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Il romanzo enciclopedico

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Gian Marco Griffi

di Marco Drago

(Il 26 maggio arriverà in libreria Ferrovie del Messico, terzo libro e primo romanzo di Gian Marco Griffi. Lo pubblica Laurana Editore nella collana fremen curata da Giulio Mozzi. Il libro è prenotabile in rete già da questa settimana e sarà disponibile al Salone a Torino presso lo stand dell’editore. Il romanzo, ambientato nel febbraio del 1944, racconta l’avventura di Cesco Magetti, un milite della Guardia nazionale repubblicana ferroviaria inquadrato nella Stazione di Asti che riceve l’ordine di compilare una mappa delle ferrovie del Messico. Riproduciamo, per gentile concessione dell’autore, la postfazione di Marco Drago.)

Dopo aver finito di leggere Ferrovie del Messico di Gian Marco Griffi sono andato alla ricerca della mia vecchia copia di V., il romanzo d’esordio dello scrittore americano Thomas Pynchon. Si tratta della riedizione uscita per Rizzoli nel 1992, con prefazione del celebre critico Guido Almansi.

La ragione di questa mia ricerca è banale: il romanzo di Griffi mi ha ricordato quello di Pynchon e mi interessava verificare che il parallelismo non fosse in realtà uno scherzo della memoria. A dire il vero ero più interessato a rileggere la prefazione di Almansi che non l’intero romanzo: avevo l’impressione che fosse proprio nella prefazione quello che mi serviva per cominciare a parlare di Ferrovie del Messico.

Ho trovato con una certa fatica il volume, che avevo letto con altrettanta fatica nei primi mesi di naja proprio nel 1992, e mi sono subito reso conto che non mi ero sbagliato. Se sostituissimo il titolo del romanzo di Pynchon con quello del romanzo di Griffi la prefazione filerebbe liscia uguale. Almansi sintetizza con brillantezza e ricchezza di citazioni la storia di una fantomatica «letteratura enciclopedica», partendo dalla quinta lezione americana di Italo Calvino (quella sulla molteplicità). Vengono menzionati Bouvard et Pécuchet di Gustave Flaubert, Marcel Proust, Robert Musil, James Joyce, Carlo Emilio Gadda, Jorge Luis Borges, Henry Miller, Georges Perec e, naturalmente, Thomas Pynchon. Almansi sottolinea l’evidente influenza esercitata dall’Ulisse di Joyce su tutta la letteratura modernista posteriore, e in particolare cita il capitolo più caotico del romanzo, quello di Circe, un capitolo dalla «struttura sfilacciata» e in cui troviamo un grande «accumulo di dettagli grotteschi». Quel particolare capitolo, dice Almansi, ha avuto un riverbero «in tutti quegli scrittori che perseguono un ideale enciclopedico».

L’elenco di autori «enciclopedici» di cui sopra sembrerebbe plausibile come albero genealogico di Griffi. In questo romanzo si avvertono a tutti gli effetti tracce di Gadda, Joyce, Borges, Miller ecc., e Griffi persegue evidentemente un ideale enciclopedico con questo suo Ferrovie del Messico: oltre un milione di battute per raccontare una trama piuttosto lineare: nei primi mesi del 1944 Cesco Magetti, un milite della Guardia nazionale repubblicana ferroviaria di Asti perseguitato da un terribile mal di denti, riceve dal suo superiore l’assurdo incarico di disegnare una mappa delle ferrovie del Messico. Seguono le avventure che lo porteranno a disegnare la mappa e a uccidere un ufficiale nazista.

Se la trama da seguire è semplice, Griffi riesce nell’intento di trasformarla in un’epica tragicomica che genera storie su storie, tanto che a un certo punto il lettore si rende conto (non senza un certo sgomento) che, volendo, il libro potrebbe non finire mai. Quando un autore non si pone limiti e decide intenzionalmente di buttarsi tutto intero nel testo che sta scrivendo, succede proprio questo: il testo, come lo spaziotempo, non è un concetto solido con dei limiti ben precisi. Ogni testo, volendo, possiede un’elasticità tale da poter essere teso all’infinito. La parola chiave, qua, è «volendo». Volendo si può scrivere un libro che contiene tutto. È una di quelle chimere che certi autori hanno inseguito, a partire forse da Cervantes per arrivare ai già citati Proust e Joyce fino ai nostri contemporanei David Foster Wallace e William T. Vollmann.

Gian Marco Griffi

Nel caso di Ferrovie del Messico troviamo la Asti del 1944 e c’è più di quello che servirebbe per ambientarvi un romanzo, sembra anzi esserci tutta la Asti del 1944. Proseguendo nella lettura viene il dubbio che nel romanzo ci sia tutta la Repubblica Sociale Italiana e man mano che ci si inoltra tra le pagine del libro le cose che ci vengono raccontate nel minimo dettaglio si moltiplicano: certe avventure riportate dalla coppia di becchini contengono riferimenti a luoghi, istituzioni e usanze del Centroamerica che è difficile capire se siano frutto di scrupolosa documentazione o di fantasia debordante. Nell’epoca di Google sarebbe facile verificare ogni singola affermazione non di conoscenza comune contenuta nel libro (e ve ne sono decine a ogni pagina), ma a che pro? Da semplice lettore non mi interessa molto sapere se l’autore sta tenendo una lezione di etnologia o se mi sta raccontando una specie di barzelletta colta.

Quanti piani narrativi si contano in Ferrovie del Messico? Quante digressioni? Quante parodie? Quante citazioni nascoste? Quante citazioni scoperte? Quante citazioni false? Come se non bastasse, i capitoli cominciano tutti con una data e ovviamente saltano avanti e indietro nel tempo, a volte di mesi o di anni, a volte di un solo giorno, e ci si arrende fin da subito all’impossibilità di creare uno schema degli avvenimenti in ordine cronologico, anche perché non aggiungerebbe molto alla lettura del testo.

Il libro è ambizioso, lungo e complesso, ma è anche divertente, commovente e avvincente. In una parola: riuscito.

L’uomo che l’ha scritto è un signore della provincia di Asti che lavora in un centro sportivo, per essere precisi dirige un campo da golf (nel libro il golf compare in una delle scene più esilaranti). Quello che il lettore medio si chiede è: ma come ha fatto questo signore della provincia di Asti, che avrà il suo bel daffare a dirigere il campo da golf, che avrà una vita familiare che comprende una coniuge e dei figli, dei genitori anziani, delle scadenze da rispettare, come ha fatto questo signore a documentarsi così accuratamente per poter scrivere della Asti del 1944 senza sbagliare un riferimento, per poter scrivere con apparente sapienza di Messico, di Germania nazista, del processo attraverso il quale dalla cellulosa si ottiene la carta e così via per un milione di battute?

Quello è un mistero che deve rimanere tale. Magari Gian Marco Griffi non esiste. Gian Marco Griffi potrebbe essere un computer a cui è stato insegnato come produrre una cosa che per comodità chiamiamo romanzo. Qualcuno ha premuto start e ne è uscito questo libro. O magari è un collettivo di scrittori, ognuno specializzato in uno specifico ramo della conoscenza. O magari è solo uno scrittore che è rimasto impigliato nella sua stessa storia, nel suo stesso labirinto, ed è ancora lì che cerca di uscirne. Per concludere come abbiamo iniziato, è necessario tornare alla prefazione di Guido Almansi a V. di Thomas Pynchon. A un certo punto Almansi scrive che un romanzo enciclopedico moderno deve contenere «un’analisi dello sfacelo, una coscienza del collasso, una testimonianza della frammentazione, una critica radicale del concetto di verità», e aggiunge che all’autore resta soltanto la soddisfazione del gioco mistificatorio: confondere le carte equiparando verità e fantasia senza dare appigli al lettore. E racconta come anni prima avesse perso un’intera giornata a controllare una citazione della Storia della Guerra europea di Liddell Hart alla British Library di Londra (si era in epoca preinternet). Alla fine si era reso conto che la citazione era falsa. E dove aveva trovato, Almansi, quella citazione falsa? In uno dei testi che vengono più volte citati proprio in Ferrovie del Messico, ossia Il giardino dei sentieri che si biforcano di Borges.

Questa stessa conclusione della mia ricerca alle fonti del romanzo enciclopedico, effettuata per scrivere la presente postfazione, nata da un ricordo sfumato e conclusa con un’epifania sconcertante e quasi magica, sembra nata dalla mente del computer/collettivo/autore reale definito «Gian Marco Griffi».

E chissà, magari è così davvero.

 

 

Post in translation: Rim Battal

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Tre poesie

di

Rim Battal

 

tradotte dal francese da Angelo Vannini

e tratte dalla raccolta L’eau du bain, Éditions Supernova, 2019.

 

 

 

Puzza di bruciato

Sono giorni che puzza di bruciato ma non c’è alcun fuoco. Puzza di bruciato e non nella mia testa e non un’immagine. Fa caldo e un allarme-incendio urla da giorni e non è nella mia testa. Puzza di bruciato, urla «Al fuoco!» ma non c’è né fuoco né fumo e la mia testa è salva. C’è il calore, c’è l’odore, c’è il rumore, c’è l’acqua che fuoriesce dal corpo ma non fuoco identificato.

*

Il terrore di essere incinta una terza volta, a mia insaputa, mio malgrado, mi fa sudare freddo. Se è così, come uscirne?

Delle cose saranno fatte male. Se decido d’essere buona madre, non ne esco. Se decido d’essere una cattiva madre, non ne escono loro.

Si direbbe che so, ma non so.

Una vita non può prevalere su un’altra, sia pure quella di un bambino, sia pure quella di una madre.

Se non veglio non esisto più.

 

*

A vent’anni decisi di cambiare vita.

Di non essere più se non pochissimo te, il meno possibile.

Ormai terrò la penna tra l’indice e il medio e fumerò tutti i giorni.

Amerò e mi farò chiamare George.

Farò di tutto e di più. Sarò tutto tranne te poi tutto quel che sono.

Se riesco a incontrarmi.

Mamma, m’hai sempre messo abiti troppo grandi per crescerci dentro ma non si cresce senza misura, altrimenti la mia testa sarebbe molto più vecchia dei miei piedi, e sarebbe caduta da molto tempo. La mia testa, è tutto quel che ho.

Questo stratificarsi di gesti e tempi. Cinque fotogrammi di madri e figlie

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ph. Tealia Ellis Ritter - "Madre e figlia", 2013
ph. Tealia Ellis Ritter – “Madre e figlia”, 2013

 

di Chiara De Caprio

Oh mother, I’m scared to close my eyes
(Winter fields, But for Lashes)

  1. 1982, un parco

[track 1. Number three di Ben Harper]

Nella foto in bianco e nero c’è una bambina. Ha i capelli corti e ricci; indossa un vestito a maniche corte che le stringe la vita; ai piedi porta un paio di sandali di stoffa di colore scuro, forse blu. Sembra avere quattro o cinque anni. A poca distanza da lei, lungo un sentiero ricoperto di ghiaia e ciuffi d’erba, sua madre la osserva: la mano sinistra a sostenere il fianco, quella destra poggiata su un carrozzino. Calza un paio di sandali scuri, dalle linee essenziali. Sembrano scomodi su quella ghiaia; eppure la sua figura è ben piantata: come se l’arco del fianco a sinistra le desse una spinta che il carrozzino arresta. I suoi occhi sono semi-socchiusi, le labbra aperte e distese. L’espressione del volto è in parte enigmatica: una stratificazione di emozioni e volontà, si potrebbe ipotizzare; sembra voler procedere nella camminata, ma sa di dover attendere che la bambina si rimetta in movimento: e attende, in una condizione già aperta al prossimo passo da fare.

Ma, in effetti, è chi sta scattando la foto a generare questa dinamica tra spostamento e immobilità, tra attesa e azione: un terzo elemento invisibile e celato allo sguardo dell’osservatore, ma presente e generatore di relazioni spaziali. È lui che la bambina fissa; ed è forse destinata a lui quella linea d’impazienza, sottile e trattenuta, che percorre il volto e il corpo della madre. Così, si potrebbe dire, la foto mostra meno di quel che accade, ma pure permette di ricostruire qualcosa: di tracciare le linee del triangolo che fanno protendere lo sguardo della madre verso quello della figlia e ancorano lo sguardo della figlia a quello del padre.

La foto, allora, dovrebbe consentirmi di capire che cosa trattiene la mia attenzione e fa scorrere un’emozione impercettibile e lontana, a cui non so, in prima istanza, assegnare un nome. Che cosa mi suggerisce ciò che vedo e quanto inferisco? Perché questa foto fa accadere qualcosa fra il diaframma e lo stomaco? Qualcosa che sembra solo far cambiare la vibrazione del respiro e la tensione dei muscoli. Potrei ignorare queste sensazioni, ricondurle alla spossatezza che il virus porta. Ripongo la foto fra le altre, in bianco e nero e stropicciate nei bordi. Mi alzo e mi allontano dalla scrivania.

Fuori, sul terrazzo inondato di luce, il riverbero mi costringe a socchiudere gli occhi; sento le labbra distendersi in un movimento che è forse un pensiero. Lentamente, ormai vicina al bordo della ringhiera che mi separa dallo spazio lungo della strada che si apre sotto di me, piego il braccio destro a sostenere il fianco. La domanda sale a galla, fra il rumore delle auto e il colpo di vento che scompiglia i vestiti stesi ad asciugare: che cosa so della grammatica dei miei movimenti? del modo in cui entro nello spazio e mi ci muovo dentro? Quali – e quanti – gesti, che erano suoi, ha silenziosamente memorizzato il mio corpo? Dove – e quando – ne ho appresi altri?

 

  1. 2012, un ospedale

[track 2. Hands di Emily Jane White]

Una macchina avanza nell’oscurità lungo una tangenziale. So di averla percorsa, in una direzione o nell’altra, per più di un quindicennio. Ma ora mi sembra di non riconoscerne le uscite; le luci dei fari mi abbagliano, le buche – ma forse sono solo minimi dislivelli dell’asfalto o lievi spostamenti dell’automobile – amplificano ogni sensazione. “Respira”. Non sono io che lo dico, ma tento di ubbidire a una voce che parla per me: che forse sa dove mi trovo e che direzione prendere.

Se provo oggi a richiamare i ricordi di quella notte, mi accorgo che la memoria conserva molti fotogrammi tra loro dissaldati: avvolti da uno strato di ghiaccio che ne silenzia il rumore. Degli estranei intorno a me non riesco a ricordare le parole, ma solo gesti e movimenti: sensazioni fissatesi sulla pelle e la retina. La memoria in parte è ancora oggi in apnea; torna a divaricarsi fra i segnali di allarme e la speranza. E così sembra inizialmente trovare solo schegge su cui si sono appiccicate la paura e l’incertezza: gli schermi luminosi dei cellulari su cui le tirocinanti chattano, il verde dei camici che entrano ed escono, il blu del passo distratto e ciondolante di donne in camice azzurro, le luci troppo forti che qualcuno avvicina al mio volto, il buio della stanza in cui mi dicono di aspettare, le mani che qualcuno impiega per accelerare e chiudere la partita. Perché se non lo sai fare tu, spingiamo noi.

Capisco ora che questa memoria impressionata, iconica e visiva, disarticola e spezza quel tempo per separare la gioia dal senso di disorientamento: dalla paura. E le parole che non ricordo sono quelle che si inabissano quando l’allarme interno sale e si affievolisce o spegne la possibilità di ascoltare. Ritorno, allora, in quella macchina, al carico di trepidazione e futuro che portava con sé, mentre procedeva verso l’ospedale. “Respira”. Non sono io che lo dico, ma colgo il suono della voce di chi mi sta parlando: siede davanti a me, sul sedile anteriore alla mia destra. “Respira”, ripete mia madre.

Forse io non riuscivo ad ascoltare le sue parole, ma un gesto mi ha attraversato: la sua mano che afferra la mia, modulando l’intensità della presa in modo da accompagnare e sorreggere il mio sforzo, la mia forza. Attendere non vuol dire affondare: si attende con un respiro che scende più giù, con un movimento che trattiene e lascia andare, che si fa attraversare da ciò che non conosce e di cui ha timore; ma che, fra la paura e la speranza, sceglie la seconda.

 

  1. 1992, una palestra

[track 3. Swimming di Florence + The Machine]

Gli allenamenti iniziavano alle sette e duravano due ore: quando tornavo a casa, mia madre mi salutava e andava a letto. Si iniziava con il giro di corsa, le sacche dei palloni chiuse; si finiva raccogliendo i Mikasa bianchi finiti fra gli spalti, mentre la voce dell’allenatore urlava di muoversi e fare gli addominali. Gli allenatori cambiavano negli anni; il primo, G., era il professore di educazione fisica della scuola media che frequentavo. Occhiali e un paio di baffi, il fisico alto e robusto da ex giocatore di pallavolo. In giro, fra i corridoi e i bagni, le ragazzine commentavano che era divorziato, e questo sembrava aggiungere alla sua persona qualcosa di indefinito e complesso. Durante le partite si spostava nel punto più laterale della panchina e congiungeva le mani a coprire naso e bocca. Se chiamava tempo, parlava con voce scandita; sembrava lasciare uno spazio fra una parola e l’altra: le sillabe si imprimevano sui muscoli che provavamo a distendere con uno stretching frettoloso e sciatto. Facevamo girare le borracce, aggiustavamo le ginocchiere e le maglie troppo lunghe, mentre le sue frasi ridisegnavano i nostri spostamenti nel perimetro del campo: “M., salti un attimo dopo. Devi farlo un attimo prima, non dopo”; “N., cambia più spesso schema. Sei tu che alzi, sei tu che decidi”; “C., il tuo spazio lo devi coprire tutto: palle lunghe arretri, palle corte avanzi. Guarda la traiettoria del pallone, la mano di chi schiaccia. Lo vedi dove il pallone cadrà. Serve velocità”. E dopo una pausa aggiungeva: “Serve lo sguardo”.

Coprire lo spazio, prevedere la direzione, far esplodere l’energia di polpacci e femori. È così che ho imparato a rilasciare una forza compressa e trattenuta, ad abituarmi a spenderla anche in modo rapido e immediato? L’avversaria si sposta, disegna nell’aria l’intenzione di un movimento; io la osservo, mi sposto e piombo nel punto dove penso il pallone cadrà: lascio che i muscoli si distendano e brucino energia e adrenalina in unico gesto compatto, ma pure fatto di una sequenza di aggiustamenti ravvicinati e progressivi.

Eppure – ora ripenso – a volte, durante gli allenamenti, G. mi richiamava, sfumando la serietà in un sorriso appena accennato sotto i folti baffi neri: “Ma dove sei stasera? Hai la testa fra le nuvole, i movimenti sono lenti. Che dici torni sulla terra con noi?”. Provo a scomporre quest’altra gestualità di una ragazzina di dodici o tredici anni, esile nelle tute larghe e senza forma, silenziosa negli spogliatoi. Una gestualità lenta, forse perplessa, o semplicemente meditativa: adatta per muoversi in uno luogo separato, scollegato dai rumori e dalle insidie di fuori. Così la ragazzina vagabonda in un suo spazio-tempo mentre le compagne nelle docce – i seni imponenti, le gambe lunghe, e il nero del pube – già ridono, prima sotto il getto tiepido dell’acqua e poi nel freddo dello spogliatoio: si passano bagnoschiuma e assorbenti, si asciugano a vicenda, dando voti ai giocatori della squadra maschile e ai loro motorini, commentando l’andamento del campionato e quello del petting. Frettolosamente si rivestono: reggiseni, maglie e jeans stretti, un po’ di rossetto: sparite le tute, vanno incontro alla vibrazione del motorino che le aspetta.

Sembra – verrebbe da pensare – che la ragazzina voglia rendersi invisibile. Le aree dell’invisibilità hanno, però, una semantica doppia: negli spogliatoi, nei bagni della scuola, nelle piazzette grigie davanti al bar o sulle panchine arrugginite dei parchetti, si nasconde e non sa se gli altri dovrebbero dimenticarla o piuttosto stanarla. Oppure, si nasconde a sé stessa: e non sa, invece, se ciò che potrebbe scoprire le susciterà paura o solo meraviglia. Forse si nasconde semplicemente perché non sa qual è la strada per trovarsi. E stare ferma, corteggiare la propria invisibilità, mimetizzata con il grigio della tuta, è un modo per prender tempo: far rallentare il ritmo del cuore, lasciare che le mestruazioni passino, che venga una settimana dopo l’altra, e un’altra dopo l’altra ancora. Prende tempo: e fluttua in una bolla la cui sottile parete luminescente basta però a diminuire l’intensità della luce, sfocare la nettezza delle immagini, attutire le voci di fuori e, forse, anche quelle di dentro.

In che modo -mi domando – riusciva a tenere insieme gesti così diversi per ritmo e intensità? Ci sono lo sguardo assorto e le parole che sembrano uscire di sbieco, installate fra lo scontento e il timore: come un pezzo di camicia, già lacerato e sfilacciato nei bordi, che uno strappo ha tirato fuori da un pesante cappotto; ma c’è anche la rapidità di chi scruta la traiettoria del pallone, si riposiziona, prende lo slancio e salta, provando a portarsi oltre la rete e il muro delle mani avversarie. Forse, questi spazi e i loro gesti erano complementari e meno divaricati di quanto a lei stessa sembrasse. Si rifugia dietro la parete della bolla, vi entra o ne esce, va via e ritorna. Torna ogni volta che esiste un campo di operazioni e movimenti che l’esercizio consenta di rendere meno sbavati, meno imperfetti. Torna quando si sente al sicuro perché ha qualcosa da imparare.

 

  1. 2002, una casa

[track 4. Winter fields di But for lashes]

Le lascio la lettera in cucina. Mia madre la legge. Siamo ai due lati del tavolo, entrambe in piedi. Un ronzio granuloso e metallico sembra propagarsi nello spazio che ci circonda: l’allarme dell’ansia investe le sedie scure di legno, i piatti in fila sul lavello, la vetrata che dà sull’oscurità del giardino. Non era più il silenzioso dissenso che si appuntava su oggetti e questioni minori, il sotterraneo e faticoso lavorio per trovare un varco, ma l’esplosione di un’energia troppo a lungo trattenuta. Altre volte avevamo litigato, ma quella sera lei disse solo: “Vai. Fai come senti”.

Se entro di nuovo in quella stanza e provo a trovare un punto in cui collocarmi fra quella madre e sua figlia, scelgo ora di posizionarmi a metà strada, lì dove sembrava allora essere netto il confine che separava i timori dell’una dai desideri dell’altra: percorso l’arco completo che quel principio d’individuazione disegnava, posso ricomporre i tasselli del nostro rapporto e tracciare una linea che tiene insieme differenze e somiglianze, perdite e acquisti, le parti che accolgo, quelle che modifico e quelle che aggiungo.

Ma è esatto definirla una linea? Non è piuttosto qualcosa di stratificato e complesso? Ora che il suo ruolo è toccato a me incarnarlo, parlerei piuttosto di uno spazio che muta nel tempo, si espande e richiede esercizio e ripetizione di gesti: ripetere i gesti per entrare in relazione con le emozioni e i significati che veicolano. In effetti, se dovessi scegliere una definizione secca, direi che non sono diventata madre quando sono nate le mie figlie, ma che da allora ho cominciato a imparare come potessi esserlo io. Ed è di nuovo un pensiero ancipite quello che affiora: per un verso, nella folla di modelli e direzioni, avrei potuto confondermi e finanche smarrirmi, o restare intrappolata in ciò che avevo appreso e riproporlo come se fossi stata sottoposta all’azione di un meccanismo a molla; dall’altro, il confronto con altre madri – quelle del passato e quelle del presente – mi sposta e sollecita, e così il dialogo con tutte le figure con cui i figli crescono, i tuoi e quelli degli altri.

Forse, però, nel tempo ho anche imparato a fidarmi di me. Posso far decantare i consigli e i pareri, chiudere i molti libri che leggo per essere più brava o, meglio, più sicura; posso finanche smettere di cercare risposte definitive a questioni generali. Anzi, oggi direi che, quanto più ho un dubbio, tanto più provo a concentrarmi solo sui gesti, a isolare le domande relative ai gesti che posso compiere qui e ora: come so e voglio raccontare questa storia? porgere questo piatto? ballare questa canzone? correre in questo prato? manifestare la mia gioia o la mia tristezza? consolare o esortare? a quale velocità voglio camminare e far spostare le emozioni e i pensieri miei e delle mie figlie? sarò un passo avanti a loro, o accanto, o un passo indietro, o tutte e tre le cose, a seconda del bisogno che sembrerà affiorare?

Nel declinare questa grammatica del corpo e delinearne i movimenti, scopro con loro quanto io sia abitata da altre madri e donne: il gioioso sprofondare di mia nonna con la testa nei libri, la cura con cui mia zia mi apparecchiava la tavola, l’abbraccio con cui la mia babysitter mi accoglieva quando tornavo da scuola, il luccichio dello sguardo e gli occhiali sbilenchi con cui una professoressa di liceo mi portava in giro fra i romanzi. Verifico che per ogni domanda che pongo alla me-madre, ho anche una risposta che riguarda la me-figlia. E più scompongo e ricompongo la sintassi dei miei gesti, più mi esercito in questo movimento fra passato e presente – fra la figlia che ero e la madre che sono, le madri che avevo e le figlie che ho – più il passato resta passato: conserva la sua eredità di gioia e scioglie la memoria del dolore. E il presente è una scelta.

 

  1. 2022, una casa

[track 5. Du bist so schön di Aline Coen]

Nella foto due bambine sono su un divano invecchiato e punteggiato di macchie: la testa giù, i piedi in aria, i corpi in due body ricoperti di lustrini, i cui colori brillanti risaltano sul fondo scolorito e chiaro dei cuscini. Protraggo la mia osservazione, e torno a guardare le due figure: osservo meglio il comporsi di linee e l’alternarsi di pieni e vuoti che i loro corpi creano. Sono concentrate nello sforzo, eppure sorridono; due braccia sembrano sfiorarsi, mentre le altre due sono simmetricamente allungate dal lato opposto; le gambe sono tese, come insegnano in palestra. Riconosco altri e nuovi movimenti e possibilità, altre forme con cui dispiegare l’energia e darle un ritmo. Poso la foto. Nell’allontanarmi dal tavolo, l’ultimo rapido sguardo che la investe sembra consegnarmi la forma di una creatura fantastica – simile ad uno scarabeo– dal cui corpo centrale iridescente si aprono due ali trasparenti e sottili.

Per un attimo ho la tentazione di cercare altre foto e scovare somiglianze e differenze tra loro e me: il modo in cui sorreggono i libri, avanzano lungo la strada, sprofondano fra i cuscini, o chiudono gli occhi al sole. Ma decido di fermarmi, e faccio un passo indietro. Accolgo l’idea che non siano solo la meccanica giustapposizione o somma di tratti, modelli ed esperienze, quanto piuttosto l’articolato comporsi, libero e dinamico, di tutto ciò che le attraversa.

Dal terrazzo arrivano i rumori del traffico del sabato sera. Dietro la fila nervosa delle auto si staglia la sagoma della scuola elementare. Ripenso alle foto delle due ginnaste a testa in giù. Allargo il campo del mio pensiero, visuale e immaginativo, e sposto l’asse del tempo a tutto ciò che c’è prima e dopo questo scatto. I loro litigi e il disordine, la complicità e i libri per la sera, gli zaini e la concitazione delle cose da fare, i gesti e la calma delle confidenze notturne: “Tu avevi paura da piccola?” “Raccontaci una storia di quando eri piccola”. Come nella foto, emerge anche ora l’espressione sorridente dei loro volti. Non riesco a non pensare che questi sorrisi hanno attraversato una pandemia e, pur mediati dall’immagine che la memoria mi consegna, sono ora di nuovo davanti a me: presenti con il loro senso di aperta costruzione del domani.

Forse, allora, mi suggeriscono e chiedono di rovesciare la clessidra ferma e spezzata del lockdown, delle quarantene e degli isolamenti in attesa degli esiti dei tamponi. Per quanto sfilacciato e scarnificato il nostro mondo ci sia sembrato ogni volta che abbiamo pensato al fuori e alla mediazione inevitabile di uno schermo, pure questo intervallo è stato anche un tempo lungo e profondo per una madre e le sue figlie. Un tempo in cui moltiplicare i movimenti, scoprire la storia dei nostri gesti, esplorare le emozioni che racchiudono, inventarne di nuovi, sentendo nel suo farsi l’architettura del futuro: il suo peso e la sua vertiginosa apertura.

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Sono grata a L.R. per avermi sollecitato a immaginare un racconto sulla relazione madre-figlia e per aver letto questo testo, le cui ipotesi e maschere e personae sono, in definitiva, uno spazio di dialogo con e perle madri.

L’amore viene prima

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[ Pubblico qui una selezione di poesie del libro “L’amore viene prima” (edito da Feltrinelli) di Andrea Bajani. Un libro che affronta la nascita, il primo ingresso nella genitorialità, nell’esistenza condivisa di un nuovo essere che appare nel suo manifestarsi attravero un linguaggio primordiale, preverbale, corporale. Un’apparire nudo, defiltrato, minimo nelle sue misurazioni – di organi, movimento, singulti, del quotidinao affaccendarsi delle cose. ]

di Andrea Bajani

0.

Ecco un altro figlio della luna, dice
il dottore entrando in sala parto.
Fino a ieri il reparto era semivuoto,
in sei ore si sono rotte sette acque,
sette donne sono già in travaglio.
Tua madre spinge, mentre il cielo
partorisce il nostro satellite maggiore.

12.

Il mio modo di aspettarti, prima
che venissi al mondo, sono state
le sedute dal fisioterapista ogni
settimana. Amare preventivamente,
mi diceva, è correggere l’assetto,
evitare la compressione vertebrale.
Trovarsi pronto a farsi arrampicare.

19.

Sei un individuo orizzontale, la misura
che ti dice è la lunghezza – presa
a matita con procedura sartoriale,
steso sopra una pellicola di carta
dal pediatra. La tua forza è andare
avanti, stringere la fossa della culla:
le tue urla – alcune lancinanti –
a volte sono un millimetro di ossa.

37.

Dicono scomparirà anche questa collera
che ci confessiamo stremati sul divano,
già colpevoli nei fatti, e dunque già
tuoi creditori. Si scioglierà, come
i punti nella ferita che medico la sera
sul ventre di tua madre – la tua uscita,
la ferita che lei non fa cenno di guardare.

Overbooking: Qui non possiamo più restare

2

di Romano A. Fiocchi

 

Ho conosciuto la scrittura di Giuliano Gallini attraverso un progetto comune: nel 2020 siamo stati coinvolti entrambi nella Piccola antologia della peste di Francesco Permunian, corposo prosimetro dell’Italia ai tempi del Covid cui hanno preso parte trentaquattro autori di varia provenienza, da Franco Buffoni a Dacia Maraini, per fare due nomi tra i più noti. Il contributo di Gallini consisteva in un racconto suggestivo ambientato sulle rive del Po: Il portalettere. Una scrittura pacata, fluente come una piena, talvolta forbita e comunque sempre rispettosa della lingua, alla ricerca di una compostezza da grande narratore.

Qui non possiamo più restare, pubblicato da Ronzani Editore nel marzo 2022, ha la stessa intonazione. Soprattutto, al di là dello stile, riprende e sviluppa un tema che nel racconto è appena accennato: i miserabili, ossia quei «diseredati del nuovo millennio, vittime delle periodiche crisi del mercato globale» (il termine miserabili si rifà ovviamente ai poveri di Victor Hugo della Parigi di inizio Ottocento). La comunità del Monte Verità che si inventa Gallini, con tutti i personaggi positivi che la guidano, dalla fondatrice Marcenda Werefkin a Livia, da Nabilah a Simon, rappresenta quella parte buona dell’umanità che continua a battersi per i più deboli, che cade e poi risorge, che magari finisce per fallire (come succede nel romanzo) ma sa che qualcun altro ci riproverà, altrove e in altro modo. Perché gli idealisti non finiranno mai di lottare per le loro utopie. Eppure non sono eroi, non sono uomini e donne tutti d’un pezzo, anzi: hanno la debolezza degli esseri umani che combattono continuamente contro se stessi, contro la tentazione di arrendersi e di mollare tutto, che sentono il peso e l’ambiguità subdola del male che li circonda. Male che finisce per affiorare anche tra gli abitanti di Murata, prima pronti ad accogliere compiaciuti la comunità del Monte, che ridà vita alla struttura del monastero abbandonato, e poi a diventarle ostili.

Qui non possiamo più restare è un romanzo di impegno sociale, una sorta di reportage di fantasia che permette a Gallini di denunciare situazioni reali. In primo luogo l’atteggiamento opportunista delle istituzioni verso i centri di accoglienza e la grettezza di parte della popolazione, condizionata dall’ignoranza e dal pregiudizio. Ma anche una denuncia generale verso i meccanismi spietati dell’ultracapitalismo, quello che si affida solamente alle logiche di mercato, quello per cui il dio denaro giustifica tutto:

«Viaggiando attraverso le campagne del nostro paese vidi riunite le tre malattie della società occidentale: l’abbandono, la violenza, l’ingiustizia. I più deboli erano abbandonati a se stessi, la grande finanza spingeva alla violenza tra gli uomini e sulla natura, gli uomini lavoravano nell’ingiustizia. Una realtà che non riguardava più solo la società dominata dalla criminalità, o i mestieri umili, ma anche imprenditori e aziende di fama, insospettabili».

È anche una storia di sentimenti, di relazioni che si instaurano e si dissolvono. Tant’è che il lettore finisce per innamorarsi di Marcenda, con quel suo gesto di toccarsi il petto per calmare la tachicardia del suo piccolo cuore. O della combattiva Livia, che si infila l’abito rosso vivo prima di affrontare la lotta. Con un’analisi introspettiva dei personaggi, Gallini spinge in superficie i dubbi e le angosce dell’uomo contemporaneo, i sogni e gli ideali, le bassezze e le incomprensioni, che sono poi – queste ultime – alla base del male, ossia la più profonda idiozia dell’uomo.

È un romanzo che non dà soluzioni perché, in fondo, dare soluzioni non è il compito della letteratura. È un testo che non aspira alla perfezione dell’intreccio perché il suo obiettivo è altro: parlare dell’umanità di oggi. Ma ci sono anche pagine descrittive molto poetiche, oserei dire quasi manzoniane. Pagine ormai rare nella produzione editoriale di questi ultimi tempi.

Una curiosità del libro, che è poi una caratteristica della collana Carvifoglio: nelle ultime pagine un codice Spotify riporta alla colonna sonora scelta dall’autore. Per iniziare l’ascolto basta inquadrarlo con la videocamera del cellulare attraverso l’apposita applicazione. Un modo innovativo per avvicinare musica e letteratura.

Le competenze umane

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di Giorgio Mascitelli

Durante i mesi invernali la Camera dei deputati ha approvato all’unanimità una proposta di legge per l’introduzione sperimentale nella scuola secondaria italiana delle cosiddette competenze non cognitive, quali ‘l’amicalità, la coscienziosità, la stabilità emotiva e l’apertura mentale’ (art.1). Le competenze non cognitive sarebbero, per dirla in maniera semplice, quelle abilità relazionali e operative che devono essere sviluppate in vista di un’efficace formazione del capitale umano utile per il mondo del lavoro. Si tratta insomma di un’ulteriore attestazione della diffusione nella nostra legislazione scolastica di quell’aziendalismo neoliberista, a carico del quale sarebbe facile elencare tutta una serie di coraggiose innovazioni che hanno allietato la vita di studenti e docenti  in questi anni. Che le cose stiano così ce lo conferma il comma 2 dell’articolo 3, dove vengono specificate più nel concreto le abilità che si vogliono sviluppare come ‘ la flessibilità, la creatività, l’attitudine alla risoluzione dei problemi, la capacità di giudizio, la capacità di argomentazione e la capacità di interazione’, insomma mancano solo la resilienza e lo spirito imprenditoriale, e troveremmo citate tutte le paroline magiche, almeno quelle in italiano, con cui si accompagna solitamente questo genere di discorso.
Le competenze non cognitive sono la traduzione dei character skills che hanno avuto in Giorgio Vittadini ( un economista, già presidente della Compagnia delle Opere, nonché uno dei firmatari del documento di ideazione delle prove INVALSI) il loro mentore in Italia, ma che sono stati elaborati in qualche università americana da sociologi ed economisti in cerca di una formula ‘scientifica’ per la produzione di capitale umano adeguato. Per nostra fortuna, si può dire che provvedimenti di tal genere sono privi di qualsiasi ricaduta pedagogica perché si capisce che sono stati pensati e sviluppati in un ambiente che non ha nemmeno una vaga idea di cosa sia una comunità scolastica e su quali principi reali funzioni. Rientrerebbero dunque a pieno titolo nelle petizioni di principio ideologiche che costellano i nostri tempi, se non fosse che il loro formalismo finirà con lo svolgere una funzione,  tanto dissimulata quanto pericolosa, di indirizzo dell’attività di valutazione nella scuola tesa più al controllo che alla formazione culturale degli studenti.
La discussione su questo argomento potrebbe essere conclusa semplicemente con il far notare che quelle che la proposta di legge chiama competenze in effetti non lo sono. Sebbene si debba ammettere che intorno al termine competenze regni una certa confusione perché manca una definizione teorica rigorosa, anche secondo l’accezione corrente della parola, che indica quei saperi immediatamente applicativi, che esistono per così dire solo nell’atto e non nella teoria, aspetti della personalità come l’amicalità o la stabilità emotiva non sono competenze e pertanto non possono essere insegnati. Per esempio una competenza è suonare il pianoforte, attività che può essere insegnata in prevalenza attraverso la pratica, ma come si possa insegnare direttamente o indirettamente a essere coscienziosi è cosa molto ardua da immaginare: si può imporre attraverso un sistema di regole rigide e un po’ pavloviane di rispettare determinate consegne ( lo faceva ossessivamente la scuola tradizionale), ma questo non corrisponde all’essere coscienziosi. La coscienziosità e l’apertura mentale sono modi d’essere, da un lato profondamente dipendenti dalla storia personale di ciascuno e dall’altro sviluppati nell’interazione con l’ambiente: definirli come competenze significa prenderli in considerazione indebitamente solo in quanto performance utili all’attività lavorativa; definirli come competenze non cognitive è un controsenso in quanto le competenze sono cognitive o non sono tali. L’ossimoro illustra bene la contraddizione logica: infatti se anche esercitarmi al pianoforte un paio di ore al giorno non farà di me Pollini, sicuramente mi renderà capace di suonare qualcosa in maniera amatoriale; invece, per quanto mi eserciti alla cordialità e alla gentilezza d’animo, non potrò mai essere una persona cordiale e gentile d’animo, se non si crea una particolare costellazione interiore e sociale che mi spinga a nutrire questo genere di sentimenti, come può testimoniare chiunque abbia frequentato ambienti altoborghesi in cui, a dispetto di una perfetta conoscenza delle regole dell’educazione e dell’etichetta, non è raro che regni una freddezza assoluta, mentre talvolta si incontrano tali modi di essere in contesti popolari, meno impeccabili sul piano formale ma più spontanei su quello relazionale.
Questa proposta di legge, in definitiva, rientra in una classica logica del pensiero borghese, che pretende di isolare e definire funzionalisticamente determinati aspetti della vita trasformandoli in astrazioni misurabili, che sono al servizio di quella astrazione generale che è il concetto di lavoro nella nostra società. Nella scuola italiana questa legge difficilmente otterrà i risultati che si prefigge perché ciò a cui mira è impossibile da ottenere con i metodi della normativa scolastica, ma contribuirà a una deriva autoritaria perché presuppone di mettere sotto l’attenzione formalizzata dell’istituzione scolastica quegli aspetti sottili del comportamento umano, che in una scuola democratica debbono essere lasciati fuori da qualsiasi tipo di normazione, fosse anche la più liberale possibile, in quanto vanno a toccare la sfera della vita psicologica immediata, pena il rischio di renderli, di fatto, oggetto di una  biopolitica. Insomma se si è cercato ( non da parte di tutti, non sempre con successo) di trasformare la scuola un luogo abitabile, dove gli studenti potessero almeno in parte esprimersi e apprendere un metodo critico, ma questo sforzo non va confuso con il mettere le qualità umane dei nostri ragazzi al servizio di un indottrinamento aziendalistico.
Questa tendenza autoritaria, a differenza di quelle del passato tipiche delle scuole fasciste o di quelle religiose, è tanto più subdola in quanto non si manifesta che sporadicamente in un plateale controllo dei contenuti, rivelandosi più spesso tramite il loro svuotamento e l’introduzione, in loro vece, di una serie di procedure che incidono nella vita di studenti e docenti condizionando il loro comportamento. Purtroppo il dibattito pubblico non aiuta a orientare il non addetto ai lavori perché sulla stampa, quando ci si occupa di scuola, godono di ampio spazio le posizioni di esponenti neoliberisti, spesso legati alla fondazione Agnelli, che di questa tendenza sono sostenitori e in parte promotori, mentre quando si dà spazio a critici di tale tendenza, di solito si mettono in primo piano le posizioni di chi ha nostalgia della selezione scolastica dei tempi passati come panacea dei mali presenti, in una sorta di vintage kitsch e magari consolatorio per alcuni insegnanti, ma totalmente inutile alla comprensione del significato politico ed educativo delle riforme di questi anni. Ma se quest’ultimo tipo di posizioni è facilmente leggibile e demistificabile, la prima ama nascondersi dietro un linguaggio progressista e talvolta sessantottino che camuffa la sua sostanziale natura classista e reazionaria. Da questo punto di vista è  indicativo che qualche giornale, nel dare notizia dell’approvazione alla camera di tale proposta, si sia spinto ad annunciare che si tratta di una legge per introdurre il pensiero critico nella scuola. Ora l’unanimità del voto a un testo, che nella sua brevità contiene un numero impressionante di affermazioni ideologiche, mi sembra una testimonianza eloquente dello spirito critico che ispirava i nostri legislatori quando si occupavano di istradare sulle impervie vie del pensiero critico le generazioni future.

La versione di Eva

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(Dopo un periodo durato anni di studio e scrittura, finalmente, dal 3 maggio, è in libreria La versione di Eva di Iaia Caputo. Siamo felicissimi di pubblicare qui un estratto, ringraziando editore e autrice per il regalo. G.B.)

di Iaia Caputo

Torno al momento in cui ha inizio la tragedia. La notte è scesa, come un avvoltoio rimasto a lungo in agguato. Adesso è la quinta livida di un palcoscenico sul quale la protagonista è rimasta sola.

Vi dico quel che continuo a dirvi da cinque anni: che preferisco essere Evita prima che la moglie del Presidente. E se Evita può alleviare anche un solo dolore della Patria, allora dico che preferisco continuare a essere Evita.

Le ultime parole non le sente nessuno. Sono coperte da un boato. È un “no” inferocito. Che incattivisce queste facce cotte dal sole, rivela bocche precocemente sdentate, una donna si porta entrambe le mani al viso, vecchi militanti piangono come bambini e nell’angolo più vicino al palco un gruppo di anziane cade in ginocchio a pregare. Lassù, in alto, si sta facendo politica, si sopporta con un ghigno sorridente che la massa esaurisca l’energia della protesta, che la gente si disperda per tornarsene a casa, vinta dalla stanchezza, dalla fame, dal freddo, insomma da tutte quelle ragioni che alla fine, con le buone o con le cattive, rimettono al proprio posto il popolo e i suoi eccessi: dell’odio come dell’amore, della protesta come della partecipazione.

Lo spettacolo doveva essere un altro. A lei non resta che improvvisare. Perché il pubblico non vuole saperne di abbandonare il teatro. È stanco di applaudire la grandiosità della scenografia, gratificare i comprimari, urlare approvazione per i passaggi migliori. Non ha nessuna intenzione di lasciarla andare. Ecco perché le sue ultime parole inquietano.

Sanno, oscuramente sanno, che se Evita non accetta uscirà di scena. Per sempre. Ed ecco che si ribella.

«Sciopero generale», «Sciopero generale», «Sciopero generale», «Sciopero generale».

Il popolo, il suo popolo ha colto l’inganno? L’inganno nel quale per prima è caduta lei, Evita? O sta osando ribellarsi all’inedito rifiuto della Madre? Perché mai fino a quel momento aveva ricevuto un “no”. Sempre ha ottenuto quel che ha chiesto.

Compagni, compagni… Io non rinuncio al mio posto nella lotta, sto solo rinunciando agli onori. Credete che se il posto di vicepresidente fosse utile alla nostra causa, se io fossi una soluzione, non avrei risposto sì?

Quell’immensa folla convocata per applaudire, per manifestare consenso e approvazione, si è trasformata in un gigante fremente, in un corpo dotato di volontà propria, e si sta ribellando con tutta la forza di cui si sente improvvisamente capace. Ha smesso di chiedere. Pretende. Che Evita accetti.

Eva Perón oggi verrebbe considerata una leader populista: un personaggio pre-politico, o post-politico. I suoi detrattori, che all’epoca non usavano queste definizioni, la consideravano una donna le cui passioni provenivano da un gorgo di risentimento. Che aveva fatto dei rancori personali il contenuto della sua politica.

E certamente lei professò la politica come passione. La passione come contenuto e forma della politica. Teatralizzando l’amore e l’odio. Facendo transitare l’odio (ben diverso dal rancore o dal risentimento) e l’amore da un piano privato a una dimensione pubblica. Aveva demonizzato chiunque fosse portatore di opposizione: gli oligarchi, i traditori, i comunisti, i radicali, quelli che chiamava senzapatria… e travolto d’amore gli altri.

Dunque, da populista anche lei si è nutrita di un rapporto diretto con le masse e ne ha sollecitato continuamente l’amore; però, a differenza degli uomini che l’hanno preceduta e seguita in questa ideologia, Eva ricambia fino all’ultimo dei suoi giorni questo sentimento e non lo delude mai.

Ma è esattamente questo il dramma che si sta consumando in quella tarda sera dell’agosto del 1951: l’amore è nudo, l’amore della donna che per il popolo assiepato da ore sotto il palco dell’incoronazione promessa è già la loro sovrana, si rivela privo di potere, mostra il proprio limite.

Il Generale le ha permesso tutto, ma non ufficializzerà mai ciò che è già. Evita pensava davvero di poter trascendere i limiti che lui aveva disegnato per il suo ruolo politico? Che errore fatale. Come negare che fosse la moglie a galvanizzare il movimento peronista, a garantire quella corrente emotiva tra sé e il popolo? Non lo negava affatto. Ma i ruoli erano stati, e avrebbero dovuto continuare a essere, ben distinti: a lui le redini dello Stato, e che lei continuasse ad annaffiare e a far crescere il sentimento del consenso, della devozione – questi erano i suoi bisogni. Insomma, che lo capisse una buona volta: se avesse ottenuto quella carica istituzionale, lui non sarebbe più riuscito a porre limiti al sindacato, del tutto asservito a Eva, e i movimenti femminili del partito, poi, non gli avrebbero dato tregua. E comunque il suo fanatismo è diventato ingestibile: i tempi sono cambiati, va bene galvanizzare le masse, ma ormai nei suoi discorsi aleggia lo spettro del marxismo, santa pace, si circonda di leader sindacali dalle chiare simpatie socialiste. Ma niente, non solo non mi ascolta, è arrivata a sfidarmi. Soltanto il mese scorso ha convocato alla Casa Rosada, e alle mie spalle, i governatori, impartendo loro ordini che soltanto io avrei potuto dare. No, cholita, questa volta sono costretto a fermarti.

Che Eva continui a essere la regina dei descamisados, se lo vuole, però non s’illuda di diventare la vicepresidente di tutti gli argentini. Può dilettarsi con la gloria, non avrà mai il governo.

Questo coglie la folla: il divieto. E ha l’esatta percezione del Potere senza Amore di Perón. Dell’amore improvvisamente impotente di Evita. La dea che aveva reso possibili gli altrui desideri deve arrendersi alla realtà.

Resta il corpo. Il corpo della sovrana. Materiale e mistico.

Immenso e minuscolo, allo stesso tempo.

 

Da “Dopo il libro”

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di Emanuele Canzaniello

*

Che non parli, non dica niente

Non si muova,

Che stia ferma.

Non succeda nulla qui

Dentro, dentro fino a sparire

Al dire il limite

Dei limiti

Lunga 32 larga 12

Si è rovesciata l’ultima macchina

Non detta, non superficie

Perché è estensione pura

La nostra terza dimensione

Matrice piana

Non detta, mai dispiegata

Senza volumi

Che è piastra d’ostensione

Ai nostri solidi.

*

Solo il sapere conta

Quanta parte del nostro posizionamento

Politico ci è suggerito

Dalle nostre predilezioni estetiche,

Dal gusto erotico

E da spinte solo occulte

Non politiche, non sociali

Nel loro ultimo confine

Anormali, anomale

Rigonfie, scagliate contro ogni possibile sociale

Contro quel volto ripugnante

Frame sfocato, palese margine che sgrana

Di un insieme più ampio,

Cattivo rapporto tra denti e bocca

E distanza tra i denti anteriori

Il tipo di capelli e il biondo dei capelli,

Il tondo ridicolo della forma degli occhi,

E il banale, il banale.

*

È un cinema di Wimbledon

E il buio della sala

Interrotto dai riflettori

Stretti sul ring

Sui corpi tagliati,

Sono maschi, sono la folla

Durante l’incontro finale.

Nero americano il primo l’altro russo

In sala sono ragazzi vestiti bene,

Significanti come nelle tassonomie,

Inglesi e indiani, bellissimi

E morbidi nelle voci

E tu adesso li senti gridare

Stick your dick in my ass, oh yeah

E hanno voci femminili senza eguali

E il russo è a terra accasciato

He needs some milk, oh yeah

Sono almeno quaranta a strillare

Stick your dick in my ass, oh yeah

Un boato, cinque minuti

E adesso tu li senti ancora.

*

La vita è di chi sta

Con la lingua su nel culo

E non sa nulla della vita

Non sa di rumori

Non sa di queste ragioni.

*

Cosa succede quando a qualcuno

Già predisposto al suicidio

Manca, è caduta, è andata persa,

Non scritta, non trascritta.

Sentirai presto il cibo fare attrito

Nella gola, squittire come gomma

Ferma.

*

Il giorno del giudizio avverrà così,

Si saprà di poter andare a letto sapendo

Di non svegliarsi più

Quanta gente sceglierà di andare a dormire

Quanta gente su sette miliardi di persone

Sceglierà di andare incontro tranquilla

Al sonno

Sapendo che sarà dolce e calmo,

Sapendo che sarà come andare a dormire

E solo allora sarà possibile l’assoluzione

Veramente plenaria di tutto il mondo insieme

In una notte

Andando a letto soltanto.

*

Anche la scelta di dormire di notte

E di stare in piedi di giorno

È vecchia di 230 milioni di anni in noi.

Dai rettili l’abbiamo ereditata.

Animali a sangue freddo,

Hanno trovato l’equilibrio

Restando fermi nel buio

E muovendosi nella luce,

Prima che le prime scimmie si muovessero sotto il sole.

E dentro il nostro dna,

Nella sequenza di noi stessi

Si trovano incistati,

Incassati nella notte

Antiche di milioni di anni

Sequenze di virus che oggi sono là,

Fossili

Nella struttura dell’essere.

This must be the place. David Byrne e lo zen – seconda parte

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di Giorgio Sica

[La prima parte dell’articolo è uscita ieri, qui]

Chiaramente, alle spalle di questa concezione, non può esserci che John Cage. Vorrei a questo punto soffermarmi, per forza di cose brevemente, sulla figura di Cage, e sull’evidente influsso esercitati dalla sua opera e, ancor di più, dal suo pensiero, sulla parabola di Byrne e di Brian Eno. Questo ci aiuterà a comprendere meglio come lo zen, apertamente professato da Cage, possa essere entrato per una sorta di osmosi nella mente e nella musica di Byrne. Dobbiamo, dunque, fare un breve salto a ritroso nel tempo e tornare agli anni ’40 quando, al culmine della sua cosiddetta fase romantica, Cage, allora allievo di Schoenberg, componeva musica ancora animata da finalità espressive, creata secondo modalità matematiche, ad esempio i rapporti basati sulla sezione aurea, di cui è simbolo il suo lavoro per piano preparato più acclamato: Sonatas and Interludes, scritto tra il 1946 e il 1948. Ma proprio in quegli anni, il compositore americano incontra la spiritualità orientale e colui il quale sarà il suo partner di una vita, a livello sia artistico che sentimentale, il coreografo e ballerino Merce Cunningham, pioniere della danza asincronica.

Sono anni di straordinaria intensità, durante i quali Cage studia il buddismo zen, la filosofia indiana e il taoismo al Black Mountain College insieme a David Tudor. Segue le lezioni di D. T. Suzuki e considera lo zen come un’impostazione filosofica con cui ridiscutere il concetto di musica. La musica viene considerata affermazione della vita e, come la vita, la musica deve esistere senza fini, scopi, intenzioni: deve sorgere da una meditazione sul vuoto. Com’è noto, nel 1950 si procura l’IChing, il celeberrimo manuale di divinazione taoista, e comincia a comporre brani in maniera aleatoria. La tecnica non è nuova, basti pensare al “Musikalisches Würfelspiel” (letteralmente “gioco musicale con i dadi“) che Mozart compose per permettere di comporre minuetti e rondò definendo la sequenza delle battute secondo il lancio dei dadi; altri giochi analoghi erano stati utilizzati da Haydn, Calegari e Bach jr. L’adozione di tecniche aleatorie e casuali serve a Cage sia per liberarsi dal desiderio di trovare sempre l’emozione nella musica che per eliminare l’aspetto soggettivo del processo compositivo, il collegamento fra la sensibilità del compositore e i suoni che compone. La musica deve essere libera e impersonale, come i suoni e i silenzi del mondo.

In quei mesi, Cage elabora la teoria dell’Indeterminacy, per liberarsi dall’idea di scelta dal processo creativo, e avvicinarsi all’indeterminatezza del suono naturale. Vuole riportare la musica a un ipotetico stato di natura, eliminando la distorsione derivante dalla volontà di potenza del compositore. Come il flautista di Chuang-Tze, che smette di suonare il suo strumento quando si accorge che la musica del mondo è perfetta, il compositore che ha in mente Cage deve svolgere un ruolo ancillare rispetto alla musica del mondo; non è più esecutore né creatore della musica, è un liberatore del suono. Dallo zen Cage assorbe e fa sua l’idea che ogni suono, così come ogni altra manifestazione del mondo, è budda: è perfetta e in sé compiuta. Se il suono è manifestazione della mente unica – altro concetto cardine del buddismo che, in qualche misura, precede l’idea di inconscio collettivo – non ha bisogno di essere organizzato secondo logiche stabilite. Cage vuole liberare il suono, e il compositore, da ogni tipo di costrizione, rimuovere l’idea di modello. È il crollo dell’idea europea di musica, basata sulla centralità del compositore: il compositore genio, di stampo romantico, che Cage  smonta in numerosi e famosissimi happening in cui innaffia piante e suona papere di gomma, come in Water Walk, oppure lascia aperta la finestra ai rumori del traffico o resta semplicemente in silenzio. Il risultato più celebre di questa ricerca arriva nel 1952 quando, anche in seguito all’esperienza nella camera anecoica, compone 4’33’’, opera per qualsiasi strumento. L’opera consiste nel non suonare lo strumento. Alla maniera dei dadaisti, Cage stesso dichiarò d’aver creato quel titolo «just for fun» in quanto, scrivendolo con la sua macchina da scrivere, la maiuscola del numero 4 era il segno ‘ e la maiuscola del numero 3 era il segno ”.

Il significato del silenzio è la rinuncia a qualsiasi intenzione. La rinuncia alla centralità dell’uomo. Ma il silenzio non esiste come lo abbiamo idealizzato, è sempre permeato di suono, come Cage aveva appena sperimentato in una camera anecoica a Harvard, dove aveva potuto ascoltare il suono del proprio sangue e del proprio sistema nervoso. Il suono del proprio corpo, i suoni dell’ambiente circostante, i rumori interni ed esterni alla sala da concerto, il mormorio del pubblico se ci si trova in un teatro, il fruscio degli alberi se si è in aperta campagna, il rumore delle auto in mezzo al traffico. Cage vuole condurre all’ascolto dell’ambiente in cui si vive, all’ascolto del mondo. È un’apertura totale nei confronti del sonoro. Una rivoluzione estetica: è la dimostrazione che ogni suono può essere musica. Io decido che ciò che ascolto è musica. È l’intenzione di ascolto che può conferire a qualsiasi cosa il valore di opera. Cage ha rivoluzionato il concetto di ascolto musicale, ha cambiato l’atteggiamento nei confronti del sonoro, ha messo in discussione i fondamenti della percezione. Con tutto questo Cage vuole condurre l’ascoltatore al satori; alla stregua di un maestro zen, lo invita ad attraversare la noia. Così affermava nel 1944: «In Zen they say: If something is boring after two minutes try it for four. If is still boring, try it for eight, sixteen, thirty-two, and so on. Eventually one discovers that it’s not boring at all but very interesting»[1].4’33sarà un punto di non ritorno nella ricerca di Cage e, possiamo affermare a posteriori, nell’evoluzione dell’intera musica contemporanea. Lo stesso Cage sintetizzerà così l’importanza di questo non-brano: «Cerco di pensare a tutta la mia musica posteriore a 4’33” come a qualcosa che fondamentalmente non interrompa quel pezzo». Non mancheranno feroci incomprensioni, vere e proprie rivolte del pubblico – celebre l’esibizione del 1960 alla Fenice di Venezia quando di fronte ai rumori e alle distorsioni dei piani preparati di Cage e del suo amico David Tudor che si fronteggiavano, il pubblico reagì prima con un generale imbarazzo, poi ridacchiando e, infine, incazzandosi. Un distinto signore salì sul palco e sbattendo il proprio bengala sul piano di Cage iniziò a gridare: “Allora sono un musicista anch’io”. Ancor più notevole, restando nel nostro Paese, era stata l’anno precedente la partecipazione di Cage al quiz Lascia o raddoppia? di Mike Bongiorno dove, rispondendo a domande sui funghi, vinse 5 milioni di lire, che gli permisero di uscire da uno stato pressoché di indigenza e di comprare un trailer con cui portare in giro la sua intera compagnia. Durante lo spettacolo suonò Water Walk, sotto gli occhi sbigottiti di Mike Bongiorno e del pubblico italiano, in una performance in cui gli “strumenti” erano, tra gli altri, una vasca da bagno, un innaffiatoio, cinque radio, un pianoforte, dei cubetti di ghiaccio, una pentola a vapore e un vaso di fiori. Memorabile, e degno di essere riportato, il dialogo che ci fu tra il presentatore e Cage quando questi si congedò, vittorioso:

M.B.: “Bravissimo, bravo bravo bravo bravo. Bravo bravissimo, bravo Cage. Beh, il signor Cage ci ha dimostrato indubbiamente che se ne intendeva di funghi… quindi non è stato solo un personaggio che è venuto su questo palcoscenico per fare delle esibizioni strambe di musica strambissima, quindi è veramente un personaggio preparato. Lo sapevo perché mi ricordo che ci aveva detto che abitava nei boschetti nelle vicinanze di New York e che tutti i giorni andava a fare passeggiate e raccogliere funghi”.
J.C.: “Un ringraziamento a… funghi, e alla Rai e a tutti genti d’Italia”.
M.B.: “A tutta la gente d’Italia. Bravo signor Cage arrivederci e buon viaggio, torna in America o resta qui?”.
J.C.: “Mia musica resta”.
M.B.: “Ah, lei va via e la sua musica resta qui, ma era meglio il contrario: che la sua musica andasse via e lei restasse qui”

Con buona pace di Mike Bongiorno, sarà la musica di Cage a restare e a propagarsi anche attraverso l’opera del duo Byrne-Eno. Ora i riferimenti di Byrne e, ancor di più del suo sodale Brian Eno, a Cage sono talmente vasti e articolati che sarebbe impossibile riassumerli qui. Da Cage Byrne prende simbolicamente, assieme a Eno, il testimone nel tentativo di andare verso una musica che sia aperta, condividendone l’idea della morte dell’autore, della liberazione del suono, e gli esperimenti aleatori. Sarà sulla base di queste premesse che Eno creerà il suo personale mazzo di carte “Strategie Oblique” con cui produrrà, oltre ai lavori di Byrne e dei Talking Heads, dischi dei Devo, dei Coldplay e il memorabile Heroes del Duca Bianco David Bowie, i cui 24 brani furono organizzati aleatoriamente secondo i suggerimenti di questi tarocchi personali.

Subito dopo la morte di Cage, avvenuta a New York nell’agosto del 1992, molti dei giovani che si erano formati al CGBG della Lower East Side vollero riunirsi per dedicare al loro obliquo maestro un ultimo omaggio musicale. Il disco Caged/Uncaged – A Rock/Experimental Homage To John Cage riunisce, oltre a numerose composizioni dello stesso Cage, brani scritti e interpretati in suo omaggio da personaggi quali Lou Reed, John Cale (insomma le menti dei Velvet), Joey Ramone, Eugene Chadbourne e altri. Nel suo brano, intitolato “Cage and the Long Island Expressway / Enlightened Whistler”, Byrne gioca con le sperimentazioni rumoristiche di Cage e legge estratti di Indeterminacy, forse il lascito letterario più interessante del maestro, una raccolta di 190 brevissime storie modellate sui koan dello zen, che possono e devono essere lette in maniera aleatoria (vi è un indice degli incipit, uno dei nomi, e uno delle frasi finali). Cage era solito leggere queste one minute-stories in pubblico, durante le lectures a cui era invitato, modulando la velocità della voce in maniera tale che ogni storia durasse esattamente un minuto. Sono una chiara testimonianza del suo apprendistato zen, e due delle storie più belle sono dedicate al Doctor Suzuki (la grafia ondeggiante, calligrafica è quella voluta da Cage):

[2]

La seconda è ambientata alle Hawaii dove, nel corso di un incontro con dei filosofi americani sulla Realtà, il maestro giapponese prova a recidere con una frase secca come un colpo di spada i dubbi della logica binaria:

[3]

Ritornando all’omaggio di Byrne, dopo un sapiente e giocoso dialogo con i rumori di Cage, la sua musica si ferma e la voce di David in tono basso e quasi ieratico, legge un’altra di queste “storie-haiku” in cui Cage riporta una frase del maestro Suzuki a proposito di un monaco giapponese che, dopo aver finalmente raggiunto il satori esclama: “Now that I’m enlightened, I am as miserable as ever” (qui il brano di Byrne).

La lettura di questo koan costituisce una delle poche testimonianze dirette che ho trovato del rapporto tra Byrne e la spiritualità zen, e di certo la più significativa. Un accadimento strano, quasi paradossale e di sicuro dal sapore zen, è che, nonostante Byrne non sia un dichiarato amante della meditazione, non sono pochi i riferimenti di maestri zen americani contemporanei che usano sue frasi come piccoli koan: nei The Zen Commandaments di Dean Sluyter, forse il più popolare autore di best-seller sulla meditazione negli USA, viene citato subito prima delle istruzioni di meditazione un verso di Wild wild life contenuto nell’album True stories: «Peace of mind? It’s a peace of cake». E con questo credo possiamo chiudere il cerchio – quell’Enso che nello zen rappresenta l’universo, il vuoto e il pieno ed è simbolo di illuminazione.

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Note

[1] https://www.lcdf.org/indeterminacy/s/75

[2] V. https://www.lcdf.org/indeterminacy/s/34

[3] V. https://www.lcdf.org/indeterminacy/s/116

This must be the place. David Byrne e lo zen – prima parte

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©Catalina Kulczar 2019
©Catalina Kulczar 2019

 

di Giorgio Sica

L’iconica This must be the place dei Talking Heads, uno dei brani più celebri dell’art rock a cui pochi anni fa Paolo Sorrentino ha dedicato un omonimo film, mi ha sempre stupito per il suo carattere buddista, più precisamente buddista zen. Alcune sue strofe sembrano tratte da un manuale di istruzioni per uno studente di meditazione e la stessa partitura musicale, con il basso che ripete un’unica frase per l’intera durata del brano mentre la chitarra suona su questa frase un’unica melodia in chiave più alta, sembra voler evocare, insieme al canto sillabico di Byrne, la circolarità di un mantra.

Già l’anelito iniziale, «Home is where I want to be», ha un chiaro sapore zen in questo riconoscere la propria casa nel mondo, nell’esatto luogo in cui si vuole essere. Ma è la seconda strofa a spiazzare chi conosca la letteratura e la terminologia collegata alle pratiche meditative giapponesi:

The less we say about it the better
Make it up as we go along
Feet on the ground, head in the sky
It’s okay, I know nothing’s wrong, nothing

Se a qualcuno di voi è mai capitato di fare meditazione zen, oltre all’invito costante al silenzio per scardinare gli schemi della mente, vi verranno ripetute fino allo sfinimento istruzioni del genere: «Spingete il cielo con la testaspingete la terra con le ginocchia».

Già secondo il Taoismo, che è responsabile dell’evoluzione del buddismo originario nel chán cinese e poi nello zen giapponese, si predica l’unione di cielo e terra come ristabilimento dell’equilibrio originario. E, come avverrà successivamente agli adepti dello zen, questo equilibrio trovato al di là, o al di qua, di ogni imposizione gnoseologica e etica porterà i taoisti al rifiuto di ogni morale acquisita e alla confutazione di ogni logica[1].

Ispirato da queste somiglianze tra i versi di Byrne e il discorso taoista-zen, ho iniziato a ricercare ogni possibile rapporto tra il front-man dei Talking Heads e lo zen e, con mia somma sorpresa e un po’ di sconcerto, non ho trovato nessuna dichiarazione diretta del gentleman di origine scozzese al riguardo, neppure un’intervista in cui gli fossero rivolte domande precise sull’argomento. Tuttavia, ho avuto modo di avere la conferma che l’influsso di questa particolare forma di buddismo si è rivelato a più riprese nell’opera di David Byrne, e non solo in quella musicale.

Ciò è dovuto innanzitutto –  la premessa è d’obbligo –  al fatto che Byrne si forma nella irripetibile New York dei primi anni ’70, un ambiente in cui l’influsso dello zen è ormai un dato di fatto acquisito in ogni ambito artistico. Le memorabili lezioni di D. T. Suzuki alla Columbia e poi a Berkeley – lezioni a cui assistevano incantati, tra gli altri, John Cage, su cui torneremo tra poco, Alan Watts, Jack Kerouac, Allen Ginsberg e tutta l’allegra banda della Beat Generation – segnarono un punto di non ritorno nell’immaginario dei giovani e irrequieti figli del boom.

Il maestro Suzuki verrà immortalato come Doctor Suzuki nei Dharma Bums di Kerouac, il racconto di una vera e propria iniziazione al buddismo zen del Nostro da parte dell’amico Japhy Rider, alter ego del poeta Gary Snyder, che nel romanzo come nella vita salperà per Kyoto, dove si ordinerà monaco zen della scuola Soto. Negli stessi anni J. D. Salinger infarcirà di elementi taoisti e zen le sue storie, dal koan del maestro Ikkyu riportato in epigrafe a Nine Stories (“A battere le mani sappiamo il suono delle due mani insieme. Ma qual è il suono di una mano sola?”) all’aneddoto sul domatore di cavalli trasposto dal Chuang-Tze in apertura di Raise High the Roof Beam, Carpenters; e soprattutto condenserà le sue aspirazioni al satori nelle indimenticabili figure dei fratelli Glass e, in particolare, nel primogenito Seymour, versione americana del mukti, dell’illuminato libero dalle catene del karma, che però potrà trovare un’ambigua liberazione definitiva solo nel suicidio, compiuto nell’indimenticabile finale di A perfect day for bananafish.

Quando all’inizio degli anni ’70 Byrne si trasferisce a New York da San Francisco, “essere zen” è già un modo di dire acquisito e i koan proposti da Suzuki (cioè le brevi frasi, spesso paradossali e enigmatiche volte a condurre al satori lo studente di meditazione) rimbalzavano ormai di bocca in bocca tra artisti e letterati di entrambe le coste[2].

In questo ambiente così ricettivo rispetto alla cultura buddista, Byrne ebbe modo di incontrare uno dei musicisti che meglio incarnarono in Occidente le idee dello zen, maestro suo, del suo sodale Brian Eno e di chiunque in quegli anni volesse fare musica sperimentale. Sto parlando chiaramente di John Cage, già allievo del maestro Suzuki in qualità di studente di filosofia orientale al Black Mountain College e ormai, in quegli anni, uno dei guru indiscussi della contro-cultura americana.

Vedremo, per forza di cose in maniera sintetica e rapsodica, come questi contatti con lo zen, spesso indiretti, permeino sia l’attività compositiva della mente dei Talking Heads che la sua stessa concezione della musica, espressa magistralmente nel suo How music works, il libro che riassume quarant’anni di carriera e che si pone come un interessante via di mezzo tra un saggio di teoria e storia della musica, l’autobiografia e il manuale per aspiranti musicisti che vogliano imparare a muoversi nell’infido mondo della produzione e della distribuzione.

Benché, come dicevo, non abbia trovato dichiarazioni dirette di Byrne, il suo interesse per lo zen doveva essere percepito sin dagli esordi della sua carriera se, già nel 1980, presentando al pubblico italiano l’ultimo lavoro dei Talking Heads, il settimanale l’Europeo ce lo presentava così:

In bilico tra cultura raffinata e spettacolarità, la fortuna dei Talking Heads è legata a David Byrne, figura di punta del gruppo newyorkese, e al più geniale esteta rock degli ultimi anni, Brian Eno. I risultati sono sconvolgenti: il nuovo e torrido disco dei Talking Heads (Remain in light); la sinfonia ipnotica di Eno e Jon Hassel (Fourth World); i collage di rock, musica araba e sermoni isterici che hanno tramato insieme Eno e Byrne (My life in the bush of ghosts, il disco non è ancora finito).

Il nuovo album dei Talking Heads, prodotto da Eno, è il manifesto di questo prodotto ed è stato salutato come un evento. La musica è indiscutibilmente lo specchio del carattere introverso di David Byrne. Ventotto anni, scapolo, voce evanescente, capelli corti e ben ravviati, Byrne ha qualcosa di Anthony Perkins in Psycho, un tocco di schizofrenia sotto un’aria di adolescente istruito. Infatti è colto, curioso di tutto: Camus e cibernetica, zen e Godard.

Al di là dell’accostamento un po’ teatrale a Anthony Perkins – eppure nell’accenno alla schizofrenia il giornalista colse qualcosa di Byrne che di sé stesso ha recentemente detto di essersi autodiagnosticato una sindrome di Asperger in forma lieve –  l’articolo dell’Europeo mette in luce l’eccentricità culturale del leader dei Talking Heads, di sicuro tanto nel campo musicale quanto nella formazione letteraria un autodidatta di talento e intuito straordinari.

Per avere un’idea del contesto in cui Byrne iniziò la sua avventura musicale, e per rimpiangere un po’ insieme tempi memorabili che sembrano lontani anni luce, facciamo dunque un salto indietro alla New York della metà degli anni ’70, dove iniziava l’avventura dei Talking Heads e dove Byrne viveva in un tugurio nel Lower East Side, a pochi metri dal CBGB, il mitico club di Hilly Crystal sulla Bowery dove mossero i primi passi tanti dei nomi destinati a maggior gloria del post-punk, tra cui Patti Smith, i Ramones e i Television di Tom Verlaine, oltre agli stessi Heads.

Come Byrne afferma ripetutamente nel suo libro, questa sorta di comune che ruotava intorno al CBGB ebbe un ruolo importante nell’indirizzare le scelte musicali e nel determinare il cammino intrapreso con i suoi sodali. In parecchi punti del testo, a cominciare dal primo capitolo, intitolato ironicamente «La creazione alla rovescia», sulla scia di Cage Byrne mostra una visione della musica e dell’atto creativo opposta al mito romantico del genio creatore e invece in sintonia con quello che è uno dei concetti cardine del buddismo, l’interdipendenza. Forte di queste prime esperienze nei club, dove moltissimo era dovuto all’azzardo e all’adattamento all’ambiente, Byrne afferma infatti, in netto contrasto con il mito della creazione come dono sceso dall’alto nel cuore dell’artista eletto, che il «vero cammino della creazione è agli antipodi da questo modello»[3]. Nei paragrafi successivi rafforza questo concetto ribadendo «che, inconsciamente e istintivamente, adeguiamo il nostro lavoro a schemi preesistenti» e, ancora, che «l’opportunità e la disponibilità sono spesso le madri dell’invenzione» e che, in tutte le arti, procediamo «creando opere che si adattano allo spazio disponibile»[4]. Questo, sottolinea sir David, vale anche per il canto degli uccelli che, anche se della stessa specie, modificano le loro frequenze in maniera tale da poter sfruttare al meglio l’acustica del fogliame e dei rami intorno a loro.

Queste dichiarazioni programmatiche di How Music Works credo siano un buon volano per comprendere l’intera parabola di Byrne. Un amante della poesia sentirà chiara l’eco della concezione del poeta espressa da T. S. Eliot in Tradition and Individual Talent e prima di lui, da Pound nella sua incessante attività di critico e polemista – entrambe le visioni chiaramente ispirate alla tradizione cinese e giapponese da Pound amate e poste a modello del rinnovamento della letteratura occidentale avvenuto nei primi decenni del ‘900.

Una delle linee guida del libro è, poi, l’attenzione di Byrne data al corpo: all’inizio della sua carriera, nella New York dei primi anni ’70, si assisteva a una vera e propria riscoperta del corpo, dal punk dei Ramones al glam di Bowie e alle posture androgine e tossiche di Lou Reed e Iggie Pop, fino al fenomeno della dance alla scoperta della musica africana. In questo variegato contesto Byrne ironizza sui tentativi necessari a trovare una propria via, che lo portò anche ad avvicinarsi al look del Duca Bianco. In particolare, ricorda la sua ricerca di una sua personale maniera di stare sul palco: «un ragazzo bianco che si sforza di ballare in modo sciolto e come un nero è uno spettacolo quasi insopportabile. Lasciavo che il mio corpo scoprisse, piano piano, la sua grammatica dei movimenti: spesso a scatti, spastici o stranamente formali».

Nel mezzo di questa ricerca, e del primo tour mondiale degli Heads, Byrne approda in Giappone:

Andai a vedere le forme teatrali tradizionali: Kabuki, No, Bunraku. Paragonate al teatro occidentale, erano estremamente stilizzate (…). Era come se i vari aspetti della performance di un attore fossero stati decostruiti, divisi in innumerevoli elementi costitutivi e funzioni. Bisognava rimettere insieme il personaggio nella propria mente.

Al termine di questa acuta analisi del teatro giapponese, Byrne si chiede se tutto questo sia applicabile a un concerto di musica pop e conclude: «Forse ero ormai pronto ad assimilare un nuovo modo di concepire l’esibizione, perché compresi all’istante che fosse possibile fare uno spettacolo senza fingere che fosse naturale».

Risultato di queste intuizioni è il video di Once in a Lifetime, singolo di Remain in Light, per cui Byrne elaborò «una complessa serie di movimenti che traevano spunto dalla danza di strada giapponese, dalla trance del gospel e da alcune mie improvvisazioni».

È interessante come proprio il testo di Once in a Lifetime sia uno dei più zen di quel periodo. Siamo di fronte all’improvvisa crisi del borghese nevrotico che vede crollare il suo mondo di certezze, come ben sintetizza Simon Reynolds nel suo The Sex Revolts: Gender, Rebellion, and Rock ‘n’ Roll: «Once in a Lifetime was brimming oceanic funk, the sound of Byrne’s neurotic protagonist suddenly overwhelmed by the satori of here and now».

Uno dei koan più noti della letteratura zen recita: «Se incontri tuo padre, uccidilo»; e pochi anni dopo Byrne invocherà la distruzione della legge del padre, e della sua logica, nel capolavoro Stop Making Sense – il tour e il film documentario diretto da Jonhatan Demme del 1984:

Decisi di rendere lo spettacolo totalmente trasparente. Volevo mostrarne i vari pezzi e come fossero assemblati. Il pubblico avrebbe visto ogni singola parte dell’attrezzatura che veniva sistemata e, poi, il prima possibile, quel che faceva quello strumento (o quel tipo di luce). Mi pareva un’idea così semplice che mi stupiva non conoscere un solo spettacolo (quantomeno musicale) in cui fosse stata usata. Seguirla fino alle sue estreme conseguenze significava cominciare con il palco vuoto. L’idea era che la gente avrebbe guardato il vuoto e pensato alle sue possibilità (…). Niente glamour e zero spettacolo anche se, naturalmente quello era già lo spettacolo.

In questa adesione al vuoto, in questo allestimento minimale della scena, è evidente la suggestione dello zen, attraverso le sue espressioni teatrali. Un’eco profonda dei concetti di wabi e sabi, che il Doctor Suzuki aveva illustrato ai suoi studenti americani, emerge da queste intuizioni di Byrne, come pure ci pare di rivivere la descrizione della Suki-ya, la Stanza del Vuoto, offerta da Okakura Kakuzo ai lettori americani nel suo The Book of Tea. Siamo di fronte a uno spazio vuoto da riempire con la fisicità dell’attore, come nella cerimonia del tè e nel teatro Noh, come risulta evidente in particolare nell’idea del suo abito che cresce di dimensione di brano in brano fino a divenire assurdamente largo, sul modello degli abiti del teatro giapponese, in Girlfriend is better che ripete il mantra distruttore della logica: «Stop making sense».

Lo stesso Byrne, in un’intervista del 2014 a Melissa Locker su Time, ha ricordato l’idea alla base della trovata:

I was in Japan in between tours and I was checking out traditional Japanese theater — Kabuki, Noh, Bunraku — and I was wondering what to wear on our upcoming tour. A fashion designer friend (Jurgen Lehl) said in his typically droll manner, ‘Well David, everything is bigger on stage.’ He was referring to gestures and all that, but I applied the idea to a businessman’s suit.

Parallelamente alla ricerca in questo settore, Byrne rifletteva ed espandeva le possibilità compositive e l’idea stessa di autorialità musicale insieme al suo amico Brian Eno. Il frutto celeberrimo della loro collaborazione in questa direzione sarà My life in the bush of ghosts, pubblicato con la Sire records nel 1981 e riedito nel 2006 dalla Virgin con l’aggiunta di 7 bonus tracks. Il titolo, com’è noto, è tratto dalla versione originale del romanzo omonimo dello scrittore nigeriano Amos Tutuola, una raccolta di favole che ha per protagonista un bimbo africano, attratto ed allo stesso tempo terrorizzato dalle molteplici creature magiche che incontra nel bosco.

L’album rappresenta una tappa straordinaria nella carriera di Eno e Byrne, che esplorano in modo assolutamente originale vari mondi legati al folk ed alla musica etnica, creando una connessione nuova tra questi e la neonata scena dell’ambient, e proseguendo il lavoro iniziato proprio con Fear of Music che, ricordiamolo, si  apriva con la splendida I Zimbra, adattazione di una filastrocca nonsense del poeta dadaista Hugo Ball con ritmi funk e africani. Entriamo negli anni ’80 e Byrne, che intanto ha proseguito questa ricerca con Remain in Light, composto con l’ausilio di Fela Kuti e dei suoi musicisti, apre le porte alla world music insieme a Eno proprio con My life in the bush of ghosts, che si pose alla base delle molteplici direzioni in cui la musica degli anni ottanta e novanta si sarebbe sviluppata e che lo stesso Byrne proseguirà sia con i suoi lavori in combo con musicisti sudamericani nella seconda metà degli ’80, che culminano nell’album solista Rei Momo (89), che con la fondazione nel 1988 di Luaka Bop, l’etichetta che ha fatto conoscere in Occidente alcuni dei maggiori artisti africani e sudamericani, tra cui Tim Maia, Tom Zé, Cesaria Evora e tanti altri. Una testimonianza inaspettata e, per questo, ancora più significativa dell’importanza di questo album ci è data da Hank Schocklee dei Public Enemy, ritenuto il gruppo rap più influente della storia, che ci spiega, come ispirati dal lavoro di Byrne e Eno: “Prendevamo qualsiasi cosa potesse dare fastidio e la buttavamo nel pentolone. È così che siamo usciti con questo gruppo, pensavamo che la musica non fosse nient’altro che rumore organizzato. Puoi prendere di tutto – suoni della strada, noi che stiamo parlando, quello che vuoi – e renderlo musica organizzandolo”.

Riflettendo, oltre 30 anni dopo, su questo straordinario esperimento in How Music Works, Byrne mette a fuoco, di nuovo, la sua idea di musica totalmente differente dalla vulgata romantica dell’artista ispirato:

Fare musica è come costruire una macchina la cui funzione è suscitare emozioni nell’interprete come nell’ascoltatore. Alcuni trovano l’idea ripugnante perché sembra abbassare l’artista al livello dell’imbroglione, del manipolatore e del mentitore, a una sorta di onanista. Alcuni preferirebbero (…) credere che l’artista sia qualcuno che ha qualcosa da dire. Sto cominciando a considerare l’artista una persona abile nel creare dispositivi che attingono alla nostra conformazione psicologica comune e stimolano ciò che muove tutti noi nel profondo. In questo senso, il concetto convenzionale di autore è discutibile.

 

[La seconda parte dell’articolo sarà pubblicata domani]

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Note

[1] Tra le centinaia di aneddoti che testimoniano questa libertà estrema, vorrei qui ricordare soltanto il dialogo tra il brigante Zhi e Confucio, riportato nel Libro di Chuang-Tze, in cui il filosofo padre dell’etica “ufficiale” cinese prova a redimere dialogicamente il più celebre brigante della sua epoca, ricevendone un sonoro schiaffo logico e morale che lo costringe a ritirarsi in buon ordine; e, ancora, la morte del più grande poeta cinese di ogni tempo, Li Po, che annega cascando ubriaco da una barca nel tentativo di afferrare la luna.

[2] Una sorta di trasposizione letteraria del senso di straniamento provocato del koan ci veniva offerto, in quegli anni, dalla poesia e dalla narrativa apparentemente stramba di Richard Brautigan, un’altra icona della generazione hippie.

[3] Tutte le citazioni di Byrne sono tratte da D. Byrne, Come funziona la musica, trad. di A. Silvestri, Bompiani, 2013.

I nati di contro

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di Giorgiomaria Cornelio,

frammenti da un libro a venire

 

 La caduta dei dannati all’Inferno di Peter Paul Rubens,  sfigurata con l’acido da Walter Menzl, 1959
***
«Il dannato riceve la pena meritata,
mentre chi si salva riceve una grazia non meritata.»
Agostino, Lettera 194

 

 

Se chiedono,                    rispondi:«

faccio       come il dente strappato.»

 

Non c’è correttura che

rivolti all’indietro, siero o leva

per il nato di contro.

 

Oh vita giù accanto alla paglia,

antartide a confetti,  provincia

della malinconia.   Mi avete di-

giunato.

 

 

Lepri a buchi, ganimedi, bestie torte, femmine

con ruggine: questo eravamo.   Ora, nel fondo

a cocci del tempo, un altro tempo concede amnistia,

mette fine al censimento.

 

Ma quale ammenda  ci darà indietro tutta la vita

già morta?   Chi cancellerà  il guasto che

sempre ci  precede?

 

Un giorno di pace è più corto del

suo giuramento.  Noi portiamo il monito

dove è più in vista.

 

I cresciuti intatti, i nuovi dimentichi,

taceranno il vecchio allarme.

Poi, guardandoci

come si fissa    l’ultimo

scampato alla brace,  diranno:

«passato    il rogo per l’ardore.»

 

È  splenduto.

 

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Allora,

prima che    sia ancora guerra,

bucherò  la placenta di questo

sonno,    farò l’occhio aguzzo,

l’occhio desto, per fissare, den-

tro la strabica radura        della

specie,   la specie non corrotta,

la forma          di ciotola vuota.

 

 

 

 

Grossman, attualità della guerra

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Lisa Ginzburg

Il 7 Aprile è uscita su “Avvenire” la recensione al romanzo “Stalingrado” di Vasilij Grossman (Adelphi, traduzione di Claudia Zonghetti) qui ripubblicata.

“Le fiamme divampavano ovunque, appiccate da decine di migliaia di bombe incendiarie… Enorme, la città si spegneva tra il fumo, la polvere e il fuoco, nel boato che scuoteva il cielo, l’acqua e la terra. Lo spettacolo era tremendo, ma ancor più tremenda era la morte negli occhi di un esserino di sei anni schiacciato da una trave di ferro. Perché se esiste una forza capace di risollevare dalla polvere di città enormi, non c’è forza al mondo in grado di risollevare le palpebre dagli occhi di un bambino morto”.

Delle quasi novecento pagine di cui si compone Stalingrado di Vasilij Grossman (traduzione di Claudia Zonghetti, Adelphi, pp. 884, euro 28) quel che forse più impressiona e colpisce al cuore come un pugno è la sensazione di irreale eppure evidente attualità di questa poderosa ambientazione storica. Leggiamo dell’assedio di Stalingrado, la più flagrante e mortifera sconfitta dell’asse tedesco/italiano durante il secondo conflitto mondiale; una tragedia di guerra lontana nel tempo, ma il cui odore acre di morte, così come l’insensata conseguenza   dello scatenarsi, perdurare, non finire del conflitto, coincidono con sensazioni contemporanee, odierne: attuali in maniera cupa e incontrovertibile. La furiosa battaglia scatenata contro la città di Stalingrado, quell’assedio che nelle menti di Hitler e di Mussolini sarebbe dovuto essere “immane, tremendo e definitivo” e che trovò invece straordinaria resistenza degli abitanti russi, vittoriosi nel respingere gli invasori, diversamente formulata e posizionata ci ricorda in modo drammatico gli orrori bellici cui da settimane assistiamo immersi a navigare in rete nei nostri computer, leggendo i giornali e guardando i telegiornali.  Qui, grazie alla prosa somma dello scrittore Grossman (restituita in una lingua italiana fluida e particolarmente esatta dalla traduttrice Claudia Zonghetti, già preziosa interprete dell’altro capolavoro di Grossman, Vita e destino, Adelphi 2008) conosciamo la guerra non vedendo immagini, ma piuttosto leggendo un romanzo, un grande romanzo. Eppure l’angoscia e l’incredula pena che le sue pagine depositano in noi sono paradossalmente e senza dubbio vicine a quelle emozioni angustiate che da settimane attanagliano le nostre percezioni: nostre di oggi, delle vite di noi, cittadini d’Occidente nella primavera dell’anno 2022 del ventunesimo secolo.

“La scrittura di Grossman eclissa quasi tutto quanto in occidente oggi viene preso sul serio” ebbe a considerare il grande critico George Steiner. Parole prive di enfasi, perché densità e spessore letterario delle pagine grossmaniane sono evidenti, riconoscibili senza esitazione come lo è l’arte quando muove da necessità ed è dominata e veicolata secondo i più puri dettami del talento. Se possibile più ancora che in Vita e destino, qui, in Stalingrado (che Vasilij Grossman aveva pubblicato a puntate sulla rivista “Novyj Mir” nel 1952 con il titolo Za pravoe delo, (Per una giusta causa) ), straordinaria è la tecnica romanzesca che contraddistingue lo scrittore. Una tecnica capace di legare le vite dei singoli al corso della Storia. Ogni microcosmo di biografia individuale va a convergere nella sorte collettiva della guerra, quella guerra che “in quel momento era il mare in cui sfociavano tutti i fiumi e da cui tutti i fiumi nascevano”. Perché la Storia, e il saperla leggere, capire, romanzare, significa empatia: osservare un soldato, immaginare cosa stia pensando, individuare in quell’istante, in quei suoi muti pensieri supposti e solo figurati, il punto di svolta di un intero conflitto. E la guerra, oltre a fare da sfondo ad amori, gioie, dolori, allontanamenti, ricongiungimenti tra donne e uomini dai cuori ancora palpitanti e vivi nonostante il fiato della morte sparga ovunque il suo tetro silenzio, la guerra marchia tutto della sua impronta insensata. Mette in risalto ciò che nella vita conta e quel che invece non val nulla, è meschino, di nessun peso. Di nuovo, pare di leggere del nostro presente: per come, tra le righe del suo fluviale racconto, Grossman è sapiente incastonatore di riflessioni, in merito ancora una volta alla guerra. Meditazioni sul male, sul suo perdurare e inesausto distruggere; su quanto ogni guerra, proprio nella sua inutilità, sia un terremoto le cui scosse si assestano seminando un’angoscia che quella anche a sua volta necessita di moltissimo tempo per assestarsi, trovare uno spazio tra il dolore e lo sdegno insopportabili, e quella vita che invece, nella sua febbre, inevitabilmente va avanti, prosegue il suo corso. Sempre e comunque. Fu grande reporter Vasilij Grossman, e la sua penna di giornalista gli impresta la sicurezza necessaria per descrivere, da narratore, le figure di Hitler, Stalin, di gerarchi nazisti e di capi di battaglioni e di armate sovietici. “Chi compie crimini contro l’umanità è un criminale, e non smette di esserlo perché la storia serba memoria di quanto ha commesso: sono le sue devastazioni che i secoli ricorderanno. Non sono eroi: sono carnefici e sono farabutti. Sono figli di forze oscure e cieche”. La grande letteratura ha tra le sue capacità questa, spiazzante: sbalzarci dal passato e presente come non fosse trascorso nemmeno un giorno. Lo fece in Guerra e Pace il Tolstoj narratore da Grossman amatissimo, che anzi fa capolino, lui e la sua dimora di Jasnaja Poljana, nelle pagine di Stalingrado E nel mentre racconta di un mondo in fiamme, dove ogni valore umano pare bruciare tra le lingue di fuoco di una gigantesca pira assurda, sconsiderata, con la forza d’impianto del suo romanzo Vasilij Grossman nondimeno celebra la vita, non smette di celebrarla. Accadeva in Tolstoj, accadeva in Vita e destino, accade in modo emozionante in Stalingrado. Fiume copioso di un lungo racconto nel cui letto, accanto alla città assediata e distrutta, giacciono come rivoli storie di individui vivi e dai cuori pulsanti nonostante la morte muova e sbatta le sue grandi ali sopra le loro teste, sopra i loro destini, sopra le loro salvezze, e i loro riscatti mancati, cosi tante (troppe) volte sino alla morte.

Il palco

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di Giulio Spagnol

Da quando abbiamo aperto le iscrizioni, hanno bussato alla porta e sono stati registrati – è mio cugino che si occupa del registro, io sono impegnato a montare il palco –  sei storpi, otto sciancati (sei alla gamba destra, due alla sinistra), otto vedove con tre bambini, una vedova con sei bambini, quattro mutilati, due nani, un nano storpio, dodici ciechi senza cane, undici con cane – speravamo in qualche cieco in più e qualche cane in meno –, nove giocolieri di clave infuocate, due violinisti scalzi, otto suonatori di fisarmonica, un clown Augusto, quattro orfani, e nessun fachiro – cominciamo a sospettare che i fachiri in realtà non esistano. Sulla sorte dell’ammaestratore di pappagalli mi sono accapigliato con mia sorella. Mia sorella, lo sappiamo, ha il cuore difettoso, troppo tenero: tutti in famiglia ci ricordiamo di quando, nei panni di Ljuba, è stata trascinata via dal palco perché non la smetteva di piangere. Mettete lei al registro e vi ritroverete con tre volte gli iscritti che abbiamo; non capisce che insegnare a un cacatua rosa avorio a mordicchiarti un orecchio o a gracchiare I wanna be loved by you non basta per avere un posto garantito; la gente chiacchiera e noi siamo già sommersi di richieste. Alla fine, ci ho pensato io: «Ti mancano, ahimè, i requisiti di ammissione – ho detto all’avicoltore sbattendogli la porta in faccia – non ispiri nessuna pietà, con tutti quei bottoncini lucidati e ben impuntati sul gilet. Senza impietosire non si fa carriera in questo settore. Inoltre, lo schiamazzo dei pappagalli farebbe storcere il naso ai vicini. Arrivederci e grazie». Slam! Sospetto, però, che quei due abbiano tramato qualcosa perché, adesso, in giardino c’è una cocorita azzurro detersivo che se ne sta appollaiata sul ballatoio del palco in costruzione e gorgheggia cattiverie sul mio conto criticando ogni mio gesto: una vera vigliaccata.

Lo ammetto: non credevo che montare un palco fosse tanto faticoso; noi che i palchi, come si dice, siamo abituati a calcarli. Comunque, non mi perdo d’animo. Lo spazio, per ora, non ci manca. La nostra casa su due piani in via Vitruvio sembra fatta apposta per ospitare i nostri corsisti: ha un piccolo giardino interno – cosa insolita di questi tempi – e l’erba, in attesa del palco, sembra essersi fatta meno pungente, come a benedire la nostra impresa.

La nostra famiglia ci abita da sei generazioni e tutti, come vedete, ci stiamo dando da fare. Molti teatri ormai hanno chiuso, e Dio solo sa quanto abbiamo bisogno, noi, di qualche soldo. Del corso di dizione – fondamentale se si vuole padroneggiare l’arte della supplica (ortoepia, fonazione, declamazione) – se ne occupa mia zia, doppiatrice: memorabili le sue incisioni su nastro magnetico per le fermate della linea verde Loreto, Lanza, Cascina Burrona. Mia madre, in attesa che il palco sia approntato, ha teso una fune tra le staccionate che delimitano il giardino e impartisce rudimenti di funambolismo: i ciechi, i mutilati, gli sciancati e gli storpi hanno borbottato, ma mio cugino li ha convinti che il mendicante di oggi deve sapersi adattare, perché – ha spiegato – il mercato del lavoro è in costante e frenetico mutamento. Mio cugino è l’unico della famiglia a non aver mostrato sin da piccolo alcuna predisposizione artistica: da bambini, mentre noi costruivamo il teatro dei burattini e ci dondolavamo sul trapezio come scimmie, lui catalogava etichette di bottiglie in un pesante raccoglitore che portava sempre sottobraccio. Nessuno si è stupito quando, finito il liceo, si è iscritto all’università commerciale. Va detto che l’idea del corso è stata sua e tutti, persino mia sorella, gli siamo grati per questo. È stato lui a parlare con gli agenti. A mandarli sono stati i nostri vicini, da quando hanno visto alcuni corsisti piantare le tende in giardino stanno tutto il giorno con le facce spiacciate tra le fessure della staccionata a minacciare e a urlare loro di andarsene. I vicini adulti fumano e sputano nel nostro giardino in segno di protesta, i loro bambini si azzuffano con i nani, gli orfani e i cani dei ciechi. Tutto questo trambusto rallenta la costruzione del palco. Si lagnano che gli orfani sono cenciosi, che i ciechi scambiano il capanno degli attrezzi per un orinatoio, e che più di una volta una clava infuocata, atterrata tra le corde del bucato, ha bruciacchiato la biancheria. Mia sorella, quando non è impegnata ad aiutarmi con l’allestimento del palco, raduna le vedove e i cani dei ciechi e, facendosi accompagnare dai violinisti e dai suonatori di fisarmonica, improvvisa balletti osceni per le mogli dei vicini finché, esasperate, non se ne tornano a casa.

Ottenuto il suo scopo, rompe i ranghi della compagnia e torna a passarmi gli attrezzi in silenzio. A volte sento che parla da sola, sottovoce: «Che porci. Se solo non mi facessero così tanta paura…» La capisco: è ancora molto giovane, lei. O non lo sa, o si rifiuta di ammetterlo, sta di fatto che vivere in città è diventato insostenibile: troppo affollata. Siamo tutti ossessionati dallo spazio. Seduti al bar, in fila all’edicola, ai tavoli delle biblioteche: non si sente parlare d’altro. Da noi lo spazio si vende, si scambia, si baratta: i giovani lo vogliono comprare, ma è molto caro; i vecchi non sanno cosa farsene, ma non lo vogliono vendere. Il sindaco ha promesso che ne avrebbe creato di nuovo; il problema, però, mi ha spiegato un mio amico ingegnere, è che lo spazio non si crea né si distrugge. Per ricavare spazio devi sottrarre spazio. Sembra paradossale, ma è così. Il sindaco è stato di parola: tutti i teatri, i cinema e i chiostri sono stati accorpati e trasferiti in un grattacielo fuori città. Sopra lo spazio liberato ha edificato altre case e le ha date in affitto a rotazione a prezzi calmierati. Per un po’ è servito ad alleviare la pressione di chi, da fuori, viene ad abitare in città (assicuratori e agenti immobiliari, più che altro), ma già non basta più. Chi è rimasto se lo combatte senza guardare in faccia nessuno; chi non può più permetterselo si trasferisce in periferia o, semplicemente, lascia il paese.

I mendicanti invece se la passano bene: battono senza sosta le strade e le stazioni e le metropolitane, picchiano sui vetri delle pasticcerie appannandole con l’alito, assediano le porte girevoli degli hotel alla moda, piantonano le entrate dei ristoranti, dilagano fin dentro ai grandi magazzini, elemosinano direttamente di fianco alla cassa o tra la gente in coda ai camerini. Molti si sono accampati nelle grotte o sulle panchine dei parchi cittadini. Per ora, pare che se la cavino; presto, però, saranno troppi anche loro, e chi non farà il suo lavoro come si deve verrà sostituito e dovrà andarsene. Pare che alcuni si siano confederati in vere proprie gilde dei mestieri di accattonaggio dal motto latino semper insisto; che si spartiscano i quartieri in base a un complicato rapporto fondato sulla correlazione inversa tra reddito medio degli abitanti di un quartiere e il numero di mendicanti attivi in quel momento. Ho provato a spiegare a mia sorella che è comprensibile, vista l’attuale situazione abitativa, che i nostri vicini non vedano di buon occhio un accampamento a cielo aperto. Io, comunque, non mi vergogno: noi almeno ci ingegniamo, anche se non ho il cuore di dirle che un giorno, non lontano, dovremo vendere la casa e andarcene anche noi. Gli agenti si sono presentati in divisa borghese, hanno perlustrato la casa e chiesto i documenti a tutti i nostri ospiti, ma non hanno riscontrato infrazioni (lungimiranti, abbiamo ammesso solo chi ha commesso piccoli reati). Mio cugino li ha seguiti per tutta la casa e senza mai perdere la calma, ha spiegato loro che operiamo su proprietà privata e possiamo ospitare chi vogliamo; per quanto riguarda il palco, abbiamo chiesto e ottenuto regolare permesso dal comune. Prima che se ne andassero, ha insistito perché rimanessero per un tè. Della quota di iscrizione, naturalmente, ha taciuto.

Finalmente il palco è pronto. È davvero un bel palco, non c’è che dire: la ribalta è spaziosa, la platea è inclinata al punto giusto, c’è persino un elegante arlecchino mobile in panno rosso che mio padre ha ricavato cucendo insieme le fodere dei divani. Dopo una cena tutti insieme a base di ravioli, sale sul palco la prima corsista: è la vedova con sei bambini. Ha la faccia rotonda e carnosa, stare in giardino le ha stemperato il pallore dalle guance. Inciampa sugli scalini e si vergogna da morire, i ciechi seduti in prima fila sentono gli scalini scricchiolare e le fanno un grande applauso di incoraggiamento. Estrae una fotografia dalle pieghe larghe della gonna, ostende una latta di pomodori pelati e attacca: «Signori! per favore aiutatemi… ho tanta fame, ho tre miei figli sono malat…» si interrompe. La cocorita azzurra le è planata sulla spalla fischiando oscenità. A tutti sembra un buon auspicio e ci mettiamo a ridere, la tensione si allenta. Dalla platea scrosciano altri applausi di incoraggiamento, gli orfani ridono, gli storpi battono le mani fuori tempo, i mutilati picchiettano i monconi sui braccioli e i musicisti improvvisano un rondò buffo: è bello vedere il gruppo così unito. Lei si torce le mani, sembra una bambina troppo cresciuta. «Ricomincia! – le urla mia zia in fondo alla platea – questa volta scandisci meglio le vocali, e aprile di più». Tutti i membri della famiglia occupano la stessa fila in fondo. Da lì dirigono le esibizioni e dettano i tempi. Tutti si spendono per darle qualche buon consiglio: «Attenta al numero dei figli. Evitiamo i cliché per favore; se proprio devi, evita i tre, i quattro e i sei: troppo ricorrenti; meglio uno, magari malato d’asma, o spara alto: dodici!» Mia madre le mostra come zoppicare correttamente, mia sorella le spiega come trasformare i condotti lacrimali in geyser islandesi; io rimango in disparte e ammiro il palco ben fatto: sono felice. Mio cugino appartato in un angolo confabula con mio padre e mio zio. Credo discutano se sia il caso di aprire le iscrizioni del prossimo ciclo anche a qualche richiedente asilo. Sotto lo sguardo dei ciechi la vedova si concentra prima di ricominciare, sembra rinfrancata dai consigli e più sicura di sé, un sole pallido e lontano illumina il palco a lato del boccascena. Poi toccherà a tutti gli altri, speriamo davvero di riuscire ad aiutarli. Oggi pomeriggio ci abbandoniamo a un cauto ottimismo. Insieme, ce la faremo.

( n.b.: modificato su richiesta dell’autore il 9/9/23)

Virgilio Sieni: Danza Cieca

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Per Cronopio è stato pubblicato Danza Cieca di Virgilio Sieni, raccolta di riflessioni «sull’esperienza fisica, estetica ed emozionale vissuta nella messa in opera dell’omonimo duetto danzato dal coreografo Sieni e dal danzatore non vedente Giuseppe Comuniello». Per gentile concessione dell’editore, ospito qui alcuni estratti dal libro.

 

 Materia invisibile e percepita 

Si danza l’arte del trasformare, dell’elaborare e restituire poeticamente materia invisible e percepita. Si vuole dare vita a qualcosa che non è propriamente visibile, ma che prende forma nella relazione tattile dei due corpi.

L’invisibile è l’immateriale che nel suo lasciarsi attraversare e toccare assume l’aspetto di un alone che guida le mani, e con esse tutto l’organismo, nella costruzione di figure immaginarie. Una costruzione che emerge nel momento in cui si riconoscono i tratti dei passaggi, si rammentano gli attraversamenti e le traiettorie ripetute. È come se lo spazio fosse composto da un’infinità di particelle che tutte le volte incidono, coincidono, mutano, spostano, penetrano e attraversano il gesto. Stiamo parlando dell’aura, di quell’intorno che crea una spazialità leggera, tenue e attraversabile, che arricchisce la visione nella lontananza e sollecita la percezione nella vicinanza. Un accadimento che s’inoltra nel tempo e giunge a noi come sorpresa, cogliendoci per la sua capacità di trasfigurare il corpo dell’altro in gesti di luce che ci toccano. L’aura, sorprendendoci e attraendoci, comprende l’essenza della persona capace di raccogliere in sé l’indicibilità della sua origine, espandendo verso il fuori questa potenza. Sembrerebbe scaturire da questo continuo rimandare all’altro, trasmettere e travasare, portare via e rinnovare.

Entrando in questa relazione auratica, il movimento si nutre di incessanti aperture ed elabora e prolifera mare di particelle che inducono a considerare il corpo come un sistema infinitamente poroso, movibile in ogni parte. Con il gesto di ricevere ed elaborare la materia dell’altro, lo spazio si fa estremamente denso e si apre intorno a noi qualcosa di malleabile, nuovo e rinnovabile in ogni tratto d’esistenza.

Danza Cieca nasce per originare le cose che dall’attesa prendono vita: una sorta di iniziazione al contatto con l’invisibile in cui il movimento irrora la pelle del contatto con l’aria e con l’altro, commuove, definendo l’aura come presenza tangibile.

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Lo spazio bianco nell’Annunciazione che Beato Angelico dipinge nella cella numero 3 del convento fiorentino di San Marco è una mappa creativa e spirituale, abisso ancestrale: è il niente e il tutto, ci comprende al suo interno sorprendendoci. È uno spazio bianco che unisce e che apre la sua materia invisibile alla creazione della luce. Uno spazio che, sottraendoci ad altro, genera un’attrazione tattile che rinnova lo sguardo: crea un vuoto malinconico di attesa e ascolto dal quale fuoriescono visioni dalla memoria. È una luce che tocca senza peso, che muove il corpo, che traspare, che divide. È forse un’aura? Così Maria è un corpo luce, materia trasparente e leggera nelle articolazioni, nelle quali sparisce la gravità e la rotondità del ginocchio per far apparire una materia nuova che adagia la figura sospesa sull’inginocchiatoio. La figura dialoga con noi disponendo il suo peso sull’orizzontalità luminosa di piani immaginari che, esistendo nella nostra struttura anatomica, creano lo sfrenato desiderio di resistere alla fora di gravità.

A ben vedere, il bianco della pittura mostra delle screpolature che fanno venire in mente il Grande Cretto di Alberto Burri a Gibellina così come gli stupefacenti pannelli verdognoli posti da Carlo Scarpa come sfondo dell’Eleonora d’Aragona di Francesco Laurana al Palazzo Abatellis di Palermo. Sopra i ruderi della città crollata, una città costruita da mani, non si può far altro che cogliere la lontananza e la compassione dei gesti scomparsi ma che sempre appaiono; così la trasparenza del busto di Eleonora è toccata nei suoi margini dal verde verticale dei pannelli che, screpolandosi, aprono fessure e fughe alle spalle della duchessa benefattrice. Nell’Annunciazione, sul Grande Cretto e nella stanza concepita da Scarpa per il busto del Laurana la materia ci avvolge nei dettagli del tempo aprendo crepe nell’animo.

In qualche (altro) modo

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di Roberto Lombardi

Sto ascoltando la lettura dei quotidiani di Prima pagina, su Rai radio 3; il conduttore settimanale, il giornalista di turno, si esprime dicendo che «i numeri possono a volte sembrare un po’ aridi, un po’ freddi, ma hanno il grande merito di aiutarci a fotografare, in qualche modo a cristallizzare le situazioni» (ma se i numeri hanno la capacità matematica di fissare con precisione in un’immagine la situazione – addirittura di “cristallizzarla” ­–, l’indeterminatezza dell’espressione in esame appare del tutto inidonea a coniugare freddezza e precisione); poco dopo: «il teatro come sappiamo è qualcosa che nasce per dare rappresentazione al rapporto tra l’uomo che cerca il dialogo con la divinità, in qualche modo; non so se questo, trasferito alla nostra situazione politica, significhi che si cerca anche una illuminazione, in qualche mododivina» (non ci resta che concludere che anche il paganesimo condividesse la solidità all’acqua di rose – senza spine – della fede cattolica nostrana); e ancora: «mi pare che lei [l’ascoltatore intervenuto in trasmissione] comunque vada in qualche modo nel solco dell’intervento che abbiamo letto» (qui l’espressione “in qualche modo” s’appesantisce di un altrettanto generico “comunque”); non è finita: «quando qualcosa va bene, si dice che fa meno notizia ma questo non deve, in qualche modo, inaridirci» (salta all’orecchio la frizione fra l’inaridimento che non ammette gradazioni e il qualche modo che l’offende); il tutto raccolto nell’arco di circa 20 minuti: un “in qualche modo” ogni 4. Il giornalista, direttore di un importante quotidiano, a fine trasmissione precisa che lui e la sua redazione sono molto attenti alle parole che usano, soprattutto a quelle mandate in stampa.

È comprensibile che in una diretta radiofonica il discorso mostri sbavature – ne rappresentano, anzi, la forza –; ma se un giornalista quale il nostro, rigoroso e dal linguaggio controllato (in questo mestiere non tutti lo sono), si lascia in qualche modo ammaliare dall’espressione divenuta ormai di moda, in chi è assai meno attrezzato la frase è purtroppo diventata un intercalare. Fastidioso come tutti gl’intercalari; forse più di altri poiché non manifesta immediatamente l’impoverimento in cui trascina il linguaggio quotidiano; sembra invece vestire i nostri discorsi di una patina di profondità. Dagli stessi microfoni, non molto tempo prima, un altro giornalista-conduttore era giunto a superare se stesso (e il limite): «Bisogna, in qualche modo, trovare il modo…». Un’indeterminatezza linguistica, indice dei tempi; si vogliono forzare i propri orizzonti, si pretende di allargarli, senza avere la forza per sostenerne i lembi. Non mancano i casi di uso a modo dell’espressione di cui deprechiamo l’abuso. Dall’introduzione di Mariolina Bongiovanni Bertini al quinto volume della Recherche proustiana dell’edizione italiana Einaudi, tradotto da Paolo Serini: “Nel ’14, al momento della redazione di questo frammento, l’invisibile catena che collega sotterraneamente Albertine e Gilberte includeva anche, in qualche modo, la cameriera della baronessa Putbus”. Districare le trame che portano Proust a far comparire Albertine nelle vicende del suo capolavoro non è semplice neppure per i critici più esperti. La prigioniera e poi Fuggitiva Albertine emerge dalla sovrapposizione di più personaggi del romanzo e della vita dell’autore e in lei, in qualche modo (cioè misteriosamente ed evocativamente), tutti riecheggiano.

Ma più spesso l’espressione in esame è del tutto superflua, ridondante. Si potrebbe affermare che in qualche modo tiriamo a campare? D’acchito sembrerebbe ben detto, ma se ci riflettiamo appena un po’, ci rendiamo conto che “tirare a campare” esprime compiutamente il modo irrisolto in cui procede – non procede – la nostra esistenza, e che, tutt’altro che in qualche modo, ciò che precede, nella frase, è superfluo, è ridondante. Sere fa, a Otto e mezzo, il programma televisivo di approfondimento di Lilli Gruber su La7, a proposito della crisi in cui versa il Paese, la conduttrice affermava che «la situazione certifica in qualche modo un allentamento della politica», Gianrico Carofiglio, l’intellettuale invitato a intervenire, rilevava che «un’intesa in qualche modo è nata con questo Governo» e Massimo Giannini, giornalista ospite, commentava sollecitando «questo Paese a uscire da questa situazione in qualche modo». L’analisi giungeva a conclusioni in qualche modo condivisibili.

A giudicare dalla frequenza con cui “in qualche modo” compare nei nostri discorsi quotidiani, parrebbe che la nostra vita sia pervasa da un’aura di mistero e di magia: in qualche modo ci siamo destati, in qualche modo abbiamo fatto la doccia, in qualche modo siamo andati al lavoro, in qualche modo siamo tornati a casa, in qualche modo siamo persone a modo. Che abbia ragione chi, ricorrendo sovente a questa formula, esprime un sentire comune: la nostra esistenza s’è ridotta a stare in piedi in qualche modo, procede a scartamento ridotto, declassata a mera sopravvivenza, e noi non siamo più vivi, non più umani? Comunque sia, da qualche tempo le nostre azioni, le nostre idee, opinioni e affermazioni si dispiegano dai nostri discorsi “in qualche modo”. “In qualche modo” il governo tecnico governa; “in qualche modo” le opposizioni si oppongono; “in qualche modo” la crisi finanziaria colpisce anche noi; “in qualche modo” la nazionale gioca a calcio; “in qualche modo” pensiamo, agiamo, viviamo. E non che non sia misterioso il senso della nostra esistenza. Ma se il linguaggio e le parole servono a spiegare, a fare chiarezza, allora bisognerebbe che “questo modo”, da cui tutto improvvisamente sembra prendere forma, si provasse a chiarirlo – il tentativo sarebbe di per sé sufficiente a sollevarci da ogni altro obbligo verso il linguaggio.  Se èlecito, infatti, adoperare l’espressione “in qualche modo” quando questo “modo” non è indagabile e dunque non è, prima ancora che esprimibile, descrivibile (non-dicibile poiché vago, sospeso), non lo è, in ogni caso, per denunciare inconsapevolmente incapacità a dire, a esprimere. E difatti, quand’è che usiamo propriamente la formula tanto deprecata? Quando a nulla serve ogni ragione e può solo la forza della disperazione: “Le cose sono andate male ma adesso bisogna uscirne in qualche modo”.

Le nostre frasi, però, in tal modo infarcite, si vestono di un’aura di mistero, di insondabilità, e dunque di profondità. E, in questo modo (efficace variazione sul tema), un tale abuso finisce per togliere mistero anche là dove esso coverebbe legittimamente, come quando, facendo ingresso in un ambiente sconosciuto, fra persone estranee, ci guardiamo intorno e ci imbattiamo in occhi che sentiamo indicibilmente vicini che ricambiano le nostre sensazioni: in qualche modocomprendiamo che quella persona, in mezzo a tante, ci riguarda e noi riguardiamo lei, spingendoci a cercare il modo in cui siamo connessi.

“Diciamo che”, un altro dei modi di sdire capaci solo di fiaccare il discorso: non lo utilizziamo, forse, per evitare ogni possibile polemica col nostro interlocutore, risolvendoci, in chiusura, per il compromesso? O, viceversa, in esordio di discorso, attaccare con un “diciamo”, dichiarando preliminarmente che saremo reticenti, è una maniera di esprimersi che potremmo bonariamente definire “diplomatica”.

Un’altra formula con la quale sistemiamo capra e cavoli – e il lupo, aggiungerei –, è “Fa il suo mestiere”, “Fanno il loro mestiere”, a giustificare colui, coloro che invece finiscono per fare tutt’altro. Non vale sempre e per tutti; e sono quelli messi peggio, dal punto di vista umano, a portare le cose a termine, a fare la propria parte fino in fondo:

[…] il tipo che si prendeva una scarica di mitra nella trippa […] e urlava: «Non mi ammazzate, non mi ammazzate!», come un fesso, perché non serve a niente, ognuno deve fare il suo mestiere. Mi piace molto al cinema quando il morto dice: «Su, signori, fate il vostro mestiere» prima di morire, questo significa comprensione, non serve a niente rompere le balle alla gente prendendosela coi buoni sentimenti (Romain Gary, La vita davanti a sé, trad. Giovanni Bogliolo, Neri Pozza, 2014).

Sento­ ripetere che i giornalisti fanno il loro mestiere, gl’imprenditori… altrettanto se non meglio dei primi. Non è più né cinema né romanzo, è la realtà, e a maggior ragione le cose andrebbero chiamate col loro nome: per un giornalista asservirsi, a turno, a seconda della convenienza, a più padroni, significa ridursi a pennivendolo; se un imprenditore si accanisce sul cadavere della società ridotta a inconsapevole consumatrice globale è un tanatovendolo.
Qual è il mestiere dell’essere umano se non quello di esserein qualche modo – umano?

Mots-clés__Attenzione

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Fotogramma da "Le avventure acquatiche di Steve Zissou" di Wes Anderson [Jane legge "Du côté de chez Swann"]

Attenzione
di Fabrizio Cantori

Franco Battiato, Passaggi a livello -> play

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Fotogramma da “Le avventure acquatiche di Steve Zissou” di Wes Anderson [Jane legge “Du côté de chez Swann”]
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Cristina Campo, Gli imperdonabili, Milano, Adelphi, 1987, pp. 166-167:

Poesia è anch’essa attenzione, cioè lettura su molteplici piani della realtà intorno a noi, che è verità in figure. E il poeta, che scioglie e ricompone quelle figure, è anch’egli un mediatore: tra l’uomo e il dio, tra l’uomo e l’altro uomo, tra l’uomo e le regole della natura. […] Se dunque l’attenzione è attesa, accettazione fervente, impavida del reale, l’immaginazione è impazienza, fuga nell’arbitrario: eterno labirinto senza filo di Arianna. Per questo l’arte antica è sintetica, l’arte moderna analitica; un’arte in gran parte di pura scomposizione, come si conviene ad un tempo nutrito di terrore. Poiché la vera attenzione non conduce, come potrebbe sembrare, all’analisi, ma alla sintesi che la risolve, al simbolo e alla figura – in una parola, al destino.L’analisi può diventare destino quando l’attenzione, riuscendo a compiere una sovrapposizione perfetta di tempi e di spazi, li sappia ricomporre, volta per volta, nella pura bellezza della figura. È l’attenzione di Marcel Proust.

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

Essere italiani, essere pugili, essere umani (secondo round)

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Federica Guglielmini a sx foto di Francesca Serughetti; Dome Bufaro a dx foto di Dino Ignani
Federica Guglielmini a sx foto di Francesca Serughetti; Dome Bufaro a dx foto di Dino Ignani

Il primo round, a firma Dome Bulfaro, si può leggere qui.

 

di Federica Guglielmini

FUORI I SECONDI
 

Nel tempo del quadrato,
venite con me a vederli.
 
Uomini branco, cerchio
in movimento, tricipiti assenti,
schiene che si svuotano dalla bocca
un richiamo. Polmoni in assalto.
 
Alle corde gli uomini sono,
rinascono.

I pugilatori di Giovanni Testori

 Eccomi dentro una Nazione Indiana, che si trasforma in un ring, luogo di incontro per tutti noi. Accorciamo le distanze fra il pugilato e gli italiani, allontaniamo i pregiudizi attraverso una verità storica e contemporanea. Qui e ora. Le lancette della mala-informazione corrono sempre veloci.
Immaginate di dirigervi dentro le mura del Castello Sforzesco di Milano, sentire un grande fermento di voci, vedere bambini sulle spalle di padri emozionati, mamme in apprensione che si siedono stupite a bordo ring dopo aver visto un abbraccio fra due giovani dopo un match. Vedere gli stessi ragazzi dirigersi agli angoli del ring verso i loro maestri, emozionati come padri aspettarli a braccia aperte che abbiamo vinto oppure no.
Immaginate una domenica pomeriggio di raggiungere la piazza del vostro quartiere, dove non sempre vi sentite al sicuro, dove la delinquenza purtroppo si infiltra sempre e di assistere a un incontro di pugilato. Vi guarderete intorno trovando un pubblico multietnico, entusiasta di assistere a un evento sportivo che ha sempre la capacità di avvicinare le persone, farle conoscere meglio, rallegrare i giovani, ispirarli. Non crederete ai vostri occhi, vedrete anche il prete della parrocchia seduto fra il pubblico che fa il tifo per i suoi ragazzi che frequentano gli spazi della chiesa nel doposcuola, o il suo campetto da calcio, o che appunto tirano di boxe invece di perdersi per le strade a fare scorribande senza sogni e senza speranze.
Lo sport unisce, crea aggregazione sociale, lo sport può farsi muro contro la guerra, lo sport è un a delle migliori armi per combattere il degrado dei quartieri delle città, lo sport non conosce discriminazione razziale.

 
Il pugilato vs i pregiudizi

Il pugilato è uno sport da contatto, con una storia millenaria alle spalle che si è evoluta nel corso dei secoli, ma tutt’ora combatte contro i pregiudizi che spesso la vedono affiancata alle parole come violenza e pericolo. Inoltre troppo spesso i giornali trovano comodo (pensando di divulgare una notizia accattivante) scrivere false notizie legate a violenze fra uomini e donne affermando che gli uomini in questione siano pugili solo perché frequentano una palestra di pugilato. La qualità della divulgazione mediatica è un tema che riguarda i giorni d’oggi e ne abbiamo visto i frutti deleteri soprattutto in pandemia, e non riguarda solo il modo in cui si parla di pugilato in Italia.
Detto questo quindi il problema del pugilato che viene visto ancora così, non riguarda il pugilato in sé, ma il come se ne parla, di come lo si racconta. Uno sport che si avvale della lotta per esprimersi, regolato da regole ben precise, affiancato da maestri, medici, giudici ed arbitri perché deve essere ancora frainteso? La violenza è ben altro e purtroppo ne siamo circondati. La violenza non ha regole, non è uno sport. La violenza non è uno sport, non è il pugilato, solo perché sembra così. La violenza non ha né giudici, né arbitri. La violenza non si trova nelle palestre di uomini e donne pugili che insegnano ai loro figli il rispetto verso il prossimo e lottano contro il bullismo. La violenza è vigliacca e senza onore. Siamo travolti da una comunicazione mediatica che molto spesso risulta essere violenta, impatta violentemente sulla crescita emotiva dei giovani, e questo è un tema che si ripresenta molto spesso nei maggiori talk show in tv.

Boxe scuola di vita

Quando due atleti scelgono uno sport da contatto, allenano la stima reciproca, allenano la ricerca di un’esperienza formativa interiore che fa parte della storia dell’uomo, cosa manca ancora agli italiani per rivolere la boxe nelle piazze e nei quartieri? La lotta come momento di vita ludico, conoscenza del sé, del concetto di limite, di forza dimostrativa e di socialità appartiene sia al mondo degli esseri umani, sia a quello animale. Ebbene nessuno scandalo. I bambini a scuola imparano attraverso il confronto e le sfide sportive come gestire le emozioni e il vivere sociale. Come sentiamo troppo spesso però questo non accade sempre anzi, e il bullismo dilaga. Dunque per il pugilato che è l’arte di allenare la forza attraverso regole ben precise, che custodiscono i valori della stima verso prossimo, della difesa come prima legge negli allenamenti è giunto il momento che si riprenda lo spazio che merita fra le discipline sportive degne di merito e di valenza educativa antica, soprattutto all’interno delle scuole italiane e nelle parole dell’opinione pubblica.

Essere italiani, essere pugili, essere umani

Cosa significa essere italiani, appartenere a un popolo con una storia ricca di tradizioni e di cultura ed essere pugili. Come antica arte nobile il pugilato, offre a chi la pratica una scuola di vita che pochi altri sport hanno la magia di insegnare, proprio perché si tratta di uno sport da contatto. Lo scontro che cerca il pugile però non è quello per distruggere l’avversario, ma quello di misurarsi atleticamente come essere umano, che dà valore alla vita. Certo i pugili si colpiscono, si fronteggiano, ma si concedono di essere scossi da emozioni antiche per ricordarsi di essere umani e non è nel dolore della carne non fine a se stessa che si arriva alla salvezza, purificazione, come racconta la Bibbia? Gli avversari sul ring sono occasioni di incontro con se stessi, i pugili incarnano nel vero senso della parola la lotta, ma una lotta d’amore con se stessi.
La boxe è sempre stata una risorsa educativa per fronteggiare la delinquenza nei quartieri delle città e non solo italiane. Boris Johnson da anni favorisce e incentiva il pugilato e le arti marziali combinate con educazione scolastica per aiutare i quartieri a rischio di criminalità e violenza.
Quindi cosa stiamo aspettando per utilizzare al meglio la storia di questo sport per una migliore divulgazione delle sue risorse. Non abbiamo forse bisogno oggi più che mai di sentirci un popolo unito, nel fronteggiare guerre, pandemie, di trovare i migliori esempi per i giovani che chissà quali altre sfide dovranno affrontare negli anni avvenire?
Il pugilato incarna per eccellenza la lotta per la vita, per la sua buona sorte. Il pugile all’angolo si allena duramente per imparare a resistere ai colpi della vita, dell’avversario, che diventa metafora delle prove della vita stessa.

Io esisto al pari della natura,
degli elementi che la compongono,
io sono la mia specie,
la sua furia.
 

Lo sport: dose di dolore

Forse le informazioni che riceviamo dai media sono talmente monotematiche che l’italiano medio riconosce solo come sport il calcio mercato? Temo di sì. Eppure mi chiedo spesso come mai nessuno scomponga davanti alla pericolosità di un pallone fermato con la testa da un calciatore a quella velocità, a tutte le ossa rotte dei calciatori, a tutte le operazioni a cui sono sottoposti. Quante volte li vediamo cadere sul campo, lamentarsi delle fratture, essere portati via dai medici e nessuno spettatore rimane scioccato da questo? Soprattutto in questi ultimi anni si denota un aumento di problemi cardiaci che colpisce i calciatori e si sta parlando di salute e di tutela della vita di ogni atleta. Tutti gli sport hanno la loro dose di pericolosità perché gli atleti decidono di mettersi in gioco. C’è chi preferisce una pallonata in faccia, fratturarsi un ginocchio, c’è chi può cadere da cavallo, c’è chi può cadere da una moto. Sapete che agonia scelgono i ballerini per diventare tali? Le lunghe ore di allenamento e le posizioni estreme, innaturali, causano traumi e infortuni dolorosissimi, e se necessario si ricorre anche alla chirurgia.
O ancora il tennis e in questo caso cito Andre Agassi uno dei tennisti più forti di sempre: «Il tennis è pugilato. Ogni tennista, prima o poi, si paragona a un pugile, perché il tennis è boxe senza contatto. Il tennis è uno sport violento, uno contro l’altro e la scelta è brutalmente semplice quanto sul ring. Sconfiggere o essere sconfitti, solo che nel tennis le bastonate sono più sotto la pelle».
È davvero illuminante il verso della meravigliosa canzone, Boxe a Milano, del cantautore Pacifico: «Quante cose si fanno sapendo di farsi del male, chissà cosa porta, chissà cosa piace, a un uomo che alle corde non vuole cadere». Ognuno di noi sceglie di praticare o di seguire lo sport che più è affine al suo carattere, alla sua passione, al suo bisogno di esprimersi e senza ombra di dubbio ogni disciplina sportiva, ha la sua dose di pericolosità, di infortuni che possono verificarsi, soprattutto a livelli professionistici. Une delle grandi magie della boxe, è che offre sia a chi lo guarda, sia a chi lo pratica la possibilità di chiedersi quale sia la propria battaglia. Forse non ce ne sarà solo una, anzi è molto probabile che sia così.

Italiani, pugili e sognatori

Il pugilato italiano ha bisogno di voci che lo sappiano raccontare con giudizio, con passione, con professionalità e che queste voci siano unite, che sappiano leggere la società di oggi, che sollecitino i media a guardare la boxe come una risorsa sportiva, culturale e mediatica di valore.
Pertanto faccio quadrato e do la parola a Niccolò Pavesi, voce di DAZN e della MotoGp:
Nella boxe c’è spazio letteralmente per tutti. Maschi e femmine, adulti e giovanissimi, persone di qualsiasi provenienza geografica, di qualsiasi peso e caratteristiche fisiche. È accessibile a chiunque abbia voglia di imparare e di conoscerla. Questa è una delle sue principali forze, perché lo rende uno sport universale, praticato e apprezzato in ogni angolo del mondo.
Certamente, la Grande Boxe – quella di Ali, di Hagler, di Tyson, di Mayweather, di Pacquiao e di Canelo – è la vetta della piramide sportiva e si pratica in pochi Paesi al mondo. È questione di tradizione, qualità e risorse.
Ciò non toglie il fatto che il pugilato sia in grado di sedurre chiunque, probabilmente proprio perché è qualcosa di più di uno sport.
Pensiamo al nostro quotidiano: passiamo tutti davanti alla palestra del nostro quartiere, abbiamo tutti un amico o un’amica che indossano i guantoni per scrollarsi di dosso lo stress del lavoro, ogni anno ci riuniamo sul divano con la nostra famiglia quando in TV danno Rocky e i nostri nonni, almeno una volta, ci hanno raccontato le imprese dei campioni del passato. E noi le abbiamo ascoltate affascinati. Riflettendoci, forse è proprio la parola “racconto” quella più calzante, da associare al pugilato: la boxe – a tutti i livelli – è un unico Grande Racconto che racchiude in sé milioni di racconti di ogni genere. Questa, secondo me, è la sua vera magia.

Le virtù dimenticate del silenzio: i social, il covid, la guerra

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di Giuseppe A. Samonà

Rifletto da anni sulla cosiddetta “rivoluzione tecnologico-digitale”, e in particolare sulla natura e la funzione dei social, sui molteplici aspetti – economici, politici, psicologici, estetici, relazionali etc. – che ne governano il meccanismo: ne ho anche scritto in un paio di occasioni proprio su questo sito (L’INVOLUZIONE DIGITALE | NAZIONE INDIANA; e poi in risposta a un ottimo articolo di Andrea Inglese, che peraltro solleva molti dei temi a me più cari: Umanisti del nuovo secolo e sottomissione tecnologica | NAZIONE INDIANA). Se dovessi riassumere con una formula la mia (e di altri) prospettiva – ma attenzione, il mini-abstract “parla” solo a chi ha già avuto modo di interessarsi a questi temi, altrimenti suona come un lungo, incomprensibile slogan – direi: questa “rivoluzione”, con l’accelerazione e le promesse di comunicazione totale ch’essa implica, non costituisce l’ineluttabile progresso, ma una delle sue possibili vie, come strumento primo e indispensabile del progetto dell’ultimo capitalismo neoliberale, in cui la supposta gratuità dei mezzi si fonda sulla concreta schiavitù degli utenti che producono profitto alienato, e la promessa libertà illimitata è uno specchietto per le allodole che organizza sotterraneamente un feroce controllo sociale.

Ora fra i tanti aspetti di questo complesso sistema, il quale costituisce oramai l’indispensabile scheletro che tiene insieme gli scambi attraverso il mondo umano, ce n’è uno che di recente, prima con la pandemia e dal febbraio 2022 con la guerra, ha assunto un rilievo straordinario, operando un vero e proprio salto di qualità (e mentre scrivo mi accorgo che questo processo aveva cominciato a delinearsi già con l’emergenza terrorismo): la bipolarizzazione della realtà, della sua comprensione, semplificata e organizzata come se fosse uno scontro fra due fazioni radicalmente opposte che si affrontano dentro uno stadio, la cui posta in gioco è l’annientamento dell’una o dell’altra, con gli utenti-spettatori tutt’intorno che da un lato non possono che fare fanaticamente il tifo, dall’altro entrano loro stessi in campo a dar manforte all’una o all’altra squadra… Il virus ha esercitato una sorta di fascinazione, anche per via del linguaggio di guerra che è stato forgiato per contrastarlo (e per altro non è improbabile che si ricominci), proliferando facilmente attraverso un mezzo, i social, che per propria natura inducono alla compulsione e alla dipendenza; e adesso che la guerra, quella vera, si combatte nel cuore dell’Europa (uno dei curiosi effetti della nostra fedeltà al Patto Atlantico sta nel farci percepire i paesi dell’Est “ai margini” del nostro continente, di cui invece geograficamente e culturalmente fanno parte a pieno diritto), quella fascinazione è diventata ipnosi: perché la guerra, da sempre, ipnotizza chi la osserva dal di fuori, ed è anche contro questo rischio che dovremmo lottare, pensare, per non lasciarci risucchiare dentro. In questa pericolosa prospettiva, come e ancor più di prima con il virus, quasi tutti dentro i social si sentono obbligati a dire quotidianamente la loro su questa orrenda guerra, a commentarla, classificarla, stigmatizzarla, con una sorta di vociare ininterrotto che risponde soprattutto al bisogno di affermare la propria presenza: Attenzione, ci sono anch’io, come se l’esprimersi senza sosta equivalesse a una concreta azione di resistenza e il restare silenziosi – silenziosi nei social… – un’inconcepibile resa. Intendiamoci, nei social esistono mille posizioni, in Facebook ad esempio leggo a volte alcuni post di amici che mi aiutano a capire, insieme ad alcuni utili articoli che diversamente mi sfuggirebbero: ma il problema è che il flusso ininterrotto, i titoli messi in avanti per fare uscire la testa fuori dal flusso, per attirare l’attenzione, la coda delle discussioni che rapidamente si fanno rissa, organizzano comunque il mondo in due. Sugli opposti slogan si “discute”, ci si azzanna, non sulle idee, sulle analisi: del resto nessuno, là dentro, ha veramente la possibilità, o la voglia, di confrontare le proprie, non c’è dialogo, solo applauso o riprovazione.

(Ma come? – si potrebbe dire – ma allora lo usi? Sì, lo confesso, un paio di volte a settimana torno su Facebook: da un lato, appunto, come terreno di indagine sociologica; dall’altro, più sobriamente, come veloce rassegna stampa, o come dicevo per andarmi silenziosamente a leggere quei preziosi quattro o cinque amici, e articoli… Tuttavia, proprio da quando è cominciata la pandemia, mi sono imposto di non usarlo più per discutere, e di pubblicarci solo quello che è direttamente connesso con il mio lavoro, per esempio, adesso, questo pezzo. Certo, può capitare che il post di un amico/a mi trovi d’accordo, mi stimoli: ma allora, anche se è assai più lento, gli/le scrivo in privato; viceversa, può succedere, succede assai spesso, che alcuni commenti mi facciano venire il sangue agli occhi, e il dito mi pruda: ma mi freno, ed esco fuori, convinto come sono della totale inutilità, anzi, dannosità, di qualunque “discussione” là dentro – e anche del rischio, proprio ad ogni ex fumatore che ogni tanto si concede qualche tiro, di ricadere nell’antica droga…)

Il covid e la guerra dunque hanno esasperato la tendenza alla bipolarizzazione insita nel modo di funzionare dei social; e di più, hanno spinto questa bipolarizzazione a esondare dal suo campo di azione virtuale, contagiando più o meno ampi settori della società. Il fenomeno è internazionale: tuttavia, in tale direzione, l’Italia ha costituito un laboratorio particolarmente fecondo, nel senso che questa bipolarizzazione si è letteralmente impossessata dei principali mezzi di comunicazione tradizionale, giornali e televisione (la radio si è protetta di più); questi, di conseguenza, hanno assunto toni di una violenza inimmaginabili altrove nel mondo Occidentale, di fatto soffocando sul nascere – com’è appunto proprio dei social – qualunque vera analisi e discussione. Non saprei dire se questa esasperazione del dibattito pubblico italiano risponda a caratteristiche proprie al paese, per via di un suo atavico carattere melodrammatico, o se invece in questo l’Italia costituisca una sorta di avanguardia, persino un modello – nel bene e nel male non sarebbe la prima volta – di qualcosa che è destinato ad affermarsi su larga scala, una sorta di nuovo modo di fare informazione: sia come sia, in queste due crisi mondiali, giornali e televisioni di altri paesi storicamente vicini hanno meglio difeso la propria autonomia di linguaggio. Preciso anche che questa è un’ipotesi che si è affacciata alla mia mente cammin facendo, e non ha nulla di definitivo né di esaustivo, limitandosi a un numero ridotto anche se già significativo di paesi e di media: si è andata formando durante i due anni di pandemia, nel confronto – ecco, dichiaro le mie fonti – tra i giornali italiani “classici” (principalmente La Repubblica, La Stampa e Il Corriere della Sera, ed altri più recenti come Il Foglio, il Fatto Quotidiano, etc., con l’encomiabile eccezione del Manifesto e – per me è stata una scoperta – dell’Avvenire) e alcuni loro omologhi francesi (principalmente Le Monde, Libération, poi Le Figaro e altri), spagnoli (principalmente El País, elDiario.es), britannici (The Guardian, The Indipendent, poi The Times), statunitensi (The New York Times, The Washington Post), che ho l’abitudine quotidiana se non di leggere almeno di consultare, soprattutto quando ci sono eventi cruciali; infine, quando l’ipotesi aveva cominciato a prendere corpo, ho allargato il confronto a telegiornali, reportage e dibattiti televisivi, sia pur con ineguale frequentazione (Rai 1, 2, 3, La 7; TF1, France 2, France 5, C 8, Arte; La 1, La 2, La Sexta; CNN e BBC – va detto che generalmente non guardo la televisione: si è trattato dunque di una vera e propria, e molto faticosa, ricerca sul campo, con brevi e saltuari “assaggi” per il covid, e una più lunga intensa immersione di una decina di giorni consecutivi per la guerra).

Insomma, in Italia in modo ben più netto e uniforme che altrove, giornali e televisioni hanno ripreso e amplificato la bipolarizzazione propria dei social, li hanno inseguiti, sono diventati in certo senso più social dei social; più che altrove, durante la pandemia, si è data forma di categoria a una vasta galassia di sensibilità, opinioni, riflessioni diversissime fra di loro: che si pensasse che dentro il vaccino ci fosse sciolto un microchip attraverso cui Bill Gates o Soros avrebbero controllato il mondo, e che magari il covid non esistesse, o fosse opera dei Cinesi per dominare l’Occidente, etc., o invece che, pur essendo vaccinati e convinti della sciagurata esistenza del virus, etc., ci si interrogasse sulla necessità della terza o quarta dose, o sull’efficacia di questa o quella misura di contenimento, e sul suo possibile danno per la democrazia, per l’equilibrio psicologico degli individui, o ancora sui profitti delle case farmaceutiche, etc., nel giro di pochi scambi si finiva di fatto per essere più o meno esplicitamente stigmatizzati come No-vax. Certo, le bufale, le falsificazioni, che esistono da sempre, sono state moltiplicate, diffuse dai social come mai prima – e di più: su un tale terreno straordinariamente propizio, le fake news (secondo la terminologia ormai in voga) hanno finito per modificare in profondità lo stesso rapporto che la società intrattiene con la realtà: se un’opinione, per il semplice fatto di essere espressa, diventa appunto un fatto, la comprensione, la ricerca della verità sono destinate sul nascere a naufragare. Questa confusione, come le idee realmente negazioniste e complottiste che l’alimentano, vanno ovviamente combattutte, col ragionamento, con l’analisi, con la difesa dei fatti, dei dati, e sempre deve insospettire in tal senso ogni discorso che inizia criticando la  narrazione “ufficiale” o il “mainstream”: le stesse espressioni anzi dovrebbero scatenare una sana urticaria. Tuttavia durante la crisi del covid, insieme alla moltiplicazione delle fake, si è anche creata una pietrificazione delle idee, del pensiero oggetto di critica da parte di tali fake: da riflessivo, eventualmente pedagogico, appunto analitico, questo si è fatto dogmatico, coercitivo, arrogante, con un irrigidimento ideologico, una sicurezza di giudizio insofferente a qualunque critica, sfumatura, dubbio, anche ragionevole – e i media, anche fuori dai social, più che informare, analizzare, problematizzare (questo dovrebbe essere il loro compito) si sono spesso ritrovati a scandire ingiunzioni, farsi portavoce delle “linee guida” (altra espressione da urticaria) sanitarie o governative, alimentare la paura, far montare l’emotività, anche abusando di termini come “negazionismo” o “complottismo” distribuiti con troppa facilità (il terribile vocabolario della Shoah necessiterebbe un uso accorto, meditato… non a caso ora che c’è la guerra un altro termine a rischio di uso improprio è “genocidio”… ): e il dibattito, quello che avrebbe dovuto essere il dibattito, utile a far ragionare la gente, si è trasformato in una vera e propria guerra di religione – con la conseguenza, fra altre, di contribuire alla radicalizzazione di chi complottista e negazionista lo era veramente.

Lo dicevo, l’esondazione è una tendenza internazionale, ma in Italia ha assunto livelli inimaginabili in altri paesi (non a caso il movimento No-vax è stato più violento ed esasperato che altrove…), anche aiutandosi con la creatività deamicisiana propria del Belpaese (ho battezzato il file in cui ho raccolto i titoli più significativi in periodo di pandemia con le prime parole di un titolone di Repubblica, bello grande in prima pagina: La mamma in agonia al figlio No-vax: “mettiti la mascherina…”). Succedeva insomma anche negli altri paesi, ma con più misura, con meno fanatismo, con più possibilità di contraddittorio: per esempio, tanto per mischiare un po’ l’ieri con l’oggi, Jean-Luc Mélenchon, presidente del primo partito della sinistra francese, che ha sfiorato il passaggio al secondo turno delle presidenziali, si è opposto a diverse misure di lotta contro il virus, fra cui il pass sanitario e ancor di più vaccinale, ha difeso il vaccino ma lo ha qualificato di racchetta bucata, ha denunciato l’opacità delle case farmaceutiche, e come lui diversi altri intellettuali, senza che nessuno dei grandi giornali o televisioni li abbia attaccati come complottisti o negazionisti…

Piccolo stacco, o parentesi, prendendo in prestito e riassumendo, adattando, una riflessione che avevo elaborato in un convegno su Sciascia tenutosi a Parigi nel 2019 (La letteratura come non menzogna, Todomodo, X, 2020: 108-118). Esiste una tensione scrittura-oralità, un’ambivalenza nei confronti della parola scritta che corre lungo tutta la cultura Occidentale. Anzi, da Platone a Lévi-Strauss, passando per Rousseau, esiste una vera propria ostilità nei confronti della scrittura, che ucciderebbe la vita, ogni suo segno significante costituendo una sorta di tomba che blocca la parola viva. Così Platone, i cui scritti rappresentano uno dei momenti più alti della storia umana, nutriva per la marmorea morta scrittura un’argomentata diffidenza, al punto che – secondo alcune interpretazioni – avrebbe affidato alla vitale multiforme “parola alata” la parte più preziosa del suo insegnamento. Ma si potrebbe andare ancora più indietro, ricordando che la prima menzione di scrittura della nostra cultura si trova nell’”oralissimo” Omero, con il celebre mito di Bellerofonte messaggero in Iliade VI (poi ripreso da Rousseau, Lévi-Strauss, Derrida…), in cui le “parole mortifere” impresse nella tavoletta che ha il compito di consegnare al re della Licia dovrebbero appunto sentenziarne la morte. In questa prospettiva i dialoghi di Platone, con la loro struttura (appunto dialogica), sarebbero un tentativo di aggirare, attutire la durezza del marmo, creando una parola che pur essendo scritta, cioè intombata, possa avere la levità, l’apertura della parola alata… Ecco, durante il covid, ho cominciato a pensare che i social avessero in un certo senso operato una rivoluzione simile, ma con finalità opposte: ora si doveva creare una parola che avesse la stessa velocità della parola alata, o quasi, ma che potesse colpire con la stessa durezza della parola scritta. Dalle mail collettive ai gruppi whatsapp  fino all’apoteosi delle discussioni  su Facebook, in molti abbiamo sperimentato quanto questo tipo di parola possa infiammare le “discussioni”, ferire, portare a rotture e contrapposizioni violente anche fra amici, molto di più di quanto non possa farlo quella “orale”, attorno a una tavola: perché parlando è sempre possibile tornare indietro, aggiustarsi, correggersi, mentre nella scrittura c’è qualcosa di irreversibile. Con un’eccezione importante (ma che rischia di essere contagiosa): la parola dei social, traccia scritta che si è ispirata alla velocità della comunicazione orale, ha imposto il suo stile, la sua rocciosità binaria, non solo alla maggior parte dei giornali, ma anche, con una sorta di ritorno alla sua fonte alata, a molta informazione televisiva, che oggi si caratterizza per un’accresciuta violenza e logica della bipolarizzazione. In particolare i talk show, che sono in senso proprio uno show della parola: di nuovo, questi non sono un’esclusività dell’Italia, ma mentre in altri paesi sono confinati ad alcune zone meno prestigiose della televisione, o comunque non sono loro che gestiscono l’informazione, in Italia ne costituiscono, trasversalmente a tutti i più importanti canali nazionali, il vettore principale, almeno sugli argomenti cruciali.  

In questo senso, fa impressione come lo stesso impianto di discussione delineato per il covid, e spesso con gli stessi protagonisti ad occupare la scena, sia passato, senza soluzione di continuità, a occuparsi della guerra, raggiungendo in maniera del tutto appropriata l’acme della violenza e della bipolarizzazione: perché di questo è fatta l’ipnotica guerra. Per descrivere, analizzare un fenomeno non è necessario assumerne il linguaggio, anzi, la distanza, il non risonare insieme (come avvertiva il grande antropologo e storico delle religioni Ernesto De Martino: Mitsingen ist verboten… ) è fondamentale per capire. Ma, fatto straordinario, ecco che in Italia – un’anche rapida comparazione delle informazioni e dibattiti televisivi attraverso diversi paesi è da questo punto di vista veramente istruttiva – la stessa coreografia delle trasmissioni in cui si discute di guerra evoca la guerra, la tensione, la tenzone, anche con l’aiuto di un ricorso alle immagini ben superiore a quel che avviene altrove: quello che sembra ricercarsi, alla televisione come nei principali giornali, non è il confronto, la comprensione, ma lo scontro o viceversa (come avveniva per il covid) il consenso religioso a una visione del mondo, l’approvazione.

Naturalmente i negazionisti, i complottisti esistono anche in guerra, come sempre, per più o meno esplicitamente servire con i loro caratteristici rovesciamenti la parte “sbagliata”: l’aggressore diventa l’aggredito, la vittima il carnefice, gli eccidi un’invenzione. In questo senso, ad esempio, ha giustamente scandalizzato chi, per il massacro di Bucha, ha parlato di “messa in scena”,  lasciando intendere che quelle morti violente non fossero mai avvenute, fossero state prodotte a bella posta, etc. Eppure, al di là dello scandalo, andrebbe anche ricordato a un altro livello che, in senso stretto, un’immagine, una foto, un video, sono sempre una messa in scena: solo la loro analisi può renderli veramente significativi. Ora, soprattutto dalla prima guerra in Irak in poi, l’uso massiccio delle immagini annebbia più che chiarisce; anzi – basti pensare fra altri al loro uso nel conflitto medio-orientale – sono diventate esse stesse armi, fondamentali, con cui le parti si combattono per convincere delle proprie ragioni l’opinione pubblica interna ed esterna. La loro analisi, insomma, è indispensabile: ed è quella appunto che manca nell’informazione televisiva italiana, in cui le immagini arrivano senza filtro, per emozionare, commuovere (e anzi, spesso ci sono le immagini delle immagini: il volto commosso di questo o quell’invitato in studio che appare in un angolo dello schermo, mentre guarda questa o quella immagine…., con il pubblico, da casa, che guarda insieme, in una spirale di emozione, l’uno e l’altra…). Come non pensare, del resto, che il più spaventoso genocidio della nostra storia, la Shoah, si sia dimostrato, affermandosi come un’incontrovertibile evidenza, praticamente in assenza di immagini?

Intendiamoci, per non creare equivoci: emozionarsi, commuoversi, indignarsi di fronte all’ingiustizia, all’orrore, è giusto, è necessario, anche per poter capire – ma sovrapporre emozione, umanità, considerazioni geopolitiche, analisi storica, come se fossero una cosa sola porta inevitabilmente a considerazioni errate, quanto meno per i tempi, i modi, i toni: perché c’è un modo e un tempo, un tono per dire le cose. La parola, le parole “socializzate” – aggettivo, da social – dei dibattiti televisivi italiani, anche se a volte, come nei social stessi o nei giornali, veicolano individualmente contenuti realmente interessanti, magari utili, sono sempre stonate: per via del contesto (ci si faccia attenzione: gli studi televisivi sembrano già predisposti alla guerra!), dell’urlo sempre in agguato che si sovrappone a un intervento per introdurre, imporre il successivo, del ritmo frenetico con cui questi interventi si succedono e si sovrappongono, impedendone di fatto la loro attenta considerazione, la loro digestione – per altro, anche chi dice cose assennate assume troppo spesso il ruolo di personaggio di una sgangherata recita collettiva, peggio, finisce per essere ridotto a macchietta, stereotipo, slogan, diventa, pur se assennato, ridicolo, grottesco, macinato com’è nel teatro delle urla (e anche lui urlante), nel bombardamento di immagini e interventi volti a incendiarci il cuore con l’emozione, mai a farci ragionare. (A proposito di ridicolo: alcuni degli invitati di questi talk show sono chiamati al banco per nome e cognome, altri – soprattutto se donne e giovani – solo per nome, altri ancora come “professore”, “dottore”, “dottoressa”, “professoressa”, “onorevole”, etc., in una voluttà luccicante di titoli, gradi e distinguo che ci ricorda che l’Italia è sempre quella de I promessi sposi…). Insomma, più che i singoli contenuti, ad essere sballato è soprattutto l’impianto, il palcoscenico che permette loro di circolare e moltiplicarsi.

Quanto al negazionismo, al complottismo, vanno anche qui, come sempre, fermamente combattuti, con l’analisi, con la forza dei fatti e del ragionamento, ma per farlo occorre che queste categorie siano usate propriamente. Ora, questo furore religioso (di nuovo, come ai tempi del covid), alimenta il conflitto invece che la comprensione, creando un fantomatico “campo avverso” (come appunto in guerra, eppure… mitsingen ist verboten…), e aspirandovi dentro chiunque si discosti dalla linea diciamo principale (in questo caso “interventista”, senza se e senza ma), magari semplicemente per sostare e interrogarsi. La sosta, l’interrogativo, comunque non funzionano nel dibattito coram populo, dove con rarissime eccezioni – che però finiscono col farsi da parte – si deve  correre, parlare forte e spiattellare certezze: occore fare questo, occorre fare quello. Per altro, in un’apparente splendida democrazia, in televisione tutte le posizioni sono rappresentate, anzi, i “pacifisti” spesso alzano la voce più degli altri: servono appunto ad infiammare il dibattito, o meglio, uno scontro (siamo in guerra…) in cui ognuno arriva con le sue certezze e non ha nulla da imparare, da ascoltare dagli altri – in un certo senso è il rovesciamento della logica platonica di cui si diceva sopra: i dialoghi, ispirandosi alla malleabilità della parola alata, dovevano attraverso il confronto costruire una possibile soluzione di un problema, o meglio, un possibile accordo; i dibattiti televisivi in Italia, ispirandosi alla durezza della scrittura social, mettono in scena uno scontro di certezze già costruite: per un pubblico che da casa fa le ore piccole assistendo a quelle ipnotiche discussioni, che della guerra sono in qualche modo una trasposizione, una drammatizzazione. Poi, in una sorta di chassé-croisé, ci pensano i social, e ancor di più i giornali, a fissare i contorni del mostro da abbattere, a partire dalle urla televisive, o altre opinioni, riflessioni anche pacatamente espresse, in una spirale di violenza e di semplificazione senza pari, che mette i pochi putiniani veri (che esistono, soprattutto a destra ma anche a sinistra, e sono ben conosciuti, anche perché spesso occupano o occupavano posizioni importanti nel governo e in parlamento, e di Putin si dicevano amici, ci facevano affari etc.) insieme con le molte persone che sono da sempre radicalmente contro Putin, ma pensano che la guerra non si possa fermare con una corsa al riarmo: anzi, curiosamente, sono questi ultimi, molto più dei primi, i principali oggetti della stigmatizzazione. Qualche titolo, qualche formula. “Io non sto con Putin, però”, perfido e assai diffuso: dove il “però” indica il tentativo di ricostruire il contesto della guerra, che si tratti di chiamare in causa la precedente guerra nel Donbass, l’espansione a est della Nato etc., perché – secondo questa formula – tali spiegazioni sarebbero di per sé giustificazioni, un modo per alleggerire le colpe di Putin o, addirittura, per trasformarlo da carnefice in vittima, facendosene di fatto alleati. (Ma allora i nostri vecchi manuali scolastici, quando ad esempio spiegavano che l’umiliazione inflitta alla Germania dopo la prima guerra mondiale era stata il terreno sui cui si era sviluppato il nazismo, cercavano di giustificare gli orrori di Hitler? Abbiamo imparato, a scuola, facendo politica, che prendere il tempo di capire non ostacola la necessaria scelta di campo, anzi la rende più consapevole, più forte…). C’è il più glaciale, e un po’ maccartista con le sue liste di nomi, “la cosa putiniana” – anche inquietante: “Come agisce la cosa putiniana?” C’è, sullo stesso slancio, la “federazione negazionista che fa il gioco di Putin”. O ancora, più puntualmente, ci sono oscenità del tipo l’“Associazione Nazionale Putiniani d’Italia”, cioè l’ANPI… A parte il fatto che, indipendentemente dal cosa si pensi rispetto al complessissimo problema di come intervenire in questa guerra (perché è complessissimo, e ci si dovrebbe auto-vietare di spiattellare certezze ad uso di chi, sul campo, combatte, soffre e muore veramente), è difficile non fremere di indignazione, di disgusto, nel vedere decenni e decenni di coraggiose e nobili lotte per il disarmo e per la pace, per altro con un ventaglio di posizioni e sensibilità spesso molto diverse, ridotte a una tale ridicola e menzognera rappresentazione: i pacifisti, o meglio (altra formula) i “putin-pacifisti” sono o appunto amici di Putin o “vigliacchi” (altro epiteto ricorrente) che hanno paura di combattere, o volentieri l’una e l’altra cosa. Fino al colmo del grottesco: a tratti sembra che la guerra si combatta non in Ucraina, ma sul suolo italiano, e che il nemico non sia più Putin, ma il disegnatore o il dirigente dell’ANPI di turno… (Variante di raccordo: i No-vax di un tempo adesso sarebbero putinisti… Ma oggi come allora questa categorizzazione del dissenso su vasta scala, senza distinzioni, in un’omogenea notte in cui tutte le vacche sono nere, da un lato intimidisce e taglia fuori dal dibattito le molte persone che sono nel contempo convintamente indignate, inorridite, e bisognose di interrogare la realtà, dall’altro conduce ahimè alla proliferazione del negazionismo e del complottismo, quello vero, che esiste ed è pericolosissimo…)

Ed ecco, è in questi ultimi mesi che con dolcezza mi si è imposto alla mente il silenzio, come un amico prezioso. Il silenzio è fondamentale dentro la scrittura come nella musica, ne fa parte: i sospiri, le pause, le attese, rendono la frase viva, intelligibile. Il silenzio è fondamentale prima e dopo un concerto, un’esecuzione musicale, ne fa ancora parte, e questo vale anche per la scrittura: perché la scrittura è per vocazione ad alta voce, anche quando è appunto muta. Il silenzio insomma è pieno, parla, è indispensabile per farci stare al mondo, per farcelo capire. Il silenzio sono le passaggiate, reali o sedute (con la mente, vagando), in cui digeriamo il pezzo che abbiamo letto, imponendoci di non leggerne subito un altro. Il silenzio sono i giorni, le settimane, i mesi in cui, scrittori, scegliamo di non scrivere, perché qualche cosa deve maturare diversamente, magari traducendosi in azioni. Il silenzio è semplicemente “prendere il tempo di…”, l’avere il coraggio di disconnettersi per trovare distanza, lucidità, in una prospettiva che è agli antipodi dell’incessante e rumoroso flusso continuo dei social o dei talk show socializzati, e della loro sinistra filosofia dell’esser sempre connessi. Il silenzio è resistenza attiva da opporre all’ipnosi della guerra in immagini e parole, che l’intrattiene, la guerra, non la neutralizza, e intrattenendo finisce per abituare, assuefare, e anestesizzare: del resto, almeno sui social, l’assuefazione nei confronti della guerra sta già arrivando, prima di quanto non sia accaduto con il covid, probabilmente perché a differenza di quello ancora non ce la si sente (a torto) dentro casa. (E però, che atmosfera pesante…) Il silenzio è capire che adoperarsi per la pace, qualunque sia la propria idea sul come ci si possa arrivare, non implica distribuire verità e consigli a chi muore combattendo sul campo. Perché qui, concretamente, parlo innanzitutto del silenzio pubblico, socializzato, individualizzato, che libera energia e tempo per altre parole-azioni, anche se non destinate a lasciare una traccia firmata: possiamo discutere con gli amici, con gli Ucraini e i Russi che già si sono rifugiati nei nostri paesi, con gli studiosi di quelle aree, non per sbandierare il nostro punto di vista, ma prima di ogni altra cosa per ascoltare, e per insieme costruirne uno; e poi, soprattutto, possiamo aiutare, ognuno secondo i propri mezzi, i molti che stanno arrivando qui, e hanno bisogno di tutto: di imparare la lingua del posto, di cibo, di soldi, di un letto – in quell’azione non ci si assuefa, non ci si abitua, e ogni giorno la guerra, questa guerra (come, mi si permetta di dirlo, tutte le altre), appare sempre di più per quel che è: inaccettabile.

In questo senso, mi ha molto colpito un post che, mi sembra, esemplifica un altro degli aspetti dei social che ha assunto in questi ultimi tempi un rilievo straordinario: la parcellizzazione solitaria della protesta, nel miraggio di essere connessi agli altri – il suo autore dichiarava di essersi arruolato nelle file della resistenza ucraina… su Facebook, perché era l’unico posto dove era possibile farlo! Ora, al di là delle anonime azioni concrete di cui ho appena detto e che sono, oltre che possibili, necessarie, c’è un meccanismo globale che va sottolineato: com’è stato ampiamente dibattuto (fra altri, nei due articoli che menzionavo all’inizio), questa parcellizzazione virtuale è direttamente proporzionale all’appassimento della protesta e dei dibattiti reali, realmente collettivi, fatti dell’incontro di persone vere, con le loro idee, le loro emozioni, i loro corpi. Eccolo, di nuovo, il silenzio: volgere la nostra attenzione altrove, far appassire il rumore dei social, dei dibattiti televisivi, disertare i giornali dai toni troppo guerrieri, per travasare questa energia nelle piazze e condannare l’aggressione, chiedere a gran voce la pace, a sostegno di coloro che resistono in Ucraina e in Russia, con una pressione costante – potesse essere questa la gran forza di contagio che aiuti (com’è stato per altre guerre passate) ad imporla, la pace. E magari intanto, che si sia credenti o anche atei, unirsi ai Russi e agli Ucraini che vivono già fra noi, per silenziosamente pregare insieme a loro.

 

[Yves KLEIN, Monochrome vert sans titre (M 75), vers 1955]

Francesco Iannone: il mestiere della cenere

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È uscita per peQuod la raccolta poetica Prima opera del gesto di Francesco Iannone. Ospito qui alcuni estratti dal libro, in anteprima.

 

***

 

Questo è il sangue, questa è la numerazione

la voce pacificata dei giorni

dopo il danno dopo

il nostro abbattimento.

 

Siamo qui perché è la legge

e io ci credo

come l’ultima folata

che rimette in cammino la fiamma

e così vivremo

reali in questo spargimento

saremo il lampo che solleva

la cenere dal mucchio

e ricompone il reperto in alto.

 

Tutto muore un’altra volta e si consegna

alla durata

c’è una guerra qui e ci si ama

come si potrebbe amare un posto

del prima, un glorioso luogo

della gioia

c’è una guerra qui e la goccia che cade

fa tremare la tua ombra nella pozza.

 

Il nuovo mondo assomiglia al nome

che non si staccherà mai più dalla sorgente

come un codice inciso sullo stemma

chiama il suo significato dal fondo

mai più, mai più

le poesie, le foglie se cadono

coprono il disastro, tolgono

peso alle rovine.

 

Questo è il campo, qui è feconda

ogni mutilazione

ci salveremo allargando lo scavo

restituiremo il frammento all’intero

luce dopo luce fino al gesto,

al dettaglio, al panorama.

 

Fammi abitare ogni lettera del tuo nome

la mia voce cavalcherà ogni sillaba

in essenza

come l’impavido fantino cavalca

il puledro più spericolato

 

è perché ti amo che ogni interstizio

è la casa ampia del raggio, l’ultima

avventura del tramonto.

Ti chiamerò da una sperduta

isola di me

ti racconterò laggiù come si vive.

 

*

 

Siano le mie tristezze le micce sulle fibre dell’incendio quando si attraversano gli anelli. Salto dopo salto, tutte le volte delle vampe. Gemere nel blocco è il mestiere della cenere e il nostro.

 

*

 

Siamo quell’attesa in alto della fame, la vitrea intonazione delle biglie che la terra ingoia nel suo festante oblio. Quell’eco sulle vele del racconto avanzerà nel nome di ciò che siamo stati, l’immagine rifluita nelle fughe, lo stacco della luce e le sue progeniture di bene, le cantine della preparazione.

 

*

 

Estrai i tuoi vocaboli nuovi dall’ossario. Esponili alla loro ovvia brillantezza, ai loro crampi di dolore. Con la voce appoggiata al filo spinato, col sole che ci inoltra le sue mille lame nel petto. Oggi siamo felici. I bambini fiatano nella bocca del mondo e fanno luce aprendo le mani. Non andartene più, e dalle ciglia ti volano semi d’oro, attese, tormenti.Tu dillo, e saremo. Con le fiamme fra i denti, saremo. L’ultimo grammo di ossigeno che si insinua in una frattura. Saremo noi stessi la frattura, lo sfogo del getto d’acqua, un’alluvione nella memoria. E saremo gentili nella lotta, radunando dolcemente cadaveri e fogliame.Vi prego, corpi di qui. Vi amo, corpi di qui. C’è dell’acqua sulle dune delle vostre pance gonfie. C’è un tremolìo di anelli, una radice trasparente, una nascita, il sangue.

 

*

 

Se torneremo a cucire l’orlo alla veste del mondo, se sapremo saltare la fune, fendere il sacco. Se i muti resteranno con i loro vocaboli dimenticati nel cesto. Gli angeli si toccano i genitali nel buio. Da qui si vede che erano umani e che nei loro corpi agivano maree. Si spaccano i petti a furia di tossire. Hanno le unghie piene di nero, i denti rotti a metà. La gioia è una belva con le rughe. E ora mostriamo al mondo le nostre teste calve. Vagiti. Nudità. Deragliamenti. Spostiamo vagoni di noi, avanziamo scrostando la ruggine sulle rotaie. Ammucchiamo le ossa sotto gli archi. I nomi soprattutto. Ha espulso il feto. Si è crogiolato nel suo rosso. La fine. È già stata qui mille volte.

Note sull’evoluzione del genere crime: ieri oggi… e domani?

5

di Bruno Morchio

È un fatto ben noto che chi non ha mai avuto successo

finisce per scrivere libri su come avere successo;

e non vedo perché il principio non si possa applicare

 al successo nello scrivere racconti gialli.

Gilbert Keith Chesterton

Premessa

In un pamphlet pubblicato nel 2018, Massimo Carlotto guarda alla pletora di romanzi gialli, polizieschi, noir e thriller (che riassume sotto l’etichetta crime) che ogni anno si pubblicano in Italia e lamenta un senso di saturazione, un’impressione di già letto, rilevando come “negli anni il genere abbia subito una modificazione e un netto sbilanciamento a tutto vantaggio dei personaggi, che sono diventati un valore  da coltivare e l’elemento sul quale impostare il rapporto con i lettori”, per poi aggiungere: “Io resto invece convinto che l’autore di noir non debba lavorare in prima battuta sui personaggi, ma sulle storie”. Per meglio chiarire il suo pensiero affronta il tema della serialità, rilevando che essa, “per come è concepita in Italia, va sempre più nella direzione del romanzo poliziesco e d’indagine, cercando deliberatamente una soluzione consolatoria”, dove “autori, editori, editor formano un mondo estremamente compatto, che persegue obiettivi comuni, prima di tutto di mercato. Io però credo”, aggiunge, “che per uno scrittore ci sia lo spazio e anche la necessità di rivedere il proprio ruolo e di decidere autonomamente di staccarsi e fare progetti differenti, cercando nuove strade”.
Dopo aver ricordato come la globalizzazione della finanza e del crimine abbiano determinato una labilità del confine tra economia legale e illegale, “influenzando le vite delle persone, in provincia come nelle metropoli, andando a toccare il loro quotidiano e la loro dimensione più intima”, propugna “un ritorno alle origini del noir”, un genere letterario che è nato in America negli anni Trenta per “esaminare i riflessi della crisi sui destini individuali”. Tale ritorno alle origini non può prescindere dalla lingua e dallo stile (…) invadendo territori ed esplorando livelli narrativi capaci di arrivare a coinvolgere e interessare anche persone che di fatto non amano il noir”; e “chiudere una volta per tutte col genere (…) rivendicando tutto ciò che si è stati, e quello che si è, ma spingendo concretamente il romanzo in un’altra direzione”. Come farlo? “La dimensione linguistica e quella letteraria devono essere i nuovi tramiti”.
Vorrei partire da queste osservazioni, che in gran parte condivido, per proporre alcune riflessioni sul tema.
Devo però fare una premessa, resa necessaria dopo avere discusso con due autori che allo studio della letteratura crime hanno dedicato anni di letture ampie e approfondite, due cari amici che ringrazio di cuore: Valerio Calzolaio e Luca Crovi. Il lettore è avvertito che la rassegna di titoli e scrittori che proporrò è, se non arbitraria, alquanto parziale ed è strettamente funzionale al ragionamento che mi preme sviluppare. Essa pecca anzitutto di centrismo euro-nordamericano, e trascura contributi significativi che vengono dal resto del mondo; ignora il vasto e fortunato filone del giallo storico, che vanta autori di ottimo livello; tralascia la disamina delle vicende editoriali, che costituiscono un aspetto decisivo nello sviluppo di ogni forma di letteratura; infine, anche entro i suddetti limiti, non vi compaiono nomi di grande rilievo che io per primo ho letto e amato, le cui opere frequento assiduamente e che hanno contribuito a formarmi come lettore e autore di genere. Prima che questi grandi assenti diventino convitati di pietra, dirò che sono talmente numerosi da farmi propendere per una soluzione drastica: con loro me la vedrò personalmente, porgendo in privato le mie scuse o brindando alla loro memoria.
Comincerei dunque col rilevare che nel crime abbiamo assistito a un prevalere non solo dei personaggi, ma anche di ambientazioni e luoghi geografici che spesso la fanno da coprotagonisti. Specialmente in Italia il genere si caratterizza per una spiccata enfatizzazione del paesaggio − metropolitano o provinciale − rappresentato non solo attraverso i luoghi, ma anche le tradizioni, la cucina e in parte la lingua. Questo aspetto si giustifica con la marcata specificità delle nostre realtà regionali e, quando muove dall’interesse per le ricadute dei processi globali sulla concreta realtà di vita delle persone (in proposito si parla di glocal), evitando le trappole della nota di colore e della stucchevole cartolina turistica, apre a sviluppi interessanti.
Carlotto sostiene che occorre chiudere col genere e tornare alle origini: apparentemente suona come un ossimoro, ma in realtà non è così.
Per chiarire dobbiamo partire da un sommario esame storico. Quali sono state le rivoluzioni che il genere crime ha conosciuto nel corso del suo sviluppo? Quando parlo di rivoluzioni intendo le trasformazioni formali che attengono alla struttura narrativa dei romanzi e dei racconti, che ri-orientano le aspettative, i gusti e gli interessi dei lettori.
Dopo la stagione del giallo classico, che da Poe passa per Conan Doyle, Agatha Christie e arriva fino a Van Dyne (e peraltro è largamente praticato anche ai giorni nostri),  dove il lettore è catturato da una sorta di gioco enigmistico e chiamato a competere col narratore per rispondere al quesito: chi è l’assassino?, la prima grande svolta avviene negli anni Trenta in America con l’hard-boiled (genere creato dagli autori riuniti intorno alla rivista Black Mask) e in Europa con Georges Simenon.
Tuttavia, a partire dai primi decenni del Novecento, va segnalato un significativo “scarto” a opera dello scrittore britannico Gilbert Keith Chesterton. Già Antonio Gramsci nei Quaderni del carcere (XV) rilevava che “Dostoevskij stava a Sue e Soulié come, nel romanzo poliziesco, Chesterton sta a Conan Doyle e Wallace”. Muovendosi nell’ambito del giallo classico, Chesterton ne smonta teoricamente i meccanismi con una lucidità sorprendente (si veda la raccolta Come si scrive un romanzo giallo, edita da Sellerio nel 2002), sottolinea l’elemento morale come cardine strutturale del genere e con i racconti di padre Brown si concentra su tale specificità per contestare il manicheismo di stampo protestante che costituisce la cornice ideologica del racconto crime delle origini (“Voi perdonate i criminali quando commettono qualcosa che non considerate veramente un delitto. (…). Voi perdonate perché non c’è nulla da perdonare”). Anticipando gli sviluppi futuri del noir, è il primo a riconoscere le storture della società reclamando “l’innocenza del delinquente”, col quale il piccolo prete cattolico si identifica non con lo spirito del profiler, ma empaticamente, perché “nessun uomo può essere veramente buono finché non conosce la propria malvagità”.

 

  1. L’hard-boiled americano e Georges Simenon

È una rivoluzione caratterizzata dall’irrompere nella letteratura di una nuova complessità, sociale e psicologica, che segna un nuovo rapporto tra fiction e realtà. La scrittura si assume il fardello di raccontare il crimine nelle sue profonde connessioni con la realtà della società di massa, indagando le motivazioni complesse che inducono gli individui e i gruppi sociali a delinquere. La disamina narrativa del perché è accaduto diventa centrale nell’indagine, la stella polare che consente di individuare il colpevole, e guida le ricerche di Spade e Marlowe (a scapito del dove, quando e come si è consumato il crimine, prevalenti nel giallo classico). Nei romanzi “duri” di Simenon, (e successivamente in Mâlet, Dard e Manchette) il compito di indagare viene assunto direttamente dal narratore, che rovescia l’intreccio poliziesco classico: non si parte dal rinvenimento di un cadavere, col detective chiamato a ricostruire a ritroso la genesi dell’omicidio, ma è  la stessa voce narrante che, con chirurgica precisione, racconta le tappe che portano il protagonista a commettere un crimine, rivelandone la profonda consonanza con i meccanismi economici, culturali e valoriali dell’organizzazione sociale. A poco a poco si fa strada l’idea che il delitto non costituisca uno strappo nel tessuto sano della società − strappo che il detective, eroe senza macchia e senza paura, è chiamato a ricomporre − ma che criminogena sia la società stessa. Questo esito introduce una possibile faglia nell’identificazione di verità e giustizia: scoprire la verità non necessariamente implica ristabilire  la giustizia, il che frustra l’aspettativa consolatoria dell’happy end, ma soprattutto comporta il rischio di mettere in crisi la struttura stessa del racconto crime. Questo aspetto è esplicito in Simenon e resta più sfumato nell’hard-boiled, dove il detective è la personificazione di un senso pragmatico e inflessibile di giustizia; ma anche nei romanzi di Hammett e Chandler la preoccupazione per le persone in carne e ossa prevale su quella per la società: basti pensare al finale de Il lungo addio, dove il divorzio tra una morale “legalitaria” e una eticità superiore, intrisa di umanità (la laica “legge degli dei” rivendicata da Antigone), è definitivo. Questa è una delle caratteristiche che, secondo Manchette,  distingue il noir (polar) dal poliziesco (policier). Al grande scrittore francese dobbiamo gran parte delle riflessioni sulla svolta formale rappresentata dall’hard-boiled americano (i suoi articoli, pubblicati negli anni Settanta e Ottanta, sono raccolti nel prezioso volume Le ombre inquiete, 1996).
Il riferimento alla conclusione de Il lungo addio ci porta alla seconda, grande svolta prodotta dall’hard-boiled rispetto al giallo classico: alla base c’è un cambiamento del paradigma scientifico nel rapporto tra l’osservatore e il campo di osservazione. Nel giallo il detective (l’osservatore) è distaccato e non si coinvolge nell’indagine (campo di osservazione); la scena del crimine non deve essere contaminata e chiuderla con il nastro giallo è un dispositivo rassicurante che isola il male in essa contenuto, reificando la morte ed esorcizzando l’angoscia ad essa associata. Per inciso, questa è probabilmente una delle ragioni della fortuna del giallo nella letteratura, nel cinema e nella televisione: esso infatti funziona come un ansiolitico e non a caso la sua diffusione va di pari passo con quella delle benzodiazepine in campo farmaceutico. Al contrario, da Hammett e Chandler in poi il detective si coinvolge profondamente nell’indagine, si sporca le mani (e viene malmenato), si lega visceralmente alle persone implicate nella vicenda criminale. Perciò possiamo affermare che, così facendo, il noir riscopre la dimensione tragica del primo crime della storia della letteratura occidentale, quello in cui il detective-enigmista alla fine dell’indagine scopre di essere l’assassino: l’Edipo re di Sofocle.

 

  1. James Cain e John Steinbeck

Tra gli anni Trenta e Quaranta anche negli Stati Uniti troviamo alcuni romanzi che percorrono la strada intrapresa da Simenon nei suoi romanzi “duri”, dove è il narratore stesso a raccontare, in prima o terza persona, il punto di vista dell’assassino e il percorso “ineluttabile” che conduce al delitto;  si tratta di capolavori della letteratura i cui autori si chiamano William Faulkner (L’urlo e il furore, 1929 e Luce d’agosto, 1932), James Cain (Il postino suona sempre due volte, 1934 e Double indemnity, 1936) e John Steinbeck (Uomini e topi, 1938): anche qui il crimine viene raccontato nella sua genesi e l’attenzione  si appunta sull’idea della condizione sociale come destino, al quale va ascritto l’esito tragico della vita e il male che ne mina le fondamenta.
Come si evince da queste note, la prima grande rivoluzione del genere muove su due punti di forza: la struttura narrativa e la qualità letteraria, autoriale. Possiamo azzardare che questo varrà anche per le tappe successive, perché le grandi trasformazioni letterarie sono sempre opera di scrittori di alto livello.

 

  1. Friedrich Dürrenmatt

 Gli autori fin qui citati pubblicano per un lungo arco di tempo che, per alcuni, si protrae fino agli ultimi decenni del Novecento, ma intorno alla metà del secolo interverrà una nuova svolta ad opera del drammaturgo svizzero Friedrich Dürrenmatt. La sua incursione nel genere è circoscritta a pochi lavori (Il giudice e il suo boia, 1952, Il sospetto, 1953, La promessa, 1958), sufficienti a mettere in predicato uno dei fondamenti strutturali del romanzo crime: l’assioma che tout se tient. Quante volte abbiamo sentito i detective di carta affermare di non credere alle coincidenze; e con ragione, perché il congegno narrativo poliziesco si basa proprio sull’organicità degli indizi, senza la quale il meccanismo dell’indagine si incepperebbe. Ebbene, Dürrenmatt smentisce questo postulato, sostenendo che la vita reale è governata dal caso: è la fortuna che presiede ai destini umani. L’accurata costruzione di una rete chiusa di eventi fittizi nella trama di un romanzo non costituisce un valido specchio del reale ed è una costruzione intellettuale debole. La vita è dominata dal caos e la pretesa di sistematizzarla narrativamente è illusoria. Così, la promessa del commissario Matthäi di trovare l’assassino della piccola Gritli, solennemente fatta ai genitori distrutti dal dolore, viene invalidata non da un piano umano, ma dalla circostanza fortuita che sottrarrà l’orco alla trappola pazientemente (e cinicamente) ordita dal detective in seguito a un “banale” incidente automobilistico. L’esito provocherà la follia di Matthäi, uno dei migliori investigatori del Cantone, messo a confronto con il crollo catastrofico di ogni certezza. In Dürrenmatt trova originale conferma e approfondimento anche l’idea della aleatorietà della giustizia dei tribunali e della netta distinzione tra ciò che è legale e ciò che è giusto (Le panne. Una storia ancora possibile, 1956).

 

  1. Il romanzo-verità di Truman Capote e la spy story di John Le Carré

Una menzione particolare merita un autore americano che ha scritto un solo romanzo ascrivibile al genere noir: Truman Capote. Il suo A sangue freddo (1966), resoconto redatto con apparente taglio cronachistico, è in realtà un’opera narrativamente potentissima; oltre che inaugurare il cosiddetto romanzo-verità, il testo di Capote rovescia radicalmente la prospettiva del giallo: qui i veri protagonisti, le figure verso cui il lettore sviluppa forti sentimenti di empatia, sono due sgangherati delinquentelli di provincia realmente esistiti. In particolare uno di loro, il meticcio Perry Smith, assurge a una dimensione che potremmo definire mitica. Il rilievo è importante per quanto vedremo in seguito.
Oltre trent’anni dopo, il francese Emmanuel Carrère ripeterà l’esperimento di Capote con  il romanzo L’antagonista (2000), che esplora  le oscure motivazioni del protagonista di un clamoroso caso di cronaca nera, Jean-Claude Romand, uomo “normale e tranquillo” che nel ’93 massacrò la moglie, i figli e successivamente i propri genitori, tentando infine di suicidarsi senza riuscirci.
Un contributo alla svolta dal poliziesco al noir viene dai romanzi del britannico John Le Carré, ambientati durante la guerra fredda e dopo la caduta del Muro di Berlino. Sulla scia del connazionale Graham Greene, l’autore scrive formidabili spy story a cui si applica rigorosamente la formula propugnata da Manchette: importanti sono le persone e non la società, l’attenzione va appuntata sulle sofferenze degli esseri umani, il cui destino viene cinicamente giocato da  una entità astratta (la ragion di Stato) sullo scacchiere degli interessi geopolitici.

 

  1. Il crime italiano e Giorgio Scerbanenco

Come è noto, nel periodo fra le due guerre il poliziesco ha incontrato in Italia una forte avversione da parte del fascismo; nel paese “bonificato” dal regime le storie criminali venivano puntualmente censurate, costringendo gli autori a pubblicarle usando pseudonimi stranieri  e ambientandole all’estero. Il primo, coraggioso autore che ha raccontato inchieste di polizia ambientate a Milano è stato Augusto De Angelis, il creatore del commissario De Vincenzi; antifascista, subì il carcere e morì a Como nel ’44 a seguito di un pestaggio subito da un repubblichino. Un forte impulso alla diffusione del poliziesco è venuto dalla collana del giallo Mondadori,  inaugurata nel 1929, ma dopo gli straordinari romanzi di Leonardo Sciascia che portano all’attenzione del pubblico la questione mafiosa (Il giorno della civetta, 1961 e A ciascuno il suo, 1966) e dopo “la Ditta” Fruttero & Lucentini che, a partire da La donna della domenica (1973), ci hanno regalato una serie di mirabili gialli ricchi di ironia e caratterizzati da una scrittura colta e raffinata, l’affermazione del crime di ambientazione italiana conoscerà un vero e proprio boom solo a partire dalla fine degli anni Ottanta, a opera della scuola bolognese e, successivamente, di Andrea Camilleri.
Tuttavia in Italia la svolta dal poliziesco al noir risale al 1966 grazie a un autore italo-ucraino, Giorgio Scerbanenco, che pubblica Venere privata, il primo di quattro romanzi che hanno per protagonista l’outsider Duca Lamberti, medico radiato dall’Ordine per avere praticato un’eutanasia, che indaga sotto la protezione del capo della Mobile milanese. Con Scerbanenco si affaccia sulla scena il crimine organizzato, che nella Milano del boom economico trova terreno fertile per implementare il business delle bische clandestine, della prostituzione, del traffico di armi, droga ed esseri umani; nei suoi romanzi ricorre come un’ossessione il tema del corpo femminile, privilegiato dagli affari criminali in quanto oggetto del desiderio e del consumo di massa, insieme a una lucida disamina delle condizioni di degrado delle periferie urbane e della gioventù marginale che le abita (I ragazzi del massacro, 1968).
Dopo Scerbanenco, nel contesto della fioritura del noir italiano di fine secolo, un formidabile esempio di romanzo-verità, che ricostruisce gli intrecci tra malavita, mafia e servizi segreti negli anni Settanta, è costituito da Romanzo criminale (2002) del magistrato pugliese Giancarlo De Cataldo, che racconta con un linguaggio crudo e innovativo la sanguinosa parabola  della banda della Magliana. A distanza di quattro anni uscirà un secondo, straordinario (e fortunato) esempio di romanzo-verità sulla camorra casalese: Gomorra del napoletano Roberto Saviano.

 

  1. Il thriller nordico

Mentre tra la metà degli anni Ottanta e gli anni Duemila negli Stati Uniti si sviluppano interessanti filoni di successo quali il legal thriller (John Grisham) e il procedural thriller (Michael Connelly), che affrontano alcuni grandi interrogativi intorno ai meccanismi della giustizia americana, e in Inghilterra nasce il noir britannico con la cruda serie della Factory di Derek Raymond, un significativo capitolo innovativo del genere vede protagonista il Nordeuropa, a partire dai romanzi degli svedesi Maj Siöwall e Per Walöö e del loro connazionale Henning Mankell (in proposito si parla di “inquietudine svedese”), seguiti da un’ampia schiera di autori scandinavi di grande fortuna  e variabile valore (Nesbǿ, Marklund, Adler-Olsen, Lackberg, Äsa e Stieg Larsson). A mio modesto avviso la grande novità introdotta dal thriller nordico ha a che fare con quello che Freud chiamava das Unheimliche, il perturbante, determinato dallo stridente contrasto tra la caccia a killer seriali che commettono le peggiori nefandezze e i paesaggi innevati e confortanti del paese di Babbo Natale; tale inquietante accostamento si accompagna a una grande attenzione alle procedure investigative, che rendono conto della difficoltà di far avanzare un’indagine di polizia. Così, le grandi plaghe gelide del Nord, immerse nella lunga notte invernale, diventano lo sfondo di vicende criminali in cui il movente è un male oscuro e orrorifico. Per molti aspetti assistiamo a una riedizione dei meccanismi del giallo classico, anche se nei primi autori citati l’esplorazione narrativa della crisi del welfare scandinavo e della corruzione delle istituzioni statali risulta esplorata nei dettagli.
Vale la pena ricordare che il thriller nordico conta fortunati imitatori in tutto il mondo e gode di un successo straordinario nel cinema e nelle serie televisive.

 

  1. Il noir mediterraneo: Manuel Vázquez Montalbán e Jean-Claude Izzo

A conclusione di questo excursus ho lasciato l’estrema e più significativa rivoluzione nella letteratura crime, che risale agli anni Settanta, e precisamente al romanzo Tatuaggio (1974) dello scrittore catalano Manuel Vázquez Montalbán.
Barcellonese, militante del partito comunista spagnolo che durante la dittatura franchista subì la persecuzione e il carcere, Montalbán racconta con uno sguardo disincantato la Spagna democratica e post-fascista, i processi di globalizzazione dell’economia finanziaria e del crimine organizzato e la progressiva commistione tra l’una e l’altro.
Il suo protagonista, il detective privato Pepe Carvalho, conduce indagini dall’esito amaro che non risultano affatto consolatorie.
Per cogliere l’importanza dell’operazione compiuta da “Manolo” sulla struttura del genere si legga Gli uccelli di Bangkok, dove l’investigatore (e la narrazione) compie un doppio salto mortale: il detective prima cerca disperatamente un cliente che lo assuma per indagare sull’omicidio di una donna tanto bella quanto indifferente alle persone che le sono state vicine e, non trovandolo, si accinge a farlo per proprio conto ma, quando scopre l’identità dell’assassina, fa il possibile per impedirle di confessare, fino a incorrere in una grottesca provocazione sessuale, alquanto scorretta politicamente, ma pur sempre meno oscena di quanto risulterebbe il tragico referto della verità.
L’ironica narrazione di Montalbán compone una raffinata  parodia del giallo, nutrita di un alto tasso di letterarietà, che non manca di pagine amare, provocatorie o venate d’una oscura malinconia; non solo mette in ridicolo l’idea d’un rapporto tra verità e giustizia (basti pensare agli equivoci su cui sono imperniate le trame  de I mari del sud, 1979 e Il centravanti è stato assassinato verso sera, 1988), ma fa a pezzi la fungibilità della stessa verità (diegetica, storica, etica) che sta alla base della struttura del genere.
L’opera dello scrittore catalano dà il via a un  filone disomogeneo ma anche ricco di autori interessanti, il noir mediterraneo, i cui tratti comuni sono l’ambientazione legata al mare nostrum e l’impegno sociale e politico, che si dà, tra gli altri, l’obiettivo di riempire con la fiction il vuoto lasciato dalla crisi del giornalismo di inchiesta. Tra i molti scrittori che appartengono a questa schiera (Carlotto, Camilleri, Piazzese, Markaris, Khadra, Heinichen e molti altri, tra cui il sottoscritto) un posto preminente spetta al marsigliese Jean-Claude Izzo che introduce nella scrittura noir una lingua intrisa di poesia, un’alta tensione lirica e una visione tragica dell’esistenza umana, che lo riconnette alla lezione americana di Cain e Steinbeck. Nella sua trilogia marsigliese l’antagonista è la mafia, organizzazione transnazionale infiltrata nel tessuto economico e sociale, e la impari missione dell’investigatore, l’ex poliziotto Fabio Montale, è smascherarne gli affari e contrastarne i disegni criminosi; la pagina si connota per un approccio viscerale, carico di pathos, alle vicende di personaggi marginalizzati, espressione di una umanità dolente,  che conducono una battaglia senza speranza contro un mondo corrotto in ogni aspetto della vita sociale. In Izzo lo spartiacque tra bene e male è netto, assoluto, e questo tratto lo apparenta strettamente alle origini del crime americano degli anni Trenta.
Di frequente nel noir mediterraneo troviamo autori che all’angoscia conseguente all’incombere della morte e della sopraffazione e all’impotenza di coloro che le contrastano oppongono alcuni motivi che sono diventati veri e propri topoi letterari, enfatizzando tutto ciò che lega gli esseri umani alla vita, in particolare gli appetiti e gli affetti. Così, insieme a un coinvolgimento struggente nel doloroso destino dei personaggi, troviamo un’attenzione speciale rivolta alla bellezza del paesaggio (“Di fronte al mare la felicità è un’idea semplice” scrive Izzo), al sesso agli alcolici e alla cucina.

 

  1. Lo stato dell’arte, oggi, in Italia

 Possiamo ora tornare alle questioni sollevate nella premessa. La domanda da cui partirei è la seguente: alla luce di quanto fin qui illustrato, perché mai un investigatore che voglia essere verosimile dovrebbe rischiare la pelle per giungere a una verità che non solo non farà giustizia, ma non sarà neppure socialmente “spendibile” né forse eticamente sopportabile?
La risposta più ovvia è: per un vincolo formale, intrinseco ai codici della letteratura di genere: perché senza indagine non ci sarebbe racconto.
Si parva licet, provo ad articolare meglio il ragionamento, rifacendomi ai miei ultimi romanzi, nei quali il protagonista scopre una verità che non potrà comunicare alla sua giovane cliente (Voci nel silenzio, 2020), oppure fa il possibile per eludere una ricostruzione dei fatti che gli risulta troppo dolorosa (Nel tempo sbagliato, 2021), o, ancora, è costretto dalla sua condizione di indigenza a scendere a compromessi al ribasso con la propria coscienza (La fine è ignota, in corso di stampa)[i]. Dunque non solo il detective non sa cosa fare della verità che ha scoperto, ma addirittura se ne tiene lontano e cerca di eluderla per debolezza o per necessità di sopravvivenza.
Manchette definiva il noir l’ultima forma di letteratura morale del Novecento.  Se l’investigatore, per qualunque ragione,  rinuncia a incarnare il ruolo dell’eroe positivo e scende a compromessi con l’antagonista, non solo rovina la propria reputazione, ma viene meno al suo ruolo funzionale e mette in crisi la struttura compositiva del romanzo di genere (qualcuno ricorda Vladimir Propp e la sua La morfologia della fiaba?).
Perciò ha ragione Carlotto quando afferma che la dimensione letteraria costituisce il tramite per innovare il genere: si tratta infatti di lavorare sui paradossi, sulle faglie della struttura narrativa, di insinuarsi nelle contraddizioni formali del genere, contravvenendo ai canoni che  lo fondano, e così di aprire nuove possibilità di racconto.
Qual è il ruolo della letteratura? Trasformare l’esperienza in narrazione, emozionare e raggiungere gli affetti più profondi del lettore (anche quelli distonici e sgradevoli, poiché la conoscenza letteraria passa anche attraverso le emozioni) avvalendosi della lingua e dello stile. Un limite del romanzo giallo, che in passato ha contribuito a relegarlo in una sorta di serie B, è la sua marcata valenza di intrattenimento; dall’hard-boiled  in poi a tale caratteristica − che pure resta necessaria per qualunque forma espressiva che si proponga di raggiungere un vasto pubblico − si affianca una funzione conoscitiva e la letteratura diventa strumento di esplorazione della realtà. Così la ricerca della verità (l’indagine) conserva un senso non per rassicurare o consolare il lettore, ma perché scavare nelle motivazioni individuali e collettive che inducono al crimine conferisce un significato alla vita e alla morte, attribuisce agli atti delle vittime e perfino degli assassini (come accade in A sangue freddo di Capote) una dimensione di “destino”, li sottrae alla irrilevanza della casualità, trasforma il nudo evento in racconto e lo riscatta conferendogli una dimensione “mitica” (ritorna la lezione degli autori americani, in particolare Steinbeck e Cain).
Come ci ricorda Philip Roth ne La macchia umana, la letteratura occidentale comincia con una banale lite da bar fra due smargiassi che si contendono le grazie di una schiava. Quello che al visitatore illetterato si presenta come un casuale ammasso di pietre, per chi ha letto L’Iliade diventa un luogo magico, ricco di suggestione, chiamato Troia. Questo vale per i luoghi come per la vita (e la morte) delle persone.  Il detective, e con lui l’autore e il lettore, diventano i depositari di una ardua e impegnativa missione: trasformare il vissuto in mito (del resto, mitopoiesi è sinonimo di letteratura e storicamente la letteratura deriva dal mito, racconto archetipico di eventi che non sono mai accaduti ma che continuamente si ripropongono nell’esperienza umana).
Il compito di lavorare sui paradossi insiti nelle pieghe strutturali del genere comporta per lo scrittore da un lato un uso massivo delle “reti a strascico”, per catturare nel vivo della narrazione la ricchezza e la complessità dei mutamenti sociali, morali, psicologici ed esistenziali indotti dai processi di globalizzazione, e la necessità di farlo non in modo didascalico, ma trasformando l’esplorazione del reale in materia narrativa, sfruttando tutti gli artifici formali a disposizione, dal climax all’agnizione, dal flashback al colpo di scena; dall’altro lo sforzo di affinare la propria sensibilità rispetto alle strutture formali e linguistiche del genere.

 

  1. Scorribanda fuori dal genere e considerazioni sul soggetto criminale

Dopo avere ripercorso le tappe dell’evoluzione della letteratura crime, soffermiamoci brevemente a esaminare alcuni romanzi che costituiscono delle “incursioni” nel genere da parte di grandi scrittori che non appartengono all’universo del noir.
Fra i molti possibili ne cito tre che tornano utili alla mia riflessione:  Lo straniero di Albert Camus (1942), Tempo di uccidere di Ennio Flaiano (1947) e Una questione privata di Beppe Fenoglio (1963). Al di là della distanza che corre fra le poetiche degli autori, e considerato il fatto che quelli di Fenoglio e Flaiano sono romanzi di guerra, l’elemento che li accomuna è lo scacco, l’impossibilità di comprendere le ragioni profonde del delitto, la sua mancanza di senso. Osservati dall’interno, nella sfera intima in cui maturano, gli omicidi appaiono un atto gratuito, talvolta incidentale, talaltra intenzionale ma a prima vista immotivato o determinato da futili motivi, le cui ragioni profonde restano imperscrutabili e sfuggono al vaglio della razionalità. Per contro, le conseguenze sociali del delitto seguono percorsi lineari, inesorabili, che poco hanno a che fare con la realtà vissuta da chi lo ha commesso.
Un discorso a parte meritano la Cognizione del dolore (1963) e Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (1957) di Carlo Emilio Gadda, nei quali l’idea di Dürrenmatt che sia impossibile dare un ordine al caos del reale è espressa non solo nel vivo della narrazione, ma per via meta-letteraria, attraverso il dispositivo dell’incompiutezza. L’omicidio della madre di Gonzalo e l’inchiesta del commissario Ingravallo restano sospesi, senza scioglimento, a prova del fatto che di fronte al “groviglio, garbuglio o gnommero” della vita, poco può l’intelletto umano (per la Cognizione l’autore aveva scritto, e poi scartato, un finale terrificante – l’indicibile orrore − nel quale la madre morente credeva, sbagliando, che il suo assassino fosse il figlio).
Possiamo affermare che nella letteratura del Novecento l’incontro con il delitto solleva nell’individuo (nelle “persone in carne e ossa”, poste di fronte a se stesse e alla propria esistenza) sgomento, stupore e mette in scacco la ragione, mentre se rivolgiamo lo sguardo alla prospettiva sociale è tutto un altro paio di maniche.
Il tema è interessante perché questa è esattamente la problematica affrontata dai grandi autori crime. Per il crimine organizzato l’omicidio non è una “questione privata”, il killer prezzolato uccide su commissione e non ha niente di personale contro la sua vittima. È una faccenda di business, “normale amministrazione” legata ai meccanismi perversi del mercato. Al contrario, nel singolo individuo il delitto apre abissi di vuoto che diventano colpa, annichilimento e, in definitiva, destino tragico. Quando Frank e Cora, protagonisti del Postino di Cain, nel tentativo di appropriarsi di una nuova esistenza, compiono il passo fatale dell’omicidio, la loro sorte è segnata e l’epilogo non potrà che essere rovinoso.
Come si vede, “l’abbattimento di ogni confine di genere, sul piano strutturale e stilistico”, auspicato da Carlotto, non è poi così estraneo al patrimonio letterario che abbiamo ereditato dal secolo scorso.
Siccome l’esplorazione della complessità del “movente” (sociale e individuale) è una delle ricchezze della letteratura noir, vale la pena di esaminare la questione della “caratura” del personaggio che delinque. Scrive Carlotto: “il problema dei criminali, in genere, è che non hanno spessore letterario. Farli diventare dei personaggi letterari non è mai facile”. Basta citare le emblematiche figure dostoevskiane di  Rogožin e Smerdjakov, per ricordarsi che gli assassini non brillano per autoconsapevolezza, complessità psicologica e intelligenza. Nella realtà (dalla quale il noir non può prescindere) il delinquente-tipo è un essere semplice mosso da motivazioni semplici, spesso dettate dalla necessità di sopravvivere, un marginale la cui condizione sociale è di per sé una condanna che lo determina in forma coattiva.
Anche se il crimine organizzato, che agisce come una multinazionale su scala globale, si avvale di cervelli che hanno studiato nelle migliori università del mondo, chi lavora ai piani alti non si sporca le mani e opera in un universo parallelo in cui non si esercita la violenza e non si uccide; in linea generale chi ammazza, su commissione o per contingenze della vita, non è un genio. Crudeltà e determinazione non costituiscono di per sé forme di intelligenza, anche se possono diventare efficaci funzioni socio-biologiche di adattamento. Scavare nel movente significa dunque per un verso esplorare le esistenze e le psicologie semplici che vengono maciullate dal tritacarne della storia (penso al Perry Smith di Capote) e dall’altro la complessità sociale, i meccanismi raffinati di ricatto ed estorsione che procacciano ingenti guadagni illeciti e li trasformano in capitale legale da investire sul mercato.
La questione dello “status” di chi delinque è rilevante anche perché introduce l’ultimo tema che intendo affrontare, la materia di cui sono fatti i romanzi: la scrittura, che resta il terreno fondamentale su cui si misura qualunque innovazione del genere.
Qual è la lingua del criminale? E quale può essere la lingua della narrazione criminale?

 

  1. La lingua e lo stile

Va da sé che, se lo sviluppo della struttura del romanzo crime qui illustrato non è che una delle molte letture possibili, quando ci addentriamo sul terreno della scrittura la cifra personale del singolo autore diventa una variabile del tutto personale e idiosincrasica: l’espressività linguistica è manifestazione d’una libertà che si sottrae a precetti, programmi e teorizzazioni che non siano ex post. Sulla scorta delle scoperte di Freud e Lacan, il grande linguista austriaco Leo Spitzer sosteneva che ogni stile rivela una patologia, ogni scarto da morfologia, sintassi e lessico d’uso comune corrisponde a un’ossessione e un conflitto che hanno a che fare con la storia, la vita e l’inconscio dell’autore.
Tuttavia, per la letteratura crime non è mancata, a partire dall’esame delle opere dei maestri americani degli anni Venti e Trenta, una sorta di precettistica che trova nella scrittura di grado zero, denotativa e tendenzialmente “behavioristica” teorizzata da Manchette, l’esempio più significativo. Secondo Manchette “il famigerato stile behaviorista è lo stile della diffidenza e della quieta disperazione” e “la scrittura, per diffidenza e disperazione, è sistematicamente depurata di qualunque infiorettatura o figura retorica, da qualsiasi poetica traslitterazione di senso, fino a diventare il contrario di un’opera d’arte, un osso umano: «Spinsi la porta ed entrai. Il rumore dell’acqua veniva dal lavandino. Guardai nel lavandino» (Le ombre inquiete, 1996)”. Con tutta evidenza, si tratta della dichiarazione di una poetica.
Questa impostazione, a mio parere discutibile, viene sempre più frequentemente smentita dalle opere che oggi si pubblicano in Italia e nel mondo. Quanti romanzi e commedie noir si nutrono d’una scrittura pirotecnica, incalzante e spesso infarcita di ardite figure retoriche! (Per restare in Italia, si pensi ad Andrea G. Pinketts, a Flavio Soriga e alla ligure Valeria Corciolani).
Ma non è solo questo: in molti casi l’intento degli autori è quello, genericamente naturalistico, di dare voce alla lingua dei personaggi con una scrittura che mimi l’idioma parlato dai criminali; inoltre, spesso è la stessa voce narrante che assume l’accento proprio di una data parlata regionale e ne permea la scrittura dell’intero romanzo.
D’altra parte, il riconoscimento che le lingue regionali costituiscano un valore e una ricchezza, non solo sul piano storico e comunicativo, ma anche espressivo e letterario, non è certo acquisizione di oggi, né della letteratura di genere. Per restare al Novecento italiano, da Gadda a Pasolini, da Testori a De Filippo, da Andrea Zanzotto a Dario Fo il dialetto, variamente manipolato, ha costituito una presenza significativa nella letteratura e nel teatro, per tacere della sua presenza decisiva nel cinema e nella televisione.
Delle marcate specificità regionali della nostra lingua abbiamo detto. Tale variegato panorama si riflette nella letteratura crime in diverse forme e misure: dal siciliano letterario e artificiale di Camilleri al pot-pourri  meridionale “sognato” da Andrej Longo (Lu campo di girasoli, 2011),  dalla patina napoletana della scrittura di De Giovanni al romanesco di De Cataldo e Manzini, fino all’utilizzo, sia pure parziale, di una trascrizione letterale del dialetto genovese nel romanzo La mossa del cavallo (1999) di Andrea Camilleri (operazione ostica, quest’ultima, in quanto le parlate dell’area nord-occidentale del Paese − il ligure, il piemontese e il lombardo – sono davvero lingue “altre”, al contrario di quelle centro-meridionali, più accessibili al lettore medio italiano).
Ma non si tratta solo del ricorso alle parlate regionali: il nostro mondo globalizzato si caratterizza per la babele delle lingue parlate sui territori, specie nelle periferie, che costituiscono luoghi privilegiati delle narrazioni crime. Qui assistiamo talora alla messa in scena di personaggi che si esprimono come la Mami di Via col vento, dove l’autore fornisce una approssimativa mimesi dell’italiano idiomatico di certe categorie di stranieri (gli immigrati dell’Europa orientale, i latinos, gli arabi, i  neri africani). Al netto del rischio politico dell’operazione, potrebbe essere un terreno promettente, dove varrebbe la pena individuare e valorizzare le differenze, perché quando si cimentano con l’italiano un tunisino, un ecuadoriano e un bosniaco parlano lingue diverse tra loro; ma la condizione necessaria è che esse “vengano prese sul serio” e si espunga dall’uso di queste neo-lingue la connotazione comica e spregiativa, retaggio d’una mentalità provinciale e coloniale, riconoscendole per quello che rappresentano davvero: la voce d’una condizione di emarginazione e il faticoso sforzo per integrarsi in un contesto culturale nuovo e spesso respingente.
Lo stesso vale per certe parlate dialettali: penso alla difficoltà di sottrarsi alla connotazione comica per il genovese identificato con l’accento del Gabibbo televisivo.[ii]
Tutto da studiare è anche il gergo, soprattutto giovanile, con cui si sono misurati molti autori in Europa e negli Stati Uniti (Irvine Welsh, George Pelecanos e Edward Bunker), altra formidabile fonte di materiale linguistico che ci racconta la condizione di marginalità delle nuove generazioni[iii].
Va da sé che tale operazione non può essere frutto d’una trascrizione pedissequa del parlato, ma richiede una sofisticata mediazione letteraria. Nei romanzi i dialoghi che appaiono più naturali e spontanei sono sempre frutto d’un accurato lavoro di editing, “asciugati”, distillati e piegati ai ferrei vincoli della comunicazione letteraria; a maggior ragione l’introduzione di parlate periferiche e talvolta di lingue straniere richiede una difficile operazione che le trasformi in scrittura letteraria.
La scrittura può così diventare il crogiolo dove questa ricchezza comunicativa si trasforma e diventa stile. Riprendendo Spitzer,  lo scarto stilistico è sempre rivelatore di una patologia individuale, ma nel momento in cui esso viene colto e apprezzato dai lettori trova riscontro in una patologia sociale condivisa. Ciò che non ci tocca non può emozionarci. Se uno degli obiettivi della letteratura crime è “mordere” la realtà, rappresentare le lacerazioni degli esseri umani di fronte al lato oscuro dell’esistenza, tale operazione può realizzarsi a livelli più profondi, scavando nell’intimo dei personaggi e rappresentandoli non solo per come agiscono, ma anche per come pensano e parlano tra loro. Perché anche la lingua, come una rete a strascico, trattiene le scorie della storia: lavorare sulla forma è tutto ciò che uno scrittore può fare per rompere le cristallizzazioni, restituire al lettore prospettive inedite sulla realtà e intercettare i sommovimenti profondi dei gusti del pubblico.
Le realtà regionali, le peculiarità di classe ed etniche, le sacche di marginalità possono favorire lo sviluppo di poetiche complesse e innovative. Questo non le condannerà a essere colonizzate (come è accaduto con la parlata della Mami), ma al contrario potrà conferire loro la dignità di lingua del mito.
Insomma, si tratta di sperimentare, anche con la scrittura, e questo implica rompere le barriere e le gabbie del genere. È un gioco senza regole: una lingua apparentemente semplificata nei dialoghi può essere altamente raffinata e letteraria nella “gestione del discorso” e, in barba alla mimesi, può anche esibire una paradossale scollatura tra la scrittura e la storia, tra lo status dei personaggi e la loro voce.  La commedia nera, il riso acre della disillusione e il disprezzo per le brutture della società (penso al fiorentino Francesco Recami) potrebbero ribaltare “carnevalescamente” anche gli statuti linguistici e così mettere in scena in modo efficace il lato grottesco della vita (Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, 1965).

Genova, 18 aprile 2022

 

[i] In Voci nel silenzio (Garzanti 2020) l’investigatore genovese Bacci Pagano, in pieno lockdown da pandemia, riceve una lettera che gli viene recapitata da Lara, la giovane figlia di Beppe Bortoli, un ex brigatista che vent’anni prima il detective aveva contribuito a far assolvere dall’accusa di omicidio. Poco prima di morire per Covid 19, Bortoli ha affidato la lettera in busta chiusa alla figlia con la consegna di non aprirla e farla pervenire a Pagano. Lara, che venera suo padre, ritenendolo un eroe che si è mantenuto fedele agli ideali del comunismo, ubbidisce e chiede al detective, nei limiti delle consegne impartite da suo padre, di tenerla informata. Nella lettera l’ex brigatista assegna a Pagano l’incarico di indagare sulla fine della propria compagna, Marina Tanzi, la madre di Lara, trovata morta in una pensione di Nuoro quando la figlia aveva solo due anni. Marina era ammalata di cancro e soffriva di una seria depressione e la morte fu attribuita a una improvvisa crisi respiratoria. Pagano si domanda come mai Bortoli non gli  avesse parlato di  lei durante il primo incarico del ’98. Nel corso dell’indagine, condotta senza uscire di casa, l’investigatore scoprirà di avere conosciuto Marina nel lontano 1982, nei mesi in cui aveva lavorato in una piantagione di canna da zucchero a Cuba. A poco a poco ricorderà anche di avere avuto una breve ma intensa relazione con lei e lo riferirà a Lara. Da quella lontana esperienza si dipana un filo complesso che porterà alla scoperta di una responsabilità (diretta o indiretta) di Bortoli nella morte di Marina, la quale aveva scoperto che lui non era affatto il rivoluzionario “duro e puro” che millantava di essere, ma un doppiogiochista al soldo dei servizi segreti.
Questa è la verità a cui approda il detective, che si ritrova così impegolato nel dilemma se comunicarla o meno a Lara, in un contesto oltremodo ambiguo dove non è chiaro quale sia il mandato e chi il cliente (un morto che gli ha impartito le consegne attraverso una lettera o una ragazza di vent’anni alla quale è sempre stata nascosta la verità?). Alla fine, pressato dagli amici e dalla sua nuova compagna, Pagano opterà per il silenzio, nella convinzione che non tocchi a lui distruggere il mito del padre che ha sorretto Lara in tutto il suo percorso di crescita.
Nel romanzo Nel tempo sbagliato (Garzanti 2021) siamo nel 1994, anno in cui Bacci Pagano si separa dalla moglie, gli viene impedito di vedere la figlia e trasloca di abitazione e ufficio. Il detective è angosciato e non vede alcun futuro né per sé (“Cosa ci farò io nel terzo millennio? Avrò ancora un posto − e la mia vita un senso − nell’universo?”) né per la sua città che ha ormai smarrito l’identità di polo industriale e operaio per avviarsi verso una problematica vocazione turistica, poco congeniale al carattere dei genovesi.
In questo stato d’animo è chiamato a ritrovare la moglie scomparsa di Carlo Pizarro, un cinquantenne di origini proletarie (come Pagano), arricchitosi grazie a spregiudicate speculazioni in borsa. La moglie Myra è una giovane ucraina che assomiglia come una goccia d’acqua alla cantante francese Sylvie Vartan, mito erotico dell’adolescenza sia del marito che del detective; per mantenersi agli studi ha fatto l’entraîneuse in un night club e ora è una brillante studiosa di letteratura latina con un dottorato di ricerca all’università. A dispetto di ogni cliché, il detective scopre che Myra, oltre a possedere un’attrattiva irresistibile (refrain musicale del romanzo è la canzone Irresistibilmente, cantata dalla Vartan), è una donna dotata di una sete di conoscenza e di una determinazione straordinarie: ne resta affascinato, fino a rappresentarla come una dea bifronte, mezza Venere e mezza Minerva. La donna assurge così a simbolo di quel futuro impossibile che nel suo presente, acciaccato com’è, Pagano non riesce a immaginare. Ma questa circostanza gli impedisce di vedere quello che sta lì, sotto i suoi occhi, e lo spinge a rifiutare l’idea che Myra sia morta. Sarà la sua fidanzata psicologa  a condurlo alla soluzione del caso.
Infine, nel romanzo La fine è ignota, il giovane investigatore abusivo Mariolino Migliaccio, figlio di una prostituta assassinata dieci anni prima e costantemente alle prese con la necessità di procurarsi un pasto caldo e pagare l’affitto della squallida pensione dove vive, si mette al servizio di un gangster per ritrovare una minorenne sfuggita al racket. Nel corso della ricerca il detective dovrà fare i conti con una condizione di cronica precarietà, con il disprezzo che lo circonda, con un rapporto alquanto disinvolto con la deontologia professionale, le minacce del suo cliente e i morsi della propria coscienza: tutti elementi che lo confinano in una zona grigia poco consona allo status dell’eroe dei romanzi polizieschi.

ii] Nel romanzo La fine è ignota (in corso di stampa), oltre a un ampio ricorso al genovese, ricorrono frammenti di romanesco, ecuadoriano e albanese.

iii] È il tentativo che ho abbozzato nel romanzo Dove crollano i sogni (Nero Rizzoli 2020), che racconta le vicende di un gruppo di giovani emarginati della periferia genovese.

NdR: le fotografie sono ritratti di Edgar Allan Poe, Raymond Chandler e Manuel Vázquez Montalbán

 

Esperimento su Bòttego

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di Fabrizio Bondi

Esperimento su Bòttego è un progetto che parte dalla mera e quasi disarmata descrizione di uno specifico oggetto culturale: il monumento parmigiano all’esploratore Vittorio Bòttego, appunto. Da qui si dipanerà un libro (?)aperto a ogni digressione, che incorporerà stralci letterari, citazioni, montaggi di documenti via via più complessi e specifici sul Monumento, sullo Scultore del medesimo ma soprattutto sul suo Protagonista, sul suo centro: l’Esploratore.

Tale ‘libro senza forma’ nonché a relativamente bassa autorialità (l’autore, le sue idee e le sue fìsime vi compaiono come un oggetto tra gli altri) tenterà sí di riflettere sul significato della nostra prima ambigua esperienza coloniale in Africa, ma attraverso di ciò carpire anche un quid allo Spirito stesso del Colonialismo: di quello italiano, soprattutto, ma non solo.

Un tale manufatto composito e aspecialistico mira a conti fatti a rispondere a una domanda (o forse a esserne in un certo senso l’equivalente): se e come l’idea europea di esplorazione, di sfida all’ignoto, di appropriazione ‘scientifica’ della natura non facciano tutt’uno con un’interminabile generale volontà di presa sul mondo, che non ha smesso di segnare i nostri rapporti col pianeta.

«Nazione Indiana», documentando qui con generosità l’ouverture dell’Esperimento, darà eventualmente notizia ai lettori del suo verosimile naufragio.

 

Esperimento su Bòttego

Erezione: da usare solo per i monumenti.

Flaubert, Dictionnaire

… l’uomo agisce come un animale «drammatico» di fronte al masso granitico di una natura che può essere sempre e soltanto il quieto sfondo delle operazioni umane. Il pensiero ontologico dello scenario continua a restare in vigore anche dopo l’avvio della rivoluzione industriale, sebbene la natura-sfondo venga ora intesa come un integrale deposito di risorse e come un’universale discarica pubblica.

P. Sloterdijk, Cos’è successo nel XX secolo?

…qualcosa di scritto…

Pasolini, Petrolio

PROTOCOLLO I

Autopsia.

Avendo affari di vario genere nella città di Parma molte volte mi sono trovato al cospetto del monumento a Vittorio Bòttego. Del resto, essendo quest’ultimo esattamente prospiciente all’entrata della stazione, è difficile non gettarvi almeno un’occhiata, anche non volendo. Da anni mi sono riproposto di esaminarlo con maggiore cura, ma come accade con le cose che ci sono troppo propinque e di comodo accesso, ho sempre rimandato.

Qualche tempo fa, invece, avendo perso una coincidenza proprio a Parma, ed avendo più di un’ora da aspettare, mi decisi finalmente ad avvicinarmi al monumento e dedicarmi alla vagheggiata ispezione.

Sento il bisogno di avvertirvi, però — prima che l’osservatore qualunque (quale io peraltro ero e volevo essere in quel momento: osservatore sguarnito di ogni nozione, dunque al caso anche di ogni pregiudizio, solo seminfarinato da una voce di wikipedia intraveduta sul cellulare: e magari anche meno), prima che l’osservatore dicevo cerchi di farne l’analisi del periodo, di individuarne il soggetto e l’azione principali, e i complementi, o addirittura azzardarne un’analisi retorica o a maggior ragione un’ermeneutica — che il suddetto monumento parmigiano a Vittorio Bòttego è per così dire protetto da due insidie di natura grafo-fonetica.

Si tratta naturalmente, in primo luogo, della baritonesi del cognome, un fiero sdrucciolo: guai, infatti, a chi si azzardi ad accentare Bottègo, riportando l’intrepido esploratore dell’ignoto ad una dimensione che gli è del tutto e costituzionalmente estranea, anzi contraria: quella della ‘bottèga’, appunto, del borghesuccio commercio, con la relativa ‘casa’ e tutto l’armamentario maleodorante della figliolanza, dei pasti, del dolce ma granitico giogo coniugale.

L’altra insidia, che insieme alla precedente sbarrano l’accesso al segreto del monumento a Bòttego, è quella relativa al nome del suo autore, lo scultore Ximenes, del quale molti pronunciano la consonante iniziale come la x di xilofono, mentre invece essa, in verità, è una illustre aspirata greca o spagnola (traslitteriamola, un po’ alla buona, ch-). Questa notizia la appresi vent’anni orsono da un mio tonante professore di storia dell’arte. Sembra niente ma a me, il viaggiatore-osservatore ignaro e un po’spaurito, l’omino con l’ombrello e l’impermeabile che voglio essere ora, queste nozioni rassicurano. (Sembra niente ma simili tranelli tendevano gli Arconti della Gnosi alle anime in viaggio verso il Plèroma – altro accento bizzarro, ci sono insidie ovunque, devo stare attento – esigendo parole d’ordine particolarmente astruse. Quelle basivano e… Ritenta, cara animula impreparata e poco pia: torna a Settembre).

Io, in questa prima fase, sono e mi voglio al riparo da quelle due insidie soltanto: per tutto il resto, nudo come un verme.

Dunque vediamo. L’esploratore troneggia (in piedi) in pizzo a uno sperone di roccia, appoggiato non si capisce se a un fucile o a una picozza, vestito correttamente da esploratore, ovvero con l’elmetto o casco e le brache alla zuava. Ha due baffoni, Bòttego, e uno sguardo fiero, uno sguardo che potrebbe essere materia di leggende locali, tipo lo sguardo di Bòttego ti segue, eh, se tieni fisse le tue pupille nelle sue e ti muovi. Ovviamente non succede niente del genere, né a Parma se ne è parlato mai, almeno che io sappia.

Alla destra, e alla sinistra, della svettante figura di Bòttego, su di un suolo che appare lussureggiante di flora e di roccia, giacciono due simulacri di corpi seminudi (invero adeguatamente scultorei) che non saprei definire altrimenti che col sostantivo «indigeni» e col participio aggettivale «sgominati» (naturalmente dall’eroe, da lui, da B.), facendo così spirare, me ne rendo conto, su questa pagina un aroma come di vecchio giornalino o romanzo d’azione da edicola (vecchia pure quella). Del resto, colle loro lunghe penne svettanti in capo, la coppia mi ricorda certi soldatini che tesaurizzavo da piccolo. In effetti è come se l’eroe medesimo non appaia solo come un esploratore, ma anche come una specie di poliziotto al cui arrivo i due pennuti delinquenti siano arretrati fino a cadere all’indietro, dalla paura che hanno preso.

O forse, piuttosto, si è trattato di una competizione per il possesso dello speroncino di roccia, una specie di corsa con salto finale nella quale Bòttego sia risultato vincitore, atterrando a piedi pari al centro del detto speroncino e facendo, contestualmente, cadere di lato i due indigeni (magari aiutandosi con qualche gomitata ben piazzata) che di conseguenza si siano trovati disposti, uno di qua, uno di là, col posteriore sulla Madre Terra: al contatto della quale si diceva che il gigante Briareo suo figliolo ripigliasse forza, se atterrato nel corso di una delle titaniche battaglie che usavano allora.

In questo caso non ci è dato sapere se i due pennuti, in un frame successivo della sequenza evenemenziale rievocata, si siano poi rialzati, rompendo così quelle che mi azzarderei a definire le loro pose plastiche. I due, infatti, giacciono sulle rispettive stiene o fianchi con una certa eleganza, direi, parzialmente poggiandosi ai gomiti con stile neoclassico. Per ora, cioè per l’eterno (?), essi si limitano a guatare il trionfatore con aria miope e cattiva; se la scena si fosse svolta, putacaso, a Roma, essi avrebbero potuto masticare fra i denti all’indirizzo dell’intrepido qualche interiezione gustosa tipo «Li mortacci tua», o simili.

Ma insomma non mi risulta che Bottego fosse andato in Africa per fare la guerra — anche se pure un disinformato babbeo come me ci arriva, a pensare che un terreno ben esplorato e dunque noto sia poi più facile da colonizzare ed occupare manu militari — ma bensì allo scopo di scoprire, di cartografare, nonché naturalmente di sfidare nientemeno che l’Ignoto, e «giungere là dove nessuno è mai giunto prima», per citare un telefilm che si rifiuta ostinatamente di passare di moda.

Ora mi viene in mente, o meglio mi rampolla su da chissadove, una mezza frasetta che non posso comunque ricacciarmi in gola, benché suoni piuttosto antipatica. La mezza frasetta è la seguente: «vincendo l’ostilità delle popolazioni locali». Clichés a parte, è logico ed evidente che le popolazioni locali debbano essere state ostili all’impresa di B., almeno, a rigore, in quell’ultima fase di presa del roccione, sennò mica c‘era bisogno di rappresentarle così, marchianamente vinte. Le popolazioni, deduco, devono avere in qualche modo cercato di rendergli la vita difficile, di sbarrargli l’accesso al poggiolo, al podio roccioso di dove egli contempla la stazione dei treni di Parma, da poco – come il Monumento medesimo – ristrutturata. Anche questa collocazione è invero piuttosto misteriosa: perché hanno piazzato il monumento proprio lì?

Forse per beneaugurio ai viaggiatori, anzi agli utenti delle Ferrovie, anch’essi in viaggio, diciamo così, verso un loro piccolo ignoto, un ignoto in sedicesimo?

Ma perché, d’altra parte, essere così minimalisti? La presenza carismatica, benché in simulacro, dell’esploratore potrebbe aver avuto ben altra e più alta funzione, nella mente dei commmittenti e degli artisti che realizzarono il Monumento. Insomma: là d’«in su la cima» come da un traliccio trasmittente lo spirito di Vittorio viene forse insufflato in ogni viaggiatore transitante per la stazione di Parma, in modo tale che egli intraprenda il suo viaggio collo stesso spirito di avventura, sete di conoscere, disprezzo del pericolo che furono (ipotizzo fiducioso) caratteristiche dell’Eroe, e che dunque portino il viaggiatore sunnominato a vedere in ogni tratta, in ogni scambio una sfida (non è forse un po’ così del resto, Bòttego o non Bòttego, quando prendiamo il treno?); in ogni viaggio torturante sopra un regionale in via di disgregazione come su una costosissima «freccia» un’epica cavalcata, o una marcia forzata ai limiti delle possibilità umane; in ogni tappa raggiunta, un trionfo, con relativa bandiera conficcata maschiamente nel terreno. Mentre risalgo sul convoglio che mi deve portare nella mia città io stesso mi sento piuttosto elettrizzato, come se questo viaggio fosse una breccia nel Possibile, l’anello che non tiene, il varco (piegate le sbarre) nella gabbia di insopportabile monotonia che pervade le nostre vite: al punto che, se non ci fossero ogni tanto le disgrazie a movimentàrcele, pochi di noi sopporterebbero di vivere.

All’arrivo alla stazione sono infatti accolto da una folla che, lo so, è lì per me. Sono pervaso da un senso di benessere e di benevolenza, di importanza, di fertile equilibrio interiore: sono una bambola gonfiabile gonfiata dall’aria dei Tempi d’Oro. C’è la Banda, ci sono gli Orfanelli coi fiori e i canti, il Sindaco con la corona, il Prete che benedice. La folla si apre al mio passaggio, guardandomi con volti illuminati dal sorriso della felicità e come ammiccanti, quasi mi invitassero ad alzare il capo e a volgere i miei occhi verso l’alto e allora – allora lo vedo, il Monumento. Abbattutto quello, superfluo, a Garibaldi (che aveva prima, comunque, soltanto la funzione di indicare con la spada drizzata la direzione verso il Centro Città) alla stazione di Cremona è stato eretto ora un monumento a me: e la cosa mi sembra giusta e naturale, la approvo senza gonfiarmi di vanto né incipriarmi di falsa modestia.