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LINA MEIFFRET partigiana e letterata, amica del giovane Calvino.

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di Daniela Cassini e Sarah Clarke

da “LINA, PARTIGIANA E LETTERATA,
AMICA DEL GIOVANE CALVINO”.
Lettere, poesie e scritti inediti di Lina Meiffret.
Contributi di Donatella Alfonso e Romano Lupi
FUSTA EDITORE
ISTITUTO STORICO DELLA RESISTENZA ED ETA’ CONTEMPORANEA di Imperia

CAPITOLO I

«… Lina Meiffret, prima partigiana»

Italo Calvino, partigiano della Resistenza sanremese e allora giovane scrittore, scrive così di Lina Meiffret il 1 maggio 1945 nell’articolo Ricordo dei Partigiani vivi e morti su La Voce della Democrazia, giornale di cui era Direttore il dottor Lodovico Luigi Millo:

«… E pure morì sotto il martirio nazista l’animatore d’una delle prime bande a Baiardo: Brunati, il partigiano poeta. E la triste Germania inghiottì Lina Meiffret, prima partigiana».
Nel racconto appassionato delle gesta dei protagonisti della dura resistenza al nazi-fascismo, tra il ricordo di Cascione, Brunati, il Curto, Vittò, Erven, Gino, il Cion, Aldo e tanti altri eroi, ecco che Calvino cita Lina Meiffret, unica donna, «prima partigiana».

Abbiamo potuto leggere i giornali originali usciti nei giorni immediatamente successivi alla Liberazione e ci siamo immerse – tra quelle pagine ingiallite ma ancora vivide – in un mondo di storie, sentimenti, emozioni, attimi febbrili, avvenimenti epocali e quotidianità, propositi per il futuro.
Nel primo numero uscito dopo la Liberazione de La Voce della Democrazia il 27 aprile 1945, spiega il Direttore Millo nel fondo:

«Gli oppressori tedeschi hanno lasciato Sanremo, le forze della liberazione sono giunte: siamo liberi. Siamo riuniti nella nostra redazione e la commozione non ci permette di profferire una parola. Abbiamo abbandonato gli angoli scuri e più impensati dove ci riunivamo per tenere viva la fiamma della nostra fede e possiamo alla luce del sole pubblicare il nostro giornale. Non più nascosti dietro mura fidate, ma tra il popolo, oggi ti possiamo leggere “Voce della Democrazia”! Non tutti hanno la fortuna di comprendere la sublime bellezza di questi istanti, soltanto chi ha combattuto sulle montagne, chi ha cospirato in città, subìto le percosse e le torture della polizia nazi-fascista può inebriarsi al profumo di questa magnifica giornata di Aprile.
Purtroppo il ricordo di tanti compagni caduti sotto il piombo teutonico e fascista, ci rende pensierosi e tristi; li abbiamo tutti dinanzi agli occhi, come noi essi attendevano quest’ora, avevano la nostra fede, il nostro entusiasmo e per questo furono massacrati. Li abbiamo visti cadere nelle imboscate in montagna, in pericolose missioni in città, sotto il piombo dei plotoni di esecuzione: tutti dei veri eroi. Nomi non ne facciamo; sono troppi, il popolo li conosce perché sono i suoi figli».

E ancora Italo Calvino nel fondo «Primo maggio vittorioso» (La Voce della Democrazia, 1 maggio 1945) esprime dolore e speranza:

«Prendiamoci per mano oggi, uomini e donne di tutto il mondo, sfiliamo per le strade delle nostre città in rovina, cantiamo, se il nodo di commozione che ci stringe la gola non ce lo impedisce: è il primo maggio, il primo maggio più radioso che l’umanità abbia festeggiato finora».

Tra le tante storie incontrate, in un campo largo che ha unito intenti e percorsi diversi, abbiamo voluto approfondire con curiosità e passione la storia di una figura rimasta ai margini, di cui (con l’aiuto di resoconti storici, voci di cultori di storia locale e testimoni eccellenti) abbiamo mano a mano scoperto l’originalità e la profondità, quella di Lina Meiffret, «gentile di natura ma con un forte nucleo di determinazione», come la ricordano e «nota idealista nemica dichiarata in campo aperto del fascismo e del nazismo», come risulta dall’Ufficio di Polizia Politica all’A.M.G. di Bordighera.
Il ricordo commosso di Lina Meiffret quale «… prima partigiana», fatto da Italo Calvino e citato all’inizio, vuole infatti riconoscere il ruolo della partigiana che ha messo a disposizione se stessa e la propria capacità di azione e di ingegno nella lotta antifascista, prima e dopo l’8 settembre 1943, purtroppo vittima della crudeltà e della disumanità del drammatico periodo storico.
Solo qualche accenno per rappresentarne la pienezza di coinvolgimento. Subito dopo l’8 settembre, per iniziativa di Renato Brunati («figura ardimentosa e romantica») e «l’eroica Meiffret» si costituì la prima banda partigiana della zona di Sanremo, in contemporanea con quella di Felice Cascione ad Imperia.
Brunati e Meiffret raccolsero una trentina di giovani, tra Sanremo e Bordighera, a Baiardo nella villa della stessa Lina, «la sola donna del gruppo».
Con loro vi è anche Bruno Erven Luppi che diverrà più tardi l’animatore instancabile di un glorioso distaccamento garibaldino, medaglia d’argento al Valor Militare.
Attorno a questa banda ruotò tutta la successiva azione del primo CLN di Sanremo e degli uomini che lavoravano alla preparazione di un vasto movimento partigiano nella zona.
Nell’ottobre e novembre 1943 vi furono anche i primi tentativi di organizzazione politica: si era costituito un primo Comitato per le Libertà Democratiche, interpartitico, a cui Lina Meiffret partecipò in rappresentanza del P.C.I. con Bruno Erven Luppi, Umberto Farina, Marco Donzella, Nino Bobba, Nanni Calvini, che si riuniva in un palazzo di proprietà di Lina nel centro di Sanremo. A questo organismo seguì la costituzione del vero e proprio CLN cittadino sanremese.
Lina Meiffret prese parte in quel periodo ad importanti incontri strategici con rappresentanti di altri CLN territoriali (Torino) circa l’organizzazione della futura lotta.
Nella narrativa ufficiale sempre presentata come nome di sfondo, Lina Meiffret è stata come vedremo una figura di primo piano nell’azione e nell’organizzazione politica della Resistenza tra Sanremo, Baiardo e Bordighera, in contatto con tante personalità intellettuali amiche e sodali, da Italo Calvino a Renato Brunati (i più vicini), a Beppe Porcheddu, Guido Hess Seborga e il gruppo torinese di antifascisti collegati da Alba Galleano, moglie di Seborga e partecipe attiva degli ambienti culturali e della Resistenza (Giorgio Agosti, Galante Garrone, Ada Gobetti, Vincenzo Ciaffi, Oscar Navarro, Silvia Pons, Anna Salvatorelli, Raf Vallone, Giorgio Diena, Piero Bargis, Domenico Zuccaro, Luigi Spazzapan, Umberto Mastroianni, Carlo Musso…). Con parte di questi Lina intrattenne un proficuo scambio ideale e letterario da allora e per tutta la vita; un gruppo di intellettuali che hanno guardato al mondo e che per le strade del mondo sono poi andati.
Una ricchezza di esperienze che caratterizzerà tutta la sua esistenza, senza tradire mai il suo profilo personale di donna dalla estrema riservatezza.
La Resistenza delle donne è stata per lungo tempo una «Resistenza taciuta», un silenzio prolungato sul reale ruolo rivestito da migliaia di donne ignorate dalla storiografia ufficiale, considerate semplici figure di complemento all’eroe partigiano.
L’eroismo vissuto in quel periodo di vera guerra civile va condiviso con le tante donne di cui, dagli anni ’70 e sempre di più, si è andata raccogliendo la memoria anche a livello locale con interviste, documenti, testimonianze che consolidano la coscienza sull’importanza della partecipazione femminile alla Resistenza.
Tante sono le ricerche, le pubblicazioni, le tesi di laurea che ora meritoriamente fanno conoscere quelle storie e quelle vite, recuperate da un silenzio spesso volontario.
Voci negli interstizi, in un flusso alla ricerca della soggettività delle donne nella storia orale italiana, come dice Luisa Passerini ne Storie di donne e femministe (Rosenberg & Sellier, 1991).
Dalle parole di Lina stessa vogliamo ricordare l’inizio del suo impegno contro il nazifascismo. Da queste parole emerge consapevolezza e risolutezza:

«L’8 settembre mi colse in piena attività cospirativa. Appartenente alla organizzazione attiva del Partito Comunista Italiano noi avevamo già predisposto i piani generali per una organizzazione efficace del movimento antifascista. Ammaestrati dagli insegnamenti della guerra partigiana che si conduceva in Russia ed altrove, io e Renato Brunati, che collaborava strettamente con me, quando alla data dell’armistizio dovemmo constatare che una resistenza inquadrata non era possibile nelle città e che la guerra si sarebbe prolungata per molto tempo, decidemmo [N.d.A.], d’accordo con i capi della nostra organizzazione, di formare dei nuclei nelle vicine montagne che avrebbero dovuto costituire il centro di attrazione dei numerosi sbandati dell’esercito Regio, e che avrebbero potuto, in un secondo tempo, creare vere e proprie bande partigiane.
Nella mia villa di Baiardo costituii una specie di quartier generale, un centro di raccolta degli sbandati e di coloro che intendevano partecipare alla guerra partigiana, che già si profilava nella zona orientale della Provincia di Imperia. Qui Brunati ed io raccogliemmo un gruppo di giovani tra cui anche ufficiali dell’Esercito ed iniziammo la preparazione consistente nella raccolta delle armi, munizioni, viveri e materiale vario, che avrebbe dovuto formare la dotazione delle bande.
Gruppi di nostri giovani battevano le cittadine e le campagne rastrellando armi. Fra l’altro un nostro gruppo assaltò la villa Marilì alla Foce [di Sanremo N.d.A.], dove venne asportata una mitragliatrice St. Etienne, 15 moschetti, 8 rivoltelle, munizioni, 35 coperte e bombe a mano… Armi e punizioni ci furono anche procurate dal gruppo di Pigati [Giovanni, azionista N.d.A.] e dalle cellule del Partito Comunista operanti a Sanremo.
Peraltro noi non potevamo fidarci di tutti i nostri aderenti, molti dei quali, durante il mese di Ottobre 1943 incominciarono a sbandarsi in previsione di una controffensiva tedesca che si diceva imminente…
Intanto noi approntavamo i piani per creare caposaldi montani che avrebbero dovuto far fronte ad una eventuale operazione nazifascista. Ma nel novembre 1943, i piani stessi ci vennero trafugati da un tenente che si era aggregato a noi e che poi si consegnò al nemico. Le notizie allarmistiche di una puntata germanica in forze contro Baiardo ed il pericolo di continui tradimenti nonché il fatto che nuclei di bande erano già in via di formazione nel retroterra, in posizione più difensiva vantaggiosa, ci indussero a sciogliere la nostra organizzazione.
Abbandonando Baiardo riprendemmo la nostra azione cospirativa, ma il Brunati veniva arrestato dai tedeschi, trasportato a Marassi ed il 19/5/1944 fucilato al Turchino, ed io stessa arrestata per ordine del Maggiore Lena.
Il resto è un’altra storia».

(Dichiarazione ufficiale a firma Meiffret, su Resistenza Imperiese – Primi armati – Documenti Archivio dell’Istituto Storico della Resistenza ed Età Contemporanea di Imperia, raccolti nel 1945-’46).

Riserva naturale dell’assenza

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Foto di Kookay, da Pixabay
Foto di Kookay, da Pixabay

di Dario D’Amato

Una parte della città in cui continuavo a vivere si presentava completamente frantumata al mio sguardo; come se non potessi più fare caso alla geometria delle cose. Cercavo nei luoghi gli spazi vuoti della memoria. Ogni tanto mi fermavo col motorino ai bordi delle strade più trafficate per osservare meglio la grafica scadente dei cartelloni pubblicitari con i colori che sbiadivano alle prime piogge, che divenivano il vero elemento cromatico. La città mi appariva sempre più come una riserva naturale dell’assenza. Il punto di ingresso lo conoscevo solo io, non facevo entrare nessuno. Una volta chiuso quello che c’era da chiudere, i suoni divenivano evidenti, inequivocabili. Mischiavo il ricordo del cannone del gianicolo, dove andavo con mio nonno, al clangore delle lamiere smembrate negli sfasciacarrozze. Lamiere di macchine morte a causa degli incidenti stradali o di qualche impiccio con le assicurazioni. Un colpo di cannone di cui avverto tuttora l’eco sommersa che affiora, quando vuole lei. Quando hanno cominciato a chiudere molti cinema a Roma, nel delirio dei primi tempi credevo fosse un segno di partecipazione, come dire che i luoghi che avevamo abitato, dovevano rimanere in lutto per sempre? Come un fatto fisico che non si sente più, come a depredare i sentimenti.

Academy Hall di via stamira, quello anni ‘50, il Capitol al villaggio olimpico, il Capranichetta e quella lunga passeggiata prima e dopo, i due Cinestar (quello della cassia) e quello nuovo all’appio.

Il cinema delle Arti a via sicilia, dove alla fine quei tuoi amici non vennero perché non trovarono parcheggio, e poi Embassy, Empire, andati per sempre; pure l’Excelsior, quello che stava a via beata vergine del carmelo, e dove noi – non ci facemmo mai domande a proposito – ci inginocchiavamo sempre davanti. Evaporato. L’Airone di via lidia, dove andava mia nonna Ines quando abitavano ancora all’alberone. Mi raccontava che camminava fino a lì, a uno degli ingressi della caffarella e di ritorno, se era febbraio, si prendeva la cannonata da Antonini. L’America, l’Apollo, l’Archimede (dove vedemmo Western quel film francese che ci fece sobbalzare di risate); l’ Astor e l’Astra che confondevamo sempre, quello in fondo a vigne nuove, come si chiamava? L’ Aureo? L’Augustus di corso vittorio dove vedemmo Smoking di Resnais in quel dicembre euforico, e poi passammo il resto della serata a infilarci tra le librerie a specchio di via del governo vecchio e Fahrenheit a campo de’ fiori, l’Avorio dove alternavano i porno alle retrospettive di Matthew Barney, con le balene smembrate nei mari del Giappone. Il Belsito dove ci portarono i nostri padri da piccoli dopo la gita allo Zodiaco a monte Mario. L’Horus! Ti ricordi l’Horus che poi l’occuparono, e una sera ci andai a vedere Damien Rice, che non lo conosceva ancora nessuno, ed eravamo forse in trenta, pure mezzi distratti. Poi il cinema Impero, con quel nome fuori contesto a via dell’acqua bullicante. Il Metropolitan, che ci piaceva tanto, il Missouri, il New York, che poi ci avevano fatto un enorme posto dove mangiare solo dolci americani, per coerenza, ma che probabilmente sarà chiuso, non ci passo da una vita. Il cinema Palazzo è una storia lunga e te la racconto un’altra volta, il Paris a Via Magna Grecia, dove si andava pure in galleria, il piccolo Apollo, che in realtà hanno riaperto e ci fanno un sacco di documentari, che ti piacerebbero. Preneste, Puccini e Quirinale dove non siamo mai stati, al Quirinetta invece ci abbiamo visto un sacco di cose, a memoria mi ricordo Lezioni di piano della Campion, il grande cocomero della Archibugi e forse pure Nightmare before Christmas durante quelle feste di natale. Quello col nome stupendo, che già aveva una programmazione scarna ai nostri tempi, il Montaggio delle Attrazioni sulla cassia, ci andammo in motorino, era gennaio. Il Rubino a san saba, il Rialto, ti ricordi che poi andammo alla prima occupazione di quella scuola a via s.ambrogio. Il Ritz dove noi volevamo mangiarci ritz, in pieno periodo dadaista, o forse demenziale. Il Rivoli che se non ricordo male, tu dicesti che era quasi psichedelico con le poltrone blu. Il Roma, la Sala Troisi che ha riaperto con una generazione nuova di innamorati, il Tristar (che nome) di via collatina e l’Ulisse, perso sulla tiburtina. Ma pure la Sala Umberto ha chiuso, dove vedemmo Heavenly Creatures, con una giovanissima Kate Winslet diretta da Peter Jackson.

Ma quello che vorrei dirti di peggiore e ancora non ti ho detto, è che ci hanno chiuso il Labirinto, il nostro palazzo d’inverno, dove ci sedevamo al tepore delle nostre rivoluzioni dell’immaginazione.

Un giorno d’estate, ad agosto a Roma, ho fatto questa cosa morettiana; girovagando in motorino ho cominciato a documentare con foto e riprese video tutti i cinema chiusi, li ho fatti mischiando le parole che ci eravamo detti, ricordandomi quelle che erano rimaste lì, appese come molecole, in mezzo ai biglietti che cadevano dalle tasche, le cicche delle sigarette e altre cose che si sono mischiate al tessuto organico della città. Proprio quando stavo di fronte al Labirinto è arrivato un riverbero improvviso di luce, che subito ha annunciato il temporale che si stava avvicinando. Mi sono messo lì ad aspettare le prime gocce di pioggia, e poi non ho fatto altro che starmene fermo per tutto quel tempo. Un tempo esile, in cui non c’era nessun desiderio di riparo. Quel territorio tra il marciapiede e l’ingresso è dove abbiamo seminato la nostra storia d’amore, forse è proprio in quello spazio senza nome che ci siamo ogni volta ritrovati. Nessuno può chiudere quello a pensarci bene. Non ci saranno tasse da pagare, conti sospesi, more con interessi maggiorati. Non sarà possibile perderlo di vista. La pioggia mantiene l’attitudine del silenzio.

Adesso, non ho altro da fare che restare qui, persino le braccia se ne stanno ferme, come sotto controllo. Un vecchietto passeggia con il cane, che si ferma per annusarmi le caviglie e mi guarda. Faccio quel pat pat sotto il muso che so che apprezzano. Il signore, pantaloni avana e camicia a maniche corte, mi dice eh sì, così si lascia fare tutto. Questa è la sua passeggiata preferita, aggiunge. Anche la mia, dico al signore mentre mi accendo una sigaretta, che per essere la giornata che è, è la prima ed ha proprio quel gusto lì.

Tornato a casa, la sera controllo le riprese. Faccio un montaggio alla buona, senza troppi tagli, tengo persino i rumori del cavalletto del motorino, le poche macchine, l’abbaiare di qualche cane, eppure per qualche strano motivo – nelle visioni ravvicinate che ho fatto per mettere in evidenza quelle porte chiuse – quello che ne viene fuori è un silenzio che somiglia molto al nostro shhhh che facevamo comunque, anche se prima che cominciasse il film stavano tutti zitti, o a parlare magari eravamo solo noi.

Per un periodo ho dato una mano a sistemare l’archivio del Filmstudio, e le sere che mi trovavo lì poi vagavo per i vicoli di Trastevere; ripensavo spesso al fatto che uno dei luoghi più significativi della mia città fosse stretto tra l’ospedale pediatrico e il tribunale per i minorenni. Un’ infanzia quindi malandata o dannata in ogni caso. Ho sempre pensato a quella sala nei vecchi orti del conte d’Alibert, un nobile che venendo dalla Francia, aveva costruito il primo teatro pubblico in Italia, nel 1600, poi sposandosi con una della famiglia Cenci, aveva preso possesso di questa stupenda casa con giardino a via della lungara, dove correvano questi orti lungo il perimetro. E a me pareva di percepire l’humus dei secoli trascorsi camminando nei paraggi. Passavo le ore migliori dei pomeriggi lì, ben sapendo che il resto di Roma mi stava divenendo ostile. Eppure lì percepivo una densità di ricordi che conferivano al tempo una diversità di vedute, come un microcosmo geografico fatto di cose da fare senza che nessuno lo venisse a sapere. Leggevo molto e prendevo appunti su cose che riaffioravano di tanto in tanto, come le foglie dei platani che mi sembravano le stesse di anni prima. Era una teoria che condividevo con Otello, un pensionato che frequentava un bar scamuffo dalle parti di via Benedetta. Era lì che mi fermavo a prendere un caffè, perché era un bar, anzi uno snack bar immobilizzato negli anni ottanta, con la promessa di snack mai del tutto mantenuta. Facevo delle pause con Otello che mi raccontava la rovina della sua vita, con un umorismo lieve, immaginando che tutti i suoi parenti potessero morire prima di lui, e soprattutto un figlio in particolare, che viveva a Vicenza, e aveva preso persino quell’accento. Era un’aggravante, e io lo ribadivo con forza, che forse quello era l’aspetto peggiore. Ma per lo più mi raccontava degli alberi, di come secondo lui erano cambiati poco, impercettibili derivazioni organiche che non sarebbero state notate da nessuno, a meno che non ti fossi fermato a toccarli. Lui lo faceva ogni giorno, soprattutto con la pioggia. Con l’acqua piovana gli alberi respirano in modo diverso. Pare che la città intera si dia da fare per loro. Il cielo sopravvive alle nostre intemperie interiori forse, pensavo io. Lui voleva sapere i miei programmi per la giornata, inventava cose che aveva fatto alla mia età e tentava di vendermi oggetti desueti, arrugginiti e privi di qualsiasi utilità. Qualcosa compravo, o al massimo gli offrivo un quartino di vino. Quando gli raccontai la storia degli ulivi che avevamo preso con  mio padre nel viterbese, si mise a ridere forte, che pareva esplodesse da un momento all’altro. Era un fatto suo personale – si scusò – gli ricordava molto una cosa simile che aveva fatto anche lui non so quanti anni prima. Mi raccontava di questa sua moglie straniera, che era sparita un giorno di febbraio, e che tutti gli avevano detto, vabbè dai però tirati su, la vita continua anche senza di lei; era come se fosse morta, non aveva saputo nulla, e ovviamente la morte era la cosa più probabile, ma invece lui non credeva a questa cosa, era più propenso a considerare la questione dal punto di vista degli alberi. Avevano marcato il territorio in quegli anni – amava compiacersi raccontando –  non sai i baci che le ho dato spingendole la schiena sui platani lungo gli argini del lungotevere; e in un certo senso toccarli ogni giorno, era un modo per tenere fermo, da qualche parte, l’odore.

In lui non c’era nessuna forma di disagio nel vedermi silenzioso a non rispondere alle sue domande. Continuava a chiedere per il gusto della conversazione innato. Eppure, a distanza di anni , potrei dire con certezza che Otello capiva l’assenza che percepivo camminando per Roma. Non conosceva quasi nulla del quartiere da dove venivo, e quando gli parlavo degli acquedotti, sembrava descrivessi un posto esotico impossibile da raggiungere per lui, con l’età che aveva oramai. Si vantava di aver conosciuto Roma percorrendola a piedi. Dove non si poteva arrivare, pazienza. Non era un suo problema.

Gli raccontai dei cinema chiusi con un trasporto immaginifico, che non pareva comprendere. Per un momento sospettai che mi stesse compatendo, con un disincanto che non mi ci voleva proprio. Allora parlavamo dei posti che nella sua vita erano divenuti ostili, se c’era qualche ricordo che emergeva brusco da chissà dove, e lo lasciava per un po’ senza fiato. Mi parlava di animali randagi, quelli sì, a quelli si affezionava, e quando gli capitava di cercarli per tutto il rione nei posti abituali, si accorgeva troppo tardi che chissà come e quando erano spariti. Ma forse anche per loro vale la regola degli alberi, mi veniva voglia di suggerire.

Ma poi non dicevo mai niente. Era un rapporto del tutto sporadico il nostro, ci incontravamo per il caffè. Forse ognuno parlava  a se stesso. Certi snack bar, soprattutto se non sono invasi dalla frenesia di apparire, credo esistano apposta per nascondersi.

Giovani ci siamo amati senza saperlo

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di Emanuele Pettener

Quello che segue è, per gentile concessione dell’editore, l’incipit del romanzo “Giovani ci siamo amati senza saperlo”, in uscita in questi giorni (Arkadia Editore)

Era un bar pieno di uomini alti. Quasi che per frequentarlo fosse richiesto superare il metro e ottantatré. Disdicevole, ma io ci andavo comunque, mi piaceva come s’atteggiava a bar americano, gli sgabelli al lungo bancone, un barista stempiato in camicia stirata di fresco e panciotto amaranto, i divanetti bordeaux e i tavolini in marmo scuro separati fra loro da tendine blu di Prussia, di modo che ciascuno avesse l’illusione d’avere la sua privacy, sorseggiando intrugli verde menta e succo d’arancia e vodka, nell’alone soffuso di piccole lampade Liberty e fumo azzurro.
A quel tempo si poteva ancora fumare e il fumo faceva parte dell’arredamento, assieme a certe foto in bianco e nero di divi fumatori e al jazz che galleggiava nell’aria e faceva sentire tutti a proprio agio nella New York degli anni ’40, tombini rigurgitanti vapori e marciapiedi lucidi di pioggia, viavai di Rolls e taxi color pece.
Ma fuori c’era Venezia degli anni ’90, autunnale e sublime, la solita guastafeste. Avevo compiuto vent’anni e cominciavo a sentirmi vecchio, la classica crisi di mezza età: mi piaceva prendermi in anticipo. Sicché andavo lì a distrarmi con l’orchestra di Benny Goodman e facevo finta che m’interessasse davvero, mi tenevo addosso lo spolverino nero anche se crepavo di caldo, ma il bavero che m’accarezzava la barba di tre giorni era imprescindibile, era un tempo in cui avvertivo il sospetto d’essere Lord Byron reincarnato, curioso, non avendo mai letto un verso di Lord Byron. Mi portavo dietro un libro, solitamente qualcosa di ostico e dalla copertina usurata, chiedevo al barista carta e penna e scrivevo un sonetto. Ero giovane, affamato di gloria e di femmine. Soprattutto di femmine.

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Quella notte di fine settembre aspettavo il mio possibile compagno d’appartamento. Mi rincresceva dover condividere la preziosa benché minuscola alcova a San Giacomo dall’Orio, ereditata da quell’angelo di nonna Speranza, ma non avevo un lavoro, e lavorare mi rincresceva ancora di più. Venezia del resto era cara. Cara e ostile. I miei m’aiutavano, non mi facevano pagare l’affitto e mi pagavano le tasse universitarie e tutto il resto, ma non potevo continuare a succhiargli il sangue come quei mammalucchi dei miei coetanei, a casa di mamma e papà fino a trent’anni, i codardi! I parassiti!
Mi ero iscritto a Lettere Moderne in primo luogo per il numero esaltante di fanciulle e la competizione maschile ridotta all’osso; in secondo luogo perché sembrava relativamente facile, tanto che quelli che facevano Legge, Economia, Medicina ci disprezzavano apertamente, e disprezzo e onta risalivano ai genitori, financo ai nonni, degli uni e degli altri: fare Lettere tingeva le gote di vergogna alla famiglia del povero letterato; forse solo fare Scienze Politiche era più vergognoso. E poi sarebbe venuta Scienze della Comunicazione, che nessuno capiva esattamente cosa fosse. Noi di Lettere, disprezzati da tutti, disprezzavamo quelli di Scienze Politiche, che disprezzavano quelli di Scienze della Comunicazione, i militi ignoti. A me la Letteratura sembrava, nel contesto della misera, limitata, fulminea esistenza di un individuo, se non più importante, infinitamente più sensata di Legge, Economia, Medicina, ma comunque non m’importava un fico secco.
Quello che m’importava era il piedino velato che si sollevava dalla ballerina, mentre la sua adorabile proprietaria, seduta in prima fila, succhiava la biro osservando concentrata un professore calvo; o il gesto naturale eppure così sinuoso della sua compagna che con entrambe le mani si aggiustava la bionda coda sulla nuca, lasciando nudo il collo, nel cui incavo mi sarei perso in delirio di baci; o la risata dorata di quelle tre giovinette, forse americane, sedute a bere Spritz a un tavolino sporco di un bàcaro infernale in fondo a una calle oscura, i seni poderosi dell’una sotto un body verde laguna, gli occhiali spessi e la dentatura da cavallo dell’altra, il cappellino di paglia della terza, morbida e appetitosa e tondeggiante come una cialda, il celeste estivo dei suoi occhi che incrociavo per un attimo di fuoco e m’accendevano l’immaginazione. Ah, donne donne, eterni dei!

 

 

 

 

 

 

 

Medeatiche

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di Beatrice Achille

 

io scurissima notte come ti trattengo
nemmeno pronuncio nemmeno l’iniziale
e già poni e già muovi nel buio il distolto
fino a che non sciogli quel senso di totale
criterio una totale abnegazione aperta
se vuoi non entro a casa non varco la porta
non pulisco più e sporca trovarti cresciuta
uno sguardo e sei già sorta elevata a corona]
sole a mezzanotte solo su questa cima
io scurissima notte ti trovo disciolta
covata nel ventre per restare insaputa
e anche chiarificata darsi sempre un’ombra
qualcosa di nascosto promosso dal buio
restare oscura e tanto basta per la notte
il cielo stellato precipita dal cuore e
di solo una parola so essere salvata

io

***

pratoline su pelle io vorrei esserti sposa
inchinarmi nel tempio l’incenso che veste
e dirmi tua sposa che ti sposa in segreto
iniziarsi al paesaggio e trovarvi un maestro
qualcosa che sia “casa” o cattedrale muta
qualcosa che sia ossa di foglia e linfa nuda
poi dita tra dita bagnate di acqua santa
per indicare il cielo e nominarlo piano
“tu sei cielo” e poi “tu sei vita”, “sei sicura?”
piano scostarsi il velo e guardare in silenzio]
corona di spine si fa arbusto di rose
e noi in fondo in piccolo a profumarci e noi
in fondo in piccolo – pratoline di campo

**

Testi tratti da Medeatiche, Vydia 2022

Svalbard, senza alzare la voce

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di Nick Casini

È tradizione che ogni anno, alla fine degli ottantadue giorni di buio che calano sull’arcipelago delle Svalbard tra novembre e febbraio, gli abitanti di Longyearbyen si ritrovino sugli scalini del vecchio ospedale cittadino per festeggiare il ritorno del sole. Quegli scalini sono il primo angolo della città colpito dai raggi solari: a volte è una mattina di vento come tante altre e c’è tempo solo per dei saluti; altre, invece, ci si trattiene per brindare e scambiare qualche parola. Oggi l’ospedale non c’è più – c’è una chiesa luterana al suo posto – e anche gli scalini non sono quelli di una volta. Quelli originali sono andati distrutti, insieme all’intera Longyearbyen, sotto i bombardamenti della marina tedesca durante la Seconda guerra mondiale; ma a nessuno importa, perché non si sceglie di vivere al di sopra del 78° parallelo, dove le montagne e i fiumi mutano forma da un anno all’altro, se si ha paura del cambiamento.

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È il ventidue ottobre, e all’una di pomeriggio lo Svalbard Lufthavn Longyear è già avvolto in un crepuscolo umido. La riproduzione in scala 1:1 di un orso polare sorveglia il nastro trasportatore dei bagagli, mentre i miei compagni di viaggio, sferzati dal vento gelido che frusta la pista di atterraggio, continuano ad entrare alla spicciolata. L’ultima mezz’ora di viaggio l’abbiamo passata con gli sguardi spalmati sugli oblò, mentre sotto di noi scorreva un panorama di basse montagne ghiacciate simile ad uno sconfinato pannello fonoassorbente, che si appianava solo di fronte al mare o per spingersi verso l’entroterra sotto forma di spaventose valli disabitate. Lo stesso accade quando il pullman che ci porta verso Longyearbyen (il capoluogo) si lascia l’aeroporto alle spalle. Percorriamo a bassa velocità una delle poche strade asfaltate dell’arcipelago e guardiamo da lontano il Seed Vault, il famoso parallelepipedo conficcato nella montagna custode della natura del pianeta terra. Non sono l’unico a trovarlo poco impressionante (piccolo) rispetto alle attese, ma la voglia di stupore è tale che nessuno si lamenta ad alta voce. Intanto, Longyearbyen (il nome viene da John Munro Longyear, l’imprenditore minerario americano che fondò qui – nel 1906 – il primo insediamento, e da byen che vuol dire città) compare poco alla volta, preceduta da una piccola zona industriale che non si rivelerà poi così diversa dalla città stessa.

Nonostante i condomini a quattro piani di recente costruzione, Longyearbyen ha l’aspetto di un grande avamposto da cui tutti sembrano pronti a fuggire con poche ore di preavviso. Gli edifici non hanno fondamenta – i continui movimenti del permafrost le rendono inaffidabili – e, per lo stesso motivo, molte tubazioni sono posate fuori dalla terra, come giochi dimenticati in giro da un bambino. Non ci sono ospedali né cimiteri; niente alberi, aiuole o semafori. Longyearbyen è lo scheletro di una città, la sua radiografia. I fiumi rimangono ghiacciati e coperti di neve per mesi, le montagne sono basse, franose e dalle cime appiattite, il mare ha il colore del petrolio. Dove non c’è il bianco della neve, c’è il grigio della roccia (o del ghiaccio) e il nero del carbone. In giro vedo solo persone giovani, in salute e che sembrano di passaggio. Mi dà subito la stessa impressione anche Léna, una musher (il termine con cui si identificano i conducenti di slitte trainate da cani) francese di cui faccio la conoscenza a cena. Il ristorante dove ci conosciamo è ricavato in una serra che guarda verso i binari di una miniera di carbone in disuso, ai margini della città. Léna è qui da due anni, e prima ha lavorato in Svezia, in Alaska e nello Yukon. Un trittico – letteralmente – da brividi.

“Alaska is where the money is”, dice senza rimpianti in un inglese smussato dall’accento francese. “But Yukon is the most beautiful place on earth.”

Adesso vive con il fidanzato poco fuori Longyearbyen (quindi al confine con il nulla), ma non si sbilancia su quanto intenda rimanere. Nemmeno la cameriera meranese che ci serve ha intenzione di trattenersi a lungo: mi dice che è stata una bella esperienza, ma presto tornerà a casa. Due tavoli più in là, avvolti in maglioni colorati, chiacchierano quattro ventenni venuti a studiare geologia e geofisica all’UNIS (University Centre in Svalbard) che, come tutto il resto da queste parti, è il world’s northernmost. Quassù, tra il serio e il faceto, qualsiasi cosa è definita la world’s northernmost: il parrucchiere del centro commerciale, il birrificio artigianale, il furgoncino di street food di Ulf Kjelleberg, il quale se la ride quando, uscito (io) per un’improvvida passeggiata notturna, gli faccio notare che ci vuole coraggio per fare la sua professione da queste parti. Ulf ha il viso rotondo e lo sguardo gioviale, ma nessuna voglia di parlare di sé stesso. Cambia discorso e mi offre un hot dog, che rifiuto visto che ho la pancia piena di foca (che sa di fegato) e patate lesse. Mi chiede cosa ne penso della Roma che, il giorno prima, ha perso 6-1 contro il FK Bodø Glimt, squadra norvegese di cui non conoscevo l’esistenza e che scopro giocare in uno stadio da nemmeno cinquemila posti all’interno del circolo polare artico (poco sotto Tromsø). Una vittoria così larga contro una formazione di blasone come quella Roma è un evento che da quelle parti ha fatto scalpore, ma io, per sua grande sorpresa, non ne so nulla. Ci salutiamo presto perché iniziano ad arrivare i primi clienti, attirati fuori dalle bollenti stanze di albergo dallo Svalbard Blues, il festival musicale (dai prezzi d’accesso esorbitanti) che si tiene in quei giorni per salutare l’inizio della polar night, la stagione in cui il sole non sorge più all’orizzonte. A differenza che nel resto d’Europa, qua le stagioni sono soltanto tre, e la fine (o l’inizio) di ciascuna di esse è sempre motivo di festeggiamenti. C’è la polar night, che va da fine ottobre a fine febbraio e corrisponde al crepuscolo (o buio) permanente; il midnight sun, che va da fine aprile a fine agosto e in cui c’è luce a qualsiasi ora del giorno e, per ultimo, il day sun che è l’alternanza, più o meno bilanciata, del giorno e della notte (come la conosciamo noi continentali) e che copre i mesi di transizione, quindi marzo-aprile e settembre-ottobre. Inutile chiedere agli autoctoni quale preferiscono, perché le risposte che si ottengono sono sempre molto democristiane.

“Ogni stagione ha le sue bellezze”, mi assicurano i commessi dei molti e fornitissimi negozi di abbigliamentooutdoor. Io però insisto, e alla fine ammettono che quasi tre mesi senza sole sono lunghi. Nessuno nomina però il freddo, come se quello – davvero – fosse solo una preoccupazione da turisti.

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Il kennel dove lavora Léna si trova ad una manciata di chilometri ad est di Longyearbyen, all’imbocco della tundra di Adventdalen, e ha l’aspetto di un piccolo ranch. C’è una struttura principale – dove alloggiano Léna, il suo fidanzato e gli altri soci – e una struttura più piccola che fa da magazzino. Vicino all’ingresso c’è una capanna di legno dove, al termine delle escursioni in slitta, i turisti vengono rifocillati con aria calda, solbærsirup (succo di lampone zuccheratissimo e bollente) e biscotti, mentre le guide narrano storie sugli orsi polari (ci sono sempre di mezzo gli orsi polari nei racconti per turisti). Tipo quella volta che un orso (affamato e spaesato) è arrivato indisturbato fino in città – per l’esattezza davanti ad uno dei pub più frequentati della città – costringendo gli avventori a barricarsi dentro e la polizia a narcotizzarlo e rispedirlo, tramite elicottero, nelle aree protette (e inaccessibili) del nord. Oppure, quando un orso si è intrufolato nella dispensa di un kennel, proprio uguale a quello dove siamo adesso, e si è trangugiato le riserve per un mese di cibo per cani. Anche in quel caso la procedura era stata narcotici e trasporto aereo, solo che la pancia dell’orso invece che essere vuota come al solito era piena, e l’effetto muscolo-rilassante dei narcotici aveva causato la fuoriuscita di un fiume di bisogni corporali che si era riversato nell’elicottero rendendolo inutilizzabile per i tre giorni successivi. Anche se siamo all’inizio dell’escursione, invece che alla fine, Léna continua a raccontare storie, mentre io e miei compagni di avventura (un italiano di casa a Tromsø che ci tiene a non parlare italiano e un carpentiere norvegese ubriaco arrivato da poco a Longyearbyen con la moglie) scendiamo dal van e i cani, sopraffatti dall’eccitazione, iniziano ad abbaiare ad un volume infernale. Saranno almeno un centinaio (un affettuosissimo incrocio tra Greenland dog e husky, mi assicura Léna), sparpagliati davanti a cucce di legno coperte dove vengono tenuti legati quando non ci sono esercitazioni da fare o turisti da portare a spasso. Léna corre ad accarezzarli con trasporto materno, mentre il marito (uno spagnolo barbutissimo) viene ad accoglierci all’ingresso e si occupa subito di formare su una lavagna i team di cani che ci guideranno nella tundra. Ogni team è formato da due cani leader che vengono legati in testa alle slitte (sono i cani dotati di maggior esperienza ed affidabilità) e da altri quattro che compongono il resto del motore. Appena i team sono formati, Léna ed il marito ci invitano ad andare a prenderci i cani, ricordandoci di accarezzarli e familiarizzare con loro prima di slegarli. Se fanno resistenza, o cercano di andare dove pare a loro, ci consigliano di sollevargli le gambe anteriori per togliergli due punti d’appoggio e poi tirarli per il collare. Visto che non è ancora caduta abbastanza neve, ci dicono anche che invece delle slitte di legno tradizionali utilizzeremo delle slitte con le ruote, simili a go-kart senza motore, di modo da non sciupare il permafrost. Ogni slitta è dotata di due posti – uno in piedi per il musher e uno a sedere per il passeggero – e il musher ha davanti a sé un manubrio con un freno simile a quello di una bicicletta che, agendo sulle ruote, dovrebbe aiutare i cani a capire quando è il momento di rallentare. Il manubrio serve anche a girare, ma Léna ci raccomanda (tre volte) di impostare le curve con largo anticipo perché non sempre i cani hanno voglia di seguire la direzione indicata dal musher. Per quanto riguarda l’accelerazione, ci dice invece di non preoccuparci perché i cani vogliono sempre andare al massimo.

Svalbard 2021

Impregnati da capo a piedi dell’odore selvatico (e dai peli) dei nostri compagni di viaggio, una volta che tutti i team sono stati tutti assicurati ai rispettivi go-kart, usciamo in strada e puntiamo verso est. Camion carichi di carbone ci sfrecciano accanto ad intervalli radi ma regolari, mentre renne sparpagliate tutt’intorno brucano scheletri di cespugli. Tralicci dell’energia elettrica sorvolano chilometri di nulla, mentre sulle montagne circostanti sono ancora visibili, come cicatrici, i binari delle antiche miniere di carbone. Davanti a noi, come un castello, svetta il profilo scuro della Gruve 7, l’ultima miniera di proprietà norvegese ancora attiva nell’arcipelago (i russi ne hanno una tutta loro nella vicina città di Barentsburg, ma quella fa storia a sé). Come le sue predecessore, anche la Gruve 7 è destinata a chiudere i battenti (nel 2023, a quanto pare), e si lascerà alle spalle un’ottantina di operai senza più un lavoro e qualche rimpianto soffocato in nome del progresso.

Léna allunga la mano verso sinistra, e allora lasciamo la strada asfaltata e ci avventuriamo nella tundra vera e propria. I cani si distendono nello sforzo, e adesso le ruote dei nostri go-kart scorrono (un po’ impacciate) sulla neve. La tundra è una sconfinata prateria ghiacciata di cui la crescente oscurità sfuma i confini, dove le distanze si moltiplicano nel momento in cui ci si avventura a percorrerle. Basse montagne innevate la circondano come argini di un fiume, ricordi di quando tutto questo era sommerso sotto chilometri di acqua. Cerchiamo di impostare un buon ritmo di marcia, e i cani – entusiasti – ci assecondano, ma il go-kart guidato dal norvegese sbronzo sbanda paurosamente un paio di volte e allora siamo costretti a fermarci per capire cosa c’è che non va. Mentre Léna cerca una soluzione, l’italiano trapiantato in Norvegia – quello che non vuole parlare italiano e che alla partenza mi ha ceduto senza cerimonie il ruolo di musher – si alza dal sedile per godersi la grande luna chiara che si è impossessata del cielo. Una nuvola la copre come un velo, dando l’impressione che stia andando a fuoco. La neve – un manto candido e ininterrotto – brilla come sale marino sulle montagne. Longyearbyen, l’ultimo appiglio di civiltà che ci eravamo portati dietro, intanto, è scomparsa alle nostre spalle. Provo a scattare qualche foto, ma tengo sempre una mano ben stretta sul freno del go-kart perché i cani si agitano e hanno una gran voglia di ripartire. Léna torna indietro caracollando e fa cenno che è tutto a posto. Ha il viso arrossato dalla fatica (ha riparato qualcosa, in barba ai miei pregiudizi sul norvegese ubriaco a cui attribuivo ogni colpa), ma ha anche dovuto cedere il suo maglione alla moglie dell’ubriacone che scopriamo essersi presentata per l’escursione (-15°C) con un pile da après-ski, ed adesso è in ipotermia. Mentre corre, Léna cerca di tenere fermo il fucile che le balla sulla schiena e dal quale non si separa mai. Sembra che rida, che tutto questo (gli imprevisti, la tundra gelata, quei cani pestiferi) la diverta sul serio. Il norvegese ubriaco le chiede, urlando, se crede davvero di riuscire a fermare un orso polare con quel fucile.

“It’s cold, it’s dark and bears are big,” dice. Poi ride sguaiatamente.

L’italiano trapiantato in Norvegia lo guarda male perché sta facendo fare una brutta figura alla sua patria adottiva davanti ai miei occhi. I cani ricominciano ad abbaiare e a tirare come ossessi perché hanno capito che stiamo per ripartire.

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Per il visitatore, al di là degli aneddoti e qualche raro incidente, quella degli orsi polari è una minaccia tanto onnipresente quanto disattesa. In quei giorni di fine ottobre, strisciando dentro grotte congelate, facendo trekking su ghiacciai e lunghe escursioni in un mar glaciale artico ancora navigabile, mi viene spontaneo associarla alle albe e ai tramonti, momenti annunciati con precisione scientifica ma che sembrano non arrivare mai. La luce cresce e cala a ritmi estenuanti, uno stillicidio che fa rimpiangere la frenesia dell’equatore dove i cambi di luce hanno la fretta degli uccelli migratori. È la neve, invece, a mantenere ogni promessa; non c’è fiocco che vada perduto. Cade fitta e addolcisce il panorama, gli dona sembianze che risultano familiari anche ai miei occhi continentali, nasconde il grigio inquietante di un ghiaccio che non se ne andrà per i prossimi sette mesi. È un evento inevitabile, spoglio della retorica con la quale viene celebrato nei paesi del sud Europa e in linea con lo spirito di essenzialità del luogo. Me ne vado dopo sette giorni senza la pretesa di sapere granché di Longyearbyen, ma sotto molti aspetti non l’ho trovata così diversa rispetto al pezzo di mondo da cui si trova tanto isolata. I turisti – come in ogni paese di buon senso – sono temuti perché minacciano la magia e l’integrità del luogo, ma sono indispensabili a un’economia ormai affrancatasi dall’estrazione del carbone. Di rassettare le camere negli alberghi, di fare i commessi al supermercato e i sottocuochi nei ristoranti, non importa se siamo al 78° parallelo, se ne occupa (in gran parte) una foltissima comunità filippino-thailandese, e non so perché la scoperta mi abbia stupito. Gli orsi polari sono trattati con riguardo pari a quello riservato agli esseri umani, ma al negozio più chic di Longyearbyen ce n’è uno (impagliato) in vetrina importato dalla Siberia. I menù dei migliori ristoranti propongono piatti a base di foca, renna, arctic char e balena, ma – escludendo i vezzi dei turisti – ad andare per la maggiore sono pizza, hamburger e patatine fritte.

Quello che di diverso c’è da qualsiasi altrove è una fiducia preventiva nei confronti del prossimo, figlia di un turismo ancora vergine che dà per scontate onestà e prudenza. Il controllo del rispetto delle regole, la loro emanazione, non è delegato agli uomini allo stesso modo in cui lo è in qualsiasi altro paese – in sette giorni non ho mai visto in giro un poliziotto e le guide, anche di escursioni pericolose, trattano tutti come adulti – ma affidato al contesto, ribadito in ogni istante dal vento gelido che penetra i guanti e duole alle dita, dalle montagne ghiacciate che stringono la città, dal mare artico che la lambisce e dall’immensità deserta della tundra che la circonda. C’è un delicato equilibrio da mantenere a tutti i costi, e non c’è bisogno che qualcuno te lo dica ad alta voce.

Nel cuore inestinto del genere umano – leggendo “Così per sempre” di Chiara Valerio

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di Edoardo Pisani

Il nuovo libro di Chiara Valerio, Così per sempre, ha per protagonista il conte Dracula, che vive a Roma e si chiama Giacomo Koch. È un romanzo ambizioso, polifonico, originale nella sua impensabilità, probabilmente il libro più riuscito di Valerio, un racconto che spazia dalla Roma e dalla Venezia dei giorni nostri all’Inghilterra dell’Ottocento, dalla Vienna di Schrödinger al villaggio svizzero in cui viveva Carl Jung; è un viaggio nel tempo umano – e quindi scientifico e filosofico – degli ultimi due secoli, la storia di un conte Dracula riflessivo e malinconico (e consapevole della sua stessa finitudine) e del suo gatto, Zibetto, di Mina Monroy e Ion Tzara e Renato Campi e William e Cecilia e Luisa e di innumerevoli altri personaggi e voci e pensieri che si susseguono negli anni. Ogni capitolo del libro è anticipato da una nota del narratore, come nei feuilleton ottocenteschi, narratore che è o forse non è Chiara Valerio, l’autrice, che compare come un fantasma nel negozio di Ion Tzara e poi nei pensieri di Cecilia, verso la fine del romanzo, rivolgendosi – con infinito amore – al bambino a cui sarà dedicato il libro.

Valerio si muove da sempre fra autobiografia e fabulazione. Nelle prime pagine di Spiaggia libera tutti, per esempio, un libro pubblicato oltre dieci anni prima di Così per sempre, racconta un giorno di ottobre del 1983, a Scauri, quando l’acqua del mare si era fatta gialla per via dello scirocco, e l’immagine di un mare giallo o giallastro deve aver colpito molto la bambina-monella Chiara Valerio, che infatti la ripropone oltre trent’anni dopo, ormai donna e scrittrice, nel romanzo Il cuore non si vede, con una frase che suona come un verso: “Sei del colore del mare quando c’è scirocco e su tutto soffia la sabbia gialla dell’Africa.”

Lo spirito indomito della poesia soffia su tutti i libri di Chiara Valerio; molte frasi dei suoi romanzi sembrano dei versi, e ciò impreziosisce i suoi dialoghi spesso serratissimi e sempre ben ritmati, anche perché nello scrivere Valerio si affida di continuo al proprio istinto, alla purezza del suono e talora allo scandire armonico del “parlato”, oppure alla velocità del pensiero che si sublima sulla pagina e che diviene racconto e poesia. Così i suoi saggi possono essere definiti dei pamphlet o delle conferenze, come alcuni brani dei suoi romanzi possono essere dei saggi in forma di conversazione, come in molti dei suoi libri si nascondono delle frasi che potrebbero essere messe in versi – come questa: “Mi manchi tu, e mi manca la parte di me che sei tu”, da Almanacco del giorno prima, libro che non a caso contiene epigrafi di Lord Byron e di Patrizia Cavalli e che può essere letto come il romanzo di un poeta (e lettore di poesia) che si rifiuta di scrivere in versi (proprio perché ama troppo la poesia).

In Così per sempre tuttavia c’è un cambio di passo; lo stile di Valerio si fa meno impulsivo e più elaborato, pur restando poeticissimo tanto nei dialoghi e nei pensieri quanto nelle scene, fra la malinconia delle città italiane del presente e del passato e le campagne e città inglesi di fine Ottocento, fra Roma e Venezia e Napoli e Bollingen e la Romania e l’Inghilterra e via di seguito; si sente che Chiara Valerio struttura il suo romanzo, la polifonia di una narrazione che – come Dracula – attraversa il tempo e lo spazio, i pensieri e i corpi umani, i luoghi e i cuori, librandosi meno che negli altri libri all’istinto della scrittura, da cui pure Valerio trae la sua forza.

Dicevamo della poesia. Leggendo Chiara Valerio ci si può divertire a trovare echi di altri autori, come in questa frase pensata da Mina mentre veglia il cadavere di una donna che ha amato, Agnese: “Che disgrazia questo somigliare o non somigliare all’immagine che di noi si fanno le persone che ci amano”, frase (o frase-verso) ritmata sul che, simile sonoramente a questo brano di Amelia Rosselli, da La libellula: “Che strano questo mio riso da pipistrello, che strano questo mio farneticare senza orecchio, che strano questo mio farneticare senza augelli. Che strano questo mio amare le amare ozie della vita.” Rosselli non è fra gli autori elencati da Valerio nella nota finale di Così per sempre (che rimanda alla “postilla” di Ognuno sta solo, il suo primo romanzo, come chiudendo un cerchio letterario e affettivo), però La gioia piccola d’esser quasi salvi, un suo romanzo del 2009, deve il titolo a un brano rosselliano, “E tutt’intorno ancora travasa la gioia piccola d’esser quasi salvi”, quindi la frase pensata da Mina Monroy può essere un’eco de La libellula, consapevole o meno. Analogamente, nel romanzo ci sono dei versi di Patrizia Cavalli (un esempio: “Amore mio, cos’è successo?”) o persino dello Shakespeare di Javier Marías – oltre che di Romeo e Giulietta e di Amleto –, quando Zibetto viene morso da Mina e diviene dunque Zibetto, rivelando una macchia bianca a forma di cuore fra le zampe posteriori, cioè “un cuore così bianco”, a heart so white, un corazón tan blanco, da Macbeth.

Ma Chiara Valerio è innanzitutto una romanziera, una narratrice. Due ossessioni a un tempo distanti e connesse tra loro si contendono i suoi romanzi, l’ossessione per l’amore e l’ossessione per la morte, e con il mondo romantico e mortifero – e mortale – del dotto vampiro Giacomo Koch ci sembra che la sua immaginazione, come i suoi ritmi, come la sua poesia, abbia trovato il suo scenario migliore, un abito immaginario e immaginifico che veste al meglio il demone talvolta bambinesco e adolescente – per quanto erudito – che da sempre la fa scrivere e leggere. La morte è ciò che ci definisce in quanto esseri umani, distinguendoci da cose e dèi, e anche Giacomo è a suo modo umano, giacché lo tiene vivo il sangue degli uomini, la loro vita e la loro morte. Tutto prima o poi deve finire e il Conte lo sa. “Io non sono morto, sono inestinto” dice a Carl Jung, e l’inestinzione – parola che deriva dalla traduzione di Tommaso Pincio del Dracula di Bram Stoker (e nel romanzo c’è di certo l’influenza del Pincio de Lo spazio sfinito: “Il cerchio più piccolo del bersaglio salito dalla pipa di Jung era il tempo che non era ancora giunto”; e il titolo del romanzo di Chiara Valerio deriva da un pensiero di Mina: “è vero che i classici sono così per sempre, ma vanno ritradotti perché il contesto non è così per sempre”; e questo pensiero diventerà da ultimo un luogo, un salone di bellezza, o meglio un salone di vampirismo: Così per sempre) – l’inestinzione, dicevamo, riporta l’inumanità di Giacomo all’umanità di ognuno, perché “siamo accomunati tutti dalla medesima condizione”, scrive Valerio, la condizione dei vivi.

La cultura del conte Dracula, che risponde alle ossessioni scientifiche e filosofiche di Chiara Valerio, sulla pagina diventa energia, ritmo, perfino malinconia, senza mai scadere nella supponenza o nel didascalismo. Giacomo Koch è un personaggio che attraversa i secoli e legge, studia, un vampiro che si coltiva filosoficamente e scientificamente, come la stessa Valerio, giunta alla stesura di questo romanzo dopo una vasta preparazione letteraria e scientifica e filosofica, come spiega nella nota finale del libro, un compendio di quattro pagine che sembra rifarsi agli appunti di Marguerite Yourcenar che seguono Memorie di Adriano (e a questo punto ne approfittiamo per chiederci: Valerio ha conservato la lettera che scrisse a dodici anni a Yourcenar, come racconta in Spiaggia libera tutti? – ci piacerebbe leggerla).

L’universo di Chiara Valerio è adulto e infantile al tempo stesso; le sue storie e la sua voce – energica, sdegnata, innamorata, civile – ci affascinano e commuovono e istruiscono e rendono più umani, più consapevoli di noi stessi e della nostra finitudine; il suo è un mondo immaginario e non che comprende Walser, Kafka, Cavalli, l’amore per la matematica, l’amore per l’altro (è struggente la lettera di Agnese a Mina), Scauri, il mare, la scuola, molti e molti libri amati, l’istruirsi e il cambiare, il confrontarsi con gli altri, l’ascolto e la passione e la rivoluzione, i formicaleoni di Renato Campi e di Giorgio Vallortigara (“dai formicaleoni aveva intrapreso le ricerche sulla coscienza degli insetti, per capire qualcosa sulla coscienza sua e degli esseri umani”), le formiche di un suo articolo su Proust, gli esseri umani e gli animali, Marx citato in una locanda nel 1867 – l’anno di pubblicazione del Capitale, e il Conte riceverà in dono da Engels una copia del libro –, Roma e Venezia, la Londra di Woolf, i ricordi d’infanzia, lo scirocco che ingiallisce il mare e che meraviglia una bambina, Chiara Valerio che ama Woolf e Yourcenar e Rosselli e Ramondino e che ce lo dice, le parole e i numeri che alle parole e al pensiero rimandano, i versi letti e amati che divengono memoria e incanto e che nella scrittura si tramutano.

Così per sempre è il libro più importante e maturo e forse più bello di Chiara Valerio, un’opera che travalica il tempo e i luoghi e gli animi e che si legge con malinconia e con gioia, con meraviglia e affetto – affetto per un racconto che ci conduce altrove pur riportandoci al presente, a questi tempi bui, di guerre non lontane, che il Conte avrebbe vissuto più con dolore che con disgusto per la terribilità e l’assurdità del genere umano. Concludiamo questo breve “esercizio di ammirazione”, come lo definirebbe Emil Cioran, con un passo del romanzo, le parole di Carl Jung a Giacomo alla fine degli anni Cinquanta. Valerio scrive:

Puntiamo telescopi nello spazio, che però è il fondo del tempo, ma non vediamo il futuro, vediamo il passato, ci raggiunge luce lei sì estinta, milioni di anni fa, e insieme a essa nessun messaggio che assomigli a noi o ai nostri linguaggi, che delusione amico mio, e dunque finora sappiamo che dall’inizio del tempo, sempre che il tempo abbia avuto un inizio, esseri che ci assomigliano non ce ne sono stati o non abbastanza per raggiungerci. Andremo a cercarli a un certo punto per capire se ci sono adesso e non lo sappiamo, la luce di stelle estinte ci raggiunge e ci obbliga a interpretazioni come voi mi raggiungete e mi date occasione di pensieri, Non ammazzerò più nessuno per mangiare, Dunque ammazzerete come tutti, per vendetta, crudeltà, capriccio e conquista. Carl non sorrideva più.

Moira Egan: i cuori bruciati delle stelle

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È stato recentemente pubblicato, per le edizioni Tlon, Amore e morte di Moira Egan. Ospito qui, per gentile concessione dell’editore, alcune poesie dalla raccolta, nella versione di Damiano Abeni.

 

Dear Mr. Merrill,

 

I hope you’ll pardon the informality

of this letter, postmarked Olympia

(Greece, not Washington), its task not simple:

crossing lines you’ve crossed, time, mortality,

to find you, who spent a lifetime crossing lines

out, twisting, polishing them to shine

 

cool and lustrous as the statue I fell in

love with yesterday. I’m sure you saw him

too, that perfect Hermes by Praxitelis,

full lips, hips contrapposto. I wished to draw him

down, latter-day Pygmalion, and embrace

him. Or barring Eros (and the guards) I’d trace

 

his face, the supple muscle of the marble.

I had a student who resembled him –

yes, Angelos – arrogant and beautiful.

I never touched him though he touches me in dreams.

Eros dangles his perfection in our faces

like one-armed Hermes with his promise of the grapes.

 

 

I was certain I’d dream of him last night.

Instead I dreamed another in the growing chain

of others with whom it ended not quite

right. But the thirst was perfect, if its price pain

and shattered crystal, spilling wine, all part

and parcel of our imperfect lives. Then Art

 

startles out of heart ache, marble or page.

You learned this long ago. Now I too see

the wildest things require the strongest cages,

the panther’s double bars, or the seeds,

bloodysweet and bitter, in the pomegranate’s

rind. Love held tight in a sonnet.

 

 

Caro Mister Merrill,

 

spero mi perdoni l’informalità

di questa lettera, timbro postale di Olimpia

(Grecia, non Washington), dal compito non facile:

varcare confini da lei varcati, tempo, mortalità,

per arrivare a lei, che ha passato una vita a cancellare

versi, manipolandoli, levigandoli per farli splendere

 

miti e luminosi come la statua di cui ieri

mi sono innamorata. Sono certa che anche lei

l’ha visto, l’Hermes perfetto di Prassitele,

labbra turgide, fianchi in contrapposto. Avrei voluto

trascinarlo giù, Pigmalione d’oggi, e abbracciarlo.

Oppure, se non per Eros (e le guardie) tracciarlo

 

con le dita: il volto, il duttile muscolo del marmo.

Ho avuto uno studente che gli somigliava –

sì, Angelos – arrogante e splendido.

Non l’ho mai toccato, anche se lui mi tocca in sogno.

Eros mi fa penzolare la sua perfezione in faccia

come Hermes con un braccio solo con la sua promessa d’uva.

 

Ero sicura che l’avrei sognato ieri notte.

Invece ho sognato un altro nella crescente catena

di altri con cui non è finita affatto

bene. Ma la sete era perfetta, anche se il suo prezzo è pena,

cristalli frantumati, vino rovesciato, tutto parte

integrante delle nostre vite imperfette. Allora l’Arte

 

fa trasalire per l’accoramento, marmo o pagina.

Lei l’ha imparato tanto tempo fa. Adesso anch’io vedo

che le cose più selvagge esigono le gabbie più robuste,

le doppie sbarre della pantera, o i semi,

sangue-dolci e amari, sotto la buccia

della melagrana. Amore stretto stretto in un sonetto.

 

 

 

Underwood

 

However, woman is not a poet: she is

either a Muse or she is nothing.

Robert Graves, The White Goddess

 

 It’s been quiet

for too long, so I lug the damned

thing up from the basement. It’s heavy

but I’m strong; accidental girl-child,

I hammer straight and throw as true

as any dextrous boy you know.

 

Some labours are harder. Imagine

raging, fully armed, from your father’s skull,

or rising, parthenogenone, out of foam

and sperm. Does the slant of your prose –

or of your cheekbones –

tell you where you’re from?

 

Some girls learn early

what’s holy, from priests

or fairy tales, the clack

and clatter of a typewriter, rising. Black,

compact, and magical, it sits

on my desk now. These are my poems,

pistil, stamen, blood and bruises.

 

Please do not assume

that I am here for your amuse-

ment. I’ll paint my nails with Vamp,

Innocence or Siren, and keep them short

to strike the keys, but sharpened,

to raise hackles, or raze the parchment

flesh of the back of the palimpsest lover.

 

 

Underwood

 

Tuttavia, la donna non è poeta;

è una musa o non è niente.

Robert Graves, La Dea Bianca

 

C’è stato silenzio

per troppo tempo, quindi trascino il dannato

aggeggio su dal seminterrato. È pesante

ma sono forte, bambina accidentale;

inchiodo dritto e lancio preciso

come ogni destro ragazzo che conosci.

 

Alcuni travagli sono più duri. Immagina

di esplodere, armata di tutto punto, dal cranio di tuo padre,

o sorgere, partenogenica, da schiuma

e sperma. Il taglio della tua prosa –

o dei tuoi zigomi –

può dirti da dove vieni?

 

Alcune ragazze imparano presto

cosa è sacro, dai sacerdoti

o dalle favole, il clack

e lo schiocco di una macchina da scrivere, che sale.

Nero, compatto e magico, sta

sulla mia scrivania ora. Queste sono le mie poesie,

pistillo, stame, sangue e lividi.

 

Per favore non dare per scontato

che sono qui per il tuo divertimento.

Mi dipingerò le unghie con Vamp,

Innocence o Siren, e le terrò corte

per battere sui tasti, ma affilate

per far rizzare il pelo sulla schiena

o scuoiare la pergamena dalle spalle

all’amante-palinsesto.

 

 

Lucy: bpm 37093

 

         for Lucy Rosenthal

 

 Astronomers had always theorized

that when a star’s used up its nuclear fuel

and died, its carbon heart would crystallize.

And now they’ve found the proof: a cosmic jewel,

ten billion trillion trillion carats’ worth

of diamond in the sky: yes, like the song.

And when they seismographed the white dwarf’s depths

she sang back, resonating like a gong.

 

Was that what I was hearing all those times

I walked at night to listen to the stars?

Just Lucy’s music, a sidereal chime

that rang its way into my carbon heart?

I like the thought that burnt-out hearts of stars

can sing to us, even across light years.

 

Lucy: bpm 37093

 

per Lucy Rosenthal

 

Gli astronomi avevano sempre teorizzato

che, una volta consumato il carburante atomico,

il cuore di carbonio di una stella morta si sarebbe cristallizzato.

E adesso ne hanno la prova: un gioiello cosmico,

dieci milioni di miliardi di miliardi di miliardi di carati

di diamanti in cielo – sì come nella famosa song,

e gli abissi della nana bianca una volta sismografati,

hanno cantato di rimando, risuonando come un gong.

 

È questo che sentivo tutte quelle

notti che camminavo per ascoltare le stelle?

Proprio la musica di Lucy, un’armonia dai firmamenti

che si faceva strada nel mio cuore di carbonio?

Mi piace pensare che i cuori bruciati delle stelle

cantino per noi, anche se anni luce distanti.

 

 

Pasolini e Berlinguer: l’austerità come lotta?

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Foto di djedj, da Pixabay

di Diana Napoli

Walter Siti ha ricordato, in un’intervista per una puntata speciale di Fahrenheit , le parole di Alberto Moravia secondo cui Pasolini amava la contraddizione perché pensare era astratto mentre contraddirsi era personale. Quest’osservazione sintetizza probabilmente una delle maggiori difficoltà nell’avvicinarsi a Pier Paolo Pasolini (al netto della vastità della sua produzione e dell’enorme bibliografia critica): trovare anzitutto una modalità con cui approcciarsi alla sua figura al di là dell’esigenza, suscitata spesso dalla sua opera, di un’immediata presa di posizione, di adesione o di distanza.

Lo scriveva bene Franco Fortini raccontando e analizzando, in Attraverso Pasolini, la storia e le ragioni di una relazione burrascosa che si era articolata nel corso di almeno due decenni, dalla collaborazione alla rivista Officina, fondata a Bologna nel 1955, alla distanza sempre più netta che li aveva separati. Non si tratta di indicare la contraddizione come una categoria essenziale a Pasolini, ma di sottolineare quanto sia necessario per il lettore assumerla per poter affrontare le “verità che balenavano dentro i suoi errori logici”: “Aveva torto e non avevo ragione. […] Credo che il progetto di Pasolini, ossia la proiezione di una complessiva proposta di sé a se stesso e degli altri a loro, sia stato erroneo e senza avvenire; e che il suo rovello intellettuale sia stato spesso o oscurato o limitato da un irrimediabile sconcerto della mente. Quando dico che non ebbi ragione, non parlo però di quanto posso avere scritto, anche a lui e su di lui. […] Sebbene creda, sì, di aver avuto, quanto a Pasolini, ragione nell’ordine della ragione, so di avere avuto torto di fronte all’albero d’oro della vita” .

Forse Pasolini è stato semplicemente un pensatore inattuale che, proprio alla stregua di Nietzsche, giudicava come un danno ciò di cui la sua epoca andava orgogliosa. Nel pieno boom economico, stigmatizzava il progresso mettendone in luce il costo in termini di felicità e autenticità della vita; negli anni di ascesa elettorale del PCI, negli anni delle grandi vittorie laiche – anche se non necessariamente attribuibili a una decisa azione del PCI – non smetteva di parlare di “sconfitte”. Ma anche quando sembrava esprimere pienamente il proprio tempo, anche quando sembrava coglierne direttamente le istanze – ad esempio girare il Vangelo secondo Matteo nel clima nel Concilio Vaticano II, pubblicare le Ceneri di Gramsci dopo il XX Congresso del PCUS a cui seguirono i tragici fatti d’Ungheria – riusciva a porre sempre una distanza, uno scarto tra sé e il proprio tempo, come a voler dire qualcosa di ulteriore, o a esplicitarne un non detto. In questo senso potremmo osservare che è stato propriamente e pienamente un contemporaneo nel senso in cui Giorgio Agamben definisce questo aggettivo: il contemporaneo è colui che appartiene al proprio tempo senza coincidervi mai completamente ed in questo scarto – in cui sta la sua inattualità – lo afferra “troppo presto”, ma anche “troppo tardi” . E proprio abitando il proprio tempo tra un “già” e un “non ancora”, Pasolini è riuscito ad esprimere drammaticamente una transizione, una trasformazione che rappresentava, per usare un’espressione del segretario del PCI Enrico Berlinguer su cui torneremo alla fine, “qualcosa di vero che sta sotto la pelle della storia”.

Non è ovviamente un caso il riferimento a Berlinguer. Pasolini è stato, in parte, un intellettuale engagé. È lui stesso a sottolineare come il ruolo dell’intellettuale sia quello di essere la coscienza critica della società, avendo il “dovere” di “esercitare prima di tutto e senza cedimenti di nessun genere un esame critico dei fatti” . In questo esercizio, il suo interlocutore principale è sempre stato il PCI, con cui ha intessuto nel corso degli anni un rapporto senza soluzione di continuità di filiazione e separazione. Ha scritto Mariamargherita Scotti, proprio in relazione a Fortini e Pasolini: “Orfani del cattivo padre comunista, ne cercano continuamente l’abbraccio, consapevoli della difficoltà di una autonomia incapace di fornire quell’identità storica e politica necessaria a sopportare il peccato originale dell’essere intellettuale che solo i partiti del movimento operaio sembrano allora poter regalare a chi ne accetta le regole e la disciplina” .

Basti pensare, a titolo di esempio, all’evoluzione dell’accoglienza dei suoi due romanzi “romani” da Ragazzi di vita a Una vita violenta. Al momento della sua pubblicazione, nel 1955, Ragazzi di vita fu fortemente criticato sulla stampa comunista. Solo per citare qualche commento, dalle colonne de L’Unità dell’11 agosto 1955 Gaetano Trombatore decretava che non si trattava nemmeno di un romanzo, ma di un susseguirsi di scene intrise di un “atteggiamento estetizzante” che “senza essere né di distacco né di comprensione si appaga nel gusto di una rappresentazione sensitiva intinta di lubricità”; e questo in quanto l’intenzione di Pasolini era, come il titolo lasciava intendere, limitarsi a parlare “dei ragazzi di vita e non della vita dei ragazzi”. Da Rinascita Rino Dal Sasso tacciava lo scrittore di essere un “turista che scopre un mondo movimentato e interessante tutto compiaciuto per le possibilità letterarie che gli offre” . In generale dal partito si levano critiche risentite per la descrizione del mondo delle borgate come un mondo senza futuro, disperato, nonostante da anni i compagni svolgessero un lavoro profondo per cambiare le coscienze, in direzione dell’emancipazione.

Per certi versi Pasolini sembra far sue queste obiezioni. In un’intervista su Nuovi argomenti qualche anno dopo non esita ad affermare: “io credo soltanto nel romanzo ‘storico’ e ‘nazionale’, nel senso di ‘oggettivo’ e tipico’. Non vedo come possano esisterne di altro genere, dato che ‘destini e vicende puramente individuali e fuori dal tempo storico’ per me non esistono: che marxista sarei?” . E infatti Una vita violenta, pubblicato nel 1959, viene accolto proprio come un romanzo marxista. Malgrado alcune perplessità, si riconosce che “questa volta Pasolini ha scritto il romanzo, e lo ha scritto proprio ripartendo da quel mondo, ma rifiutandone un’interpretazione strettamente naturalistica, anzi ponendosi esattamente e intrepidamente il problema della immissione di questo magma negli stampi della società di oggi” .

Nel cercare, dunque, costantemente l’“abbraccio” del PCI e allo stesso tempo “svincolandosene” (passando, a titolo di esempio, dal tenere una rubrica settimanale sul comunista Vie nuove tra il 1960 al 1965 a scrivere su quotidiani borghesi come Il Tempo e Il Corriere), Pasolini non ha mai smesso però di ergere questo partito a punto di riferimento, considerandolo “la salvezza dell’Italia e delle sue povere istituzioni democratiche”. Nel celebre articolo del 1974 pubblicato sul Corriere della Sera con il titolo Che cos’è questo golpe, e nonostante le critiche che nello stesso articolo muoverà all’indirizzo del sistema di potere del PCI, questo viene descritto – con parole spesso ripetute e prese in prestito – come “un paese pulito in un paese sporco, un paese onesto in un paese disonesto, un paese intelligente in un paese idiota, un paese colto in un paese ignorante, un paese umanistico in un paese consumistico” .  

In questo dialogo mai interrotto, la distanza di Pasolini dal PCI si spiega meno con ragioni contingenti che sulla base di divergenze ideologiche profonde. Com’è noto, la prima forte perplessità di Pasolini riguardava innanzitutto il ruolo del progresso. Sin da Le poesie a Casarsa (pubblicate per la prima volta nel 1942), veniva vagheggiato una sorta di tempo perduto in cui regnavano l’innocenza e la purezza sottratte al corso della storia. Anzi, si potrebbe forse dire, più che mancanza di fiducia nel progresso, mancanza di fiducia proprio nella storia e “delusione della storia” . Il suo romanzo Il sogno di una cosa (pubblicato nel 1962 ma scritto nel 1949-1950 e il cui titolo riprende una frase tratta da una lettera di Marx a Arnold Ruge del settembre 1843), che vede come protagonisti dei giovani braccianti dopo la Seconda guerra mondiale, termina con la morte tragica di uno di essi. Pasolini, come aveva scritto nella premessa Al lettore nuovo per una raccolta antologica di sue poesie per Garzanti, aveva aderito al comunismo proprio vedendo le lotte dei braccianti friulani – infatti il titolo originario de Il sogno di una cosa doveva essere I giorni del lodo De Gasperi – e solo successivamente era arrivata la teoria, erano arrivati Marx e Gramsci. Il suo restava un “marxismo mai ortodosso” sotto la cui egida avevano trovato convergenza i diversi filoni della sua poesia .

La difficoltà – che è anche una difficoltà esistenziale – di un’adesione ideologica complessiva è palese ne Le ceneri di Gramsci (1957). Il PCI con cui Pasolini si confronta è un partito che aveva fatta sua la lezione gramsciana (dal Risorgimento come rivoluzione passiva e incompiuta, all’egemonia necessaria da esercitare in quanto partito che agisce come un moderno principe, al ruolo degli intellettuali organici). Ma di fronte alla tomba di Gramsci, egli può solo prendere atto de “Lo scandalo del contraddirmi/ dell’essere con te e contro di te; con te nel cuore, /in luce, contro te nelle buie viscere”. Ad attrarlo nel mondo “proletario” è “la sua allegria, non la millenaria/ sua lotta: la sua natura, non la sua/ coscienza; è la forza originaria”. Fino a riconoscere: “E’ un brusio la vita, e questi persi/ in essa, la perdono serenamente/ se il cuore ne hanno pieno: a godersi/ eccoli, miseri, la sera: e potente/ in essi, inermi, per essi, il mito/ rinasce… Ma io, con il cuore cosciente/ di chi soltanto nella storia ha vita/ potrò mai più con pura passione operare/ se so che la nostra storia è finita?” .

La percezione della “fine” di una storia – e il disincanto – la ritroviamo in Epigramma alla bandiera rossa ne La religione del mio tempo. Le glorie borghesi e operaie sono d’altri tempi e sono state cancellate da una trasformazione che la bandiera rossa non è più grado di rappresentare: essa rimane solo in attesa che il più povero la sventoli .

E’ molto interessante, a questo proposito, l’analisi di Asor Rosa che, per spiegare la difficoltà pasoliniana di aderire fino in fondo alla visione del mondo del PCI, fa ricorso alla categoria dell’impolitico. Pasolini sarebbe un impolitico cioè, uno “scrittore o intellettuale che pur non avendo una vocazione politica nel senso stretto del termine, tuttavia non può fare a meno di lasciarsi coinvolgere da alcuni grandi movimenti della storia, nel corso dei quali esso libera quella carica di prorompente vitalità che la concentrazione puramente artistica degli anni precedenti gli aveva consentito di accumulare” . Non può fare a meno di farsi coinvolgere perché ad animarlo è un “rifiuto drastico e doloroso dello stato di cose esistente, del dominio della storia sull’uomo” . E’ in nome di questo rifiuto che Pasolini abbandona la sua impoliticità per assumere il ruolo di intellettuale impegnato, senza che però quest’impegno si risolva mai in una “pacifica identificazione”   con la visione del mondo del partito. Pur ricercando “l’abbraccio del padre”, per riprendere quest’espressione, la sua impoliticità non viene mai cancellata del tutto ed esplode – alla fine degli anni Sessanta ma soprattutto nei primi anni Settanta che coincidono con una profonda crisi esistenziale di Pasolini stesso.

Si potrebbero prendere come esempio – tra i tanti – i testi che scrive in occasione della vittoria del “No” al referendum abrogativo del divorzio nel 1974. Benché non si fosse trattato di una battaglia del PCI, la vittoria del “No” viene ovviamente considerata dai comunisti una vittoria laica ascrivibile alla lunga storia della lotta per l’emancipazione che da decenni andava combattendo la sinistra. Pasolini non si stanca di scrivere, da Il Corriere della sera, che si trattava di una sconfitta in quanto indicava un cambiamento nella mentalità e nei costumi in direzione di un consumismo nei rapporti di cui nessuno dei partiti sembrava essersi accorto . Le risposte non tardano ad arrivare e, in pieno stile ottocentesco, sulla stampa va in scena una feroce polemica con Moravia, con Calvino, Ferrarotti, con Maurizio Ferrara che, dalle pagine de L’Unità, di Paese Sera lo attaccano e contestano le sue posizioni anche con una certa facilità. Del resto sono gli anni in cui Pasolini parla di un non meglio identificato “Nuovo Potere” che in Italia si manifesterebbe come omologazione, in Cile come giunta militare. Sono gli anni in cui stigmatizza come novità assoluta un processo di trasformazione sociale senza utilizzare nessuna delle categorie di lettura che altri intellettuali e filosofi (ad esempio gli esponenti della Scuola di Francoforte) avevano elaborato.

In altre parole, le sue osservazioni e riflessioni, più o meno suggestive, non veicolavano nessuna operatorietà analitica, rivelandosi poco utili per interpretare i dati politici contingenti che infatti egli stesso faticava a padroneggiare. Basti pensare al giudizio sul compromesso storico che proprio a partire dal 1973 Berlinguer aveva elaborato come strategia con una serie di articoli pubblicati su Rinascita: Pasolini in alcuni momenti ne riconosceva la lungimiranza, ma come una strategia elaborata addirittura nel 1968 al fine di afferrare o tentare di limitare o correggere l’inarrestabile “Nuovo Potere” . In altri momenti si domandava se non fosse arrivato ormai il tempo per un’altra lotta in condizioni che la sua lettura vedeva totalmente mutate . Anche il termine “sconfitta”, che non si stancava di ripetere dopo il referendum sul divorzio, non solo si prestava a voluti e indubbiamente malevoli fraintendimenti, ma era difficilmente spendibile anche come slogan: come si poteva parlare di sconfitta se gli iscritti e i consensi al PCI continuavano a crescere? Pasolini si ostinava, nel deprecare l’omologazione in atto nella società italiana, a sostenere l’assenza di qualunque differenza tra un giovane fascista e un giovane comunista e questo proprio negli anni di massimo scontro ideologico che si manifestava con una visibilità e una violenza da cui difficilmente si poteva prescindere. Sicuramente sostenere che un giovane diventava fascista per caso e che sarebbe bastato parlargli per capirlo, sarebbe bastato un incontro diverso nella sua vita per cambiarne il corso è una posizione pedagogica interessante . Più ardua però da sostenere nel pieno della strategia della tensione.

Questi brevi dati servono però semplicemente a spostare lo sguardo nel nostro tentativo di avvicinarci a Pasolini. Non è, in altre parole, sul piano della comprensione degli avvenimenti politici che le sue riflessioni ci aiutano a collocarlo nel suo tempo. Al netto delle esagerazioni, delle feroci polemiche sulla stampa, delle facili contestazioni, al di là della cosiddetta “mutazione antropologica”, della critica al progresso o al conformismo, Pasolini coglieva un fenomeno politico più profondo: uno sfaldamento ideologico, un vuoto all’orizzonte di qualsivoglia azione politica che non poteva essere colmato dalla proposta del PCI perché mancava di una promessa fondamentale per ogni lotta, la promessa della felicità. “Non è la felicità che conta? – scrive nel 1974 – Non è per la felicità che si fa la rivoluzione?” .

Per Pasolini, il PCI aveva smesso di contestare il “lieto fine” verso cui il corso del mondo sembrava inesorabilmente scorrere, ovvero la prospettiva – ma per essere più precisi l’illusione – di diventare semplicemente tutti borghesi e in questo stava tradendo, per così dire, anche se non è una sua espressione, l’orgoglio di classe, mostrando l’incapacità di offrire un modello alternativo. Non ci può essere felicità nell’attesa di trasformarsi esattamente nel proprio nemico.

Certamente nella ricerca di una promessa di felicità, non manca una certa dose di ingenuità. Per il modo in cui si esprimeva – rimpiangendo una civiltà contadina che probabilmente non era mai esistita, arrivando a scrivere che l’omologazione consumistica era stata più feroce del fascismo – molti intellettuali vicini al PCI, come Maurizio Ferrara o Italo Calvino, lo accusavano di rimpiangere “l’Italietta”. Ma Pasolini, rispondendo a queste critiche insiste e, per certi versi, alza la posta: se aveva un rimpianto, era per il Terzo Mondo, per un mondo contadino che nemmeno il fascismo aveva sradicato così violentemente, per un’età che non si poteva affatto definire “dell’oro”, ma – scrive – “del pane” (riprendendo un’espressione di Felice Chilanti), di uomini che erano consumatori di beni necessari, il che rendeva necessaria la loro vita, in quanto è il superfluo a rendere la vita superflua . Peraltro in questo orientamento così nostalgico Pasolini era in buona compagnia: esisteva un’importante tradizione nello stesso PCI che immaginava il futuro con i caratteri arcadici del passato. Da questo punto di vista forse il testo più indicativo è Il futuro ha un cuore antico di Carlo Levi, pubblicato per Einaudi nel 1956. In seguito ad un viaggio in URSS nel 1955 Levi ci lascia questa testimonianza di un mondo contadino quasi liberato della schiavitù del lavoro ma i cui rapporti personali e il cui immaginario erano rimasti immodificati nei secoli nonostante l’avvento di una nuova società.

Foto dall’archivio Flickr della Camera dei deputati

Quanto le osservazioni di Pasolini non fossero anodine, è dimostrato in parte anche dall’azione di Enrico Berlinguer, segretario del PCI dal 1972. Non è questa la sede per ricapitolare le difficoltà e la drammaticità del decennio che vede consolidarsi e poi naufragare la proposta del compromesso storico. Fatto sta che Berlinguer, nella temperie degli anni Settanta, si è dovuto confrontare – ed è stato sollecitato a farlo – con una riflessione profonda sul senso e il significato dell’ideologia marxista, con il dissenso nei Paesi socialisti dell’Est, con il mondo cattolico, con una nuova visione dell’appartenenza alla Nato. In questo confronto, al di là del difficile strappo con Mosca (per alcuni mai veramente consumato, per altri al contrario fin troppo marcato), Berlinguer si è sforzato di elaborare un orizzonte nuovo di “felicità”, una forma di alternativa al capitalismo e che non fosse iscritta tipicamente nella tradizione marxista. E questo in un momento in cui il PCI sembrava poter o dover entrare (senza peraltro mai riuscirvi) nell’area di governo rendendo nell’immediato meno “attrattiva” la sua politica. Ma proprio nelle parole d’ordine dell’epoca apparentemente meno attrattive, Berlinguer trova il modo di plasmare un’idea di felicità alternativa: l’austerità, la lotta al superfluo “che – per usare le parole di Pasolini – rende superflua la vita”.

Nel gennaio del 1977 il segretario del PCI intervenne al Convegno degli intellettuali al Teatro Eliseo . Il suo intervento viene ricordato come il discorso dell’austerità. Berlinguer tuttavia non si rivolgeva alla platea per spiegare la necessità dell’austerità a causa della pesante crisi economica che aveva colpito il mondo occidentale dal 1973 e l’Italia in particolare. Il suo scopo era piuttosto quello di mostrare quanto fosse una scelta obbligata e duratura per portare avanti un progetto di rinnovamento globale della società italiana e quanto fosse l’unica arma nella lotta contro un sistema ormai in crisi in cui dominavano lo spreco, l’individualismo più sfrenato, il consumismo più dissennato pagati affamando una parte dell’umanità: il mondo si era risvegliato, c’era stata la decolonizzazione e ora la crisi suonava un campanello d’allarme per l’Europa indicando che il sistema non era più sostenibile. Tutti i motivi ricorrenti della critica al neocapitalismo così come li aveva violentemente denunciati Pasolini, si ritrovano nel discorso di Berlinguer che si sforzava proprio di colmare quel vuoto che lo scrittore non aveva mai smesso di indicare, offrendo un orizzonte a quel mondo che era stato omologato, distrutto e aveva perso la sua identità con l’avvento ormai definitivo della società dei consumi di massa. E infatti per Berlinguer l’austerità aveva un “concreto contenuto di classe” con cui il movimento operaio affermava “i suoi antichi e validi ideali di liberazione”. Essa si presentava come una politica portatrice di “una moralità nuova”, anche se, di fatto, accettarla e perseguirla significava riconoscere “qualcosa di vero che sta sotto la pelle della storia”. Eccola la diversità comunista, il rifiuto del lieto fine di una ricchezza borghese per tutti capace di riattivare la dialettica della storia: una nuova forma, un nuovo nome per combattere il nemico di sempre, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

Berlinguer ha provato a offrire una via d’uscita al dramma che Pasolini, dal canto suo, aveva tentato di esprimere: cerca di incanalare il disorientamento, il disagio per la fine di una promessa di felicità verso la costruzione di un mondo nuovo che però aveva i toni, i caratteri, i richiami di un mondo antico. Si trattava di tematiche su cui aveva a lungo riflettuto una personalità come Franco Rodano che era stata una fonte d’ispirazione teorica importante per le scelte berlingueriane. Rodano, già nel 1962, aveva scritto un articolo significativo anche solo nel titolo – Il processo di formazione della società opulenta   – in cui osservava come nella società opulenta la classe operaia perdesse la cognizione della sua situazione di sfruttamento.

Si potrebbe riflettere sul fatto che Berlinguer sia rimasto intrappolato nella sua strategia – anche per responsabilità non sue, per un contesto politico che si faceva sempre più ingovernabile. Certamente le prese di posizione del segretario e il suo tentativo di trovare un’identità ideologica nuova in un mondo in cui l’ideologia borghese sembrava essere il naturale sbocco della lotta per il benessere trovarono delle perplessità anche all’interno dello stesso PCI. Perplessità che si fecero sempre più profonde nel momento in cui, nel tentativo di uscire dall’impasse politica in cui si trovava a causa dell’assenza di interlocutori, operò uno spostamento del dibattito in direzione della “questione morale”. Era impossibile entrare nell’area di governo, era impossibile governare con una maggioranza “laica”, era impossibile consumare fino in fondo lo strappo con Mosca, era impossibile sostenere le stesse posizioni della socialdemocrazia europea, era impossibile rimanere semplicemente all’opposizione, era impossibile frenare il calo dei consensi : tutto questo era il dramma non detto della “questione morale” e della “diversità comunista”. Il commento di Nilde Jotti alla famosa intervista rilasciata da Berlinguer a Scalfari per La Repubblica il 28 luglio 1981– ricca di accenti e temi pasoliniani – fu: “Il PCI è sul Monte Sinai e guarda le sconcezze degli altri partiti nella valle” .

Più che un’alternativa, la “diversità comunista” si può leggere anche come una drammatica dichiarazione di impotenza, la stessa che probabilmente animava Pasolini quando denunciava la corruzione o il “Nuovo Potere” senza volto, senza differenza specifica, all’interno di riflessioni con quasi nessuna capacità di incidere sulla realtà.

E’ la strada senza uscita di una storia che era stata una storia di lotta e che aveva perso orizzonte, allegria e felicità; di una storia che non aveva ancora trovato un modo nuovo di raccontare la forma attraverso cui cambiare la realtà; di una storia che, tra un “già” e “non ancora”, non si stancava di contestare il reale malgrado fosse ancora alla ricerca degli strumenti per governarlo.

Pasolini ha espresso la crisi di questa storia e in questo è stato propriamente un intellettuale inattuale – o talmente impolitico da diventare inattuale – che ha messo in evidenza la crisi della logica politica e delle sue categorie tradizionali come chiave di lettura del mondo. Possiamo prenderlo alla lettera e continuare a essere “diversi” e “onesti” o prendere atto del dramma e rigettarci nell’agone.

Il teatro del letto

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di Mario Baudino

Il passo che segue è tratto, per gentile concessione dell’editore, dal saggio “Il teatro del letto” (La Nave di Teseo, 2021), di Mario Baudino. L’immagine, scelta dall’autore: Pierre-Antoine Baudouin, “La lecture”.

Ce lo dice, una volta per tutte, Marcel Proust, a partire al notissimo e ormai proverbiale incipit della Recherche: “Per molto tempo sono andato a letto presto […] sentivo di dover posare il libro che credevo d’avere ancora in mano, e soffiare sul lume. Non avevo cessato, dormendo, di riflettere su ciò che avevo letto, ma le mie riflessioni avevano preso un corso del tutto particolare […] come dopo la metempsicosi, i pensieri di una vita anteriore: il tema del libro si staccava da me, ero libero di prestargli attenzione o no, come volevo.” La metempsicosi è una metafora degli effetti della lettura, delle vite possibili, delle vite desiderate, delle vite narrate. L’argomento del libro che si legge diventa “nostro” come in un’esistenza parallela. La lettura produce una scissione, uno sdoppiamento. Siamo di fronte a una lettura passionale, infantile, sessualizzata, gli igienisti e moralisti del passato l’avrebbero definita femminile, che si imprime nel corpo: un modo di sognare da svegli. La stanza di Combray, “la sola che mi fosse permesso chiudere a chiave, in tutte le occupazioni che invocano un’inviolabile solitudine: la lettura, fantasticheria, le lagrime e la voluttà”, fissa il punto culminante della giornata dell’autore ragazzo – una giornata in cui leggeva da mattino a sera, dovunque si trovasse: quella dove si celebrava un rito segreto e clandestino (come fra i tanti altri possibili, accade a Pennac), nel timore di essere sorpreso dai genitori e rimproverato perché questo piacere metteva a rischio il sonno.

Nelle letture dell’adolescenza, che ricorda invece nel saggio Sulla lettura, il letto o meglio l’intera camera da letto è il sacrario, un tempio che il giovane Proust non si stanca di ammirare, accarezzare con lo sguardo, esplorare. Ma non è solo questione del libro, compagno inseparabile dello scrittore, eppure lontano dall’essere una presenza esclusiva. Nella sua camera – nelle sue camere – piacere e tormento sono per Proust indissolubilmente legati, fino a quando il letto diventa finalmente il “nido”, come nella famosa pagina di La strada di Swann che indignò uno dei primi critici, essendoci un periodo di 44 righe (neanche il più lungo, pare, del gran romanzo); non la citeremo dunque per intero, ma solo nella parte più significativa: “Avevo riveduto ora l’una ora l’altra le stanze che avevo abitate nella mia vita, e finivo col ricordarle tutte nelle lunghe fantasticherie che seguivano al mio risveglio: camere invernali dove, quando siamo a letto, rannicchiamo il capo in un nido intessuto delle cose più disparate, un angolo del guanciale, l’orlo delle coperte, una cocca di scialle, la sponda del letto e un numero dei Débats roses, nido che poi alla fine si cementa secondo la tecnica degli uccelli, standovi appoggiati indefinitivamente.” Con Débat roses lo scrittore indica il Journal des Débats,  che si occupava di politica e letteratura, ed era stampato su una carta lievemente colorata. Ma in questo caso non ha importanza che cosa stesse sfogliando: a parlarci è l’immagine finalmente compiuta del nido, un nido fra l’altro, come quello degli uccelli, che viene per così dire creato inconsapevolmente, obbedendo a una sorta di istinto animale, con la sola attività dell’abbandonarsi, del rannicchiarsi – ed eventualmente del dormire.

In qualche caso la sua costruzione è lenta, persino dolorosa. La prima notte del narratore nel Grand Hotel di Balbec, la località immaginaria sul mare della Normandia, è ad esempio una tempesta di estraneità. E dello spavento, “che tanti altri hanno, di dormire in una camera sconosciuta”, nella quale lo scrittore vede “la forma più umile, oscura, organica, quasi incosciente, del grande rifiuto disperato che oppongono le cose”, costringendosi a una sorta di lotta esistenziale contro le nostre paure. Quel luogo minaccioso diventerà in breve una delizia, e quella stanza sarà poi molto amata, ma solo quando anche per essa la trasformazione sarà compiuta, il nido finalmente intrecciato.

Il nido è l’amore, non necessariamente sensuale, finalmente appagato. E in esso, nella stanza parigina, com’è proverbialmente noto, foderata di sughero per tenere lontano rumori e pensieri fastidiosi, Proust scrive finalmente, a letto, il suo capolavoro. Non ci sono al proposito immagini, anche se non mancano i disegni. Fantastici, idealizzati, di quell’avventura dello spirito (e del corpo nello stesso tempo teso e abbandonato) basati sulle coordinate offerte dallo scrittore stesso: busto eretto contro il cuscino, fogli appoggiati sulle ginocchia (e berretto da notte in testa, il che non giova alla sacralità del momento, ma gli inverni, si sa, potevano essere inclementi).

Il nido, quando la distanza tra i letti sublimi e quelli legati alla bruta necessità si riduce fi no quasi a scomparire non è necessariamente un luogo felice, ma è quello più propriamente nostro; quando siamo soli e anche, al fondo, quando siamo in compagnia. Nessuno come Proust ha saputo raccontarlo in tutte le sue molteplici risonanze psicologiche; si pensi al vero e proprio combattimento con se stesso che ingaggia quando ospita e in un certo senso imprigiona a casa sua l’amata Albertine, la cui presenza o assenza dal suo letto scandisce i tempi della gelosia, dell’amore, del disamore, dei sospetti e del piacere, in un teatro però tutto interiore in cui Albertine non è in fondo che un personaggio secondario, forse un fantasma, una proiezione, un pretesto: dove accanto al “piacere di vederla dormire, non meno dolce di quello di sentirla vivere” ce n’è un altro persino superiore, quello di “vederla svegliarsi”, ovvero “lo stesso piacere che provavo pensando che abitava a casa mia”.

 

 

 

 

 

 

 

Cinque poeti ucraini

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di Arben Dedja

Era qualche anno fa che ho partecipato al progetto Wordyssey. Cinque poesie di poeti ucraini contemporanei venivano tradotte da una lingua all’altra (solo il primo passaggio era dall’originale). Agli occhi di oggi sembra come una catena di solidarietà. Il russo non c’era. I passaggi erano: ucraino-polacco-ungherese-ceco-tedesco-castigliano. Fui coinvolto da Bashkim Shehu, il grande scrittore albanese, che vive da anni a Barcellona. Gli aveva tradotti dal castigliano all’albanese e cercava uno staffettista.

“L’italiano doveva esserci per forza” dissi a Bashkim e gli raccontai la proposta-gioco di Montale per la traduzione della sua poesia Nuove stanze in molte lingue da una all’altra e tutto il suo scetticismo per il testo italiano di ritorno.[1] La speranza che questo scetticismo venga contradetto è l’orgoglio dei traduttori.

Fino a quel momento l’ego dello scrittore mi aveva impedito di tradurre in italiano altri poeti da me stesso. L’indole del traduttore, cioè la mancanza di ego, mi fece iniziare subito il lavoro. Non solo. Mi fu chiesto di trovare qualcuno che proseguisse in altra lingua e così, su mia spinta, Flaviano Pisanelli tradusse le poesie dall’italiano al francese e Romeo Çollaku dal francese al greco. Ho un po’ perso di vista il resto. Per me Itaca si trova in Grecia. Non ne sono più tanto sicuro.

Romeo Çollaku in greco è: Poμἐo Tσoλἀχoυ. Sono importanti anche gli alfabeti. Mi aveva fatto impressione sul sito del progetto Wordyssey il mio nome scritto in cirillico: Арбен Дедя.

“Dov’è il mjagkij znak (ь)?” mi son detto. Ricordavo i libri universitari di mio padre (qualcuno Mamma lo spolvera ancora), studente a San Pietroburgo (si chiamava Leningrado allora): scriveva il cognome con “ь” dopo la seconda “d”.

“Che sia la mancanza di mjagkij znak la ragione di questa guerra?” Era un terzo pensiero notturno e stupido, prima di inviare ad Andrea Inglese queste splendide poesie.[2]

Маріанна Кіяновська [Marijana KIJANOVSKA] (1973)

Dittico (dedicato a Milosz)

se la città dove tutto ebbe inizio

fosse solo città

paese e

non un punto di fuga

non un mucchio di fotografie

di facce uomini senza facce

se il vento se la neve

se gli olivi e i limoni

se il caffè e il vino

se tutte queste che senza eccezione

la metà del libro nasconde

non avessero lasciato chiazze

sulla pelle sul pavimento per esempio

mentre trasciniamo le ombre

se il passato fosse trascorso soltanto

o più che trascorso

più di così

allora il poeta sarebbe stato soltanto poeta

o più che poeta

più che semplicemente colui che

sale e scende

su e giù

su e giù

e così via

la morte come un sole tra le linee

come anche dietro

e un uccello sapiente

non starebbe più nel nido o nella gabbia

nella barba o negli occhi

nella mano o nella bocca

ma da qualche parte là dentro

all’interno

verso il più intimo

camminando

incapace di volare

decollerebbe posandosi poi

e così via

*

Сергій Жадан [Serhij ZHADAN] (1974)

Amore fino alla morte

Ti ricordi quella casa un po’ sospetta?

Lì abitavamo zombie disperati.

Un inizio di saliscendi, sonno tra le sedie

nelle vasche da bagno, delle squallide notti d’albergo,

ora la tua mano sul mattone nudo,

il suo tepore, il suo spessore,

vero mattone di fango.

Ricordi il vecchio? C’imbattemmo per le scale.

Appiattito al muro per farci passare,

rigido come cadavere, sguardo diffidente negli occhi sporgenti.

Seguendoti in ogni movimento

abbagliato dallo splendore

delle tue luminose caviglie di porcellana

nelle colonne di luce e di polvere

dalla grazia delle tue ginocchia che sprigionavano calore.

Il poliziotto che volle allora vederci era sospettoso e diffidente

quando domandò: “Com’è possibile? Un mese! Un intero mese!

Senza notare la sua scomparsa? Che non si faceva vivo? Da un mese?

“No, veramente!” mi giustificai, “era il più bel mese della mia vita”.

“E la puzza?” insisté. “Non era strana la puzza?”

“No. E perché?” risposi. “Talvolta la vita puzza”.

“Morì nel letto, sapete? Sopra la vostra testa? Soffocato nel materasso

steso per terra. Per poco vi gocciolava il soffitto”.

Allora alla finestra cominciò l’indescrivibile estate,

la radio trasmetteva notizie amare

se fossi lì lì per morire, la morte mi avrebbe sorpreso ascoltando le notizie.

Afferrasti il mio cuore quando voleva fermarsi e di nuovo l’hai imboccato di speranze

affinché iniziasse a battere ancora sotto la tua mano.

Cosa dice colui che si gira per guardarti?

Cosa può dire chi ti guarda?

Di amarti fino alla morte.

Ti amerò fino alla morte.

La soccorreremo per potersi alzare

o c’inabisseremo nel buio di grotte e gallerie.

Tu continua, zombie, scricchiola le ossa,

celebra la morte, suona

il tuo banjo sgangherato.

Canta quel che conosci meglio di chiunque altro.

Il tempo non ci riduce a schiavi, la nostra canzone lo scaccia.

Sgorga felice nel cavo della mano l’amore

con cui di giorno in giorno abbiamo coltivato i fiori

delle nostre tombe.

*

Богдана Матіяш [Bohdana MATIJASZ] (1982)

coloro che amano si commuovono guarda che belli che sono

timidi come la prima luce dell’alba

fiduciosi come i colombi

coloro che amano guarda come sono generosi

con che tenerezza accettano quel che li capita davanti

guarda le loro mani colme di tesori

quella pelle quegli occhi la limpida gioia

nel beato sorriso la calma

la pace di una leggera brezza d’estate

coloro che amano sono come i delfini

veri monelli che balzano dall’acqua

e centinaia di volte schiudono gli anelli delle onde

luce spargendo intorno

ci insegnano la gratitudine per quel che c’è e non c’è nel mondo

ci insegnano dolcemente e con fiducia di avvicinare gli altri

senza ostinazione per poi arretrare

come nel crepuscolo la luce si spegne lenta l’uccello si zittisce

come l’acqua della terra scorre e sgorga ancora

*

Остап Сливинський [Ostap SLYVYNSKYJ] (1978)

_

Qualcosa lì davanti era sempre in luce –

e non era un piolo,

né un segnale di deviazione,

né un riverbero di fuoco, né un fanale,

dimora di nessuno,

nemmeno la caccia o la guerra di qualcuno

che perdurerebbe in questi luoghi,

né uomo o animale,

né albero rinsecchito

per cadere nel suo purgatorio,

indistruttibile come l’anima nel corpo lucente, né

invito o allusione, non

qualcosa

di solidale con noi che siamo senza scampo,

qualcosa di sconsolato se siamo inconsolabili

di scoraggiante per quanto capitoliamo scoraggiati davanti alla sconfitta.

Sorda a preghiere e mutui scongiuri,

in guerra come in pace,

non per questo con meno inquietudine se

il nostro silenzio di più dura.

Così tanto illuminato

per i piccoli prìncipi continentali e per coloro

che giù per le scale si susseguono.

Miopi e prudenti

come madri invecchiate.

E nessuna speranza, questo

succede spesso,

non c’è nessuna speranza,

così è.

*

Олег Лишега [Oleg LISEHA] (1949-2014)

Canto 555

Finché non è troppo tardi: spacca il ghiaccio con la fronte!

Finché non è troppo tardi: spacca il ghiaccio con la fronte!

Passagli attraverso, vai!

Che il meraviglioso mondo di nuovo si incontri con te!

La carpa è proprio il contrario,

affanna negli abissi, si tuffa qua e là.

La carpa è lì

da prendere prima o poi.

Ma tu sei un uomo e non appartieni alle reti.

Le carpe sono altra cosa: interi secoli in frotte.

Tuffarsi in cumuli di sabbia, paurosi e bui

per ricomparire nell’altro estremo.

Ma il nostro tempo, non è da sempre inseguito?

Un’aletta striscia l’altra… è andata!

Ti senti abbandonato? Ma sei un uomo!

Non diventare codardo: dai guai ne uscirai ogni volta.

Finché non è troppo tardi: spacca il ghiaccio con la fronte!

O tu, immenso, spezzato, meraviglioso nuovo mondo!

*

[1] I più scettici sull’arte di tradurre li ho sempre trovati tra i ranghi dei traduttori, come i peggiori dei pazienti tra i medici.

[2] Non so voi, ma io in questi testi scritti una decina d’anni fa ci trovo già la guerra.

Su Il potere del cane –  Domenico Conoscenti

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Reietti, donne e veri uomini nel Montana degli anni Venti

di Domenico Conoscenti

Era sempre Phil a occuparsi della castrazione: l’incipit de Il Potere del cane immette brutalmente il lettore dentro la vita del grande ranch dei fratelli Burbank attraverso una scena che non è soltanto una tranche de vie. Essa pone da subito come centrale il tema dell’evirazione che dall’accezione letterale si riverbera sulla componente umana nei suoi aspetti psicologici, affettivi, relazionali, tanto più evidenti nel mondo omosociale del ranch. Che sia sempre Phil a occuparsene implica l’indubbio coinvolgimento del personaggio nella lettura simbolica, senza conseguirne tuttavia che la castrazione lo riguardi solo come colui che la agisce. Tutto il romanzo, infatti, è percorso da un’ambivalenza a volte potenziale, concentrata, a volte sviluppata nel corso della narrazione. La castrazione della mandria ritorna nel capitolo 9, superata la metà del romanzo, segnando l’apertura di un nuovo ciclo, successivo a quello che ha raccontato il “tradimento” di George nei confronti del fratello, cioè il suo inatteso matrimonio con Rose, e le subdole vessazioni di Phil contro di lei. Questo secondo incipit coincide con l’arrivo in casa Burbank di Peter, il figlio adolescente di Rose, che imprime un’accelerazione febbrile ai rapporti tra i protagonisti e una vera e propria svolta, portando al sorprendente evento finale.

Più che soci, più che fratelli [p. 10] definisce i fratelli Burbank la voce narrante e (quasi sempre) onnisciente. Phil, il maggiore, si compiace di creare con i propri dipendenti un rapporto di (paternalistico) cameratismo senza far pesare il fatto di essere laureato, è dotato di un’intelligenza versatile e acuta, anche nel cogliere i punti deboli degli altri, sui quali eventualmente infierire. George, all’opposto anche fisicamente (è tarchiato e grassoccio), non è riuscito a laurearsi, è lento a comprendere le cose, ha un approccio più empatico con le persone, ma è riservato, di poche parole, e ispira nei suoi lavoratori un senso di deferente, imbarazzato rispetto. Nonostante le differenze, fra loro c’è un forte legame che sembra avere trovato una sua stabilità. Eppure, nel capitolo iniziale emerge un leggero sfalsamento, a partire dal coinvolgimento col quale Phil ricorda a George l’anniversario della prima volta in cui hanno condotto insieme una mandria, senza tuttavia suscitare nel fratello echi altrettanto intensi. Bisogna stare al passo coi tempi, afferma ad un certo punto George [p. 19]: al contrario di Phil, egli è infatti pronto per un cambiamento, che si innesca nella locanda di Rose Gordon a Beech. Lì, al momento di saldare il conto, George trova la donna in lacrime. Torna a incontrarla più volte in seguito, ignorando l’opposizione ostile di Phil, cui comunicherà l’avvenuto matrimonio e l’arrivo della moglie a casa Burbank.

Quello che Phil racconta a sé stesso per spiegare l’angoscia provata alla relazione del fratello si appunta sulla scelta di quella donna: una donnina modesta in tutti i sensi, che appartiene ad un mondo sociale inferiore, vedova di un marito suicida (che lui peraltro ha conosciuto) e con un figlio a carico. Un’approfittatrice, che intende sfruttare la posizione socio-economica del loro nome e ricoprire il ruolo di nuova signora Burbank. È un punto di vista lontanissimo da quello di George, un’interpretazione tutta in negativo del vissuto e delle presunte intenzioni di Rose. La sua furibonda reazione esplicita il rifiuto di vedere il fratello compiere scelte in cui avverte la fine del loro essere un unico gemello, vivendo tutto ciò come un tradimento, ma non è difficile scorgervi la prospettiva di una solitudine totale, l’angoscia di non sapere cosa fare della propria vita al di là del lavoro. Phil infatti non sembra prendere in alcuna considerazione la possibilità di crearsi una sua famiglia, e l’avversione nei confronti di Rose si va configurando all’interno di un’avversione-paura più generale nei confronti dell’universo femminile. Scopriamo che lui, al contrario di George, si rifiutava di utilizzare il bagno padronale, quando i genitori (i Vecchi Signori) vivevano ancora lì: quel posto aveva un profumo di donna offensivo, che la ciotola col sapone da barba e il set dei rasoi del Vecchio Signore non riuscivano a neutralizzare [pp. 107-108]. Non ci viene detto molto sul suo rapporto con i genitori, di certo in quel bagno Phil avvertiva come invadente (castrante?) la presenza della femminilità materna. E il suo ostinato rifiuto di curare la pulizia personale, delle mani in particolar modo, il rifiuto di “rendersi presentabile” per condividere i pasti comuni hanno qualche collegamento col rifiuto del “femminile”.

Nel Montana degli anni Venti la separazione dei sessi è una salda consuetudine che non prevede nessun rapporto di parità. La gestione del potere (economico) è maschile, maschile la libertà di movimento negli spazi aperti o pubblici. Le donne entrano in relazione con i braccianti in quanto prostitute approcciate nei saloon o in quanto domestiche, in entrambi i casi prive di prospettive matrimoniali perché in un ranch non c’è posto per gli uomini sposati [p. 128]. Per i lavoratori del ranch esistono solo due tipi di donne, quelle buone (pure, asessuate e sante quanto il buon Dio: sorelle, madri, amiche d’infanzia) e quelle cattive, che non meritano più rispetto degli animali [p. 274]. E non è soltanto un habitus di Phil, ma anche di George e del Vecchio Signore, disapprovare le donne che fumano o bevono in pubblico, si tagliano i capelli, si danno da fare. Da un’ottica più personale e intima, anche Rose si renderà tristemente conto, ripensando sia al primo che al secondo marito, di non potere essere niente senza qualcuno (un uomo) che creda in lei, non poteva essere altro che quello che gli altri vedevano in lei [p. 259].

Eppure la misoginia generale non impedisce agli uomini di sposarsi e di mettere al mondo dei figli. Il maschilismo del Montana rurale ha ereditato qualcosa della “volontà di potenza” dei pionieri che infine hanno sopraffatto gli Indiani per impossessarsi delle loro terre, qualcosa della vitale aggressività con cui hanno affrontato anche una natura selvaggia, contando solo su sé stessi. Ma è un maschilismo che, a maggior ragione in condizioni ormai più favorevoli, sembra assumere in Phil una forma esasperata di machismo. Nel rapporto dialettico della maschilità con la sua negazione, è lui il personaggio su cui si appunta più a lungo l’attenzione del narratore. In lui è netto il disprezzo per qualunque agevolazione delle difficoltà materiali offerta dalla modernità: rifiuta l’automobile e si sposta col proprio cavallo, non usa i guanti da lavoro e ostenta orgogliosa noncuranza per le ferite che questo gli procura, guarda con sufficienza all’attenzione delle nuove leve di cowboy per il look e al loro desiderio di una vita rilassata… Phil si mostra come un uomo dalla personalità ipervirile, stoico (in senso quasi letterale): anti edonista, risoluto nell’affrontare con forza e intelligenza gli ostacoli. Un uomo refrattario a sentimentalismi e a buone maniere, in grado di imporre sé stesso in ogni circostanza e feroce nei confronti di chi, incautamente, cerca di impedirglielo.

Come era accaduto al primo marito di Rose, Johnny Gordon, colpevole con la sua logorrea da ubriaco di disturbare una serata di Phil alla locanda coi suoi uomini, così che alla fine questi era intervenuto per frenare quell’uomo importuno, umiliando non solo lui, ma anche il figlio dodicenne – che peraltro non era lì in quel momento – babbeo come il padre e in più femminuccia (sissy). Tuttavia la volta in cui Phil si trova davanti un Peter quindicenne, la provocazione verbale contro il ragazzo appare ancora più gratuita: il rancher chiede a voce alta chi sia la signorina (young lady) che ha fatto i fiori di carta posti sui tavoli. Gli epiteti di femminuccia tre anni prima e adesso di signorina sono imposti a Peter in quanto non ama o pratica male le attività “maschili” dei suoi coetanei (il baseball) e preferisce quelle artistiche più delicate, “femminili” (i fiori di carta, in entrambe le occasioni) e in più ha un modo lezioso di muoversi e una parlata blesa. Femminuccia e signorina risultano epiteti svilenti, degradanti, nell’associare una persona di sesso maschile al sesso “debole”, subordinato, dipendente. Lo stesso meccanismo, altrettanto o più infamante dal punto di vista patriarcale, leggibile nel rimando esplicito (sissy) od obliquo (young lady) a un desiderio o ad una pratica omosessuale. Femminilità e femminilizzazione del maschio sono per Phil la negazione della maschilità. La castrazione d’altra parte viene praticata anche per rendere docili e mansueti gli animali da lavoro: una forma di svirilizzazione psicologico-comportamentale, incompatibile con i connotati di dominio e autodeterminazione con cui Phil interpreta il ruolo maschile.

Nella rigida antinomia fra maschile e femminile (o, più estesamente, “non-maschile”), appartiene al secondo ambito la coppia formata da Johnny e Rose, entrambi caratterizzati da una partecipe sensibilità, una capacità empatica aperta alla socievolezza, che Johnny riversa anche nella sua professione di medico, accettando di essere pagato solo in parte o per nulla dai suoi assistiti indigenti. Rose è attratta da due uomini (poi mariti) entrambi gentili, attratti a loro volta dalla sua gentilezza, che lei esprimerà anche dopo il matrimonio con George, battendosi per fare sostare nella proprietà dei Burbank due reietti come l’indiano Edward Nappo e il figlio. Il risvolto negativo di tali caratteristiche è una fragilità, evidente già nella costituzione esile di Johnny e di Rose, una debolezza di fronte alle circostante avverse – di fronte soprattutto alla chiusura ostile del mondo in cui vivono – che li priva dell’aggressività necessaria a tutelare sé stessi, e li porta a rifugiarsi entrambi nell’alcool. La nascita di Peter introduce un salto nel distacco che si va creando col contesto sociale, dovuto allo sviluppo fisico inizialmente lento del bambino, alla salute cagionevole, a un modo di parlare e di muoversi che appaiono artefatti, accompagnati però a un’intelligenza precoce e profonda. Con la sua crescita si accentua il clima denigratorio verso la famiglia, ora rivolto contro Peter, palesemente diverso dai suoi coetanei: come nel pollaio le galline colpiscono a morte col becco gli esemplari storpi o diversi, così Peter a scuola veniva tormentato, schernito e chiamato femminuccia. La parola sussurrata lo seguiva ovunque [p. 37]. La figura della persona diversa, strana, storpia, del debole, del reietto, del paria si contrappone a una schiera compatta di forti e di duri, che all’occorrenza agisce come un branco. In Peter il risultato di tale pressione sarà la sublimazione dell’isolamento subìto in una solitudine attiva che gli permette di seguire i propri interessi, di crearsi un mondo quasi autistico dove sentirsi al sicuro. L’episodio in cui suo padre, ubriaco, subisce l’attacco di Phil dà il colpo di grazia alla dolorosa consapevolezza di Johnny (ed è in qualche modo un macrotema del romanzo): l’eliminazione dei deboli da parte dei forti è un principio inesorabile della natura, e lui non è in grado di proteggere sé stesso né soprattutto Rose e Peter.

Se Johnny partecipa in pieno dei valori e disvalori della gentilezza e Phil di quelli della forza, l’analisi di questi aspetti diventa più articolata per quanto riguarda George e soprattutto Peter. George condivide, inevitabilmente, lo stesso mondo del fratello: l’operosità, i privilegi legati alla condizione sociale, di genere, economica di ricchi allevatori. Egli però è l’unico a curarsi dei risvolti finanziari dell’attività e del rapporto con le banche; pur con la sua timidezza è sempre lui a mantenere un minimo di public relations con gli esponenti delle famiglie più in vista, soprattutto quando queste relazioni si intersecano con l’esercizio del potere politico. Per quanto impacciato, George è attento a coltivare una forma di potere (maschile) più… evoluta ed elaborata di quella di Phil, e dimostra di essere in grado di prendere decisioni per sé sia contro il parere del fratello sia tenendo in poco conto l’opinione della gente. Soprattutto il vecchio George era speciale per dispiacersi per gli altri [p. 59], in grado di mettersi nei panni altrui e di cercare un punto d’incontro, ed è questo un elemento di enorme distanza dalla volontà di Phil di non venire mai a patti con la propria individualità. George e Rose si sono incontrati sul comune terreno dell’empatia: nella partecipazione alla sofferenza della donna per gli insulti ricevuti dal figlio e in seguito per l’uguale desiderio di vincere insieme la loro solitudine.

Peter incarna a prima vista l’esatto contrario di Phil: debole e magro, (omosessuale?) effeminato, appare la vittima predestinata dei (maschi) forti ed integrati. Quando il lettore viene aggiornato sulle condizioni della famiglia Gordon dopo il suicidio di Johnny, apprende che Peter ora si occupa di uccidere i polli per la trattoria della madre, un’informazione neutra che però riprende l’immagine delle galline che uccidono gli esemplari storpi o diversi, preannunciando per lui un ruolo differente. Quando poi l’estate successiva Peter passa imperturbabile tra gli scherni dei mandriani di Phil e sceglie di rifare il tragitto inverso con lo stesso atteggiamento di noncuranza, la sorpresa del protagonista si trasforma in ammirazione per il suo coraggio di essere sé stesso in una situazione sfavorevole, rovesciando i rapporti di forza, aspetto cui Phil è molto attento. La netta contrapposizione fra le loro personalità (anche nel rapporto con i genitori, in particolare con la madre) va quindi riformulata mettendo in evidenza alcuni tratti comuni. Peter è per certi versi un altro Phil (o viceversa) per l’intelligenza acuta, la capacità di cogliere la realtà al di là delle apparenze, e per una freddezza, o comunque un distacco i quali, insieme alla piena consapevolezza della propria unicità, li rendono entrambi dei personaggi estremi. Un ulteriore punto di contatto consiste infine nel fatto che ciascuno, nell’ultima parte del romanzo, ha un progetto (segreto) sull’altro. Il lettore viene informato unicamente di quello di Phil: sottrarre Peter all’influenza della madre per isolarla, per spezzarne il già precario equilibrio e il rapporto con George. Un progetto destinato a fallire, a differenza di quello di Peter su Phil, di cui verremo a conoscenza solo nelle ultime righe.

Mettendo in atto il proprio piano, Phil insegna a Peter a cavalcare, gli mostra come intrecciare la corda che ha promesso di regalargli, trascorre del tempo con lui, fino a quando, un pomeriggio, rientrati nella stalla che aveva l’odore degli anni passati, il presente sembra ricalcare una situazione già accaduta: di fronte all’offerta del ragazzo delle proprie strisce di cuoio, Phil crede che Peter voglia fondersi con lui, come egli a suo tempo aveva voluto farlo con un altro [pp. 271]. La connotazione adolescenziale del Phil quarantenne e la sua volontà (il suo forzato destino) di rimanere bloccato all’unica volta in cui si era innamorato, erompono all’improvviso attraverso il recente rapporto con Peter, che sembra riproporgli quell’occasione drammaticamente perduta. Anche in questo caso la voce narrante aveva lasciato un segnale allusivo nel capitolo iniziale: a proposito di un aneddoto su Bronco Henry, Phil certe volte moriva dalla voglia di raccontare quella storia per intero. Anche per questo non sopportava le sbronze: aveva paura, paura di quello che gli poteva sfuggire [p. 22]. È la consapevole segnalazione di un’indicibilità, che aleggia sfuggente e a più riprese tra le pagine, e che si svela essere l’omosessualità di Phil. Bronco Henry, citato solo dal protagonista, è colui che gli aveva insegnato a cavalcare e ad intrecciare il cuoio, e gli indizi disseminati soprattutto nel dodicesimo capitolo e in quello finale inducono il lettore a identificare in questo personaggio l’anonimo altro con cui Phil aveva voluto diventare una sola cosa e che però se n’era andato, calpestato a morte. Laconico (meno di tre righe), ellittico, il racconto di quella morte parrebbe riferirsi ad un violento incidente all’interno del recinto dei cavalli. Il tutto coerente col linguaggio elusivo e sfumato con cui viene (s)velata l’omosessualità del protagonista, e congruente con l’interdizione, nel Nord-Ovest degli anni Venti, di questa forma di eros, dicibile solo in negativo, attraverso il disprezzo della castrazione-femminilizzazione del maschio, cui viene associata. Dalla conclusione della sua unica storia, Phil ha imparato che avrebbe dovuto fare a meno di un rapporto amoroso, che non l’avrebbe più cercato perché poi, quando lo si perde, il cuore ti si spezza; tutto, peraltro, era avvenuto sotto i suoi occhi di ventenne che guardava dalla ringhiera più alta del recinto dei cavalli selvatici [pp. 271-72]. Non si può fare a meno di notare come il significato del cognome (o soprannome) di Bronco Henry indichi nell’Ovest degli USA un cavallo selvatico, riferimento richiamato anche dal luogo di confine da cui Phil lo vede morire. “Selvatico”, con la sua accezione di “non domato”, fuori dalle regole imposte dall’uomo, forse porta con sé anche un tentativo (critico? alternativo?) di “leggere” l’omosessualità svincolandola dalla castrazione del maschile. “Amico dei cavalli” infine è il significato del nome “Philip”.

La tensione si accresce allorché il narratore, facendosi portavoce di Phil, ricorda che, se Peter lo ha visto nudo nel suo luogo segreto, egli aveva visto a sua volta la nudità del ragazzo quando era passato davanti agli uomini fiero e indifeso, vilipeso e disprezzato come un paria. L’acme viene raggiunta con la consapevolezza del protagonista che rivede dolorosamente sé stesso in Peter: Ma Phil sapeva, Dio sa se lo sapeva, cosa significa essere un paria, e aveva odiato il mondo prima che il mondo odiasse lui [p. 272], secondo un meccanismo tutt’altro che inverosimile o peregrino. Al lettore viene in tal modo consegnata una chiave razionale per gli aspetti più gratuitamente prevaricatori e plateali del protagonista nel segnalare la propria collocazione di potere all’interno della dicotomia maschile-nonmaschile.

Phil crede di stare per rivivere l’occasione di una relazione amorosa perduta, in cui Peter avrebbe preso il posto che allora occupava lui, e lui quello di Bronco Henry (le età dei due personaggi nel presente coincidono con quelle dei due “attori” della vicenda passata). Peter in realtà sta attuando il suo piano di morte per consentire a Rose di vivere con serenità il rapporto con George e i connessi vantaggi (per madre e figlio) del matrimonio con un Burbank. È chiaramente impossibile a questo punto considerare ancora Phil il maschio dominante, padrone di sé, e Peter il debole, il reietto destinato all’eliminazione. Phil ha lasciato emergere la propria parte debole, bisognosa d’amore, e Peter si è concentrato sulla protezione, da perseguire “virilmente” a qualsiasi costo, dell’unico legame affettivo, riuscendo là dove aveva fallito il padre.

Il diritto ad esistere di quella famiglia gentile (Johnny, Rose e Peter), schiacciato da una cultura aggressiva, maschilista, viene alla fine risarcito “karmicamente” dalla vita serena che si prospetta alla nuova famiglia Gordon-Burbank, più equilibrata, si direbbe, nella compresenza di maschile e non maschile, di potere e di compassione. Il suicidio di Johnny, offertosi come vittima sacrificale, è stato compensato col sacrificio di Phil compiuto da Peter, come in un’antica tragedia scritta in forma di romanzo moderno. La corda che Phil stava terminando di intrecciare è un dono al tempo stesso d’amore, di Phil a Peter, e di morte, di Peter a Phil. Quella corda finisce per rappresentare la linea di continuità – entro cui Phil intendeva includere Peter – di una relazione indicibile, dopo averla ricevuta in consegna da Bronco Henry. Il desiderio di Phil resta impensabile, prima ancora che indicibile, nella società rurale americana (e non solo, ovviamente) degli anni Venti, a differenza del desiderio di George, che potrà caricare l’orologio di casa, come faceva il Vecchio Signore, simbolo della continuità del tempo familiare attraverso il matrimonio.

[1] Thomas Savage, Il potere del cane [1967], traduzione di L. Corbetta, postfazione di A. Proulx [2001], Neri Pozza 2017.


 

Domenico Conoscenti (Palermo, 1958) ha pubblicato La stanza dei lumini rossi [1997], Il Palindromo 2015; Quando mi apparve amore, Mesogea 2016; I Neoplatonici di Luigi Settembrini. Gli amori maschili nel racconto e nella traduzione di un patriota risorgimentale, Mimesis 2019; Qui nessuno dice niente [1991], Il Palindromo 2022

Dalla periferia del senso all’apparenza veritiera

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di Biagio Cepollaro

[Pubblico qui l’intervento che apre la sezione dedicata alle autoantologie poetiche del n. 78 de il verri.]

Il progetto delle autoantologie in questo tempo di espressività diffusa vorrebbe costituire un momento di lentezza, di ripensamento, di responsabilità autoriale proprio quando il paesaggio si configura come tendenziale indebolimento del nesso tra passato e futuro, caratterizzato da smemoratezza, da “naturale” assenza di fondamenti. La parola poetica non può essere considerata indipendentemente dai contesti entro cui nasce e a cui direttamente o indirettamente si rapporta. L’estetizzazione diffusa, maturata a partire dalla fine degli anni ‘70 soprattutto attraverso la pervasività della pubblicità, si è accompagnata al sorgere del nuovo fenomeno dell’espressività diffusa grazie al successivo diffondersi dei social network nel corso degli anni ’10 del nuovo secolo. La dimensione estetica sfuggita alla centralità ed esemplarità del “look” degli anni ’80 si è disseminata e implementata nella quotidianità dell’uso comunicativo delle piattaforme social. Come negli anni ’80 a sottendere l’estetizzazione diffusa era un “pensiero debole” programmaticamente privo di fondamenti, così oggi ad innervare l’espressività diffusa pare sia la percezione di un’estetica debole, priva di fondamento storico e di progettualità. La risonanza in poesia di quel debolismo estetizzante poteva essere allora l’ideologia letteraria che animava l’antologia de “La parola innamorata” che sarebbe poi diventata di fatto l’archetipo di una sorta di monocoltura poetica alimentata in seguito dalla rete. Quest’antologia fu percepita allora da alcuni come il segno del “riflusso” politico dopo la stagione dell’impegno che intendeva smascherare il nesso tra ideologia e linguaggio. E dieci anni dopo, sul finire degli anni ’80, l’antologia “Poesia italiana della contraddizione” provava, appunto contraddicendo, a invertire la rotta affiancando alle ricerche degli anni ’60 più aggiornate prove poetiche che in alcuni casi sarebbero state poi definite, tra l’altro, “post-avanguardia”. Col senno di poi si potrebbe pensare che quel movimento dalle apparenze neoromantiche e intimistiche in realtà stesse esprimendo (o piuttosto subendo per rimozione) senza molta consapevolezza la trasformazione degli assetti della comunicazione e della conversazione sociale in quel passaggio così drammatico e violento della società italiana nel cuore degli anni “di piombo”. Il transitare dall’estetizzazione diffusa all’espressività diffusa è stato determinato dalle nuove tecnologie della comunicazione ma anche dall’approfondirsi del paradigma culturale (e politico) che vede sempre più l’individuo atomizzato e relativamente anonimo come quotidianamente impegnato in una sorta di “scarica” espressiva costeggiante più il territorio della compulsione anestetizzante che quello della ideazione creativa. Atomizzazione e compulsione ormai s’impongono come dati naturali, secondo il consueto processo ideologico della naturalizzazione di un fatto storico e relativo.

L’espressività diffusa oggi si modella sui processi di customizzazione, sulla personalizzazione di programmi standard: un certo numero di opzioni rendono possibile un minimo di differenziazione codificata. Di queste opzioni sembra vivere per molti aspetti l’estetica debole che tende a saturare l’iconosfera e la semiosfera del nostro paesaggio. I contenuti possono essere creati solo all’interno delle forme prestabilite, come se la soggettività empirica fosse possibile solo all’interno di una identica soggettività trascendentale incarnata a priori dalla piattaforma. Al di fuori di tali condizioni pare che non si dia gioco “sociale”, non si possa “condividere” nulla. La “condivisione” sembra presupporre come requisito non il confronto intersoggettivo tra alterità quanto piuttosto l’omogeneità di fondo, la stessa aria di famiglia, lo stesso produttore. Tale massiccia diffusione dell’atto comunque esteticamente intenzionato, anche se frammentato, debole e sganciato dai tradizionali sistemi di riferimento, ha simulato, nei modi del paradosso caricaturale, uno dei sogni delle avanguardie storiche: la radicale “democratizzazione” del fatto artistico. La polverizzazione autoriale di cui spesso si dice si associa alla polverizzazione estetica: parole e immagini trascinano la semiosfera e l’iconosfera contemporanee in un incremento vertiginoso di oggetti e di soggetti a cui si negano, per statuto tecnologico prima ancora che semiologico, la persistenza e la consistenza. Gli oggetti oggi non si possono dire neanche più “liquidi” perché anche il liquido è uno stato della materia, come il solido e il gassoso, mentre è proprio la materia a sparire in qualunque stato si possa presentare. La materia sparisce non perché risolta in virtuale come si temeva negli anni ‘90 ma perché al di fuori di ogni rappresentazione e rimossa mentre la violenza dei rapporti di forza si scatena alle spalle, per così dire, dell’espressività diffusa. In un paesaggio del genere pare che la parola che si voglia letteraria fatichi a trovare una sua legittimità: risultano improbabili o poco raggiungibili il tessuto di accoglimento e l’orizzonte condiviso di attesa proprio quando sulla carta sembra aumentare la praticabilità materiale della diffusione, anche grazie a internet. Le istituzioni deputate alla selezione e alla promozione ponendosi al confine sempre più friabile tra autore e pubblico, di fronte alla frammentazione dei pubblici incoraggiata dalla rete, o si ritirano in silenzio o esasperano ostinatamente la propria autoreferenzialità. In tali contesti la ricerca può forse tentare di tornare allo specifico della parola e del testo come luogo in cui configurare i mutamenti del paesaggio assumendo e metabolizzando sin dall’inizio le trasformazioni che riguardano oggi lo stesso statuto della parola e la sua perdita di centralità. Da questa periferia che non è più solo del testo ma che diventa marginalità del senso l’intenzione letteraria può ripartire come per una scommessa rischiosa. Qui la percezione dell’attrito è indispensabile, la lettura è costretta a fermarsi, il flusso a incepparsi, s’impone la necessità di tornare indietro per riprovare la tensione dell’interpretazione. L’attrito interrompe lo scorrere anodino del paesaggio e la parola residuale sembra cercare un territorio che alluda ad una soggettività messa a tacere ma da cui comunque occorre ripartire per provare a smascherare il gioco delle apparenze anestetizzanti che sostanziano l’espressività diffusa. Dalla periferia del senso all’apparenza veritiera.

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Lo spazio delle donne e il loro sguardo: il fuori campo attivo che ridisegna il mondo

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Ana Hatherly, Sem título - 1970
Ana Hatherly, Sem título – 1970

 

di Francesca Scala

Lo spazio di cui ci parla Daniela Brogi è il territorio fisico, psichico, artistico, sociale e politico che, per secoli, è stato usurpato alle donne (sul piano della storia e del diritto). Ma è anche lo spazio che le donne sono chiamate a ridefinire (sul piano cognitivo) da quel punto d’osservazione fuori campo da cui è possibile guardare e riconsiderare attivamente l’assetto dato per ripensarlo e trasformarlo (sul piano dell’azione e della realtà) in un luogo abitabile da parte di tutti (ragazze, donne, altro) in maniera diversa: più giusta, non discriminante, paritaria ed equa.

Le donne di cui ci parla Daniela Brogi sono poste come soggetto fin da subito, in quanto titolari di un diritto inalienabile: il diritto di occupare uno spazio vitale e visibile. E poco importa che questo loro diritto sia stato costantemente e ovunque reso indisponibile da una cultura che ha scempiato, mutilato e distorto la realtà, marginalizzando, oscurando, denigrando da un lato, ed erigendo un sistema di valori monologico (per usare un termine caro all’autrice) e monologante dall’altro. Non per questo le donne smettono di affermarsi come soggetto, dal momento che di quel diritto non hanno mai smesso di essere titolari. Il sottotesto, invece, con cui siamo cresciuti e con cui continuiamo a essere subliminalmente nutriti, l’idea che nessuno avrebbe mai il coraggio di sbandierare apertamente se non per criticarla – pena una levata di scudi generalizzata -, ma di cui è intrisa in realtà la cultura a cui in varia misura apparteniamo tutti, è che le donne siano cose. E allora che un libro, fin dal suo titolo, elimini dal nostro orizzonte mentale la possibilità di guardare alle donne come a un oggetto, che sgombri il campo dalla semplice ipotesi di considerarle come tali e che, soprattutto, lo faccia senza lasciare alcuno spazio a quell’ipotesi, estromettendola cioè dal discorso, è cosa degna di nota. È cruciale: significa porsi fuori dal discorso patriarcale, sovvertirne i termini, negarli a priori e implicitamente così da far passare il messaggio in modo più efficace. Per una volta, insomma, presupposizioni e impliciti che, come insegna Lombardi Vallauri sono spesso al servizio di una lingua disonesta (di una lingua cioè che sfrutta l’abbassamento dell’attenzione del ricevente per trasmettere contenuti discutibili), vengono piegati allo scopo eroico di combattere ad armi pari una cultura patriarcale e monologica e servono a ribaltare una percezione dominante e discriminante, a ristabilire giustizia e veridicità cognitive.

Un altro degli elementi di ricchezza di questo libro (che offre peraltro mille spunti di riflessione) è la sua trasversalità, la prospettiva molteplice che adotta: artistica, letteraria, sociale, storica, politica e linguistica. In questo modo riesce a fornire una sorta di metodo – suggerendo l’idea che l’approccio alla questione di genere vada condotto su tutti i piani e in ogni ambito – e riesce a dimostrare ciò che sul finale, nella quinta parte, espressamente dice, ossia che «il patriarcato non è la preistoria». Ribadirlo è importante, esemplificarlo pure: a ogni livello, spaziando in lungo e in largo fra gli argomenti, così come scendendo nelle profondità della lingua fino a portare a galla la novità di certi accostamenti semantici (“amica” e “geniale”), che reimpostano il pensiero o che almeno lo aprono a significati a lungo interdetti dalla consuetudine ottusa di «un mondo in cui … l’unica possibilità di intendere e riconoscere il genio, in quanto potenza creatrice, è stata solo maschile»; fino a snidare e a correggere parole intrise di condiscendenza, vezzeggiativi o diminutivi che si erano fatti vulgata sostituendosi alla Storia (Brogi parla ad esempio delle “suffragiste”, facendo notare come il termine sia «più appropriato di ‘suffragette’», in quanto restituisce serietà alle lotte femminili per il suffragio universale che serie furono e che non vanno in alcun modo sminuite); fino a riattivare il senso originario di sintagmi che l’uso, spesso stoltamente improprio, ha fatto smarrire: il “politicamente corretto”, se si rimane «nella lettera e nella sostanza dell’espressione, non è un’opzione, ma una condizione di esistenza e convivenza»; fino a fare esistere, per il fatto stesso di nominarle, le “opere d’autrice” e “le maestre del pensiero”.

E il dispositivo privilegiato per disattivare certi automatismi di percezione e di immaginazione è il fuori campo attivo, che consente di scardinare «schemi e modelli cognitivi in cui le donne mancano sempre dalle caselle del prestigio», quegli schemi, cioè, e quei modelli che «hanno prodotto e riproducono discriminazioni di genere naturalizzate». È il fuori campo attivo lo strumento fondamentale per ribaltare un destino, per riconoscere come limitato, relativo, storicamente datato, non eterno, non immutabile l’assetto della realtà che abbiamo ereditato. E, per certi versi, questo strumento di analisi ricorda le “lenti di genere” che Paola Di Nicola, ne La mia parola contro la sua, ci esortava a indossare, sottolineando, peraltro, che indossarle «È una fatica improba perché vuol dire disarticolare discorsi spesso unanimemente condivisi […] comodi stereotipi […] inconsapevolmente introiettati»: «stereotipi che saturano ovunque l’aria», dalle case private alle aule di giustizia.

In questa fatica improba Daniela Brogi ci accompagna e ci scorta, aiutandoci a sfatare certi miti ancora in auge, come per esempio l’idea che le cosiddette quote rosa premino chi non se lo merita, che la lotta contro il patriarcato sia una lotta contro chi è geneticamente e fenotipicamente maschio e che a condurla debbano essere unicamente le donne. Anche solo per questa ragione il suo viatico meriterebbe di essere letto.

due poesie sull’amore

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di Francesca Matteoni

 

Certi lupi

[Verrai stanotte nel sogno].

In un bosco che non esiste grida il lupo.
Alza il suo muso come un uomo.

Molti lupi hanno viaggiato
per uscire dagli alberi o entrarvi a fondo
e perdere la donna che li amava.
O credeva di amarli. O amava
la zampa del lupo, l’animale schivo,
intrappolato.

Il lupo appare smagrito
nel primo mattino, sull’asfalto
disorientato.

Certi lupi diventano uomini.
Indossano giacche sopra la coda,
digrignano affabili i denti.
Fanno la tana in un ventre di donna
e nella sua mente scavano un fosso.
Questi lupi non sanno cacciare.
S’incarogniscono e tremano
lisciandosi il pelo. Uccidono
la preda quando è già morta.
Ancora. Ancora.
Non restituiscono quello che prendono.
Avvicinano la bestia, la soffocano
con la sua ingenuità. O colpa.

Devi vedere l’uomo
per liberare il lupo.
Devi saperti dentro l’inganno
sporca di sangue e parole
aprire la bocca, sputare.

Altri lupi ti guardano se li accogli.
“Lascia il dolore” dicono. “Cammina
fino a qui”.
Apprezzano la distanza.
Ti fai spazio.

I veri lupi sanno aspettare, si affrancano
dal rimpianto, dal torto.

[Vieni ora che mi alzo da sola.
Abita con il tuo odore
questo mio corpo].

18 gennaio 2022, Luna Piena del Lupo

***

Conoscenza

Siamo adulti per le fiabe
o per credere che tutto si avveri
nelle braccia di un altro.
O per credere sia possibile
esporsi, fidarsi, proteggersi senza
deludersi, ferirsi, disarmarsi. Disamarsi.
O per credere.
Come si decide l’amore? Mi vedrai nelle parole?
Le dimenticherai? Mi lascerai entrare?

Mi dico: sei qui, finalmente. Poi tremo.
Immagino di essere salva nell’esperienza.
Hai occhi miti, diffidenti. Hai mani grandi, potrei
abbandonarmi nelle tue mani.
Vorrò la tua mancanza?
Che è il centro di ogni presenza.
Ci tocchiamo, poi ci separiamo.
Non sarò mai certa di essere con te.
Cosa scegli, se mi dai un bacio e un altro,
cosa chiedi? Siamo al sicuro nei corpi.
Riscaldano, sospirano nelle piume.
Loro hanno scelto la terra.

Noi siamo ancora a mezz’aria, invece.

Così, alla fine, ti racconto una di quelle storie
ma non va come nei libri o nel folklore. Non ci sono
rapimenti, inganni, abusi, uccisioni.

C’è una donna che vive sul fondo del mare.
Molte volte è stata scuoiata dalla sua pelle animale
rigettata nelle onde – molte volte è impazzita
per capire chi era. Guarda dal tetto
la superficie dove il cielo fa luce
fino alle rocce, i villaggi.

C’è un uomo lontano, cammina
fra le case verso di lei.
È un uomo gentile, che non sa di esserlo.
È limpido, onesto.
La donna invece è feroce, potrebbe lasciare che l’uomo
le tolga ogni cosa – è abituata così.
Vorrebbe dare all’uomo ogni cosa. Ma in realtà
lei non sa cosa l’uomo vuole. Vorrebbe
che l’uomo volesse lei.
Davvero, davvero, davvero.
Senza rapimenti, inganni, abusi, uccisioni.
O forse vorrebbe ascoltare la voce dell’uomo
che scende al mare. Si tende da uno scoglio.

L’uomo non dice niente, ma continua a camminare.
Ogni giorno, ogni notte, una bracciata, un passo,
un terrore sottile, una speranza.
Lui rimuove la plastica dalle branchie di lei.
Lei gli mostra il passato nelle conchiglie, negli
oggetti sacri, dimenticati. Sciocchezze, spazzatura.
Non parlano la stessa lingua. Lui osserva, lei indica.

Quando lui la tocca lei vorrebbe restare o fuggire
che sono poi lo stesso verbo da due diverse angolazioni.
Quando lei lo tocca, lui avanza in un mistero.
Lo guarda nella bellezza, come una forma di distanza
finché la riva diventa un sentiero.
Quanto tempo per potersi amare?
Mettere via i fantasmi che popolano le storie.
Un’impronta, una striscia di spuma.
Ogni giorno, ogni notte. Ora.
Incontrarsi. Lasciarsi avvicinare.

La Tahrir plurale, collettiva, giovane e bella di Marion Guénard

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Giuseppe Acconcia

Au printemps on coupe les ailes des oiseaux (L’aube, 180 pp., 2022) è il primo eccellente romanzo della giornalista francese, Marion Guénard, corrispondente dal Cairo per vari quotidiani, tra cui Le Monde, prima, durante e dopo le rivolte del 2011 in Egitto. L’autrice va ben oltre il racconto dei fatti e degli eventi rivoluzionari ma li trasforma in un romanzo avventuroso e straordinario, fatto di magnifici incontri, vite parallele e destini incrociati. Le due protagoniste, Kaouthar e Mariam, sono due donne destinate a non incontrarsi mai. Entrambe però hanno in comune una lucidità rara e sete di libertà. Kaouthar è egiziana, aveva appena venti anni quando la rivoluzione di piazza Tahrir è scoppiata nelle vie del Cairo. In quell’esatto momento scopriva cosa volesse dire essere giovani. Il racconto si fa intenso e originale, travolge il lettore l’incontro tra vecchie e nuove generazioni, la rottura con il passato (il y avait bien quelques pierres ici et là mais la terre était fertile comme celle de l’Égypte, enrichie pendant des siècles du limon du Nil. Ils pensaient qu’ils changeraient le cours des choses, la nature du pays), insieme alla speranza senza precedenti nel cambiamento (Leur avenir, celui du pays, était un champ de fleurs sauvages, une friche à cultiver avec amour et justice). L’accampamento che ha occupato per diciotto giorni piazza Tahrir riprende vita in questo libro così come le radio che riproducevano i comunicati della giunta militare e 1984 di Orwell che diventava a poco a poco un libro di chevet per i manifestanti. Invece Mariam, figlia di egiziani emigrati in Francia, viveva a Parigi. Pur avendo avuto tutto dalla vita, la rivoluzione egiziana ha risvegliato in lei dei ricordi dimenticati, un sentimento oscuro di non aver vissuto pienamente la sua vita. Mariam a besoin de souffle, d’épopée, elle est à la recherche d’une vie exceptionelle. Elle ne sait pas encore à quoi cela rassemblera. Elle ne s’enquite pas. E così un giorno Mariam scompare all’improvviso. Elle essaie de retrouver le temps où elle ne mettait pas l’avenir en liste de choses à faire mais où il s’exprimait en possibles et en rêves. Viene aperta un’inchiesta e il suo compagno Antoine viene a conoscenza che Mariam è fuggita in Egitto. Anche lui si lancia alla sua ricerca e incontra il sogno rivoluzionario. Per i giovani rivoluzionari, Kaouthar, Ashraf e Halim le rivolte di piazza si trasformano presto in una liberazione sessuale. Le colline degli incontri di Moqattam cementano l’amore tra Ashraf e Kaouthar, a loro volta destinati a condurre vite parallele, lei ragazza dei Fratelli musulmani e lui anarchico rivoluzionario. E invece la loro vita è sconvolta da un vero e proprio matrimonio rivoluzionario, dalla difesa di giustizia sociale ed educazione per tutti, dalle serate passate a discutere di politica e delle vittime della violenza di stato nell’ufficio aperto da Halim nel centro del Cairo. Ils dressaient le portrait de leur Égypte idéale, un pays où l’autoritarisme, la violence, la pauvreté, le patriarcat n’auraient pas droit de cité. Ils rêvaient d’une société où le savoir, la science et les arts seraient élevés au rang de première nécessité. Ils s’imaginaient un futur à eux. Ils étaient d’accord sur l’essentiel, et cela les rendait heureux. Sans le savoir, ils tombaient amoureux. Eppure con l’arrivo del regime militare, dieci anni dopo le proteste di piazza, i sogni di una generazione sono stati spezzati dai carrarmati dell’esercito. Marion ­Guénard racconta una giovinezza sacrificata, quella dei giovani rivoluzionari egiziani, che hanno tentato l’“assalto al cielo” prima del ritorno brutale della repressione più dura che il paese abbia conosciuto nella sua storia recente.

La fame non contempla la ragione

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fotografia di Mariasole Ariot

di Mariasole Ariot

Mi auguro di incontrare qualcuno
davanti a casa o invece spero: nessuno?
Antonio Porta

 

Quando cade la pioggia dalla bocca e si fa nero il nero, si accumulano le uova dell’insetto che apre e scortica il becco di tre parti, una cosa morta il bianco ragionato un petalo appassito per dolore, e chiama un’incisione già decisa, la mia riconoscenza che non chiede se non vede, che vede il divisibile progetto, quando il tempo è temporale, temporeggia sulla preda per la vista del soggetto maculato, un bosco che non cresce sulla testa

La meta è una metà non fecondata

E cade e cade il vero della sera come scempio indecoroso, la pelle non cambiata di settembre, avere cento dita sulla fronte che premono sugli occhi e sugli intenti, di madre padre un figlio, di foglie mai innaffiate il già appassito, e spezza la giuntura della notte con il giorno, se l’alba è quando torna l’interiora, rigonfia l’alluvione come un fango che si addensa e mi calpesto, la voglia siderale di un futuro e di un presente, l’aiuola che noi ci costruiamo come un volto, e volta la mia faccia come un giorno 

Le pelle è questo urlare che mi sente

E gronda di grondaia la memoria delle tue parti interrotte, le sfere non mangiate del suo feto, un nitido fetore meridiano, ho il bianco della pillola incastrata nella gola che non scende, diventa l’autunnale del mio ventre stropicciato, tu vedi il mio sofferto se l’inverno ci dispera, se quando non si evade si accumula la gente, in questa è la mia assenza di una patria, la mia recrudescenza che mi spoglia, la foglia si è bucata come un corpo rimestato, dimentica lo spazio e il rampicante, dimentica lo stato delle cose, ricorda solo il gesto del terreno

Radicale è radice del mio fondo

Il volto che dorme

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di Emanuela Cocco

«Torna a casa che è la sera del mistero.»

«Sì.»

 

Torna a casa che è buio. Il pomeriggio l’ha passato a fare avanti e indietro sulla Tuscolana, da Tiger, qualcosa di dolce poi il salato, ma soprattutto lo zucchero filato, quello inscatolato, un giretto da OD, a prendere un bouquet di chupini colorati, quelli glassati, o un blitz da Disfunzioni, a cercare occasioni, tra i dvd dell’orrore, Dovevi essere morta o anche L’ ascensore. Le scale le scale, per l’amor di dio usate le scale!  e L’ora del mistero, il cofanetto della prima stagione, che affarone, con l’episodio di mezzo, una storia tremenda, che ancora adesso, quando ci ripensa, ma non lo fa spesso, perché gli fa troppa paura. È stato un pomeriggio come si deve anche se lì dentro al cesto dei titoli a metà prezzo dei film che gli piacciono, i film belli e paurosi, non se ne vedono tanti, non c’è mai nulla là in mezzo, di quello che sta cercando, solo copie e copie di La guardia del corpo, povera donna com’era bella, o Seduzione Mortale, con la bionda fatale, ma lui ha continuato a rovistare finché non si è fatto buio, e ora si affretta perché è la sera del mistero.

 

«In tv c’è Giallo e nero

 

Quel tipo di buio pesto in cui ha pensato possibile che accadesse, che accadesse anche a lui, oh sì, di entrare anche lui, di colpo, nel mistero.

 

«Proprio vero.»

 

Ci vorrebbe poco, pensa, davvero poco, per finire anche lui nel mistero, e un po’ gli viene freddo e quasi trema, mentre si infila nel vialetto male illuminato, rasente i palazzoni giallo senape del Vilpurno Torcia con le piante ornamentali sporcate dalla polvere, le vasche di siepi annegate dalle cartacce e una lattina sventrata, in bilico sul cordolo del marciapiede, dove poggia appena la base di una scarpa per poi spingersi oltre, tagliando corto per un giardinetto condominiale, siderale, da finirci male.

Pensa, attraversando il vialetto buio, che ci vorrebbe così poco, in fondo, per finire anche lui nel mistero, venire afferrato, anche lui, da un paio di mani sbucate dal buio tra gli oleandri sfiancati, dita che lo artigliano e lo trascinano via, dietro una siepe sfatta, lì dove qualcuno in attesa, qualcuno di cui neanche vedrà mai la faccia, sussurra: ti faccio questo e quello.

 

«Questo e quello?»

«Così mi va, ah ah ah ah ah ah.»

 

Qualcuno, lì, in attesa, che lo trasforma in una storia da prima serata del mercoledì, con Lola Treves che si affaccia dallo schermo e chiede l’aiuto degli spettatori per risolvere il mistero.

 

CHI HA UCCISO E TORTURATO SAMUEL GALLA?

 

«Ci vuole così poco, Samuel, a finire morti ammazzati.»

 

Eh sì, eh sì, fa su e giù con la testa, parlottando con la sua voce in seconda, la voce che ha nel sangue, fino alla punta delle dita, la sua voce sopra e sotto, la voce capovolta, che gli abita dentro e non si affaccia mai fuori, ma si fa sentire.

 

«Oh, sì.»

 

La sua voce in seconda, che lo dirige. Ci vuole così poco, dice, a finire anche te nel mistero, Samuel.

 

«Il cranio sfondato, la foto ingrandita sul giornale.»

«Mica male.»

 

Sarebbe bello. Finire faccia in terra, soffocato, su uno schermo.

 

«Omicidio brutale, strani giorni in ospedale.»

 

Tra la vita e la morte, un uomo ucciso a calci, la vita in stralci, sullo schermo in primo piano.

 

«Dammi una mano, dammi una mano, ti prego, dammi una mano.»

 

Tornando a casa lungo il viale, la voglia forte di morire male, saltare il varco nero e stare, al centro dell’enigma madornale, dentro il mistero.

 

«Lì, con le donne catturate dalla sorte, le belle morte.»

 

Samuel si affretta. Vuole solo entrare in camera e accendere il televisore. Oggi è la serata del mistero. Sarebbe bello finirci dentro, essere anche lui il mistero, stare lì dentro con loro, non solo a guardare, ma lì dentro, al riparo dentro le foto rischiarate delle vittime, mentre fuori, corpi anonimi, vite addormentate, guardano il suo volto ingigantito sullo schermo, il volto trapassato, abbagliato nel decesso, mentre la voce di Lola Treves li incalza: chiedo solo un aiuto, la mia speranza, se qualcuno era lì!

Ma nessuno risponde perché lì, nel mistero, ci sei soltanto tu.

 

A questo pensa, tanto che a volte, tornando a casa che è buio, gli pare quasi di essere già passato dall’altra parte, di aver sceso il gradino della scala mano nella mano con le belle addormentate, sprofondato nella terra, in pace, nella stretta gelida, indifferente, delle loro braccia, abbandonato, dimentico di ogni limite. Oltre la timidezza e lo sgomento, per sempre nel freddo dissepolto, privo di vergogna.

Non è ancora arrivato il suo momento, perché ci pensa ci pensa sempre, ci pensa troppo e non è così che succede, è stabilito, non è così che funziona. Ma si ferma comunque, nel buio, tra i palazzoni sgangherati, in attesa della mano stralunata che lo consegnerà al mistero, la mano sconosciuta che lo condurrà al loro cospetto.

 

«Le belle del mistero, le morte imbellettate, che perdurano lontano. Le foto nel cassetto, ritagli di giornale, lì dentro il mistero, un sogno nero nero.»

 

E dopo poco che è iniziata la puntata, chiuso nel suo gioco di posture immaginarie, Samuel le invita a ballare. Quella stritolata, la faccia mangiata a morsi da un cane dilettante, o era l’amante che lei ha abbandonato, la donna che lo incanta, la donna traforata, uscita fredda dall’ospedale, la donna che non l’ha rifiutato, amante indimenticato, la donna feretro avviluppato, il volto nascosto che desidera nel buio, da vero innamorato del corpo inanimato.

 

Tornando a casa, Samuel intitola la sua morte.

 

«Notizia dell’ultima ora: respira ancora.»

Poi è deceduto. La posa statica del morto. Ricordo fotosensibile, traccia di bellezza postuma, che commuove. Una lacrima per l’estinto. Lunghezze d’onda del desiderio trapassato, un’impronta di passione nel capello dinamico ritratto in una giornata ventosa. Da lontano, da lontano, nell’illusione monocromatica, anche lui potrebbe essere amato. Samuel si agita, nel sogno nero e insoddisfatto.

 

«Qualcuno, in attesa di te, chino sul tuo sudario fotografico, goffamente si avvicina, con il pensiero ti accarezza il volto: amici?»

 

Intanto, è nell’androne del palazzo, di cosa ridi, pazzo, ragazzone sgraziato, entra in casa, smettila, prima che arrivi qualcuno. Su di te, Samuel, una puntata intera, e ride, in prima serata.

 

SAMUEL GALLA. CHI LO HA UCCISO? CHI HA UCCISO E TORTURATO SAMUEL GALLA?

 

Qualcuno che ti afferra e ti trasforma in una storia, mistero monografico e condiviso.

Roma. Viveva con la madre e la sorella. Torturato e ucciso. Samuel Galla, trentasei anni, strangolato, Galla, Samuel Galla, con la madre e la sorella. Preso a calci. Fatto a pezzi sotto casa, l’odore ha destato i sospetti in un appartamento al sesto piano di uno dei palazzi. La vittima: Samuel Galla.

 

Sghignazza a perdifiato. Una intera puntata dedicata. Peccato non poterla vedere.

 

«E perché mai?»

«Ma perché sono io, la puntata.»

 

Risata inesauribile nel buio.

 

Non pensarci, questo è il segreto, ma ormai è a casa, ed è già buio, è buio ma non è successo.

 

«Ci hai pensato troppo, Samuel, ci hai pensato tutto il giorno, anche quando hai addentato lo zucchero filato, ci hai pensato tanto che è sicuro che non potrà accadere.»

 

Non funziona così, non si entra così nel mistero, dice bene Lola di Giallo e nero, dal televisore. Era un giorno come tanti, dice sempre, il mistero è inaspettato, nessuno lo aveva previsto, dice.

E Samuel ora è dentro la foto blu elettrico sgranata sullo schermo, dove una sagoma allungata e indistinguibile lo raggiunge, l’artiglio espressionista di un crimine avviluppato dalle ombre, strisciante tra edifici ricurvi, ma al centro della scena c’è la giacca di Lola che lo riporta indietro, la macchia di colore della sua camicetta ben stirata che lo getta di nuovo nella sua stanza, i suoi capelli arricciati sulle punte che lo tengono a distanza.

 

«Arriva il mistero, Samuel, e non sei tu.»

 

Le labbra geranio di Lola presentano le vittime.

 

«Non sei tu, non sei tu, ma il mistero è in attesa di te.»

 

Viene investito da riprese di usci socchiusi e treni in partenza.

 

«In attesa di te.»

 

Deambulazioni anonime su ponti sonori casuali, totali di paesaggi in campo lungo, ecco dov’è stasera il mistero. Qualcuno viene annunciato, e non sei tu, entra nello studio, ancora note a caso, e non sei tu, è solo qualcuno che si è perduto, è solo qualcuno tirato a caso nel mistero. Lola annuncia: vediamo insieme. Arrivano i volti, di chi è stato preso, e non sei tu. Vediamo, ripete Lola, e tutto inizia. Il mistero di stasera, che non sei tu, ma che è lì, in attesa, in attesa di te. Le vedi sullo schermo, le vedi lì nello schermo, in attesa di te.

 

Un giro di frasi accompagna le belle morte, la strangolata, la stuprata, la morta senza corpo, la boccheggiante.

 

«Tutte insieme nel mistero della morte, le belle così assorte.»

 

E ogni frase lo spoglia.

 

Lola parla e il mistero calca la scena, e ognuna delle sue frasi lo spoglia, ogni sua frase lo tocca.

 

E il suo letto è una teca oscurata.

 

Frasi che la sua voce commenta, segreta. La voce che conserva, la voce pronta a violare, la voce che muove l’inanimato, e lo trafigge.

 

Allora Samuel porta il dorso di una mano alla bocca e socchiude gli occhi. Perché il mistero anche stavolta non è lui, eppure lo avverte, in attesa, e il desiderio di morire e di raggiungerle riempie la sua bocca finta ricavata dal palmo di una mano.  Quando ci passa la lingua dentro, il desidero di essere anche lui nel mistero, si fa insostenibile. Quello che vuole è essere chiuso lì con loro, come dentro a una bocca sigillata dalla quale risorgere.

 

«Una bocca, l’hai mai vista, Samuel, tu l’hai mai avuta davvero, una bocca che non fosse la tua?»

Lola Treves è nello schermo, davanti alle immagini che ballano intorno sfocate, fantasmatiche. Una manciata di note caso sotto le inquadrature traballanti.

 

Samuel non si è fatto mistero ma il mistero è lì, in attesa. Ora ve lo facciamo vedere, dice Lola, noi adesso vi facciamo vedere, andiamo a vedere. Le immagini lo imprigionano. Ogni sua frase lo spoglia e lo precipita, e ogni sua frase fa sorgere in lui il corpo inanimato che non può opporgli un rifiuto, dove l’amore non si ferma e i baci vanno a segno sulle labbra della preda, anche se il suo volto dorme.

 

 

 

Da “Ecfrasi”

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di Fabrizio Maria Spinelli

A Cristiano de Majo

The concept is interesting: to see, as though reflected

In streaming windowpanes, the look of others through

Their own eyes. A digest of their correct impressions of

Their self-analytical attitudes overlaid by your

Ghostly transparent face.

John Ashbery

Oggi sono andato a rivedere i famosi coniugi

Arnolfini di Jan Van Eyck, 82 X 59,5 cm, olio

su tela, alla London Gallery anche se a Londra

non ci sono mai stato mi sono avvicinato sempre

più al quadro per ricavarne una descrizione, discreta

l’economia dello sguardo (fare del pensiero

un’esattezza della visione), ma non ho potuto

non considerare anche questo avvicinarsi

come la descrizione di qualcosa:

più mi sforzavo di descrivere l’opera

più vedevo la mia stessa visione

che si vedeva, la descrizione che diveniva

il luogo di una distanza, un’impotenza semica

che considera infinitamente le sue possibilità:

la descrizione, momento per momento,

come la testimonianza di una sparizione

originaria. Anche il quadro per contro, mi

sono detto, è una descrizione o meglio

una teoria delle descrizioni possibili perché

ciò che rappresenta (la moglie vestita

di seta verde, o forse è moffola, l’oscuro

barboncino, lo sguardo osceno e vitreo del marito

e la mano che i due si tendono, i piedi nudi,

le calzature lasciate sul fondo che ricordano il

soccus latino, tutti quegli oggetti

che slittavano sulla mia retina e divenivano

nella coscienza un indistinto timico, il segnale

di un segnale) è in fondo un dato del reale:

non sto qui dicendo che Jan Van Eyck sia

un pittore mimetico, ma che nell’opera

descrive la realtà nel suo darsi

all’immaginazione, perché la realtà non è

una presenza ma un’immagine che descrivendo

si cancella, una diagonale di pulviscolo quando

ci si passa attraverso; così che la descrizione,

mancando continuamente la realtà, arriva

per assurdo a raffigurarla. Ho avuto perciò

l’impressione che in quel frangente la realtà

(la mia ma anche quella del mondo in cui vivevo

e che si irradiava dal salone della London Gallery)

fosse in un certo senso ferma al 1434, probabilmente

l’anno in cui messere Arnolfini si fece ritrarre con la

moglie dal visionario maestro fiammingo, che cioè

l’unica realtà in qualche modo tangibile fosse quella

e che tutto ciò che mi era intorno fosse solo

un’interminabile astrazione, uno slontanamento appunto

dalla stanza in cui il pittore e i coniugi si trovavano

581 anni fa ma in cui si trovano anche ora. Allora

il 1434 è la data in cui il tempo si è biforcato

(una delle infinite volte) creando a partire dai

due sposi in posa un tempo fatto unicamente

della loro descrizione: un allontanamento

progressivo e metalettico partendo appunto

da Van Eyck, genio della distorsione, arrivando

fino a me e agli individui che alle mie spalle riproducono

in jpeg l’opera del fiammingo, la trasfigurazione

mitopoietica di una realtà che sta esistendo ma da cui

ci siamo separati e di cui quella trasfigurazione

è l’atto costitutivo. Come un

dispositivo che produce mondi paralleli

l’opera ha costituito un universo fatto solo

della sua fruizione, mentre i coniugi Arnolfini

sono ancora nella loro stanza, appena mossi

dalla fissità della posa, pronti a vivere una vita

che non è ancora accaduta.

*

Eptalogia di Telegram

I

«Un sorriso che era una fioritura vista

dall’interno dello stelo, il respiro stesso

della pianta mentre respira» («sì, ma

se una corteccia è spinta a valle

da un fiume, come spiegare che il fiume

è al contempo nella corteccia, che

la corteccia è insieme il fiume come

proiezione?») – vicino Saturnia, in

estate, sei trascorso dalla visione

metaprospettica di te che scrivi a un

architetto del paesaggio sentilo fino

in pancia, poi cancelli e invii la foto

della luna piena che rischiara il

faggeto, sperando colga l’ironia, il paragone

tra il satellite e l’immagine del suo

capezzolo che si anima in una GIF su Telegram,

pochi secondi ripetuti potenzialmente

in eterno, quando questa allieva di Gilles

Clément si alza la maglietta scoprendo

un minuscolo seno, prima di massaggiarsi

la mammella con un dito, “ruma” in latino

arcaico, da cui Roma, presente e trapassato

in un istante progressivamente futuro, infinito

per estensione – ontogenesi e filogenesi

perpetuamente si intrecciano mentre

scorrono le immagini a bassa risoluzione fuori

e dentro sé stesse – un sorriso chiuso

in un bottone il capezzolo è il disco alieno

su cui attraversi lo spazio della tua

solitudine, mentre ti alzi dall’acqua calda

e l’impronta dei tuoi piedi trasforma la

terra in morbido fango.

*

III

Un’immagine che sogna apre al sogno

chiede di essere completata dallo stesso

sogno che crea, leggo al margine di

un post su Tumblr dove le tue ciglia

si schiudono in un loop che è già

mitopoiesi (insetti traslucidi

scorrono in un commento

a piè pagina, un pesciolino

d’argento sul muro, una metonimia

appena accennata), e una rêverie

si stacca dalla trascrizione mentale dei tuoi

stivali lasciati sul pavimento

(ciò che vediamo lo pensiamo non

lo vediamo soltanto) come nel canto

di una pittura parlante.

Non c’è differenza sensibile

fra il tuo profilo e un porno

amatoriale.

*

V

(perché l’immagine non è la deissi

didascalica di una scena, o ciò che

genera la scena, ma la scena come

processo, una progressione asintotica

verso ciò che non la significa mai

– l’immagine non è guardata ma

è sempre ciò che rimira – sovrapponendosi

alla scena, elidendo il suo decorso,

l’immagine diviene un concentrato

euristico, un differenziale, il testo

che si forma e ragiona su se stesso).

*

Cumuli di materiale organico.

Nella città in cui si trova non

conosce nessuno. Si fa truffare

dovunque. È felice ma riflette

un’infelicità crescente. Guarda

ogni particolare. È convinta che

l’attenzione sia una forma secolarizzata

di preghiera. In televisione ci sono

le immagini della Grecia, il sesso sfondato

di una capra, gli indici finanziari.

Mi scusi,

la piscina è chiusa.

È stanca di mangiare

nei ristoranti. Andare in vacanza

le costa un quarto del PIL di uno stato

africano. Legge su un libro che la realizzazione

personale di un borghese non vale

il petrolio che costa. È nordeuropea.

È bianca. Nei posti che visita

non ci sono mai neri. Si vergogna.

Con i suoi spostamenti contribuisce

allo scioglimento dei ghiacciai, al consumo

di combustibile fossile. Ascolta Tim Hecker.

Ha scritto una tesi sui Quattro

Quartetti. Sa distinguere

un certo tipo di benessere. Conosce

l’inflessibilità di certi piani. Sta cercando

di fare mente locale. Il nome dell’albergo,

carezzato dalla velocità dell’automobile.

Compra un souvenir per la madre,

che ha un tumore. Una larva di suono,

spoglia di cicala o di serpe, una grafia

priva di pronuncia.

(la differenza non è morfologica

è formale: in quanto la struttura

del periodo articolerà unicamente

la sostanza conoscitiva dell’immagine

della poesia).

*

Immagine di: Andrea Bolognino, Cataratta o opacizzazione del cristallino.

Mots-clés__Albero

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Albero
di Ornella Tajani

The Cure, A forest -> play

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Da Ettore Sottsass, Foto dal finestrino, Milano, Adelphi, 2009

A Torino conoscevo un vecchio artigiano restauratore di armadi laccati e doratore di grandi cornici del Settecento. Mi voleva bene e mi diceva: “Architetto. Quando non sa più cosa fare, ci metta uno specchio. Va sempre bene”. Io sorridevo. Adesso, dopo più o meno cinquant’anni, dico a me stesso: “Ettore. Quando non sai più che cosa fare, mettici un albero. Va sempre bene”.

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

Aria e tradizione: l’ultimo libro di poesia di Gabriella Sica

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ph. Mimmo Jodice, "Amazzone ferita" (particolare)

ph. Mimmo Jodice, “Amazzone ferita” (particolare)

 

di Paolo Rigo

Se – perseguendo un gioco paradossale – si chiedesse a un poeta qual è l’argomento a cui è deputato il suo canto, la risposta manifesterebbe con molta probabilità un non-so-che di incertezza: l’amore, la morte, la consolazione, il ritorno ai luoghi cari, tante e diverse potrebbero essere le risposte e tutte sarebbero giuste. Però, nessuna si potrà mai considerare come quella archetipica. Nessuna, meno una: il tempo. A partire da Ovidio il genere poetico della lirica è, infatti, consacrato alla celebrazione della fuga del tempo (hora fugit scriveva negli Amores). Il tempo, la dimensione immateriale che lascia traccia sulla pelle dell’uomo con rughe e canizie comprende la totalità dei temi menzionati. Nel tempo e attraverso il tempo nasce e cresce il Canzoniere di Petrarca: lì dove le occasioni – parola novecentesca dalle antichissime vestigia – ripetute in un infinito caratteristico, unico, chiuso e completo (poiché delimitato da una divisione calendariale), tornano sempre sullo stesso evento, il momento focale della prima passione.

Al tempo – con i suoi ricordi, con i suoi anniversari, con i giorni che passano – è dedicato l’ultimo libro di Gabriella Sica, dal titolo Poesie d’aria. Disturbare Petrarca non è una scelta peregrina, un vezzo del recensore: la poesia di Sica, infatti, fin dai tempi di Prato pagano è consacrata al dialogo con gli antichi, e anche questo confronto, attraverso la sua più tenera illusione di gettare un ponte tra le ere, è legato al tema del tempo. Tra i tanti elementi che si potrebbero offrire quali analisi in questa brevissima presentazione del lungo volume di poesie (quasi duecento pagine) edito da Interno Poesia, si è scelto di provare a valorizzare non solo la struttura stessa dell’opera ma anche l’interesse speso da Sica verso la tradizione. Tale aspetto è dirompente ed esposto, ma nasce sempre da un’operazione voyeuristica, dalla brama di raccontare il proprio sguardo sul mondo, su un dettaglio. Così, per esempio, una Coltelleria a Brera diviene il luogo fisico e simbolico di una parte del libro: lì, si consumano «i dolenti coltellini del mestiere»; lì si sarà fermato Montale «talvolta a pensare / a quel groviglio-nodo che scava»; sempre a Milano, Montale avrebbe «trovato / la cesoietta giusta che recide / il passato che non passa». Questi versi tratti da Si sarà a questa vetrina Montale sembrano essere un omaggio al poeta che più di tutti nel Novecento ha cantato il mondo quotidiano con il suo scorrere inesausto e incontrollabile, eppure, a ben guardare, la sentita prosopopea, gli strumenti della poesia che agiscono sulla materialità, non sono quelli del poeta moderno ma di un altro lontano secoli: è Guido Cavalcanti, infatti, ad aver dato letteralmente voce alle cesoiuzze, al coltellin dolente, alle penne isbigottite; i tragici collaboratori che assumevano così i tristi attributi dell’io, prendendo su di loro il sentimento di desolazione derivato dall’amore tragico e passionale immaginato dal primo amico di Dante.

Il mascheramento operato da Sica, la quale si pone sulla scia di un gioco perpetrato recentemente da altri come, per esempio, Fernando Bandini o Giulia Martini (si vedano: del primo l’ultima quartina di Sera a Vicenza; e della seconda il sonetto Guido, io vorrei che tu e Lapo e io), è talvolta più difficile da cogliere, condotto com’è con uno spirito molto sottile. Varranno un paio di esempi: parto dalla canzone di quartine intitolata Nella foresta-città, dove l’io poetante di Sica si riconosce in un’immaginaria corsa cittadina affianco a un cervo dotato di «corna dorate nel cielo». Si tratta di un incontro che irrompe sulla dimensione martellante del tempo quotidiano frantumando la convenzione fissata a partire dal suo tratto più comune nella società, quello della misura:

o un secondo, non ho orologio, che ore sono?
Quando siedo a tavola o dormo m’è accanto
il cervo dalle ramificate corna che nessuno vede,
ansimante mi rialzo e corro corro sempre.

Sulle alte creste dei monti a piedi o in auto
fuggo e ancora fuggo con il cervo nudo,
intanto stringo la cintura e scatto in avanti
rapida ma non posso non calcolare il tempo.

La confusione generata dalla figura apparsa si rafforza grazie alla quasi totale assenza di punteggiatura. Tale assenza potrebbe essere percepita come un vezzo stilistico dal lettore, ma si dovrà ricordare che per molti secoli e ancora fino a tempi relativamente moderni, la punteggiatura – a parte il punto – non esisteva. Certo, non si vuole suggerire che Sica mimi la scrittura del passato, ma evidenziare come l’ambiguità raggiunta risponda alla necessità di rendere il componimento stesso uno spirito automa, una macchina in grado di essere sufficiente senza l’interpunzione, se non quella basilare. Questa lingua primitiva conferma implicitamente che quanto appare all’io è ascrivibile al genere della visione, notturna o a occhi aperti poco importa. Si tratta dell’unico momento, come ci ha insegnato Agostino nelle Confessioni con l’estasi di Ostia, in cui il tempo, la più grande illusione umana, si annulla. Ma se si volesse riprendere il discorso sulle autorità antiche, sui padri o numi tutelari a cui Sica guarda, si dovrà constatare che l’apparizione del «candido cervo» è costruita guardando al sonetto Una candida cerva sopra l’erba di Francesco Petrarca (è il Fragmentum 190). Riconosciuto il palinsesto più probabile anche grazie alla compresenza del medesimo qualificante (candido-candida), ora della fierissima creatura descritta da Sica può essere sciolta la veste allegorica: l’animale andrà riconosciuto non tanto come uno spirito guida (questa funzione è apertamente negata nella poesia: «Non è un uomo e neppure è il mio animale»), quanto piuttosto quale manifestazione operante dell’anima dell’io. Esso è la forma viva di un contatto mistico che risponde a leggi simili a quelle proprie della trinità cristiana («io e lui siamo una cosa unica non separata»). Guardando alla cerva di Petrarca (e si noti il rovesciamento io maschile-cerva, io femminile-cervo), Sica offre così una nuova versione del testo d’origine e anche una sua personale interpretazione del sonetto di Petrarca che, tra l’altro, non si discosta molto da quella attualmente accettata dalla critica specialistica (secondo cui la cerva dell’autore trecentesco è immagine del pellegrino cristiano, di Sant’Eustachio, che diviene a sua volta simbolo di una nuova e prossima conversione di chi guarda). Certo, non ci sono soltanto Cavalcanti e Petrarca tra le rime di Sica: si potrebbe disturbare Pasolini, acceso faro della poesia-prosastica italiana, che, evidentemente, illumina anche la vena più didascalica della produzione dell’autrice romana, ma per restare su di un tempo più antico e più lontano, si noterà con piacere che oltre Petrarca, pure Dante viene seguito da Sica da molto vicino.

Stavolta il mascheramento è condotto attraverso un filtro altamente ironico. Il primo verso di Avvistata una pantera, altro esempio importante di questo dialogo con il passato, è una sorta di dichiarazione di luogo e di tempo: «“Tusciaweb”, 15 gennaio 2007, ore 18,30» (corsivo nel testo). L’epigrafe, che potrà anche corrispondere al vero (poco importa), proietta il lettore nell’apparente officina dell’autrice: apparente perché prova che tale articolo sia mai stato pubblicato non può e non deve esserci. L’officina, però, non corrisponde mai al grado zero della lingua e così la comparsa dell’animale, «un grande felino simile a una pantera» che «si aggirerebbe / per le campagne tra Cellere e Montalto di Castro», deve molto a Dante, alla sua Commedia e al De vulgari eloquentia. Nel trattato in latino, l’auctor definisce la sua ricerca del volgare perfetto, eccelso, curiale come una caccia all’odorosa pantera: il caratteristico profumo del felino, derivato dai bestiari dove l’animale è riconosciuto quale simbolo di Cristo, è un tratto ripreso pure da Sica. Nel testo di quest’ultima, infatti, non solo «si sa dell’attrazione che esercita sugli animali» quel profumo con la sola eccezione del diabolico «serpente» che «striscia» e «non cede al suo alito odoroso»; ma la pantera è una «creatura braccata» che fa sentire «il suo profumo / nei dintorni ma non si manifesta in nessun luogo»; ella sempre «esala il suo profumo». Come la cerva pure la pantera è dotata di caratteristiche soprannaturali («Sparisce per secoli e riappare come rosa tra i boschi / con la sua elegante potestà e l’altera forza elusiva») e paradossali («Pare si sia sdraiata di notte accanto a un agnello, / eppure ha ferito al Parco di Vulci un intero gregge»; «La bestia» è «vorace o gentile?»), ma mi preme sottolineare come il paesaggio descritto dalla poetessa, che è tra l’altro originaria del viterbese, assume una coloritura fortemente dantesca.

La storia di questa pantera degli anni Duemila è, infatti, ambientata in una «selva italica» e poi ancora presso il «ruscello del Bulicame»: si tratta di luoghi, di due termini inequivocabili che appartengono all’Inferno di Dante. Affianco a Dante, però, bisognerà affiancare almeno un’altra voce, quella di Giorgio Caproni che a una bestia non identificabile, rivelata da un manifesto esemplato su quelli settecenteschi (anche a Caproni è diretta l’ironica menzione del sito web di Sica?), aveva dedicato un intero libro (cfr. Il conte di Kevenhüller). Ecco, dunque, che nel tempo della scrittura e della lettura delle poesie di Sica si realizza la grande illusione a cui si era accennato: in quel luogo fisico e immateriale che sono le pagine di carta non si può interrompere il dialogo con quello che è e con quello che è stato.