di Lea Melandri
Uno dei luoghi comuni, per non dire dei capisaldi, delle analisi politiche è l’idea di “strumentalità”. Nell’articolo di Sergio Romano, sul Corriere della sera del 5 marzo 2005, relativo alle vicende che hanno accompagnato la liberazione di Giuliana Sgrena, il “rischio” che qualcuno faccia “uso” di una situazione per i propri fini si moltiplica tanto da coinvolgere in vario modo tutte le parti in causa, anche se prevale, per nulla celata, la convinzione che a cadere in questo “vizio” sia soprattutto la sinistra. Il corrispettivo di questa visione machiavellica, che separa mezzi e finalità, alludendo indirettamente all’esistenza di un agire politico “vergine” di compromessi, è, per quanto riguarda il lettore-spettatore, una non meno radicata sfiducia verso tutti i protagonisti della politica, accomunati dal sospetto di obbedire all’unico improrogabile imperativo del proprio utile.
Di Giuliana Sgrena si sarebbero serviti innanzi tutto i rapitori: per muovere compassione nell’opinione pubblica e per garantirsi risonanza mediatica, essendo lei donna e giornalista, per mobilitare le piazze contro gli Usa, in virtù del suo impegno per la pace. Di lei e del tragico viaggio verso l’aereo che doveva condurla finalmente libera in Italia –in cui ha perso la vita il suo salvatore, Nicola Calipari- avrebbero poi tratto profitto tutti quelli che le sono stati solidali, a partire dagli amici e colleghi del Manifesto, convinti assertori della necessità di ritirare il contingente italiano dall’Iraq, e, infine, entrambi gli schieramenti politici, centro-destra e centro-sinistra, decisi a spaccare il paese in due. Una chiave interpretativa così totalizzante, e così universalmente condivisa da passare inosservata, meriterebbe quanto meno una breve riflessione.