Home Blog Pagina 65

Nell’entroterra kenyota

1

 

di Nick Casini

L’auto è una Suzuki Jimny degli anni Settanta senza cinture di sicurezza e con due panche di legno al posto dei sedili posteriori. Viaggia lanciata verso l’entroterra kenyota, mentre Malindi è già una dozzina di chilometri alle nostre spalle, oltre una coltre di polvere. La strada è un disastro di buche e bambini assiepati lungo la carreggiata, ma Danson fila dritto.

Danson è un uomo robusto, sui cinquant’anni, che in Europa equivalgono almeno a ottanta. Mastica miraa – una pianta dall’effetto eccitante venduta a mazzi nei mercati – e si fruga in bocca di continuo. Ha le gengive rosse come pomodori, i denti color avorio e spinge sul pedale dell’acceleratore per mettere in chiaro che lui non ha nulla a che vedere con i pole pole (piano piano), le hakuna matata (non ci sono problemi) e le altre panzane linguistiche insegnate ai turisti per convincerli della presunta spensieratezza della vita equatoriale.

L’aria ha la consistenza di una ragnatela, il sudore mi cola lungo le gambe e grossi mosconi rovistano sul mio collo. I bambini ci guardano come se uscissero fiamme dalla marmitta del Jimny. Ognuno di loro stringe in mano qualcosa da riempire d’acqua: bottiglie di plastica tagliate a metà, taniche ingiallite, gusci di cocco. Indossano magliette arrivate dall’Europa, a volte enormi per i loro corpi esili, a volte che lasciano l’ombelico scoperto. Molte sono identiche le une alle altre, interi stock celebrativi di vittorie sportive mai avvenute e polo aziendali con loghi in bella vista. Sembra di stare in una pubblicità della Benetton anni Novanta, non fosse per la polvere, i moccichi secchi spiaccicati sui visi dei bambini e il groviglio di piante a fare da sfondo invece del bianco luminoso à la Avedon.

«È vero che in America i ricchi sono tutti secchi e i poveri grassi?»

Guardo Danson e non so bene cosa dire. Non sono lucido. Ho dormito poco, anche se sono andato a letto alle dieci. Ho fissato la paglia del soffitto di camera in cerca di risposte che non c’erano.

Di notte, a meno di non far parte della schiera di emigrati che traggono soddisfazione dal bullizzare i camerieri e le baby prostitute dei night club, a Malindi non c’è niente di decente da fare. Ci sono solo buio e rumori sinistri, maree che si ritirano per decine di metri nella pancia dell’Oceano Indiano, bolsi ristoranti dove suona musica napoletana per gente vestita di bianco. L’illuminazione pubblica non esiste, gli scooter e i tuk tuk sfrecciano nella notte disegnando ombre terrificanti nella vegetazione. Macchine ferme con i fari accesi rischiarano uomini seduti a fumare sigarette sul ciglio della strada. Le case hanno l’aspetto di teschi senza vita.

Silvana e Andrea, i due anziani signori che mi ospitano, non hanno mai socializzato molto con gli altri italiani, e io sto seguendo il loro esempio. Acquistarono un lotto di terreno ad inizio anni Novanta – all’alba del boom immobiliare di Malindi – ma si tennero fin da subito sulle loro. In giro, all’epoca, c’era poco: niente strade asfaltate, niente resort e supermercati, niente cliniche per turisti; solo qualche villa circondata da filo spinato e una burocrazia che pretendeva una tangente ogni volta che c’era da spostare un foglio di carta da un ufficio ad un altro. I villaggi nella foresta – a parte per qualche incursione della Chiesa Cattolica – rimanevano inesplorati. Con un po’ di fortuna, al mercato della mattina si potevano ancora incontrare anziani che ricordavano i bombardamenti italiani durante la Seconda guerra mondiale (sulla costa kenyota c’erano campi d’aviazione Alleati, per questo le bombe). Poi la guerra era passata, ma non gli italiani, che erano tornati negli anni Sessanta con una laurea in ingegneria e l’autorizzazione a fondare il Broglio Space Center. Una distanza dall’equatore di soli trecentocinquanta chilometri rende Malindi una base ideale per lanciare satelliti nello spazio, ma non è quello che agli ingegneri piaceva raccontare al ritorno a casa. I loro cervelli civilizzati avevano occhi solo per l’autenticità e la semplicità della vita da quelle parti, il mito del buon selvaggio contro il miracolo economico fatto di grigiore e cemento. Aragoste vive consegnate a domicilio per un pugno di lire; soldi cambiati in piazza a tassi che in banca te li sogni; Jeep parcheggiate sul bagnasciuga; autisti, camerieri, guardie armate e seconde mogli che tutte insieme, al mese, costavano meno dell’affitto di un bilocale a Milano. Su queste ricchezze – portandosi appresso il solito corredo di soldi da riciclare, furfanti abbronzati e ombre mafiose – era sorta l’ennesima Little Italy del mondo.

Silvana e Andrea sono dentro la beneficenza fino al collo, lo sono sempre stati. Hanno costruito scuole e portato quintali di farina in zone della foresta dove nessun bianco benintenzionato si era mai spinto prima; anche in questo genere di imprese Danson – il loro tuttofare – ha sempre avuto delle responsabilità. Al momento della mia visita sta supervisionando la costruzione della nuova Sabaki Village Elementary School, e non importa se il suo corpo – e i suoi occhi – non sono migliori di quelli dei suoi anziani datori di lavoro: Danson non è il genere di uomo che si tira indietro. E poi, la situazione al Sabaki Village è quella che è: il dottore è appena fuggito con tutti i farmaci – e pure il lettino per fare le visite – e nessuno sa che fine abbia fatto. Qualche mese fa, invece, è stato il capo villaggio a darsela a gambe con i soldi per il cibo, però lui era stato ritrovato perché con i soldi trafugati si era comprato una motocicletta che poi aveva mandato a sbattere contro un albero appena fuori città. Quale sia stato il suo destino, nessuno lo dice. Le cose succedono, e basta. Lo stesso Danson, nonostante la specchiata onestà, non brilla per doti da pianificatore: venuto il momento di dare in sposa la figlia primogenita, ha speso tutto quel che aveva accumulato in anni di lavoro per comprare abiti da cerimonia, quintali di riso e un’intera mucca, che poi aveva macellato all’arma bianca per sfamare dozzine di parenti con alle spalle anni di fame e languori. Finita la cerimonia, Danson aveva rimandato la moglie e i figli alla baracca senza acqua corrente né elettricità dove abitano da sempre.

***

Danson parcheggia il Jimny di fronte al cantiere della Sabaki Village Elementary School. La nuvola di polvere che si solleva aggiunge una superflua nota d’enfasi al nostro arrivo. Ad aspettarci troviamo una dozzina di bambini, e altri spuntano da dietro alberi e cespugli come bersagli del luna park. Alcuni rimangono ad osservarci da lontano, altri si avvicinano per chiedere caramelle. Danson si scrolla i capelli dalla polvere e attraversa la folla tirando finti pugni a destra e a manca. I bambini gli corrono intorno e sgomitano per farsi inseguire. Io gli vado dietro cercando di non sbattere contro nessuno. Non mi sento abbastanza a mio agio per fingere anch’io di picchiarli – ho la pelle bianca e le scarpe ai piedi – quindi mi limito a sorridere.

«Gli adulti – mi spiega Danson – sono a Malindi in cerca di un lavoro per la giornata, o a fingere di farlo. I ragazzi più grandi, quelli che abbiamo visto per strada, hanno le gambe lunghe e quindi vanno a prendere l’acqua. Le donne sfaccendano in giro e si occupano dei neonati».

Scatto qualche foto con la bramosia che solo la miseria esotica riesce ad accendere nell’uomo occidentale. Il villaggio è circondato da appezzamenti di terra rubati alla foresta che sembra che qualcuno abbia provato a coltivare, ma che poi gli sia passata la voglia. C’è una mensa con i tavoli e le panche di cemento (a prova di furto) e dei bagni con i tetti in lamiera e finestre senza infissi. Entrambi gli edifici sono bassi e stretti, simili a caserme, con le mura scrostate e sporche di terra. Le case (capanne) hanno tetti di paglia e pareti di fango assemblate su intelaiature di legno. Un uomo in occhiali da sole sta saldando una grata di ferro alla finestra violata dell’ambulatorio. I bambini più estroversi mi corrono intorno e chiedono di vedere le foto appena scattate, altri scappano a nascondersi appena li guardo. I più esagitati si mettono in pose da adulti e non si muovono finché non fisso la loro immagine in formato digitale e gliela mostro. Danson tira dritto verso l’ambulatorio. Mettere in sicurezza le medicine che arriveranno è un priorità, perché nella foresta – e pure in città – le medicine sono il bene più prezioso. Il mercato di medicinali di contrabbando è fiorente, gli approvvigionamenti scarseggiano, le speculazioni impazzano. Le farmacie sono bunker seminterrati con inferriate più spesse di quelle delle banche.

Il sogno di Silvana e Andrea è quello di fornire al Sabaki Village anche l’elettricità – sarebbe un’opera testamentaria – ma è un sogno che esiste da anni e dai molti risvolti. Non molto lontano, anni fa, un’organizzazione umanitaria riuscì a portare acqua corrente a un villaggio della foresta, un lusso che da quelle parti non si era mai visto. Corso del fiume deviato, pompe, autoclavi e grande gioia per tutti. Fine dei chilometri da fare ogni giorno con taniche e bottiglie in mano, igiene alle stelle (o quasi). Poi il fiume era straripato, e le decine di famiglie che ci avevano costruito le proprie capanneintorno – senza curarsi dei rischi – erano morte. La tragedia non aveva fatto cambiare idea ai locali riguardo bontà del progetto (abituati a veder morire gente di ogni età su base settimanale, anche senza fiumi di mezzo), ma aveva indotto alla cautela gli occidentali, che una volta in più avevano dovuto constatare che da quelle parti – dove la parola povertà non significa non possedere oggetti, ma dover arrivare al giorno dopo – il problema non è fare, ma preservare.

Ci sediamo all’ombra per parlare con il nuovo capo villaggio, appena eletto dall’assemblea degli anziani. È un marcantonio dall’aria bonaria, sembra un giocatore NBA in visita al paese di origine, ha la faccia della persona giusta che sa di essere finita nel posto sbagliato. Indossa una camicia chiara a maniche corte e un paio di pantaloni di lana; la prima cosa che ci chiede è quando arriveranno le medicine. Danson sbuffa e gesticola come un italiano, gli fa intendere che prima di vedere anche solo un’aspirina dovrà dimostrare di avere il controllo della sua gente. Il capo villaggio mi guarda come se gli fosse stato chiesto di andare a piedi sulla luna, e io fossi quello che ha la scala. Mi dice che i bambini hanno bisogno di cure, che non c’è tempo da perdere, poi ne afferra uno per un braccio come fosse un bagaglio e mi mostra i suoi occhi rossi circondati da una sostanza appiccicosa. Il bambino ci mette un attimo a correre via.

Il giorno che sono atterrato a Malindi il mio viaggio si è subito rivelato per quel che sarebbe stato: un ricongiungimento traumatico con una condizione umana priva di sovrastrutture, così diretto da farmi dubitare che tutto quello che mi stava accadendo fosse un sogno o se, piuttosto, il sogno era durato fino a quel momento. Ogni sera, nella fatica di prender sonno, ho provato ad immaginare cosa avrebbe voluto dire abbandonare tutto e venire a vivere in Kenya. Liberarmi dell’angoscia per il futuro remoto, della necessità sociale di diventare qualcuno e tornare alla radice delle cose. Mi sono chiesto se avrei fatto la fine di Marlon Brando in Apocalypse Now, o se sarei impazzito nel tentativo di replicare un altrove che da queste parti non può esistere.

Per Silvana, che lo stesso ragionamento l’ha fatto trent’anni fa, il problema non è mai stato costruire edifici o abituarsi a morti e malattie, ma accettare l’idea di non poter aiutare tutti; convivere, anzi sopravvivere, al pensiero che nel villaggio accanto a quello a cui hai appena recapitato quintali di farina ce n’è un altro con un numero doppio di bambini denutriti rispetto a quanti ne hai appena sfamati. E lo stesso in quello successivo. Una sensazione di impotenza che non va mai via, un’assenza di finale che l’uomo occidentale non è abituato a processare. L’idea che non c’è un traguardo, ma solo la corsa.

Danson mi schiocca le dita davanti al viso e se la ride quando sobbalzo. Mi toglie una zanzara dalla spalla colpendola con uno schiaffo, e la zanzara vola via illesa. Poi si alza e indica un sentiero di terra rossa che si perde nella boscaglia. Le sue braccia sono imperlate di sudore, la spina dorsale lordotica, le cosce tozze come quelle di un centometrista. Donne con ceste poggiate sulla testa ci guardano da lontano.

«Ti va di assaggiare il mango più dolce che tu abbia mai provato in vita tua?»

Le parole degli altri: Mario Benedetti

1

Nota a Per Mario Benedetti, Mimesis Edizioni

di Valérie T. Bravaccio 

 

L’impossibilità di assistere ai funerali di Mario Benedetti durante il primo lockdown da covid (marzo 2020) è all’origine del progetto del libro, perché quello era, secondo i tre curatori – Alberto Garlini, Luigia Sorrentino e Gian Mario Villalta – l’«unico modo possibile per essere presenti, insieme nel suo ricordo». Così, per ordine alfabetico, quarantacinque personalità del mondo culturale odierno rendono omaggio al poeta Mario Benedetti. Per lo più, riprendendo brevi testimonianze già apparse in rete sul blog RAI di Luigia Sorrentino . Molti altri omaggi furono espressi al momento della morte di Benedetti (vedi ad es. une autre poésie italienne. ).

C’è chi lo ha conosciuto personalmente e chi no, riproducendo proprio sulla carta, in qualche modo, l’atmosfera particolare dei funerali. Il lettore sembra invitato a osservare un gruppo di persone che raccontano, a turno, aneddoti sul suo carattere (torna spesso che egli era difficile, introverso, ecc.), sintetizzato da Stefano Dal Bianco con l’immagine del coltello e della mozzarella; oppure sulla sua propensione al silenzio: era capace di restare un’ora senza parlare al bar seduto a un tavolo con un amico, come lo ricorda Tommaso Di Dio. Ironico, quando il quotidiano La Repubblica pubblicò la sua fotografia per annunciare la morte del poeta uruguaiano omonimo nel maggio 2009: «ci rideva su» ricorda Claudia Crocco. Accanto ai ricordi di alcuni con Mario Benedetti, c’è chi lo ha soltanto letto e apprezzato (o meno). E quindi, possiamo dire che il progetto iniziale sia stato compiuto e portato a buon porto dai curatori.

Ma, secondo me, c’è qualcosa in più. Il progetto sarebbe diventato anche un’istantanea sulla poesia e il modo di analizzarla oggi. Infatti, due personalità scrivono che, con tanto rispetto, la poesia di Mario Benedetti non è piaciuta loro, giustificandosi riguardo alla storia letteraria («è una tipica poesia di fine secolo» – Roberto Galaverni) e, secondo Andrea Gibellini, il poeta Mario Benedetti è stato «un soldato che visse in una sua personalissima trincea esistenziale». Poi, c’è chi fa il legame tra l’indole dell’uomo e il suo essere poeta: è introverso perché ha la «capacità di connettere elementi e mondi lontanissimi» come afferma Corrado Benigni; il silenzio in poesia «succede a chi parla con i morti» (Alberto Garlini). Vien fatto di pensare qui a Philippe Denis. Ma, secondo Milo De Angelis, Mario Benedetti aveva la «capacità di far convergere in questo silenzio le parole degli altri». Tuttavia, Gian Mario Villalta avverte che «c’è ancora molto da dire […] sulla forma di questa poesia». Infatti, ogni poeta, come ricorda Andrea Afribo, ha la sua “cultura libresca”, pittorica, ecc., non solo italiana ma anche internazionale, che è entrata ormai (e, cita, giustamente Vittorio Sereni) «nella sua cerchia esistenziale né più né meno che come persone». Oppure, aggiungiamo noi, “seconda natura” (mettiamo, in Giovanni Raboni). A fare luce anche sulla forma, in un modo molto raffinato, è invece Jean-Charles Vegliante. Per esempio, analizzando la metrica del verso “Vedere che non ci sei più, non dire niente” Vegliante afferma che si tratta di un «trimetro hugoliano, traccia delle letture che egli amava». Infatti, come ricorda pure Antonella Anedda, da poeta come lei è, Mario Benedetti leggeva i poeti francesi perché era «in grado di farsi colpire da folate di altri linguaggi (il francese prima di tutti)».

Il progetto iniziale di riunire personalità del mondo culturale odierno per assistere virtualmente ai funerali di uno scrittore, supera le aspettative solite perché offre spunti di riflessione su come analizzare la poesia in generale. La biografia è molto importante, certo, per capire un modo di scrivere, però non si deve dimenticare che a ogni poeta piace anche (o prima di tutto) la lettura. E nel caso la traduzione, ovviamente. La traccia delle sue letture, che siano esse in lingua madre o in lingua straniera, è improntata nella sua scrittura, nel suo modo di scrivere, o stile. E non appare soltanto attraverso tematiche o reimpiego lessicale. Come un’orma nella sabbia, essa può affiorare nella metrica e nel ritmo, per tramandare il battito del cuore; l’energia vitale, appunto. La comunicazione letteraria, come afferma Vegliante, è tra «locutore (io poetico) e interlocutore (tu che stai leggendo), [i quali] si possono ritrovare allora uniti in un discorso intimamente dialogico, a volte interrotto o “a buchi” e tanto più stimolante».

 

 

 

Del solvere e del dissolvere: cartolina da Montelago

0

 

 

«[…] qualche cosa che / provenga da mutilati orizzonti immaginari

di inconcepibile / travaglio»

Emilio Villa, Sybilla (foedus, foetus)

 

È una specie di proprietà ondivaga, radicata nel travaglio, a fare delle Marche una regione intermittente, che appare e spare da ogni topografia monumentale. Ecco perché Montelago è tutto un tracimare di incontri, di storie inconcluse ma – proprio per questo – traboccanti di avvenire. Questione di Viriditas, parola centrale nel pensiero di Ildegarda di Bingen (protagonista quest’anno di un incontro tra Lucia Tancredi e Loredana Lipperini): il grande verdeggiare del possibile quando lo si pianta con misura provvisoria, come una tenda nella “terra di mezzo”.

A Montelago non c’è spazio per la fissità: luogo di fiaba in itinere, orgogliosamente pericolante; luogo d’incongruenza, del solvere e del dissolvere, di ubriacatura balsamica; luogo di medicamento, prima del mondo e poi dell’immondo, ma senza ecologismi di facciata, perché qui si è ben consapevoli di cosa comporti una moltitudine non addomesticata, una città provvisoria capace – per dirlo con le parole di Piero Camporesi – di fondere «in una sintesi vitale, creativa, deflagrante, il profano con il sacro, l’impuro col puro, l’abominevole con l’incantevole, il selvatico con il domestico, l’orto col bosco, il devoto col sacrilego, il buffone con il savio, il folle con il principe» (La carne impassibile). Una tritura di opposti che dura da vent’anni, ma che fatico a non pensare lunga quanto la storia umana: medicinale perché ossimorica, impegnata nel commercio con la terra e con il cielo; ora estatica, ora assorta in un grande sonno di bimbo arrostito al sole.

 

 

Il popolo di Montelago è, come diceva un filosofo francese, un popolo «che manca», che non esiste ancora, ricostituito volta per volta, attendato dentro il proprio orizzonte di costruzione. Ed è forse per questo che le foto più esaltanti sono quelle che riprendono Montelago dall’alto, in una prospettiva aerea dove la vertigine rovescia l’identità, e si smette di riconoscersi per trovarsi altri: moltitudine in festa, che danza senza sosta la propria rinascita.

 

 

Elogio del calciatore violento: Boban, Cantona, Zidane

4

 

di Daniele Ruini

 

Non si può esser grandi se non pensando e operando contro ragione.
(G. Leopardi)

 

Anche in questi mesi estivi durante i quali si consuma il rito del calciomercato, il calcio mostra la sua duplice natura: da un lato, un passatempo per benestanti, in cui la fanno da padrone finanza, gestione manageriale di ogni aspetto, diritti televisivi, cura tecnologica dei giocatori e prezzi (di biglietti, abbonamenti e merchandising) sempre più alti; dall’altro lato, la stessa capacità di sempre di accendere le passioni e le pulsioni dei tifosi, che –nonostante il disgusto verso un mondo gonfiato dai soldi e che ha perso identità­ e spirito comunitario– non smettono di essere emozionalmente sopraffatti ogni volta che un pallone rotola tra i piedi di 22 contendenti.

Messo anch’io di fronte a questo giano bifronte, tra repulsione e trasporto, sono attraversato dalla rievocazione di tre immagini divenute iconiche, tre momenti in cui tre grandi giocatori hanno, per così dire, rotto gli schemi, finendo al centro dell’attenzione non per meriti sportivi quanto per demeriti comportamentali. Censurati e additati come contro-esempi, le loro azioni violente mi sembra possano servire a controbilanciare il moralismo ormai imperversante nel mondo del calcio, dove i calciatori sembrano obbligati ad esibire esistenze tanto patinate quanto integerrime (potrebbe mai esserci un Maradona oggigiorno?), e dove il racconto sportivo rimane spesso soffocato tra enfasi eccessiva e tecnicismi tattici.

I tre momenti risalgono al 1990, al 1995 e al 2006: ovvero durante e subito dopo quegli anni ’90 che, tra decisioni politiche (la sentenza Bosman è del 1995), evoluzioni tecniche (con i calciatori uniformati a quell’atletismo che ha invaso tutti gli sport) e affarismo dilagante (si pensi al sempre più decisivo ruolo dei procuratori), rappresentano una spartiacque tra un prima e un dopo.

E i tre protagonisti non sono calciatori qualunque: si tratta di tre fuoriclasse che, ad un talento naturale, hanno unito una personalità non comune e un carattere facilmente irascibile.

Zvonimir Boban, 13 maggio 1990

Prima di essere uno dei leader del Milan supervincente degli anni ’90 e della nazionale croata, Zvonimir Boban è stato il giovanissimo capitano della Dinamo Zagabria, squadra con cui ha partecipato alle ultime edizioni del campionato jugoslavo prima dello scoppio della Guerra dei Balcani. E fu proprio quando le prime iniziative politiche in Slovenia e Croazia stavano dando il la alla dissoluzione della Jugoslavia che una partita di calcio calamitò su di sé tensioni che andavano ben al di là dello sport.

Il 13 maggio 1990 la Stella Rossa di Belgrado, già matematicamente vincitrice del campionato, si presentò a casa della Dinamo Zagabria, seconda classificata, ma la partita non poté nemmeno essere disputata. I supporter della squadra serba, guidati dal famigerato Arkan e reclutati tra futuri criminali di guerra, scatenarono una vera e propria guerriglia urbana, e le due tifoserie si affrontarono in campo. Vedendo la polizia prendersela soprattutto con i supporter croati, Boban, capitano ventunenne della Dinamo, rimase in campo insieme ad alcuni compagni di squadra a dare man forte ai propri tifosi; e fu in quel momento che la sua rabbia esplose e si scatenò contro un poliziotto colpevole di aver preso a manganellate un tifoso:

 

Una ginocchiata volante scagliata con la grazia di un ballerino e l’orgoglio di chi si sentiva in dovere di difendere una nazione intera dai soprusi del regime. Un atto ribelle che costò all’agente la frattura della mascella e a Boban un processo e la successiva squalifica a 9 mesi.

Éric Cantona, 25 gennaio 1995

Se c’è un giocatore che ha fatto della sua esuberanza e della sua strafottenza un marchio di fabbrica quello è proprio Éric Cantona. Della stessa generazione di Boban, figlio di madre catalana e di padre di origini sarde, Cantona è nato e cresciuto a Marsiglia. Ma con la squadra della sua città, l’Olympique, ha potuto giocare solo un campionato e mezzo: nonostante il suo evidente talento, i dirigenti non ne hanno sopportato le tante irrequietezze disciplinari (tra allenatori mandati a quel paese e risse con i compagni), spedendolo in prestito in altre squadre. Fino a quando, dopo una squalifica per aver lanciato la palla contro un arbitro, Cantona decide di iniziare una seconda vita calcistica in Inghilterra (decisione tutt’altro che scontata all’epoca, soprattutto per un calciatore francese).

Dopo una stagione con il Leeds United, con cui vinse il campionato, Cantona si trasferì al Manchester United, squadra che lo consacrò nella leggenda. Le sue giocate, i suoi gol, il suo colletto alzato e la sua mitica maglia numero 7 (la stessa che sarà indossata da David Beckham e Cristiano Ronaldo: due calciatori simboli perfetti del calcio mediatizzato e così diversi dall’anarchico Cantona) lo renderanno l’idolo dei tifosi e un’icona sportiva.

E a farlo diventare ancora più celebre fu ciò che successe il 25 gennaio 1995, all’inizio del secondo tempo di Crystal Palace-Manchester United: dopo essere stato espulso per un calcio tirato a un difensore avversario, Cantona si avvia verso gli spogliatoi e, improvvisamente, fa questo:

 

Rincorsa, calcio volante e pugno in faccia ai danni di un tifoso del Crystal Palace, reo di averlo offeso. Squalificato fino a fine stagione e condannato a 120 ore di lavoro socialmente utile, ancora nel 2017 Cantona, ritornando sull’episodio, così dichiara:

Ho detto in passato che avrei dovuto colpirlo in modo più forte […]. Non posso pentirmene. È stata una bellissima sensazione.

Una bellissima sensazione. E forse, in fondo, anche un atto di giustizia verso tutti quegli spettatori il cui massimo godimento consiste nell’offendere i calciatori in campo, compresi quelli della propria squadra. Un’usanza purtroppo diffusissima negli stadi di calcio: e allora, qual è il cattivo esempio?

Zinédine Zidane, 9 luglio 2006

Figlio di genitori algerini e cresciuto a Marsiglia come Cantona, Zinédine Zidane è stato forse il più elegante calciatore ad aver calcato un campo di calcio. Campione del mondo con la nazionale francese, vincitore del Pallone d’Oro, faro di Juventus e Real Madrid (squadra che ha poi guidato anche da allenatore ottenendo una serie di vittorie sorprendenti, tra cui tre Champions League consecutive), il fantasista francese ha più volte mostrato in campo un carattere irruento.

Tra i suoi scatti di nervi più celebri vi fu la testata rifilata a un difensore dell’Amburgo nel 2000 punita dalla UEFA con una squalifica di cinque giornate. Ma ovviamente nulla può equiparare la celeberrima testata a Marco Materazzi (trasformata in scultura dall’artista algerino Abdel Abdessemed), atto

che valse a Zidane l’espulsione in quella che fu la sua ultima partita da calciatore: la finale di Coppa del mondo del 2006 persa contro l’Italia.

All’inizio del secondo tempo supplementare, con il risultato bloccato sull’1-1, il campione francese non resiste alle provocazioni verbali del rude difensore italiano e decide di abbatterlo in questo modo:

 

Si poteva scegliere un modo più memorabile per chiudere una carriera straordinaria? Tra il bullo difensore italiano, figlio d’arte e di note simpatie destrorse, e il fuoriclasse che danzava sul pallone e che, anche dopo aver vinto tutto, non ha mai perso la rabbia di chi ha imparato a giocare a calcio in uno dei quartieri più poveri di Marsiglia… beh, non mi è mai sembrato difficile scegliere. Come ha scritto Jay McInerney, «C’è una specie di nobiltà, nell’andare al patibolo tutto solo»: Zidane è uscito di scena condannandosi alla reprimenda pubblica, eppure con quella reazione violenta si è mostrato in tutta la sua nobile fragilità. Chi ha detto che anche da questo non si possa imparare qualcosa?

Il pittore

1

di Salvatore Enrico Anselmi

 

Le rocce metamorfiche attestavano il declino del giorno come topazi grezzi, da smussare, come grandi sassi opachi che avrebbero rivelato barlumi e splendore se sfregati a lungo. La componente litica ferruginosa esaltava il colore ambrato, saturo al sole ma reso ottuso dove l’ombra di qualche nuvola s’appoggiava sulla pietra. Allora questa chiazzava, di grigio, la terra e i sassi collocati in ristagno cromatico da sordine simili a velature.

Era il momento del distacco anche da quell’infinitesimo brandello di esistenza appigliata al cielo, ventoso, e ai rami degli alberi stesi sull’orizzonte. Rami avari di foglie, dove le foglie erano strisce coriacee, tinte di verde aspro. Un saluto verso il cielo che dichiarava la sua perennità a dispetto della stagione mutevole e dell’uomo che popolava quella e le stagioni a venire.

Charles decise che fosse giunto il momento di tornare a casa.

Glielo confidava la fine della giornata trascorsa all’aperto nel tentativo di decodificare le leggi prospettiche che attribuivano l’ordine costruttivo alla sostanza cromatica del paesaggio.

Ripose i pennelli e i colori nella cassettina portatile, pulì la tavolozza e la fermò con un elastico, avvolto intorno alla custodia. Ripiegò il cavalletto, privato della tela, e lo mise sotto il braccio. Con la mano libera impugnò un’estremità non ancora dipinta del quadro e ritornò al suo alloggio.

Lì ad aspettarlo Lisa, occupata per tutto il giorno, con i panni da lavare e far asciugare su un filo di fortuna teso tra due chiodi che punteggiavano, interlocutori affilati, generatori di ombre sottili, le pareti laterali alla finestra in camera da letto.

La sollecitazione sui chiodi e l’uso della cordicella, allungata come una trappola che fa inciampare chi non solleva il piede in tempo, aveva fatto sgretolare ancora un po’ l’intonaco. Il calcinaccio era caduto sulla pavimentazione di legno, tra le fibre rugose e quasi taglienti delle travi che correvano parallele a terra. Dichiarava un’ablazione ripetuta e misurabile se confrontata col vuoto lasciato nel muro intorno alle capocchie scure dei puntelli assestati sul bianco.

«È un vero lusso poter contare sui propri indumenti intimi, tirarli fuori dalla valigia, lavarli e lasciarli ad asciugare. È un conforto il solo pensiero di indossarli, finalmente, dopo giorni di vestiti appiccicosi per il sudore. Mi sento meno sporca, se possibile»

Lisa non aveva tutti i torti considerando che da giorni non si erano fermati per più di ventiquattro ore in un posto e avevano continuato a caricare e scaricare dalle corriere i loro bagagli con ritmo parossistico.

Lisa e Charles avevano lasciato la loro casa stabile, la loro città, e il continente ritenuto civile, da almeno sei mesi per concedersi un anno sabatico: Lisa corrispondente dall’Italia per un rotocalco inglese, Charles pittore di professione stanco delle esposizioni a catena, dei galleristi e critici da omaggiare o mandare a quel paese. L’ultima personale era andata bene e aveva venduto quasi tutto. Doveva quindi tornare a lavorare liberamente per poter riempire di nuovo lo studio, riprendere gli inviti ai collezionisti e ai mercanti. La consueta trafila. Prima di cadere ancora nelle maglie dell’esistenza da artista alla moda voleva rinverdire la frequentazione, se non propriamente la conoscenza, perché ormai si conosceva bene, con il sé più libero e disinibito.

Lo faceva scrivendo i suoi pensieri in modo compulsivo su un taccuino, camminando a lungo, fino a tornare sfiancato, dipingendo, assaporando l’amore messo in vendita dove il caso lo portava o dove l’istinto del cacciatore di corpi, lo guidava, dove occhi scuri e sottili, sorrisi emaciati, teli sgargianti lo attiravano dentro case di sabbia cementata e grotte di pietra friabile.

L’amore presunto e dispensato da fattezze estranee lo allontanava ogni giorno, con maggior efficienza, da Lisa che rimaneva, nei pensieri di Charles, lontana e in controluce.

Il suo allontanarsi si era compiuto in modo progressivo, a strattoni sempre più lunghi, ma regolare e cadenzato da una strana pulsione inversa rispetto all’iniziale oggetto di accudimento e amore, la moglie.

In quel periodo la pittura figurativa andava ancora per la maggiore benché le insidie dell’astrattismo cominciassero a minare i fianchi e le certezze dei benpensanti che continuavano ad aprire volentieri il portafoglio per appendere alla parete del caminetto un rassicurante paesaggio campestre, una finestra aperta su un giardino o un tavolo sul limite ingombro di frutta e stoviglie. Avevano ancora vita dura, per innestarsi saldamente sulle pareti delle case, anche in quelle più avvedute e alla moda, le divinità esotiche che sembravano cavate dal legno a viva forza, inquadrate da tre diversi punti d’osservazione, interno-esterno, esterno-interno, animate da un demone occhiuto che cantava alle loro orecchie, provocando reazioni scomposte.

Prima del ritorno all’ordine era quello il periodo durante il quale non ci si voleva allontanare affatto dall’ordine confortevole delle forme, oggetti o esseri umani che fossero, affinché l’ordine apparente delle cose che popolavano il mondo fosse anche l’ordine costitutivo dell’arte.

Ma a guardar bene in controluce, tra gli incavi molati delle coppe dalle quali tutti bevevano, una fessurazione cingeva il cristallo. Quella soluzione di continuità combaciava con l’attimo precedente alla perdita dell’ordine, vissuto da sempre insieme come un cane da grembo sul grembo della sua padrona, come l’istinto predatorio contro la vittima, come il giallo delle patate vicino all’arrosto brunito, che catalogava, incasellandole, le cose e gli uomini, i loro sentimenti e le loro passioni, i deuteronomi, gli assiomi, le buone regole imposte dai legislatori senza vizi e recepite dagli esecutori senza qualità apparenti se non quella di applicare la norma alla fattispecie di vita.

«Finché i vasi di fiori, le montagne al tramonto, i fianchi rosa e veritieri in un nudo di donna avranno la meglio sulle facce a tre occhi e gli zigomi incavati da maschere tribali, non mi dovrò preoccupare!» – Affermava Charles con sicurezza sufficiente ad allargargli la bocca sulla faccia levigata di quel bravo ragazzo che nel contempo sembrava un figlio di buona donna. Soprattutto quando sorrideva a occhi stretti come fessure e gli si piegava la pelle agli angoli delle labbra.

Lisa replicava che i vasi si rompono, che non c’è sempre il sole al tramonto e che prima o poi le maschere avrebbero mandato in soffitta i nudi femminili con i due seni, le due braccia e le due gambe d’ordinanza.

«Dovresti saperlo che prima o poi le novità, intelligenti o dozzinali, si diffondono e scalzano il vecchio!»

Charles non apprezzò, ma sorrise lo stesso accompagnando l’inarcamento della bocca con un sospiro, uno sbuffo d’aria annoiato.

Il giorno successivo si spostarono ancora, lungo la via del deserto di sassi che diventava d’argilla più fine e sabbia, fino a Morcete, città segnata nelle carte come l’ultima prima delle grandi dune. Lì i collegamenti col resto del mondo, – posta, viveri, medicinali, carovane di beduini pagati dagli europei, – ci arrivavano ancora. E allora una volta alla settimana giungevano notizie sulla ruggente vedovanza per la morte degli scrupoli in politica interna, per il barrire delle deliberazioni economiche internazionali allo scopo di incrementare gli utili, per il grugnire ippopotamico dei grassi arricchiti, contrapposto allo stridio dei sempre più emaciati secchi digiunatori del terzo mondo alle prese con la carestia.

Raggiunse Morcete anche una carovana di Argagni, nomadi e stanziali a stagioni alterne, che avevano scortato fino a lì una missione di geografi incaricati dalla Società internazionale di rilevamento topografico, con sede a Montpellier, di ridisegnare i rilievi grafici della zona. Era un aggiornamento dovuto, sia in caso di pace, sia in caso di guerra. Si dovevano conoscere comunque bene i territori da conquistare così come quelli da cominciare a governare. La geografia non aveva bandiere, non si riconosceva in un uno o in un altro regime, non esprimeva giudizi di valore. Registrava alture, circonvoluzione dei gioghi e degli avvallamenti, letto striminzito dei corsi d’acqua, estensione delle oasi, qualità delle strade dove c’erano e opportunità di tracciarne, dove non c’erano mai state.

Tra gli studiosi, armati di tutti quegli strumenti, semoventi o statici su tre piedi, che potevano occhieggiare, misurandola, l’avanzata dei fenomeni erosivi, lavorava anche Maurice, giovane ricercatore, geografo specializzato nell’analisi dei valori igrometrici e di variazione della temperatura nei climi caldi sahariani, che allungò l’estensibile delle sue lenti anche su Lisa.

Quando una sera Lisa si allontanò per andare a cercare frescura sul lato est della massicciata posta tra un vicolo di confine e i giardini di palmizi, Maurice la seguì. In quella circostanza Lisa dimostrò a sé stessa e a Maurice che non sempre il tramonto è assolato, che un vaso fragile sin dal momento della sua foggiatura si può rompere alla minima pressione e che gli zigomi ossuti di una maschera potevano rappresentare, meglio che due guance rosee, la calata sulla terra degli dei che sovrintendono le ombre.

Maurice ne fu compiaciuto e raggiunse lo scopo prefissato, prefissato da qualche giorno, deciso come data e raggiungimento indifferibili. Deciso.

Anche Lisa aveva deliberato, senza dichiararlo a nessuno, nemmeno a sé stessa riflessa allo specchio, nemmeno all’ombra sagomata che si allungava dai suoi piedi fino alle dune più vicine, che avrebbe voluto tradire Charles con quel ragazzo, visto armeggiare da vari giorni con ignoti strumenti di misurazione.

Lisa e Maurice esaudirono i loro desideri e misero in atto le rispettive, coincidenti, deliberazioni, dapprima dentro una tenda da campo, usata come infermeria, fortunatamente rimasta vuota per la durata del loro pomeriggio di esclusiva, personale appropriazione reciproca. In seguito in una camera afosa, inutilmente arieggiata, solo per smuovere strati di aria calda su altri strati di aria calda, all’Hotel Internazionale che grondava dalla facciata, dominante il centro della città, sudore e intonaco caramellato.

Ai primi incontri ne seguirono altri, mentre Charles tentava di estorcere alle alture color topazio l’enigma nascosto della loro miscela cromatica, soprattutto quella che scendeva sui fianchi in ombra, chiazzati dall’alone più scuro proiettato dalle nuvole.

Una sera, di ritorno da una lunga sessione pomeridiana, Charles decise di fermarsi in centro, una breve deviazione dopo giorni interi trascorsi tra i sassi e le salamandre, che dalla superficie terrosa sarchiavano in cerca di ombra e acqua nascoste più in profondità, sotto i sassi.

Anche la sosta a Morcete smosse alcune pietre.

Mentre Charles spigolava con lo sguardo segni evidenti di civiltà, facendo rimbalzare gli occhi da un’insegna dipinta di fresco alle luci ammiccanti dei club aperti dagli europei stanziali, Lisa gli apparve pochi metri più avanti, di lato e solo in parte coperta da un gruppo di ubriachi che giocavano a dadi, sulla veranda dell’Internazionale.

Usciva dall’androne caramello dell’albergo avvinghiata a Maurice, per quella forza di ancoraggio persistente tra due corpi che si sono appena disgiunti e che la prudenza, le buone maniere, il pericolo d’essere sorpresi non sono sufficienti ad allentare.

Lisa si accorse in tempo di Charles, mentre Charles ebbe come l’impressione che Lisa, già distante da Maurice, se ne fosse allontanata poco prima. Forse perché l’aveva visto. Charles ne ebbe il sospetto, erano i soli bianchi, in mezzo a gente del posto, in uscita dalla veranda, anche se Maurice, appena sfilato il braccio dalla vita di Lisa, aveva scantonato verso il gruppo di giocatori e simulava interesse per il lancio dei dadi puntando due monete sul secondo rimbalzo. I dadi, surriscaldati dal fiato alcolico degli scommettitori che ci avevano alitato sopra, ruzzolavano su un campo da gioco improvvisato, una lamina di ferro smangiata dalla ruggine tenuta in equilibrio sulle gambe da due giocatori. I dadi riportavano, sul pallore delle facce, gli abituali segni scuri da un minimo di uno a un massimo di sei per ognuno, la sortita di una scommessa che poteva aggiudicare il successo al sotterfugio o rilasciare la dichiarazione di tradimento appena compiuto. L’alea del dubbio o la certezza dell’inganno, la probabile, verosimile avventura appena consumata o la casta coincidenza del trovarsi nello stesso luogo allo stesso momento per puro caso, cominciava a tracciare circonferenze concentriche intorno alla testa di Charles

Del resto Lisa come poteva conoscere Maurice già così bene dopo poco tempo dall’arrivo in città? Lisa così poco conciliante al tempo dei primi approcci anni prima? Lisa così pudica a inizio matrimonio al punto da non spogliarsi per tutto il viaggio di nozze prima di stendersi a letto? Lisa allieva impreparata alla quale Charles aveva fornito per primo i rudimenti delle regole grammaticali e del calcolo?

Ma Lisa, scaltra grazie ai sillabari, erudita dal sussidiario fornitole da Charles e resa più veloce nel conteggio sempre dallo stesso maestro, da tempo padroneggiava la sintassi delle secondarie giustificate dalle principali e inoltrava, con successo, il pensiero logico nella risoluzione delle equazioni.

Lisa salutò Charles, come se niente fosse, con un bacio, scivolato sul mento come per sbaglio, e un abbraccio fiacco.

«Sono stata tutto il pomeriggio alla sala da tè con Agnes. Sai era da tempo, da quando ci siamo ritrovate qui in città che mi voleva invitare per un pomeriggio tra signore. Abbiamo spettegolato un po’. Abbiamo parlato male degli uomini, soprattutto di te e di quel rammollito del marito che beve sempre e, sbronzo, s’addormenta col sigaro in bocca!»

«Hai un profumo aspro addosso, un profumo muschiato, maschile. Hai cambiato essenza cara?»

«Ah sì, no è il nuovo aroma di Agnes, me l’ha fatto provare. Un po’ azzardato non credi?»

«Sì, senza dubbio. Non te lo consiglio, non ti si addice»

Vezzeggiato da Lisa, narcotizzato dall’acqua muschiata che aveva voluto credere fosse davvero un tentativo azzardato da Agnes, Charles bevve fino in fondo il bicchiere improbabile di millesimato alla colonia, innaffiato con un pomeriggio, chiacchiere e tè tra signore.

Mentre sciorinava la più consueta e quindi meno sospetta delle spiegazioni per essere stata intercettata all’uscita da un albergo, Lisa sudava e, mentre sudava, credeva che avrebbe commesso un errore, un passo falso, che si sarebbe tradita come una principiante a traguardo quasi raggiunto. Ma non accadde. Mentì sorridendo e rese credibile il pomeriggio trascorso nella sala da tè a spettegolare.

Gli incontri con Maurice continuarono a ripetersi ma fuori dalla portata indiscreta di un qualsiasi conoscente che non bada soltanto ai fatti suoi o di Charles a zonzo senza meta. Si davano appuntamento in periferia dove Charles, non andava mai, oppure s’imbarcavano per due intere giornate di viaggio a ritroso verso il mondo appena più civile nella penultima città abitabile prima delle grandi dune. Qui affittavano una stanza in un alberghetto poco frequentato, certi che all’uscita non avrebbero incontrato Charles col sospetto dipinto in faccia di essere stato tradito. L’albergatore era compiacente. Dopo qualche tempo sapeva quando Lisa e Maurice sarebbero arrivati, quello che avrebbero chiesto, quanto sarebbero rimasti. Risultava chiaro che non abitassero in città e che l’unica da dove provenivano, sempre nello stesso giorno e alla stessa ora, fosse Morcete.

Preparava in anticipo la loro camera, cambiava sempre le lenzuola, lasciava sul tavolo una caraffa di acqua e pane allo zenzero, bruciava polvere d’incenso vanigliato che piantava in petto un languore dal quale si sprigionava un senso di mollezza e renitenza. Un giorno, dopo aver atteso il loro arrivo, posizionato pane allo zenzero e asperso fumo di vaniglia, assicuratosi che i due, lasciato l’albergo si allontanassero ignari di essere seguiti, gli mise alle costole suo figlio. Nadir era un ragazzino sveglio, che riuscì a piazzarsi accanto all’autista della corriera per Morcete senza pagare. Avrebbe dovuto seguire i due, tornati nella loro città, convincere di nuovo a farsi caricare su un mezzo di fortuna e riferire nei dettagli tutto quello che era riuscito a sapere. Ne seppe a sufficienza per informare il padre. Nadir accompagnò il padre direttamente da Charles affinché questi gli confermasse che l’ansia crescente nei confronti della moglie, spesso fuori casa anche per qualche giorno di seguito, era fondata perché la moglie stava mettendo in atto un tradimento in piena regola.

Charles rimase sveglio due giorni e due notti, in rovinosa meditazione su cosa fare.

Al terzo uscì presto per andare comunque a dipingere. Era alle prese con l’ennesimo paesaggio, al quale consegnare le tonalità calde delle rocce ferruginose e il verde degli alberi. Mentre Charles tentava di cavare risposte dal panorama, su come rendere il tono marcio e polveroso dei rami, il grigio terroso depositato sui tronchi e il tono scurito dalle ombre sui fianchi delle alture, l’albergatore avrebbe dovuto fare il suo per il quale aveva già intascato metà della somma pattuita: assalimento in camera per Lisa, un colpo di pistola alle spalle di Maurice quando questi avesse ripreso a misurare la regione intorno a Morcete.

Quel giorno, tuttavia, Maurice non era andato al campo d’osservazione, con una scusa circa il suo stato di salute, e aveva raggiunto l’amante in camera. Quando l’albergatore sgusciò da dietro lo stipite della porta, sicuro di dover affrontare la sola resistenza della donna, fu a sua volta aggredito dall’irruenza di Maurice che gli si scaraventò addosso. Come una palla di cannone espulsa a scoppio ed emissione parallela al terreno di battaglia, come una scheggia saltata via che perde forza e velocità solo dopo essersi conficcata.

Gli fu, a testa bassa, sull’addome e lo atterrò.

Seguì una colluttazione violenta.

I due si dimenavano nel tentativo, uno di affondare il coltello nell’avversario, l’altro di sottrarsi ai colpi, bloccargli il polso e fermare la mano. Rotolarono in una direzione e in quella opposta, con le gambe dimenate che scalciavano a mezz’aria. Mentre si rotolavano, il pavimento di legno, cigolante come una vecchia porta, assorbiva i tonfi restituendo suoni soffocati. Le imprecazioni per lo sforzo rimbalzavano sui muri impastati d’intonaco e paglia, stesi sull’anima interna tirata su coi mattoni, e venivano restituiti più fiacchi, come se la paglia e i mattoni stessi ne avessero assorbito i toni aspri che s’andavano a incagliare nel corpo vuoto dei foratini e negli interstizi della paglia. Quella decantazione sonora non ne attutiva, però, il portato violento, perché violenta doveva essere l’aggressione per guadagnare denaro, e altrettanto violenta era stata la reazione a questa, per salvare e salvarsi la vita. Due affermazioni contrapposte si contendevano, confliggenti, il centro dell’azione. In preda a una crisi d’isteria, Lisa saltò sul letto e lì rimase rannicchiata. Si portava le mani al viso, alla bocca, singhiozzava e urlava.

Nel frattempo anche Nadir entrò nella stanza.

Retrocedette quasi subito contro lo stipite della porta, impaurito perché il padre stava gridando. Schiacciato a terra Maurice fu costretto a soccombere con un braccio ripiegato dietro la schiena e l’avversario gli infilò la lama tra una costola e l’altra, la ritraeva e colpiva ancora, come se l’affondo fosse agevole e come se prima di quel giorno non avesse fatto altro per guadagnarsi da vivere.

Sembrava che non fosse abituato a sorridere ai clienti e a sgrassare dal sudicio i pavimenti delle camere, quanto invece a usare un’arma tagliente. Nella ripetizione del gesto violento non si muoveva da albergatore mezzano, non abituato alla mattanza, ma da sicario prezzolato ed esperto. Almeno per un po’.

Lisa saltò a quattro zampe sul letto e da lì sulla schiena dell’uccisore, in preda a una furia suicida. Gli fu addosso, come una gatta elettrica e pazza. Sembrò poterne avere ragione per avergli infilato le unghie in bocca e negli occhi. L’uomo tuttavia esercitò i muscoli con forza agevole per respingerla e farla cadere a terra. La testa di Lisa percosse violentemente il muro. Le caddero sopra frammenti di intonaco a pioggia e i capelli, rossi per il sangue fuoriuscito dalla ferita all’occipite, s’imbiancarono di calcinacci. Una corona farinosa le coprì la testa, una ghirlanda di brina, una calotta di neve, un’aspersione di sale sulla fronte e sulle guance. Fino alla bocca che s’abbandonava a un rilassamento malsano.

Ma anche l’albergatore, nella furia della colluttazione, s’era ferito da solo, alla coscia e tranciate di netto le vene dell’avambraccio sinistro che fiottava sangue e gli faceva perdere gradualmente la vita. Perché la vita non lo abbandonò subito e in quell’intervallo, di smarrimento agghiacciato, fu assaltato dallo sconforto, ultimativo, per essere stato tradito da sé stesso e dal suo coltello che da anni portava infilato alla cintura. Fu come il tradimento di un amico, di un oggetto fino a quel momento fedele, il voltarsi di lama, di uno strumento che non aveva mai provato a offendere il proprietario.

Talvolta il cane morde il padrone.

Nadir dovette assistere a ognuna di queste scene, a ognuno di questi commiati dal respiro, dallo sguardo, dall’azione, dal confidare in sé e negli oggetti da sempre prossimi al corpo e docili alla mano.

Rimase seduto a terra con le spalle appoggiate contro il muro e piangeva.

S’asciugava le lacrime e tirava su col naso.

Si alzò e scese le scale, uscì in strada e cominciò a percorrere all’indietro la strada che l’aveva portato lì.

Rintracciò Charles e, per dimostrare che chi doveva essere ucciso era stato ucciso, gli consegnò un ciuffo di capelli infarinati d’intonaco e l’anello che Maurice portava all’anulare destro con inciso il suo nome.

Pretese di incassare lui il resto della somma pattuita tra Charles e suo padre. E ci riuscì. La contò e la mise in un tascapane a tracolla che faceva parte della tenuta da viaggio di Maurice quando questi si tirava appresso qualche treppiede lenticolato e studiava il terreno.

«Perché sei venuto tu a prendere il denaro?» – Gli chiese Charles – «Dov’è tuo padre?»

«Oggi non poteva. Non si sentiva bene. È andato a farsi medicare una ferita alla gamba e al braccio che s’è fatto ieri. Però m’ha lasciato questo per difendermi, finché rimango solo tutt’oggi.»

E dal tascapane tirò fuori il coltello che era stato del padre. Per tagliare l’aria, mimava l’affondo tra una costola e l’altra e provava un senso di crudele soddisfazione.

Con quei soldi si sarebbe da subito comprato da mangiare: carne e formaggio di capra.

Il resto lo arrotolò dentro la camicia. Mentre camminava la cartamoneta lo solleticava sul fianco e sulla pancia. Era una sensazione nuova alla quale abituarsi. Si assestò per ridurre il gonfiore sotto il tessuto, affinché non desse nell’occhio e non rischiare che qualche ragazzino appena più grande gli sfilasse i soldi da sotto il naso.

Si sistemò di nuovo e pensò che con quei soldi avrebbe potuto comprare un paio di scarpe, due candele, zolfanelli, sapone e quello che di volta in volta la giornata da trascorrere a scuola per imparare a leggere e a scrivere avrebbe richiesto, quello di cui la trafila in una bottega, per imparare un mestiere, avrebbe avuto bisogno, quello che un lavoro da adulti gli avrebbe imposto. Gessetti colorati, una martellina con la punta arrotondata da una parte e tagliente dall’altra per lavorare il rame e l’argento dei piatti che i bianchi compravano sempre volentieri, un vestito scuro su uno sparato bianco di camicia sotto, per dimostrare come fosse già pronto per cominciare da inserviente in un grande albergo.

Dieci anni in un albergo, magari l’Internazionale, e se lo sarebbe comprato pure lui un grande albergo, con l’intonaco caramellato, una veranda intorno sostenuta da pilastri di legno bianco a traforo.

Con le scarpe nuove, il formaggio di capra che gli rimbalzava tra i denti, le candele ammollate in mano, che si scioglievano per il caldo, Nadir guardava le montagne e comprese che per imitare il color topazio spento delle rocce metamorfiche, piagate dal sole, avrebbe dovuto aggiungere un punto di grigio e un po’ di verde, il verde marcio colore delle foglie accartocciate sui rami degli alberi.

Chissà perché Messier Charles non c’ha ancora pensato? Domani glielo devo dire.

Potrei diventare un artista anch’io!

 

 

Prima fascismu, adés no sai – FEDERICO TAVAN

2
001

poesie di Federico Tavan, fotografie di Danilo De Marco

 

[dall’archivio di NI: pezzo pubblicato, nell’ambito di una carrellata di poeti friulani, l’11 febbraio 2015]

002 Federico Tavan

 

 

 

 

 

 

Adés

Prima fascismu

Adés no sai

BRUNO MUNARI Misuratore automatico del tempo di cottura per uova sode

25

DALL’ARCHIVIO: 5 Settembre 2010

 

 
Prendete un esperto giocatore di lippa e fategli calare lentamente l’uovo rosso (1) nella pentola (2) piena di acqua bollente. Voi intanto vi sarete alzati di buon mattino (grazie alla macchina per addomesticare le sveglie) e avrete legato un fiasco spagliato all’estremità di un bastone da passeggio (3), questo fiasco serve come galleggiante e, all’immersione dell’uovo si alzerà spostando il bastone che funge da leva e che si abbassa (4) premendo una lametta sul cordoncino (5).

Quattro libri – anzi sei – nel bagaglietto a mano (Bravi, Voltolini, Innocenti, Trevisan …)

0

di Marino Magliani

Ormai sui voli low cost il bagaglio consentito è quello di un piccolo trolly o di uno zainetto. Significa il necessario indispensabile, per me un cambio di biancheria e camicia e pantaloni corti d’estate, se non arrivo subito a casa, e la possibilità di poterci infilare qualche libro. Questo se torno in Olanda, mentre se torno (dovrei dire rientro?) in Italia di libri non me ne porto, leggo pochissimo in nederlandese, giusto notizie di calcio e di calciomercato, una scienza che mi appassiona fin da ragazzino, quando al posto del gelato investivo nel giornale rosa che arrivava in paese due o tre volte la settimana. Generalmente si trattava di puro calciomercato nazionale, perché gli stranieri non potevano ancora giocare da noi. Sono cose archeologiche, direte, ma di questo vorrei parlare. Di archeologia e cioè del piacere, e di certi libri che leggevo che mi davano in effetti un gran piacere, segreto, quando avevo undici, dodici, quattordici anni. Se ben ci penso succedeva qualcosa di molto simile a ciò che succede ora che a un certo punto dell’anno, prima di tornare in Olanda infilo nello zainetto i famosi tre o o quattro libri al massimo. Allora li mettevo nella valigia di nascosto, perché mia madre non accettava che  portassi in collegio dei libri a scapito di una maglia pesante (un magliani, via) e un pantalone ecc. Allora aspettavo che lei preparasse la valigia (era di un ottimo cartone, o cartone di alta qualità) e poi all’ultimo infilavo a fatica i tre libri – me li dava un amico che ne aveva una casa piena. Prima di entrare in camerata in collegio, dove non importa, li ho girati tutti i collegi, su per le scalinate, riuscivo – ognuno varcava il cancello col proprio catalogo di debolezze – a nascondere in un angolo buio i libri, perché i frati sapevano che qualcuno faceva il furbino e aveva con sé dolciumi, sigarette i più grandi, giornaletti “sporchi” i più svegli. I frati facevano, anche a distanza di giorni, una specie di “dogana” improvvisa, e prima o poi ci cascavamo tutti, tranne quelli dei dolciumi che li avevano già consumati. Per la letteratura valeva una specie di censura e le maglie, se così si può dire, erano piuttosto strette, erano ammessi più che altro i classici, ma mica tutti. Mica tutti.
Quattro cinque libri per viaggio, insomma, è una storia che si ripete. Quest’anno, il giorno 11 luglio, dall’aeroporto di Cagliari (invitato tre giorni nella favolosa Cabras) ho dichiarato alla dogana olandese cinque libri.
In ordine sparso:
Adrian Bravi, Eldorado verde (Nutrimenti);
Dario Voltolini, Il giardino degli aranci (La Nave di Teseo);
Simone Innocenti, Il mondo capovolto (Atlantide Blu);
Julien Gracq, Libertà grande (L’Orma).
Del quarto, quinto e sesto libro dirò giusto due cose alla fine.
Cos’hanno in comune questi tre libri? Il fatto di essere romanzi (in realtà Il mondo capovolto ha la struttura perfetta di un contenitore di 20 romanzi brevi, tanti sono i personaggi) e mi pare nient’altro.
Bravi è argentino, un argentino-tano, argentino italiano prestato alla letteratura italiana. Tranne il suo primo, Río Sauce, scritto in castellano, il resto dei romanzi, parecchi ormai, sono usciti in italiano. È secondo me uno dei maggiori autori anfibi italiani, nel senso che le sue trame, le sue prose, i suoi paesaggi, fanno i conti con il fiume, il lacustre, il mare, l’inondazione. E anche da qui non si “esonda”. Il fiume è il viaggio di Ugolino attraverso il mondo sconosciuto. Ugolino, ragazzo ustionato e sfigurato da un incendio nella stanza del suo palazzo veneziano, sedicesimo secolo, affronta la scoperta del Nuovo Mondo e l’avventura per rifarsi una vita, trova il fiume e l’amore, la storia, la vita e la morte di una civiltà depredata e distrutta dal nuovo arrivato: l’uomo europeo. Detto così manca il vero elemento braviano: la felicità della scrittura e l’invenzione lungo la risalita del fiume. La destinazione naturalmente è la caccia al tesoro tra colori, pesci, anse, comparse di indio e nascondigli nella foresta, navi, scialuppe, metalli, animali, donne bellissime e nude, e spade, lance, frecce, archi, capanne, giunchi, amicizia e spavento.
Il giardino degli aranci, di Dario Voltolini, è il viaggio sott’acqua di un essere umano (per restare in acqua) che a un certo scopre di avere nelle mani una fiocina e la usa. I pesci pescati sono i ricordi degli amori di un ragazzo a scuola, di un ragazzo con gli amici, di un ragazzo alla spiaggia. Non ci saranno prede, se non quella di un tempo restituito allo schermo liquido delle malinconie del pescatore, Nino Nino, che l’io narrante tratta con un affetto che ci emoziona, che ci fa tenere per lui, che ce lo fa proteggere dalle brutalità del mondo, della vita e del tempo stesso (o ce lo fa consegnare a tutto questo?), e questa voce nostra e questa fiocina che fa rumore, devono produrre davvero fischi assordanti e rimbombi e echi, che alla fine della storia vengono percepiti anche da altre anime del romanzo e della realtà e mettono Nino Nino davanti a una specie di dolce resa dei conti.
Il mondo capovolto di Simone Innocenti tratta anch’esso il tempo, concentrandolo in una sola notte, quella dell’ultimo dell’anno. Venti personaggi che si guardano attorno e vivono quel frammento che più di tutti riesce a mettere a nudo le nostre vite mostrandocene l’assurdità, come si sta lì a un certo punto di quella notte a guardare immagini di una fine dell’anno australiana già trascorsa e ad attendere la nostra dall’esterno. Devo dire che se conoscevo la scrittura di Bravi da ormai una quindicina d’anni e quella di Voltolini da almeno una ventina, è la prima opera che leggo di Innocenti e mi ha impressionato la sua capacità.
Il quarto libro è di Julien Gracq, Libertà grande,  l’autore immenso di cui avevo letto Acque strette, entrambi autografati da Lorenzo Flabbi, il mio editore.
Il quinto libro (alla dogana olandese ne ho dichiarato solo quattro, mi piace giocare al  ragazzino che nasconde i libri prima di entrare nelle camerate dei collegi) è un atlante anche nel titolo. Atlante delle isole remote. Cinquanta isole dove non sono mai stata e mai andrò. di Judith Schalansky (Bompiani, 2014). Me l’ha regalato Marco Federici Solari, e in cambio gli ho promesso un libro sulle isole liguri.
Il sesto libro è Billy Budd, Billy Budd. An inside reading (Oligo Editore, 2022) di Vitaliano Trevisan, con la postfazione di Davide Bregola. Ero stato a Mantova, nella casa di Nuvolari, ora sede della Oligo, la bella casa editrice con la quale uscirà un saggio e una traduzione di Riccardo Ferrazzi e miei racconti.
Vitaliano, a cavallo della sua moto, lungo i canali di Amsterdam.
Hi man.

Giovenale a caccia di trama

0

di Leonardo Canella

1.
Marco Giovenale è stato per me questa estate una piccola mano disegnata fra rosso e blu e giallo. Sulla copertina bianca di La gente non sa cosa si perde (Tic editore). Questa estate. Io questa estate ho visto quella manina, quei colori in quel piccolo libro che mi ero portato in viaggio. E ho sentito la vita che ci sta dentro. In quel libricino di 52 pagine che ti consiglio di prendere. Prendilo.

2.
Dentro le 52 pagine ci sono 39 numeri, da 1 a 39. Sotto quei numeri, un testo. Vai al testo 17. Trovi la parola “bananette” e poi ancora “bananeto” (venti righe sotto) e poi “banano” (quaranta righe sotto). In mezzo, tanta vita, vita che passa dal 2005 al 2011 con un lei e un lui che sono nel tempo impiegata, professore, gestore, dentista, lei fa i turni, lui il pane (in casa). Quelle sessanta righe di testo hanno una struttura definita, come vedere di un palazzo in costruzione lo scheletro in cemento armato.

3.
Una novità, questa. Affiora prepotente una trama, una struttura. Certo “dimenticarsi mentre si scrive”, mettersi al volante della scrittura senza sapere contro quale muro si andrà a sbattere. Ma un muro di contenimento – il bananeto di cui sopra – alla fine c’è:  “dunque una costante, ma se è costante è prevedibile, e se è prevedibile c’è strada in vista”. Anche se “poi si cancella, rimuove tutto il prima, o no” (idem). Per chi ci ha giocato (primi anni Ottanta) è tutto “come il vecchio snakes da pochi pixel, dissipa la parte che precede e gli si dissipa l’orizzonte avanti”.

4.
Vai a pagina 19, testo nove. Si parla di tempo e di spazio “l’incertezza che dà il tempo per me non ha uguali”. La dimensione del tempo è viva, inafferrabile: ed è viva soprattutto durante l’atto creativo, priva di coordinate, di misure (“il tempo io non lo ricordo”). Lo spazio è invece l’opposto, lo spazio è preciso e geometrico. Rispetto al tempo, vivo, lo spazio è morte, “preferirei che non ci fosse lo spazio anche se ho sempre bisogno di molto spazio”. Tu che leggi il testo 9 pensi di avere capito. Hai capito che questo è un inno alla vita fatto attraverso la dimensione del tempo. Anche io ho avuto la tua stessa impressione, ho pensato di avere capito. C’è dunque una trama nel testo, c’è un filo che si dipana dalla prima all’ultima riga. Forse in più rispetto a te che hai capito io però ho capito che proprio qui, nella sensazione di avere capito, c’è la fregatura che Marco ha messo per noi. Se hai capito vivi infatti nella dimensione geometrica dello spazio che parcellizza e misura con la mente. Sei hai capito questo testo numero 9 forse sei morto. Se invece non l’hai capito vivi di certo nella dimensione viva del tempo, indeterminata e inafferrabile. Che non si ricorda. E ricominci a leggere dalla prima riga, e sei vivo perché non hai capito. È ancora “il vecchio snakes da pochi pixel che dissipa la parte che precede e gli si dissipa l’orizzonte avanti” che hai trovato a pagina 51 (un (festo per il XXI secolo)). Non a caso, un manifesto.

5.
Ti dico quello che penso prima di consigliarti un altro testo di La gente non sa cosa si perde:  Giovenale in questo piccolo libro sta esplorando la dimensione della trama, sente che adesso ne ha bisogno, sente che ha bisogno di cercare lì. Ma sa che è rischioso perché fissare una trama, stendere un filo con cui guidare il lettore è una dichiarazione di finitudine, di limite. E in fondo di morte (per la letteratura sperimentale). Lui la pensa così, ed io la penso come lui. Forse però lui lo pensa più di me, ed io lo penso meno di lui. Un po’ diversi, apparteniamo alla stessa generazione. Marco sta dalla parte del vecchio snakes di pochi pixel (vedi sopra) che “dissipa la parte che precede e gli si dissipa l’orizzonte avanti”. Io, nelle nughette, condenso la trama e la faccio collassare. Stessa aria, aria di famiglia.

6.
Adesso vai al testo numero 7. Una conferma. Trovata la scatola di entrata Marco ti dice che “basta chiaramente poi semplicemente seguire il filo rosso e tutti gli altri”. Dato un inizio, la trama prosegue, però meno lineare. Quanto, lo decide l’autore. Un autore che è alla ricerca della trama perduta. Marco ti dice questo, lo abbiamo già visto, e ti presenta i modi con cui puoi trovare la tua “scatola di entrata”, l’inizio della tua storia: 1) “fuori dalla porta”, 2) “calarti dall’alto”, 3) “chiedere ai parenti”. Sorridi e ti viene voglia di iniziare una storia, di trovare la tua scatola di entrata. Prima però vai al testo numero 21 di pagina trenta. È poche pagine dopo.

7.
Qui si parla di metrica – veniamo alle strategie da adottare – quella metrica che è un “raffinato, tramato complesso centrino all’uncinetto venti centimetri per venti”. Su di te, che sei nudo. E c’è chi dice che stai bene “che rigoglio, che ragnatela di intrecci”. E c’è che tu pensi invece che è meglio altro. Decidi tu e poi vieni al testo 22.

8.
Se hai deciso di usare la metrica agli incontri pubblici avrai ‘regolarmente’ una purezza verticale in testa. E sarai diverso, sarai cambiato. E sarai in grado di disegnare con i contorni molto nitidi, precisi. Nitidi e precisi magari per le metrica che ti sei portato dietro. Eri un amico, lo eri perché Marco ti dice che lui rimane invece per poche idee sfocate, sfocatissime. E preferisce essere agli incontri pubblici senza piuma in testa (altro che metrica). Forse fai bene a non credergli del tutto, però il testo numero 22 è bellissimo. E malinconico.

9.
Passiamo al romanzo annunciato dal testo numero 31. Si ipotizzano due capitoli e ti aspetti di saperne di più però temi la fregatura. E cominci. Alla fine delle tredici righe sai che per te Giovenale ha ritagliato il ruolo del predatore che ha appena mangiato pezzi di romanzo. In bocca ti rimane una sapore strano, acre, di ingredienti che fanno a cazzotti dentro una stessa ricetta. La trama c’è ed è come quando vedi sull’asfalto lattine vuote e pezzi di carta e pensi alla storia che li ha portati li. Adesso sappi solo che saw, che poco prima era sandwich, inzuppa la cicloparaffina e va a controllare il termografo della caldaia. Il secondo capitolo è sintetizzato alla pagina successiva. Vai a leggerlo da solo.

10.
Mi fermo qui. Ti ho dato una chiave per interpretare La gente non sa cosa si perde. Se hai capito, forse adesso tu sai cosa la gente non sa cosa si perde. Forse la gente non sa che perde una trama alla disperata ricerca del suo autore.

Mots-clés__Vento

0

Vento
di Mariasole Ariot

PJ Harvey, The wind -> play

___

___

Da: Emily Dickinson, Poesie, trad. Massimo Bacigalupo, Mondadori, 2016

Il vento – bussò come un uomo stanco –e come un padrone di casa – “avanti”risposi arditamente – quando entrònella mia residenza un ospite rapido – senza piedi –cui offrire una sediaera impossibile come indicareun sofà all’atmosfera – Non aveva ossa per tenerlo –il suo discorrere era come la spintadi tanti colibrì congiuntida un alto cespuglio –Il suo aspetto – un’onda –le sue dita, mentre passavaprodussero una musica – come motivisoffiati su vetro tremolante –Si intrattenne – a svolazzi, sempre –poi come un uomo timidopicchiò un’altra volta – nervosamente –e divenni sola –

___

[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

Se un corpo è puntellato dagli spilli

0

ph Olivia Arthur

 

Preludio (Asturie/Leyenda) Helling, E.

 

di Mariasole Ariot

 
Si incammina lento, un corpo puntellato dagli spilli, quando gli insetti s’insinuano nel sottopelle e dalla punta più bassa del terreno arrivano alla testa: un brulichio di voci e mani a forma di pensiero, i pensieri a forma di persone, quanti volti anneriti dai tempi che non fanno spazio, corrugati per assenza di ricordo, ho un buco nella testa che è sbarrato, e la lingua non fa verso e non chiede se non una parola. Le dita conficcano le membra, questo eccesso, il troppo sensoriale della materia che non fa mai silenzio, che urla sotto e fuori dalla cute, si poggia è una membrana e non fa bordo, ancora nella nuca si spinge in verticale, poi per una circostanza si diffonde, e quante e quali madri non stingono le attese, dove le culle cadute non prevedono la vista.

Non esiste un’infanzia se non è passata,
passare non significa passato

Poi le voci e il pullulare dove e quando non esistono corolle, un fiorellino che non fora, la giovane richiesta della notte, un sonno non tormenta la quiete di un albeggio non si chiede se richiede, domandando il mandato di un’offesa – se il corpo è già qualcosa di caduto, il tutto che riposa nel contrario della mente, se mente è dire corpo se quando il corpo mente, il lungo tentativo di una resa. Il terrore del costato un po’ malconcio, la mia parola controverso si dimena da gomiti a falangi, riduce come fosse scheletrino: la vedi la latrina del timore, se affondano le cose e i tetti del cervello, un giorno maculato come bestie, insetti e quanto tempo rimandato, mi bruca nelle parti un padre senza voce che mi guarda la finestra.

Non parla la parola se non muta,
non muta la parola che non parla

E’ un tempo senza spazio, la dispercezione dell’ambiente quando le parti si disgregano e sono pezzi e brandelli di fuggitivi, le domeniche del vuoto si insinuano nella gola, esce un vaso cavo da riempire – e tu lo riempi con lo sputo di secoli a venire, un rigurgito di umanità mancata di avvenire. Poi un raggio come una freccia trapassa le tempie, senza terreni sopra la testa, capovolti come siamo a muovere le gambe roteandole a camminare nell’assenza, distesi e tesi statue di amianto, la sorte della maledizione: la disfazione dei letti, della memoria che non portiamo sulla schiena ma nell’occhio.
Non un centimetro del mio volto che tu non mi abbia fornito malato, un difetto di fabbricazione: ciò che volevi che fossi, ciò che se fosse non ero.

Non dare un germoglio all’ombra
non fare dell’ombra il tuo giaciglio

Guarda che c’é dentro qualcosa

0

di Laura Rescio

Guarda che c’è dentro qualcosa, mi dice. E io apro il libro e lo sfoglio, e non vedo niente, e lei mi dice com’è che non vedi mai niente, gli uomini non trovano mai le cose, e io mi stufo e chiudo il libro e lo lascio lì proprio per farle dispetto. Voi donne invece generalizzate sempre, dico, con un piacere perverso nel far cominciare il litigio proprio con queste parole, accusandola di fare proprio quello che sto facendo io in quel momento. Sono arrabbiato e non so perché, ma qualcosa dentro di me vuole saltarle al collo, fargliela pagare, vuole vendetta per quella sciocca frase che ha detto senza farci neanche caso, tanto è normale per lei, darmi addosso – ragiona sempre quella stessa parte di me – mentre lei si avvicina con la tazzina di caffè in mano e con l’altra – con una mano sola – tira su il libro e lo squaderna per aria, facendo frullare le pagine, così: frrrrrr e dalle pagine scivola via per terra un foglio sottile, sembra di carta velina, era tra l’ultima pagina e la copertina di cartone azzurro, e lentamente ondeggia un paio di volte avanti e indietro nell’aria e si ferma sotto una sedia. A me viene ancora più il nervoso, ma sto zitto, vedo che evidentemente ha ragione, noi uomini non troviamo mai niente e questa ne è la prova, questo foglio che è scivolato via dal libro con la copertina azzurra che ho trovato su un banchetto al mercato e portato a casa. È una vecchia edizione degli Indifferenti, e cosa vuoi che sia, penso, saranno gli appunti di qualche studente che li ha dimenticati lì dentro, felice come una pasqua di avere finito l’esame. Lei si china e lo raccoglie da terra, ha bevuto un sorso di caffè, lungo, i suoi caffè sono sempre lunghi, e li beve lentamente e li lascia sempre raffreddare, e anche questo mi dà sui nervi, vorrei dire: le donne hanno sempre delle abitudini irritanti, vogliono sempre fare le cose a modo loro, invece che come vanno fatte, il caffè dev’essere ristretto, denso, va bevuto in un sorso, non si va in giro agitando una tazzina da caffè per tutta la cucina, con la sigaretta in mano, che anche quella la fuma lentamente, poi, e la lascia più che altro bruciare, più che fumarla, lasciamo stare. Invece non dico niente e guardo indifferente la sua scoperta, che lei esamina con grande interesse e poi posa lisciandola sul tavolo. Ma io lo so che non ha visto un bel niente, è senza occhiali. Senza non ci vede un accidente. È tutta una finta.

È una specie di albero genealogico, dice, ci sono scritte delle cose, mi fa. Non ti interessa?

Ma sì, mi interessa, le dico, perché se no si offende. A me questa storia di vivere insieme mi dà sui nervi, ormai siamo sposati da quarant’anni e dopo due figli che ormai hanno anche loro dei figli non ci pensiamo neanche più, a staccarci, ma a me è sempre pesata. Ognuno ha le sue abitudini, ognuno fa le sue cose, e all’altro non interessano, oppure proprio in quel momento, per combinazione, volevi proprio stare in quella poltrona, entrare nel bagno per farti la barba, uscire sul balcone quando c’è lei e devi rimangiarti tutto e stringendo i denti per non dire niente di troppo torni indietro e aspetti per farti la barba, per bere il caffè, per farti un panino. Aspetti che lei abbia finito e con tutta calma, che guai a farle fretta. Soprattutto, da quando è andata in pensione, si è riempita di mille fisime, vuole avere tempo per fare questo e quello, non vuole correre, ha corso per tutta la vita, dice. E io da tutta la vita ad aspettare con gli occhi incollati all’orologio, a rimangiarmi le parole che vorrei dire, a sopportare per amor di quieto vivere.

Ora finisce con tutta calma di bere quell’ultimo sorso di caffè, dà un ultimo tiro alla sigaretta, si siede sulla poltrona davanti alla porta del balcone e aspetta. Vuole che mi interessi a quel foglio, ma io non dico niente, non faccio neanche un gesto per prenderlo, perché dovrei darle la soddisfazione? Non me ne importa mica niente, di quel pezzo di carta. Strano, però, sembra che ci sia sopra una specie di disegno, lo vedo da qui, dei segni colorati e confusi, lo sbircio, do un’occhiata e poi guardo da un’altra parte. Alla fine mi alzo, prendo gli occhiali nel cassetto della cucina – ormai senza non ci vedo più niente – e ignorando il suo sguardo quasi trionfante lo prendo in mano. C’è un disegno. Dietro c’è una mezza pagina scritta a mano, in una grafia rotonda, infantile. Comincia con Cara maestra.

Questa è una lettera di qualcuno, dico io. Già! Risponde lei, compiaciuta. Come se fosse una sua vittoria personale. Forse non dovremmo leggerla, dico. Lei inarca le sopracciglia. Mi casca l’occhio sulla frase:

La persona più famosa che ho conosciuto…

Senza sapere perché, comincio a inventare. C’è su un disegno stranissimo, dico. Pazzesco, tutto colorato e storto, ma anche bello, a modo suo. Dev’essere il disegno di un pazzo. Sembra un albero genealogico, ma inventato, di fantasia, con dei nomi stranissimi, inesistenti, e creature quasi medievali. Qualcuno l’ha disegnato con le matite colorate, e poi ha scritto una lettera sul retro, indirizzandola a una certa Stella. Non so perché mi esce questa storia. In realtà sul foglio non c’è niente di speciale. Un disegno fatto da un bambino neanche tanto bravo, un albero, una casetta, una donna con i capelli neri lunghi, e una letterina per la maestra.

Cara Stella, improvviso, facendo finta di leggere, da quando e poi mi interrompo subito perché mi viene il nervoso. Per lei questo foglio è solo un modo per darmi fastidio, per mostrarmi la sua superiorità, per vincere, non qualcosa che ha scritto una persona vera. Il bambino si è messo lì con impegno e ha scritto questa lettera alla maestra, magari solo perché si accorgesse di lui.

Non ti sei nemmeno accorta che c’è un disegno, non l’hai nemmeno notato, proprio tipico tuo, le dico, alzando gli occhi sopra le lenti degli occhiali. Lei mi guarda e mi fa, ma se l’ho detto subito, è un albero genealogico, non hai sentito?

Tu hai detto un albero genealogico, ma questo qui è una specie di capolavoro, guarda che disegni! Non vedi che questo l’ha fatto un artista? Saresti capace, tu, di fare una cosa del genere? Albero genealogico, dico strascicando la voce, come a farle il verso. Se c’è una cosa che la manda in bestia è quella. Le sale il sangue alla testa, lo so, ma non vuole darmi soddisfazione, quindi mi ignora, guardando fuori dalla finestra, e fa: se volessi lo potrei anche fare. So disegnare, io. E io scoppio a ridere di gusto, non lo faccio mica apposta, lo giuro, mi è venuto proprio spontaneo. Tu che non sai nemmeno tenere una matita in mano, già! Proprio tu, e ripeto ancora una volta, albero genealogico… guarda qui, dico, puntando l’indice sul foglio, qui c’è tutta una dinastia di personaggi dai nomi assurdi, improvviso. Mi vengono dei nomi inventati, Clericogianni Antibale, comincio a elencare, Veromilia Ogliastra… ora è lei che scoppia a ridere, con questi nomi proprio strani, e poi i disegni, continuo! Sono veramente assurdi, pazzeschi, ci dev’essere voluto un sacco di tempo per disegnare tutto con la matita, queste armature, queste uniformi, questi serpenti araldici, questi sfondi di prati verde smeraldo ed elmi piumati rosso rame, queste squame e questi fiori con moltissime sfumature. E tutto questo nel piccolo, su una carta velina sottilissima. Ma chi avrà disegnato tutto questo, mi domando. Mi sembra quasi di vederli, i disegni. E di nuovo giro il foglio e continuo a far finta di leggere, forse nella lettera ci sono delle spiegazioni, dico.

Cara Stella, da quando mi trovo qui dentro senza speranza di poter mai uscire e mi blocco. Vedi, questo dev’essere stato un carcerato, è l’unica spiegazione, per questo aveva tanto tempo.

Lei guarda fuori dalla finestra fingendosi annoiata. Mi fa imbestialire questo atteggiamento, e vorrei che almeno per una volta dicesse qualcosa, e questo tesoro che inizialmente non avevo nemmeno notato ora è diventato mio, e voglio difenderlo a spada tratta, voglio che venga notato, che ne venga riconosciuto il valore. …il tuo pensiero è l’unica cosa che mi permette di sopravvivere. Che ingenuo, dico, pensa un po’ questo qui, chiuso lì dentro a sperare che una donna, là fuori, lo aspetti. Non conosce le donne, dico, e mi metto a ridacchiare, mentre lei gira la testa di scatto verso di me, mi guarda male, poi si alza, va al lavandino e si mette a lavare nervosamente la tazzina e le altre cose che ci sono dentro, già dalle spalle si capisce che è arrabbiata, e forse era proprio questo l’unico risultato che volevo ottenere, perché lei mi dà sui nervi e allora perché non dovrei renderle pan per focaccia?

Sono ritenuto pazzo. Ah, allora non è in carcere, è proprio un matto, continuo a inventare, infatti questi disegni qua chi li fa, se non un pazzo? E poi quelle parole, quei nomi così strani, chissà da dove li avrà presi. Quando sarai grande lo capirai. Intanto, qui dentro, disegno un libro per te. Disegno perché è tutto quello che so fare, è quello che ho fatto per tutta la vita, e ancora questo non sono riusciti a togliermelo. Ormai ho preso l’abbrivio e non so come fermarmi.

Un giorno, quando io avrò finito la mia vita qui dentro, questo è proprio drammatico, eh, ma chi lo dice che ci passa tutta la vita? Magari migliora e esce prima… se mani compassionevoli lo troveranno, qui in manicomio, raccoglieranno questi fogli e te li trasmetteranno. Io non posso farteli avere, perché sono circondato da nemici. E dagliela, faccio, questo è un paranoico, ho capito, ecco perché non può mai uscire. Questo è uno che passa giornate intere davanti alla TV e guarda tutti i programmi, soprattutto quelli del pomeriggio, e spesso lo mettono in isolamento perché litiga violentemente con gli altri se vogliono vedere altri programmi in televisione. Una volta ho intravisto Regina Maria, dice, ma pensa un po’, sproloquio, questo qui parla della De Filippi, è chiuso in manicomio e la sua fissazione è la televisione, e per via di questa fissazione lo chiudono in una cella isolata senza TV e va ancor più fuori di testa. Così si è messo a fare questi bei disegni dettagliati e colorati, tutta una genealogia che si immagina tra i personaggi della TV, e gli attribuisce anche dei titoli nobiliari di fantasia, tipo arciduca del Dragone e contessa Piscinefredde, sul retro della lettera che sta spedendo a questa Stella. Da dove mi vengono queste idee non lo so neanch’io. Devo essere un po’ matto anch’io.

Ho smesso di far finta di leggere ad alta voce. Anche di ridere. Lei è ancora in piedi davanti all’acquaio, ha smesso di lavare le tazzine, ma non si gira, è di cattivo umore.

Non vuoi sapere che cosa c’è scritto, le dico. Ho appoggiato il foglio sul tavolo, girando il disegno verso il basso. Ci tengo sopra una mano. No, non lo voglio sapere, mi fa. Voglio sapere perché t’ho sposato, ecco cosa voglio sapere.

Lo vorrei sapere anch’io, penso, ma non dico niente. Mi tolgo gli occhiali e li appoggio accanto al foglio. In fondo al foglio c’è una firma, è firmato professor Innocenti, dico, ma guarda, avevo un professore che si chiamava così, a scuola. Ma è morto da un sacco di anni, e non sapeva di sicuro disegnare. Chissà chi era questo povero cristo, dico.

Ma quanto parli, dice lei. Fa’ un po’ vedere questo foglio, su.

Io me lo nascondo dietro la schiena. No, dico, ora non te lo faccio più vedere. Lei cerca di strapparmelo di mano, e io mi diverto a tenerlo in alto fuori dalla sua portata, gioco un po’ così con lei, ma sei scemo, mi dice, dammelo, voglio vederlo anch’io, voglio vedere i disegni! No, non te lo do, prova a prenderlo, dico, scansandomi di qua e di là, e poi alla fine lo appallottolo e lo faccio volare fuori dalla finestra. Guardiamo la pallottola di carta stropicciata che scende lentamente oltre i terrazzi e va a finire in un sottovaso dalla signora del primo piano.

Lei mi guarda. Ha gli occhi pieni di lacrime.

Non so perché anche a me viene quasi da piangere.

Caldo

1

di Fabio Rodda

 

Posso farcela. In ospedale, mi dicevano di concentrarmi su ogni singolo muscolo, di immaginarne le fibre, di comandare i movimenti a ogni porzione di corpo: cominciare dal piede. Prima al mignolo, poi alle altre dita. Al metatarso, alla pianta, al tallone. Poi alla caviglia, al polpaccio, alla tibia e al menisco. Solo dopo, alla coscia e daccapo con l’altra gamba, finché non sentivo muoversi tutto nella mia mente. Per ultimo, il comando al bacino che doveva dare la spinta.

Ci vuole solo un po’ di concentrazione. Solo un piccolo sforzo e sarò giù dal letto e allora potrò trascinarmi di là, vedere cos’è successo. Concentrati, Omar. Guarda lo specchio, sei deciso, non hai paura, sai che puoi farlo: una spinta e giù da questo letto.

*

Faceva caldo, tanto caldo: il tempo era cambiato, da anni le estati erano diventate insopportabili. Lo dicevano spesso anche alla tivù, giù al bar, che c’erano i giovani che protestavano perché il clima stava cambiando, che avrebbe fatto sempre più caldo e che i mari si sarebbero alzati e chissà quali disgrazie stavano per accadere. Chissà se era vero. Sicuro, era più che vero che gli inverni erano diventati autunni e tutte le altre stagioni estati, come mai si era visto, in valle. Mario entrò al bar: «senti ti, che roba. Mai fat sto cald a maggio.»

«Te ha reson, Mario. Vara che l’è quasi mezzodì, non l’è ora di andare al campo.»

«Tranquilo Nani, vae giusto a dar n’ocio; guardo che sia tutto a posto e poi casa.»

«Va ben, no sta a far laori, che te ha otanta ani.»

«Sempre manco de ti, son sempre più giovane, Nani.»

E aveva messo in moto il treruote che caracollava lungo la strada di cemento appena rifatta dal Comune, scendendo verso la valle, dove non ci abitava più nessuno, se non lui con la sua famiglia.

Il campo era a posto, Mario aveva fatto il giro controllando bene sotto le foglie di lattuga, vicino alle teghe e alle zucchine. Niente danni, le trappole per topi sparpagliate qua e là vuote: o le talpe si erano fatte furbe, o faceva troppo caldo anche per loro. Stava per rimettere in moto l’Ape, quando sentì il rumore di una macchina che si avvicinava lungo lo sterrato. Sbuffò, scese dal piccolo abitacolo e si avvicinò al capanno di legno, quattro assi messe su alla bell’e meglio un cinquantennio prima, che incredibilmente avevano attraversato come gli alpini in Russia il gelo degli inverni, quando ancora nevicava e tutto poi si trasformava in un mondo bianco e silenzioso. Prese il bottiglione di clinto, versò due bicchieri e si sedette sulla seggiola di fili grossi di plastica verde attorcigliati a uno scheletro di ferro arrugginito.

«Buondì, Giuseppe.»

«Buongiorno, Mario.»

«Vara che te ho versà ‘l vin, ti ho versato un bicchiere, anca se te se ‘n gran rompicoglioni.»

«Mario…»

«Alla tua salute, Giuseppe.»

«Non dovrei, sono in servizio con la macchina del Comune.»

«Gnanca mi dovarie, nenach’io dovrei, sono vecchio. Dis al dotor. Dai bevi e dime, che so già.»

«Mario, è la terza volta che vengo a casa tua e non mi apri. Son dovuto venire qua. Lo sai perché, giusto?»

«Certo. Parchè te se ‘n rompicojoni.»

«Mario…»

«Dai dai, Giuseppe. Son drio scherzar. Lo so, lo so che che te vol. Ma te ho già dita, te l’ho già detto, che non ho bisogno di niente. Me son sempre rangià. Mi arrangerò ancora.»

«Ma Mario, da quando anche Omar… sì, insomma. Prima tua moglie, adesso tuo figlio che a stento si muove. Perché rifiutare una mano dal Comune?»

«Parchè voialtri avè da farve i cazzi vostri. Atu capì? Vi dovete fare gli affari vostri, che io ho ottant’anni e ho sempre badato alla mia famiglia da solo. E ades? Oleu che? Cosa volete? Venire a casa mia a dirmi cosa devo fare?»

«Ma no, Mario. Si tratta solo di servizi di supporto, un infermiere un paio di volte la settimana. Per vedere se è tutto ok, se va tutto bene»

«Volete venire dentro casa mia a dirmi come mi devo comportare con mia moglie e mio figlio. E invece no, Giuseppe, te pol tornar dal sindaco e dirghe ch’el se ciave. Atu capì? La me fameja l’è roba mea. È roba mia. Mia fatica, miei soldi, mai chiesto niente a nessuno. Io lo so cosa volete, davvero.»

«E, cosa mai potremmo volere, Mario?»

«Vegner a casa mea a comandar. Venire a dirmi che non va bene il bagno così e che serve questo e quello e farme ‘ndar via perché in valle non ci vive più nessuno. Volete mandarmi via.»

«Nessuno vuole mandarti via da casa tua, Mario.»

«Te se ‘n conta bale. Sei un bugiardo. Sono anni che venite a dirmi che devo andar via. E mi te dis che l’è l’ultima olta che te beve n’ombra co mi, se te gnen ‘ncora a romper i cojoni. Valo ben? Va bene, Giuseppe? Son drio innervosirme. Quel dio!»

Mario aveva asciugato i due bicchieri col fazzoletto rosso che teneva sempre attorno al collo, aveva chiuso la baracca col grosso lucchetto e aveva messo in moto il suo trabiccolo, mentre la macchina del Comune si arrampicava a fatica lungo lo sterrato che riportava alla Provinciale.

*

Una valanga: il mio corpo che mi crolla addosso, io che non riesco a respirare, né a muovermi in nessuna direzione. Dovevi cadere dall’altro lato del letto, testa di cazzo che sei. Sono riuscito a girarmi, lentamente, ad avvitarmi su me stesso fino a ritrovarmi di nuovo a pancia in su. E ho respirato a fondo. Ho alzato la testa fin dove riesco e ho visto il casino in cui mi sono messo: le gambe attorcigliate una sopra all’altra, quasi sotto al letto a sinistra; a destra l’armadio; dietro, il muro. E adesso, come esco da quest’incastro? Vedo la stanza, la luce filtra dalle persiane socchiuse, non c’è nessuno. È successo qualcosa, maledizione, e io non so come diavolo spostarmi da questo buco in cui mi sono andato a incastrare, testa di cazzo che sono.

*

Mentre tornava a casa, a Mario era salita una gran rabbia e aveva deciso di fare il giro largo, prendere la provinciale e andare a farsi un bicchiere in paese, prima di rientrare. Tanto aveva tutto il tempo per tornare e far da mangiare per Maria e Omar. Per imboccare sua moglie e portare il piatto in camera a suo figlio, aiutarlo a mettersi seduto, appoggiato ai tanti cuscini e lasciarlo mangiare in pace prima di portarlo in bagno e di lavarlo e, insomma, tutte le solite cose che riempivano i suoi pomeriggi da anni, dall’ictus di sua moglie e dal maledetto incidente di suo figlio. Il bar, a quell’ora, era pieno di gente che non conosceva: i suoi coetanei, ormai pochissimi, erano già tornati alle rispettive case dopo la briscola e adesso quello era territorio dei giovani, dei disoccupati, degli immigrati perdi tempo che saltavano il pranzo fra un bicchiere di bianco e uno spritz. Entrò, e con grande sorpresa vide ancora Nani, seduto al suo solito tavolino che leggeva il giornale.

«Fatu che, ‘ncora qua? Vara che dopo no te se pi bon de tornar a casa.»

«Ere drio ‘ndar. Stavo andando. Ma ti? No te era ‘ndat al campo?»

«Sì, ma i me ha fat girar i cojoni e son vegnest via. Mi hanno fatto arrabbiare. Fon n’ombra e te porte a casa col triroe. Un bicchiere per calmare il nervoso.»

«Va ben, Mario. Elo chi che ‘l te ha fat rabiar? Chi è stato?»

«Asa star, nesun. Un mona.»

Faceva veramente caldo quel giorno, e l’Ape rimasto sotto al sole pareva una lamiera incandescente.

«Senti che roba, setu mat a ‘ndar in giro co sto coso? Ghe sarà tzinquanta gradi la entro.»

«Tasi Nani e salta su. L’è calt, sì. Masa calt. Troppo caldo, oggi.»

Fecero le poche centinaia di metri che separavano il bar in piazza dalla casa di Nani, l’unico amico che gli era rimasto in paese e che ancora aveva la fortuna di camminare bene, come lui. E anche di avere una moglie e un figlio che stavano in piedi da soli. Salutò Nani e fece ciao con la mano a Gisella che era andata ad aprire la porta, girò l’Ape e ripartì verso lo sterrato che riportava giù in valle.

*

In ospedale facevamo gli esercizi anche per le braccia. Riprenderai quasi tutta la funzionalità, dicevano all’inizio. Poi, il cinquanta per cento. Poi il venti. Praticamente non riesco a sbucciare un’arancia. Figurarsi fare leva per ribaltarmi in avanti. Per fortuna c’è spazio sotto al letto: le gambe non sono bloccate. Con un po’ di strattoni, posso girarle, poi buttare il busto avanti e riuscire a mettermi supino senza soffocarmi, poi posso trascinarmi fino alla porta. Cazzo, la porta. E come la apro quella porta?

*

Quando rientrò in casa, Mario, fu accolto dal solito silenzio. Solo il ronzare del vecchio frigorifero in cucina rompeva il nulla che lo avvolgeva. Entrò in camera. Maria lo guardava. Sorrise appena.

«ciao Maria. Tut ben?»

La moglie accennò un movimento degli occhi.

«me lave le man e te fae da magnar. Pasta al pomodoro, va bene?»

Lo stesso gesto a rispondere.

«ti apro gli scuri, così te riva ‘n sciant de sol. Un po’ di sole in faccia. Poi te li chiudo, che se no finisci arrosto co sto cald, valo ben?»

Lo stesso su e giù, lo stesso sorriso grato.

Mario aprì le persiane e un fascio di luce planò sul viso di sua moglie, che strizzò gli occhi. Mario rimase lì un po’ per capire se a Maria facesse piacere quella luce o se il sole, così feroce quel giorno, potesse darle fastidio. Lei sorrise ancora e suo marito uscì dalla stanza lasciandola inondata dai fasci solari. Maria aveva avuto un ictus un paio d’anni prima. Era rimasta completamente paralizzata e per un po’ i medici pensavano che non sarebbe uscita dal coma. Invece, dopo poche settimane, era sveglia e del tutto presente, ma chiusa in un sarcofago che non poteva comandare. Festeggiò il suo settantasettesimo compleanno in ospedale. Le infermiere portarono il prosecco e tutti brindarono. Anche Maria, a cui il marito aveva versato qualche piccolo sorso di vino in bocca. Mario aveva bestemmiato iddio e tutta la sua stirpe con più veemenza di quanto avesse fatto in tutta la sua vita di grande smadonnatore dell’alto Veneto. Maria riusciva a muovere solo gli occhi e, col tempo e l’aiuto del personale dell’ospedale, aveva reimparato a usare la bocca per sorridere e mangiare se imboccata. Aveva tolto il sondino e Mario aveva persino pregato che ritrovasse la parola. Ma non era stato ascoltato. Lui e suo figlio impararono a comunicare con Maria osservando i movimenti che faceva con gli occhi e la bocca. Era diventata routine, tutto diventa routine nella vita degli uomini. Per un anno buono, lo aveva aiutato Omar, suo figlio, cinquantenne scapolo e mai uscito di casa. A lui interessavano solo il bar e correre con la moto sugli sterrati della valle. Finché un sasso girato dalla parte sbagliata non aveva messo fine alle sue scorribande notturne. Mario l’aveva messo a letto nella sua stanza e non l’aveva mai perdonato per avergli buttato addosso quest’altra croce, a quasi ottant’anni. Poi, anche quella era diventata normalità, la sua normalità. Due bocche da sfamare, due culi da lavare. Lunghe giornate in silenzio, mentre aspettava di dover far qualcosa per quello che restava di sua moglie e di suo figlio.

*

La porta, la porta, la porta. Come ho fatto a non pensarci? E adesso? Il telefono è di là, in corridoio. Oltre la porta. Mamma, di là, in camera. Mario? Tutto è al di là di quella maledettissima porta.

*

Faceva veramente troppo caldo, quel mercoledì di metà maggio. Mario entrò in cucina con una strana sensazione addosso, come di nervoso, di ansia. Una stretta in basso, allo stomaco, che gli faceva far fatica a tirare il fiato. Cominciò ad affettare una cipolla, si avvicinò alla dispensa per prendere la bottiglia d’olio e quando alzò il braccio una fitta lo lasciò immobile, allibito di quel dolore così forte e improvviso. Si strinse il polso destro con la mano sinistra e portò le braccia al petto. Stava per gridare dal male, quando una seconda fitta, ancora più potente, lo ammutolì. Stramazzò a terra fra la stufa nera e il tavolo di formica verdastra. L’ultima cosa che vide fu il riflesso di quel sole malefico sul linoleum del pavimento e i piedi di ghisa della cucina economica. Poi, il buio.

*

Devo essermi addormentato. Ho sete. Dagli scuri socchiusi non filtra più luce, devo aver dormito tutto il pomeriggio. Ho sete e devo andare in cesso. Fa caldo, maledettamente caldo. Chissà che ore sono. Potrei gridare. Ma chi mi sentirebbe? Non c’è niente e nessuno attorno a questa stamberga. Non c’è mai stato nessuno. Come aprirò quella maledetta porta? Non ha mai fatto così caldo, da queste parti.

 

Da “Istruzioni politico-morali…”

0

…all’indirizzo dei nostri giovani poeti sul reperimento e assimilazione dei concetti dei nuovi è un volume Diaforia, uscito nel 2021, con una bandella di Nathalie Quintane.

.

di Michele Zaffarano

.

12

Sei performante.

Sei attivo.

Se sei attivo è perché partecipi alle attività.

Partecipa alla costruzione del senso.

Partecipa a quell’attività che è la costruzione del senso.

Anticipa il senso della costruzione del senso che poi troverai costruito.

Fai domande sul senso.

Per anticipare il senso fai domande sulla costruzione.

Devi essere performante con il senso.

Quando sei performante con il senso non ti precipiti dentro il senso a testa bassa.

Dentro il senso individua i punti di orientamento.

In mezzo al senso esercita il tuo orientamento.

All’improvviso ti orienti seguendo le indicazioni di comportamento che immagini in mezzo al senso.

Le indicazioni di comportamento te le ritrovi a disposizione sul posto.

Ti devi sentire a tuo agio con le indicazioni di comportamento che trovi.

Ti devi trovare perfetto nella tua performance.

Il tuo scopo è ottenere uno sguardo d’insieme sul campo del senso.

Il tuo scopo è adottare uno sguardo d’insieme sul senso.

Adotta uno sguardo d’insieme.

Affronta l’insieme del senso.

Cerca i passaggi in mezzo al senso.

Usa le strategie.

La performance si produce perché tu usi le strategie.

È grazie alle tue strategie se localizzi i passaggi che passano in mezzo all’insieme del senso.

È questo che ti deve interessare.

Sono i passaggi attraverso l’insieme del senso che ti devono interessare.

Ci sono dei passaggi che sono essenziali.

Ci sono dei punti di orientamento che sono essenziali.

Devi cercare dei punti di orientamento che ti aiutano a rimettere assieme il senso.

Imprègnati di punti essenziali.

Pensa che i punti essenziali non bastano mai.

Secondo i tuoi calcoli i punti essenziali passano grosso modo in mezzo al senso.

Non perdere tempo sulle questioni di dettaglio.

È tutto grosso modo.

Non perdere tempo sulle questioni di dettaglio.

Passa tutto il tempo a recuperare i passaggi in mezzo al senso.

Solo quando avrai capito la costruzione del senso potrai tornare alle questioni di dettaglio.

La costruzione del senso la capisci come ti pare.

Segui le tue strategie.

Devi capire il motore della costruzione.

Non lasciare perdere.

Non fare quello che cade dal pero.

Non dimenticare.

Non divagare.

Dentro la performance devi essere molto ben informato.

*

13

Sei molto performante.

Per localizzare i passaggi che ti interessano usa delle strategie.

Imprègnati con comodo delle idee generali.

Non perdere tempo sulle questioni di dettaglio.

Devi essere ultraperformante.

Adàttati al terreno.

Àpplicati in maniera flessibile.

Devi essere flessibile.

I tuoi modi non sono soltanto flessibili.

I tuoi modi sono anche solidi.

I tuoi modi sono anche abili.

I tuoi modi possiedono una certa abilità.

Però non comportarti sempre allo stesso modo.

Tutto dipende dall’importanza delle situazioni.

Tutto dipende dall’importanza che dài alle situazioni alle quali ti stai adattando.

Tutto dipende dalla costruzione delle situazioni.

Magari sono situazioni di primaria importanza.

Magari sono delle situazioni d’importanza relativa.

Magari è qualcosa che appartiene agli agglomerati.

Quando devi giudicare l’importanza delle situazioni compòrtati in maniera ragionevole.

Applica il tuo giudizio.

Opera dei giudizi.

Opera delle distinzioni.

Non comportarti sempre nello stesso modo.

Modifica i tuoi modi secondo le difficoltà delle situazioni.

In certi momenti rifletti in fretta.

In certi momenti rifletti lentamente.

In certi momenti i tuoi giudizi devono essere parziali.

In certi momenti assumiti interamente la responsabilità dei giudizi.

Photomaton: Rino Bianchi

0

Molta forza

di Francesco Forlani

nota pubblicata su Focus-in, a proposito del reportage di Rino Bianchi su Cassino.

Nella ventennale corrispondenza con Rino Bianchi non c’è mail, messaggio, scambio che non si sia concluso con questa formula: molta forza. A tutti i fotografi, grandi professionisti, che io abbia potuto incrociare sul mio impervio cammino di fabbricante di riviste letterarie, ho riservato una figurina, un avatar in grado di esprimerne la quintessenza; a Philippe Schlienger la carta del giocatore, a Salvatore Di Vilio quella del maratoneta,  mentre a Rino ho assegnato, da sempre, quella del gladiatore.

Ecco perché quel suo mantra, forza che dà per scontato il coraggio, gli corrisponde ed è forse questa sua qualità che vuol dire determinazione, generosità degli sforzi, studio, a farne il migliore dei ritrattisti di scrittori, insieme all’editore fotografo Giovanni Giovannetti. In tutti i progetti che ci siamo in questi anni scambiati, le nostre riviste Sud e Focus In, o la sua magnifica invenzione della Residenza delle narrazioni, come rarissime figurine Panini, in giro per l’Italia, Rino ha sempre proposto immagini di grande energia, generalmente in bianco e nero ma senza disdegnare il colore, come in questo caso per il suo fotoracconto di Cassino e dei suoi alentours.

In questi tempi da stato d’eccezione, schiaffeggiati da venti di guerra e pandemie, abbiamo rivisto nei servizi di cronaca la figura dei corrispondenti, inviati al fronte, dei reporter di guerra. Rino pur imbracciando la sua macchina come un’arma e vestendo all’americana, con l’attenzione al pratico muoversi tra festival e luoghi quasi dimenticati, è un fotoreporter di pace. Con precisione e dovizia di particolari dei conflitti, Rino legge gli scrittori che fotografa e generalmente si sceglie quelli che ama sulla pagina. Soprattutto riesce a tradurre in segni e forme il discorso interiore, mantenendone intatta la natura, il carattere.

Questa è la ragione per cui molti miei amici scrittori, uomini o donne che siano, vogliono che sia lui a rendere al meglio l’immagine di un cartellone o di una quarta di copertina. Suo è per esempio il ritratto di Helena Janeczek che abbiamo proposto sia in bianco e nero che a colori. Il lettore si troverà, ne siamo sicuri, davanti a due fotografie diverse pur trattandosi, tecnicamente, della stessa immagine. In questo sta la sua grazia, la sua capacità d’intuizione, la stessa che gli fa dire ogni volta: molta forza, ci vuole, aggiungiamo noi.

«L’anno dell’alpaca». Diario di un viaggio e di una pandemia

0

di Antonella Falco

Giammarco Sicuro, L’anno dell’alpaca. Viaggio intorno al mondo durante una pandemia, Gemma edizioni, 2021

Ogni libro è, a suo modo, un viaggio. Alcuni, però, lo sono un po’ di più. Perché di un viaggio raccontano e del viaggio si nutrono. Sono quei libri attraverso le cui pagine riesci a sentire l’odore dei luoghi, il gusto del cibo, finanche il coraggio e la forza che nascono dalla paura. Sensazioni che diventano ancora più intense se quella che leggi è una storia vera e non il frutto della fervida fantasia di uno scrittore che ha viaggiato solo con la testa, restando comodamente seduto alla sua scrivania. Tale vivida sensazione si ha ad esempio leggendo L’anno dell’alpaca. Viaggio intorno al mondo durante una pandemia di Giammarco Sicuro, inviato speciale della redazione Esteri del Tg2.

Il racconto inizia e si dipana nel periodo più tragico della pandemia, quello in cui essa ha inizio, cambiando radicalmente le nostre vite e determinando in tutti noi una forte incertezza nei confronti del futuro. Forse proprio per questo motivo i fatti vengono narrati in modo leggero e per quanto possibile spensierato, a tratti surreale. In questo diario di viaggio, per certi versi un moderno libro d’avventura, lo stile brillante e godibile è sorretto da una vena ironica e autoironica che consente all’autore di non soccombere dinanzi alle tragedie che la realtà del momento gli pone sotto gli occhi.

Eppure tutto questo non è cinismo. Lo sguardo di Giammarco resta profondamente umano e fortemente empatico, sensibile al dolore delle persone – specie le più fragili e indifese – e degli animali, rappresentati in questo libro da un alpaca e un lama, denominati rispettivamente Isabela e Esmeralda. L’elemento surreale è costituito proprio dal rapporto con questi due animali di peluche con cui l’autore si trova a dialogare. Acquistati come souvenir per essere regalati alla nonna, al ritorno dal viaggio, diventeranno, prendendo fatalmente vita, i fedeli compagni di lunghi mesi trascorsi, spesso in solitudine, lontano dagli affetti più cari.

Giammarco Sicuro si ritrova infatti con questi due peluche in Perù nel momento in cui in Italia la situazione precipita e il governo decreta il lockdown generale, con conseguente sospensione dei voli, cosa che rende difficoltoso il rientro in patria. Con l’ultimo volo disponibile Giammarco riesce a raggiungere la Spagna, Paese dove rimarrà bloccato per più di due mesi, raccontando da lì – unico inviato Rai in terra spagnola – il diffondersi della pandemia.

È l’inizio di un viaggio intorno al mondo che si concluderà otto mesi dopo. Dalla Spagna dei primi casi accertati, che tuttavia non ha saputo fare tesoro di quanto, qualche settimana prima, era accaduto in Italia, alla Corea del Sud, diventata un modello di gestione del virus, fino al Messico e al Brasile, dove la politica negazionista di Bolsonaro provoca una crescita esponenziale del numero degli infetti e delle vittime, la narrazione procede secondo un tempo che non è quello cronologico:  una scelta stilistica che serve a conferire “movimento” e vivacità al racconto (la successione non diacronica dei fatti fa sì che in ogni capitolo ci si ritrovi in un Paese e in un mese diversi, a ricostruire l’esatta cronologia aiutano però le date, riportate sempre nel sottotitolo), una sorta di montaggio molto cinematografico, con salti temporali in avanti e all’indietro  (d’altra parte Giammarco, a giudicare dal fatto che diverse sono le occasioni in cui nel libro si parla di film, ha tutta l’aria di essere un appassionato cinefilo) che consente di introdurre i personaggi in modo più accattivante per il lettore, ossia “in medias res”, permettendo di scoprirli gradualmente e progressivamente man mano che il racconto procede.

Alcuni di questi personaggi, per la loro spiccata personalità e per la vividezza dei ritratti che di essi fornisce Sicuro, assurgono al ruolo di veri e propri coprotagonisti. È il caso, ad esempio, dei vari “producer”, i collaboratori locali, spesso giornalisti del posto, che lo affiancano nelle sue trasferte da un continente all’altro. C’è Mariano, l’operatore che lavora con lui in Spagna, un argentino irascibile e insofferente all’autorità (si accapiglia quasi sempre con gli agenti di polizia, ma anche, per incompatibilità caratteriale, con Joaquin che è il montatore), ma spassosissimo quando prende bonariamente in giro Giammarco o gli rifila consigli non richiesti sulla sua vita sentimentale o puntualmente si addormenta al volante.

C’è Miriam, una specie di “generalessa” dal piglio deciso e autoritario, giornalista brillante e stakanovista, che affianca Giammarco in Messico e si approfitta un po’ troppo del suo portafogli, regalandosi al ristorante lauti menù abbondantemente annaffiati da vino o birra perché tanto «paga lui». E la dolce Joelma, assurdamente buona, remissiva fino all’inverosimile, capace però di tirar fuori grinta e artigli di fronte ai soprusi degli irritabilissimi agenti di polizia brasiliani, energumeni armati fino ai denti cui tiene coraggiosamente testa.

E l’imperturbabile Jay, il collaboratore sudcoreano, che perde le staffe solo l’ultimo giorno del loro lavoro insieme, quando Giammarco, scherzando, gli propone di sconfinare in Corea del Nord attraverso un fantomatico varco nella rete che delimita la “terra di nessuno”, la zona demilitarizzata, fra le due Coree.

L’anno dell’alpaca ci aiuta a comprendere il modo in cui ci siamo rapportati alla pandemia, passando attraverso fasi diverse, dall’iniziale tendenza a sminuire il pericolo, al graduale cambiamento dei nostri comportamenti, che ci ha visto prendere confidenza con delle misure (l’uso della mascherina, il distanziamento fisico e tutto l’insieme dei protocolli di sicurezza) che in un primo momento ci apparivano strane o esagerate mentre ora sono parte integrante della nostra quotidianità e testimoniano quanto grande sia la capacità di adattamento dell’essere umano anche nelle situazioni più gravi e complicate.

La lettura di questo libro permette anche di riflettere sul diverso approccio alla pandemia messo in atto nei vari continenti: dalla scelta, propria dei Paesi asiatici di chiudere tutto e sacrificare la privacy e i diritti individuali in nome del contenimento del contagio, e quindi del bene collettivo, a quella, adottata da Donald Trump negli Stati Uniti, ma diffusa anche in diversi Paesi del Centro America, Messico in primis, e nel Brasile di Bolsonaro, improntata a un negazionismo che considera cinicamente la morte degli individui più fragili ed esposti al virus (anziani, persone con patologie pregresse, fasce povere della popolazione) come il male minore, preservando così le attività economiche dalla crisi conseguente all’instaurazione di un eventuale lockdown generalizzato.

Due modalità di gestione della pandemia a loro modo spietate e spregiudicate, dinanzi alle quali l’Europa ha cercato di mantenere una posizione equidistante in grado di conciliare l’irrinunciabile necessità di contenere il dilagare del contagio con l’osservanza dei basilari principi di rispetto e solidarietà umani, uscendone in un primo tempo apparentemente sconfitta. Il modello che sembrava rivelarsi vincente sul piano della profilassi era infatti quello sudcoreano, mentre sul piano della prevenzione di una probabile crisi economica sembrava dare frutti incoraggianti il cinico modello trumpiano.

Un altro tema importante che emerge dalla lettura del libro di Giammarco Sicuro è quello riguardante le tribù indigene dell’Amazzonia, e in particolare il tentativo, operato dal governo brasiliano, di utilizzare il Covid-19 come una vera e propria arma per decimare, o comunque indebolire, le tribù locali, al fine di sottrarre loro le terre, disboscare sempre più ettari di foresta e destinarli alla coltivazione intensiva della soia – di cui i latifondisti amazzonici sono diventati i primi produttori al mondo – da piazzare poi sul mercato internazionale, in primo luogo quello cinese.

Tali tribù, ridotte ormai a poche centinaia di individui, sono infatti molto spesso vittime di soprusi da parte delle forze dell’ordine brasiliane, che compiono incursioni nei loro villaggi, minacciando e contagiando gli indigeni, i quali quando si ammalano, non ricevono dallo Stato alcuna assistenza. La scomparsa di queste minoranze etniche comporterebbe la perdita di un rilevante patrimonio linguistico e culturale: in pratica scomparirebbero per sempre le peculiari etnie che da tempo immemorabile abitano, in totale simbiosi con la natura, la rigogliosa foresta amazzonica.

L’anno dell’alpaca è un testo prezioso anche nella misura in cui ci permette di venire a conoscenza di alcune gravi degenerazioni etiche consumatesi all’ombra della pandemia, come quella accaduta al confine tra Messico e Stati Uniti, dove migliaia di donne e uomini messicani hanno varcato il confine per donare plasma a delle multinazionali la cui sede, non a caso, è ubicata poco oltre la linea di confine tra i due Paesi.

A questi messicani era consentito varcare tale linea anche durante il periodo pandemico, quando il confine restava chiuso per tutti gli altri. Le multinazionali del farmaco pagavano queste prestazioni in base al numero di donazioni: i messicani ricevevano il denaro solo dopo aver subito cinque prelievi, qualora avessero sospeso le donazioni prima del quinto non avrebbero avuto diritto ad alcuna ricompensa. In altri casi erano previsti pagamenti più alti se ci si fosse presentati in compagnia di un’altra persona disposta a donare anch’essa il proprio plasma. Così il numero dei prelievi cui un messicano si sottoponeva nell’arco di un anno risultava superiore a cento, ossia più del doppio di quelli consentiti dalla legge italiana, cosa che comportava notevoli rischi per la salute dei donatori.

Quella denunciata da Giammarco Sicuro nel suo libro è una delle tante modalità attraverso cui, in situazioni di emergenza, il mondo ricco ha sfruttato il mondo povero al fine di procurarsi una risorsa che, specie in quel momento, era considerata di fondamentale importanza in quanto gli emoderivati, come ad esempio il plasma iperimmune, erano ritenuti dei validi alleati nella lotta contro il covid.

Leggendo il libro ci rendiamo conto anche di come l’economia di sussistenza brasiliana sia retta fondamentalmente dalle donne, quindi la crisi pandemica ha fatto emergere il ruolo centrale della figura femminile in Paesi che spesso vengono considerati meno emancipati dei nostri Paesi occidentali. Un aspetto, questo, che dovrebbe farci riflettere su società che riteniamo arretrate, dove invece il ruolo della donna è molto più centrale e importante di quello a cui vengono relegate le donne nelle nostre società cosiddette “avanzate”.

Non sorprende, inoltre, che il libro abbia ottenuto il patrocinio dell’Unicef, poiché tante sono le storie di bambini in esso contenute, da quelli che a causa della pandemia hanno visto peggiorare enormemente le loro condizioni di vita a quelli che grazie alla propria inventiva hanno saputo mettere in atto forme di riscatto sociale o trovare piccole ma importanti soluzioni per far fronte all’inconsueta emergenza.

Il volume fornisce inoltre numerosi racconti, curiosità e aneddoti che farebbero la felicità di un appassionato di antropologia culturale, scopriamo, ad esempio, che in Bolivia feti imbalsamati di lama vengono seppelliti, in funzione beneaugurante e apotropaica, ai quattro angoli delle fondamenta di una casa in costruzione o che in Corea del Sud la pesca è affidata alle haenyeo, dette anche madri del mare, «la cui attività è da tempo riconosciuta come patrimonio dell’umanità dall’Unesco», queste abili pescatrici, alcune delle quali molto anziane, si immergono in apnea sfidando con estrema calma le acque gelide e agitate dell’oceano. Scopriamo inoltre che una delle prelibatezze locali è il sannakji, «piatto tipico coreano a base di nakji, un piccolo polpo servito ancora vivo e tagliato in piccoli pezzi. Di solito, viene condito con olio di sesamo e quando arriva in tavola, è ancora in grado di dimenarsi».

L’anno dell’alpaca riesce a toccare diversi registri: fa riflettere e commuovere, ma anche sorridere e, a tratti, ridere di gusto per delle esilaranti e tragicomiche disavventure occorse all’autore, come l’incontro scontro con Nancy (che non è detto sia una ragazza!) in Perù, o l’ingresso tutt’altro che trionfale nel nuovo appartamento madrileno, messo a disposizione dallo zio di Joaquin, dopo che Giammarco era stato costretto a lasciare il precedente appartamento per le proteste dei condomini che mal gradivano le sue uscite quotidiane in pieno lockdown (e vaglielo a spiegare che lui godeva di un permesso stampa!), o il grottesco resoconto dei quattordici giorni di quarantena imposti dal governo sudcoreano.

La pandemia come sfondo, come basso continuo, di un diario di viaggio che racconta anche  molto altro e, fra il molto altro, c’è il ritratto, a volte intimo, di un uomo che il caso ha fatto trovare dall’altra parte del mondo mentre l’Organizzazione mondiale della sanità decretava l’inizio di una devastante pestilenza globale, ma che poi ha scelto di esserci per raccontare, malgrado il flagello della malattia abbia lasciato tutti sgomenti, inermi e smarriti dinanzi all’incognita di un futuro ignoto.

D’altra parte, «la storia esiste solo se qualcuno la racconta». Sono le parole, citate in esergo a uno dei capitoli del libro, di Tiziano Terzani, nume tutelare, assieme a  Ryszard Kapuściński, del giovane inviato Giammarco Sicuro, che forse avrà tremato, almeno un attimo, rendendosi conto di trovarsi al cospetto della Storia, quella con l’iniziale maiuscola, ma non si è sottratto alla doverosa necessità di testimoniarla. Con lo spirito di chi affronta una missione e la consapevolezza di chi si scopre, pur in mezzo a un’epocale tragedia, privilegiato. Con il sorriso, che non lo abbandona neanche nei momenti più cupi e drammatici, e con un alpaca e un lama nello zaino.

ANAGRAFE NAZIONALE ANTIFASCISTA Con Alika muore l’umanità

0

dalla newsletter dell’⇨ ANAGRAFE NAZIONALE ANTIFASCISTA
 
di Maurizio Verona
 
Presidente del Parco Nazionale della Pace
Sindaco di Stazzema
 
Nelle ultime ore è morto un uomo, è stato ucciso un uomo, un marito, un padre.
Aveva 39 anni ed era nigeriano.
Ucciso dall’indifferenza di chi ha pensato di filmare invece di intervenire, di chi minimizza perchè era solo un immigrato.
Io voglio ricordarlo con il suo nome Alika Ogorchukwu assieme a lui a morire è stata la civiltà, è stata l’umanità, si sta uccidendo la convivenza, l’uguaglianza .
Ogni anno che passa torniamo indietro, si distrugge quello che abbiamo costruito.
Pensate alla parola ACCOGLIENZA, oggi è percepita in maniera negativa, accogliere una persona in difficoltà oggi non è visto come un gesto umano positivo, i leader politici oggi fanno campagna elettorale sul RIFIUTO.
Viene da pensare a quei luoghi che nel mezzo della guerra seppero accogliere, proteggere, dividere il pochissimo che c’era facendo poche domande.
Oggi parlano di orribile omicidio, di indifferenza agghiacciante, ma sono le stesse testate televisive che poi invitano i leader che armano questi criminali.
Abbiamo la possibilità di peggiorare, siamo sulla strada giusta per andare incontro alla tragedia della umanità.

cinéDIMANCHE #22 GEORGES PEREC Les lieux d’une fugue [1978]

0

 

DALL’ARCHIVIO: 5 Aprile 2015

 

[ sottotitoli ITA trad. O. Puecher ]

Les lieux d’une fugue in Je suis né
Édition Du Seuil Paris [1990]

Musica da Robert Schumann
KREISLERIANA op.16 [1838]
Fantasie per pianoforte

 
GEORGES PEREC

da W o il ricordo d’infanzia [1975]
 

Non so dove si sono spezzati i fili che mi collegano all’infanzia. Come tutti, o quasi tutti, ho avuto un padre e una madre, un vasino, un lettino, un sonaglietto, e piú tardi una bicicletta che, a quanto pare, non inforcavo mai senza cacciare urla di terrore al solo pensiero che intendessero alzare o perfino togliere le due piccole ruote laterali che mi davano stabilità. Come tutti, ho dimenticato ogni cosa dei miei primi anni d’esistenza.
 
La mia infanzia fa parte di quelle cose di cui so di non sapere granché. Pure, è dietro di me, è il terreno sul quale sono cresciuto, fa parte di me quale che sia la mia tenacia nell’affermare che non mi appartiene piú. Per molto tempo ho tentato di stornare o mascherare queste evidenze, chiudendomi nello status innocuo dell’orfano, dell’ingenerato, del figlio di nessuno. Ma l’infanzia non è nostalgia, né terrore, né paradiso perduto, né vello d’oro, forse orizzonte, punto di partenza, coordinate a partire dalle quali gli assi della mia vita potranno trovare il loro senso.
[pag. 19]
 
Io non so se non ho niente da dire, so che non dico niente; non so se quello che avrei da dire non viene detto perché è l’indicibile (l’indicibile non si rintana nella scrittura ma è quello che, molto prima, l’ha scatenata); so che quello che dico è bianco, è neutro, è segno una volta per tutte di un annientamento. [pag.52]
 
I ricordi ormai esistono, fugaci o tenaci, futili o grevi, ma niente li addensa. Sono come quella scrittura slegata, composta di lettere isolate incapaci di saldarsi fra loro per formare una parola che fu la mia fino all’età di diciassette o diciotto anni, oppure come quei disegni dissociati, scompaginati, i cui elementi sparsi non riuscivano quasi mai a collegarsi l’un l’altro, e con cui, all’epoca di W, diciamo tra gli undici e i quindici anni, ricoprii interi quaderni: figure che niente univa al terreno sul quale avrebbero dovuto poggiare, navi con le vele non legate agli alberi, né gli alberi legati allo scafo, macchine di guerra, ordigni di morte, aerei e veicoli dai meccanismi improbabili, gli ugelli disinseriti, i cavi interrotti, le ruote che giravano a vuoto; le ali degli aerei si staccavano dalla fusoliera, le gambe degli atleti erano staccate dal tronco, le braccia separate dal torso, le mani non garantivano presa. [pag. 83]

Rizzoli, Milano, 1991
trad. Dianella Selvatico Estense

cinéDIMANCHE
 

cdNella pausa delle domeniche, in pomeriggi verso il buio sempre più vicino, fra equinozi e solstizi, mentre avanza Autunno e verrà Inverno, poi “Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera“, riscoprire film rari, amati e importanti. Scelti di volta in volta da alcuni di noi, con criteri sempre diversi, trasversali e atemporali.

Maria Borio: “in un sogno diventavo un corpo di medusa”

0

 

 

Ciò che può unire l’operazione sonora e l’operazione immagine dipende

dalla ricerca dell’energia letterale della superficie.

J.-P. Courtois

 

Zacinto Edizioni ha recentemente pubblicato l’undicesimo  titolo della collana dei Manufatti poetici: Prisma, di Maria Borio.

Ospito qui un estratto dal libro.

 

Nella quarta dimensione

 

Primo tipo di figura – spirale. Secondo tipo – cerchio.

Aumentando la frequenza – rombo. Quarto tipo – parallelepipedo

in bidimensione, tridimensione… chiudi gli occhi e sei nella quarta.

Chi ha davvero il coraggio di essere sé stesso?

 

In un sogno diventavo un corpo di medusa e la vita interiore

poteva mostrarsi attraversata da frequenze, vedevo tutti

membrane elastiche di un eidofono e i pensieri

erano immagini di bidimensione, tridimensione,

 

trovati insieme nella quarta… Dove siamo autentici?

All’improvviso mi sento così giovane, ho la testa appoggiata

al finestrino di un autobus, dietro il sedile una gomma da masticare

fa un fiore rosa e secco. Tutto vibra. È notte:

 

ultima corsa. Il finestrino sbatte, il cranio in gola,

la saliva densa, ogni parte più contratta nel farsi

che nella parola vibrazione – forse vibes, tagliando

e al plurale – strategie, innocenza?

 

L’autobus scende a picco, il bosco nasconde frasi, il Tevere

sa di… / tiber / le frequenze legano a un filo di caucciù.

Se avevo la testa in su dicevo: ok boomer, non voleteci male.

Se la testa era in giù: ok, lasciateli scrivere sul sedile BUFU

 

o ACAB – voi chi avete rifiutato? Poi l’autobus va in piano e ho già

sedici anni, rimbalza sul ponte e sono già a diciotto, quando cambia

marcia tintinna – By Us Fuck You. Li sentite?

Nel fiume i gattini hanno strappato il sacco –

 

Ci sentite? –, vent’anni e l’ansa era stretta – da queste parti

affogano sempre i cuccioli? Ma quelli risalivano la corrente sotto la luna

Sentite? – trent’anni e scendevo… – Sentite? Puoi proteggere?

Animali e perdono corrono nel bosco.

 

 

La strega di Caracas

0

di Oreste Verrini

Il pranzo è alle battute finali; le pietanze sono state servite con cura, impiattate con gusto e attenzione, la stessa che abbiamo messo nel mangiare, con vorace dedizione, quasi ne andasse della nostra vita. Athos è un ottimo cuoco e non lasciare nulla nel piatto è stato il nostro modo per rendere omaggio alla sua competenza.
I caffè, serviti in bicchieri di vetro, con l’immancabile sambuca ad addolcirne il sapore, arrivano al momento in cui la conversazione è virata, nemmeno ricordo il perché, verso l’Uruguay.
E trovarlo il perché non è affatto facile; infatti, una volta saziata la fame più grossa, quella che fa tacere le voci e suonare la melodia di forchette, piatti e bicchieri, le chiacchiere tornano a essere protagoniste e spesso navigano, proprio come una nave alla deriva, senza una meta o un filo conduttore a tracciarne la rotta. Vagano, come è giusto che sia, tra un ricordo e un’affermazione, un dettaglio e una conferma, senza fretta, per il piacere di raccontare ma preferibilmente per ascoltare. Si narra di luoghi del mondo come se fossero i paesi incontrati lungo la statale che dal passo dei Carpinelli porta a Lucca: Montevideo, Buenos Aires e magari Guaiana Francese, Santiago del Cile in un parallelo impossibile con la Nuova Guinea e Auckland, si susseguono e sostituiscono senza alcuna fatica Roggio, Camporgiano, oppure San Romano e Villetta. Talmente abituati a ricordarli, a menzionare storie ed episodi accaduti nei quattro angoli del mondo da trovare così naturale citare le vie, gli alberghi e i ristoranti e la toponomastica di luoghi per molti, e il sottoscritto è tra questi, così lontani e remoti da sembrare fantastici, quasi fossi dentro una storia de Le mille e una notte.
E così di Uruguay finiamo a parlare, attratti dalle descrizioni di Renzo, impegnati a immaginare un grande altopiano pianeggiante, mandrie di bovini e un paese fermo alla metà del 1900 dov’era facile incontrare immigrati italiani affezionati al ricordo della patria lontana e contenti di poter parlare con chi, in Italia, continua a vivere. La parola, l’immagine, il riferimento casuale in grado di accendere il ricordo di una storia arriva improvviso, come sempre del resto. Sono gli occhi a tradirne l’arrivo, si vedono splendere di una luce diversa.
«Vi ho mai ‘conto la storia della bruja?» dice Renzo, piegandosi in avanti, quasi stessimo cospirando.
«La bruca?» ribatto sorpreso.
«Non la bruca, la bruja, la strega. È spagnolo» ribatte, sorridendo e felice di avere una nuova storia mai raccontata prima.
Anche Athos annuisce e sorride, ci sta che lui la conosca, ma dal suo modo di fare, dal silenzio pieno di attesa non è facile capire quanto ricordi e quanto gli piaccia ascoltare.
«Mai» ribatto pronto, la testa che scrolla da una parte all’altra.
«Si andava a mangiare da La Bionda» ricorda Renzo, lo sguardo fisso e la mente ai ricordi lontani.
«Il vero nome non lo ricordo, solo La Bionda. Ci si andava così spesso che era come sentirsi a casa. Un giorno, mentre si chiacchierava le chiesi se lì, in paese, ci fosse qualcosa da fare, da vedere. Senza però precisare a cosa alludessi. La donna, una donnona di quelle energiche, vitali, mi squadrò da capo a piedi, certo voleva valutare la mia prestanza, poi annui, più a sé stessa che a me. Mi fissò dritta negli occhi e mi disse: ‘Ci sarebbe la bruja, la strega. Se te la senti’, concluse. Certo che me la sentivo e la curiosità era tanta, e già mi figuravo entrare in un antro buio, con ombre vive, inquietanti, ragnatele ovunque e magari un enorme paiolo, affumicato, con un fuoco rosso vivo a cingerlo attorno, quasi una corona. La più classica delle streghe nella più classica delle ambientazioni».
Renzo ferma il racconto, sorseggia il caffè, assapora l’aroma che sale dalla tazza. La pausa a effetto ci sta, crea attesa, incuriosisce. Viene quasi voglia di solleticarlo, di fargli fretta. Magari è proprio quello che cerca: che il pubblico chieda di proseguire e si roda nell’attesa. Infine, riprende: «Immaginavo una strega, una vera strega, perciò potete capire la delusione che mi colse quando ci trovammo di fronte, dico trovammo perché andai accompagnato oltre che da La Bionda da un altro marinaio, una donnina minuta, tutta curva, seduta su una sedia, proprio davanti all’uscio di casa. Se ne stava immobile, gli occhi chiusi e la nuca appoggiata al muro. Dormiva o forse meditava, non saprei dirlo. La Bionda ci presentò, dicendo che eravamo venuti per vedere el miracle. La nonnina aprì gli occhi e ci osservò. Occhi neri e vivi, non acquosi come spesso accade ai vecchi. Erano vivi e vigili, attenti. Veri occhi da strega. Quelli sì che un po’ mi fecero tremare. ‘El miracle?’, disse con una vocina gentile, delicata come un fiore. Annuii seppure di quel miracolo non sapessi alcunché. A dire il vero non sapevo nulla di quello che eravamo venuti a fare. Solo che la nonnina era la strega più improbabile al mondo e che la situazione sembrava per lo meno surreale. Certo, io di streghe non ne sapevo nulla, di miracoli ancora meno, ma di situazioni imbarazzanti sì, e quella sembrava esserlo. Forse la bruja percepì il mio disagio, il mio scetticismo, non so. O forse fu solo un caso che si rivolgesse a me. Mi disse: ‘Raccogli un legnetto, uno qualsiasi qua attorno’. Aggiunse: ‘Per favore’. ‘Un legnetto’ mi dissi, ‘e per fare che?’, però mi chinai e cominciai a sondare il terreno in cerca di un legno che meritasse di essere raccolto.
Lo cercai a lungo, più di quanto meritasse la ricerca. Infine, lo vidi, un piccolo stecco, secco da poter essere spezzato con un movimento leggero delle dita. Mi rialzai e glielo porsi certo che lo avrebbe rifiutato, chiedendomi di cercare meglio, che quello stecco non andava bene per una strega. Invece mi sorrise, un sorriso gentile, leggero quanto quel pezzo senza vita. Lo strinse tra le dita della mano destra, il pollice e l’indice, e iniziò a strofinare il legno con un movimento circolare. Sembrava lo accarezzasse, come si potrebbe accarezzare il viso di un neonato, con delicatezza e attenzione. Aveva smesso di guardarci, però sorrideva e nel farlo sembrava stesse masticando delle parole, come se le fossero rimaste in bocca e non riuscisse a inghiottire. Il movimento era ipnotico e ben presto i nostri occhi furono fissi sul pezzo di legno secco e il movimento delle sue dita. Quando vidi apparire quella che sembrava una foglia sobbalzai all’indietro, quasi una mano mi avesse afferrato alle spalle tirandomi» e mentre lo dice, fa lo stesso gesto tirando indietro la schiena. Manca poco che sobbalzo pure io.
«Ma non solo la foglia: continua ancora pochi attimi e quella che parve una gemma cominciò a prendere forma. La strega, non c’erano più dubbi su questo, stava riportando alla vita un legno ormai secco. Avevo la bocca aperta, non una parola, solo infinito stupore. Il mio amico invece si era tappato gli occhi con entrambe le mani e ripeteva, seguendo il ritmo delle carezze: ‘Non voglio vedere queste cose, non voglio vedere queste cose, non voglio vedere queste cose’». Renzo tace, ci fissa e dice: «Ve lo giuro è, come se accadesse ora. La bruja aveva riportato la vita, ecco in cosa consisteva il miracolo».
Pure io non so che dire, come se stesse accadendo anche ora e assistessi senza trovare una spiegazione. L’unica cosa che riesco a fare è mormorare parole sconclusionate e senza senso, vorrei fare domande, ma non trovo modo di mettere in fila qualcosa di decente. Athos invece riesce a farne, su tutto; è incuriosito dalla scelta dello stecco, dai gesti della donnina, dalla reazione dell’amico marinaio, da come giustificò l’accaduto La Bionda.
«E mica lo giustificò» risponde Renzo, «affatto». Disse che la nonnina parlava con tutti gli esseri del creato, animati o no, non aveva importanza. E questi le davano ascolto e per quanto potevano cercavano di esaudire i suoi desideri. Nel paese lo sapevano tutti e lo accettavano, quasi fosse una cosa naturale.
Renzo non aggiunge altre parole, sarebbero superflue, forse di troppo e spezzerebbero il clima creato. Aveva conosciuto la bruja, l’aveva vista all’opera, lo aveva raccontato, lasciando il pubblico, noi, con la bocca aperta. La degna conclusione di un ottimo pranzo in famiglia.

 

NdR Questo testo di Oreste Verrini fa parte della raccolta “Chiamatemi Marconi – Storie di mare”, edito da Edizioni ETS (2022), nel quale Verrini e Athos Bigongiali hanno riunito i racconti di Renzo, ufficiale marconista partito dalla remota Garfagnana, entroterra della provincia di Lucca, per «vedere il mondo» e vivere tante avventure come Simbad il marinaio.

Il mondo offeso genera libri

0

di Romano A. Fiocchi

Giovanna Vignato, Senza una stella sopra la testa, Edizioni del Mondo Offeso, 2021

Ivan Bormann, Il tempo non ha una storia, Edizioni del Mondo Offeso, 2022

 

Lo spirito è quello della Libreria degli Scrittori nella Mosca postrivoluzionaria. Quando, racconta Michail Osorgin, per far fronte all’impossibilità di stampare libri si arrivò addirittura a produrre esemplari unici scritti a mano, purché la letteratura potesse ancora raggiungere i propri lettori. Ma è anche lo spirito intraprendente di Sylvia Beach e della Shakespeare and Company, la libreria che ebbe il coraggio di pubblicare a Parigi, in lingua originale inglese, un testo che nessun editore voleva: «Ulisse», di cui ricorre proprio quest’anno il centenario.

È dunque con questa vocazione, che sottende una visione critica nei confronti del conformismo e dell’appiattimento culturale di certa editoria, che la Libreria del Mondo Offeso è diventata anche casa editrice. Sottolineo anche, perché la libreria milanese, che prende emblematicamente il nome da «Conversazione in Sicilia» di Vittorini e il logo da «Tristano muore» di Tabucchi, mantiene comunque la sua funzione fondamentale: continuare a vendere libri. Si tratta insomma di una sorta di ampliamento della sua offerta culturale, un modo per far sentire la propria stessa voce tra i libri che propone ai lettori.

Il progetto non aspira certo a invadere il mercato, non ne avrebbe né i mezzi né l’ambizione. E non è questo lo scopo. Mira piuttosto a pubblicare un paio di titoli all’anno che per stile e contenuto siano in coerenza con la visione del “mondo offeso”. Questa è in fondo l’arte dell’editoria, direbbe Calasso, ossia la capacità di dare forma a una pluralità di libri come se essi fossero i capitoli di un unico libro. Libri comunque di narrativa e, come tali, che raccontano delle storie, storie belle.

È così che nel novembre scorso è uscito Senza una stella sopra la testa di Giovanna Vignato. L’ho letto in anteprima, quando era ancora un manoscritto da digrossare con l’editing, come si dice in gergo. Ed è certamente una bella storia. Come sfondo un villaggio di confine, case con i gradini di pietra, vetri alle finestre fissati al telaio con morbido stucco rosso, personaggi diafani, molti dei quali hanno radici nella Galizia austriaca e formano un tutt’uno con l’atmosfera. Che è un po’ magica e un po’ mitologica, come se appartenesse a un non-luogo, o meglio: un luogo immaginario ma verosimile, una Macondo proiettata nelle montagne del nostro estremo Nord-Est. Clusizza, così si chiama il villaggio, è disabitata e invisibile, priva di zenit, ossia “senza una stella sopra la testa”. I Clusacchi, i suoi abitanti, parlano la dolce lingua clusacca, e lavano e rassettano accuratamente le proprie case prima di lasciarle per sempre.

Ma se il romanzo della Vignato è certamente un testo suggestivo, quello del regista triestino Ivan Bormann è di un’originalità straordinaria. Il tempo non ha una storia è un “romanzo brevissimo” –come recita la prima di copertina – scritto in presa diretta, quasi un flusso di coscienza. Volendo fare qualche parallelo: il «Tropico del Capricorno» di Miller, il «Tristano» di Tabucchi, oppure ancora il «Malone» di Beckett. Quello di Bormann è un girovagare nella Storia del Novecento come nella foresta ariostesca, incontrando personaggi inattesi che però qui sono realmente esistiti e hanno fatto la Storia politico-culturale di Trieste e dell’Istria: Guido Keller, Vladimir Gortan, Ligio Zanini, Wanda e Marion Wulz, Angelo Cecchelin, Giovanni Gianone detto Johnny, Bobi Bazlen, Claudio Magris, sino a un’immagine fuggevole dello stesso D’Annunzio.

L’impaginazione di Il tempo non ha una storia – con carattere da macchina per scrivere, ovvero un Courier appositamente modificato – creda l’effetto indovinatissimo di un vecchio ciclostile. Ai capitoli si alternano immagini fotografiche in bianco e nero proiettate in un tunnel, su pagine nere di un’eleganza alla Franco Maria Ricci e, al tempo stesso, di un’inquietudine che lascia il segno. È un romanzo circolare che non solo parte da Trieste e torna a Trieste, in tutti i sensi città di frontiera, ma che inizia dal finale e torna al finale percorrendo un periodo storico che va dall’impresa di Fiume del 1919 agli anni Settanta, corredando le pagine di una tabella cronologica che aiuta il lettore a comprendere dove si stia muovendo Alan, il protagonista. Alan è un uomo del suo tempo che finisce fuori dal tempo e lo rivive attraverso associazioni di idee e salti nei decenni inseguendo i personaggi, entrando e uscendo da tunnel spazio-temporali, viaggiando nel passato come uomo del futuro, sino a spaventare Magris citando brani di racconti che Magris stesso sta ancora scrivendo: “Qui ci deve essere una spia, qualcuno deve aver messo le mani tra le mie carte, e comincia a cercare nella sua borsa, a tirare fuori tutto e a innervosirsi”.

Da buon anarchico, nel suo racconto in terza persona Alan mette in luce nefandezze e lati positivi, falsità e verità, potere e emarginazione, ma soprattutto la cattiveria e la bontà degli esseri umani. Perché Alan, come Ligio Zanini (e come lo stesso Bormann), è un “anarchico nella scrittura, nella vita, nell’anima, libertario, fuori dagli schemi, anche politici se vuole”.

Si arriva alla fine della lettura con la consapevolezza di aver capito qualcosa di più della Storia, soprattutto di avere tra le mani un buon prodotto letterario ed editoriale. Un’ultima chicca: i disegni di copertina di entrambi i volumi sono di Giancarlo Iliprandi (1925-2016), per gentile concessione dell’Associazione che ne porta il nome.