli ti fa entrare nella sua fucina di critico militante, di chi contribuisce dall’interno a fare germogliare una situazione. Alla fine delle 110 pagine hai così la sensazione di essere stato anche tu in prima linea, di avere fatto anche tu quelle scelte. Di averle sentite sulla tua pelle. Barilli si distingue per questo: ti porta dentro alle situazioni, a contatto con esse, ma poi ti insegna anche a riprendere distanza, a padroneggiarne la materia scottante con strumenti adeguati. Con metodo.

Ecco i 15 nomi: Koons, LaChapelle, Ontani, Salvo, Hockney, Hirst, Murakami, Mori, Kentridge, Neshat, Salcedo, Neto, Saraceno, Kcho, Baselitz. Ma ne compaiono anche altri, non meno appetitosi. I 15 sono dei fari nella foresta dell’arte contemporanea, se li segui non ti puoi perdere. Essi condensano le migliori energie sul campo, è come percepire sull’immensa distesa verde dell’arte contemporanea la forza di reattori possenti, quasi paurosi. Certo, sono le scelte di un critico, ma critica è scelta e il metodo che conduce ad esse, il sentiero su cui Barilli ti fa camminare all’interno del libro ti convince che la direzione è quella giusta.

La bussola per non perderti te la forniscono le pp. 5 e 6. Oggi siamo nell’epoca della sintesi rispetto ad una tesi che va dalla Pop Art al momento magico del ’68 – è la festa dell’extrartistico di concettuale e minimalismo – e ad un’antitesi (anni Settanta primi Ottanta) che recupera il museo e la gioia del colore e della decorazione. La sintesi degli ultimi trent’anni è tutto questo, ma alleggerito dal brusio e dallo sfarfallio di un consumismo e di una tecnologia elettronica debordanti di optional con continua strizzatina d’occhio al kitsch. E se tutto questo vale per il mondo occidentale, glocalismo è invece la parola chiave per l’arte dei paesi cosiddetti emergenti, un essere in sintonia col proprio tempo che è anche un recupero della propria identità originaria. Leggendo Protagonisti cammini dunque sul sentiero che Barilli ha tracciato per te nella grande foresta dell’arte contemporanea. E tranquillo, non ti perdi e non ti annoi, la tua lettura è stimolata dalle molte similitudini che Barilli semina di continuo sulla strada. Ne viene la sensazione di procedere in un amalgama sensitivo che fa suo un legame stretto con la vita, una specie di presa tattile sul nostro vivere quotidiano. Il tutto tenuto sul 4/4 stilistico che conviene a chi vuole spiegare senza accelerate e frenate continue. Jeff Koons è così un incontro a New York nella galleria di Ileana Sonnabend. Anno 1986. Un click nella mente e per Barilli diventa il campione della nuova stagione che si profila all’orizzonte internazionale (è fra i pochissimi a capirlo). È proprio Barilli a invitare il giovane Koons alla Biennale di Venezia del 1991. Torna con lui il readymade di Duchamp ma con l’accortezza di trasportarlo nel mondo dell’infanzia e di caricarlo di rifiniture che sanno di optional e kitsch insieme. Il famoso Rabbit dell’americano è tutto questo. Ma nel libro c’è anche altro, fra cui un’amicizia che vale la pena di conoscere. E poi Luigi Ontani, l’artista e l’amico di una vita. Non è sbagliata l’equazione Francesco Arcangeli/Giorgio Morandi=Renato Barilli/Luigi Ontani. Certo, altro modo di relazionarsi e di essere. Altro momento storico, altra società ma quella equazione riassume al meglio quasi un secolo di cultura italiana ed europea. Protagonisti è l’occasione perfetta per i più giovani per indagare su ciò. Chiudo qui con David Hockney, tu continua con la lettura (ti consiglio di fare pendant con Prima e dopo il 2000 dello stesso Barilli, Feltrinelli 2006). Nel 2012 Barilli torna alla pittura, pennelli in mano. È l’occasione per scoprire una forte affinità col grande pop inglese, suo coetaneo. Per il critico una riscoperta che sottolinea anche l’aspetto umano particolarmente accattivante di questo saggio.

 

Lettura d’autore: da un incontro con Giorgio Manganelli

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[Il numero 44 di “Riga” è dedicato al centenario della nascita di Giorgio Manganelli. I due curatori, Andrea Cortellessa e Marco Belpoliti, riaggiornano con nuovi e corposi materiali il numero già uscito nel 2006. E ci permettono di ospitare stralci di un incontro realizzato in università da Manganelli il 19 aprile 1986 su invito di Mario Costanzo Beccaria, docente di Storia della critica letteraria. Attenzione, non è il Manganelli recalcitrante delle interviste, ma un Manganelli a ruota libera. a. i.]

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Mario Costanzo

In un articolo apparso di recente, Andrea Zanzotto si domandava se possa un poeta parlare di poesia o addirittura della propria poesia (o di che altro, semmai?).

In questi giorni, riordinando vecchie carte, relative agli anni Cinquanta, periodo in cui facevo tirocinio alla “Fiera letteraria”, ho ritrovato un biglietto di Montale che mi scriveva: “Non mi chieda, la prego, di parlare della mia poesia; meriti o non di essere detto poeta, a giudizio degli altri, perché il poeta è la sua poesia, o non è. E la poesia parla solo di se stessa, dice sempre e soltanto se stessa, appena per questo può avere e forse ha il diritto di rivolgersi ad altri esprimendo tante cose, anzi, tutte le cose”. (Le nomina e il nome agisce: ricorderete “Buffalo! – e il nome agì”).

“Potrò scrivere, se vuole, qualche rigo su Gozzano, Sbarbaro, Solmi, Barilli, su me stesso no, o semmai solo da estraneo; proverò, infine, forse per non deluderla; ma anche Lei provi a intervistarmi pensando a me e aiutandomi a pensarmi come a un altro me stesso, al mio doppio, al mio sosia, ecco, come a uno pseudo-Montale”.

Starà alle vostre domande, sollecitazioni e, perché no?, anche provocazioni, snidare un po’ Manganelli e lo pseudo Manganelli.

 

Giorgio Manganelli

Non ho la minima idea di quello che dirò, e cioè non ho un’idea molto precisa, perché sono venuto qui non sapendo esattamente di cosa avrei dovuto parlare se non di qualche cosa che si chiama letteratura, che è un coso in cui si entra da tutte le parti quindi non si sa quale porta sia da preferire o da considerare in qualche modo pregevole. Sapevo che il discorso doveva prendere le mosse dal saggio, dal tema del saggio, e da qui passare alla narrativa e alla discontinuità nell’ambito della narrativa, e m’è venuto in mente che il modo più semplice di spiegare che cos’è il saggio è di ricordare un’esperienza che certamente avete avuto tutti voi quando eravate al liceo, cioè di svolgere un tema e di vedere scritto in fondo, dal professore, “è fuori tema”. In quel momento voi avete scritto un saggio, cioè siete usciti da un tema, siete usciti da una linea di retta di percorso, avete abbandonato la coerenza del discorso in qualche modo ufficiale: si doveva parlare di un certo tema, voi avete parlato di altro. Il parlare di altro è molto interessante, forse molto più interessante di quanto non sia il parlare di qualche cosa che ci si propone.

Perché accade di parlare di altro? Se io incomincio a parlare o a scrivere di un qualsiasi argomento, io credo di avere in testa un argomento. Questa è sempre una delle illusioni in cui si cade quando si scrive. È una via pericolosa, poi si abbandona col tempo, l’idea che si dice qualche cosa e si dice qualche cosa a proposito di qualche cosa. Questo fornisce delle bande, dei binari al discorso che noi ci proponiamo di fare, però purtroppo questo discorso viene fatto con le parole e le parole non sono così ubbidienti, non sono così semplicemente e facilmente inserite nel discorso. Le parole hanno una loro qualità cattivante, insidiosa, aggressiva e soprattutto estremamente elusiva. I significati delle parole sono qualche cosa che si trova sul vocabolario per indicare, direi, i significati che non sono utili, che non servono. Il significato della parola nel momento in cui agisce nel testo è per l’appunto il mistero, l’enigma con cui si viene a contatto scrivendo. Quindi la cosa più normale è quella di uscire di tema; la cosa più sana, più intellettualmente coerente, è quella di essere incoerente, e cioè di cominciare un discorso e poi di farsi sedurre lungo la strada dal prestigio delle parole, dalle illecebre della sintassi, dalle allucinazioni della struttura della frase, che portano verso immagini, verso frammenti interiori, frammenti di qualche cosa che noi non conosciamo e che non conosceremo neanche avendo scritto. Seguendo questa strada laterale, questo controviale del discorso, noi ci troviamo continuamente a scoprire che noi sappiamo soltanto ciò che noi diciamo, cioè non è che, rovesciando il vecchio deplorevole detto latino, “tenete in mano la cosa di cui volete parlare e verba sequentur”. È esattamente vero il contrario! Sono le parole che noi pronunciamo che ci fanno capire che cosa pensiamo.

In questo stesso momento in cui io parlo, una parte di me si sta ascoltando, con affettuosa deplorazione, e ascoltandomi coglie ogni tanto delle parole e dice: “Toh, lo sapevi tu di pensare questo?”, “No, non lo sapevo”. Nel momento in cui ho detto quelle parole mi sono accorto che lo penso. Che strano! Ed è questa alterità del discorso verbale nei confronti dell’interezza dell’io che è la vera, eccitante avventura della letteratura, del farla o del patire letteratura. Questo vale anche per il lettore. Il lettore non sa mica esattamente che cosa sta leggendo; non lo sa perché lo saprà dopo un mese, dopo un anno, non lo saprà mai, perché le parole accadono – in una maniera molto misteriosa, molto oscura, molto travagliata – all’interno del suo discorso di lettore, di letterato, di scrittore: accadono, e questo accadere è molto occulto, è un accadere che potremmo paragonare a quello dei sogni, degli incantesimi, delle superstizioni, dei giochi di parole. Ad esempio chi si propone di scrivere seguendo il magistero del tema (“rem tene”), probabilmente è una persona che non si rende conto che le parole hanno dei suoni. Il fatto che le parole hanno dei suoni è fondamentale perché l’accostamento, il ritmo, la giacitura, il cadere, il giustapporsi o lo scindersi delle parole fa sì che queste parole agiscano in una maniera molto sottile, molto losca direi, leggermente impudica, proprio suggerendo delle immaginazioni e delle fantasie che sono legate alla sonorità della frase.

Tutti i grandi scrittori di certe epoche sono legati in una maniera quasi fanatica alla sonorità della parola, alla sonorità della frase, e quando si perde questo senso nasce una prosa alternativa che è una prosa in cui si crede sempre di fare quello che una volta veniva chiamata una prosa “tutta cose”. La prosa tutta cose è una finzione, perché anche questa prosa tutta cose è fatta di parole e le parole hanno quella qualità che si diceva prima. Quindi questo discorso che, come vedete, è abbastanza sconnesso, o meglio, è abbastanza discontinuo, vorrebbe toccare il tema che per me sembra essenziale, cioè della estraneità tra l’autore, il cosiddetto autore, e ciò che accade venga scritto sotto il nome dell’autore o ciò che venga detto dal parlante. Quando prima ho detto: “Io quando parlo so quello che penso, così quando scrivo so che cosa mi è accaduto, ma non lo so mai prima”, è ovvio che nessuno può proporsi di scrivere un libro bello, un libro di un certo tipo. Non si sa mica che cosa succede quando ci si mette a scrivere; e non sto mica parlando, per carità, di ispirazione: sto parlando direi piuttosto di seduzione, di una corruzione che la losca fertilità verbale esercita nei confronti dell’integrità morale dell’io. Si crede generalmente che noi siamo presidiati da un io molto rigoroso, molto attento, perlomeno molto oculato, ed è proprio quest’oculatezza dell’io che va in primo luogo irrisa, elusa, delusa dalla macchina verbale, dalla presenza verbale; questa specie di putrefazione dell’io, che copre di minimi animaletti verbali la compatta compagine dell’io.

Ecco, incidentalmente io ho detto adesso “compatta compagine”. Mi piace di averlo detto, devo confessarlo. Ma io non l’ho detto. Mi è accaduto di trovarmi di fronte queste parole, con questa cadenza, con questo suono; mi rendo conto che questo suono racconta una storia per conto suo, cioè racconta una certa immagine del rapporto verbale, racconta uno stemma, una figura araldica, un disegno, un disegno che non sarebbe nato, che io certamente non ho disegnato ma che mi sono trovato di fronte e che non sarebbe nato se non ci fosse stato questo momento estremamente liberatorio, estremamente magico e anche ironico della presenza verbale. È il suono che ha creato quel disegno. Questo accade continuamente. Continuamente nel vostro discorso, se voi imparate ad ascoltarvi, vi accorgerete che voi parlate e a un certo punto cominciate ad essere parlati e questo è un momento veramente interessante. Prima voi sapete che cosa dite, credete di saperlo, nel momento in cui vi accadrà di essere parlati voi saprete di non saperlo e allora sarà estremamente avventuroso essere in rapporto con se stessi, cioè vedere come le parole nascono, vengono incontro, appunto ci corrompono e ci propongono delle immagini che non erano mica previste da noi o che non sapevamo nemmeno che le pensavamo; ci dicono, le parole che scegliamo, ci dicono che cosa veramente, tra virgolette, pensiamo. Ho dovuto dire “tra virgolette” perché in realtà non è mai vero che noi possiamo esaurire il significato che le parole ci propongono; noi possiamo all’incirca sapere che cosa pensiamo, ma non di più di questo, perché la parola che ci è venuta incontro è a sua volta un cunicolo, è un labirinto. È uno spazio assolutamente insondabile. Non è tanto vasta, quanto incatturabile, è un animale incatturabile e questa sua qualità è la fecondità ambigua del momento letterario.

Prima il professor Costanzo citava una frase di Montale. Diceva Montale: non chiedermi qualcosa sulla mia poesia. È una cosa stupenda e ovvia. Non c’è niente di più repulsivo e di più assolutamente metodologicamente insensato di chiedere a uno scrittore di parlare di qualche cosa che lui ha scritto, perché se c’è qualcosa di cui lui non sa nulla è proprio esattamente quello che lui ha scritto. È estremamente allarmato, è irritato, molte volte è anche profondamente disgustato dal fatto di avere scritto qualche cosa e la sorte che toccherà a ciò che lui ha scritto è una cosa che non solo non lo riguarda, ma che un pochino gli ripugna. Non è bene dare corda ai propri libri. I libri vanno trattati da orfanelli, da trovatelli, da bastardi. Li hanno messi per strada e lasciati lì. Perché hanno la loro storia da raccontare, ma la raccontano loro; mica siamo noi che la raccontiamo.

È una futile vanità il ritenere che esiste l’autore del libro. Quando accade che qualcuno scriva qualcosa, anche un tema, anche un’esercitazione, voi non sapete mica come finirà, e non sapete quali saranno le ultime tre parole; beh, qualche volta le ultime tre parole si sanno già quando si comincia, ma tutto quello che c’è in mezzo non si sa, non si sa perché sarà un perdersi nel labirinto, sarà un correre dietro a degli oggetti allucinatori, a dei suoni, a degli echi, che faranno venire in mente quelle che, con un errore, nella nostra ingenuità riteniamo siano delle idee. Ecco, se c’è qualcosa che alla letteratura è totalmente estraneo, sono le idee. Nessuno scrittore pensa niente, perché nessuno scrittore ha niente da dire, e questo è un concetto che credo venga abbastanza naturalmente dietro quello che s’è detto prima. Se la presenza, l’invasione, la suggestione, la seduzione, la corruzione della verbalità è prevalente in ogni modo nel discorso, è chiaro che avere o non avere delle idee è non solo inutile ma altamente pericoloso, per cui non giova in nessun modo allo scrittore ritenersi in qualche modo intelligente, acuto, colto, edotto o filosofeggiante. Tutto questo è totalmente estraneo, perché il compito caso mai dello scrivente, forse parola più onestamente diminutiva, è proprio quello di riportarsi alla verginità ambigua, adolescenziale del momento verbale, cioè al momento in cui non esistono ancora le idee ma esiste tutto il materiale che consentirà ad un certo momento di aggredire la parola, di impoverirla, di ucciderla, di demolirla e di estrarne quel nocciolo povero e vile che noi chiamiamo idea, nocciolo che è anche estremamente ambiguo perché a sua volta sarà rinchiuso in una teca verbale, avrà un suono, e il fatto che una parola abbia un suono – come noi sappiamo vedendo che anche le parole più astratte rientrano perfino nelle canzoni, rientrano perfino negli slogans, cioè in affermazioni ritmate –, questa qualità sonora dell’idea enunciata dalle parole finirà sempre col rendere ambigua, con l’intristire, col chiudere, col punire l’ambizione dell’idea.

Il saggio è in qualche modo l’immagine tipica del discorso letterario perché per l’appunto è fuori tema, cioè per l’appunto è il luogo in cui si celebra nella maniera più abbandonata, più deliberatamente corrotta, il contubernio, la complicità con la verbalità, cioè si segue ciò che viene in mente e ciò che viene in mente sono sempre parole e quindi si corre dietro una parola che richiama un’altra parola, ed è questo perdersi, questo abbandonare le garanzie della struttura, che dovrebbe appartenere a qualsiasi genere. È proprio questo che consente la scoperta di quegli itinerari che in qualche modo ci appartengono; che sono propri di qualsiasi parte di noi ma non dell’io: l’io è sempre estraneo a tutto questo meccanismo. Noi sappiamo che dal Settecento ad oggi il romanzo ha avuto molte vicende e direi che la sua tragedia intrinseca è che il romanzo deve raccontare una storia; ora raccontare una storia è terribilmente vicino ad avere delle idee, è una cosa molto pericolosa e in realtà vediamo con quanta fatica i romanzieri riescono a raccontare una storia, cioè riescono a distruggere tutte le alternative che potrebbero fare di un libro che va dal punto A al punto Z un libro che in realtà va da A a B, da B a C, da C a D non proseguendo necessariamente per l’alfabeto ma vagabondando in modo estremamente errabondo ed erratico da una parte all’altra e quindi perdendo completamente l’idea di un itinerario perfetto. Se poi prendiamo certi grandi romanzi come Don Chisciotte, se si può chiamare romanzo, o Tristram Shandy o Tom Jones o Gargantua, noi vediamo come ci troviamo di fronte dei testi in cui la golosità, la gola, intendo dire proprio nel senso medievale di atto vizioso, dell’invenzione laterale della verbalità, è continuamente pronta, continuamente in agguato.

Un Don Chisciotte, un Cervantes, un Rabelais continuamente corrono dietro a delle suggestioni. Questo in Sterne raggiunge un vertice, una vertigine straordinaria. È veramente affascinante leggere questo libro che è stampato come si stampano tutti i libri ma che in realtà non si legge mica come tutti i libri, non è necessario leggerlo in quel modo. È un libro in cui tutte le pagine sono la prima e tutte le pagine sono l’ultima, e questo è sempre uno dei grandi miti della letteratura: scrivere un libro, avere un libro in cui tutte le pagine abbiano questa funzione, tutte lo stesso numero per cui non si pongono mai come giustificazione reciproca ma ciascuna pagina sia un momento di autogiustificazione.

Mi viene in mente il caso del Manzoni. Manzoni, cosa che io ignoravo fino a qualche mese fa, quando ho letto Fermo e Lucia, era partito da un progetto dei Promessi sposi molto diverso da quello che poi ha adottato nella redazione definitiva. Questa è una cosa ovvia, ma non era ovvia del tutto. E mi ha affascinato vedere un Manzoni che perde tempo, che parla d’altro. Questo c’è anche nel grande Manzoni. Ogni tanto si innamora di un tema. Gli piace la peste. A quale scrittore non può piacere una grande e rovinosa epidemia perché è una bella allegoria dell’esplosione verbale? Le gride, gli amori della monaca di Monza. Però nel caso della prima redazione del Fermo e Lucia questa politica del perdersi per strada è addirittura teorizzata. Ad un certo punto dice: beh, se non vi piace, mollatemi; andate a fare qualche altra cosa, ma a me piace tirare i fili intorno all’acqua in questa maniera, giro da una parte, giro dall’altra, rompo il filo; cioè era perfettamente consapevole che stava facendo qualche cosa direi di post-sterniano, qualche cosa che aveva avuto esempi molto felici in certi scritti minori della prosa del Foscolo, i cosiddetti Scritti didimei, che sono stati, devo dire, una scoperta. Foscolo, che è per me uno dei più irritanti scrittori di quelli che hanno delle idee, Foscolo, è chiaro, quando scrive i Sepolcri è convinto di stare facendo un equivalente versificato del Manifesto del 1848 o di qualche cosa del genere: fa il manifesto del Risorgimento. Tutto questo, mi dispiace, però è completamente fuori strada, è solo che ha delle doti. Ma non è lì che noi possiamo trovare l’arte. Ritorna a essere affascinante, per lo meno a mio avviso, quando non riesce più a scrivere un testo continuo; nelle Grazie, quando continuamente sbaglia, quando gli viene un’idea e quell’idea non lega con le altre. Lui crede che siano idee, e invece sono parole. E questa continua frammentazione, questa dissezione delle parole una nell’altra è assolutamente essenziale alla sua capacità di creare. Quando Foscolo si prova nella stupenda traduzione del Viaggio sentimentale e nei cosiddetti testi didimei, nelle Lettere dall’Inghilterra ecc., proprio in questa condizione è uno che sta chiacchierando. Ho detto una parola che avrei dovuto dire molto prima ma purtroppo non m’è venuta incontro.

Non sono mica io che ho scelto di dire la parola “chiacchierare” in questo momento qui. La parola “chiacchierare” era, nel continuo spazio temporale sterniano, in un certo punto e fino a che io non raggiungevo quel punto la parola “chiacchierare” non la dicevo. Adesso sono arrivato lì e ho detto “chiacchierare”, o meglio la parola “chiacchierare” mi ha fatto segno e mi ha detto che voleva essere detta, ed io, che sono abbastanza ubbidiente a queste suggestioni, anche se le considero losche, ho detto la parola “chiacchierare”. Il chiacchierare, che è parola insultante e negativa, è probabilmente il momento più alto del creare letterario; non c’è niente di più limpido e di più torbido, non c’è niente di più libero e di più intimamente necessitato del chiacchierare, cioè dell’inseguire quelle palline di mercurio della verbalità che giocano davanti a noi, che non si fanno afferrare, queste lepri, questi conigli, queste farfalle, queste cose che danno al nostro discorso la qualità di una continua, ininterrotta allucinazione da cui nasce una infinita possibilità di inventare mondi; i mondi infiniti di Fontenelle direi che sono nati non da un “fiat lux”, ma da un momento di chiacchiera di Dio. Quando Dio chiacchiera nascono l’universo e le galassie; ma certo per creare l’uomo, che è quello che ha le idee, allora interviene con una parola sola o due al massimo, l’enunciato è estremamente succinto, intimidatoriamente tale. A questo punto ho anche una vaga voglia di smettere di parlare, cioè evidentemente le parole si sono stancate di stare insieme con me, hanno altro da fare, stanno passeggiando, vanno qui intorno.

(…)

Domanda

Nella Letteratura come menzogna io credo che Lei tenga troppo alla letteratura fantastica e dunque proiettata nel futuro; nel suo breve saggio La letteratura fantastica Lei esalta questo genere: “Nulla è più mortificante che vedere narratori, per altro non del tutto negati agli splendori della menzogna, indulgere ai sogni morbosi di una trascrizione del reale, sia essa documentaria, educativa o patetica”. Che pubblico ha una letteratura fantastica?

Giorgio Manganelli

Credo che ci sia – mi perdoni – un po’ di confusione. Lei dice che la letteratura fantastica è una letteratura proiettata nel futuro. Io francamente non capisco cosa questo voglia dire. Forse sto abusando del mio diritto di essere stupido, ma ci sono affezionato. Perché la fiaba o Rabelais devono essere proiettati nel futuro? Che senso ha questo? Eppure è letteratura fantastica. O lei confonde la letteratura fantastica con la fantascienza, genere che io amo disordinatamente ma che peraltro è fuori dell’argomento di cui stiamo parlando. Non c’entra niente il fantastico con la letteratura del futuro. Secondo punto. Perché la letteratura fantastica ha un certo privilegio? È vero; ai miei occhi ce l’ha. In un modo forse del tutto dilettantesco perché nella letteratura fantastica c’è un punto di irresponsabilità che la letteratura cosiddetta realistica ha cercato di eliminare. La letteratura realistica è stata dominata dal tema della responsabilità dello scrittore e quindi ha introdotto surrettiziamente una serie di intimidazioni, di ordini di comportamento allo scrittore, ha introdotto le idee, che ritengo essere estremamente estranee al compito dello scrittore. Poi c’è una terza domanda inclusa nella sua domanda. Qual è il pubblico? Cioè, per chi scrive lo scrittore? E questo è veramente uno dei grandi misteri. Lo scrittore, appunto perché non esiste come scrittore ma esiste come testimone dell’accadimento verbale, non ha il problema del lettore. Il lettore ci sarà non perché lui ha persuaso il lettore a leggerlo, ma perché le parole si sono trovate in una posizione tale da poter corrompere simultaneamente uno pseudo-scrittore e uno pseudo-lettore; quindi nasce quel momento di instabile equilibrio che è la letteratura. Noi ogni tanto vediamo che scrittori importanti scompaiono dalla letteratura. Sembravano importantissimi. C’è un momento nella letteratura italiana dell’Ottocento in cui un poeta come Aleardi domina la letteratura italiana. Ora non lo leggono più. Forse per le tesi di laurea, perché ridotti alla disperazione, ma altrimenti non esiste più.

Forse tra un secolo ritornerà. O viceversa ci sono scrittori che improvvisamente appaiono. Mi ricordo il caso, nella letteratura inglese, di Thomas Traherne, uno scrittore morto nel Seicento senza aver pubblicato una riga, lasciando tutto nel cassetto; un secolo e mezzo dopo la sua morte quel cassetto viene aperto e in quel momento nasce un nuovo scrittore nella letteratura inglese, che si impone come uno dei grandi del suo momento, letto un secolo e mezzo dopo la sua morte perché non aveva mai saputo che stava scrivendo delle cose così straordinarie. Emily Dickinson, una delle più straordinarie scrittrici e poetesse che siano mai esistite, scriveva senza avere la minima idea che avrebbe avuto un pubblico. Non si scrive mica per un pubblico preciso! L’accadimento dello scrivere presuppone che ci sia un’eventualità, un gioco di dadi in cui accadrà che qualche volta qualcuno risponde leggendo ma può anche darsi che non accada mai. Penso a quel fenomeno intellettualmente meraviglioso che sono i frammenti dei testi classici latini e greci. Mi piacciono molto questi libri che non ci sono più e che in qualche modo ci sono sempre. Queste tragedie di cinquemila versi di cui rimangono due righe. Una cosa straordinaria perché quelle due righe sono così pregnanti, allusive, orfane, defunte, ectoplastiche. C’è tutta una letteratura delle cose, dei libri che non ci sono più o che sopravvivono con un coacervo, un coagulo di sillabe. Non sappiamo che cosa voglia dire quell’unico verso di Cornelio Gallo e così via.

(…)

Nel 1986 Mario Costanzo Beccaria, docente di Storia della critica letteraria, mi propose di organizzare una serie di incontri tra alcuni scrittori e gli studenti che seguivano il suo corso e che avrebbero avuto modo di proporre riflessioni e domande. Parteciparono agli incontri Giorgio Manganelli (19 aprile 1986), Pietro Citati (8 maggio 1986) e Alberto Arbasino (17 marzo 1987). La trascrizione dei testi, sottoposti agli autori e da essi approvata, fu pubblicata l’anno successivo nel volume di Graziella Pulce, Lettura d’autore. Conversazioni di critica e di letteratura con Giorgio Manganelli, Pietro Citati e Alberto Arbasino, Bulzoni, Roma 1988; la conversazione con Manganelli figura alle pp. 87-126 (G.P.)

Nero bruciato

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di Francesca Caponi

21-03-1945 Astroni

Carissimo zio,
casualmente o incontrato un soldato che appena ieri è ritornato da casa sua: «Sto nei dintorni di Empoli» prima di partire è venuto da voi a farsi delle fotografie; mi ha assicurato che stavi bene, mi a fatto moltissimo piacere. Ancora non ho notizie di mamma e Renzo, prego il Signore che siano in buona salute: l’Invocazione che ha vissuto tutte le ansie del cuore durante il tormento di tanta lontananza mi ha illuminato la speranza più forte e più intensa oggi, che mi farà piangere di gioia quando la carezza della mamma si stringerà a me. Quale miraggio più divino può offrirmi la vita se non l’abbraccio della cara mamma? Spero che le sue sofferenze l’abbiano conservata in salute e così il sacrificio e il dolore sarà soffocato col nostro abbraccio che ci farà rinascere alla vita e alla pace. Non so cuando potrò venire in licenza, ma spero presto. Infiniti saluti a voi e famiglia, un fortissimo abbraccio alla mamma e a Renzo.

Vostro nipote
Caponi Renato

E poi succede che torni a casa. Succede che non muori nella Battaglia di Rodi e che non sei morto neanche da prigioniero, davanti a un plotone d’esecuzione. Non muori nemmeno in quel campo di concentramento. Ombra, torni a casa e finito un conflitto ne inizia un altro. Chi sei. Non più il diciannovenne che ha salutato sua madre alla stazione di Empoli quella mattina ghiaccia e dura del 19 gennaio 1942. Non più un bravo vetraio. Non più un atleta. Non più un bravo disegnatore. Il filo del discorso si è interrotto per la prima volta quando hai messo piede su quell’isola dannata e poi altre volte ancora. E adesso succede che mentre sei a desinare passa un aereo e ti ritrovi sotto il tavolo a sbattere la testa contro i piedi di tuo fratello e tua madre, e quando torni a sedere lei ti guarda e vorrebbe strapparsi il cuore e darti il suo, perché è chiaro che il tuo è sbriciolato e sta insieme per grazia di Dio onnipotente, ma non dice niente e sorride, e tutti e tre srotolate qualche risata nervosa, perché così è più facile. Succede che rivedi Galera, quel sudicio, lurido fascista che ti spinse contro il forno mentre soffiavi un fiasco, ma ora il regime è caduto, così lo guardi appena e a voce alta sopra il silenzio di tutti dici: “Ma quello non è Galera? Sì, quello che mi spinse contro il forno e mi bruciò tutte le braccia. Sapete cosa faccio ora? Lo prendo, lo butto dentro al forno e ce lo pigio bene bene con la canna.” E succede che Galera va via e nessuno lo vedrà più. Succede che spesso hai freddo, anche se fa caldo; è il freddo del Campo, è il freddo addosso. Succede che dormi ancora sul pavimento e ogni volta pensi Solo un’altra notte.  E di nuovo, Io, voce che ti parla dall’ansa più profonda e sincera della tua identità, Io domando. Chi sei. Non lo sai, non puoi, è troppo presto. Lascia che sia così. Come dici? Ma sì, certo, hai ragione, questo lo sai bene. Vivo. Sono vivo. E allora vivi.

21-03-1946, Firenze

A Firenze la nuova stagione quest’anno è ossigeno salvifico ed è per tutti. Sì, perché l’inverno è stato lungo, è stato duro, è stato malvagio. E ora basta, punto e capo, ma punto e a capo non basta e c’è bisogno di riprendersi quello che questi anni gelidi hanno rubato alla vita delle persone. Anche Renato si sente grato per questa nuova alba e la respira a pieni polmoni. Camminare per le vie di Firenze gli fa bene: a Empoli ancora non sa come fare ad essere ciò che è, non si sente né pesce né ranocchio, a Firenze può essere chi vuole. Cammina tra Renzo e il loro amico Franco, sono in silenzio da un po’: dopo essere scesi dal treno si sono scambiati poche parole sulla strada più corta da fare per raggiungere la sala da ballo e poi hanno camminato in silenzio, con gli occhi avidi di tutto ciò che Firenze ha da offrire. È il primo giorno di primavera e, a Firenze, la primavera arriva e si sente padrona, si impone con prepotenza, è una vecchia matrona che arreda la sua casa con eleganza e maestria: nei colori freschi e accesi che riflettono in Arno, nei fiori che tempestano gli alberi dei giardini, nella paglia dei cappelli delle signore, nella gente che si ritrova a biscondola nelle piazze, negli orti che rinascono e negli sguardi che nascono.  La primavera, a Firenze, si ascolta: il fruscio delle stoffe leggere, i cinguettii dai tetti, le risa spensierate, la musica. Musica, nelle sale da ballo.

Balli e ripensi a questa mattina, hai messo ad abbrustolire due fette di pane e quando te ne sei ricordato erano tutte annerite da una parte; allora hai preso un coltello e ti sei messo a grattare via il bruciato. Hai grattato via il bruciato, perché sotto al nero, il pane è sempre buono. È quello che fai ora, gratti via il nero, via tutto quanto. Balla e gratta. Scrr scrr. Lo sto facendo. Scrr Scrr.

Fuori dalla sala da ballo Renato vorrebbe tornare alla stazione a corsa e se fosse stato solo, forse, lo avrebbe fatto. È con Renzo e Franco quindi cerca di contenersi, ma detta il passo, veloce e dinamico, ogni tanto balza e sorvola qualche buca, oppure salta in alto per battere il cinque a un ramo. Canta le sue canzoni preferite Se potessi avere mille lire al mese, senza esagerare sarei certo di trovare tutta la felicità e gli altri due lo assecondano e lo seguono. Da dietro un angolo spunta un terzetto di giovani donne appena fiorite e le loro gonne sono petali al vento. Renato le osserva senza smettere di camminare e cambia canzone alzando leggermente la voce Come sei bella, più bella stasera, Mariù splende un sorriso di stella negli occhi tuoi blu. Chissà, forse domani troverà anche lui una Mariù, non una di passaggio, una tutta per sé, o forse già stasera, laggiù, alla fine della strada. La vita ha di nuovo il sapore delle possibilità e l’odore che hanno gli imprevisti belli.  Il ritorno in treno trascorre così, tra un verso di una canzone e l’altra, commenti sulle giovani con cui avevano ballato – quella col vestito azzurro, poi sì, anche quella con i capelli biondi, ma era tanto bella anche quella che ha ballato con te, con i capelli raccolti e gli occhi nocciola – e su Firenze. Renato ripete una cosa che aveva detto con ironia una volta a un soldato fiorentino Firenze è il giardino del mondo, Empoli è il giardino di Firenze. Ed eccola Empoli, il treno rallenta. Renato cerca con lo sguardo il campanile, sa che non c’è più, non scorderà mai il giorno in cui, dopo quattro anni di assenza, è tornato a casa e ha cercato il campanile nel cielo senza trovarlo. Lo sa, ma non lo accetta.

Le porte del treno si aprono su entrambi i lati, quello sul marciapiede e quello sul binario oltre il quale si trova l’altro marciapiede. Renzo sta già scendendo dalle scalette e Franco, dietro di lui, sta per fare altrettanto. Renato indugia. La distanza da saltare non sarebbe eccessiva, ripensa agli allenamenti da militare sulla sabbia, anche con la rincorsa più corta degli altri i suoi salti erano sempre e comunque i più lunghi. È vivo, è forte, è giovane, invece di scendere dal marciapiede e fare il giro dal sottopasso per raggiungere Piazza della Stazione, può saltare il binario e atterrare direttamente dall’altra parte. Certo che può, è Renato, è tornato dalla guerra, è sopravvissuto alla fame, alla prigionia, alla fucilazione. Io salto. E non ascolta quello che Renzo e Franco gli dicono, lui vuole saltare. Due passi indietro e via, sta già prendendo la rincorsa.  

Fermati.

Renato si ferma mezzo istante prima di staccare il salto. Non ha il tempo di chiedersi perché poi si sia fermato: l’altra metà di quello stesso istante è il rombo terrificante di un treno che passa a tutta velocità proprio sul binario che avrebbe dovuto attraversare in volo.

Sei tornato dall’inferno per morire così? No. No, infatti. Renzo e Franco ti chiamano, li hai spaventati. Muoviti, voltati, scendi le scale e vai a casa con loro. Scrr scrr, tu continua, scrr scrr. Via tutto il nero, via il bruciato e vedrai, altri primi giorni di primavera ti troveranno.

Mots-clés__Fontana

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Fontana
di Marcello Benazzo

Ottorino Respighi, La fontana di Valle Giulia all’alba -> play

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Da: A. Palazzeschi, Poesie 1904-1909, Vallecchi, 1925, pp. 90-93.

Clof, clop, cloch,
cloffete,
cloppete,
clocchete,
chchch….
È giù
nel cortile
la povera
fontana
malata,
che spasimo
sentirla
tossire !
Tossisce,
tossisce,
un poco
si tace….
di nuovo
tossisce.
Mia povera
fontana,
il male
che hai
il cuore
mi preme.
Si tace,
non getta
più nulla,
si tace,
non s’ode
romore
di sorta,
che forse….
che forse….
sia morta ?
Orrore !
Ah, no !
Rieccola,
ancora
tossisce.
Clof, clop, cloch,
cloffete,
cloppete,
clocchete,
chchch….
La tisi
l’uccide.
Dio santo,
quel suo
eterno
tossire
mi fa
morire,
un poco
va bene,
ma tanto !
Che lagno !
Ma Habel !
Vittoria !
Andate,
correte,
chiudete
la fonte,
mi uccide
quel suo
eterno
tossire !
Andate,
mettete
qualcosa
per farla
finire,
magari….
magari
morire !
Madonna !
Gesù !
Non più,
non più !
Mia povera
fontana,
col male
che hai,
finisci,
vedrai,
che uccidi
me pure.
Clof, clop, cloch,
cloffete,
cloppete,
clocchete,
chchch….

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

 

armi, armi, armi

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di Antonio Sparzani
Nell’anno 1990, presidente del Consiglio il divo Giulio (Andreotti), ministro di grazia e giustizia Giuliano Vassalli, socialista, fu approvata una buona legge, la n° 185, sul controllo da parte dello stato della vendita di armi a paesi terzi.
L’articolo 1 di tale legge riguarda il controllo dello Stato sull’esportazione di armamenti e i suoi punti 5 e 6 suonano così:

5. L’esportazione ed il transito di materiali di armamento, nonché la cessione delle relative licenze di produzione, sono vietati quando siano in contrasto con la Costituzione, con gli impegni internazionali dell’Italia e con i fondamentali interessi della sicurezza dello Stato, della lotta contro il terrorismo e del mantenimento di buone relazioni con altri Paesi, nonché quando manchino adeguate garanzie sulla definitiva destinazione dei materiali.
6. L’esportazione ed il transito di materiali di armamento sono altresì vietati:
a) verso i Paesi in stato di conflitto armato, in contrasto con i principi dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, fatto salvo il rispetto degli obblighi internazionali dell’Italia o le diverse deliberazioni del Consiglio dei ministri, da adottare previo parere delle Camere;
b) verso Paesi la cui politica contrasti con i principi dell’articolo 11 della Costituzione;
c) verso i Paesi nei cui confronti sia stato dichiarato l’embargo totale o parziale delle forniture belliche da parte delle Nazioni Unite o dell’Unione europea (UE);
d) verso i Paesi i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani, accertate dai competenti organi delle Nazioni Unite, dell’UE o del Consiglio d’Europa;

Nell’anno 2020 lo stato italiano (sappiamo che tristemente l’Italia è una delle maggiori produttrici di armi al mondo) ha autorizzato esportazioni di armi per quasi 4 miliardi di euro e il maggior acquirente (quasi un miliardo) è stato l’Egitto di Al Sisi. Mi pare del tutto evidente che così facendo lo stato italiano abbia violato lo spirito e la lettera di tutta questa legge e in particolare del punto 6 sopra riportato, trattandosi di uno stato che costantemente viola i diritti umani, cosa di cui l’Italia in particolare ha subito col caso Regeni e tuttora subisce col caso Patrick Zaki (che il regime egiziano, dopo averlo incarcerato per anni, ora trattiene entro i confini del paese fino a non si sa quando) molto tristi conseguenze.
E la forte proposta di qualche tempo fa di dare la cittadinanza italiana a Patrick che fine ha fatto?
E il nostro ambasciatore al Cairo Giampaolo Cantini che fa? “Segue il caso?” Ma al nostro rappresentante consolare è perfino negata la presenza alle udienze che confermano il fermo a Patrick: però il dio quattrino è contento: abbiamo già venduto all’Egitto anche due fregate: questa è la politica estera di un banchiere tanto cattolico e poi di una premier tanto fascista, che a un recente consesso di questi esimii governanti, ha anche stretto la mano ad Al Sisi, con fotorafie e sorrisi.

Ho anche sentito molti mesi fa la notizia che i genitori di Giulio Regeni hanno citato in giudizio lo stato proprio per aver violato questa legge, ma di ciò non ho più saputo nulla.

La seconda, e ancora più palese, violazione della legge 185 è quella, di cui si discute in questi giorni, dell’invio di armi all’Ucraina, paese in conflitto, invio purtroppo avallato non soltanto dalla maggioranza, ma da una parte consistente della cosiddetta opposizione. Ho anche scoperto che la stessa domanda si è fatto, forse più autorevolmente di me, l’illustre prof. Telmo Pievani già nel 2020 qui.
Tutto senza risposte.

Piramide:triangolo

1

di Antonio Potenza

Ho le pupille di due forme differenti. Una è una piramide, quindi una montagna. L’altra è un triangolo rovesciato, quindi una grotta. Giulia se ne accorge per la prima volta allo Spin Time Lab. Murales e fumo denso ci stringono come una corona, anche se Maurizio sembra a suo agio e fende la nebbia con il suo corpo dinoccolato. Le lenti dei suoi occhiali vibrano per la musica assordante. Ci parliamo gridando all’orecchio. Scambiamo segreti urlati, che comunque nessuno può carpire.

Giulia mi chiede perché le ho così. La mia risposta è laconica: ci sono nato. Maurizio ride, la scena l’ha vista diverse volte in università. Il mio è un particolare che non si nota subito, se non a una certa distanza. Una volta stretta la mano è qualcosa che invece balza all’attenzione. Si tratta di una caratterizzazione particolarissima e rara. Capisco la sorpresa.

La seconda domanda arriva puntuale. Le labbra di Giulia mi soffiano nell’orecchio: e ti danno dei problemi? Rispondo di no, ma non è vero.

Maurizio riconosce il beat di una canzone, quella che abbiamo ascoltato sul prato de La Sapienza. Giulia è sorpresa dal nostro entusiasmo. Le metto un braccio sulle spalle e tutti e tre procediamo verso la pista gremita di entità scure che si dimenano, convulse, al ritmo della cassa.

Nel fumo grido a Giulia che con queste pupille vedo i morti.

Dice che non ci crede, e ride.

Attraverso i fumi del bunker, galleggiamo agitandoci cautamente. Seguiamo il ritmo placido della musica elettronica. Siamo sotto cassa, dove i bassi premono maggiormente sul petto e lo stomaco reagisce in maniera meccanica alle onde sonore contorcendosi in sé stesso. Si tratta di una sensazione ancestrale, legata all’infanzia. Almeno per me è strettamente connessa alla cassa armonica del paese, quando Papà mi ci portava a sentire la banda. Il cuore gracile, in evoluzione e troppo vicino al suono, si comprimeva dolente. Una volta allontanatosi però tornava a bramare quella sensazione, seguendo il principio alla base di ogni desiderio. Cercavo nei rave dello Spin Time alla fine le stesse cose: le valvole bicuspidi bloccate, le mani grandi di mio padre.

Serotonina. Qualcosa si muove dall’interno, ne sento lo scorrere convulso e il dilagare energico. Il tempo si calma. Non so più che ore siano, non so più quanto ho bevuto, se fuori sia notte, o se è arrivato il giorno, se sia ancora autunno o se imperversa l’inverno. Non so nulla, nemmeno dove siano Giulia e Mauri che erano qui poco fa. Ne sentivo le spalle sudate, i corpi tarantati. Ora intorno a me si muovono petti sconosciuti, imperlati di sudore violaceo e brillante. Viscosi, con gli occhi chiusi, seguono più o meno il ritmo, fumano sigarette storte e mal chiuse, sputando batuffoli di fumo rosè. Qui sotto siamo formiche, esseri minuscoli e agitati. Stretti tra di noi seguiamo la formica regina, ma non ci conosciamo, inquilini solitari dello stesso formicaio inondato da murales e piscio. Che puzza acre arriva dal bagno quando folate di vento attraversano per sbaglio la sala, infilandosi dalle feritoie a livello della strada. Noi siamo al di sotto dell’asfalto: sopra di noi sferragliano tram arrugginiti, tubi di scarico vibranti, passi veloci, tacchi ispidi, suole strascicate. Siamo defunti mobili.

Nella folla mi agito come un cosmonauta. Sposto i corpi, lascio che si avvinghino a me, poi come in assenza di gravità dolcemente li sposto via e quelli senza fare resistenza si allontanano, collidono su altri satelliti di carne. Il cammino di ricerca dei miei amici sta diventando un errare. Gli stessi volti, le stesse sbuffate di fumo, nessuna partenza, non esiste arrivo: Mauri e Giulia sono mai esistiti?

La musica si ostina, è inceppata, batte lo stesso ritmo, la cassa non si oppone, nessuno uccide il dj, fautore di questa coazione a ripetere. Mi accascio e scivolo sulla parete colma di murales colorati e senza firma. Cicatrici di pigmenti, insulti ai poliziotti, inneggiamenti confusi alla libertà. Qualche falce, pochi martelli. Respiro a fatica e penso alle colline dello screensaver di Windows Xp. Ho imparato a utilizzarlo come disinnescante quando mamma è morta. Il pc del dottor Olari era rimasto acceso, mentre Papà firmava carte di cui non conoscevo il contenuto. Conoscevo però la soluzione salina che li ammorbidiva, che cadeva dagli occhi di quell’uomo dalle mani grandi; e stanche. Lo screensaver sullo schermo del dottore mi riportava a una doppia freschezza mentale. Colline verdi, virtuali, immanenti. Quelle dune rigogliose mi accoglievano nei pomeriggi afosi d’estate, attraverso lo schermo del computer, quando Mamma lavava i piatti e io mi rifugiavo in camera. Veniva a grattarmi le spalle mentre sfogliavo Encarta. Poi mi dava un bacio e andava a dormire sotto il ventilatore. La promessa che offrivano quelle due colline verdi, e che mi tranquillizzava, era quella della morte: la mia; quieta e silenziosa. Riposante.

Mi rialzo. Giulia e Mauri dispersi. Inizio a gridare nello Spin, ma nessuno mi sente, nessuno si allarma. La mia voce si perde nei battiti, si scioglie col rumore. Scalpiccio frenetico, ovatta sonora. Nella confusione tutto mi pare possieda un suo ordine, nonostante io stia vacillando. Il baricentro cede, le gambe non sono forti abbastanza. Cado: il viso si incolla al pavimento appiccicaticcio. Residui d’alcool, puzza di vomito. Tra le gambe delle formiche ti vedo: stazioni nella nebbia purpurea dei bagni, qui le nubi acide del club non ci consumano. Avanzo con gli zigomi rotti attraverso banchi opachi di nebbia di zucchero. Mi aspetti dondolante, come una canna di palude. Zanzare della malaria mi suggeriscono le prime parole da dirti, che poi pronuncio, ma che sbaglio. Sembri piuttosto piccata del mio errore, lo capisco, non ci vediamo da tanto e sei irritabile. Bassi di cassa trapassano i nostri scheletri. Onde di suono si accavallano nello spazio dei nostri atomi. Te lo racconto, non ci credi. Siamo aria, dici; per sempre aria, ripeti. La vita che mi racconti, io l’ho vissuta al tuo fianco. La mia, dopo di te, non è andata meglio. Poi ricordiamo i libri sottolineati insieme. Non rispondi, guardi altrove. Lo faccio anche io, entrambi osserviamo l’interno del bagno. Cigola la porta di legno, qualcuno mugugna. Fetore acre, si intuisce che il proprietario ha esagerato con l’alcool. Faccio in tempo a dirglielo, è ancora accovacciato lì con il suo culo diafano appena peloso.

Ti chiedo scusa, come se fossi io ad averla fatta. Volte di fumo ci avvolgono, mentre l’uomo accovacciato ci guarda nella nebbia. Conosco un’altra storia, ti dico. La musica è troppo forte e non senti. Allora mi avvicino al tuo orecchio destro, provo a parlare ma una bava di colla fluisce al posto della saliva. Sapevo fossi morta provo a dire con il sangue sulle labbra che con forza dissigillo. Annuisci dandomi ragione. Giulia e Mauri alle mie spalle ridono con il viso rubizzo: allora è vero, ripetono; allora li vedi i defunti.

Mamma, ora al loro fianco balugina il tuo corpo bianco che si congeda. Mi saluti mentre tiro un’altra porta. L’uomo dal culo candido, accovacciato nel suo angolo, mi guarda meglio: hai gli occhi a triangolo, grida puntandomi il dito. Mauri ride, ubriaco.

Les nouveaux réalistes: Giovanni Palilla

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Congetture su Peter

di Giovanni Palilla

 

Dovevo capirlo dall’orario dei treni che qualcun altro doveva aver scritto la mia vita, governata da un’inesorabile catena di casualità: giunto al binario, mancavano sempre pochi minuti all’arrivo del treno, come se mi stesse aspettando, come se fossimo giunti allo stesso istante per proseguire assieme; e se per caso fossi stato in ritardo, ché mi ero svegliato tardi, oppure mi ero perso nell’indugiare mattutino – questo lavoro, questa vita che sto conducendo, è davvero un buon motivo per separarsi dalle lenzuola? – un qualche contrattempo tecnico di indubbia natura avrebbe momentaneamente bloccato il suo scarrozzare, permettendo alla mia trafelata corsa di raggiungere l’agognato mezzo. Eppure, tutto ciò mi sembrava banale e normale: a lungo la scambiai per fortuna, ma avrei potuto giurare che non sempre era stato così; tuttavia, non saprei dirvi quando ho cominciato a notare che al mio passo, qualsiasi direzione io prendessi, i semafori diventavano verdi: solo di recente ho cominciato a notare gli anelli di quella catena che mi facevano essere inesorabilmente al posto giusto al momento giusto.

I miei dubbi ebbero conferma quando decisi all’improvviso, a pochi istanti dall’arrivo della puntualissima metro teutonica, le mani in tasca e lo sguardo sicuro, di risalire le scale e prendere la metro nella direzione opposta, e nel farlo mi guardai attorno, salendole quasi di soppiatto, come se stessi compiendo un atto osceno. Ma la metro non arrivò. L’iniziale ritardo di cinque minuti, che già di per sé in quel momento avrebbe potuto confermare la mia teoria, si trasformò in un ritardo di dieci, venti, trenta minuti e dopo ben un’ora e mezza d’attesa, che aveva messo a dura prova non solo i miei di nervi, ma anche quelli dei tedeschi – senza aver ricevuto, tra l’altro, alcuna spiegazione esaustiva dell’accaduto ma solo generiche scuse, un fällt heute aus dopo l’altro – dopo un’ora e mezza il treno fece la sua comparsa. Una volta dentro, la metro, piena di gente come in quelle foto che si vedono della metropolitana di Tokyo, andò a passo lentissimo, e a ogni fermata sostava più di cinque minuti per via di un problema alle porte che non ne volevano sapere di chiudersi con la solenne dignità che, di norma, caratterizza le puntuali Straßenbahn della Sassonia.

Estenuato dal puzzo, dalla stretta vicinanza con gli altri passeggeri, una vicinanza troppo intima, decisi in prossimità di una fermata a caso di scendere e cambiare nuovamente binario, senza sorprendermi che, giunto dall’altra parte, nel guardare il tunnel nero dopo qualche secondo i fari del treno incontrassero il mio sguardo deluso. La mia fuga da quella catena che vincolava la mia vita a episodi di casualità non pareva possibile, dato che nemmeno la mia deviazione sembrò spezzarla. In realtà, riuscii a liberarmene, o meglio fu la catena a spezzarsi in un momento determinato della mia vita, quando mi ritrovai a mio malgrado spettatore di un fatto ben preciso: comincio a raccontare dai treni per un vezzo letterario, forse perché anch’io bin immer quer gegangen lungo i binari della mia vita. La storia potrebbe in realtà cominciare qui: dopo aver sbagliato direzione del treno, preso da una sensazione malinconica che sempre mi coglie alle ore 17:00, soprattutto quando d’inverno fa buio presto, decisi di fare un salto in centro, dove, benché di piccole dimensioni, sempre andavo per raccogliere i pensieri sparsi lungo le vie, e passeggiando, giunto sotto al grattacielo, moderno correlativo oggettivo di questa città, stanco e costernato per il tempo che avevo inutilmente perso dietro ai treni, io, personaggio pirandelliano, con traumi pirandelliani, da tempo abitante di luoghi non pirandelliani, feci la conoscenza di Peter Weinberg, 45 anni, spiaccicatosi davanti a me dopo un salto dal trentacinquesimo piano del grattacielo, il City-Hochhaus Leipzig.

Che a Lipsia, la Klein Paris, mein Leipzig lob’ ich mir, la nuova Berlino, dove si organizzavano rave nei cantieri, in cui i baristi ubriachi – non avevo mai visto una barista ubriaca prima di allora – ti servivano da bere Clubmate e vodka, che a Lipsia, dove tutti erano Künstler e affittavano un atelier, città di palazzi abbandonati – guardavo sempre con fascino l’hotel Astoria di fianco alla stazione, chiedendomi come un edificio del genere potesse restare così, senza scopo? –, palazzi nei quali i giovani, che avevano tutti figli come se fosse cosa da poco, organizzavano proiezioni dei film di Fellini: com’era possibile che a Lipsia, dove esplodeva il mondo, lui avesse deciso di farsi esplodere la testa buttandosi dall’ultimo piano di un grattacielo? Ne scrivo adesso perché mi accorgo di non essermi mai veramente confrontato con questa cosa che mi era successa: ricordo, passeggiando, di aver sentito un botto, e allora io pensai: “oddio, stanno sparando”; i giovani davanti alla mensa, che armeggiavano con lo skateboard, scapparono tutti, urlando a squarciagola: “du scheiße, du scheiße”.

Un uomo giaceva in una pozza di sangue, una grande macchia rotonda che nella mia memoria partiva dalla testa e si espandeva come un sole rosso lungo tutta la piazza, con i suoi raggi, rivoli di sangue, che cercavano di catturare la nostra attenzione. Mentre scrivo torna in me la stessa inquietudine che provai nel voltarmi, nel coprirmi gli occhi, nel difendere me stesso contro quella visione che avevo paura potesse imprimersi in maniera indelebile nella mia memoria. Non immediatamente avevo capito che si era lanciato dal grattacielo: dopo che una piccola folla si fu radunata davanti all’uomo, sentii qualcuno dire nee, ist gesprungen. Quel botto, dunque, non era uno sparo, era stato lui, era stato prodotto dal suo corpo. Ho sempre pensato alla morte come a un fatto privato, come la nascita, qualcosa da condividere solo con i tuoi cari: ho immaginato il momento della morte come una vecchietta che sta per morire e che aspetta che il figlio torni dal lavoro per prendergli la mano – caro mio, stringimi la mano – e spirare, mentre lo stoppino di una candela bianca si consuma e alla fine si spegne. In quel momento, oltre alla stessa inquietudine che sto rivivendo adesso mentre scrivo, ho provato anche rabbia: perché avevi voluto condividere qualcosa di così intimo e privato con noi, persone del tutto sconosciute che casualmente eravamo lì? Perché hai voluto che ti vedessimo dall’interno?

Penso ancora oggi che tu ci avessi obbligato a conoscerti, senza darci la possibilità di dimenticarti, perché fare un incontro del genere con una persona in un momento così delicato della sua vita non si può dimenticare mai; tu, invece, non avrai mai la possibilità di conoscerci. Non sono al corrente ancora oggi dei motivi per cui tu abbia compiuto quell’ultimo passo: me ne andai dopo che fu arrivata l’ambulanza, indignato che qualcuno andasse lì da te a guardarti da vicino; ero rimasto a lungo prima del suo arrivo, quasi a tenerti compagnia, con rispetto, non immaginando che quegli interminabili minuti avrebbero turbato a poco a poco il mio inconscio, fino ad adesso. L’indomani in ufficio, situato proprio di fronte al luogo dell’accaduto, a piano terra, chiesi in giro ai miei colleghi: mi avevano detto qualcuno dal Ticketbüro aveva assistito alla scena da dentro. Nessuno sapeva, tuttavia, chi fosse quell’uomo. Spulciai tutti i notiziari locali, le Radiosendungen, nulla di nulla: nessuno parlava di questo avvenimento, come se non fosse mai accaduto.

“Di sicuro non vogliono dare la stessa idea ad altri spostati di mente”, mi disse qualcuno che oggi non ricordo. La tua vita era diventata così insopportabile che avevi deciso con un salto di liberartene; quella stessa tua vita, in modo casuale, era diventa per me un’ossessione; allo stesso tempo, direi che la nostra relazione era anche di tipo causale: se tu non ti fossi spinto, la tua vita per me non sarebbe mai stata interessante; o per lo meno, non ti avrei potuto conoscere, dandoti un nome. Cosa ti avrà spinto giù dal trentacinquesimo piano: debiti? Depressione? Una doppia vita che non riuscivi a gestire? Mancanza di attenzione? La mia l’hai avuta. Per giorni non riuscii a pensare ad altro, rifugiandomi nelle congetture pocanzi nominate. Ho anche fatto un sogno una volta, uno di quei sogni vividi che la mattina mi lasciano smarrito sopra al letto: qualcuno, non so se una mia amica o un qualche genere di strega, mi stava leggendo le carte. Erano delle carte strane, scure, mai viste prima: lo sfondo era nero, e gli arcani erano accennati con un tratto argentato e dorato. La carta che pescai era un arcano a me sconosciuto, e che difatti non esiste. In basso si leggeva THE FALL OF THE KNIGHT, in lingua inglese, e i caratteri componenti il nome della carta sembravano scritti a mano, in stampatello; e, pareva, da una mano nervosa, dato che c’erano più tratti a formare la stessa lettera. La carta vedeva al centro un cavaliere, ma non era un cavaliere di qualche seme, no, era proprio un nuovo arcano, che il mio cervello aveva gestaltet in quel momento, per me. Un qualcosa di simile l’avevo già vista: una volta mi sono state regalate delle carte, i tarocchi delle vetrate, il cui cavaliere di coppe viene raffigurato mentre cade da cavallo perché ebbro di vino. Significato: attento a non esagerare.

Qui il messaggio era un altro: THE FALL OF THE KNIGHT rappresentava con tratti violenti un cavaliere che cadeva da cavallo, perdendo la spada, e nel cadere, moriva. Questo non era un avvertimento: il significato era proprio rovina. Quel sogno mi turbò per giorni, a lungo ci sono ritornato sopra, rimuginandoci: solo di recente ho capito che quel cavaliere eri tu, che non hai mai cessato, dentro la mia testa, di buttarti dal trentacinquesimo piano. Le congetture che mi son fatto dentro di me sono state milioni: ti avrei incontrato lo stesso se non avessi cercato di liberarmi dal giogo delle catene prendendo la metro nella direzione opposta? Es war Mord? Oppure è stata una punizione essermi trovato di fronte alla morte – nel vero senso della parola – ? Non posso fare a meno di farmi le stesse domande che le persone si fanno dai tempi dell’oracolo di Delfi: siamo noi a costruire il nostro destino man mano oppure è tutto scritto dentro a un libro? Era scritto da qualche parte il fatto che dovessi trovarmi proprio lì nel momento in cui tu cadevi rovinosamente dal tuo cavallo? E chi lo sa: so solo che dopo quell’incontro anche a me toccò aspettare i treni, come tutti gli altri.

 

Portraits

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di Tomaso Pieragnolo

l’amico ed io scendiamo
pedalando inappagati
dalla nostra immaginante giovinezza
– le ruote fanno presto
un ronzio d’insetto che vola lui ha messo
una molletta e un cartoncino dentro i raggi –
e non è che il passare da un’estate
alla sua utopia troppo assonante
non è questa un’amicizia
destinata a durare nel tempo
però correndo tutto
sembra fermo intorno
tutto è ai nostri piedi prostrato
non ricordo il suo nome da morto
ma sento il suo odore da vivo
sento il sorriso
che spianava le illusioni le colline
lontano da casa avremmo potuto
non esistere più in quel momento
e nessuno ci avrebbe cercato
nessuno sarebbe mancato
perché eravamo nomi fatui
nel vanto di una stagione
appena dopo l’infanzia
l’amico ed io non ricordo
la sua rivalità disarmante
non era quella un’estate
destinata a durare nel tempo
come certe cose che prolungando muoiono
era soltanto l’immagine di noi
nel verismo della terra dei sogni
con quattro ali e due corpi
di funamboli inappagati

 

*

 

in un giorno in cui nessuno viaggia
verrò da te senza passare dal tuo sguardo
senza travaglio perché libera da indulti
ti toccherò nel punto esatto in cui ricordo
cadde la sete appena dopo l’abbondanza
un giorno comune con odore di pane
dentro i vicoli del ghetto e forse alcuni
passanti che faranno
il loro antico mestiere di passare e forse alcuni
ragazzi che faranno
il loro presente mestiere di vivere
verrò con ninnoli e fagotti dal mercato
pigiati di frutte e vegetali gocciolanti
scansando i ciottoli sconnessi sul selciato
scansando l’arbitrio passato tra di noi
e i ricordi mannari dentro i quali io non c’ero
vedrai le cose torneranno al loro posto
le bici rubate i baci non dati
i beceri volti degli adulti che additavano
e tutto sarà perfetto nella sua confusione
tutto confuso nella sua perfezione
e come scordare il tuo stridere sotto
le volte risonanti dei risuoni
delle nostre risa vedrai
la sorte tornerà al proprio posto
io che ti amavo al primo giorno della sete
tu che mi amavi
senza dare un nome al nostro errare
in questa città con alibi e nebbie
quanto inutile rumore ci ha scontato
bastava solo
abbandonarsi a questa foto

 

//

I testi sono tratti da Portraits, da poco uscito per Passigli (2022)

 

Tomaso Pieragnolo è nato a Padova nel 1965 e da trent’anni vive tra Italia e Costa Rica. Fra le sue precedenti pubblicazioni: Lettere lungo la strada (Edizioni del Leone, 2002), L’oceano e altri giorni (Edizioni del Leone, 2005) e, in questa stessa collana, nuovomondo (2010) e Viaggio incolume (2017), libri che hanno ottenuto riconoscimenti nei premi Palmi, Metauro, Minturnae, Marazza, Saturo d’Argento, Città di Marineo, Gozzano di Belgirate, Ultima Frontiera, Minturnae Giovani e Libero de Libero. Una sua selezione di poesie scelte è stata pubblicata in spagnolo dalla Editorial de la Universidad de Costa Rica e dalla Fundación Casa de Poesía (Poesía escogida, 2009). Come traduttore di poesia latinoamericana, dal 2007 ha proposto nella rivista «Sagarana» principalmente autori della Costa Rica e del Centro America non ancora tradotti nel nostro paese; tra questi, Laureano Albán (Poesie imperdonabili, Passigli, 2011) e, in collaborazione con Rosa Gallitelli, Eunice Odio (Come le rose disordinando l’aria, Passigli, 2015). Per Arcipelago Itaca ha curato nel 2019 Non importa ormai vivere bensì la vita del poeta spagnolo Juan Carlos Mestre. Per le traduzioni è stato premiato al Camaiore, Morlupo, Città di Trento e Marazza. Ha partecipato a diversi festival di poesia nazionali e internazionali.

Tre donne

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di ⇨ Paolo Marco Durante

Che cos’è che rende un film – magari un bel film  ma non per forza un capolavoro assoluto – indimenticabile?

Le ragioni possono essere tante: il cast, il soggetto, la sceneggiatura, la fotografia, la colonna sonora e molto altro, o forse tutte queste cose messe insieme. Può accadere però che si tratti solo un volto, o un’inquadratura, magari una sequenza, o una canzone inserita nella storia, ciò che lascia quel segno indelebile. E allora il film – capolavoro o no – continuiamo, nel tempo, a ricordarlo proprio e soltanto per quel viso, per quella scena,  per quella canzone.

Ecco dunque il (labile) motivo di questo  tre donne (forse quattro…): di tre canzoni e dei tre film che le contengono. Film che, pur non essendo capolavori assoluti (anche questo, però, è tutto da dimostrare), non si possono certo dimenticare.

I tre film: Mai di domenica (Poti ton kyriaky) 1960 – Colazione da Tiffany  (Breakfast at Tiffany’s) 1961 – Jules et Jim, 1962. Regia, nell’ordine, di Jules Dassens, Blake Edwards, Francois Truffaut. Rispettivamente con: Melina Mercouri, Audrey Hepburn, Jeanne Moreau.

Tre donne sovversive, anarchiche, indomabili, meravigliose, stracolme di vita e d’amore, di ribellione e di malinconia che cantano tre canzoni.

Le tre canzoni: Ta pedià tou PireaMoon RiverLe tourbillon de la vie.

Tre donne indimenticabili, tre canzoni indimenticabili.

Quindi anche tre film, per forza di cose, indimenticabili.

Ascoltare – e guardare – per credere.

***

Quelle tre canzoni non sono colonna sonora. La colonna sonora di un film ha un carattere denotativo, didascalico, riempitivo, a sottolineare ed enfatizzare momenti che si vorrebbero particolarmente significativi per lo spettatore. Nel caso di queste tre canzoni risalta invece il tentativo di mostrare, attraverso un diverso linguaggio, la musica – e chi la interpreta – qualcosa che il film vorrebbe far intendere, un significato “altro” da comunicare, ma che le immagini, da sole, non riescono a rendere del tutto evidente. Un momento di stacco espressivo particolarmente efficace ed eloquente.

Pulp fiction, film considerato un capolavoro e straconosciuto soprattutto per quel twist strabiliante sulla musica travolgente di Chuck Berry, senza You never can tell  e la lunga strepitosa sequenza forse non avrebbe avuto tutto quel successo. E per quello viene ricordato dai più.  È proprio ciò che si cercava di sottolineare: certe canzoni e certe scene “dicono” su alcune pellicole molto più di quanto tutti i fotogrammi del film stesso possano suggerire.

Un esempio, uno solo, per la narrativa: il successo clamoroso di un  libro, Il profumo, di Patrick Süskind è dipeso, almeno in parte, più che dalle parole con cui il libro è scritto (ottime comunque) dal titolo e da ciò che viene evocato attraverso i profumi: l’odore di ogni cosa che esiste, il vissuto di tutti, quello che gli odori appunto, più veloci della luce, riportano alla mente alla memoria e al cuore.

Les parfums les couleurs et le sons se réspondent (Correspondances, 1857) aveva scritto Baudelaire. E nel manifesto futurista La pittura dei suoni, rumori, odori (Milano, 11 agosto 1913), si affermava che la pittura fino ad allora era stata l’arte del silenzio ma che da quel momento in poi si sarebbe aperta invece ad altri linguaggi, ad altri universi. In realtà era stato Kandinskji, qualche anno prima, a far sì che la pittura parlasse anche con la musica, con altre emozioni e di altri sensi, in una modalità sinestetica, associando elementi appartenenti a sfere sensoriali diverse che, partendo lontane, convergevano tutte verso lo stesso punto.

Si può guardare anche alle arti visive contemporanee per averne qualche esempio: Mario Merz, attraverso l’uso di linguaggi teoricamente lontanissimi dall’ambito delle arti visive, una proporzione matematica in questo caso, la serie di Fibonacci, fa intendere la divina proportione della natura e le sue trasformazioni, la fillotassi di una pianta, l’albero genealogico di un fuco, la conchiglia di un nautilus, una pigna, un cavolfiore, una galassia. Attraverso un idioma non tipico delle arti visive l’artista riesce a donare bellezza, armonia e significato, un significato più alto, e a esaltare le qualità formali e sostanziali dell’ opera stessa. Così Damien Hirst, il quale attraverso l’uso di materiali organici come uno squalo in formalina, ali di farfalle ecc. – un linguaggio appartenente  alle scienze biologiche – parla in realtà di filosofia, della fragilità delle cose, della morte, in una modalità elegantissima, complessa e irta di senso.

La poesia – lirica si chiamava presso gli antichi Greci – un tempo era interpretata, evocata ed esaltata proprio dalla musica, dal canto.

Tornando al cinema, si può dunque sostenere che ci sono certe  canzoni, inserite nel contesto di alcune pellicole, che fanno “sentire” e capire un film, spesso meglio e più delle immagini. Così, su due piedi, verrebbe in mente ancora qualcosa, ad esempio Judy Garland,  in Over the rainbow (Il mago di Oz), ma sarebbe un errore perché in quel caso si tratta di un film musicale. E allora la canzone (stupenda) si trova a tutto titolo inserita nello svolgimento narrativo della pellicola. Sarebbe troppo facile infatti considerare i musical. Da Cappello a cilindro – il primo in cui i numeri musicali costituiscono parte integrante della narrazione e non esibizioni a parte – a My Fair Lady, da  West Side Story a Jesus Christ Superstar,  da Hair a Grease, da Mary Poppins a Evita, da Cabaret a Moulin Rouge, da Cantando sotto la pioggia a The Blues Brothers e via di questo passo: una quantità di canzoni fantastiche, non si finirebbe più. Per rimanere invece nei film veri e propri, superclassici in questo caso, si dovrebbe allora ricordare As time goes by in Casablanca, Que sera sera in L’uomo che sapeva troppo (in cui il motivo diventa però parte integrante del plot), Marilyn Monroe che canta I wanna be loved by you in A qualcuno piace caldo.Più difficile cercare in un passato meno remoto. Ci si è logicamente limitati a quei film che contengono il –  o più spesso la – protagonista che interpreta un motivo apparentemente fuori del continuum narrativo. Non sono state prese in considerazione tante canzoni inserite a tutto titolo nel commento musicale stesso, elementi dunque costituenti e portanti della colonna sonora. Un esempio: Amapola, che percorre tutta l’idea melodica ed emotiva di C’era una volta in America.

Sono invece proprio quei temi inseriti apparentemente fuori contesto, come espediente narrativo, come pausa, come riempitivo, come belletto,  che risultano pressoché ingiustificati, ingredienti quasi estranei alla narrazione, a volte disturbanti o addirittura perturbanti, a costituire invece, spesso, la quadratura del cerchio, a completare, a connotare la lettura del film in modalità certamente più ricche di senso. Il rapporto tra film e canzone diviene quindi in quei casi fondamentale, fornendo una strategia di lettura e di visione prima neppure immaginata, innescando emozione.

Si parlava però di film e di donne. Indimenticabili. Si voleva “raccontare” (per usare l’abusata terminologia oggi di moda, del linguaggio unico) di emozioni, di film, di musica, di donne.  Ecco allora, per riportare il discorso proprio sul piano delle emozioni, tornare alla memoria, prepotente, un’altra musica (anche quella ormai antica) e un’altra scena di una pellicola sicuramente indimenticabile, un grande capolavoro in questo caso, senza alcun dubbio. E ancora un’altra donna: andare a rivedere infatti, dovrebbe essere d’obbligo, il lunghissimo piano-sequenza conclusivo, meraviglioso e straziante, de Il terzo uomo  (The Third Man,  Carol Reed, 1949) probabilmente il più bel finale di film di tutti i tempi, con il suo Harry Lime Theme, di Anton Karas.  E con un ritratto al femminile, interpretato da una stratosferica Alida Valli, di cui non si può far altro che tacere, e restare a bocca aperta. Non era stato inserito nel brevissimo elenco iniziale poiché non si trattava di una canzone in un film ma solo di un indescrivibile, strepitoso brano di uno delle colonne sonore più belle mai scritte, eternato da una presenza femminile impressionante, sconvolgente. Una musica che pizzica l’anima, dolcemente e dolorosamente.

E un’altra donna di cui siamo tutti – come il povero Holly Martins – disperatamente e vanamente innamorati.

Te Diegum, Bolaño

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«Cosa si vede dalla finestra?»: Roberto Bolaño e io

di Giovanni di Benedetto

 

  1. «Come quei versi di Leopardi che Daniel Biga recitava su un ponte nordico per armarsi di coraggio»

 

Il 25 novembre 2020 avevo un appuntamento dall’oculista. Volevo cambiare i miei occhiali da vista e cercare un modello con una montatura che rendesse manifesta la mia adesione intellettuale alla corrente trotzkista del surrealismo. Nella sala d’attesa, mentre stavo consultando un catalogo, ricevetti un messaggio di mio padre in cui mi annunciava la morte di Diego Armando Maradona. Fui profondamente turbato. Un’improvvisa e rapidissima associazione d’idee mi portò ad interpretare la morte di Maradona come un oscuro presagio. Ebbi soltanto pochi istanti per riprendermi dallo smottamento del cuore provocato dalla notizia e dal turbamento dell’oscuro presagio poiché l’oculista aprì la porta del suo ufficio invitandomi ad entrare. Dopo aver svolto gli esami di routine e consultato i risultati mi disse che soffrivo di una patologia genetica che avrebbe potuto rendermi improvvisamente cieco. Per descrivere il tipo di cecità che avrei potuto avere, per l’esattezza, aveva utilizzato l’aggettivo “fulminante”.

Così, all’improvviso, il mondo avrebbe potuto volgersi nel nero, nel rumoroso silenzio della rappresentazione del mondo priva delle immagini. D’un tratto si realizzarono due dei miei peggiori incubi : l’annuncio improvviso di una patologia terrificante e la proiezione di una vita nella quale l’apparenza del mondo confinava con l’immagine della morte. Il vuoto, il nulla. Quando mi ritrovai per strada iniziai a correre a perdifiato fino a raggiungere casa. Chiusi la porta e iniziai a piangere. Poi chiamai mia madre ma non ricordo bene cosa mi disse o cosa avesse cercato di dirmi per rincuorarmi, ma non erano parole di consolazione, erano parole d’amore materno, la cosa più lontana dalla consolazione. Riagganciai e mi trovai di fronte alla mia biblioteca. Immaginai la vita senza poter più leggere, pensai ad alcune poesie di Borges e a dei versi del Purgatorio di Dante di cui però non riuscivo a ricordare con esattezza l’ordine e la successione delle terzine e degli endecasillabi. E poi mi ricordai di un testo di Bolaño che parlava della malattia. Presi il libro e iniziai a leggerlo in piedi, andando avanti e indietro nei trenta metri quadri del mio appartamento. Trenta metri quadri sono pochi, ma non pochissimi. Sono comunque più grandi di una cella di cinque metri quadri, per dire. Ma il peso dell’oscuro presagio pendeva sul mio avvenire e la promessa della cecità rendeva quei trenta metri quadri soffocanti come i cinque di una cella. Le parole di Bolaño, ancora una volta, mi salvarono e, come in una sua poesia, mi armarono di coraggio.

 2. La chair est triste, hélas, et j’ai déjà lu tous les livres

In Letteratura + Malattia = Malattia, Roberto Bolaño ci offre un saggio in forma di racconto autobiografico nel quale racconta, tra le varie cose, una visita al suo medico, Victor Vargas. Vargas è l’epatologo di Bolaño, all’epoca già affetto d’una grave malattia al fegato che poco tempo dopo lo porterà alla morte. Nel testo Bolaño racconta lo sconforto e la depressione che seguirono la visita a Vargas. Poco prima di congedarsi, una dottoressa al corrente della sua malattia lo invita a sottoporsi a dei test supplementari. Bolaño si dice d’accordo e la dottoressa lo conduce verso un ascensore. Quando le porte si aprono Bolaño osserva la presenza di una « lettiga » nel mezzo del grande ascensore.

La scena è quasi una variazione della descrizione della bellezza fatta da Lautréamont e tanto cara ai surrealisti. La bellezza è dovuta al sorgere di una fantasticheria nella quale Bolaño immagina di fare l’amore con la dottoressa sulla lettiga, facendo vincere l’impulso vitale del sesso su quello mortifero della malattia. L’associazione di idee conduce Bolaño a ricordarsi di un film con Susan Sarandon e Sean Penn nel quale questi recita il ruolo di un condannato a morte. Bolaño si ricorda di una scena del film in particolare, quella in cui Sean Penn chiede a Susan Sarandon di fare l’amore. La donna, con un tono di rimprovero, chiede a Sean Penn come possa « pensare a scopare se gli restano pochi giorni di vita ». Bolaño commenta la scena evidenziando come sia evidente che il regista non sia mai stato in un braccio della morte, poiché «scopare è l’unica cosa che vogliono quelli che stanno per morire». Scopare certo, ma lo stesso vale per la scrittura e la letteratura. Non è un caso che questo prologo narrativo permetta a Bolaño di fare una transizione con l’interpretazione di una poesia di Mallarmé, Brezza marina, il cui incipit recita : « La chair est triste, hélas, et j’ai déjà lu tous les livres ». Cosa voleva dire Mallarmé con questo verso, si interroga Bolaño. Che « aveva letto a sazietà e scopato a sazietà ? Che a partire da un determinato momento ogni lettura e ogni atto carnale si trasformano in ripetizione ? Che l’unica cosa che rimaneva era viaggiare ? Che scopare e leggere, alla fine, diventava noioso, e che viaggiare era l’unica via d’uscita ? »

Bolaño risponde dichiarando che a suo modo di vedere le cose la poesia parla della malattia, della «lotta che la malattia ingaggia contro la salute». E la malattia di cui parla Mallarmé nella poesia, prosegue Bolaño, è qualcosa che simbolizza la rassegnazione. La rassegnazione a vivere. Un sinonimo della sconfitta a cui solo possono opporsi, per quanto invano, la lettura e il sesso, due movimenti dello spirito che servono a designare la stessa forma di resistenza alla malattia, all’accettazione rassegnata della realtà. I libri e la carne, il sesso e la lettura come possibilità disilluse di trasformazione del reale. A questo punto Bolaño dice che ciò che sembra suggerire Mallarmé in questa poesia è la cosa da fare quando tutte le differenti possibilità combinatorie di rimandare la morte si sono esaurite : il viaggio. E il viaggio, secondo Bolaño, è «il primo gradino di un certo apprendistato poetico». La poesia di Mallarmé diventa così per Bolaño la dimostrazione di un paradosso dell’assurdo: l’esperienza del mondo necessita di poesia (il sesso e la lettura), ma la poesia necessita dell’esperienza (del viaggio).

  1. Tu as bien fait de partir, Arthur Rimbaud!

Cosa si trova al termine del viaggio?, si chiede Bolaño. È Baudelaire a rispondergli: «un’oasi di terrore in un deserto di noia». E dopo Baudelaire è Arthur Rimbaud ad essere convocato all’appello, come l’esempio di colui che si è immerso «con identico fervore nei libri, nel sesso e nei viaggi, solo per scoprire e comprendere, con lucidità adamantina, che scrivere non ha la minima importanza». Rimbaud, secondo Bolaño, sembra mostrarci, tramite la sua stessa esperienza, come la vita del poeta sia «una battaglia persa in anticipo, come quasi tutte le battaglie dei poeti». Eppure è proprio questo tentativo di sondare l’abisso, questo tentativo di andare al di là dello scacco, della sconfitta e dell’assurdo che fa della vita qualcosa da esplorare, qualcosa da sperimentare in tutta la sua pienezza, tramite un «dérèglement de tous les sens», che definisce l’etica fondatrice dell’essere poeta. Quello proposto da Rimbaud è un metodo, un metodo sperimentale nel quale la vita, alla stregue di un’esperienza del metodo scientifico, deve essere sperimentata, deve reagire con tutti i reagenti chimici che le si oppongono, per essere dimostrata.[1]

I personaggi che popolano l’opera di Roberto Bolaño, sembrano tutti seguire questo metodo. Talvolta, mi sembra ascoltarli urlare in coro, per darsi coraggio, una poesia di René Char : «Tu as bien fait de partir Arthur Rimbaud!». In ogni caso, questo è quanto ripetevo nella mia testa durante il tragitto che da Napoli mi avrebbe portato a Parigi il 6 aprile 2013, il giorno in cui decisi di partire e reinventare la mia vita, sperimentarla per poi, un giorno, poterne scrivere. Il mese prima avevo terminato di leggere I detective selvaggi. Era questa la mia maniera di rispondere all’indovinello con il quale termina il romanzo: «Cosa si vede dalla finestra?».

  1. Il surrealismo in clandestinità

Nel racconto Commedia dell’orrore in Francia, Bolaño fantastica su una frase detta da André Breton poco prima di morire riguardo la necessità per il surrealismo di entrare nelle catacombe e di agire in clandestinità. Un giovane poeta di 17 anni, Diodoro Pilon è invitato ad integrare il Gruppo Surrealista Clandestino. I surrealisti clandestini vivono nel sottosuolo, nelle fogne di Parigi. Ed è lì che preparano la rivoluzione, che sarà surrealista o non sarà: : «transformer le monde, a dit Marx. Changer la vie, a dit Rimbaud. Ces deux mots d’ordre pour nous n’en font qu’un». Il giovane Diodoro si interroga sulla natura delle fogne: metafora o luogo nel quale si riversano le scorie umane?

  1. Ficcare la testa nel buio

Quando nel maggio 2021 sono stato operato agli occhi, la dottoressa mi ha detto che l’intervento non era risolutivo e che soltanto quando sarei diventato vecchio e sarei stato operato per la cataratta, il rischio della cecità fulminante sarebbe scomparso. Il mio apprendistato poetico è finito quel giorno. Mi era ormai chiaro cosa volesse dire Bolaño quando spiegava che la scrittura è «saper ficcare la testa nel buio, saper saltare nel vuoto». Avrei corso «sull’orlo del precipizio» e, fino a quando ne sarei stato capace, avrei scritto facendo della mia scrittura la mia patria.

La notte sognai Roberto Bolaño invitarmi cordialmente a far parte del Gruppo Surrealista Clandestino. Naturalmente, ho accettato. Non c’è stata cerimonia d’iniziazione.

articolo pubblicato in francese sull’Atelier du Roman N° 109- 23 Juin 2022

 

[1] « A me, a vent’anni, più che scrivere poesia […] quello che mi interessava, quello che davvero volevo, era vivere da poeta, anche se adesso non saprei dirti cosa significasse, per me, vivere da poeta. Per me, essere un poeta voleva dire, allo stesso tempo, essere rivoluzionario e restare completamente aperto a qualsiasi manifestazione culturale, a qualsiasi espressione sessuale, insomma aperto a tutto ». Intervista di Eliseo Alvarez, «Le posizioni sono le posizioni e il sesso è il sesso», in Roberto Bolaño, L’ultima conversazione, trad.it. di Ilide Carmignani, Sur, 2012, p. 57.

Giovanni Ibello: “quel vino fatto aceto che chiamavo incanto”

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a cura di Carlo Ragliani

Non di facile abbrivio si dimostra principiare una scrittura che voglia dirsi analitica nei meriti della poiesis di Ibello, e del resto neanche stupisce che obbiettivamente poco o nulla di significativo sia stato vergato sinora attorno alla poetica dello stesso, quantomeno in termini di critica stricto sensu.

Niente di meno, del nostro non può non passare inosservata quest’ultima prova di freschissima stampa, così come nulla non può essere detto nei meriti di questo libro: Dialoghi con Amin.

Già da titolo, il testo evoca una dimensione diegetica a fondamento ed esito dell’intero corpo di poesie; ma questo è argomento di cui si tratterà in seguito perché, in prima battuta, si avverte la necessità di introdurre il tanto enucleando una serie di percezioni che si ha dalla consultazione del foglio stampato.

Il dire dell’autore non si nutre della mera ed esclusiva testualità dell’opera: infatti l’elaborato offre una fisionomia naturalmente tesa ad essere un prodotto d’arte, ovvero un kunstprodukt, tosto che un mero sforzo di florilegio.

Per questo possiamo esporre senza timore di giudizi avventati che lo scritto si dimostri di interesse diffuso non solo per la forgia immaginifica e visionaria di cui è portatrice, ma soprattutto per la sovrapposizione che l’utilizzo della parola sedimenta ed ispira.

Ponendosi de facto in forte continuità con l’opera precedente, non tanto tematicamente quanto più in termini nucleari e sostanziali del fare-poesia e dell’essere-poeta, si potrebbe dire che Dialoghi con Amin (o meglio: la nascita del medesimo) attribuisca al poieo un ruolo di ben più profonda natura rispetto a quella a cui siamo stati costretti ad abituarci, volenti o nolenti.

Speculando sugli intenti intimi di questo, diremo che Ibello tenta la resistenza della parola e del suo portatore in un mondo culturale ormai sottoposto al conio da un canto, e che dall’altro supporta la produzione massificata e la mercificazione conseguente di ogni segreto e di ogni intimità.

E questo – sia concessa questa sterile annotazione – si consuma su ogni prospettiva della scena italiana ed internazionale: tanto come lettori appassionati che come semplici consumatori del bene “poesia”, ma anche come massificazione e percezione del fenomeno stesso.

Perciò in Ibello ci confrontiamo con una gloxa che distingue il poeta come carica e figura: una lingua che è tutte le lingue vive e morte assieme, e parla il dire dell’oltre, e del non umanamente ed immediatamente comprensibile – lontano da ogni santimonia e tartufismo, coscienti o meno che siano.

Questo, e soprattutto con un confezionamento della parola che non è mero simulacro e gelido di una comunicazione fine a sé stessa; ma di un semantema che è tentativo di misurazione di una realtà ulteriore ed ancestrale, immersa nel sogno e nella morte almeno quanto da queste si separa e si innalza.

Per questo, possiamo asserire senza troppi mezzi termini che il verso del nostro coagula e trasporta in sé sia memoria che veggenza, per non separare più l’immaginato dal vissuto, sia del narratore, che del narratario.

Tornando alla natura complessiva dell’opera, si può dire che Dialoghi con Amin sia completamente collocata nel tempo della poesia che viviamo, tant’è che si conferma sia l’orfanezza del poeta più che del canto come arte, sia l’assenza di un programma espresso.

A ragion veduta, senza dubbio: perché la mancanza di questo proposito dottrinale espresso non si risolve diversamente che in un mistero e nell’evocazione dello stesso, il cui spettro ammanta il semantema certamente; ma la cui resa oscilla di conseguenza tra le cifre stilistiche del neo-onirismo e della stratificazione aggettivale.

Realtà che, per altro, fruttifica in una plurisemanticità del dettato talora, mentre altre volte chiama a sé una vera e propria lacunosità del sema: come se la stessa parola scritta rimanesse sospesa in una nebulosità volutamente investigata e trovata, complementando una ricerca continua ed incessante in sé stessa.

E di questi fatti se ne percepisce realtà incontrovertibile, soprattutto sulla facciata stilistica della scrittura: difatti non è un caso se il dettato di Ibello si dispone con una certa predilezione di un modello modernamente ellenico del far poesia (Kavafis, Solomos, Seferis, Elytis, etc); ed al contempo materico e bizantino per la cura descrittiva delle immagini della propria fucina.

Ma se è vero questo, lo è altrettanto che l’apparato poetico del verso si arricchisce di una peculiarità sintattica affiancabile ad una propensione sperimentale del poetare, consistente nell’elezione di una certa koiné propria di queste compagini e realtà poetiche; ma è altresì un fattore stilistico in forza del quale Ibello tende a spingersi al di fuori dei confini del canone estetico di cui poco prima, ed a cui adeguare una valutazione – a dir nostro – meramente retorico-performativa.

All’inserimento di una sequela di segni grammaticali relativi ad una sintassi dal respiro tecnicamente avanguardistico, si affiancano invero frequenti passaggi in prosa che gettano le basi di una amalgama che giova meta-poeticamente ad una scansione cronologica del testo, e conferisce un ordine tanto microscopico che macroscopico alla composizione complessiva.

A tal proposito: la tessitura compositiva dell’elaborato respira di un fiato ditirambico ed epanalettico inteso alla fabbricazione di una serie di simbolismi spesso inspiegabili, criptici, apocalittici perfino.

Dei quali, in fondo, una spiegazione originaria non è in nessun modo necessaria, né tantomeno si rinviene l’urgenza di una interpretazione che sia dirimente dell’analisi del testo.

A prova di questo, si pensi solo allo stupore ed alla meraviglia che pervadono la fabbricazione dell’immagine “animale” del dettato, ed afferiscono ad una natura completamente ontologica dell’arte poetica, e del fare-poesia: tesi che, giustamente, anche Milo De Angelis individua ed espone dicendo che “la parola di Ibello non è mai dispiegata, […] si tiene stretta alla propria unicità e obbedisce al comandamento di Cristina Campo […]: non dobbiamo offendere il nostro silenzio”.

Inoltre, si può notare come il metro adottato da Ibello non ricavi una propria identità univocamente riprodotta, e sequenzialmente riproducibile, fino all’esaurimento della medesima materia a cui il nostro rivolge il canto.

L’apparato metrico del testo sembra eleggere una certa tendenza di studio: nel senso che il testo spesso si dota di una struttura di accenti fissa servente (come d’uopo) all’immagine ed al senso meta-poetico che il testo avvoca.

Si pensi al componimento “Verrà la vergine dei falò”: la struttura prettamente decasillabica richiama una certa cantilena di fare cadenzato tipico della nenia che si coniuga in un andamento di accenti mobili, tanto che si verifica uno spostamento dallo schema “pari” del giambo a quello ternario dell’anapestico.

Il tanto, in realtà, coesiste nella disposizione naturale del verso di sdoppiarsi ed accorparsi in gruppi di due, con troncature che nel complesso non sopportano il peso di forzatura, né pagano pegno ad artificiosità di sorta.

Degna di menzione è l’annotazione che segue: se Ibello fa propria una tendenza all’ipermetro, a questa consegna consapevolmente il compito di essere un assestamento ipertrofico di natura concettuale al deficit di certi altri versi di quantità accentuativa minore.

Precetto, poi, valido anche all’opposto: la brevilinearità di taluni testi protende a dirimere lo squilibrio che si verrebbe a creare se il testo fosse stato scritto completamente seguendo un canone metrico eccedente le misure riconosciute come fisse.

Di conseguenza nel dettato saranno rispettivamente i vari versicoli che possiamo ritenere emistichi di una più complessa figura metrica quelle strutture ai quali il nostro delega il ruolo di innervare quei nessi lapidari che coagulano il senso gnomico di cui il testo è permeato.

Tornando alla pasta sostanziale del canto, i continui sovra-ordinamento e sovra-dimensionamento di thema e rhema squadrano sulla pulviscolarità di quelle istanze argomentative che – potendo e volendo essere sintetici – riguardano l’intera esistenza, in atto e potenza, di un essere vivente.

Di qui, perciò, il verso spalanca una serie di passaggi che afferiscono in primo ad un ragionamento di relazione che si districa tra canto e cantato, e di conseguenza intessono una struttura che irretisce tutte le vicende di cui si fa esperienza nel corso dell’opera, ai cui margini angolari potremmo individuare specularmente necessità d’essere, contrapposta a volontà d’esistere, ed invocazione perpetua, di contraltare alla bestemmia più acre, perché sofferta e vissuta.

Non a caso il dio di Ibello – anche se sarebbe meglio dire la religiosità del nostro, tanto terribilmente almeno quanto imponderabilmente iscritta al verso – nonostante abbia perduto la maiuscola, destando e rimestando gli scandali storici di un nume ormai senza nome e senza volto, assume dei connotati storicizzati nel nostro patrimonio culturale, tanto da potersi in un certo modo assimilare ad un assoluto immemore ed interminabile.

Ed è effettivamente una certa propensione all’immateriale ed all’assolutizzazione (ma anche esacerbazione e divinizzazione, come nel caso del concetto di “morte” che si espone nella pagina) ciò che rende il verso dell’autore così etereo, ed al contempo così pregno nel suo disporre quei maxime scibilia cronotetici di Agamben de Il linguaggio e la morte.

Ma è anche vero che in questo processo di tensione all’assoluto si cela la vera inclinazione al martirio della poesia del nostro; la cui finalità ultima sembra simpatizzare, dato il contenuto pulsante e colpevole del testo, per la prassi delle flange estreme degli asceti russi, per cui lo юродивый (lett. jurodivyj) abbandona la sapienza umana per scegliere la “sapienza del cuore”.

Il che, se fosse trasportato nell’opera, la renderebbe sistematicamente libera da ogni razionalità forzata e forzosa, così come sarebbe svincolata da ogni altro assetto cerebrale che – seppur precostruito e preordinato – si dimostrerebbe in fin dei conti esterno dall’origine totalmente ustoria e viscerale del canto del nostro.

Per questo lo scorrere tra i nuclei nevralgici del dettato, congiuntamente alla dialettica che pone in relazione continua individuo-universo, io lirico-tutto/niente, noto-ignoto, finito-infinità, si declina in una serie di sfumature e congetture nella parola di Ibello capaci di fornire una poesia priva di artifici, nella nudità che connota la poesia più vera ed autentica.

Non di meno, lo slittamento che consegue trasporta il lettore nella dissipazione; ed innesca nello stesso una serie di meccanismi comprensivi che stimolano una cognizione ed esperienza del testo ulteriore, più avvicinabili alla facoltà del comprendere l’enunciato per una comprensione diafasica (manifestata completamente nel confronto dialogico della reciprocità degli opposti, e della parola unta di una sacralità laconica) piuttosto che ad un modello etico, oppure rigido, e subordinato ad una ragionevolezza aprioristica.

Queste sono le ragioni dell’equilibrio fonosintattico dell’opera, e del verso che è in questo è custodito: un articolato sistema di pesi e contrappesi, del quale non si avverte la presenza in positivo, ma che richiede il giusto tempo e di assimilazione ed estimo.

Si potrebbe anche riflettere che siano tali gli ingranaggi che si muovono (anche) dietro alla nascita del testo, sinteticamente detta “ditirambica” poco prima: ma è la parola come scoperta di una lingua in tutte le sue conseguenze il sangue della poesia dell’autore – ed il culto del lemma, dalla genesi all’esizio della stessa.

Venendo ai contenuti, è la colpa, in definitiva, l’epicentro del cosmo-gramma di cui prima: la colpa, e la tragedia del sentirsi responsabili in maniera ormai irrimediabile ed oltre ogni riparazione.

Queste realtà trovano la propria rappresentazione nel Maradona (al quale il poeta dedica l’intero ciclo di testi denominato “25 Novembre”, data di morte del giocatore) raffigurato dell’autore che incarna, nel suo divenire simbolo, il senso più profondo dell’umanità.

Di quella votata all’errore ed al fallimento, della vita battezzata nelle acque inquinate dalla perdita dell’amore, e di ogni riferimento ad una esistenza se non casta, almeno indice di quel che nel complesso si potrebbe ritenere univocamente condivisibile.

Nella pronuncia della frase “yo sé la culpa que tengo”, il calciatore si annuncia come colpevole al lettore ed all’ordine naturale, auto-imputandosi di qualsiasi cosa gli sia addebitata; di più, egli diviene ed è la colpa, come se il solo respiro sia ragione di stortura ed onta.

Questo lo determina come entità in bilico tra l’ammanco di ogni riferimento essenziale, ed il buio che si staglia appena oltre la ben più che sottile linea etica tra luce e ombra; e tanto è pregnante il paradigma colpa-essere che, come si diceva poco fa, si innerva profondamente testo e raggiunge anche quel lumen lirico che guida il lettore nella sym-patheia dell’opera, spingendosi nell’assurdità kafkiana assimilabile ad un processo che si attua in mancanza di un capo di accusa o imputazione.

Così densa è la colpevolezza dell’esistere che se da un lato espone il codice intrinseco alla condotta penitente, dall’altro estrinseca la denuncia implicita all’Exemplum più noto di questo modus: si pensi al mero “Tu lo dici” (Gv 18:37), che ci sembra prova provata di quanto sinora enucleato.

Concludendo e riprendendo il tema del dialogo di cui in introduzione, in effetti manca un concreto riferimento di chi sia il destinatario del dià-logos; ed una domanda, l’unica – forse – che non possiamo non farci, è la seguente: chi è Amin?

Se è vero ogni altra conoscenza di quest’opera può giungere da un intendimento dello scritto che non deriva solo dal testo, ma dal demone (cfr. etimo di questo lemma) che lo abita, è tuttavia innegabile che il testo rifiuti pervicacemente di fornire ogni sorta di appiglio ermeneutico.

Questo, ma anche di una direzione che aiuti a dirimere il quesito in maniera definitiva, tant’è che l’unico riferimento testuale che incontriamo, ai fatti, non produce che dubbi e incongruenze.

Al più, al lettore ed alla critica solo ipotesi sono concesse: eppure non ci si può sottrarre da tentare un responso che possa essere una soluzione plausibile alla domanda.

Amin potrebbe essere il silenzio che precede e sussegue l’ordine prestabilito, potrebbe anche essere ciò che colma la distanza tra poeta e poesia, può essere un “tu” che esiste referente a sé stesso, o come nucleo di alterità rispetto alla propriocezione del soggetto lirico in cui si concretizza il poiein e la phronesis, se non anzi quel soggetto psicologico che è presente che ascolta la narrazione che materia l’autore fuori-e-dentro la propria pagina.

Amin, nei nostri occhi, rappresenta a tutti gli effetti un paradosso in quanto è sia colui-che-è, sia colui-che-non-è; e su di esso si riversa tanto il peso di essere il ricevente del colloquio quanto la responsabilità di offrire una prosecuzione naturale alla conversazione.

La conseguenza di questo è che Amin sia la rivelazione dell’inganno, un luogo così rarefatto nell’absolutus da poter contenere ogni cosa, anche – se non soprattutto – nella contraddittorietà che la distingue e incarna; colui che, innanzi al totale annichilimento di ogni orizzonte di senso e di sostanza, non è altro che sé stesso: un Adamo alle porte del regno consumato.

Amin è un paradosso, dal momento che in effetti questo concetto trova ragion d’essere esclusivamente in una dimostrazione che trova paradigma in una reductio ad absurdum; e difatti è quindi l’esteriorizzazione creaturale oscurata dell’ego-scriptor che, di controcanto, è protagonista del supplizio che la poesia di Ibello realizza.

Amin può essere il poiesis in sé e la parte più profonda dell’essere poeta, come può essere il simbolo dell’essere che non ha riposo né requie; è sintesi di chi non conosce né amore né malizia o la sola gioia insolente di chi soffre, e misura la realtà con il compasso del pathos e della sofferenza dell’innocente.

L’unica certezza è che ogni responso, come ogni consultazione della pagina, cade nel dramma di cui è vittima ed artefice; così come ogni altro uomo che, libero e perciò reo (perlomeno, nell’ottica del nostro), non può sfuggire né dall’onta del proprio gesto, né dall’orrore e dal terrore delle conseguenze che ogni azione – conscia o meno, in fondo, non sembra essere poi così importante – comporta.

*      *      *

Verrà la vergine dei falò
verrà la vergine dai seni ulcerati,
un altrove di baci
al kerosene
un altrove di spine e diademi.
Ma noi
dimenticati relitti
ci amiamo nel buio degli hangar
e ripetiamo giaculatorie
dinanzi a un dio demente
che scalcia
nel grembo della cancellazione.

*

parla Amin

 

Io sono Amin,

colui che restò nel noncanto.

La pietraluna che stringe

intime alleanze con il temporale.

Sono la vita sognata,

la spada rivolta alle piogge.

Baratri e gemme,

rovesci, sterpi,

acqua di sperma creatore.

Io sono Amin

e non ho mai conosciuto l’amore.

Rivelo la sintassi del crollo:

un urlo angelicato, non si muore.

Vita sempre sognata, mai vita.

*

io non torno più

Ricavo dai roghi autunnali
un altare di gemme,
è il menhir dell’esiliata luna.
Io sono Giovanni
e non ho mai chiesto di essere amato.
L’amore stringe nel seno
la sorte del tuono:
frantumare il vetro dell’esistenza.
Così noi, ebbri di giovinezza
corriamo a perdifiato nell’oltrenero,
succhiamo avidamente
il fuoco rimasto nelle pietre
e brindiamo / all’ombra del fu delle pinete.
Ogni cosa rivela
quel nulla che siamo già stati.
Tutto simula la quiete.
Poco distante, un uomo prende a pugni la rena.
Dice: “Credimi, noi non stiamo per rinascere.
Nessun verso sconta la primavera”.

*

all but every fragment / what light remains

Dichiaro guerra all’incendio.
Dichiaro Guerra al tuono vicino,
ai fuochi di novembre,
al sole infartuato
di ogni alba autunnale.
Dichiaro guerra
al partenone mare
all’acqua stellata,
ai viluppi di salino:
a te che dici
io sono vivo, io sono vivo…

 

*

 

Cosa resta del sogno?

Io non lo so cosa resta del sogno. Io sono inutile come
la pace, sono il ras delle ombre, luce cariata dall’avveni-
re.
Conservo questa macellazione del bianco e tracanno,
da ogni vena di luna, quel vino fatto aceto che chiamavo
incanto.

*      *      *

 

Giovanni Ibello (Napoli, 1989) vive e lavora a Napoli. Nel 2017 pubblica il suo primo libro, Turbative Siderali (Terra d’Ulivi edizioni, con una postfazione di Francesco Tomada). L’opera vince il premio Internazionale Città di Como (per l’opera prima) e il premio dell’Osservatorio letterario Lermontov. Nel 2018 si aggiudica il premio Fiumicino per la sezione «opera inedita» con una prima ed embrionale versione del poemetto «Dialoghi con Amin. » Una sua antologia poetica è stata pubblicata in Russia per l’editore Igor Ulangin nella collana «Contemporary italian poets» a cura di Paolo Galvagni. I suoi versi sono stati tradotti in sei lingue tra riviste, lit-blog e volumi antologici di poeti italiani all’estero. Nel gennaio del 2021 inaugura, con un selezioni di testi inediti, la rubrica «I poeti di trent’anni» curata da Milo De Angelis per la rivista «Poesia di Crocetti». È direttore della rivista «Atelier» (sezione online) dove cura una rubrica di traduzioni poetiche. Dirige per «Terra d’ulivi edizioni» la collana di poesia «Deserti luoghi».

Carlo Ragliani (Monselice, 1992) vive a Candiana, studia presso l’ateneo ferrarese di giurisprudenza. È Caporedattore in Atelier Online, e Redattore in Atelier Cartaceo. Altri suoi interventi critici appaiono su “Nazione Indiana”, pubblicato ne La radice dell’inchiostro (ArgoLibri, 2021), sul numero centesimo di “Atelier”, “Il Segnale”, “Poesia del nostro tempo”, “Poesia del nostro tempo”, “Poetarum Silva”, “Carteggi Letterari”, “Inverso”, “Menabò”, “Laboratori poesia”, ed in prefazione e postfazione a diverse pubblicazioni di poesia. Suoi testi sono apparsi su antologie e riviste letterarie, tra cui “Il Segnale”, “Poetarum Silva”, “La Balena Bianca”, “Inverso”, “Carteggi letterari”, “Niedergasse”, “Atelier” e tradotti in lingua spagnola dal Centro Cultural Tina Modotti. Ha pubblicato Lo stigma (ItalicpeQuod, 2019).

© Fotografia di Dino Ignani

Umiliare e ubbidire

1

di Franka Mente 

Umiliare per non morire. Le maestre i maestri sono operai e questo spesso è dimenticato. Nelle scuole di città gli ambienti sono spesso miseri: le aule anonime, i muri sporchi, nessuna possibilità di avere luoghi propri in cui sentirsi al sicuro, dove lasciare tracce e costruire tra me e noi percorsi significativi di apprendimento. Chi fa l’anno di prova spesso è sotto ricatto, chi è a scuola da più tempo è più prepotente. Le bambine e i bambini lasciati con le mani inerti e costretti nei banchi urlano e intanto incamerano rapidi il modello che li guasta: zitto e lavora nei margini, rapido, questa è la scuola. Appena stai con gli altri corri urla esaltati ché quella finestrina di spazio è breve. La cooperazione costa fatica, cura, tempo, organizzazione e autonomia: tutta roba rara e di lusso, che ti procuri lottando e grazie alla cultura. Perché le prime volte che la provi ti pare di fallire e ti guardano male. Quindi dopo gli intervalli sfrenati e assurdi si torna ai banchi, a ubbidire e ascoltare. Le maestre i maestri soffrono il chiasso, la miseria, e reagiscono cercando di dominare secondo l’antica pedagogia nera di adulto contro bambino. Premi punizioni giudizi e parole taglienti, state fermi state zitti imparate. La lim, se c’è, sta sempre accesa, così blocca anche lei il corpo e c’è sollievo: silenzio, quiete. Le scuole non somigliano ad atelier, a cantieri organizzati in cui lavori di senso portano gruppi di pari ad apprendere con tutto il corpo e le emozioni. Non lo sono e non lo saranno, se non c’è l’organizzazione di base di maestre e maestri che la vedono diversamente e che, con la faticosa routine politica di riunioni, spazi di formazione, opera di formazione di base, ricavano occasioni di sovvertimento e diffusione di un’altra visione di istruzione. Per la maggioranza di genitori e insegnanti è così: “incontri la durezza e la cattiveria perché il mondo è crudele e cattivo e quindi armati fatica sopporta e fai quello che devi, anche noi abbiamo avuto maestre terribili e siamo vivi e belli”. Tu puoi rispondere che siamo così vivi e belli da avere i giorni contati e che l’unico senso è ridurre la violenza e l’ingiustizia per avanzare nella pace e nella conoscenza. Ma quel che conta è come lotti per questa idea, come stai accanto alle alleate e alleati. La scuola è un luogo di impegno politico e culturale, e anche qui si combatterà nei prossimi anni tra la visione di forza, aristocrazia, dominio, guerra, patria di destra e quella democratica. Ci serve tutto, la moda in accademia di bell hooks e trascinare una maestra a usare per una volta le mani e le marionette, ci serve tutto e tra poco ancora di più. Tutto tranne stare sui social a fare finta che umiliare non sia il metodo più diffuso per stare a scuola. A volte non per cattiveria ma perché ti hanno formato così e perché devi salvarti il culo. Se non hai le tecniche e i metodi, se non hai gli spazi e colleghi e colleghe esperte che ti portano, una classe di infanzia o una prima primaria possono essere una galera. La fatica e la solitudine e gli ambienti miseri rendono brutti docenti e bambini, che si fan la guerra. E vince l’adulto. Molto altro si potrebbe dire per le secondarie. In alcuni gruppi di base lavorano assieme docenti di primo e secondo ciclo e lo scambio è fertilissimo, e a partire da questo tanto si potrebbe dire e fare. Qui diremo che: le basi per la violenza si mettono fin dalla scuola d’infanzia.

La lingua caduta del dire (a margine della scrittura)

2

di Mariasole Ariot

Affacciata all’interno di un mondo in forma di cassa toracica, vago alla ricerca della lingua spezzata, un taglio netto che segna l’impossibilità dell’essere: la congiura, dunque, arriva con la caduta della voce. Non avere più memoria se non della memoria stessa, e in questo crollo di una capacità umana e forse inumana di ricordare il sasso, la pietra, l’uscita spaventata dell’utero, la voce che dà origine alla struttura di un corpo viene a mancare.

La bocca si spalanca come un sesso dopo le doglie, ma il nascituro non è altro che placenta, il chirurgo lo estrae, getta l’involucro vischioso nel pattume, e con il contenuto vuoto, scompare anche il contenitore di ciò che non è mai stato contenuto.
Se ciò che ora non è non è mai stato, frutto solo di una gestazione immaginata, così alla bocca, metafora della vita, non resta che serrarsi e dimenticare sé stessa. Ma è davvero possibile la dimenticanza? Può l’assenza di memoria coincidere con la dimenticanza? Poter dimenticare presuppone un oggetto del ricordo, l’assenza lo nega a principio. Quindi no, nessuna coincidenza.

La scrittura diventa quindi impossibile: se è l’arto della lingua, e la lingua non accade se non in forma di sacco amniotico senza essere all’interno, non c’è parola che abbia la portata di un agito – e di un vagito.

Per un momento l’occhio cade sul gatto che fissa con insistenza un muro bianco. Capire allora la differenza tra ciò che è guardato e il guardante, tra osservatore e osservato, e apprendere da quell’insistenza la dissoluzione della differenza tra i due termini. Come un volto umano che fissa uno specchio fino alla sua decomposizione: dove l’altro che guarda è al contempo ciò che è guardato.

In realtà, una sostanziale differenza: se l’animale, come termine, fissa l’immobile, come altro termine , e non è più dato riconoscere quale dei due stia contemplando l’altro, di fronte allo specchio non accade fusione ma frammentazione, distanza siderale tra la me che guarda e la me guardata dalla me che guarda.

Così la voce cade. Dire: non è più mia, dire: non riconosco. Una conoscenza mai appresa, piuttosto uno stato onirico che non comprende coscienza e consapevolezza. Scivolare fuori o essere scivolati dal fuori dall’esistenza (trasformando l’avverbio in un verbo transitivo) fa del mondo un luogo ameno, silenzioso e perturbante.

L’ape si posa sul fiore e lo smembra. L’immagine poetica diventa allora un prosastico atto osceno: necessaria una distanza per vedere il miracoloso, se la distanza si annulla, cadiamo nei pistilli divorati. È possibile succhiare anche coi denti.

Di nuovo torno nella sala operatoria dell’esistenza. Perdersi senza smarrirsi, senza quel vago oscillare della mente che per un istante prolungato crea per nutrimento: ciò che nel prima è entrato con ferocia, dopo un travaglio di sedimento, si liquefa nello smarrimento, e poi, nel secondo atto, produce e dà voce alla voce.
Cosa accade invece se non si dà più quello stato semi onirico ma solo perdita?

Apri la bocca, spingi fuori la lingua, taglia la lingua. Non una ferita aperta ma già suturata e satura: la lingua, si sa, si rimargina velocemente, ma non nella sua forma originaria.
La possibilità dell’incontro attraverso il bacio di due ferite, come due organi di senso (due dotti uditivi, due narici, due orifizi), comporta un’apertura.

Il cadere della voce (del linguaggio particolare, al soggettivo), è allora quanto di più destrutturante possa accadere ad un essere umano. Non il detto coincide con l’essere, ma il dire. E neppure il dire, piuttosto la grana di quel dire.

Non poter allora più scrivere perché la scrittura mi è morta: nessun nascondiglio, nessuna sepoltura, una cremazione naturale, una pozza che evapora e non si riproduce in nube – e dunque nessuna pioggia. Una forma di fotosintesi senza che la pianta possa servirsene: fase luce-indipendente (nel buio) in assenza di fase luce-dipendente (nel luminoso).

Altrove il borbottio del mondo, qualche risata, un pianto, un giorno di festa, un suono, lo sfregarsi dei corpi, la calura estiva, il sudore sulle mani, un funerale.

Ma cosa comporta un funerale se il rito è già avvenuto prima della morte del morto?

Da “Choses tues”

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di Paul Valéry

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traduzione di Jacopo Masi

[Testi tratti dalle sezioni II, III, e IV di Choses tues, Gallimard, 1932.]

Novità. Voglia di novità.

Il nuovo è uno di quei veleni eccitanti che finiscono per essere più necessari di qualsiasi alimento; la cui dose, una volta diventati nostri padroni, bisogna sempre aumentare fino a renderla mortale, pena la morte.

È strano legarsi così alla parte peritura delle cose, che è precisamente la loro qualità di essere nuove.

Non sapete dunque che alle idee più nuove si deve dare una certa apparenza di nobiltà, di idee che siano non affrettate ma maturate; non insolite ma esistenti da secoli; e non fatte e trovate questa mattina, ma solo dimenticate e ritrovate.

*

Il gusto esclusivo della novità indica una degenerazione dello spirito critico, poiché nulla è più facile che giudicare la novità di un’opera.

*

I classici sono forse quelle opere che possono raffreddarsi senza perire, senza decomporsi; e la volontà di conservazione, celata nell’idea di conservazione e di forma compiuta, sarebbe interessante scoprirla, svelarla nei principi, nelle regole, nelle leggi o canoni delle arti nelle epoche dette classiche.

*

I nostri discepoli e successori ci insegnerebbero mille volte di più dei nostri maestri, se la durata della vita ci lasciasse vedere le loro opere.

*

Letteratura.

Un libro non è, in fin dei conti, che un brano del monologo del suo autore. L’uomo o l’anima si parla; l’autore sceglie all’interno di quel discorso. La scelta che fa dipende dal suo amore di sé: si ama in tale pensiero, si odia in talaltro; il suo orgoglio o i suoi interessi prendono o lasciano ciò che gli viene in mente, e quello che vorrebbe essere sceglie all’interno di quello che è. È una legge fatale.

Se ci fosse dato l’intero monologo, saremmo in condizione di trovare una risposta abbastanza esatta alla domanda più precisa che una critica legittima possa porsi di fronte a un’opera. La critica, nella misura in cui non si riduca a pronunciarsi secondo i propri umori e gusti, – cioè a parlare di sé illudendosi di parlare di un’opera, – la critica, nella misura in cui giudicasse, consisterebbe in una comparazione tra ciò che l’autore ha voluto fare e ciò che effettivamente ha fatto. Mentre il valore di un’opera è una relazione singolare e incostante tra tale opera e un certo lettore, il merito proprio e intrinseco dell’autore è una relazione tra l’autore stesso e il suo proposito: tale merito è relativo alla loro distanza; si misura sulle difficoltà incontrate nel condurre il progetto a buon fine.

Ma queste stesse difficoltà sono come un’opera preliminare dell’autore: sono opera del suo “ideale”. Questa opera interiore precede, intralcia, sospende, sfida l’opera sensibile, l’opera degli atti. È qui che il carattere e l’intelligenza talvolta trattano la natura e le sue forze come lo scudiero tratta il cavallo.

Una critica anch’essa ideale si pronuncerebbe unicamente su tale merito, poiché non si può pretendere da qualcuno altro che di avere realizzato quanto si era proposto di realizzare. Non si può giudicare un ingegno che secondo le sue proprie leggi, quasi senza intervenire personalmente, come per un’operazione indipendente da colui che esegue, poiché non si tratta che di confrontare un’opera e un’intenzione.

Mi dica, signor Autore, voleva fare un certo libro?

– L’ha fatto? Qual era il suo progetto? – Perseguiva un pensiero elevato, o qualche vantaggio materiale: un successo d’opinione, un buon profitto economico? Forse un oggetto indiretto; forse l’obiettivo non erano che poche sue conoscenze, e forse addirittura una soltanto che mirava a toccare per il tramite di uno scritto pubblico?…

Chi voleva intrattenere?

– Chi sedurre, chi uguagliare, chi rendere folle d’invidia, a quale mente dar da pensare e quali notti turbare? Mi dica, è Mammona, era Demos[1], Cesare, sarebbe forse Dio che serviva? Oppure Venere, o forse un po’ tutti?

Ma vediamo i suoi strumenti, ecc…

*

La sintassi è una facoltà dell’anima.

*

Un’opera d’ingegno è importante quando la sua esistenza determina, chiama, sopprime altre opere già composte o meno.

Essa rende l’anima sensibile ad opere differenti.

– O comincia, o termina una qualche vena…

*

Ciò che vi è di più umano.

Alcuni credono che la durata delle opere dipenda dalla loro “umanità”. Si sforzano di essere vere.

Ma quale durata più lunga di quella delle opere di fantasia?

Il falso e il meraviglioso sono più umani dell’uomo vero.

*

Libri.

Quasi tutti i libri che stimo e assolutamente tutti quelli che mi sono serviti a qualcosa, sono libri abbastanza difficili da leggere.

Il pensiero può allontanarsene, non può percorrerli.

Gli uni mi sono serviti benché difficili; gli altri, perché lo erano.

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Ma dei libri, gli uni sono eccitanti e non fanno che agitare ciò che possiedo; gli altri sono per me alimenti la cui sostanza si trasformerà nella mia. La mia propria natura vi attingerà modi di parlare o di pensare; oppure delle risorse determinate e delle risposte già pronte: si deve pur avvalersi dei risultati delle esperienze altrui e arricchirsi di ciò che altri hanno visto e noi non abbiamo visto.

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Ogni poeta varrà infine quel che sarà valso come critico (di sé).

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Se un uccello sapesse dire con precisione ciò che canta, perché lo canta, e cosa, in lui, canta, non canterebbe. L’uccello crea nello spazio un punto in cui è, proclama senza saperlo che interpreta il suo ruolo. Deve cantare a tale ora. – Nessuno sa cosa lui stesso provi nel cantare. Vi si dedica con la massima serietà. La serietà degli animali, la serietà dei bambini che mangiano, dei cani in amore, l’implacabile, prudente fisionomia dei gatti. Si direbbe che questa vita esatta non lasci spazio al riso, all’intervallo scherzoso.

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Idea poetica è quella che, messa in prosa, reclama ancora il verso.

⇔⇔⇔

Nouveauté. Volonté de nouveauté.

Le nouveau est un de ces poisons excitants qui finissent par être plus nécessaires que toute nourriture ; dont il faut, une fois qu’ils sont maîtres de nous, toujours augmenter la dose et la rendre mortelle à peine de mort.

Il est étrange de s’attacher ainsi à la partie périssable des choses, qui est exactement leur qualité d’être neuves.

Vous ne savez donc pas qu’il faut donner aux idées les plus nouvelles je ne sais quel air d’être nobles, non hâtées, mais mûries ; non insolites, mais existantes depuis des siècles ; et non faites et trouvées de ce matin, mais seulement oubliées et retrouvées.

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Le goût exclusif de la nouveauté marque une dégénérescence de l’esprit critique, car rien n’est plus facile que de juger de la nouveauté d’un ouvrage.

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Les œuvres classiques sont peut-être celles qui peuvent se refroidir sans périr, sans se décomposer ; et la volonté de conservation, cachée dans l’idée de perfection et de forme achevée, serait intéressante à découvrir, à déceler dans les principes, les règles, les lois ou canons des arts dans les époques dites classiques.

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Nos disciples et nos successeurs nous en apprendraient mille fois plus que nos maîtres, si la durée de la vie nous laissait voir leurs travaux.

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Littérature.

Un livre n’est après tout qu’un extrait du monologue de son auteur. L’homme ou l’âme se parle ; l’auteur choisit dans ce discours. Le choix qu’il fait dépend de son amour de soi : il s’aime en telle pensée, il se hait dans telle autre ; son orgueil ou ses intérêts prennent ou laissent ce qui lui vient à l’esprit, et ce qu’il voudrait être choisit dans ce qu’il est. C’est une loi fatale.

Que si tout le monologue nous était donné, nous serions capables de trouver une réponse assez exacte à la question la plus précise qu’une critique légitime puisse se proposer devant un ouvrage.

La critique, en tant qu’elle ne se réduit pas à opiner selon son humeur et ses goûts, – c’est-à-dire à parler de soi en rêvant qu’elle parle d’une œuvre, – la critique, en tant qu’elle jugerait, consisterait dans une comparaison de ce que l’auteur a entendu faire avec ce qu’il a fait effectivement. Tandis que la valeur d’une œuvre est une relation singulière et inconstante entre cette œuvre et quelque lecteur, le mérite propre et intrinsèque de l’auteur est une relation entre lui-même et son dessein : ce mérite est relatif à leur distance ; il est mesuré par les difficultés qu’on a trouvées à mener à bien l’entreprise.

Mais ces difficultés elles-mêmes sont comme une œuvre préalable de l’auteur : elles sont l’œuvre de son « idéal ». Cette œuvre intérieure précède, gêne, suspend, défie l’œuvre sensible, l’œuvre des actes. C’est ici que le caractère et l’intelligence traitent parfois la nature et ses forces comme l’écuyer traite le cheval.

Une critique elle-même idéale prononcerait uniquement sur ce mérite, car on ne peut exiger de quelqu’un que d’avoir accompli ce qu’il s’était proposé d’accomplir. On ne peut juger un esprit que selon ses propres lois, et presque sans intervenir en personne, comme par une opération indépendante de celui qui opère, car il ne s’agit que de rapprocher un ouvrage et une intention.

Vous vouliez faire un certain livre ?

– L’avez-vous fait ? Quel fut votre dessein ? – Entendiez-vous rejoindre une haute pensée, ou quelque avantage sensible : une victoire dans l’opinion, un bon succès d’argent ? Peut-être un objet indirect ; peut-être ne visiez-vous que peu de personnes de vous connues, et peut-être même une seule que vous pensiez atteindre par le détour d’un ouvrage publique ?…

Qui vouliez-vous divertir ?

– Qui séduire, qui égaler, qui rendre fou d’envie, quelle tête laisser pensive et quelles nuits hanter ? Dites, seigneur Auteur, est-ce Mammon, fut-ce Démos, César, serait-ce Dieu que vous serviez ? Vénus, peut-être, et peut-être un peu tous ?

Mais voyons vos moyens, etc…

*

La syntaxe est une faculté de l’âme.

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Une œuvre de l’esprit est importante quand son existence détermine, appelle, supprime d’autres œuvres déjà faites ou non.

Elle sensibilise l’âme pour des œuvres différentes.

– Ou elle commence, ou elle termine quelque veine…

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Ce qu’il y a de plus humain.

Certains croient que la durée des œuvres tient à leur « humanité ». Ils s’efforcent d’être vrais.

Mais quelle plus longue durée que celle des œuvres fantastiques ?…

Le faux et le merveilleux sont plus humains que l’homme vrai.

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Livres.

Presque tous les livres que j’estime et absolument tous ceux qui m’ont servi à quelque chose, sont livres assez difficiles à lire.

La pensée peut les quitter, elle ne peut les parcourir.

Les uns m’ont servi quoique difficiles ; les autres, parce qu’ils l’étaient.

*

Mais des livres, les uns sont excitants et ne font qu’agiter ce que je possède ; les autres me sont des aliments dont la substance se changera dans la mienne. Ma nature propre y puisera des formes de parler ou de penser ; ou bien des ressources définies et des réponses toutes faites : il faut bien emprunter les résultats des expériences des autres et nous accroître de ce qu’ils ont vu et que nous n’avons pas vu.

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Tout poète vaudra enfin ce qu’il aura valu comme critique (de soi).

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Si un oiseau savait dire précisément ce qu’il chante, pourquoi il le chante, et quoi en lui, chante, il ne chanterait pas. Il crée dans l’espace un point où il est, il proclame sans le savoir qu’il joue son rôle. Il fat qu’il chante à telle heure. – Personne ne sait ce qu’il ressent lui-même de son propre chant. Il s’y donne avec tout son sérieux. Le sérieux des animaux, le sérieux des enfants qui mangent, des chiens amoureux, l’implacable, prudente physionomie des chats. On dirait que cette vie exacte ne laisse pas de place pour le rire, pour l’intervalle moqueur.

*

Idée poétique est celle qui, mise en prose, réclame encore le vers.

[1] Personificazione del “popolo”.

La messa delle rane

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di Michela Lazzaroni

Il signor Bertoni era il mio cliente peggiore, di rane ne comprava una sola e le sue monete erano sempre umide. Diceva «Brava bambina» con aria feroce, come un rimprovero, e aveva un odore di uva dimenticata al sole, eppure ogni sabato pomeriggio attraversavo in bici l’asse viscido sopra la roggia che separava la Cascinaccia dal resto di noi e gli vendevo quella singola rana per il puro gusto di vedergliela mangiare. Faceva così: la prendeva per una zampa – la coscia destra, di solito – e la sollevava con gesto aggraziato e il mignolo teso, come una damina veneziana, poi spalancava la bocca e la posava sulla lingua bene in fondo, attento a metterla voltata verso l’ugola, così che io vedevo la schiena butterata della rana e, subito sopra, le sue narici nere e gialle di catarro rappreso. Se c’era da aspettare si pettinava la barba con le dita, mentre io cincischiavo con la fibbia delle bretelle, in attesa che la rana saltasse. A volte si accoccolava sulle zampe posteriori, o si lustrava gli occhi con le dita a ventosa, ma alla fine saltava sempre nella gola di Bertoni, e non appena superato il pomo d’Adamo lui accompagnava il salto con la deglutizione, lasciando che la gravità facesse il resto. Il momento migliore era quando contava: tirava su il pollice, uno, poi l’indice, due, poi il medio, tre; di rado sollevava anche l’anulare e in un’unica occasione il mignolo, primato che festeggiai con un applauso. Nella mia testa la chiamavo “la messa della rana”, per via della gestualità liturgica di Bertoni e del fatto che ingoiasse senza masticare, secondo i dettami della comunione. Non so come la chiamasse lui, ma di certo la considerava una cosa seria, soprattutto il momento in cui contava – cioè contava i salti che la rana gli faceva in pancia prima di morire – perché più a lungo stava viva più era benefica, «Cura l’infiammazione» diceva. Io non rispondevo e salutavo con la mano, educata, poi andavo via e sciacquavo la moneta nella roggia prima di metterla in tasca.

 

Tutti i bambini catturavano le rane, non ero neanche la migliore, però i clienti preferivano le mie perché arrivavano più fresche alla vendita. Mi ero costruita la cesta di salice con un buon ricircolo d’aria e con due cinghie sulla schiena per poterla mettere in spalla e avere le mani libere – acchiappavo le mosche, i grilli e le tignole al volo, quasi fossi una rana anch’io. Provavo un piacere materno nel nutrirle con gli insetti infilzati su uno spillo, o nello spruzzare l’acqua sulla cesta per tenerle allegre. Finché erano vive condividevamo un certo grado di intimità, di simpatia persino, ma se capitava di vederne una schiacciata a lato della strada ero capace di vomitare. Da morte le rane si trasformavano in qualcosa di nudo, freddo e unto: l’emblema del cadaverico. La pancia morbida e sciropposa, le cosce affusolate e i tendini sottili come lenze mi ricordavano un esserino non sviluppato, morto prima ancora di nascere; che la gente le mangiasse nel risotto mi ripugnava. Mia mamma, per esempio, ne era ghiotta e spesso proponeva di tenerne da parte una decina per la polenta, o per farle fritte, se era giorno di festa. Non l’accontentavo mai, era meglio lasciarle agli acquirenti – che avevano la cortesia di ammazzarle lontano dalla mia vista – e guadagnarci qualcosa. Lei sul momento si arrendeva, salvo poi ripeterlo daccapo la volta successiva, come per la storia delle bretelle, che odiava, o della bici con la canna in mezzo. Un’altra sua raccomandazione era di non andare dal signor Bertoni. «Lo disturbi» diceva, però non era quello, e nemmeno perché era un uomo, visto che di clienti maschi ne avevo parecchi, compreso il parroco. Il motivo era un altro, un segreto da grandi, ma di scoprirlo non mi importava fintanto che da Bertoni ci andavo lo stesso e senza conseguenze, bastava tornassi per cena.

La risposta si presentò quando la signora Claudia portò alla mamma le uova a pasta gialla e io spiai da dietro le persiane per assicurarmi non volesse farne frittata di rane. Intuii parlassero di lui perché citarono la Cascinaccia e le sue travi ammuffite; mia madre disse che restando lì peggiorava le cose, il figlio lo avrebbe ospitato anche subito, la nuora era pure dottoressa, e la signora Claudia ribatté che era un vecchio ostinato, malmesso di corpo e di testa, e alla fine sancì: «Canta da crèp», come la campana quando ha una falla, una crepa cioè, e suona stonata, ha poco da scamparla.

 

Non so perché né di cosa, tuttavia mi fu subito chiaro che il signor Bertoni non sarebbe morto in un futuro imprecisato, come noi altri, ma in un futuro imminente a cui potevo dare il nome: sei mesi, forse tre, un paio di settimane, giovedì prossimo. Da quella volta andai a trovarlo ogni sabato, cioè come prima, per quanto il motivo fosse diverso e ben chiaro nella mia mente: volevo vedere se era ancora lì, se non c’era più, o intercettare il momento esatto in cui scivolava da uno stato all’altro. Continuavo a guadagnarci poco e l’asse sulla roggia era sempre più marcio – anche quello cantava da crèp –, ma non disertai mai un appuntamento e scelsi per lui le rane più belle. Mentre contava lo spiavo con attenzione e ne immaginavo i sintomi, un giorno le dita mi parevano gonfie e livide, un altro le labbra pallide, quasi azzurre, la palpebra destra accennava un tremore involontario, forse i respiri si erano fatti più corti? E intanto lui non moriva, pagava, inghiottiva e contava: le rane lo tenevano in vita.

 

«Non andare, lo disturbi» disse la mamma con un tono più esasperato del solito, e io andai lo stesso perché così giravano le cose fra noi. Superai il campo giallo di ravizzone con la ruota che frustava le foglie basse, rallentai in vista della roggia e imboccai l’asse contando gli stridii del legno – tre, uno meno della settimana prima. Bertoni era seduto sulla panca fuori dalla Cascinaccia, ad aspettarmi, e quando mi vide si alzò. Smontai di sella senza dire una parola, secondo quel nostro rituale muto e solenne, e appoggiai la cesta in terra fra le sterpaglie. Aprii il coperchio giusto uno spiraglio, quel tanto che bastava a infilarci il braccio e lo sguardo; le rane sguizzavano come saponette, ma io sapevo impugnarle con presa salda e delicata, e loro me lo lasciavano fare perché si fidavano. Offrii la prescelta a Bertoni, lui mi fece scivolare in mano il soldino bagnato, prese la rana per la zampa destra, la sollevò con gesto aggraziato e il mignolo teso eccetera, non sto a ripetermi. Aspettando che la rana saltasse mi parve di scorgere una pulsazione anomala sul collo del signor Bertoni, la giugulare si gonfiava e distendeva a intervalli irregolari, sintomo di un cuore stanco, prossimo alla resa, e mentre fantasticavo di vederlo stramazzare lì, con la rana ancora in bocca, quella si girò. Non era mai capitato che una rana si girasse, né tantomeno che mi guardasse negli occhi, le iridi arancioni picchiettate d’oro, la pupilla oblunga e un’aria così annoiata che provai più pena per lei, per il tedio di quel momento fatale, che per il destino a cui avevo condannato tutte le altre. Poi, invece di saltare fuori e salvarsi, quella scema si girò di nuovo e si tuffò giù per la gola di Bertoni. Il pollice che segnava l’uno nemmeno lo vidi, tanto ero scossa; tra il due e il tre fui percorsa da un brivido di raccapriccio, come se la rana fosse saltata in bocca a me anziché a lui; al quattro rimisi in discussione la mia intera carriera, ripensai a tutte le rane-figlie che avevo accudito e alla figlia-rana che ero, sempre sfuggente, sempre ribelle, eppure viva per la volontà di mia madre di dar corpo al desiderio e tramutarlo in carne, nelle mie mani svelte, nella mia testa dura, nei miei fianchi magri. Al cinque decisi com’era andata: la rana aveva guardato me, io avevo guardato lei, e ci eravamo riconosciute.

Bertoni restò così qualche secondo, con la mano alzata e le cinque dita ben aperte, congelato in un gesto di saluto. Rimisi la cesta in spalla senza applaudire, la messa era conclusa, potevamo tornare a ignorare le nostre rispettive esistenze, se non che Bertoni si accigliò e sollevò il pollice, l’altro stavolta, e io non seppi se proseguire a contare da sei o ricominciare da uno; poi alzò l’indice tremante, e poi il medio mentre la sua faccia si faceva rossa e il collo si piegava all’indietro, come volesse urlare, e in effetti spalancò la bocca ma invece dell’urlo dalla gola saltò fuori la rana. Bertoni schioccò le mandibole, come un cane che tenta di prendere al volo una mosca, ma la rana era già in aria, troppo lontana per essere riacciuffata. Atterrò da qualche parte nell’erba, la vidi per un attimo, poi sparì.

 

Un boccone che di proposito risale lungo l’apparato digerente ha del miracoloso, e ai miracoli non serve commento, così riflettevo mentre stavamo zitti l’uno di fronte all’altra, come incerti su cosa fosse lecito in quel nuovo rito. Bertoni mi tolse dall’impiccio di inventare una nuova gestualità proponendo quella vecchia: «Dammene un’altra» disse. Mi stupì volesse ritentarci subito, come se il prodigio non fosse avvenuto, o non significasse niente, però acconsentii, il cliente era lui, e mentre visualizzavo le rane nella cesta prefigurando la prossima eletta scovai in quel pensiero un senso di malessere, quasi di angoscia. Tergiversai e tesi la mano per ricevere la seconda moneta, un pagamento anticipato d’eccezione, ma Bertoni non volle darmela, neanche quando insistetti, perché secondo lui lo avevo imbrogliato. Realizzai che non attribuiva il miracolo alla rana, né a una qualche forza esterna, ma a me, come se volutamente l’avessi fatta tornare viva una volta morta. Alzò la voce, fece un passo e allungò il braccio verso la cesta, ma io sguizzai via come una saponetta, inforcai la bici e fuggii. Pedalai fino alla roggia senza mai toccare i freni e centrai l’asse a una velocità folle e immotivata, poteva spezzarsi e io cadere, battere la testa, morire annegata e tutte le rane morire di fame, prigioniere della cesta – a meno che la caduta non l’avesse fatta aprire e in quel caso sarei morta solo io. Invece l’asse non si spezzò, arrivai a casa alla solita ora e la mamma neanche mi punì.

Il giorno dopo iniziai a vendere gli insetti come esche ai pescatori o a chi riusciva ad ammazzare le rane senza resuscitarle. Anche se non ne avevo più motivo, continuai a far visita a Bertoni con la stessa frequenza. Lui sedeva sulla panca, come sempre, ma appena apparivo senza la cesta rientrava alla Cascinaccia in silenzio, deluso e infastidito; il nostro scambio si era fatto di soli sguardi rancorosi. Eppure ogni sabato tornavo, e ogni sabato era lì ad aspettarmi. Ignoro cosa ci legasse, forse sperava gli portassi altre rane salvifiche, mentre io speravo mi perdonasse per averlo condannato, o magari entrambi speravamo che al momento giusto avrei saputo resuscitarlo. Non si trasferì mai, né raccontò in paese del nostro piccolo diverbio, così il mio giro di affari rimase tutto sommato lo stesso e poco cambiò per me e mia madre in fatto di rane o di risotti. Non ricordo se morì.

Il mondo salvato dalle ragazzine

2

di Andrea Inglese

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Strettamente intesa la democrazia non è una forma di Stato. E’ sempre al di qua e al di là di queste forme. Al di qua, come il fondamento egualitario necessario e necessariamente dimenticato dello Stato oligarchico. Al di là, come attività pubblica che si contrappone alla tendenza di ogni Stato ad accaparrarsi la sfera comune e a spoliticizzarla.

Jacques Rancière, L’odio della democrazia

 

Noi che viviamo in regimi di tipo democratico (parlamento, pluralismo politico, libere elezioni), non sempre abbiamo chiaro quale sia lo “spirito” della democrazia. A volte pensiamo addirittura che sia una specie di prerogativa antropologica nostra. E poiché l’abbiamo alle volte esportata con le armi (i nostri alleati USA), allora se essa compare al di fuori dalle nostre frontiere è faccenda sospetta. Qualcuno mi ha detto letteralmente che quello che accade in Iran è una faccenda di ONG occidentali e di gente finanziata da Soros. Gli ho risposto che la sua visione incarnava una sorta di razzismo antropologico, errore più grave del cosiddetto “complottismo” tanto in voga. L’ho già conosciuto nel 2011, quando gli esperti di occulte trame della CIA dai loro osservatori casalinghi negavano ai rivoluzionari arabi anche quello che la polizia di regime era costretta a riconoscergli, ossia l’autonoma – seppur limitata – forza di ribellarsi.

Invece, più semplicemente, c’è un popolo che dà una lezione, a se stesso innanzitutto, ma anche a tutti noi.

1) Su cosa vuol dire “popolo”. Un popolo che sta chiuso in casa non è un popolo, se non in potenza. E anche se una maggioranza se ne sta chiusa in casa, è quello che diventa “soggetto”, uscendo per le strade, opponendosi alle sue istituzioni e al suo governo, che nel bene e nel male si rivela come “popolo”. (E sia detto di sfuggita, ma non è una battuta: se ancora esiste un popolo palestinese, è perché di tanto in tanto esce di casa, rischiando di farsi arrestare o ammazzare dall’esercito israeliano. Con una colonizzazione del tutto riuscita, sentiremmo solo parlare dei successi della Silicon Wadi e dell’high-tech israeliano o degli scandali per corruzione dei partiti conservatori al governo. E questo vale, purtroppo, per tanti altri popoli che esistono solo per decisione consapevole e rischio di morte.)

2) Combattere per l’autonomia e per soddisfare i propri bisogni materiali non è la stessa cosa. Chi guida la protesta in Iran sono le donne, e sono gli studenti, e più in generale una classe media, senza che ciò escluda il sostegno e la partecipazione anche delle classi popolari. Ma questo significa che le studentesse e gli studenti sono pronti a farsi ammazzare, perché vogliono essere padroni del loro destino. Noi piangiamo ancora sulla scomparsa dell’animale politico, ma in Iran assistiamo a una lotta perché le nuove generazioni abbiano il potere di criticare radicalmente e pubblicamente le proprie istituzioni. Per anni, le donne hanno vissuto senza velo, in privato, ritrovando la libertà nel chiuso delle loro stanze. Dopo la morte di Mahsa Amini questo compromesso tra la morale pubblica islamica e una certa libertà tra le mura di casa, è saltato. E’ divenuto semplicemente insopportabile.

3) È una lotta nata dalle donne, in difesa delle donne, e dell’inviolabilità e dell’integrità del loro corpo, ed è, nello stesso tempo, una lotta largamente condivisa dagli uomini, in una misura tale che – ma magari mi sbaglio – è rara anche in Occidente.

Alcune cose che mi ha detto un’amica iraniana, che da due settimane è tornata dopo un soggiorno di un mese a Mashhad. Cose che per altro sono circolate anche sui nostri media.

I più poveri dipendono interamente dallo Stato, secondo una logica di controllo clientelare che anche noi italiani abbiamo ben conosciuto.

L’odio nei confronti del regime è diffuso, anche da parte di quelle persone che, per ragioni di età, considerano questa lotta disperata.

Il regime ha svuotato le prigioni, liberando la criminalità comune, a patto che essa s’impegni a colpire “gli intellettuali” e “gli studenti” in piazza.

Gli “stranieri” di cui si parla non sono altro, quasi sempre, che membri della diaspora iraniana, ossia persone dalla doppia nazionalità: iraniana e canadese, iraniana e tedesca, ecc.

Vige il sistema cileno e argentino della più sanguinaria dittatura: ossia sequestri occulti, e ricomparsa di cadaveri sfigurati e violentati.

La cosa più agghiacciante. Persone da poco rimesse in libertà, dopo essere state sequestrate e torturate, che si tolgono la vita.

La cosa più commovente: le madri escono con le auto, quando le loro figlie o i loro figli sono in manifestazione. Fanno ronde ufficiose per essere pronte al soccorso, in qualsiasi evenienza e nei confronti di qualsiasi giovane.

Ecco, ho scritto questo, per prendere il tempo d'”immaginare” il coraggio che ha quel giovane popolo di ragazze e ragazzi, alcuni neppure maggiorenni, che si sono buttati nella lotta contro adulti armati e criminali, adulti vigliacchi quanto il loro potere basato su principi indiscutibili.

È difficile “immaginarlo” da lontano quel coraggio, magari lo sarebbe pure da molto vicino. Eppure anche noi ne abbiamo bisogno di coraggio, belli seduti che siamo sulle nostre risorse fossili, sempre di fresca e crescente estrazione. Noi che abbiamo decretato che l’animale politico si era ritirato dall’attività, rimanendo per sempre fisso come una statua di cera nel Museo del Novecento.

L’immagine è tratta dal sito d’informazione francese Mediapart. Sono foto che le ragazzine hanno scattato, per farle circolare nei social. Sono foto di azioni simboliche. Gente con il dito medio alzato e rivolto verso l’autorità suprema. Sembrerebbero scattate in una middle school inglese nel 1977, con al posto dell’ayatollah la regina (pace all’anima sua). Solo che i giovanissimi punk inglesi – per fortuna loro – non rischiavano la vita, con i loro gesti “simbolici”.

Miraggio di quiescenza

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Testo e foto di Paola Ivaldi

“Le varie protesi tecniche di cui oggi ci avvaliamo, come lo smartphone ad esempio, sono innestate su sistemi viventi, noi, caratterizzati da un tempo biologico, non tecnologico, che ha impiegato milioni di anni a farsi. Questa accelerazione lo scardina ignorando i bioritmi che non cessano certo di esistere e ciò produce un malessere a volte fisiologico, più spesso e di sicuro esistenziale, caratterizzato da un senso di perdita, di fuga del tempo così ben rappresentato già dalle clessidre nelle Vanitas seicentesche.”

Luisa Fantinel, L’arte di morire (e di vivere)

Io, dentro. L’impiegato del Caf che sta al di là del divisorio in plexiglas è giovane, molto più giovane di me. Questo ormai accade quasi sempre, è un dato di fatto, ma preferivo di gran lunga com’era prima, quando, oltre la scrivania o un qualsiasi bancone, sedevano una donna o un uomo invariabilmente più vecchi di me, con tutte le loro brave rughe e i fisici cedimenti strutturali più o meno goffamente dissimulati. Ne traevo io, nel constatare il distacco anagrafico, un qualche tipo di vaga rassicurazione: la loro avanzata maturità era sinonimo, ai miei occhi, di affidabilità.

Ora non più. Anzi, mi scopro spesso quasi irritata dalla giovinezza del mio interlocutore e da quella che, forse a torto, non lo escludo, reputo una ostentata inesperienza delle cose della vita, da un atteggiamento a tratti spavaldo, che, come in questo caso, fa dire al giovane, con una punta di acidulo sarcasmo, quel tono professional-confidenziale: “Sa signora, ehm… non si illuda: è probabile che quando lei si avvicinerà alla pensione… mmh… insomma, che l’età venga ancora alzata, magari fino ad arrivare al… plateau dei settant’anni”. Nel pronunciare la parola plateau sul suo volto paffuto dal chiaro incarnato appare, per un attimo, qualcosa di simile a un ghigno.

Una sorta di apnea

Io, fuori. Respiro, accorgendomi che prima, mentre ero seduta nell’angusto ufficio, al di qua del divisorio in plexiglas, sulla cui superficie giacevano rinsecchite costellazioni di droplets, restavo talvolta in una sorta di apnea, innescata da un lieve attacco di ansia. Ora, fuori, io respiro e cerco di stare nel respiro, di calmarmi. Calma, respira, mi ripeto e mi ripeto mentalmente.

Mentre, con estrema lentezza, apro il lucchetto della catena della bicicletta legata al palo, proprio lì all’uscita del Caf, dove mi ero recata per avere delucidazioni sulla mia contorsionistica posizione contributiva e sugli ipotetici scenari pensionistici, che già intuivo da panico, metto quindi a fuoco, con altrettanta lentezza, come girando con studiata maestria un obiettivo fotografico, che mi toccano in sorte, minimo minimo, altri due lustri di lavoro da dipendente pubblica.

Quel plateau che spostano sempre

E poi chissà, forse quando sarò lì lì per giungere alla meta, mi si dirà no no, adesso gambe in spalla, sali fino al plateau dei settanta, come ti era stato preannunciato dall’imberbe impiegato del Caf quella volta là, ricordi..? Il solo pensarlo mi fa venire voglia di cacciare un gigantesco roboante selvaggio urlo, espressione di pura rabbia, rabbia potente, magmatica, che in genere avvampa le budella e s’accompagna alla sgradevole constatazione di ritrovarsi vittima di un’inaudita irreparabile ingiustizia. Ma come? Negli ultimi decenni del secolo scorso c’era chi andava in pensione a quaranta, cinquant’anni? Mi ricordo nomi e cognomi. Gli stessi, magari, arrotondavano a fine mese, svolgendo sfacciatamente vari lavoretti in nero. Il total black, d’altronde, è l’evergreen del dolente Paese nostro.

“Perché, vede, signora – mi si rivolgeva poc’anzi il giovane come si parla ai grandi vecchi, scandendo bene le parole mentre scrutava con sguardo concentrato il proprio monitor king size – lei per l’Inps non esiste per molti anni, e questo è un bel problema: c’è proprio come… come un buco prima che lei risulti.” Sì, lo so, caro giovanotto, che quello è il problema mio, comune a molti altri come me, il punto però è molto semplice: noi lavoravamo, nei lontani anni Novanta del XX secolo, anche se per l’Inps non esistevamo, noi abitavamo il buco, osceno e nero, e lì dentro ci davamo un gran daffare. Noi facevamo il buco, noi eravamo il buco e, sprofondati nella voragine inaudita, si veniva palesemente sfruttati pur nella sciagurata distrazione collettiva, perfino degli stessi genitori nostri.

Precari senza saperlo

Nel 1992, quando mi laureai io, non esistevano ancora i precari come categoria sociale, non avevano un’identità di gruppo né, di conseguenza, un senso di appartenenza ad esso. Però io stavo per diventare una di loro. Eravamo già in tanti, ma non lo sapevamo e ci sentivamo soli. Nessuno si preoccupava di noi, giornalisti, opinionisti, partiti politici, sindacati: quando dico nessuno.

In tutta franchezza, ammetto che la mia laurea in lettere moderne a indirizzo storico (reperto n. 1) non poteva rappresentare un boccone particolarmente appetibile per il mercato del lavoro che iniziava, proprio in quegli anni e soprattutto nei settori a cui io mi rivolgevo, in primis quello editoriale, a entrare in una crisi epocale di cui ancora non si aveva una chiara percezione.

reperto n. 1

Iniziai a capire molto presto quanto sia vero un concetto ricorrente nella manualistica dedicata alla ricerca di un impiego, ossia che cercare un lavoro è già di per sé un lavoro. Implica ferrea volontà, fiducia in sé stessi, ma soprattutto un metodo: individuare un target, inquadrare i propri obiettivi, scrivere un impeccabile curriculum e una bella lettera di accompagnamento studiata ad hoc, mirata ogni volta a un ben preciso destinatario (individuato telefonicamente, contattando i vari uffici del personale e/o delle relazioni esterne).

E poi occorre dotarsi di una pazienza che nemmeno Giobbe: saper aspettare, telefonare, verificare che la lettera sia giunta a destinazione, cercare di capire, superando abilmente (quasi un percorso a ostacoli) i vari filtri delle segreterie, se ci sia una qualche possibilità di fissare almeno un incontro con la persona di interesse. Il tutto senza perdersi d’animo mai, nonostante quasi mai i risultati dell’impegno profuso siano anche solo lontanamente all’altezza delle aspettative. Così funzionava, trent’anni fa.

L’umanità nella buca delle lettere

Trent’anni fa, se non altro, persone in carne e ossa rispondevano ancora, ti dedicavano un minimo di attenzione, dimostrando un barlume di sensibilità, giungo a dire di u-ma-ni-tà; le segretarie afferravano un foglio dalla risma, lo infilavano leste nella macchina da scrivere, quasi sempre, ormai, elettrica, digitavano la formula di rito, sottoponevano alla firma del capo, affrancavano e mettevano in spedizione.

Dalla buca delle lettere, immancabilmente, dopo qualche settimana, vedevo spuntare una busta, formato commerciale. Le ho conservate tutte, queste lettere ormai un po’ ingiallite (reperto n. 2)  così simili a reliquie di un’epoca remota; ci sono affezionata, ricordo che nonostante ogni volta provassi un gran senso di delusione, per il diniego che veicolavano, mi confortava comunque l’idea che qualcuno si fosse preso il disturbo di dare riscontro, garbatamente, a una mia richiesta di lavoro.

reperto n. 2

Ne riporto alcuni stralci. Merita sottolineare la cortesia e la forma (spicca l’uso delle maiuscole per la terza persona singolare) che ancora contraddistinguevano questo tipo di comunicazioni.

Lattes & C. Editori: “(…) spiacenti di comunicarLe che al momento non possiamo prendere in esame la Sua proposta. RingraziandoLa per averci interpellato La salutiamo distintamente”.

Loescher Editore: “(…) spiacenti di informarLa che attualmente l’organico della nostra azienda è al completo e non prevediamo altre assunzioni a breve termine. Distinti saluti”.

Arnoldo Mondadori Editore: “(…) spiacenti di non poterLe dare una risposta favorevole in quanto, attualmente, non sussistono necessità di personale con i requisiti in Suo possesso. Terremo comunque in evidenza il Suo nominativo (…). RingraziandoLa per l’interesse dimostrato nei nostri confronti, cogliamo l’occasione per porgerLe distinti saluti”.

UTET: “(…) Purtroppo al momento non sussiste la possibilità di avvalerci della Sua esperienza e professionalità”.

E vennero le mail

Le cose poi sono cambiate in fretta, molto in fretta. Un decennio o giù di lì. A cavallo tra i due secoli, quando, in un periodo di crisi lavorativa in cui mi venni a trovare, mi capitò di riaffacciarmi sul mercato del lavoro, inviando nuovamente proposte di collaborazione, magari in risposta ad annunci (reperto n. 3) che sempre più sporadicamente venivano pubblicati il giovedì sui quotidiani, le risposte non si materializzavano più nella buca delle lettere.

Magari quelle stesse segretarie, che mi avevano gentilmente scritto in precedenza, erano invecchiate, più stanche, mal pagate e distratte, forse nel frattempo erano già andate in pensione e sostituite da giovani assunte a tempo determinato, da infelici impiegate interinali, oppure si iniziava a risparmiare sul personale, sulla carta e i francobolli. O magari, assai più semplicemente: non fregava più niente a nessuno.

Qualcosa ha iniziato a incrinarsi. Di sicuro l’utilizzo della posta elettronica, che nel frattempo è diventato dilagante di fatto sostituendo i canali tradizionali di comunicazione, non ha aiutato la comunicazione, come la maggior parte di noi, erroneamente, si era illuso che potesse accadere. In molti abbiamo creduto, infatti, che la velocità e l’immediatezza fossero una buona cosa, che avrebbero potuto consentire rapporti più diretti, informali, in un certo senso più facili, più egualitari, peer to peer, si dice(va). Errore madornale, una delle innumerevoli illusioni digitali, quel mettere in rima la dematerializzazione con la semplificazione.

reperto n. 3

L’anello debole

Tra l’altro io, nel frattempo, ero comunque cresciuta, non vestivo più i panni della neolaureata inesperta, dunque il mio curriculum era diventato anche più corposo, occupando le sue belle due paginette. Eppure, niente da fare, tranne rari casi, non rispondevano più e questo, a ben vedere, era già un nitido, inequivocabile segnale di un graduale impoverimento innanzi tutto dei rapporti umani. Ecco, io so che la mancanza di una risposta può essere terribile: se tu scrivi e non vedi più materializzarsi nulla nella tua buca delle lettere, tu cessi di esistere. Lo stesso si può dire di una mail, oggidì. Uno zero, la mancanza di riscontro a un tuo atto comunicativo ti schiaccia nella nullità, apparente ma non per questo meno deprimente.

Se non considero le prime piccole esperienze lavorative svolte da studentessa universitaria, magari sotto Natale, i miei primi incarichi professionali si sono concretizzati nella stesura di articoli, nella correzione di bozze, nell’editing. Ho provato in tutti i modi a mettere stabilmente piede in una casa editrice, a essere assunta in qualità di redattrice, ma niente da fare, sono sempre e solo rimasta una collaboratrice esterna, il che vuol dire, come amaramente considerava Bianciardi nei lontani anni Sessanta, starsene “(…) in terrazza quando tira vento e piove. Dentro le aziende è come in una camera calda, al peggio come dentro un gabinetto, maleodorante certo, ma riscaldato e riparato” (Luciano Bianciardi, La vita agra).

Io ero, per di più, l’anello debole della catena, proprio quella che in genere si definisce “ultima ruota del carro”, perché in realtà non lavoravo direttamente, se non in un paio di occasioni, con le case editrici bensì con società di servizi editoriali che, fungendo da intermediarie, finivano inevitabilmente per sottopagarmi. I compensi erano quindi talmente bassi che alla fine, pur di trattenermi qualcosa in più in tasca per vivere autonomamente non ero nelle condizioni di versare i contributi previdenziali: i miei lavori venivano tutti immancabilmente camuffati da “collaborazioni occasionali”. Mi fregavo con le mie stesse mani, lo sapevo eccome, ma non avevo altra scelta. Per l’Inps, dunque, io allora non esistevo, stavo nel buco dove rimasi la bellezza di sette anni.

Fuori dal buco

Quando finalmente misi la testa fuori dal buco fu la volta delle cosiddette co.co.co.: collaborazioni coordinate e continuative, a cui seguì l’apertura della partita Iva. I miei committenti si andavano diversificando, avvicinandomi sempre di più al settore della Pubblica Amministrazione. Gli anni passavano, la mia passione per la scrittura mi portò inevitabilmente ad approcciarmi ai nuovi mezzi di comunicazione, i new media, facendomi infine approdare al web writing. Iniziavo a scrivere testi destinati alla pubblicazione non più cartacea, ma online: la mia principale sfera di interesse era soprattutto concentrata sulle enormi potenzialità della comunicazione via web nel settore pubblico, dunque l’informazione ai cittadini attraverso i siti istituzionali di cui gli Enti iniziavano allora timidamente a dotarsi.

Fu con questo spirito che nel 2008, con un figlioletto di quattro anni, io che ormai avevo oltrepassato i quaranta, accarezzai l’idea, possedendone i requisiti, di partecipare a un concorso per la cosiddetta stabilizzazione dei precari indetto dall’Ente pubblico con cui collaboravo da tempo in qualità di consulente. Superai il concorso e fui assunta a tempo indeterminato.

Presto ancora oggi servizio presso il medesimo Ente, ma sempre più spesso mi chiedo: fino a quando? Come farò a resistere per altri dieci anni se non di più? E, sia chiaro: non uso il verbo resistere per mancanza di buona volontà o perché io incarni il logoro luogo comune dell’impiegata pubblica fannullona. Dico resistere perché mi sto accorgendo, a volte mi assale per questo uno strano senso di spavento e di amarezza, che anziché essere cresciuta, professionalmente parlando, anziché vedere delinearsi qualche timida prospettiva di avanzamento, anziché rappresentare, anche solo a tratti, la figura dell’esperta, ebbene tutto quello che ho fatto per trent’anni sembra non avere peso specifico, non vale quasi più nulla, sul mercato, nel mio Ente, fra i colleghi. Questo stato d’animo, nel suo perdurare e consolidarsi, condanna chi ancora ambisca a lavorare con coscienza e con cura a una lenta, inesorabile mortificazione non disgiunta dalla muta consapevolezza che le cose non potranno che peggiorare.

Il mestiere di comunicare

Trent’anni fa comunicare significava: scrivere testi, correggere e curare parole che, nel loro insieme, producevano un contenuto, che veicolava a sua volta un messaggio o puntava a raggiungere un obiettivo. Lentezza… Adesso comunicare è: gestire immagini, maneggiare prodotti audiovisivi, essere social media manager, prendere spunto dagli influencer. Essere sul fantasmagorico pezzo, fare in fretta, più degli altri, arrivare sempre prima… Velocità.

Fin dagli anni dell’università ho cercato di instaurare un dialogo con il personal computer, acquisendo quel minimo di autonomia operativa che mi potesse consentire dapprima di scrivere la mia tesi di laurea e poi, naturalmente, di lavorare. Ricordo i miei approcci con l’Ms-Dos (reperto n. 4a) e l’Html (reperto n. 4b), mi rivedo china sui manuali con l’entusiasmo dell’autodidatta che prova a camminare sulle proprie gambe, che insomma, sì, ce la mette tutta.

Da allora ho tentato costantemente di migliorare le mie performance nell’ambito dell’Ict… altri manuali, nuovi corsi di formazione… ma ormai non mi si scolla più di dosso il presentimento di avvicinarmi all’invisibile capolinea dell’eterna dilettante e, nel ritrovarmi a chiedere sempre più spesso aiuto ai colleghi informatici che, bontà loro, mi spiegano, talvolta mi illuminano, ma che insomma hanno già le proprie rogne da sbrigare, e non possono farmi da balia asciutta, tocco con mano quanto i tempi stiano cambiando rapidamente, rendendo il luogo di lavoro un posto disumano e crudele dove rimango, sempre più spesso, impalata di fronte a problemi che hanno a che vedere con la tecnologia, a chiedermi come farò a continuare a lavorare in questo modo “artigianale”, sentendomi sempre ancora un’improvvisata, una che si arrabatta, che tanto, dai, c’è sempre Salvatore Aranzulla quasi fosse il telefono amico.

Un processo irreversibile

È un processo irreversibile, i ruoli si stanno ribaltando: mano a mano che invecchi non rappresenti più un contenitore di sapere, quel distillato prezioso che scaturisce dall’esperienza che maturi lungo la tua traiettoria professionale. Lo si chiama know-how ed è un’araba fenice, è un concetto sempre più aleatorio, sensazione passeggera, si detiene per poco, il sapere, poi arriverà sempre qualcuno più giovane di te, pronto a spodestarti in un battibaleno.

Ancora lì, fuori. La catena della bicicletta in mano, davanti al portoncino del Caf, ma adesso seduta sul sellino, penso e ripenso alle parole dell’impiegato, quando poco prima mi faceva notare che il mio, in fondo, non è un lavoro usurante. Mi domando: che cosa si intende, oggi, per lavoro usurante? L’usura può essere anche di tipo cognitivo o esistenziale. Non è affatto scontato che persone oltre i sessant’anni siano in grado di tenere il passo con i velocissimi mutamenti dei mezzi di comunicazione e delle procedure informatiche necessarie a una loro gestione che possa definirsi efficace ed efficiente.

Non vorrei fare anche una considerazione di genere, perché rischio di ampliare troppo il perimetro delle mie perplessità, ma come si può non considerare che una lavoratrice over sessanta capita facilmente che si ritrovi a dover accudire uno o entrambi i genitori, i quali non è affatto scontato che possano permettersi di ricorrere a un servizio di assistenza (leggi: badante). Oltre a ciò, sempre la stessa lavoratrice può non riuscire, a sua volta per scarsità di mezzi, ad avvalersi dell’aiuto di una collaboratrice domestica e quindi doversi sobbarcare anche i lavori di casa. Non è questo un quadro, nel suo insieme, altamente usurante? Chi mi risponde?

O dobbiamo scendere per forza in miniera, magari tornare in filanda, per vederci riconosciuto il diritto di dire basta, ho fatto la mia parte, adesso lasciatemi in pace, lasciatemi arenare offline in un anfratto di quiete, consentitemi, vi prego, di disconnettermi una volta per tutte, ignorando chiavette, cloud e upgrade, pin e QRcode, e dimenticando tutte, ma dico tutte, le credenziali indispensabili a lavorare, sbattendomene fino alla morte di non essere multitasking, non vergognandomene mai più, nemmeno per un solo preziosissimo istante.

Desiderio di uscire

Considerato che mi toccherà in sorte ancora un decennio o giù di lì di lavoro non posso che rimanere sgomenta dalla mancanza di prospettiva di crescita professionale, atterrita dal graduale svuotamento di significato e di valore della mia qualifica e dalla perdurante vaghezza del mio ruolo e delle mansioni che ne scaturiscono in maniera quasi del tutto estemporanea.

Forse è per questo che quando mi concedo una pausa – che per i videoterminalisti come me sarebbe dettata per legge, ma della quale il più delle volte mi dimentico io per prima – e, alzatami dalla sedia, mi reco alla finestra, guardando al di là dei vetri, io osservo per qualche minuto il personale addetto alla manutenzione delle aree verdi dell’Ente, provando in cuore una puerile benevola invidia. Vedo questi uomini o queste donne che, vestiti in tuta, rastrellano meticolosi, ma senza un barlume d’affanno, le foglie secche intorno ai loro piedi, facendone mucchietti che successivamente saranno caricati sulle carriole e portati via. Nel guardarli, dunque, mi sorprendo a nutrire quasi un desiderio di demansionamento, vorrei aprire la finestra e gridare loro: facciamo cambio? Ne invidio l’attività manuale, all’aria aperta, a contatto con la natura, ne invidio, soprattutto, la distanza dal personal computer, e ne invidio perfino la tuta: infatti, mi sto accorgendo, ultimamente, che non sento più il piacere di cambiarmi d’abito per recarmi in ufficio, non ho più voglia di impegnarmi nemmeno nella scelta dei vestiti; dal momento che i giorni lavorativi sembrano tutti uguali vorrei scomparire anch’io dentro una anonima divisa che annullasse la mia identità professionale, la mia personalità, il mio genere. Solo un numero di matricola.

Lo “spettacolo” della nostra vecchiaia

Sarà un gran brutto spettacolo, diciamolo pure, la nostra senescenza: altro che anziani in loden e mocassini seduti sulle panchine, all’ombra carezzevole dei platani cittadini, a leggere il giornale appena acquistato in edicola; questo modello di vecchi sarà letteralmente spazzato via, insieme alle stesse edicole, rimpiazzato da un nuovo genere di orrendi umani ricoperti di tatuaggi scoloriti e collassati, ai piedi scarpe ibride prive di lacci, le dentature in uno stato pietoso perché impossibilitati a sostenere le spese di un qualsiasi dentista, nemmeno affidandosi al turismo dentale in Croazia.

Chi, dunque, di grazia, raggiungerà il traguardo della quiescenza? A quale veneranda età? E in quali incresciose condizioni fisiche e mentali? Impiegati fino alla morte, in ufficio col catetere o il pannolone, se va bene, i più facoltosi accompagnati dalla badante fino alla scrivania, gli altri si perderanno per strada in preda ad attacchi acuti di amnesia o sprofondati in fitte nebbie mentali, li si accuserà di assenteismo, li si dimenticherà, verranno rimpiazzati, in un modo o nell’altro.

Tutto sommato, crepare prima della pensione sarà molto meglio per tutti, e sotto certi tragici aspetti potrebbe giungere a rappresentare il male minore. Però, no, io vi imploro: non tirate fuori la tiritera dei dati e delle percentuali, e che è aumentata l’aspettativa di vita e quindi si deve alzare l’età pensionabile. Di quale vita parlate? E dove vivete, voi che ne ciarlate tanto, sfoggiando smilzi numerini che nulla, ma proprio nulla, dicono in termini di qualità di vita, di autonomia individuale, di efficienza e di mobilità, di capacità cognitive. L’aspettativa di vita (che, ribadisco, nulla dice della qualità di vita) viene usata come squallidissimo paravento di modernariato dietro al quale nascondere alla bell’e meglio mucchi di catene arrugginite.

La tristezza di una generazione

In conclusione, non ci rimane altra possibilità, per lenire almeno in parte il profondo disagio esistenziale legato alla nostra disastrata tarda mezza età consumata in quest’epoca oscura di transizione, che condividere tra di noi, sottovoce, quasi vergognandocene, le nostre incertezze e le paure, ammettendo la tentazione di iniziare a sussurrare “I would prefer not to” fino ad arrivare a urlarlo al mondo intero. Ad ogni buon conto, i più coraggiosi e i più folli, quelli che hanno saputo tenere accesa nel tempo, anche se al minimo, la fiammella della passione e della fantasia, come vecchi carbonari ancora invasati, a volte sfornano, nel corso di serate particolarmente deliranti, con lo sguardo un po’ stralunato di chi ne sa più degli altri, di chi ha capito tutto, dei loro farraginosi piani di fuga, exit strategy vagheggiate in vari formati: individuale, per nuclei famigliari o eventuali piccoli aggregati amicali. Sono i soliti bed & breakfast in un qualche entroterra, l’ecovillaggio o il cohousing in collina oppure ancora l’immancabile chiosco di gelato artigianale in località esotiche mai ben precisate, ma sempre comunque al di là di un oceano.

Ad ogni buon conto, quando ci si ritrova tra coetanei, gli eterni-giovani-ultracinquantenni così crepuscolari, i patetici gruppi di “forever young”, quelli che ancora si rivolgono fra di loro chiamandosi raga (come peraltro i loro stessi figli hanno smesso di fare già da un pezzo), ci si vorrebbe lasciar andare, appoggiare la testa sulla spalla del vicino per dare libero sfogo a quella lacrima silenziosa e solitaria, concedendole di scendere giù, lenta e dignitosa, a rigare il volto sciupato: concentrato, quella lacrima, della nostra tristezza generazionale così poco raccontata, scarsamente conosciuta, eppure così dura da masticare, ogni santo giorno, e comunque impossibile da ingoiare, che alla fine ti viene proprio voglia di sputarla fuori una volta per tutte, magari dritta in faccia a tutti quelli (e ci sono!) che ci hanno colpevolmente, deliberatamente o irresponsabilmente, ridotti in questo stato penoso.

A volte, quando penso al futuro, alla vecchiaia che già riesco a intravedere o quanto meno a intuire, essendo io più vicina ai sessanta che ai cinquanta, ho paura più che del buio o del vuoto: di un buio completamente vuoto, svuotato di senso e di noi tutti che, qui e ora, soffriamo visceralmente per le nostre miserabili esistenze, soltanto all’apparenza insignificanti, noi che sogniamo un altrove senza sapere se sia un quando più che un dove.

Lettere della fine

3

Tre testi tratti dalla sezione aggiunta alla nuova edizione ampliata di Lettere della fine di Nadia Agustoni (Vydia editore, collana di poesia Nereidi), prefazione di Renata Morresi, postfazione di Maria Grazia Calandrone.
Info: https://www.vydia.it/it/lettere-della-fine-nuova-edizione/

quattro

a Brusaporto nell’uguale di una sera
ho creduto alle stelle sospese
tra le frane dell’erba
e la statale:

con la nostra vita viene il lavoro dei prati
e nella solitudine dei pioppi
nella quiete del poco
in un buio di forchette e un libro:

ma andava tutto insieme il parlare
a briciole e formiche morte
e ancora senza un filo di vento
correvano le siepi

e un segno più lieve
intorno al bordo dei rami
apriva il quaderno della luna
raccoglieva il volo del migrare.

*

cinque

costruimmo i nostri rifugi
di bambini di allora
– gli alberi
ci insegnarono
a quale
distanza
crescere –

scoprimmo
pian piano
il punto esatto
in cui ogni foglia
al cambio
di stagione
raccoglieva l’aria
l’intima pazienza
del brunire.

*

dieci

abitavano coi fiori stanze d’ospedale
e in caserme e cave la febbre di chi ride
emigrati come un’altra specie
con tutta la casa:

a volte portavano regali
cose piccole, un cibo
le bocche malate dei poveri
o il dolore preso in Germania

dove gli sterminati non parlavano.

per questo sappiamo
che chi tace non acconsente
e la lingua dei morti
è più lunga ferita.