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Gaia Ginevra Giorgi: “di una specie che ho tradito”

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Ospito qui alcuni estratti del libro L’animale nella fossa di Gaia Ginevra Giorgi, pubblicato da Miraggi Edizioni.

***

 

il mio mestiere ha a che fare con il silenzio

– con il dolore elementare raccolto nelle stanze:

ascoltare l’acqua che gonfia la terra, la luce

che filtra, misurare a lunghi sonni le radure

saper battere in ritirata. scavarmi

un buco nello sterno

 

ritrovare i fili che mi portano

le radici che mi tengono

 

***

 

con questa terra a lungo

sono stata in aperto dialogo:

mi sono abbeverata alla fonte

della sua luce rigorosa,

roccia bianca e schianto d’onda,

sentiero acceso,

esuberanza e poi rovina.

 

sono figlia di queste grazie

rispondo a leggi organiche,

qui ho imparato a stare. essere oggi

senza te e tuttavia respirare

 

***

 

coltivo il bianco – a perdere bianco

giardino della mia memoria

così simile al vuoto, ma più leggero

dell’alabastro più bianco

 

per combattere la levità

ho il peso delle tue ossa

dei tuoi denti e dei tuoi nervi tutti

– ripenso spesso al tuo piccolo femore

che un carro con grandi ruote aveva spezzato

quand’eri bambina

come a segnarti sulla pelle un destino

 

so riprodurre tutti gli attacchi di panico

che nelle piazze troppo affollate ti assalivano

– li affronto uno a uno

ma ogni mia battaglia sale a fissare il bianco

dei tuoi passi lievi

della tua risata selvatica

di ragazza

 

***

 

mi hanno generata in autunno inoltrato

all’interno di una specie che ho tradito

sono evasa, mi sono messa qui di lato

sospesa abbandonata su un fianco

sono venuta al mondo per piantare in asso

 

***

 

cosa diciamo quando diciamo latte

– che parola elementare, la sanno dire tutte

quando diciamo mulino diciamo casa

tra il costone e la conca che si svuota

verso il mare. tutto è vetro, pietra,

legno e carta. le prime ore del giorno

sono stabilite da luce a perdere

che scopre le nervature della terra,

poi i corpi si mischiano in azzurro

novembrino e ombre nuove:

 

eucalyptus, mimosas e ulivi

derive tra i rovi e le frane

xilù: per dire argentino cangiante

lucente per dare i nomi alle cose piccole

 

per trasecolare

Mots-clés__Treno

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Treno
di Daniele Ruini

Lucio Dalla, Treno a vela -> play

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Giovanni Pascoli, Le rane (da Canti di Castelvecchio, 1903)

 

Ho visto inondata di rosso
la terra dal fior di trifoglio;
ho visto nel soffice fosso
le siepi di pruno in rigoglio;
e i pioppi a mezz’aria man mano
distendere un penero verde
lunghesso la via che si perde
lontano.

Qual è questa via senza fine
che all’alba è sì tremula d’ali?
chi chiamano le canapine
coi lunghi lor gemiti uguali?
Tra i rami giallicci del moro
chi squilla il suo tinnulo invito?
chi svolge dal cielo i gomitoli
d’oro?

Io sento gracchiare le rane
dai borri dell’acque piovane
nell’umida serenità.
E fanno nel lume sereno
lo strepere nero d’un treno
che va…

Un sufolo suona, un gorgoglio
soave, solingo, senz’eco.
Tra campi di rosso trifoglio,
tra campi di giallo fiengreco,
mi trovo; mi trovo in un piano
che albeggia, tra il verde, di chiese;
mi trovo nel dolce paese
lontano.

Per l’aria, mi giungono voci
con una sonorità stanca.
Da siepi, lunghe ombre di croci
si stendono su la via bianca.
Notando nel cielo di rosa
mi arriva un ronzìo di campane,
che dice: Ritorna! Rimane!
Riposa!

E sento nel lume sereno
lo strepere nero del treno
che non s’allontana, e che va
cercando, cercando mai sempre
ciò che non è mai, ciò che sempre
sarà…

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

 

Di Crollalanza D’Annunzio, un’amicizia impossibile

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di Nicola Fanizza

( è uscito il saggio di Nicola Fanizza Araldo di Crollalanza, Un ministro all’ombra del duce, ed. Progredit, 2021, euro 20, ne pubblico un capitolo per gentile concessione dell’editore)

A volere la Gardesana, la strada che avrebbe consentito di raggiungere il Vittoriale, fu Gabriele d’Annunzio. Ne parlò al duce fin dal 23 marzo 1925: «Tu sai che non v’è una salda e rapida via a collegare la liberata Venezia tridentina e la regione lombarda, la veneta, la padana, l’emiliana». Poi un’osservazione: «Le vie fra Bolzano e Brescia, per la Val Camonica, per Val Giudicaria e Val di Ledro, sono troppo lunghe e faticose. Tutte superano i dugento chilometri mentre la distanza tra Brescia e Bolzano in linea d’aria è di 140 e nessuna favorisce l’attività crescente delle città ricongiunte alla madre patria». Ed ecco la sua garanzia: «Ho esaminato con l’attenzione che mi conosci il disegno della nuovissima via studiata dagli ingegneri benacensi Riccardo e Italo Cozzaglio. È compiutamente lodevole».

Deve però arrivare il settembre 1928 perché venga approvata la costruzione del «Meandro», come il poeta denominerà la nuova strada. Il via ai lavori venne dato solo nel febbraio 1929. Quando nel 1930 di Crollalanza diventerà ministro dei Lavori Pubblici, sarà costretto a prendersi cura non solo della strada in salita che portava alla villa di Cargnacco, bensì anche dei lavori inerenti alla costruzione del Vittoriale e di quelli per la casa della madre del poeta a Pescara.

Tale costrizione traspare dalle parole di Onda di Crollalanza, figlia di Araldo, la quale in un’intervista del 2013 dice che suo «padre accontentò d’Annunzio promuovendo la costruzione del Vittoriale anche perché era sollecitato dall’alto, quel monumento si doveva fare […]. Il Vittoriale si doveva fare anche con i suoi eccessi».

Tutto ciò avveniva per esplicita volontà di Mussolini ed era frutto di un tacito accordo fra il duce e lo stesso d’Annunzio: in cambio della sua autoemarginazione dalla scena politica, a partire dal 1924-25, il Poeta-Soldato avrebbe ottenuto diversi privilegi. Così, d’Annunzio otterrà una sorta di stipendio legato alla vendita dei suoi manoscritti allo Stato; percepirà, inoltre, gli introiti legati alla vendita delle sue opere, pubblicate dal Poligrafico dello Stato; e, soprattutto, otterrà i finanziamenti per la costruzione del Vittoriale e per il risanamento della sua casa a Pescara.

Eppure, prima della sua resa, Mussolini aveva temuto che il Comandante potesse passare all’opposizione. Il duce non sottovalutava d’Annunzio, riconosceva le sue straordinarie qualità e soprattutto era consapevole del seguito su cui poteva contare all’interno dello stesso movimento fascista.

Sapeva che il Comandante aveva manifestato il proprio rancore nei suoi confronti: non gli aveva perdonato di averlo abbandonato durante il «Natale di sangue». Il trattato di Rapallo del 12 novembre 1920 aveva dato al governo italiano la possibilità di risolvere la spinosa questione di Fiume attraverso l’uso della forza. Cosa che avvenne nel giorno nella vigilia di Natale quando la Regia Marina bombardò la città. Fu lo stesso d’Annunzio a coniare l’espressione «Natale di sangue» per indicare il lasso di tempo in cui infuriò l’impari lotta tra l’esercito e i legionari. La battaglia durò cinque giorni, morirono 22 legionari, 5 civili e diversi soldati del Regio Esercito. D’Annunzio durante l’assedio coltivò la speranza che Mussolini si spendesse per la causa di Fiume e non vedendolo arrivare se la legò al dito.

Sta di fatto che da uomo politico scaltro qual era, Mussolini non se l’era sentita in quell’occasione di mettere a repentaglio l’esistenza dei fasci di combattimento e la sua stessa carriera politica.

Le loro strade si divisero e continueranno a non intrecciarsi. Un mese dopo la fine dell’impresa fiumana, nel febbraio 1921, d’Annunzio giunse la prima volta a Gardone. Il suo soggiorno sul lago di Garda doveva durare solo alcuni mesi – per completare la stesura del suo ultimo romanzo! –, mentre oggi sappiamo che quella sul Garda sarebbe diventata la sua ultima e definitiva dimora. Allora aveva cinquantasette anni, era mezzo cieco e persino le sue energie erano state fiaccate da cinque anni di attività spossanti. Il tempo della lotta per lui si era concluso a Fiume. Voleva darsi solo all’arte. Scrisse a un amico: «Sono morto a ogni politica».

Il ruolo che egli aveva avuto, con la sua trascinante oratoria, nelle «radiose giornate» di maggio, la partecipazione alla guerra, la «beffa di Buccari», il volo su Vienna, la taglia dell’Impero austro-ungarico sulla sua testa avevano creato intorno alla sua figura un alone di eroismo destinato a protrarsi sin dopo la fine della guerra. La stessa impresa di Fiume e i sedici mesi dell’occupazione della città avevano contribuito ad alimentare lo splendore della sua immagine.

D’Annunzio appariva come un leader autorevole. Godeva di un enorme prestigio sia presso i militari sia presso diversi settori politici: dalla destra nazionalista e fascista alle frange della sinistra estrema. Erano con lui i sindacalisti rivoluzionari come Di Vittorio e persino alcuni comunisti come Antonio Gramsci e Nicola Bombacci.

Non fu certo un caso che nell’agosto 1921 Grandi e Balbo fossero andati a trovarlo al Gardone per offrirgli la guida del movimento fascista.

Quella sarebbe stata per lui l’ultima occasione per giocare un ruolo decisivo nella storia italiana. Il Comandante aveva preso tempo. La proposta poteva anche essere allettante, poteva consentirgli di regolare i conti con Mussolini, il quale nel «dicembre di sangue» lo aveva tradito. Tuttavia, non se l’era sentita di mettersi alla testa del fascismo più retrivo.

Dopo il colpo di mano di Mussolini dell’ottobre 1922, d’Annunzio si era reso conto che con l’avvento del fascismo al potere gli erano rimaste ben poche possibilità per tornare protagonista sulla scena politica nazionale.

Mussolini era riuscito a ottenere la sua neutralità, promettendogli che si sarebbe adoperato per promuovere l’unità sindacale fra la film (Federazione Italiana dei Lavoratori del Mare) e i sindacati fascisti. L’unione sindacale, tuttavia, non si realizzò per l’ostilità dei settori più intransigenti del sindacalismo fascista, i quali non volevano in alcun modo rinunciare al monopolio della rappresentanza dei lavoratori.

D’Annunzio si rese conto di essere stato preso in giro già a partire dal febbraio 1924, quando venne a sapere che il suo amico Giuseppe Giulietti era stato defenestrato dalla guida della film. Fu allora che d’Annunzio cominciò a manifestare il rimpianto e soprattutto la delusione per l’amara conclusionedella sua avventura a Fiume. Sentiva di non avere nulla a che fare con il fascismo.

Mussolini non aveva creato nessun nuovo ordine, non aveva promosso nessuna Lega dei popoli oppressi; la Carta del Carnaro per il duce era rimasta lettera morta, una semplice prova letteraria.

Tutto ciò veniva portato a conoscenza di Mussolini, il quale ritenne possibile che d’Annunzio potesse passare al contrattacco. Le sue parole furono interpretate come un segnale della sua ostilità nei confronti del regime. Da qui il cambiamento della tattica di Mussolini per mettere sotto controllo il Poeta-Soldato. Il duce si era reso conto che non bastavano più le solite promesse. Senza rinunciare a queste ultime, era necessario aggiungere ai riconoscimenti formali (il titolo di principe di Montenevoso) e alle blandizie, capaci di sollecitare la sua vanità, gli interventi più concreti.

D’Annunzio era stato per molti versi il suo maestro. Mussolini aveva condiviso il suo nazionalismo e si era ispirato a lui per quel che riguarda l’estetizzazione della politica. Guardava, però, con diffidenza alla sua parte maledetta, a ciò che si situava nel suo cono d’ombra: le istanze libertarie e di democrazia diretta che il Comandante aveva veicolato attraverso la Carta del Carnaro.

Da qui la sua famosa battuta: «D’Annunzio è come un dente cariato: o lo si estirpa o lo si copre d’oro».

E per d’Annunzio fu scelta la seconda opzione; non era certo pensabile eliminare fisicamente un eroe della grande guerra, mentre era consigliabile neutralizzarlo, favorendolo economicamente nella sua vita dispendiosa.

D’Annunzio chiese e ottenne continuamente per sé e per i suoi familiari e amici tanti piccoli favori. Il duce non poteva non esaudire i suoi desideri. Il Poeta-Soldato era sempre pronto a ricorrere alla solita minaccia che comportava il suo esilio.

A proposito di tali minacce, giova ricostruire quanto accadde nel marzo 1928. La rappresentazione da parte della compagnia di Tommaso Monicelli di alcune opere dannunziane aveva suscitato il biasimo di alcuni predicatori cattolici. Il poeta reagì inviando una lettera a Monicelli in cui denunciava la «persecuzione clericale». La missiva, pubblicata sul «Popolo di Brescia», fu, però, sequestrata dal prefetto per le espressioni giudicate sconvenienti. Subito dopo, l’8 marzo 1928 giungeva a Giovanni Rizzo, il poliziotto che lo controllava, la reazione di d’Annunzio:

 

Caro amico?

Accade qualcosa che non esito a giudicare ignobile. Svillaneggiato da grassi predicatori e rivendicato dall’amore del popolo, iersera scrissi una pagina. La pagina è sequestrata. Sa nulla? Se ne lava le mani? Contro il “pilatismo” io sono costretto a chiedere oggi una dichiarazione netta del Capo. La esigo. Si afferma che l’ordine viene dal Palazzo Chigi, dov’è stabilita la pinguedine del cardinale Gasparri. Attendo la dichiarazione per sapere se mi convenga trasmigrare nell’Austria di Monsignor Seipel.

 

Dalla lettera si evince che d’Annunzio fosse a conoscenza delle trattative fra il governo italiano e il Vaticano per pervenire alla Conciliazione. Mussolini a sua volta sapeva che la trattativa stava per concludersi, e non voleva compromettere le trattative iniziate nel 1923 con il cardinale Gasparri a causa di d’Annunzio. Pertanto, si era come al solito giustificato asserendo che si era trattato di un «equivoco», di un «eccesso di zelo» e che il sequestro non doveva essere messo in relazione con la «pressione di vescovi».

D’Annunzio non rimase soddisfatto della risposta di Mussolini. Sospettava che quest’ultimo si fosse adoperato per non far circolare i suoi libri. Per di più, nel mese di giugno dello stesso anno, venne a sapere che la Congregazione del Sant’Uffizio aveva messo all’Indice tutte le sue opere. Mussolini, però, non credeva affatto che d’Annunzio volesse per davvero lasciare l’Italia come aveva lasciato intendere nella lettera che aveva inviato a Rizzo.

Sapeva che d’Annunzio reagiva ai controlli solo quando il morso della censura lo prendeva alla gola e gli impediva di respirare l’aria di libertà a cui aveva volontariamente rinunciato. Così il Poeta-Soldato si ritrovò probabilmente a fruire gratuitamente non solo dei lavori per la costruzione del Vittoriale, bensì anche dei finanziamenti derivanti dalle economie sugli stessi lavori. Tutto ciò lo si evince da una nota del ministero del Lavori Pubblici. Di Crollalanza con tale documento premeva per l’invio di un promemoria a Mussolini per sollecitare se vi fosse la «possibilità di corrispondere a G. d’Annunzio le economie fatte sui lavori del Vittoriale».

Il tema che pervade le prime lettere del carteggio fra d’Annunzio e di Crollalanza non è quello delle «economie», bensì quello, come vedremo fra poco, del «Meandro». Intanto, va precisato che il carteggio, che pubblichiamo in Appendice, è composto da undici lettere e cinque minute di telegramma inviate da d’Annunzio a di Crollalanza; nonché da sei lettere e quattordici telegrammi inviati da di Crollalanza a d’Annunzio.

Di Crollalanza aveva inviato una missiva a Gabriele d’Annunzio già nel novembre 1919, quando gli offrì, inutilmente, la candidatura alle elezioni politiche nel collegio di Bari, ma in quell’occasione non aveva ricevuto alcuna risposta. Lo stesso accadde nel 1928, quando, come podestà di Bari, gli inviò una comunicazione incentrata sulla commemorazione di Niccolò Piccinni in occasione del secondo centenario della nascita.

Lo scambio epistolare vero e proprio fra d’Annunzio e di Crollalanza iniziò solo a partire dal 1° maggio 1930, quando quest’ultimo aveva già assunto la carica di ministro dei Lavori Pubblici.

Il Comandante era solito attribuire nuovi nomi alle persone con cui entrava in contatto. Si trattava di nomi legati alle loro specifiche attitudini o alle loro professioni. E anche la prima lettera che egli aveva inviato a di Crollalanza conferma questa sua particolare disposizione. Il ministro dei Lavori Pubblici, proprio perché era «tutelare della via novissima in salita verso il Vittoriale», gli ricordava le «deità dei Lares viales, tutelari delle antiche strade». E pertanto lo chiamava: «viale».

Dice inoltre che anni addietro aveva italianizzato Will Shakespeare (shake = scuotere, scrollare; spear = lancia) con Guglielmo Scotilancia. E che il suo «nome gli dava una parola ancora più italica e arcaica: Crollalanza».

E tuttavia non si dimenticava di proporre al ministro il nome dell’ingegnere che avrebbe desiderato fosse nominato per la direzione dei lavori della strada che in salita doveva portare al Vittoriale.

Un desiderio che venne subito soddisfatto. Lo apprendiamo dalla lettera di risposta che il ministro dei Lavori Pubblici gli inviò ventitré giorni dopo. Qui, in riferimento alle origini del suo cognome, Araldo chiamava in causa suo padre e suo nonno. I due «appassionati e ineguagliabili» studiosi di araldica avevano già colto nelle loro pubblicazioni l’analogia di cui gli aveva parlato d’Annunzio. Il poeta nella sua lettera aveva toccato un tema che gli stava particolarmente a cuore. Di Crollalanza, pertanto, non si lasciò sfuggire l’occasione per descrivere le origini nobiliari della sua famiglia.

Le lettere e i telegrammi danno conto delle richieste che il Comandante continuamente avanzava e della tempestività con cui il ministro dei Lavori Pubblici lo informava in merito alle determinazioni di legge che il governo assumeva a suo vantaggio.

D’Annunzio riteneva che tali vantaggi gli spettassero, poiché si configuravano come una ricompensa per quello che aveva fatto per l’Italia:

 

io ho dato all’Italia non soltanto Fiume e Zara ma tutto il Confine giulio. Questo è accertato con documenti militari e diplomatici, inoppugnabilmente. Questo è storico, se giovi adoperare una parola oggi abusata e, ahi!, insignificante.

Ora è impedito al Principe di Montenevoso, con spregevoli angherie burocratiche, il compimento dell’opera intrapresa a dimostrazione di una lunga vita operosa e coraggiosa.

Il ministro doveva riparare pure i grossolani errori «sentimentali», commessi contro la sua «nobile memoria»: nella ristrutturazione della sua casa di Pescara occorreva:

 

lasciare intatte alcune particolarità puerili che sembravano appartenermi come il lento formarsi delle mie ossa, come le lividure e le scorticature segnato ne’ miei urti e ne’ miei capitomboli.

 

Di Crollalanza non era da meno quando ricordava al poeta il «superbo Lungomare Nazario Sauro che io volli costruire per molti chilometri, per gettare le basi della nuova metropoli mediterranea».

Tali considerazioni vengono ignorate dal Comandante. Benché avesse visitato Bari e il suo Lungomare nel dicembre 1931, d’Annunzio nelle sue lettere non ne parla. Forse il suo era un silenzio eloquente!

La visita era avvenuta in occasione del suo viaggio in Puglia per commemorare l’impresa del 4-5 ottobre 1917, quando d’Annunzio con la sua squadriglia aveva spiccato il volo da Gioia del Colle per andare a bombardare la flotta austro-ungarica presso le Bocche di Cattaro. Tra andata e ritorno, avevano volato di notte per quasi mille chilometri e per l’orientamento i piloti si erano affidati alle bussole e forse anche alle stelle.

Il Comandante si era recato presso l’aeroporto di «Gioia della Vittoria» – così il poeta l’aveva ribattezzata –, poiché da quel «campo», con la sua «squadriglia temeraria», doveva raggiungere nuovamente le Bocche di Cattaro.

Nei giorni precedenti alla partenza per Cattaro e in quelli successivi al suo ritorno, d’Annunzio soggiornò nella villa di Tommaso Cassano, ubicata a Cozze (frazione di Mola). Cassano era un grosso proprietario di Gioia del Colle, e la sua famiglia aveva già ospitato il Comandante nel 1917. Chiamato in causa per aver partecipato all’assassinio del deputato socialista Giuseppe Di Vagno, fu assolto nel processo che si tenne nel 1922 presso la Corte d’assise di Trani per «non aver commesso il fatto». Tuttavia, nel secondo dopoguerra, con la riapertura delle indagini, fu rinviato nuovamente a giudizio come complice nell’omicidio. La Corte d’assise di Potenza il 31 luglio 1947 dichiarò, infine, «non doversi procedere» contro Cassano, poiché il reato di «complicità non necessaria» era «estinto» per l’amnistia, promossa da Togliatti.

I due sedicenti amici non avevano la stessa concezione dell’arte. Il ministro si richiamava ai canoni dell’estetica fascista e in questo senso affermava che il Vittoriale rappresentava la «luminosa dimostrazione dell’ineguagliabile maestria creativa di quegli artefici italiani che, senza rinnegare il passato, lo sapevano far vivere nel presente e potenziare nell’avvenire».

Un giudizio, questo, che non poteva essere condiviso dal «trasvolatore di Cattaro», il quale si richiamava, invece, alla paganità come espressione di un ideale di vita intensa e attiva e come culto della forza e della bellezza. In questo senso il poeta vedeva nella «Centrale elettrica» rivana, costruita da Gian Carlo Maroni, un’esaltazione della «Regola della forza». Il suo amico architetto percepiva:

 

quel che sentirono ed espressero i Greci o talvolta gli Italiani del Rinascimento e i Francesi del XIII secolo: l’armonia delle masse e dei vuoti, l’eleganza dei rilievi profondi e semplici, la stupenda lotta della luce e dell’ombra in un’architettura immune d’ogni sforzo senza ragione e d’ogni forma plastica che non sia architettonica e quindi necessaria […]. Qui tutte le linee indicano la destinazione di tutte le forze e di tutte le resistenze

 

Il giovane architetto gardesano aveva partecipato valorosamente al recente conflitto, venendo ferito gravemente. Il suo ruolo nella realizzazione del Vittoriale fu rilevante. Maroni, «Magister de vivis lapidibus» (Io son maestro delle pietre vive) – come d’Annunzio lo chiama indirettamente in causa in una lettera del dicembre 1932 –, era in realtà un occultista. La drammatica esperienza della ferita in guerra e il lungo periodo in cui era rimasto sospeso fra la vita e la morte lo avevano convinto di essere un morto resuscitato. L’architetto era persuaso di ricevere nottetempo la visita di personaggi di altre età e di «poter comunicare in modo telepatico con d’Annunzio».

Quando poi il poeta e il ministro passano dai concetti agli affetti, le loro parole appaiono consunte e logore. Per non parlare della retorica del loro patriottismo: l’amuleto di bronzo regalato da d’Annunzio al ministro diventa simbolo della «Vittoria, che protende dalla prua della nave Puglia»; a sua volta, di Crollalanza rivendica la «passione adriatica» della sua «terra che, nelle alterne vicende della storia, seppe creare la prima e la più grande civiltà italiana».

La comunicazione fra i due presunti amici non è mai autentica. Sia l’uno che l’altro sono incapaci di mettersi in gioco. Sono diffidenti. I loro dialoghi sono sempre formali. L’ipertrofia dell’io di cui sono affetti sia l’uno che l’altro impedisce loro di autoridursi, di far posto all’altro da sé.

La vanità di d’Annunzio – l’«artiere di tutte le arti» – e, insieme, il suo disprezzo per la volgarità emergono in modo particolare dalla lettera che egli aveva inviato, in data 25 luglio 1933, al ministro. D’Annunzio mostra di essere grato nei suoi confronti, poiché aveva avuto il merito di disporre la distruzione dell’«immonda taverna». Quest’ultima disonorava la porta del Vittoriale; ossia d’«un luogo pieno di reliquie adorabili, di cimeli preziosi e di settantamila volumi (raccolta che ormai è fuor d’ogni paragone) ordinati e in gran parte annotati da me».

Particolarmente interessante è l’incipit della lettera che d’Annunzio inviò, nel febbraio 1932, al ministro dei Lavori Pubblici. L’atto con cui il poeta donava una copia del Dantes adriacus a di Crollalanza si configurava come un gesto che probabilmente aveva una connotazione simbolica.

Nel 1921 Adolfo de Carolis aveva inciso per il sesto centenario della morte di Dante una piccola xilografia dell’Alighieri allo scrittoio, cui seguirà un grande ritratto frontale di Dante che medita sulla Divina Commedia. D’Annunzio intervenne per acquistare il ritratto, e lo ribattezzò Dantes adriacus in ricordo dell’impresa fiumana e lo collocò nella biblioteca del Vittoriale.

La xilografia evocava pertanto il suo legame spirituale con Dante – la «santa lampada» – e, insieme, con Fiume, la città di vita. Un’immagine ambivalente: il riferimento a Dante, con la sua predilezione per l’Impero, legittimava la politica imperialistica del duce; l’evocazione dell’impresa di Fiume, in cui era sorta l’internazionale dei popoli oppressi, invece, revocava in causa la stessa politica estera di Mussolini che, con la rivendicazione del Mare nostrum, era ostile al mondo slavo. Tutto ciò può sembrare contraddittorio, genera ambiguità. E tuttavia solo i grandi artisti possiedono la straordinaria capacità di unire gli opposti!

L’ostilità nei confronti della politica estera dell’Italia fascista verrà comunque rimarcata da d’Annunzio nel 1936 in occasione della guerra contro l’Impero etiopico e l’anno dopo, nel 1937, quando si recherà a Verona per manifestare a Mussolini il suo dissenso nei confronti dell’alleanza fra l’Italia e la Germania nazista.

Benché d’Annunzio affermi che il Vittoriale fosse un luogo in cui il «Grazie» da anni era stato «fieramente abolito», la sua relazione con il ministro non stazionava nell’atmosfera del dono, dell’obbligo e insieme della libertà, bensì in quella dell’utilitarismo.

La tendenza a rimarcare la loro amicizia tradisce la fragilità del loro legame, che era ancorato al mero interesse. Non è un caso che a partire dal gennaio 1935, con l’avvento di un nuovo ministro alla guida del dicastero dei Lavori Pubblici, termini anche il loro rapporto epistolare.

Probabilmente non si vedranno mai più. Sappiamo, però, con certezza che l’annuncio della morte di d’Annunzio non commosse Mussolini. Lo dice Galeazzo Ciano, il quale annotò negli appunti del 2 marzo 1938 – il giorno successivo alla morte del poeta – di averne parlato con il duce. Quest’ultimo si era soffermato sul modo in cui gli era stata comunicata la notizia. Il prefetto Giovanni Rizzo gli aveva telefonato, comunicandogli l’accaduto con queste parole: «Duce, ho il dolore di darvi una buona notizia!».

Dare figura alle cose. I disegni di Lorenzo Mattotti

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di Daniele Barbieri

Quando diamo un nome alle cose aumentiamo il nostro controllo su di loro, o almeno la nostra sensazione di controllo. Finché non ha nome, un asfodelo è un’erba come un’altra; anche se magari ho imparato ugualmente a distinguerla, e pure ne ho appreso alcune proprietà alimentari. Ma è l’avere un nome che la rende davvero qualcosa che io controllo: la pianta è una cosa di natura, il nome è una cosa umana, mia e scambiabile. Quando quel nome può essere inserito in una sequenza di parole governata da consuetudini grammaticali (quantomai umane, perché quelle davvero non hanno un corrispondente diretto in natura) può essere articolato in racconto, il quale è un’ulteriore, notevole, acquisizione di controllo, perché il racconto istituisce dei nessi, umani, tra gli eventi del mondo: così noi possiamo pretendere di conoscerli, e in qualche modo, almeno un poco, di dominarli.

Se poi la sequenza di parole si articola in argomenti, in dimostrazioni, è nata la ragione, lo strumento di controllo del mondo più potente che abbiamo. La ragione può mettere in piedi la scienza, che organizza il mondo secondo categorie razionali, quindi di linguaggio, quindi umane. Quando l’asfodelo si trasforma in asphodelus ramosus, il controllo sul mondo, grazie al semplice nome, è diventato enorme: là dove il nome comune nomina una cosa tra le altre, quello scientifico evoca l’appartenenza a una tassonomia, e la tassonomia evoca a sua volta un’intera disciplina che organizza razionalmente il sapere.

Questo meccanismo favoloso, che ci ha reso quello che siamo, ha però un prezzo. A mano a mano che la parola specializza il proprio controllo sul mondo, e l’uomo aumenta il proprio potere e le proprie possibilità di sopravvivenza, sempre più perde una dimensione di sintonia, di contatto, di Stimmung nei confronti di ciò che gli sta attorno, natura e cultura compresi. Ci sentiamo di colpo soli, potenti ma soli. La dialettica tra controllo e sintonia caratterizza dunque tutte le culture umane, ma diventa particolarmente acuta in quelle, come la nostra, in cui il controllo razionale è ormai vincente e pervasivo. I movimenti ambientalisti, animalisti, o anche solo la necessità di fare una gita in campagna, non nascono in una cultura sostanzialmente agricola, come è stata la nostra fino a qualche secolo fa.

Senza arrivare a questi estremi, credo che la poesia sia nata, già agli albori della storia della parola, per riportare la sintonia nella parola senza perderne davvero i vantaggi. Attraverso la poesia, la parola non perde la propria umanità, ma acquisisce un sovrappiù di naturalità, di sintonia con i flussi del mondo. Attraverso la poesia, io posso, almeno per qualche momento, sentire di avere il controllo del mondo senza perdere la sintonia con esso: i metri, i ritmi, le rime e tutti i fenomeni fonetici e prosodici, ma anche quelli di ricorrenza semantica, che caratterizzano la poesia, per quanto a loro volta umani, non richiedono comprensione (specie nel loro rapporto con la parola) ma semplice sintonizzazione, come quando si balla. E, come quando si balla, questa sintonizzazione avvicina tutti i lettori/ascoltatori, e li avvicina anche ad altri ritmi, magari naturali.

Naturalmente, non è la poesia l’unica strategia di sintesi tra comprensione e sintonizzazione, e non è ormai solo la parola a poter costruire discorsi, e quindi controllo del mondo. Una volta che il racconto è nato, le immagini hanno imparato a evocarlo, a ricostruirlo nei propri termini. L’invenzione della geometria ha potuto sovrapporre uno spazio umano, razionalmente controllato, allo spazio del mondo. La combinazione delle due tecniche nell’invenzione della prospettiva rinascimentale ha costituito un progresso straordinario non solo nella storia dell’arte, ma nella storia della conoscenza e della stessa futura scienza. Alla fine di questo processo, l’immagine finisce per essere uno strumento di controllo narrativo o razionale del mondo, potente quasi quanto la parola, benché differente.

Di conseguenza, il bisogno di ripercepire la sintonia con il mondo ha caratterizzato anche la dimensione visiva, e tutta la nostra storia dell’arte ci mostra le variazioni su questo intreccio straordinario di controllo e sintonizzazione.

Sono stimolato a queste riflessioni dalla visione di un volume di disegni di Lorenzo Mattotti, Città, incroci, amori e tradimenti (Logos 2022). Per una prima, lunga parte, i disegni rappresentano una coppia di amanti (tema già più volte percorso da Mattotti), poi appare la performance musicale, e la città, e poi la danza, agitata, sfrenata, sino a trasformarsi in una serie di risse, e poi di litigi, di angosce, di solitudini, di visioni naturali; poi c’è una serie di ritratti, e alla fine di nuovo gli amanti, ma come nel momento della reciproca scoperta, magari immersi nella città.

Le immagini non sono ordinate narrativamente; nessuna storia le attraversa, se non allusivamente, come si può capire dalla descrizione che ne ho dato. Ciascuna di loro, tuttavia, racconta molto intensamente un momento di una storia, che possiamo molto facilmente riconoscere (anche solo, al limite, dalle mie sommarie descrizioni tematiche). Ma i medesimi temi ricorrono più volte, alcuni moltissime volte. Forse la storia che vi appare è grosso modo la stessa, ma le immagini sono diverse, talora diversissime: a volte sono differenze di tecnica, di colori; altre volte solo differenze di inquadratura. Il racconto è dunque rilevante, certo, ma è ben lontano dall’esaurire le ragioni di interesse.

Poi ci sono le geometrie. Non sono solo le linee, implicite o esplicite, di assonometria e prospettiva, in quanto principi grafici di organizzazione del mondo. È, semmai, che in Mattotti continuamente le linee che costruiscono le figure sembrano rimandare a un’organizzazione geometrica del piano, a una ripartizione razionale dello spazio (benché comunque complessa, non regolare).

Sin qui, il disegno di Mattotti sembra davvero evocare uno straordinario controllo sul mondo, e certamente questo controllo lo possiede. La situazione narrativa, la tecnica dei pennini, dei pennelli, delle matite, con una scelta antinaturalistica dei colori, e infine la geometria: tutto quanto di più umano, controllante, ammirevolmente cognitivo si possa immaginare. Tanto più che la complessità con cui questi elementi vengono messi in gioco è a sua volta ammirevole. Le immagini di questo libro sono altrettanti capolavori strutturali, altrettante umanizzazioni cognitive del mondo.

Ma se si fermassero a questo, le sentiremmo fredde quanto una formula, espressive quanto un solido platonico. Il fatto è che, proprio come accade in poesia, dove l’accostamento di due organizzazioni diverse, come il discorso verbale e l’organizzazione formale, produce singolari e affascinanti potenzialità di sintonizzazione, anche qui il racconto visivo si trova a interagire in maniera inquietante con la ricostruzione grafica e geometrica del mondo. Una dopo l’altra le figure vibrano, ci impongono una sintonia, una compartecipazione intensa.

Ma poiché un tema narrativo è presente in ciascuna di queste immagini, questa sintonizzazione ci conduce quasi a immergerci in loro, a convivere con le emozioni, che non sono più soltanto mostrate o raccontate (anzi, in verità, non sono affatto mostrate, e di conseguenza nemmeno raccontate) ma diventano intensamente vissute. Come in una straordinaria raccolta di poesie, la sequenza di disegni di Mattotti ci porta a vivere con intensità tutta una serie di emozioni, tenere, violente, sfrenate, contemplative, incerte.

Descrivere le cose, attraverso i nomi o i disegni, aumenta certamente il controllo che abbiamo su di loro, ma è qualcosa diverso dal viverle; anche e soprattutto quando le cose descritte sono emozioni. Fare arte è invece utilizzare questo spazio umano del controllo (la parola, il racconto, l’argomentazione, ma anche le regole metriche, il disegno, le geometrie…) per ritrovare la sintonizzazione senza perdersi nella natura (ovvero disfarsi, morire). L’artificio non è meno importante del suo superamento, né viceversa: in questa dialettica sta il senso di ciò che percepiamo come bello.

Alla gente i passaporti continuano a scadere

1

di Gabriele Esposito

*

Il campanello suona alle tredici e trentaquattro.

Acqua che scorre a cento gradi tra la ruggine dei tubi del palazzo; di là, passetti di coleotteri scuri in fuga verso bui d’intercapedini sconosciute. Lascio la pasta ferma nello scolino di plastica, cammino verso la porta. Lento, il vapore scompare alle mie spalle: so che il pranzo si impaccherà.

L’uomo davanti a me indossa una cravatta a pallini sopra una camicia color vinaccia. Fazzoletto a quattro punte nel taschino della giacca.

Lo guardo negli occhi, ci trovo riflesso il mio volto. Lui guarda nei miei, scopre l’immagine di se stesso.

Ho il passaporto in scadenza: me lo fa capire col sorriso a labbra serrate. Accenno un sì, gli faccio il gesto di accomodarsi, Venga dentro che fa freddo, la poltrona è ancora comoda, sa, è di quelle in pelle: quelle di una volta.

Capisco subito che il mio ospite è qualcuno che sa distinguere la roba buona, uno che i vuoti delle case li vede, li vive; uno che ci sguazza all’interno e non prova mai l’angoscia che si sente forte, qui dove ovunque manca il respiro.

L’uomo valuta il mobile per qualche secondo, ci si siede piano, un sospiro che vira alla risata, quindi affonda i gomiti sui grandi sovrabraccioli. Batte il pugno sul petto, all’altezza del cuore.

È pronto per la transazione.

Lo lascio per un attimo nell’estasi della comodità residua, vado di là e me ne accerto, è vero: ha ragione lui, il passaporto scadrà la settimana prossima. Un martedì come tanti.

Torno nella stanza, quella che tempo fa era il soggiorno dell’appartamento.

Guardi, le ho portato i moduli necessari, lo dice piano, senza un accento, nessuna esitazione. Me li porge sfilandoli da una cartelletta di tipo omologato.

Indosso gli occhiali da presbite e controllo, sembra tutto a posto: il nome è il mio, la data e il luogo di nascita corrispondono. Sono io. E poi la firma, la firma è quella di certo, mi appartiene: elegante, pochi ghirigori, inchiostro nero di una volta, stilografica – di sicuro. Non molto leggibile. Ma è così da sempre: mai avuto una scrittura chiara, io.

Gli rendo le carte e sorrido, del resto lui continua a farlo nei miei confronti. Mi siedo anche io, nella poltrona di fronte, gemella, regali di nozze, tra i pochi che mi rimangono. Unici elementi di decoro ancora presenti nel grande vano.

È il mio turno di installare i gomiti sui grandi sovrabraccioli.

Ecco le sue foto, dice. Mi allungo, prendo il plico dalla mano del funzionario. Rompo il sigillo in ceralacca, crac, un piccolo orgasmo irreversibile. Dalla busta vengono fuori quattro immagini formato tessera: è la mia faccia, una faccia da idiota, succede quando non si sorride. Cristiana lo diceva sempre, quando ancora potevamo dirci cose, quando ancora ci si poteva insultare ridendo. E poi il colletto della camicia è giallo, mi sarebbe piaciuto un colore più consono, le mie erano solo bianche o azzurre.

È a norma di legge. È il tale a dirlo, mi scruta nella mente, ci sa fare, conosce l’ambiente. Tutto è a norma di legge. Non si preoccupi.

Vuole un caffè? Mi alzo senza aspettare la risposta. Do un’occhiata alla pasta che ormai è del colore della camicia in foto: cibo per cani. Butto via, poi metto a bollire un altro pentolone pieno d’acqua. Metto a bollire la moka. La guarnizione andrebbe cambiata se potessi, fa delle croste brutte tutto attorno alla giuntura. Profumo di polvere e gomma bruciata.

Il caffè è nero, lo beviamo in silenzio, così, senza zucchero, caldo, con la più grande attenzione a non macchiare le poltrone. Lui, se possibile, mette anche più cura di me nell’operazione. Dal taschino interno della giacca estrae un sottobicchiere, lo appoggia piano vicino al suo avambraccio sinistro, in bilico sulla morbidezza, come fosse la carezza data a un seno, il pizzicore d’un capezzolo; quindi ci piazza sopra la tazzina vuota. L’impronta del liquido rimasta all’interno è a forma di cuore.

Le foto vanno bene, non serve guardare oltre, ci sto lasciando sopra la forma delle dita. Gliele restituisco.

Tra di noi ancora molti cenni del capo, sorrisi. Noto che ha i denti del colore della camicia. No, non vinaccia. Intendo sempre la mia camicia, quella della fototessera. È forse l’unico difetto dell’uomo: immagino che beva un caffè in ogni casa visitata: il sottobicchiere ha molte tacche, quelle di un cacciatore di taglie.

Vuole ascoltare della musica? Sorride ancora una volta. Significa sì.

C’è poca scelta tra i dischi che mi rimangono, ormai da giorni ascolto sempre e solo la Processione di Elsa verso la Cattedrale, un brano del secondo atto del Lohengrin, l’opera di Richard Wagner. Un arrangiamento per legni temo non voluto dal compositore, roba da flauto, tanto flauto. Mi ricorda la voce di questo signore. Mi ricorda le voci di tutti questi signori. Voci flautate. Velluto. Elsa che entra in chiesa, con abito di velluto? O era Cristiana con il suo vestito? Forse. Un velluto bianco. Voce bianca. Legni, tanti legni. Le assi del soppalco di castagno scoppiettano sotto i nostri movimenti lievi.

È il funzionario che parla o è l’orchestrina che suona, mi perdo nell’ascolto. L’acqua bolle di nuovo.

Lui si alza ancora una volta dalla poltrona, quella di pelle. Chi me l’ha offerta deve averla pagata più di un mese di lavoro, quella volta. Se ancora potesse chiedermelo gli direi anche che ne è valsa la pena perché davvero è comoda, e il mio ospite gradisce. Si vede.

Si alza e mi porge il libretto che fino ad allora era rimasto nella tasca dei pantaloni di fustagno. Secco, sbatte via la polvere accumulatasi tra le pieghe del tessuto. Da molto tempo nessuno si sedeva lì.

Guardo il passaporto nuovo: la foto è la stessa, quella dove indosso la camicia gialla come i denti di chi beve troppo caffè. Ne vuole un altro? Ringrazia, ma no. Io nemmeno, ché ancora devo mangiare. Devo ancora mangiare, mi dice lui. Siamo in pausa pranzo, del resto. Gli chiedo se vuole una pasta. Non può: è in servizio.

Sfoglio il passaporto, le pagine seguenti ai dati anagrafici sono bianche, bianche come il vestito da sposa di Elsa che fa il suo ingresso nella Cattedrale, come quello di Cristiana in chiesa, bianche così come resteranno in futuro, per sempre. Imperitura bellezza.

Lui mi ringrazia, e io ringrazio lui, e ci alziamo e ci diamo la mano, e per poco anche non copuliamo da quanta sintonia c’è, proprio lì, potremmo unire i divani, ma capisco che il tempo per mettersi le mani addosso, esplorare lo sconosciuto, innamorarsi l’uno dell’altro, non c’è più. L’atmosfera ci sarebbe, la casa è vuota come l’essenza di entrambe le nostre vite, si attraggono interstizi e falangi come poli opposti; il riverbero della luce sulle pareti farebbe brillare così bene due corpi nudi intrecciati.

Lui, purtroppo, ha la faccia di uno che per mestiere esita, e sappiamo entrambi che non ci sono tende alle finestre, vediamo entrambi la vicina che ci saluta con la mano già da qualche minuto. Rispondiamo al cenno con educazione, all’unisono. Solidarietà sociale.

Alla fine esito pure io, tanto che il momento è perduto, il flauto continua a suonare, io devo mangiare, lui ha di sicuro ancora lavoro da fare. Non come me. Non come la vicina.

Alla gente i passaporti continuano a scadere.

Lo accompagno alla porta.

Stavo per dimenticarmi, dice. Estrae il portafoglio di pelle dal taschino posteriore dei pantaloni. Estrae dal portafoglio di pelle due banconote da cinquanta soldi appena stampate dalla banca centrale. O perlomeno stirate per l’occasione, ma con molta cura. Me le porge.

Ringrazio. Chiudo la porta.

Faccio qualche passo verso la cucina, poi lui bussa di nuovo, apro: Dimenticavo: la ricevuta. La guardo per qualche secondo: anche lui ha davvero una bella firma, anche se poco leggibile. Come la mia. Saluti.

Torno alle cose. L’acqua bolle: ci verso dentro un etto e mezzo di bucatini e aspetto in silenzio, in piedi, che il tempo passi.

Nei regni di Michele Mari

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Foto di __Jasmin__ da Pixabay

 

di Antonella Falco

Michele Mari, Le maestose rovine di Sferopoli, Einaudi 2021

Con Le maestose rovine di Sferopoli Michele Mari torna a una delle forme letterarie a lui più congeniali, il racconto. È questa, infatti, la sua quarta raccolta. Tra i generi prevalenti, oltre che più efficaci, spicca ancora una volta il fantastico, spesso declinato in chiave horror.

Argilla rielabora l’antico e sempre affascinante mito del Golem (che Mari aveva già brillantemente evocato in Tutto il ferro della Torre Eiffel), partendo da una periodica competizione fra rabbini che però sfugge loro di mano, fino a conseguenze catastrofiche.

Con gli occhi chiusi è articolato in forma di carteggio tra un affittuario e la padrona di casa, in un crescendo di suspense e di inquietudine. La confidenza fra i due aumenta di pari passo al carattere perturbante della vicenda, fino al colpo di scena finale, degno di un racconto di Stephen King.

In Tema in III C il compito assegnato da un maestro elementare funge da pretesto per un maleficio ordito dalla classe ai suoi danni. Resta da capire se il maestro si sia autosuggestionato, rimanendo vittima dell’argomento da lui stesso assegnato ai bambini per il tema in classe, o se quella classe sia costituita realmente da bambini stregoni in grado di operare un maleficio al maestro. La cosa più interessante di questo racconto è tuttavia il modo in cui Mari, simulando la scrittura, anche un po’ sgrammaticata, dei giovanissimi allievi esplori in realtà il genere del racconto fantastico con tutti i suoi paradossi, regalandoci dunque una trattazione di carattere metaletterario, sebbene camuffato da compitino in classe. Alla luce di tutto questo appare ancora più potente l’irruzione, nel finale del racconto, di una situazione realmente fantastica nella vita del professore.

Sempre attorno al concetto della parola che ammalia ed è in grado di attuare un sortilegio è costruito il racconto intitolato Sghru, in cui uno studente impreparato riesce a risollevare le sorti di un esame universitario facendo sfoggio di una lingua sconosciuta che suscita nel professore un rapimento soprannaturale.

Parola apotropaica è invece quella pronunciata dal protagonista di Scioncaccium: il neologismo prodotto dalla crasi fra più vocaboli, tra cui i nomi dei suoi attori preferiti, funge da formula magica in grado di esorcizzare la malattia e tutto il male diffuso nel mondo.

Altro tema ricorrente nella raccolta, e variamente declinato, è quello del cibo: si va dalla indiavolata (e uso questo termine perché, a un certo punto, sembra davvero che il diavolo ci metta lo zampino) competizione fra due parroci dell’alta Val Seriana, appassionati cercatori di funghi, di Boletus edulis, al Dialogo fra Leopold Mozart, Wolfgang Amadeus Mozart e un venditore di formaggi, che già nel titolo sembra riecheggiare un’operetta morale di leopardiana memoria, passando per L’ultimo commensale, racconto in cui due personaggi continuano a conservare frammenti di cibo (ormai putrefatto) dell’ultimo pasto consumato in un’osteria – nel suo ultimo giorno di attività – al fine di potersi fregiare del titolo, appunto, di “ultimo commensale”, fino al succulento In cauda, nel quale reminescenze del periodo universitario si fondono al tema del cibo in un excursus letterario-gastronomico, di chiara ascendenza gaddiana, che culmina nella dettagliata ricetta della coda alla vaccinara. I racconti Boletus edulis e L’ultimo commensale sono collocabili anche in un altro sottogruppo di racconti che caratterizzano questa raccolta, ossia quello della competizione portata fino alle estreme conseguenze, in una sorta di agonismo ostinato e spesso insensato, che può anche rivelarsi letale. Altri racconti dello stesso filone sono Argilla e Il bambino tristissimo.

Alcuni racconti della raccolta sono inediti, altri sono già stati pubblicati. Il falcone, ad esempio, era già presente nel volume miscellaneo Nuovo Decameron che la casa editrice HarperCollins ha pubblicato nel febbraio del 2021 chiedendo a sette scrittrici e tre scrittori contemporanei di sostituirsi ai dieci novellatori del Decameron di Giovanni Boccaccio e di fornire una personale reinterpretazione di una novella, o riscrivendola alla propria maniera, oppure scrivendo un racconto ex novo incentrato però su uno dei temi di giornata del libro. È così che Mari riprende la IX novella della V Giornata, ossia quella di Federigo degli Alberighi, mantenendosi fedele al testo boccaccesco solo nella prima parte, per poi trasformare la novella in un racconto gotico infestato di apparizioni larvali che si susseguono in un crescendo di tensione non privo, come nella migliore tradizione marista, di colte citazioni (la «libbra di carne» di shakespeariana memoria) e di risvolti metanarrativi (come quando a manifestarsi davanti agli occhi del febbricitante Federigo è lo stesso «Giovanni Boccacci da Certaldo», il quale vaticina di un altro misterioso scrittore, «di me assai più oscuro», che «passati da sei a sette secoli verrà», e racconterà la vicenda di Federigo in termini ben diversi da quelli tramandati dall’autore del Decameron. Annuncio profetico dentro il quale si nasconde un rimando allo stesso Mari e alla sua rilettura della IX novella della V Giornata). Il racconto è reso particolarmente realistico e coinvolgente anche grazie alla ormai ben conosciuta capacità mimetica dello scrittore milanese che come già in precedenti occasioni – basti pensare, per fare solo un esempio, all’italiano sette-ottocentesco del giovane Leopardi in Io venia pien d’angoscia a rimirarti – riesce a ricreare meravigliosamente la lingua del Trecento, consegnando al lettore un altro magistrale apocrifo letterario.

Anche Panopticon è un testo già edito (uscì nel 2014 nella raccolta L’isola delle storie, ed. Ultima Spiaggia). Il racconto nacque in occasione della partecipazione di Mari alla terza edizione del festival Gita al faro, un festival letterario che ha luogo in estate sull’isola di Ventotene e che si conclude con un reading durante il quale gli scrittori leggono al pubblico i racconti scritti durante il loro soggiorno, racconti ispirati all’isola e dall’isola. Il racconto di Mari prende le mosse dalle suggestioni di una gita al carcere di Santo Stefano, compiuta in quei giorni.

Com’è noto il Panopticon è una struttura architettonica, adibita a carcere, ideata dal filosofo e giurista inglese Jeremy Bentham nella seconda metà del XVIII secolo. La pianta dell’edificio è circolare, le celle dei detenuti sono munite di due finestre, una rivolta verso l’esterno per fare entrare la luce, l’altra verso l’interno, in direzione di una torre centrale nella quale siede il sorvegliante. La peculiarità di questa tipologia di carcere è che al detenuto non è mai dato di sapere quando e se sia sottoposto a sorveglianza, poiché appartiene al custode la potenziale facoltà di osservare tutti nel medesimo momento: questo farebbe sì che la docilità di comportamento, il rispetto delle regole, il mantenimento dell’ordine divengano per il detenuto un atto pressoché automatico.

Osservando dall’alto il carcere di Santo Stefano, la cui forma a ferro di cavallo ne fa un panopticon perfetto, ci si accorge che il panopticon non è altro che un anfiteatro: «la circonferenza di un edificio formato da tre ordini di logge», può infatti idealmente tradursi in una serie di palchi che si affacciano tutti sulla stessa scena, ma nella dialettica infinita del vedere e dell’essere visti, il gioco ottico si inverte e la rappresentazione del castigo e del controllo si sposta all’interno delle singole celle. Ogni cella, un piccolo teatro. Ogni detenuto, un attore che recita il proprio personale dramma. D’altra parte non è un caso che Mari inizi il suo racconto collocando proprio dentro un teatro il momento fatidico in cui Bentham ebbe l’illuminazione del panopticon: «l’idea mi venne a teatro una ventina d’anni fa. […] Ebbi la netta sensazione che Amleto, voglio dire Kean, stesse guardando dritto verso di me, anzi che il suo sguardo cercasse il mio, intercettandolo e ricacciandolo indietro, come a voler invertire il rapporto, o meglio come se in quel momento, nel palco, io fossi lo spettacolo, e lui, sulla scena, lo spettatore».

Ma nel racconto di Mari quella che va in scena non è soltanto la punizione dei condannati ma anche, e soprattutto, l’ossessione del carceriere. L’inconscio piacere perverso, a metà strada tra voyeurismo e sadismo, che deve aver ispirato Bentham e che Mari trasfonde nel protagonista del suo racconto si fa infatti accanimento, trascinando il sorvegliante in una spirale di follia allucinata che si traduce in una vera e propria discesa agli inferi. Il finale di questo racconto – uno dei più efficaci che Mari abbia scritto – è di grande potenza immaginifica e mostra il sorvegliante soccombere al proprio stesso potere, sopraffatto dalla medesima ossessione di sopraffare gli altri spiandoli. Nel turbinoso delirio che ne consegue, la scena che si apre davanti agli occhi dell’Ispettore – e di conseguenza del lettore – è un possente affresco dantesco: le celle divengono gironi infernali rapiti in un vortice incessante e sempre più rapido, in una ridda di immagini che si fanno via via più indistinte e «trascorrono l’una nell’altra in un’unica scia, tre scie sovrapposte come gli anelli di Saturno». È un’implacabile discesa all’inferno, una catabasi senza possibilità di ritorno. Che cosa attenda l’Ispettore laggiù, nell’abisso, Mari non lo dice espressamente ma lo lascia intuire. Eppure la vera domanda è: cosa si cela dietro l’essere luciferino che attende il sorvegliante nello sprofondo?  Non è forse la sua stessa follia, contemplata nell’atto preciso di compiersi? «L’istante in cui la mente delirante piomba per sempre nel buio», scrive Mari in un’altra sua opera, raccontando un’altra storia, che è pur sempre la storia di un faccia a faccia con l’Altro che abita in noi, il lato folle, oscuro, mostruoso, ossessivo.

Se nella visione di Foucault il panopticon di Bentham è inteso come modello del potere nella società contemporanea, nella visione di Mari è metafora del potere magnetico e perverso che può esercitare un’idea quando questa si radica in modo ossessivo nella mente di una persona, fino a pervadere la vita intera e sostituirsi ad essa. In questo racconto, infatti, il dominatore viene dominato dalla sua idea dominante. Essa, fattasi ossessione, innesca un processo di vampirizzazione dell’esistenza che, svuotata di tutto, si riduce a null’altro che alla reiterazione dell’idea, libera ormai di contemplare sé stessa senza più distrazioni: «non più visto da tempo immemorabile, non ho più viso: se mi imbattessi in me stesso non mi riconoscerei. Sono arretrato in me fino a perdere i miei contorni: nemmeno dei miei occhi ho coscienza, perché tutto è rappresentazione mentale, sovranamente libera dai sensi».

Le fonti del mondo è un racconto sui generis, uscito per la prima volta su Vanity Fair nell’agosto del 2014. Per farvi un’idea dell’orizzonte formale entro cui collocare questo racconto pensate al centone della tarda letteratura greca e latina, o, se preferite, al suo derivato postmoderno, il pastiche. Pensate a Roland Barthes secondo cui «ogni testo è una nuova tessitura di passate citazioni». Pensate all’intertestualità teorizzata alla maniera “ortodossa” da Julia Kristeva o riconsiderata alla maniera di Chambers e di Riffaterre secondo i quali il rapporto intertestuale è da considerarsi più in relazione ai lettori che alla produzione del testo: sarebbero i lettori, infatti, a individuare i nessi di affinità tra i vari testi, a farli dialogare gli uni con gli altri, a intuirne i legami più o meno nascosti. Pensate infine alle potenzialità combinatorie e agli infiniti accostamenti resi possibili dall’utilizzo informatico degli ipertesti. Il mondo cui fa riferimento il titolo è quello cantato da Jimmy Fontana nell’omonima canzone del 1965. Tutto il resto, ossia le fonti, deriva da quel meraviglioso labirinto di luoghi letterari, citazioni, sogni, incubi, storie e ossessioni che da sempre si agitano, inquieti e fecondi, nella mente visionaria di Michele Mari: in fondo essa stessa un centone, un collage di pagine e pagine di autori antichi e moderni, italiani e stranieri, rimescolati e ricombinati all’infinito in opere ogni volta originali e tuttavia già classiche.

Le fonti del mondo traendo spunto dalla canzone di Fontana individua per ciascun verso tre ipotetiche fonti apocrife della più svariata provenienza, che in modo autonomo e nondimeno pertinente esprimono un concetto analogo. Nella visione di Mari «le tre “fonti” di ogni verso non sono in alternativa fra di loro, ma cooperanti, come se il verso in questione nascesse dalla loro intersezione-convergenza». Le fantomatiche fonti si susseguono verso dopo verso chiamando in causa autori quali Edgar Allan Poe, Jack London, Adolfo Bioy Casares, Giordano Bruno, Italo Calvino, Dino Buzzati, Stephen King, Gottfried Wilhelm von Leibnitz, Howard Phillips Lovecraft, Stendhal, Fabrizio De André, Roland Barthes, John Steinbeck, Albert Camus, Cesare Pavese, Franz Kafka, Giacomo Leopardi, Eugenio Montale, Fedor Dostoevskij, Dante Alighieri, Carlo Emilio Gadda, Cormac McCarthy, il Vangelo secondo Matteo, Primo Levi e molti altri, in un avvicendarsi di voli pindarici la cui enormità, come lo stesso gioco combinatorio, sicuramente non sorprende i più affezionati lettori di Mari, ormai da tempo abituati a vedere nel loro scrittore prediletto una sorta di ventriloquo che estrae da sé voci altrui con stupefacente naturalezza.

Tuttavia quello sin qui descritto è soltanto l’orizzonte formale del testo, il suo semplice impianto strutturale. Ma dietro tale ossatura citazionistica, dietro il pretesto nazional-popolare della canzone di Jimmy Fontana, dietro lo sfoggio erudito, qual è l’intima scintilla che ha risvegliato il demone dell’ispirazione marista? Verrebbe da pensare che quanto affermato da Gianfranco Contini a proposito della mescolanza, nella lingua letteraria dell’amico Carlo Emilio Gadda, di tecnicismi, arcaismi e dialettismi, ossia che tale pastiche di linguaggi non fosse altro che il palesarsi di una commistione «di risentimento, di passione e di nevrastenia», sia applicabile anche al presunto divertissement ideato da Mari in questo racconto. Come dire che se chiodo scaccia chiodo, ossessione scaccia ossessione e quello che all’apparenza potrebbe sembrare un semplice divertimento letterario nasconda invece un occulto malessere: potrebbe trattarsi infatti di un gioco erudito dietro cui celare una segreta inquietudine, un oscuro turbamento, il quale, se non propriamente eliminato, possa almeno trovare una distrazione letteraria, una cristallizzazione su carta e quasi uno smemoramento di sé nello stemperarsi di un’ossessione nell’altra: quella personale e privata in quella letteraria, condivisibile col pubblico dei lettori. D’altra parte più volte Mari ha sottolineato, riguardo alla propria prassi letteraria, come più la materia trattata si fa intima e incandescente, a tratti scabrosa, più questa viene maneggiata mediante le pinze formali del mascheramento, dell’erudizione, del gioco colto e citazionistico. È lo stesso Mari ad affermare che «la letteratura libera l’inconscio e più lo libera quanto più è sorvegliata».

Oniroschediasmi è un racconto in forma di diario inizialmente pubblicato in un volume intitolato Sogni dalla casa editrice Humboldt Books, insieme ai disegni dell’artista Gianfranco Baruchello. Trascrivendo i propri sogni, ricorrenti e ossessivi, in questo diario Mari finisce per interrogarsi sulla natura stessa del sogno. Protagonista indiscussa di queste esperienze oniriche è la casa, o meglio «le case, le incase e concase», come lui stesso scrive, sottolineando il ripresentarsi sotto forme diverse di quella che potrebbe essere un’unica, e tuttavia cangiante, casa. Questo protagonismo della casa nel mondo onirico di Mari non desta particolare stupore in quanto è da sempre uno dei topoi principali della sua narrativa e le “case-Mari” – autentiche case-mondo – sono state immortalate, dal fotografo Francesco Pernigo, in quella vera e propria autobiografia per immagini che è Asterusher.

I sogni che Mari racconta in questo testo hanno tutta l’apparenza di essere stati veramente sognati e costituiscono un portato della sua vita reale, in altri termini sono l’ennesima trasposizione in chiave narrativa delle sue idiosincrasie, dei suoi demoni interiori, dei suoi pensieri ossessivi, morbosamente e feticisticamente coltivati nel corso degli anni e più volte sublimati e trasfigurati in forma letteraria. Le case che Mari sogna appaiono perturbanti, e, ogni volta, sembra che portino a galla un elemento rimosso e tuttavia da sempre familiare: rimosso proprio perché familiare. D’altra parte non è una novità la consuetudine di Mari con il proprio personale mondo onirico, del quale ha dato testimonianza altre volte in racconti (si pensi a Un sogno bruttissimo in Euridice aveva un cane), romanzi (ad esempio, in Rondini sul filo o in Leggenda privata) e finanche articoli.

Altri racconti, come Il buio, in cui un padre e suo figlio dialogano sul buio e sui motivi per cui è normale averne paura, in un botta e risposta serrato che conduce a un finale sorprendente, richiamano alla memoria vecchi racconti come La legnaia (in Euridice aveva un cane) anch’esso incentrato sulla paura del buio.

Scarpe fatidiche racconta invece di un paio di scarpe “magiche” che condizionano non poco la vita della loro proprietaria.

Ma tanti altri sono i racconti contenuti in questa raccolta che lasceranno il lettore stupito e ammirato. Ogni nuovo libro di Michele Mari, infatti, è prova di grande intelligenza e acume: una collezione di fantasmi e di chimere letterarie, di sogni e di superstizioni in cui lo scrittore concentra l’essenza stessa della sua poetica, in una continua sfida ai generi e alle convenzioni letterarie, supportata da un’immensa passione per la lingua italiana, sempre usata in maniera strabiliante. Il tutto permeato da un sottile velo di ironia che assume di racconto in racconto sfumature diverse. Al lettore, che come al solito dovrà essere dotato di una vasta e robusta cultura letteraria, per poter cogliere i colti e raffinati riferimenti intertestuali disseminati qua e là, nonché le mirabolanti acrobazie lessicali e sintattiche che sorvolano diacronicamente l’intera nostra storia linguistica, non resta che sospendere, ancora una volta, l’incredulità e godersi questo stupefacente viaggio nei regni della letteratura dove ogni testo può riservare un finale spiazzante e nessuna storia significa solo quello che appare sulla pagina.

Andante crociera

1

di Marino Magliani (illustrazioni di Chiara Fabbri Colabich)

 

Foglietto 1

Suicidio di un fiume

Era un fiume che nessuno guardava mai, tutti altrove, sulle rive di altri fiumi, laghi, tutti a nuotare in altre acque. Il fiume pensò che doveva fare qualcosa e quello stesso giorno piantò sulle sue rive una riga di palme gagliarde. Appena se ne accorgono arrivano a frotte, sospirò sott’acqua.
Passarono i giorni, ma nessuno venne mai a sedersi all’ombra delle palme, il fiume apriva occhi da coccodrillo e non riusciva a crederci.
Egli non disperò e dopo le piante cominciò a riempire il suo corso di stupendi ponti a tre arcate. Erano ponti in ogni stile, romanici e moderni, altri dalla struttura in pietra e altri ancora in ferro battuto e verniciato. Il fatto è che nemmeno così la gente veniva al fiume e ben di rado qualcuno saliva sui ponti, e allora, dopo averci pensato un’intera notte di luna piena, il fiume ebbe una terza idea, e inventò salti e cascate altissime, spuma d’acqua e aria di goccioline. Alla fine servì a poco anche tutto questo, perché da quando l’acqua faceva le goccioline ed erano cambiate alcune lune, gli umani che di notte o di giorno venivano a fare «Oh» si contavano sulle dita. Il fiume tornò a rotolare nello sconforto e ci ripensò a lungo, scorrendo. Stavolta voleva essere sicuro, doveva essere un’opera titanica, e calcolò bene tutto quanto e finalmente un bel giorno partì coi lavori. Dove aveva creato la cascata più bella scavò un grosso solco, ammucchiò pietroni, ferro, cemento e vi costruì la più grande diga della regione. Poi aspettò la stagione secca, un giorno l’acqua cominciò a mancare dagli orti e dalle vasche, il fiume rideva eccitato, ma incredibilmente nessuno pescò mai acqua dalla nuova diga, i messi comunali girarono tutta l’estate con la cisterna sul furgone, distribuendo acqua potabile e acqua irrigua, e poi finì il caldo e si mise a piovere, e allora al fiume venne voglia di rompere la diga e allagare la valle. Succedevano cose strane nel frattempo e dove l’alveo attraversava la città, un lungo tratto delle acque scorreva sotterraneo. Il fiume viveva con una parte del corpo al buio e sopra di lui, lungo quell’asfalto piantato sulla sua pelle come un tatuaggio, passavano le macchine e i signori della città costruivano posteggi e mercati. Una mattina il fiume si svegliò con un ghigno perché durante la notte aveva sognato la solita soluzione. Riempì le acque di storioni e merluzzi, costruì vasche, mise cartelli: “pesca molto facilitata”, e aspettò. Devi aver pazienza, si disse. Il seguito dovremmo saperlo: i giorni passarono e sulle pietre e sulle balaustre dei ponti, a pescare i merluzzi non si sedeva nessuno. Storioni e merluzzi si moltiplicavano e saltavano pigri nelle acque. Il fiume li guardava con occhi da coccodrillo e riabbassava le palpebre.

Cos’altro restava? Una cosa c’era. Come ho fatto a non pensarci prima, si disse gorgogliando.
Egli puntò i piedi e con un colpo di reni spinse le sue acque in senso inverso, le fece salire nel sud dell’Olanda e in Belgio, le avvolse attorno alle Ardenne, e in cima a montagne che poggiavano in territorio francese, dalle sabbie paludose che d’inverno gonfiavano e spaccavano gli argini, mandò se stesso lungo le palme, sotto i ponti che aveva costruito, su per le cascate, spedì le correnti con dentro i merluzzi fin dove nessuno l’aveva mai fatto, finché le acque non si ossigenarono e i merluzzi gelarono. Ora il fiume era stanco, e giunto dove nasceva si fermò, e in tutto quel silenzio lo spaventò un tonfo cavernoso, di quelli com’era abituato a sentire quando gli spargivento dei moli olandesi fermavano le onde. Allora si voltò verso il Belgio e l’Olanda, e vide che il Mare del Nord era entrato nel suo letto e tutti quanti, quel giorno, affollarono le rive per vedere il fiume morto.

 

Foglietto 2

Vidi una grande massa d’acqua ferma nella pianura olandese, e nel punto in cui il fiume avrebbe dovuto irrigare orti e regalare pesci agli abitanti dei villaggi che avevano costruito le loro case sulle rive, non si sentiva nulla. L’acqua non fa rumore perché non passa, mi dissi. Le case erano vuote e a terra stavano le catene attorcigliate come serpenti di acciaio e per ogni catena un collare di cuoio. E una gallina a beccare nell’erba, libera e spaesata, un gatto dietro la vetrata di una casa, ma poi più nulla, nessun altro segno di vita. E più avanti ancora, al fondo del fiume scomparso, dove un vecchio fango pieno di crepe ricordava in qualche modo l’idea di un delta, la città era deserta, il legno cigolava, gli stracci mossi dalla brezza e il mare penetrava le strade per un buon tratto. Delfini, grandi tartarughe e piccoli pesci di barriere coralline, scappati da qualche acquario, sguazzavano lungo un argine e dentro i canali e le fogne della città. Tornai al principio, alla grande massa d’acqua immobile e alta che pareva prendere la rincorsa. Dissi al fiume: «Sei stupido, non vedi che terrorizzi la gente, hai sciolto le catene dei cani, spopoli i pollai e asciughi il delta?». Dissi ancora, poiché il fiume taceva e guardava altrove: «Parlo a te, vai, scorri di nuovo, vai a poco a poco». Allora il fiume olandese scosse la testa e scricchiolò come per trovare la posizione giusta, prima di parlare. La sua sorgente era troppo lontana, disse come a giustificarsi, era troppo interna, lo capivo o no? Nasceva nelle terre carsiche del Belgio e quindi dal punto olandese in cui si trovava la centrale delle idee era impossibile prevedere quant’acqua sarebbe ancora giunta. Se un giorno la sorgente fosse seccata lui sarebbe morto arso nel fango, coperto di pesciame dalle squame azzurre, gli occhi spalancati, deriso da una mezza stagione di pioggia e macerato assieme alla carne putrefatta delle anguille. Sarebbe morto. Sob! Anzi, sgrunt, disse a fil d’acqua.


Gli chiesi: e così?
Giunse fin quasi a bagnarmi la punta dei sandali.
Così cosa, cosa vuoi da me?
Cosa pensi di risolvere, intendo?
Alzò le spalle. Così, disse, se un giorno si fosse esaurita la sorgente e anche le riserva, lui avrebbe liberato se stesso e inizialmente il muro d’acqua avrebbe allagato la pianura, ma presto si sarebbe incanalato nel suo letto e avrebbe ripreso a scorrere disciplinatamente ancora chissà per quanto.

 

Foglietto 3

Olanda, sul Mare del Nord. Qui è quel periodo in cui gli alberi davanti alla mia stanza fanno nascere una specie di vita tra il fiore e la foglia come una prova della vera foglia che sotto sotto l’albero sta decidendo di far esplodere. L’ibrido dura pochi giorni, la pianta pare vergognarsene, non ci si riconosce, l’ibrido secca e si stacca. Per un attimo tutto quel giallume vegetale che vola e si accampa sul mattonato è un segno dell’autunno.
Il vecchietto eternamente in giacca e cravatta che vive nella casa all’angolo oltre gli alberi e partecipa ai vari concorsi del giardino più bello indetti dal Comune di IJmuiden, ha tirato fuori la sua robusta scopa da esterni e cancella le prove di una stagione finta di cui tuttavia pare abbia paura. Tutto questo succede ormai da vent’anni e a volte ho paura anch’io.

 

NdR Questi testi, che presentiamo per gentile concessione dell’editore, fanno parte del racconto “Andante crociera”, pubblicato recentemente da Bietti Editrice, con illustrazioni di Chiara Fabbri Colabich

Scrissi queste pagine quando ancora non sapevo che certe cose potessero essere incluse nella categoria dei racconti. Poi seppi che tutto questo era successo a molti. Lavoravo sul porto di IJmuiden, in Olanda, sul Mare del Nord, facevo lo scaricatore. Un giorno il gancio di una gru, come scrivo nel racconto, mi colpì in fronte e rimasi a casa un po’ di tempo. Lessi molto in quei giorni e capii che se le cose che leggevo erano buone io ne avevo di altrettante buone. Me la facevo facile. Andante crociera fu una palestra, e mentre lo progettavo – ero tornato al lavoro – studiavo i paesaggi, e vederli ora nei disegni di Chiara Fabbri Colabich è come imparare di nuovo a scrivere.

Marino Magliani

 

Uccidi il mandarino

1

di Giulio Spagnol

Ogni terza domenica di marzo, quando il sole sale a scaldare le prime coppie che ciondolano al parco, ecco che sul lungomare spunta Ignacia, e parcheggia il carrozzone alla rotonda del porto. Per noi del quartiere la primavera inizia così, e ci rovesciamo tutti in strada, come starnutiti fuori dalle case. Quel giorno le corse vanno avanti fino alle dieci o alle undici, finché ce n’è insomma. La gente scalpita e si accalca intorno al carrozzone, la rotonda diventa un pantano schifoso che se non vuoi sporcarti devi farti il segno della croce. Via con la musica! I facchini di Ignacia girano come dervisci approntando la vasca; le ragazzine appoggiano i gomiti alla ringhiera e si fanno la coda per non perdersi niente; i ragazzini ne approfittano per palpeggiarle da dietro. Ghiaccioli torroni telline canditi ciambelle bonbon e marshmellow – divoriamo di tutto – petali di rose fritti e pannocchie al burro: tutto evapora e si appiccica e galleggia nell’aria uterina di primavera, e un brivido ti attraversa le gengive e ti senti un gran bene, mentre sbraiti e infili le monete nelle cassette delle scommesse. Oggi sono arrivato tardi, le corse stanno per iniziare e Carlotta è già appoggiata alla ringhiera che mangia semini.

– Mi sa che ci siamo – biascico tentando di sfiorarla.

Lei mi lancia un’occhiata di quelle che ustionano e va avanti a sgranocchiare. Da quando è bambina ha un modo tutto suo di sgranocchiare: con l’incisivo destro (che adesso è rigato da un filo giallo di nicotina), spacca le bucce e se le rigira in bocca succhiando bene tutta la membrana, poi inghiotte tirandosi indietro i capelli e sputa quel che resta per terra. Rimaniamo in silenzio a fissare i due facchini che, imprecando, si calano nelle teche con degli spazzoloni che da qui assomigliano a enormi scopettoni da water. La gente del quartiere lentamente si ammassa e preme contro la ringhiera: Agostino, Lella, Cesare, Renzo, Cavallo: qualcuno lo riconosco tra la folla e ci salutiamo. Carlotta sputa l’ultimo semino e si mette le mani a megafono:

– Allora, diamo un senso alla cosa!

Ignacia, mentre i facchini puliscono la vasca, legge nell’angolo più buio del carrozzone su uno sgabellino che scricchiola (sarà più di cento chili ormai: a tutti, da bambini, hanno detto “se non fai il bravo viene Ignacia e ti mangia”, oppure “bada che Ignacia ti butta nella vasca”). Richiamata dalla folla sobbalza e un libro le cade dal buzzo: di solito, i nostri ossi di seppia. Quando chiediamo, lei ci dice che a Città del Messico era una poetessa, e anche molto brava, che ha pubblicato su riviste importanti e roba del genere, che frequentava un gruppo di giovani poeti messicani e cileni; se le chiediamo perché non ci fa leggere le sue poesie risponde “perché non mi va”; poi ci racconta che ha lavorato al circo come digiunatrice, che è stata l’amante di un noto pappone superdotato di Buenos Aires che una volta ha quasi soffocato una puttana con il suo pene, che abitava in calle Cortázar, e che da ragazza pesava più di duecento chili e dovevano portarla ai vernissage letterari in una carriola addobbata con calendule e denti di leone. Capite, quindi, se non ci fidiamo troppo. Evocata dalla voce di Carlotta sciabatta verso di noi e attacca con la commedia.

– Cosa volete voi altri? – agita la mano come si scacciano i tafani, via di qui.

Carlotta si fa portavoce di tutti.

– E dagli una botta Ignacia, che qui vogliamo giocare – seccata tira fuori il borsellino e lo sbatte sul tavolo.

– E muoviti che abbiamo fame! – sbraitano quelli che premono dietro. Io sono riuscito a ritagliarmi un posticino in prima fila, alla destra di Carlotta.

Sbuffando, Ignacia estrae le cassettine di legno per le scommesse e le allinea sulla ringhiera.

– Dai friggi l’olio! – incalza la folla.

– State buoni per Dio! – raglia Igancia, e girandosi verso i facchini urla:

–Vamos, manos!

Come punto da un’ape un facchino balza in piedi e spinge la vasca di fonte a noi. Nelle casse parte Gasolina, la gente si scalda e preme sempre di più; l’altro facchino si infila i guanti di maglia, afferra i secchi e li tuffa nei barili in fondo al carrozzone,

– Vamos culero! – lo incalza Ignacia contorcendosi; il facchino si trascina ingobbito alla vasca e ci rovescia dentro il contenuto dei secchi.

– Ci siamo – mormora Carlotta.

In un istante la matassa umida rimbalza e si sfalda all’interno della teca: un centinaio di granchi di varie forme e dimensioni schizzano frenetici e terrorizzati in tutte le direzioni; la mano destra di Carlotta si contrae in uno spasmo involontario; la voce di Ignacia galleggia nell’aria, amplificata da un microfono da ring announcer.

Damas y caballeros – ruggisce – ladies and gentleman, fate il vostro gioco! Puntate signori, un solo vincitore; puntate senza indugio: oggi abbiamo violinisti, rossi, reali e comuni; ammirate signori: corazze possenti! Chele affilate e letali. Ignacia rifiata e tira una boccata dalla sigaretta; i granchi ammucchiati gli uni sugli altri hanno tutti un numero disegnato sul guscio e, terrorizzati, picchiettano le chele sul vetro. Un centinaio di braccia e di mani si torcono e si annodano e infilano le monete e le banconote nelle cassette. Vedo Cavallo che infila una banconota verde in una cassettina lontana dalla mia; con i suoi modi gentili e i denti ingialliti chiede una sigaretta a Carlotta. D’inverno ripara le cabine in spiaggia, l’estate la passa sul trespolo con il binocolo in mano scrutando il mare in cerca di turiste tedesche. Mentre lei è girata mi fa l’occhiolino.

– Finché è un gioco va bene, ma non farti tirare scemo­ – me lo dice sempre quando la sera giochiamo a scacchi al porto; io arrossisco: non avrei dovuto parlargli di Carlotta; poi si allontana.

Carlotta mi tira una gomitata:

– Allora, hai deciso?

– Credo che sceglierò quello lì – e indico il 23: un granchietto violinista verde petrolio, grande più o meno come una tazzina da caffè, che stupidamente cerca di scavarsi un buchetto dove nascondersi sgraffiando il fondo trasparente della vasca.

– Te la giochi con quello scricciolo lì? – mi chiede inarcando un sopracciglio.

Non faccio in tempo a rispondere che vengo sovrastato da Ignacia.

– Allora? – grida – Siamo pronti?

– Pronti! – urla Carlotta infilando una banconota rossa nella cassettina del suo campione (un granchio reale dagli occhietti neri, morti e malvagi).

– E allora andiamo! – urla Ingacia e fa cenno al facchino.

– Al mio tre – sbraita.

Le casse ora pompano Cotton Eyed Joe; la gente dietro di me, agglutinata in un’unica massa, sgomita e scommette, sogna di vincere e pagare l’ombrellone a tutta la famiglia giù al Lido, l’unico stabilimento che ha ancora la sabbia. Il facchino si aggrappa alla manovella e la gira con tutte le sue forze, l’olio bianco corre lungo i tubi in un gargarismo bollente. Si apre lo sportellino nell’angolo della teca. Tratteniamo tutti il respiro, in aria sale un grande “ahhhh”. Un centinaio di granchi, quelli più vicini allo sportellino, muoiono ustionati all’istante; rovesciati sul loro guscio, cominciano a galleggiare per la teca con le zampe irrigidite.

– Spostati di lì! – urlo al mio violinista che, miracolosamente, riesce a sgambettare via appena in tempo. I superstiti fuggono con le chele strinate, calpestandosi si ammassano ai bordi della vasca formando un cumulo basculante di chele, gusci, occhi, zampe e antenne attorcigliate. Chi è sotto si ustiona, chi è sopra calpesta le chele degli altri, perde l’equilibrio, e precipita nell’olio bollente che continua a salire. Il fondo della vasca si trasforma in una crosta nera di carcasse carbonizzate e fuse insieme, immangiabili, buone per essere grattate via e gettate ai gatti perché non seguano dappertutto i facchini miagolando tetre sarabande. Mentre l’olio sale, Ignacia pattuglia la teca con un grande mestolo di ferro. Gli occhi le ruotano nelle orbite come due gamberi senza cervello; con il mestolo pesca i granchi fritti, scola via l’olio e li tampona nella carta assorbente, poi trita tutto con un grosso coltello e spolvera con sale e prezzemolo fresco. I cartoccetti vengono passati ai facchini che camminando avanti e indietro per il carrozzone li porgono a quelli delle prime fila che poi li passano dietro. Va detto che il prezzo è davvero ragionevole. Tutti noi del quartiere siamo praticamente cresciuti a pane, prezzemolo e cartoccetti. Carlotta mi afferra la mano.

– Sai che la paura inietta nell’animale dei succhi che rendono la carne più tenera – mi chiede – roba tipo endorfine, ormoni, vasodilatatori, neuro peptidi. Per questo i granchi di Ignacia sono i più buoni.

Per la prima volta mi guarda negli occhi, ha la faccia arrossata dalla calca e dall’eccitazione.

– Lo sai, se qualcuno si azzardasse a rovinarmi la festa di primavera lo getterei nella vasca senza pensarci due volte. Ucciderei il mandarino – sentenzia accendendosi una sigaretta – tu no?

– Farei cosa? – le chiedo cercando tra la massa il mio granchietto.

– Se con la mente potessi uccidere un giovane mandarino che vive a Pechino, senza venire scoperto, e la sua morte ti procurasse anche il più misero vantaggio, ci penseresti mezzo secondo?

Io provo a dire qualcosa, ma ci metto troppo. Carlotta mi lascia la mano come se di colpo fosse diventata incandescente. Intanto ho trovato il mio violinista. È avvinghiato con entrambe le chele a un granchio rosso, il granchio rosso si stacca via una zampa per liberarsi e lo fa rotolare giù, alla base della vasca. Rimane incastrato in un groviglio di antenne, l’olio salendo lo consuma a poco a poco, le bollicine lo avvolgono, la parte sommersa si ricopre di scaglie dorate, l’odore è davvero squisito, le zampe a filo d’olio ruotano e si attorcigliano come impazzite dal dolore. Il violinista comincia a urlare, qualcuno potrebbe scambiarlo per un grido di dolore, è normale, tendiamo ad antropomorfizzare un po’ tutto; si tratta solo della pressione che aumenta all’interno del carapace e poi sfiata per i pori del guscio emettendo un sibilo molto acuto. Scoppia un boato: stanno portando Cavallo in trionfo, il suo granchio è stato il primo a scalare la vasca e a buttarsi oltre al bordo; la gara è finita. Dietro di me un uomo grasso con il cranio luccicante cerca di sgomitare davanti e mi schiaccia le costole contro la balaustra; il suo sudore puzza di fritto e di gamberi. Carlotta ha finito la sigaretta e ora sta mercanteggiando con un facchino per pagare tre cartoccetti al prezzo di due.

Più tardi andremo tutti alle baracchette del porto, i vecchi e i genitori se ne andranno a casa e noi staremo tutta la notte a bere gin tonic e mojito annacquati. Ignacia ci raggiungerà verso mezzanotte, starà con noi fino a settembre. Il suo carrozzone porta un sacco di turisti dalle nostre parti e le siamo grati per questo. Solo una volta le ho parlato di Carlotta: era una notte di agosto dell’anno scorso. Carlotta si baciava in un angolo con Cavallo. Più tardi, ho saputo, sono andati da lui. So che si sono stesi sul letto senza lavarsi via il sudore o le foglie di menta dai denti, che lei l’ha trascinato alla finestra davanti al faro e lui l’ha presa da dietro. Ignacia però era ubriaca e ha solo biasciato frasi senza senso che non mi hanno aiutato per niente, tra cui, credo, il motto della lega anseatica: è necessario navigare, non vivere.

 

( n.b.: modificato su richiesta dell’autore il 9/9/23)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La guerra e la Champions League

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Una casa distrutta a Vilkhivka © Copyright ANSA/AFP

 

Una casa distrutta a Vilkhivka © Copyright ANSA/AFP

di Pasquale Palmieri

Perdi l’ultimo brandello di speranza quando ti accorgi che la guerra è raccontata come se fosse una partita di Champions League. Accade sui giornali, in televisione, sui social, al bar o al mercato. “Stanno perdendo”, “si ritirano con la coda fra le gambe”, “prendono botte da orbi”. Persino lo sberleffo ha fatto capolino nei nostri linguaggi quotidiani da qualche settimana a questa parte, insieme alle scommesse e alle previsioni sul “risultato finale”. Le parole di un noto scrittore (nonché firma prestigiosa del “Corriere della Sera”) pronunciate il 27 aprile davanti alle telecamere di “Otto e mezzo” erano solo una spia di una tendenza più ampia: “Non c’è storia, è abbastanza evidente come va a finire. Vinciamo noi questa guerra. Quindi, calma”.

Le stragi o le atrocità non mettono un freno alla nostra progressiva fanatizzazione. Non ci spingono a esercitare la “pìetas”, la cura dell’altro, del più debole. Al contrario, ci inducono ad amplificare l’alfabeto della violenza. Esistono i criminali di guerra, i mostri, i vendicatori, e continuiamo a concentrarci solo su di loro, come se non ci fossero altre esistenze degne di attenzione. Ma ci siamo mai chiesti quali persone vanno a comporre la grande maggioranza dell’esercito russo? Sono spesso ragazzini, poco più che adolescenti, impauriti dalla loro stessa ombra, nati sotto un dittatore, trascinati nell’invasione folle di un territorio ormai ridotto in macerie. Sono vittime dell’imperialismo del loro leader, proprio come gli Ucraini aggrediti. Sono vittime degli imperialismi che insozzano il pianeta, insieme a troppi altri esseri umani.

Lo ha spiegato di recente anche lo storico Giovanni Savino nel suo “Diario russo”, pubblicato a puntate da “Doppiozero”. Uno degli esempi più eloquenti arriva dalla Repubblica del Daghestan, nel Caucaso settentrionale, che può contare sul triste primato del pianto con circa 150 soldati caduti, senza prendere in considerazione quelli sfuggiti ai censimenti o dimenticati (spesso di proposito) dalle fonti ufficiali. Le cronache locali sono reticenti sulle cerimonie funebri, ma non riescono a nascondere la nascita di nuove aree cimiteriali dedicate ai militari. “In questa cornice – scrive Savino – la retorica bellicista, il militarismo inculcato a piè battente, le fanfare della propaganda approdate definitivamente nelle scuole e nelle università, risultano essere ancor più inquietanti. Un culto della vittoria a ogni costo, dove il sacrificio è annullato perché a morire sono i perdenti, in un’ottica trionfalistica da manager in mimetica, si coniuga alla necessità di altri uomini da mandare al fronte”.

Abbiamo quindi bisogno di ribadire l’ovvio: la guerra non è una partita di calcio, né un incontro di pugilato. I soldati non scendono in campo per consentire a noi altri di sederci sugli spalti a fare il tifo. Non fanno “melina”, non subiscono il “pressing”, non conoscono il “contropiede” o il “fuorigioco”, non “abbassano la guardia”, non si “chiudono in difesa”, non incassano “botte da orbi” per poi rialzarsi, contare i lividi, e aspettare il round successivo. Hanno armi potentissime. Le hanno tutti, indipendentemente dai distintivi che appaiono sulle loro divise. Tengono in piedi con il loro sangue una delle industrie più fiorenti del nostro mondo. E muoiono.

Il cielo sotto Parigi

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Non toccare
di
Francesco Forlani
Ci sono molte periferie per un solo centro ed è per questo che cambiano i treni, le stazioni, le facce della gente per arrivarci. Tale moltiplicazione di mezzi e luoghi non la puoi racchiudere in una sola parola, nemmeno una come banlieue, neanche al plurale, Banlieues, quando le vocali si ripetono all’infinito prima di tacere la voce, e cingere il capo con una couronne.
Le RER, per esempio, con un nocciolo di fermate all’interno della capitale ne sezionano il centro prima di biforcarsi alle porte in direzioni diverse, ma in fondo rimangono dentro la città, ne rovesciano simmetricamente gli orizzonti, le verticali, rimanendo fedeli tutto sommato alla croce dei venti e ai punti cardinali. Altra cosa sono i treni quasi veri che dalle stazioni, Gare d’Austerlitz, Gare de Lyon, Gare St. Lazare, Gare de Montparnasse, Gare de l’Est e Gare du Nord, proiettano i pendolari nei due sensi, nel senso di chi a Parigi ci vive e va o ci viene a lavorare da fuori.
In periferia non ci vai, a pensarci bene, perché ce l’hai addosso, sei tu la prova che esista un mondo oltre le porte, abitato, vissuto, da altri, un luogo che per loro è al centro della vita, delle loro vite, di certo non la tua.
A volte basta poco, un sorriso inatteso, un gesto di cortesia che ti fa cedere il posto a una persona più stanca o uno scambio di sguardi complice a farti sentire parte di un tutto e non un pezzo di ricambio alla grande macchina, a rendere il passo meno pesante, l’attesa sulla banchina più distratta. Oppure, accade qualcosa all’improvviso che attira la tua attenzione, una scena, una posa da instagram che ti fa indugiare sul prendere o meno il cellulare, o riflettere per capire cosa stia succedendo.
La prima volta è stata la stranezza della cosa ad attirare la mia attenzione. Un uomo, elegante, sulla sessantina, snello, di colore che tenendosi sulle retrovie delle file di persone in attesa del passaggio del treno, ad un tratto s’era avvicinato ad un passeggero sfiorandolo con una mano sulla spalla. L’altro non se n’era nemmeno accorto e così aveva proseguito nel suo cammino prima di sparire lungo le scale mobili. In altri termini non era lì per partire, ma solo per compiere un gesto inspiegabile ma chiaro, volontario. No, non era stato per nulla aggressivo, né tanto meno cattivo come potrebbe essere quello di un complice di borseggiatori, o peggio ancora di un untore. Ma allora cosa significava quel gesto e poi perché proprio a lui era toccato?
Diversa la seconda volta, poche settimane dopo. Non un uomo, stavolta, a compiere quello strano rituale ma una donna, e giovane, vestita alla moda dei giovani con cuffie di colore rosso, di buona marca per ascoltare musica, e con i modi di una studentessa di matematica. Quali siano i gesti soliti di una che studi algebra e geometria non saprei dirlo, però quella era stata l’impressione che ne avevo avuto. A differenza del primo, non camminava, ma se n’era rimasta ferma dietro alla seconda fila e quando le porte si sono aperte per accogliere i nuovi viaggiatori, aveva semplicemente appoggiato un palmo di mano dietro ad una signora dall’aria assorta, quasi preoccupata, quasi volesse spingerla e non solo sfiorarla. Era il gesto di chi impone le mani alla maniera di un rito cristiano, di certe Madonne del Rinascimento che non sai se ti stiano intimando di fermarti o semplicemente rassicurando rispetto a un qualcosa di simile a un dolore e che ha bisogno di grazia. Tutti erano saliti sul convoglio tranne lei che era rimasta nello stesso punto dov’era prima di incamminarsi, una volta chiuse le porte, verso l’uscita.

A fondo nel Mar Rosso

1

 

di Nick Casini

Fa freddo in fondo al Mar Rosso. La pubblicità sulla rivista della compagnia aerea spergiurava che il primo respiro sott’acqua è come il primo bacio: non si dimentica. E io ci ho creduto, nonostante non ricordi nulla del mio primo bacio. Passati i trent’anni, vittima volontaria di una routine inesorabile (la machine, se ci si tiene a citare Deleuze), sono disposto a qualsiasi novità.

Sam, l’istruttore egiziano, fa cenno a Yosef, il mio compagno di corso, di iniziare. L’esercizio, da svolgersi interamente sott’acqua, prevede di sfilarsi la maschera, nuotare per venti metri in una direzione qualsiasi, girarsi, nuotare indietro fino al punto di partenza, rimettersi la maschera e svuotarla dall’acqua usando l’apposita tecnica che ci è stata spiegata in precedenza. E questa non è la parte più difficile. In ginocchio sul fondale, con cinque metri d’acqua sopra la testa, ad ogni respiro i miei polmoni si riempiono d’aria e mi trascinano verso la superficie come un salvagente. La mia testa non ha ancora capito cosa vuol dire respirare sott’acqua, e allora ingerisco più aria di quanto abbia bisogno e mi trasformo in una boa. Poi mi dimeno ed espiro come un drago per tornare con le ginocchia sulla sabbia e non fare la figura dell’inetto. Sam non si scompone, deve averne visti tanti come me. Mi lancia un’occhiata per capire se è tutto a posto. Intanto, Yosef chiude gli occhi, si sfila la maschera e pinneggia in avanti. Il suo corpo, avvolto in una muta a mezze maniche, si flette come un tubo di gomma. È inglese, ma biondo come un vichingo. I peli chiari sulle braccia, colpiti dalla luce del sole, si accendono come fiammiferi. La distanza che ci divide è opaca, nonostante l’acqua sia di una trasparenza cristallina. Intorno a noi nuotano pesci a strisce gialle e grigie e, poco più in là, l’ombra scura della barriera corallina si proietta sulla sabbia. Sam accompagna Yosef con lo sguardo e poi lo aiuta a fare marcia indietro. Il movimento delle sue pinne solleva piccole nuvole di sabbia dal fondale; i pesci, infastiditi, corrono via. Io mi concentro solo sul rimanere sul fondo.

 ***

All’uscita dell’aeroporto di Sharm El Sheikh mi investe una folata di vento torrido che quasi mi butta a terra, poi scorgo tra la folla un foglio di carta con scritto MR. CASINI e gli corro incontro. A tenerlo tra le mani è un egiziano con indosso un paio di jeans spessi un dito, mocassini neri, una camicia button down bianca e occhiali da sole stile aviator. Nell’aria c’è odore di tubo di scappamento. La prima cosa che mi dice è che sono due ore che aspetta, ma nella sua voce c’è rassegnazione e non risentimento. Do tutta la colpa ai ritardi della compagnia aerea e alle cervellotiche pratiche di controllo bagagli del personale dell’aeroporto (cani, mitra e metal detector), ma è una giustificazione superflua: il mio autista non è arrabbiato, ci tiene solo a farmi sapere che nonostante l’attesa non mi ha abbandonato al mio destino.

Trovato un varco tra le mura bianche e le divise mimetiche che circondano l’aeroporto, piombiamo ai margini di un immenso cantiere. L’orizzonte è occupato da terra smossa riarsa dal sole, scheletri di palazzi a tre piani e check point presidiati da soldati armati. Ruspe avvolte in nuvole di sabbia, manovrate da operai in jeans e scarpe da ginnastica, continuano a scavare nonostante ci siano in giro centinaia di edifici abbandonati e mai finiti. La strada che percorriamo ha quattro corsie per senso di marcia – modello Los Angeles – ma il traffico è quello di un Ferragosto a Roma. Non c’è una vera vegetazione, solo qualche cespuglio ingiallito che fatica a farsi largo tra cumuli di pietre. Avanziamo per chilometri senza incontrare un cavalcavia, ma solo enormi rotatorie e periodiche interruzioni nel guard rail centrale che permettono improvvise inversioni ad U. Le creste rocciose del deserto del Sinai sfumano alle spalle di uomini seduti sul ciglio della strada ad aspettare un passaggio. Tutti i colori sono mutati, circoscritti tra l’ocra e il bianco, una palette turbata solo dalla mano dell’uomo: i cartelli stradali verde smeraldo, le gigantografie del presidente al-Sisi e del suo grande amico re Salmān d’Arabia, i negozi deserti dalle insegne enormi e le vetrine sovraffollate che appaiono a macchie. Il resto è asfalto e sabbia, fino a che appaiono i primi resort. Allora, d’improvviso, è un florilegio di aiuole erbose irrigate a getto perpetuo, di statue dorate, di ingressi monumentali, di palme e di fontane. Giardinieri in tenuta mimetica annaffiano colossali bouganville e prati all’inglese. Compaiono – addirittura – piste ciclabili deserte e polverose, slanci modernisti in un luogo che tra afa e tempeste di sabbia sembra l’incubo di qualsiasi ciclista.

“Fino agli anni Ottanta non c’era niente,” sospira il tassista vedendomi fissare il paesaggio. “Solo deserto, mare e beduini.”

Come tutti da queste parti parla un po’ di italiano, e ci tiene ad utilizzarlo al posto dell’inglese per via di vecchie ruggini colonialiste. Gli chiedo di accostare davanti ad un piccolo supermercato e scendo a fare qualche foto. L’edificio, basso e squadrato, è schiacciato tra un negozio di elettronica dal tetto a cupola e uno di souvenir che vende unguenti miracolosi, statuine degli dèi egizi e papiri che si illuminano al buio. Più dietro, attraversato da una strada sterrata, si intravede quello che sembra essere un quartiere residenziale. Ci sono edifici a due piani dalle facciate scrostate, motori di condizionatori e parabole satellitari appesi ovunque. Toyota anni Settanta sono parcheggiate lungo bassi muri di cinta. Il tassista lascia l’auto accesa e mi viene dietro. Attraverso i finestrini rimasti aperti ci segue il suono dell’autoradio, che da quando siamo partiti è ferma sul canale che diffonde la preghiera islamica (il 999 AM). La stessa preghiera viene recitata dall’altoparlante appeso fuori dal negozio di souvenir. Le preghiere islamiche mi pedineranno per tutta la vacanza, un’onnipresenza viva, invisibile e ineludibile, che si scontra con quella morta (cristiana) a cui sono abituato, fatta di simboli e simulacri muti.

Passeggio seguito come un’ombra dal tassista, mentre la sagoma infuocata del sole di fine aprile scivola sotto l’orizzonte. In giro non c’è nessuno, non un negoziante che mi inviti nel suo negozio né un passante che mi offra un affare imperdibile. Poi, appena la preghiera si interrompe, le strade si popolano di nuovo. Dalle case e dai negozi escono uomini (solo uomini) di ogni età. Incrocio qualche sguardo interlocutorio che prova a capire se sono interessato o no a fare acquisti, poi tutti si mettono a mangiare con la voracità tipica dei giorni del Ramadan. Chi non ha una sedia, o uno scalino, dove sedersi si siede a terra con il sedere appoggiato su un piede. Anche l’autista del taxi mi abbandona al mio destino e torna alla macchina a mangiare riso da una ciotola di plastica trasparente, ma la mette via appena faccio ritorno. Si pulisce la bocca con il dorso della mano mentre un pullman carico di turisti romani parcheggia dietro di noi. I miei connazionali scendono alla spicciolata nascosti sotto cappelli da baseball ed occhiali da sole a specchio. La guida che li accompagna li conduce verso il negozio di souvenir.

“Sembra San Basilio,” è l’unica frase che riesco a cogliere prima di ripartire.

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Alloggiare in un villaggio turistico significa prendere parte ad una sessione di ipnosi collettiva. Fuori c’è il deserto, dentro le aiuole fiorite e le piscine. Il personale è gentile, sorridente e pronto a tutto (c’è pure chi di lavoro spinge i turisti sui materassini gonfiabili). I buffet sono labirinti di cibo all’ammasso e attraversarli significa sopravvivere a odori che cambiano ad ogni passo e terribili colpi di pentole e posate. Ai tavoli, tablet lasciati a volume da sagra di paese ammansiscono i bambini ma costringono tutti gli altri a trovare rifugio ai margini della sala o negli spazi adults only. Dopo cena, o quando vuoi, cocktails gratis per tutti; mediocri pure quelli, ma a caval donato (all inclusive) non si guarda in bocca. E poi, per le famiglie, vere tiranne dei villaggi, arriva il momento della baby dance: i genitori, frastornati e paonazzi, si accasciano su divani di pelle sintetica a guardare i culi delle animatrici (e degli animatori) mescolarsi ai movimenti epilettici dei figli. Di nuovo, volume da sfondare le orecchie. Si riesce a resistere solo perché intontiti dall’alcol e dal cibo, perché visto che era gratis si è mangiato e bevuto di tutto, e perché andare a letto con le budella che si torcono fa parte del godersela. Poi, il tempo che ci vuole a cacciare i bambini dal palco, si viene catapultati nello spettacolo serale. Senza fare niente, neppure lo sforzo di cambiare canale. Una sera ci sono gli acrobati, quella successiva i maghi, e poi il Carnevale di Rio o un Can Can in culotte. Gli ospiti affondano sempre più nei divani, il personale del villaggio ripete meccanicamente sorrisi e saluti. L’ipnosi è talmente profonda che ci si accorge solo al terzo giorno di vacanza che c’è una cornetta del telefono appesa nel bagno di camera, lussi da sceicchi di metà Novecento. Gli unici che sembrano non perdere mai la bussola sono gli animatori, capaci di sopravvivere per mesi (a volte anni) in un non luogo che è la materializzazione dell’eterno ritorno nietzschiano, dove è sempre vacanza, dove il tempo che intercorre tra il check-in e check-out è un presente continuo, dove si è sempre felici e dunque non lo si è mai davvero, dove le amicizie durano una settimana ma poi ne inizia un’altra identica al cambio delle camere, dove si è invidiati da tutti ma mai davvero, dove la cronaca mondiale è un’eco di cui nessuno vuol sentire il rumore. Dove basta un’escursione al villaggio beduino più vicino e si diventa custodi di aneddoti prêt-à-porter di sicuro effetto:

“Sai quanto costa una moglie beduina? Nove cammelli se è brutta, venticinque se è la figlia del capo tribù.”

“E se uno non ha cammelli?”

“Se uno non ha cammelli non è un beduino.”

Nei resort, come in città o nel deserto dai beduini, di donne egiziane non se ne incontrano, non una tra migliaia di uomini. Sorseggio un tè miracoloso dagli ingredienti che ho già dimenticato e chiedo ai mariti che fine hanno fatto. Mi rispondono che sono a casa e poi cambiano argomento. Solo alla riserva naturale di Ras Mohamed incontro una ragazzina venuta a vendere collanine alle turiste, ma scompare presto dietro un’acacia spinosa, l’albero con i cui tralci si narra sia stata intrecciata la corona di spine di Gesù Cristo. I beduini sono convinti che toccarne il tronco sia di buon auspicio.

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L’esercizio successivo consiste nello sperimentare la mancanza d’aria. L’istruttore chiude la valvola che regola il flusso d’aria e l’allievo – in apnea – deve segnalare il problema al compagno e poi avvicinarsi per utilizzare il suo erogatore secondario. Stavolta, tocca a me iniziare. Faccio a Sam il gesto che significa OK (pollice e indice si toccano formando un cerchio mentre le altre dita rimangono distese) e continuo ad inalare aria fino a che dall’erogatore non esce più nulla. A quel punto, rimangono solo il sapore della gomma e dell’acqua marina. Non più rumori tipo Darth Vader, né bollicine, né quel senso di pienezza artificiale a cui mi stavo abituando. Yosef mi aspetta già con le braccia lontane dal busto e la testa girata di lato, di modo che possa raggiungere senza interferenze il suo erogatore di riserva (colorato di un giallo inequivocabile) e riprendere a respirare. Sam annuisce per incoraggiarmi. La sua pagina Instagram – che ho compulsato appena dopo averlo conosciuto – è un fiorire di video con vista sulla barriera corallina e foto in barca con allievi e colleghi, sempre sorridente e abbronzato. A volte il blu alle sue spalle è così profondo che non si riesce a vedere altro. Immergersi, come arrampicarsi, ha alla base una paura facilmente sperimentabile da qualsiasi essere umano: rimanere senza aria da respirare. Il pericolo che si corre è chiaro a chiunque – primitivo – non c’è bisogno di aver studiato nulla. Il diving è il cugino poco glamour dell’alpinismo, ma è rimasto nell’ombra a causa dell’assenza di eroi pubblici (non esiste l’equivalente subacqueo di un Messner). Forse perché è praticato in luoghi irraggiungibili all’occhio umano, forse perché gravato dall’eredità culturale che colloca da tempo immemore il paradiso nell’ascesa e gli inferi nella discesa.

Nuoto in avanti verso Yosef, dritto verso il giallo inequivocabile del suo erogatore di riserva. I pesci a strisce se ne sono già andati. Senza volerlo, provo a trarre un altro respiro e l’acqua mi riempie la bocca.

Radio Days: Guido Zen aka Abul Mogard

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IL NOMADE PROLETARIO

In conversazione con Guido Zen un tempo Abul Mogard

di Mirco Salvadori

Esistono terre protette di suono sconfinato. Sono apparentemente poco frequentate, chi lì si avventura lo fa perché abituato al viaggio, alla ricerca non solo musicale ma anche interiore. Sono custodite da onde di materia sonica e di rara potenza, guardiane pronte a quietarsi e permettere il passaggio solo a chi non ha la mente devastata dai  narcotici iniettati via mainstream, pesanti e insidiosi.
Un rappresentante del proletariato serbo, da molto tempo le frequenta. Tutti lo conoscevamo come Abul Mogard ma Abul Mogard non esiste, non è mai esistito.
Ciò che leggerete potrà sembrare un racconto di formazione anzi, decisamente lo è. Una bella storia immersa nel fluire di milioni di altre belle storie che nascono, si sviluppano, respirano e creano a loro volta altre narrazioni magari fondamentali a cui dare un nome.
È a questo nome e a chi lo porta che mi sento di dedicare questa conversazione: Clarice.

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Álvaro de Campos, Ricardo Reis, Alberto Savinio, Stendhal, Pessoa e potrei continuare. Molti sono gli scrittori che usavano e usano pseudonimi, quei nomi inventati assai diffusi nel campo della ricerca sonora elettronica, dove vengono definiti moniker. Il tuo caso però assume toni romanzeschi. Abul, ex operaio serbo, raggiunta finalmente la pensione, si  interessa al mondo dei synth analogici e da autodidatta impara a suonarli, tanto da iniziare a stampare preziose release che lasciano a bocca aperta. Ascoltare Abul Mogard è appagante anche socialmente e politicamente: un ex operaio che riesce a liberarsi dal giogo della fabbrica e entra come un ciclone in un mondo decisamente lontano, avulso dal vissuto di un settantenne pensionato serbo. Una sorta di rivincita della classe operaia a cui si dava credito ben sapendo che la cosa appariva realmente improbabile. Come è nata questa idea e quali i motivi che l’hanno resa una scelta reale e direi vincente.

Intanto grazie mille per le belle parole riguardo il progetto. Abul Mogard è iniziato nel 2010. Stavo passando un periodo difficile, mia madre stava molto male, la mia relazione con la mia ex-compagna non stava andando bene e anche nella musica, la mia collaborazione con il mio vecchio partner musicale nei Gamers In Exile, il mio progetto principale all’epoca, era difficile. Ho sentito il bisogno di provare a fare delle cose nuove in studio, da solo e in poco tempo, intuitivamente. Questo non era facile, dato che da parecchi anni lavoravo solo in progetti collaborativi. Erano quasi 15 anni che non completavo più brani da solo e avevo perso un po’ la fiducia in me stesso.

Lavorare su questi brani, abbastanza rumorosi, pieni di armoniche e a volumi alti in studio era terapeutico per la mia situazione personale e mi dava conforto. Decisi che, avendo bisogno di ricominciare vari aspetti della mia vita, sarebbe stato bello usare un alias, un altro nome e un’altra faccia; qualcosa che sentivo che mi avrebbe dato anche molta libertà nella direzione musicale. Volevo avere un riscontro sincero sul nuovo progetto e non influenzato dalla mia precedente storia musicale.

Pensai che sarebbe stato bello immaginare che questa musica fosse stata prodotta da un uomo di una certa età, quindi creai questo personaggio. A suo tempo gli diedi solo un nome e una provenienza, Belgrado. Non ricordo il perché ma essendo un posto dove non ero mai stato forse mi affascinava. Creai un profilo Facebook e Soundcloud e iniziai a caricare i brani giorno per giorno, subito dopo averli registrati. Ricevetti subito molti commenti positivi e questa reazione, del tutto inaspettata, mi diede la forza per continuare.

Una volta andai a trovare mia madre in ospedale e le raccontai entusiasta di questo personaggio che avevo inventato e ricordo che lei scherzò dicendo che ero matto. Purtroppo, non molto tempo dopo, lei venne a mancare. Alcuni mesi dopo iniziai a frequentarmi con Marja de Sanctis, che è tuttora la mia compagna. Lei, che in realtà è un artista visiva, ha poi creato tutte le copertine degli album, i visuals per i concerti e i videoclips.

Nel 2012, quando stava per uscire il primo album su cassetta pensai che una biografia lo avrebbe reso più interessante. La storia della fabbrica fu creata da Marja. Le era rimasto impresso un passaggio di un libro sul movimento artistico del Simbolismo, di Michael Gibson, che parlava degli effetti della Rivoluzione Industriale sulle singole vite umane dell’epoca. Cito qui sotto il passaggio per intero: “Soltanto nel mezzo secolo tra 1850 e il 1900 sessanta milioni di persone lasciarono l’Europa. Quelle che, ancora più numerose, sciamarono verso le città e i loro sobborghi, si ritrovarono sradicate dall’ambiente quotidiano che fino ad allora ne aveva definito l’identità e il ruolo all’interno della comunità, assegnando valore e senso alla loro esistenza”. Lei, avendo dovuto lasciare il suo paese di origine in adolescenza, trovava che quei fatti risuonavano con la sua storia personale.

L’operaio in pensione che ricrea il suo habitat facendosi aiutare della musica rappresenterebbe chi cerca la propria identità perduta.  Le sonorità che usa, gli ricordano vagamente la fabbrica e lo aiutano ricreare quella memoria e senso di appartenenza. Trovai questa storia molto poetica e la mandai a Steve Moore e Anthony Paterra di VCO Recordings. Ne furono entusiasti e addirittura la arricchirono dicendo nel comunicato che Abul Mogard aveva scritto loro raccontando la sua storia insieme all’invio del demo.

Di pari effetto ma contrario, la decisione di togliere la maschera, meglio sarebbe dire la tuta, e presentarsi dopo una decina e oltre di produzioni discografiche, con il proprio nome. Come mai questa scelta, che ci priva dell’eroico gesto proletario ma ci rende il reale Guido Zen, musicista e sound artist finalmente riconoscibile.

Il motivo principale è che la mia vita e stato d’animo è adesso molto diversa rispetto a quando ho creato il progetto. Rimanere nascosto dietro la figura di Abul iniziava ad avere meno senso. È stato un processo graduale, iniziato tre anni fa, con i primi concerti dove ho suonato senza nascondermi dietro muri di video e fumo, per poi arrivare a dire il mio vero nome recentemente. Per molto tempo pensavo ad Abul mentre lavoravo sulla musica, cercando di capire se quello che stavo producendo lo stesse rispecchiando. La sua figura mi accompagnava sempre nel mio lavoro. Mentre all’inizio la sua persona mi aveva dato una grande spinta verso strade nuove, adesso mi sentivo limitato da essa. A livello di esplorazione e sperimentazione musicale iniziavo a sentirmi condizionato a dover riproporre sonorità che avevano caratterizzato il suono del personaggio di Abul Mogard.

Credo che alcuni eventi personali come la nascita di mia figlia, il rientro in Italia dopo anni in Inghilterra e aver ricevuto in dono un pianoforte di fine ‘800 abbiano influenzato e dato forza a questo processo. Avevo sempre desiderato un pianoforte acustico ma inizialmente ero in conflitto con l’idea di usarlo avendo un colore cosi lontano dall’idea del suono originale di Abul. Ho realizzato che tutto ciò era pur sempre una mia creazione e io Guido avevo tutto il diritto di esplorare nuovi territori. Abul era parte di me e non io una parte di lui a cui dover quasi rendere conto. Lavorando sull’album “In Immobile Air” è stato come se lui mi avesse passato il testimone per poter andare avanti da solo.

Personalmente, fin dal tuo primo lavoro risalente a dieci anni or sono, ti considero tra i maggiori artefici e costruttori di innovativa miscela ambient presenti nel panorama internazionale. Come mai questa scelta, cosa ti lega alle imponenti cattedrali soniche dentro le quali ti chiudi mentre trasmetti il tuo maestoso messaggio modulare.

Non è stata vera e propria scelta. Ho semplicemente ho iniziato a lavorare nel modo più istintivo e naturale possibile e la musica che ne è uscita è quella di Abul Mogard. Ho sempre amato la musica ambient e credo di aver usato elementi ambient in tutti gli altri progetti musicali su cui ho lavorato. Essendo un progetto solista, sono andato nella direzione che ho trovato più spontanea. In generale, credo che questo tipo di sonorità mi rilassi molto e riesco a lavorarci a lungo.

Affrontiamo l’aspetto tecnico della tua produzione e lo facciamo con tre vocaboli: elettronica analogico modulare. Cosa nasconde il suo affascinante mondo e perché la scelta di frequentarlo?

Per la mia musica uso un insieme di strumenti, alcuni dei quali analogici, altri digitali, come il computer per esempio. Mi piace la parte analogica modulare per la qualità del suono, che trovo più organico del digitale e più piacevole all’ascolto, e per l’immediatezza con cui si riescono ad ottenere suoni semplici ed essenziali. Quando si collega un’uscita audio di un oscillatore direttamente al mixer, si ottiene un tipo di suono puro che difficilmente riesco a trovare in uno strumento più completo come per esempio un classico sintetizzatore, che ha già una configurazione predefinita e più complessa. Mi piace molto lavorare con suoni primari e senza fronzoli. Amo i piccoli dettagli del suono e le variazioni minime nei timbri con le quali lavoro molto. Mi piace anche usare il computer, soprattutto per manipolare i suoni e spesso per “comandare” le macchine analogiche con precisione.

Aggiungo che una parte della biografia di Abul Mogard rispecchia la realtà. Ho costruito molti degli strumenti che uso. Non sono un progettista, ma al giorno d’oggi si trovano facilmente molti progetti di macchine particolari, per esempio cloni di vecchi strumenti ormai molto costosi.  Per necessità, essendo molto più economico farseli da soli, anni fa iniziai a costruire le prime cose, compressori, filtri, preamplificatori per poi arrivare al sintetizzatore modulare. Questo sicuramente ha influenzato il mio suono. In particolare l’album “Circular Forms” è fatto in gran parte con un unico sintetizzatore che costruii nel 2013.

Un altro strumento che è stato importante è l’organo, che mi ha accompagnato fin da quando ero adolescente. Per un breve periodo andavo a lezioni di musica da un maestro che aveva un vecchio organo Farfisa sul quale iniziavo a strimpellare. Anni dopo, quando vivevo a Londra, degli amici mi regalarono un vecchio Farfisa comprato a un charity shop, che ho usato poi in molti brani.

Il suono sostenuto dell’organo mi porta molto verso quel tipo di sonorità ipnotiche, a volte meditative, fatte di note lunghe e cambi lenti. In molti casi ho usato anche il sintetizzatore modulare per ricreare mondi sonori simili all’organo.

In realtà il tuo non è solo un percorso dentro la materia ambient, è anche un viaggio attraverso la percezione sensoriale. Ricordo tracce come Drooping OFF, tratta dalla cassetta che prende il tuo nome del 2012. È una cavalcata lisergica che itera per dieci minuti lo stesso tema e realmente riesce a spedirti lontano dal reale grazie alla sua indubbia componente psichedelica. Cosa intendi trasmettere a chi ascolta la tua produzione artistica carica di gran visionarietà e furente poetica?

Sono felice che tu abbia menzionato questo brano, al quale sono molto affezionato.È stato uno dei primi brani in cui ho cercato di concentrarmi su un piccolo frammento musicale preso da una composizione più lunga. Mi piaceva l’idea di espandere questo frammento solo dando luce lentamente ai dettagli già presenti in esso, senza aggiungere altro. In realtà non cerco di tramettere un messaggio preciso all’ascoltatore. Per me fare musica è una mia necessità. Non sono mai stato molto bravo ad esprimere i miei sentimenti a parole e credo che la musica mi aiuti ad essere in contatto con le mie emozioni. Ho riletto recentemente le note di copertina di un album del compianto Klaus Schulze, dove raccontava che la sua musica, pur essendo legata alla sua creatività, lasciava spazio all’interpretazione dell’ascoltatore che gli avrebbe dato un significato. Klaus Schulze è stato di sicuro una forte fonte di ispirazione e trovo il mio intento in parte sia simile al suo.Spero che la mia musica risuoni nell’ascoltatore e che possa trasmettere a ognuno qualcosa di diverso a seconda del proprio stato d’animo.

Il versante live. Ti si vede spessissimo all’estero, ai tempi dietro un paravento che nascondeva la tua reale appartenenza al nostro mondo. Come prepari un live e cosa inserisci per renderlo ancor più dirompente.

Prendo diverso tempo per preparare uno spettacolo. In genere cerco di avere a disposizione più elementi possibile per costruire e decostruire i brani durante il concerto.  Alcuni elementi sono parti originali che vengono manipolate dal vivo e che ritengo essenziali per la composizione, altri sono temi o suoni generati da sintetizzatori ed effetti in tempo reale. Mi piace poter avere un concerto dinamico e seconda del posto e dell’atmosfera, mi faccio guidare dall’energia in sala per modulare questi elementi.

In molti concerti poi ci sono i visuals di Marja de Sanctis, che secondo me arrichiscono e aggiungono un’ulteriore stratificazione all’esperienza.

Uno spettacolo molto diverso sarà quello per il festival Organ Reframed, che si svolgerà alla Union Chapel a Londra, a settembre. Per questo mi è stata commissionata una composizione originale per organo a canne, electronics e un piccolo ensemble. In questo caso suonerò l’organo accompagnato da alcuni elementi della London Contemporary Orchestra. Doveva accadere a Marzo 2020, ma a causa della pandemia è stato rimandato più volte. A questo punto, non vedo l’ora.

Hai iniziato pubblicando con una label americana che stampa solo materiale su nastro: la VCO, sei passato all’inglese Ecstatic con qualche altro passaggio ma sempre inglese, l’ultimo tuo lavoro è autoprodotto. Cosa ne pensa Guido Zen della ricerca elettronica in Italia e delle sue label, se confrontate con quanto avviene all’estero e, la tua è una scelta voluta o una casualità?

Ho passato diversi anni della mia vita a Londra e probabilmente ho più contatti lì che qui in Italia. Credo che sia stato naturale trovarmi a lavorare con etichette che hanno legami con l’Inghilterra. C’è anche da dire che per mia esperienza personale, mi sembra che siano più propensi a dare spazio ed opportunità a nuove voci. Ci sono molti artisti italiani elettronici che stimo, alcuni dei quali conosco personalmente. Mi vengono in mente Alessandro Cortini, Caterina Barbieri, Giulio Aldinucci, Carlo Maria, Grand River, Saffronkeira, ma ce ne sono molti altri. Ti dico la verità, non sono molto ferrato sulle etichette italiane. Per quanto riguarda il mio ultimo album, sentivo la necessità di fare uscire questa musica ora. L’immediatezza di una release digitale mi ha consentito di non dover passare per il calendario di un’etichetta e i tempi molto lunghi per produrre un disco su vinile al momento.

Hai contatti con musicisti e sound artist italiani? So di uno split con Maurizio Bianchi risalente al 2017 ma vere e proprie collaborazioni non mi sembra esistano.

Sono in contatto con diversi musicisti italiani e ci sono state alcune collaborazioni come il remix fatto per Becoming Animals, di Massimo Pupillo e Cyndytalk. Ci sono gli album di Potter Natalizia Zen, usciti con il mio vero nome e in collaborazione con Alessio Natalizia e Colin Potter dei Nurse with Wound. Tengo particolarmente al lavoro fatto insieme a Kyle Martin per il nostro duo Vactrol Park. Una musica più ritmica in questo caso, a volte quasi tribale e molto elettronica, prodotta spesso in lunghe sessioni notturne. Al momento sto lavorando su altre collaborazioni anche con musicisti italiani.

Mi ha molto incuriosito la tua figura di compositore di colonne sonore. Parlacene.

Di tanto in tanto mi sono state proposte delle colonne sonore. È un lavoro molto stimolante, che trovo allo stesso tempo piuttosto impegnativo e a volte difficile. Trovare la musica giusta per un film richiede tempo e ricerca ed è molto importante la collaborazione con l’autore dell’opera. Più le indicazioni sull’intento del film sono precise e più è semplice avventurarsi nel trovare i suoni e le note giuste. Come Abul Mogard, ho composto la musica di due film dell’artista Duncan Whitley, l’ultimo dei quali intitolato “Phoenix City 2021” è stato commissionato dalla biennale di Coventry, in Inghilterra nel 2021.

La colonna  sonora è partita dall’idea di usare alcuni brani del Requiem di Mozart che abbiamo riadattato usando elettronica, una band di fiati, un coro e un violoncello. Partendo da li e usando alcune delle registrazioni fatte per il Requiem ho composto il resto della colonna sonora. Mi piace molto il fatto che tutta la musica di questo film si riconduce ai temi originali di Mozart, anche se totalmente frammentata e decostruita. In genere la musica per Duncan, viene fuori dopo lunghe conversazioni ed alcune immagini di riferimento, molto prima delle sequenze definitive.

Recentemente ho scritto la musica per un lungometraggio di un mio vecchio amico, Alessio Pizzicannella intitolato “Dawn Chorus”, che è appena uscito. Per questo film ho scelto di usare il mio vero nome, dato che dalle indicazioni di Alessio, la musica richiedeva una direzione sonora estremamente diversa da quella di Abul Mogard. In verità ci sono alcuni pezzi più atmosferici che non sono poi così lontani.

La prima colonna sonora fu una scrittura a quattro mani per il film Biutiful Cauntri, un documentario sulle ecomafie di cui si parlò parecchio nel 2007. Riascoltando questa colonna mi rendo conto che i primi semi del suono originale di Abul Mogard risalgono proprio a questo lavoro. Alcuni dei brani di Abul Mogard sono stati anche utilizzati per film, trailers e pubblicità. Fa piacere che la mia musica, composta precedentemente, venga usata per delle immagini alle quali non avevo pensato. A volte questo connubio funziona veramente bene e l’aspetto economico delle licenze può aiutare.

Esiste un testo poetico, letterario o un autore che più si avvicina o rappresenta la dilatata e poderosa materia sonora prodotta da Guido Zen?

Un autore che sicuramente mi viene in mente e che più volte ho usato come fonte di ispirazione, soprattutto per i titoli di alcuni brani, è Calvino. Mi sono piaciuti molto “Le Città Invisibili” e “Collezioni di Sabbia”. Le sue descrizioni dei luoghi e delle situazioni, immaginarie o meno che siano, mi rimangono spesso impresse nella mente e a volte trovo connessioni con l’atmosfera dei miei brani. Con sorpresa, abbiamo notato solo dopo aver scelto il nome di nostra figlia che una delle città invisibili aveva il suo nome, Clarice. È una connessione casuale a che abbiamo trovato divertente, visto che non ci sembrava un nome molto usato in Italia. Lei è la bambina che appare nella copertina del mio ultimo lavoro “In A Few Places Along The River”.

 

 

 

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Bacchilide – Ditirambi III-IV

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trad. di Daniele Ventre

III I GIOVANI O TESEO – PER I CEI A DELO

La nave scura di prua portava
Tèseo e insieme a lui due volte sette splendidi
figli di Ioni,
e fendeva il mare di Creta;
soffi di Bòrea nella vela candida
precipitavano,
su impulso di Atena chiara, scuoti-egida;
a Minosse il cuore punsero
bei doni di Cipride,
dea dall’aureo diadema:
non astenne più la sua mano
da una fanciulla,
toccò le sue guance candide,
e gridò Eribea, la figlia
di Pandíone cinto
di bronzo: lo vide Tèseo,
e torse l’occhio
sotto il nero ciglio e dolore
aspro lo graffiò nel cuore,
disse: “Figlio del sommo Zeus,
tu l’animo dentro il petto
non più lo governi
puro: frena, eroe, l’altera violenza.

Cenno dai numi che esprima Moira
sovrana di tutto, peso che Giustizia
bilanci, fato
fissato, noi lo compiremo,
quando verrà: tu frena il greve intento.
Se proba figlia
di Fenice, lei nome dolce, unitasi
in letto a Zeus a pie’ di Ida,
ha avuto te, sommo
fra i mortali, ebbe me
la figlia di Pitteo opulento,
a Poseidone
equoreo unita e le diedero
aureo velo le Nereidi
trecce di viola,
Perciò, condottiero di Cnosso,
ti invito a spegnere
piangevole arroganza: amata
luce d’immortale aurora
non vorrei vederla, se violi
suo malgrado uno dei giovani:
prima mostreremo
forza di braccia: il poi lo vedrà un dio”.

Disse l’eroe forte di lancia:
l’altera audacia
dell’uomo stupì
i marinai: il genero del Sole ebbe collera
in cuore e tessé trama
scaltra, esordì: “Possente padre
Zeus, ascolta, se una sposa fenicia
bianca-di-braccia da te mi ebbe,
manda ora dal cielo un rapido
lampo, arsa chioma, limpido
segnale; ah, Tèseo,
se te a Poseidone
scuoti-terra diede la trezenia
Etra, dal profondo
mare portami
quest’aureo ornamento della mano,
offri il corpo alle case del padre
con audacia. Vedrai
se il re di tutti
Cronio, il tonante, ode i mei voti”.

Lo udì il perfetto voto, il possente
Zeus, e per Minosse, per quel caro figlio,
seminò massimo
onore, da renderlo illustre,
e lampeggiò: scorto il bramato segno,
le mani aprì all’etere
glorioso, quell’eroe furia di guerra,
e disse: “Tèseo, osserva i doni
di Zeus per me, nitidi;
tu lanciati nel pelago
cupo fremente: Poseidone
tuo padre, Cronide
re, sulla terra selvosa
ti porgerà somma gloria”.
Disse. Ma a Tèseo
non si piegò il cuore, sorse
sui saldi banchi
e si tuffò, lo ricevé
il sacro recinto equoreo.
Stupì il figlio di Zeus, nel cuore
profondo, ordinò di reggere
col vento il dedaleo
vascello: ma compì Moira altro viaggio.

Lo scafo andava con rapido impeto
lo spinse soffio di Bòrea, spirò forte:
tremò la schiera
di giovani ateniesi, quando
balzò in mare l’eroe, dagli occhi puri
versavano lacrime
e si aspettavano un destino greve.
Delfini, abitanti del mare,
svelti conducevano
Tesèo a casa del padre
dio dei cavalli. Alla dimora
degli dèi giunse.
Là vide le chiare figlie
di Nèreo lieto, e tremò:
dalle membra fulgide
brillava lume di fiamma,
nastri aurei intrecci
cingevano le chiome. A danza,
coi piedi teneri allietavano
il cuore. Vide anche la sposa
del padre, augusta, occhi-bovini,
nelle case amabili,
Anfitrite, che lo ammantò di porpora,

gli pose sulle folte chiome
perfetto un serto,
che un tempo alle nozze
le diede Afrodite rose-ombrata, subdola.
Nulla che numi vogliano,
ai mortali saggi è incredibile:
presso la nave agile prora apparve:
ah, in che pensieri colse il principe
Cnossio, quando balzò incolume
dal mare, meraviglia
per tutti, i doni
degli dèi splendevano
sulle sue membra, di nuova gioia
le fanciulle in chiare vesti
grida alzarono,
gridò il mare, peana cantarono,
accanto, con dolce voce, i giovani.
Delio, godi in cuore
dei cori cei,
concedi divina sorte di grazie.

IV TESEO – PER GLI ATENIESI

CORO
O sovrano della sacra Atene,
signore dei raffinati Ioni,
perché la tromba gola-di-bronzo
ora ha echeggiato bellica nota?
Forse assedia i confini
della nostra terra un nemico,
guida d’eserciti?
Subdoli ladri predano
a forza, a onta dei pastori,
distese di greggi?
Che cosa ti ferisce il cuore?
Parla: soccorso da forti giovani
tu ne hai, se mai altri
fra i mortali, io credo,
o figlio di Pandione e di Creusa.
EGEO
Ora è arrivato un araldo, a piedi,
passando il lungo collo dell’Istmo:
gesta inaudite narra, di un uomo
possente: stroncò l’altero Sini,
primo in forza fra gli uomini,
figlio del Cronide Liteo
che scuote il suolo:
e abbatté l’assassina
scrofa del Cremmione e Scirone
lo scellerato;
anche i cimenti di Cercione
fermò, Procopte gettò il crudele
maglio di Polipemone:
ha incontrato un uomo
più forte. Temo a quale effetto venga.
CORO
Ma chi dice d’essere e di dove,
quest’uomo, e di che manto si copre?
Magari conduce un grande esercito
con tanto di bellici armamenti?
O solo con serventi
giunge, da mercante girovago,
a estraneo popolo,
lui così forte e valido
e audace, lui di quei fieri
uomini annientò
la truce forza? Un dio lo desta,
a fare vendetta dei malvagi.
Non è facile agire
senza aver mai danno.
Tutto in lungo tempo viene a effetto.
EGEO
Si dice che soltanto due uomini
lo seguano; sulle spalle solide
ha una spada dall’elsa d’avorio,
nelle mani due aste polite,
e saldo elmo spartano
sulla testa chioma-di-fuoco:
chitone porpora
intorno al petto e un folto
manto Tessalo: rossa fiamma
di Lemno scintilla
dai suoi occhi: è un giovane al primo
fiore, eppure dei trastulli bellici
di Ares si dà pensiero,
lotte urto di bronzo:
cerca la via per la splendente Atene.

Il nostro tempo insieme

1

di Sara Mazzini

Questa ora è la mia casa, pensa, mentre lui già richiude la porta, le sfila la giacca del completo di cotone leggero. La luce in salotto muta un filo di polvere in sabbia che scende a indorare la superficie del tavolo, delle poltrone; la scaccia con il palmo della mano, la guarda accumularsi altrove. Anche la polvere è parte di lui, viene da un tempo in cui viveva senza sapere che lei esisteva. Inconcepibile ora quel tempo, ora che loro due sono una cosa sola. Ora che lei spinge le scarpe in un angolo e pensa, è qui che inizia il nostro tempo insieme. Lui ha gli occhi sinceri e lei si dice che è davvero fortunata. Lo aspettiamo così a lungo, si dice, che quando infine arriva non ci sembra neanche vero. L’amore? No, sciocca, è qualcosa di più. Accarezza con lo sguardo il suo lato del letto, i cassetti socchiusi e appena svuotati; lo sguardo si porta sul resto, sulla sedia che lui ha occupato, sui vestiti che ha dimenticato. Pensa, più tardi avrò modo di affondarci dentro il naso. Più tardi, non vista, potrà fare un’incursione nella vita del suo uomo. Poi pensa che adesso quella vita è anche la sua. L’aria che lui ha respirato, i souvenir di viaggi fatti insieme a qualcun altro: tutto, si dice, appartiene anche a me. Mi appartiene questo posto, dove si parla una lingua diversa. Le appartiene l’uggiolio che sente mentre lui prende la sua valigetta e con un bacio si congeda: devo andarmene al lavoro. Il diritto di infestare questo vuoto che rimane.

 

Questa ora è la mia casa, pensa: dovrò renderla accogliente anche per me. Sistemare le fioriere, rifoderare il divano. Scrostare la vasca da bagno. Strofinare via le impronte lasciate sull’ingresso dagli ospiti che lui ha ricevuto. Svuotare il posacenere dai mozziconi scordati da persone che lei non avrebbe invitato. Su alcuni sono impressi i segni di un rossetto, li seppellisce in fondo a un sacco. Pensa, sono anni che non metto più il rossetto. Qualcuno una volta le ha fatto notare che non le sta bene, la rende volgare. Non importa chi fosse, neppure lo ricorda. Ricorda il solletico dello spumante tra il naso e le labbra, quello sì. L’attesa del momento in cui le bollicine avrebbero finito di portare il rossetto via con sé. Ridicolo ora quel tempo, ora che nessuna opinione potrebbe toccarla. Ora che ad avere un peso è soltanto il pensiero di lui. Lui la vede per quello che è e lei sa che non deve più fingere nulla. Una rosa sarebbe ancora una rosa, disse Giulietta, sospirando al suo balcone, se avesse un altro nome.

 

Questa ora è la mia casa, pensa, e si concede il lusso di sdraiarsi sopra il letto, perché ha fatto un lungo viaggio. Fuori ha preso a piovere, poi ha smesso. La risveglia il tonfo secco di una porta sbattuta dal vento, la nota metallica di un chiavistello. Gli infissi sono chiusi, lui li ha serrati uno dopo l’altro. Si dice, di certo il rumore proviene dal piano di sotto. Non conosce le persone che lo abitano, non ha mai visto i loro volti. Ha visto le lunghe tuniche che appendono in cortile ad asciugare. Sulla porta d’ingresso c’è una targhetta sbiadita dal sole. A volte sente il pianto di un neonato che trafigge il pavimento, finché a un tratto si arresta per rimarcare il silenzio. Si chiede come facciano a zittirlo, si dice che forse non vuole saperlo. Accarezza con lo sguardo le cornici attaccate sul muro: rimandano odore di muschio e salnitro. Al loro interno sopravvivono persone rese giovani per sempre dalla mano di qualcuno che è stato un fotografo solo per un momento. Pensa, più tardi avrò modo di sostituirle. Con stampe a colori della sua terra, con la pelle di serpente di sua madre. O di ricoprire tutto con carta da parati a motivi trompe-l’oeil. Non le va di ritrovare nelle foto quell’uomo che sembra il suo uomo. Difficile pensare che sia esistito un tempo in cui lui si radeva la barba. Ora che è diventato vitale per lei aggrapparsi a quella barba con le dita. Pensa che presto sarà l’ora di pranzo e il suo ufficio sta in fondo al viale. Indossa le scarpe, rimette il vestito; pensa, gli farò una sorpresa.

 

Se questa ora è la mia casa, pensa, dovrò cercare qualcosa che mi sia familiare. Ha letto quel consiglio dentro una rivista; forse viene da sua madre. Sua madre, che ha fatto la guerra in una tempesta di sabbia. Una strada è una strada, pensa, è così dappertutto. Cerca la familiarità del viale, lunghe gettate di asfalto e manifesti masticati dalla nebbia. Vecchie insegne di locali che non riesce a decifrare. Un’agenzia di viaggi dalla vetrina vuota, le luci spente, la porta chiusa. Il prezzario di un salone di bellezza, di quelli a cui un tempo affidava la sua pelle per renderla più tonica. Ridicolo ora quel tempo, ora che non servirebbe a nulla nascondere l’età. Ora che insieme hanno creato uno spazio in cui nessun altro può entrare. La luce di mezzogiorno proietta un’ombra lunga quanto un dito sui palazzi dalle finestre murate, descrive una rotta ideale verso il cornicione. Piccioni fanno il bagno dentro le grondaie, depositano guano che cola lungo il muro. È qui che un uomo un tempo l’aspettava, spiando la vita al di là di un portone. Vomitando d’impazienza, aspettando la ragazza che non sarebbe mai invecchiata. A volte quell’uomo sembrava il suo uomo, altre volte invece assomigliava a lei. Guardava l’orologio che troneggia sulla strada trafiggendo il marciapiedi; pensava, questa è l’ora che decide tutto.

 

Questa ora, pensa. La aspettiamo così a lungo che quando infine arriva non ci sembra neanche vero. Impossibile capire le parole, incredibile il suo gesto. Lui ha mani addestrate a servire il signore e lei pensa, l’avevo capito. Pensa, sapevo già tutto da tempo. Per lui ha confezionato quel vestito, per i suoi occhi sinceri, per le sue mani in prestito. Perché lo riponesse in un cassetto, come fa sempre con tutte le cose. L’amore? No, sciocca. Quanta sciocchezza in questa storia. Pensa, più tardi avrò modo di affrontare il mio rimorso. Più tardi potrà fare ammenda per la vita che ha sacrificato. Su un lato del viale trova il luogo familiare, sotto un cartello di svendita totale. Un prato affamato, coperto di sabbia e animato dagli insetti. Anche la sabbia ora è parte di lei. Viene dal tempo in cui tutto lo spazio si è generato. Dolcissimo ora quel tempo, ora che l’unico amore possibile è quello che lei ha scartato. Ora che spinge le scarpe in un angolo e sente la polvere agganciarla ai calcagni, afferrarle la testa, invitarla a sdraiarsi in mezzo a due biciclettine da bambino: una dipinta di rosa, l’altra di azzurro. Chiude gli occhi e lascia che a vegliare su di lei siano gli sguardi immutabili di sette nani da giardino scolpiti nella pietra. Una mosca le ticchetta su una guancia, lei trattiene a lungo il fiato e strappa un filo d’erba secca. Da lontano un campanile scandisce i suoi rintocchi, come strofe di un antico salmo. Li segue col pensiero, poi smette di contarli.

 

Questa ora è la mia casa, pensa. Ha fatto un sogno, una volta, in cui faceva un sogno che lentamente si avverava. C’era un uomo, lo vedeva su un cartellone pubblicitario. Pensava che era un bell’uomo. Poi, lo avevano rimosso.

Plug-in? Plug-out!

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Kishō Kurokawa Nakagin Capsule Tower, Tokyo, 1970-1972, modulo abitativo personalizzato, foto Noritaka Minami, 2016

Kishō Kurokawa Nakagin Capsule Tower, Tokyo, 1970-1972, foto del 2018

Considerazioni sulla fine di un capolavoro architettonico degli anni Settanta

di Alberto Giorgio Cassani

Le sentenze capitali, a volte, impiegano un po’ di tempo prima di essere eseguite, ma raramente arriva la grazia. È quanto è accaduto anche alla Nakagin Capsule Tower1 (中銀カプセルタワ), edificio simbolo del movimento Metabolista, a uso residenziale-commerciale, progettato nel 1970 da Kishō Kurokawa, uno dei principali rappresentanti del movimento stesso, tra i quartieri di Ginza e Shinbashi a Tokyo, e completato nel 1972. Composto da 144 capsule in acciaio di 4 x 2,5 x 2,5 metri l’una – poco meno di 10 m2 –, teoricamente spostabili e da sostituire ogni vent’anni2, secondo l’intenzione dell’architetto, rispondeva al principio base della filosofia megastrutturale dell’epoca: a una struttura fissa erano incastrate-appese delle singole cellule abitative secondo il principio del plug-in, adattabili cioè alle esigenze dell’abitante e dei cambiamenti di vita e alle esigenze del momento.3

Kishō Kurokawa

Queste unità si potevano spostare da un capo all’altro delle due torri di cemento armato della struttura che le accoglieva, come nell’esempio più celebre di tutti, la Plug-in City del gruppo inglese degli Archigram, progetto icona dell’intero movimento megastrutturale, ideato nel 1964 – il “mega-anno”, come l’aveva ribattezzato, con la consueta pungente ironia, il grande storico dell’architettura britannico Reyner Banham.4 Quello che apparve, fin da subito, un capolavoro, nonostante il suo aspetto programmatico e dunque certamente lontano dai tradizionali modi di abitare – e che, per questo, fu dichiarato patrimonio architettonico del moderno dal Do.Co.Mo.Mo (International Committee for Documentation and Conservation of Buildings, Sites and Neighbourhoods of the Modern Movement), nonché “consacrato”, come Hotel a ore, anche dal cinema in una sequenza del film The Wolverine, del 2013, regia di James Mangold – fu sottoposto a processo dai suoi stessi residenti, dopo trentacinque anni dalla sua erezione, nel 2007, per i molti problemi derivanti dalla mancata manutenzione e sostituzione delle cellule e dalla presenza di amianto nella costruzione (cosa, all’epoca, che non costituiva certo un’eccezione). La sentenza fu che doveva essere demolito e rimpiazzato da un edificio più tradizionale e rassicurante. Ironia della sorte, il 2007 fu proprio l’anno della scomparsa del suo progettista, che fece in tempo a essere informato della decisione. Sappiamo, dal sito di Wikipedia, che egli era contrario alla demolizione, come anche il celebre critico del «New York Times» Nicolai Ouroussoff, che definì l’edificio una «[…] gorgeous architecture, like all great buildings; it is the crystallization of a far-reaching cultural ideal. Its existence also stands as a powerful reminder of paths not taken, of the possibility of worlds shaped by different sets of values».5

Nakagin Capsule Tower, Tokyo, prospetto, sezione e pianta

Kishō Kurokawa Nakagin Capsule Tower, Tokyo, 1970-1972, vista delle unità abitative

Quella sentenza, però – anche nell’efficiente Giappone, evidentemente, le cose a volte procedono secondo i tempi lunghi cui noi italiani siamo ben più abituati – rimase in stand by per oltre quindici anni. All’approssimarsi dell’esecuzione, vi è stata una gara per accaparrarsi le singole cellule, che sono state tutte vendute. La domanda, nonostante la contrarietà allo smantellamento espressa dal suo creatore (ma quale creatore non si affeziona alla sua creatura?) allora è: non si è forse rispettata l’originaria filosofia metabolista che prevedeva il montaggio e lo smontaggio delle capsule? In fondo le singole cellule, dopo il loro plug-out dalla struttura che le accoglieva, sono state ricollocate in altri luoghi (plug-in) – spazi privati o musei (anche il Beaubourg ne ha acquistata una) o riciclate. No, a mio avviso questa fine certamente non rispetta affatto le intenzioni di allora – se è giusto rispettarle, ma questo è un altro discorso che ci porterebbe lontano, sulla scia della recente, infinita, polemica sulla musealizzazione delle opere illegali della street art innescatasi dopo la mostra bolognese del 2016, Street art. Banksy e co. L’arte allo stato urbano, a cura di Luca Ciancabilla e Christian Omodeo.6 Se c’era una cosa che il movimento delle megastrutture non avrebbe voluto era proprio la musealizzazione: la filosofia che stava dietro a quell’utopia prevedeva la fine della megastruttura, quando quest’ultima non fosse più stata al passo con la vita dei suoi abitanti.7 Come ha scritto Georg Simmel, la tragedia della cultura è data dal conflitto tra “vita” e “forme”: se è impossibile creare qualcosa che non abbia una forma, quest’ultima, con l’andare del tempo imprigiona, soffoca la vita e questa fa di tutto per distruggere quella prigione.8 E basta vedere le foto sul web dell’artista visuale Noritaka Minami di come sono state trasformate le cellule dai loro stessi residenti, rispetto all’arredo base di stampo futurista, per capire quanto la vita vinca sempre sull’architettura, come anche Le Corbusier dovette ammettere riguardo ai suoi edifici della cité Frugès a Pessac trasformati e “traditi” dai loro abitanti («Vous savez, c’est toujours la vie qui a raison, l’architecte qui a tort»9). Il sogno di quegli anni, alla base del principio rivoluzionario di quel movimento internazionale, dal Giappone all’Europa, agli Stati Uniti, era che il manufatto più rigido e fisso che possa esistere, l’architettura, potesse mutare la sua forma rispondendo alle richieste della vita. La sua fine era prevista nel suo stesso statuto di nascita: una megastruttura non può diventare un monumento, nell’ottica dell’ottavo punto del Manifesto de L’architettura futurista, a firma di Antonio Sant’Elia e, certamente ancor più, di Filippo Tommaso Marinetti, datato 1914: «[…] i caratteri fondamentali dell’architettura futurista saranno la caducità e la transitorietà. LE CASE DURE­RANNO MENO DI NOI. OGNI GENERAZIONE DOVRÀ FABBRICARSI LA SUA CITTÀ».10

Peter Cook, Plug-in City, Maximum Pressure Area, progetto, sezione, 1964, New York, MoMA

The Wolverine, 2013, regia di James Mangold

L’esecuzione capitale è avvenuta il 12 aprile scorso. Paradossalmente, nonostante la tristezza derivante dalla perdita di un capolavoro dell’architettura degli eroici anni Settanta e nonostante tutti i comprensibili appelli a far sì che l’edificio potesse ancora durare a contrassegnare il paesaggio urbano di una Tokyo dove il concetto di conservazione è ben lontano dal nostro (basti pensare ai templi giapponesi continuamente rifatti e dunque conservati solo nella forma, ma non nella materia), paradossalmente, ripeto, la distruzione della Nakagin Capsule Tower era forse la fine più giusta che i suoi ideatori potessero prevedere e auspicare, consciamente o meno.

Plug-in? Plug-out!

Kishō Kurokawa Nakagin Capsule Tower, Tokyo, 1970-1972, il modulo abitativo originario

Note:

  1. Tra gli articoli usciti in occasione della demolizione dell’edificio, segnalo quello di Kyle Chayka, The Life and Death of the Original Micro-Apartments. With the Nakagin Capsule Tower, the architect Kisho Kurokawa had a prophetic vision of buildings and cities that prioritized mobility, 28 april, in The New Yorker  [data di ultima visualizzazione: 4 maggio 2022].

    Kishō Kurokawa Nakagin Capsule Tower, Tokyo, 1970-1972, modulo abitativo personalizzato, foto Noritaka Minami, 2016
  2. Come recita il quarto punto dell’elenco stilato da Ralph Wilcoxon, bibliotecario di umanistica presso il College of Environmental Design di Berkeley: «4. Un’intelaiatura strutturale la cui esistenza utile è ritenuta assai più lunga della vita delle unità minori che essa può sostenere», Council of Planning Librarians Exchange Bibliography, Monticello, n. 66, 1968, p. 2, citato in Reyner Banham, Megastructure. Urban futures of the recent past, London, Thames and Hudson, 1976, trad. it. di Renato Pedio: Le tentazioni dell’architettura. Megastrutture, Roma-Bari, Laterza, 1980, p. 4.

    Kishō Kurokawa Nakagin Capsule Tower, Tokyo, 1970-1972, modulo abitativo personalizzato, foto Noritaka Minami, 2016
  3. Come recita, a sua volta, il terzo punto: «3. Un’intelaiatura strutturale nella quale unità strutturali minori (per esempio ambenti, case, o piccoli edifici di altro tipo) possano venir costruite – o addirittura “incastrate” o “agganciate” – dopo essere state prefabbricate altrove», ibid. Come avvenne effettivamente nel caso del Nakagin, dove le celle in acciaio furono realizzate a Osaka e trasportate via ferrovia a Tokyo.
  4. Cfr. ibid., [capitolo] 4. Il mega-anno 1964, pp. 75-90.
  5. Future Vision Banished to the Past, 6 July 2009.
  6. Tenutasi a Palazzo Pepoli, a Bologna, dal 18 marzo al 26 giugno 2016.
  7. Cosa che fece materialmente Cedric Price, incendiando il modellino del suo celebre Fun Palace, di cui conservò, in una scatola di sigari, pochi frammenti, costituiti da mattoncini di Lego.

    Kishō Kurokawa Nakagin Capsule Tower, Tokyo, 1970-1972, modulo abitativo personalizzato, foto Noritaka Minami, 2016
  8. Cfr. Der Konflikt der modernen Kultur. Ein Vortrag, München-Leipzig, Duncker & Humblot, 1918, passim.
  9. Citato in Philippe Boudon, Pessac de Le Corbusier. 1927-1967. Étude socio-architecturale, Paris, Dunod, 1969, p. 2.
  10. Pubblicato da Antonio Sant’Elia come foglio volante l’11 luglio 1914 in occasione della sua mostra della Città futura alla Famiglia Artistica Milanese, poi su «Lacerba», II, n. 15, 1° agosto 1914, pp. 228-231: 230.

 

I fratelli Ndiaye-NDiaye

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di Andrea Inglese

*

Pap Ndiaye

Marie NDiaye
*
La nomina di Pap Ndiaye al Ministero dell’Educazione Nazionale del nuovo governo della presidenza Macron e del primo ministro Élisabeth Borne non è banale, per vari motivi. Ai “neri di Francia”, che fossero originari dei territori d’oltremare o di famiglie immigrate, a partire dal nuovo secolo si è cominciato a dare più responsabilità politiche in seno ai governi, ma spesso questa “crescita” di visibilità e rappresentanza tendeva a ribadire stereotipi piuttosto che smontarli (nel governo della prima presidenza Macron, ad esempio, a Laura Flessel, nata in Guadalupa e medaglia d’oro di scherma, va il Ministero dello Sport). Un ministro dell’Educazione Nazionale – in un momento in cui la questione educativa è sempre di più al centro del dibattito politico – autore di un libro del 2009 intitolato La Condition noire : essai sur une minorité française (La Condizione nera: saggio su una minoranza francese) e specialista di storia sociale degli Stati Uniti e delle minoranze, non può lasciare indifferente il panorama politico. E non è un caso che l’attacco dell’estrema destra non si sia fatto attendere. Marine Le Pen, il presidente del suo partito (Bardella), Eric Zemmour hanno cominciato a twittare febbrilmente per annunciare la catastrofe educativa, la presa del potere dei “razzialisti”, dei razzisti anti-bianchi e amenità del genere. In effetti, va ricordato che Ndiaye, oggi professore di storia a Scienze Politiche a Parigi, già da una decina d’anni ha difeso l’introduzione ragionata di “statistiche etniche” in Francia, per misurare in termini più oggettivi l’impatto della discriminazione. C’è un altro aspetto che voglio sottolineare relativo alla figura di questo signore, dalla brillante carriera accademica. Egli è il fratello della scrittrice francese vivente, che io considero oggi più importante: Marie NDiaye. Scrittrice per altro bizzarramente poco considerata in Italia, dove sappiamo bene che Houellebecq e Carrère (e in misura minore Ernaux) sembrano attirare tutte le attenzioni critiche e di pubblico. Ebbene, i due fratelli, di padre senegalese e madre francese, sono stati allevati da soli dalla madre, professoressa di Scienze naturali nelle scuole medie. E crescono nella periferia sud di Parigi. Il padre, infatti, lasciò la famiglia e la Francia, per tornare in Senegal quando Pap aveva tre anni e Marie uno. (Ps. Scopro su wikipedia che tutti e tre i componenti della famiglia utilizzano una grafia differente per il cognome paterno.)

Les nouveaux réalistes: Giovanni Palilla

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Lettera al figlio

di Giovanni Palilla

 

 

Caro figlio mio,

i problemi che ci portiamo dietro sono sempre più grandi di noi. Il corpo di mio padre, il corpo che, un giorno, mi condannò alla morte per affogamento in una disputa avente come motivo scatenante la ditta di famiglia di cui io ero appena diventato titolare, giaceva inerme sulla vettura sorvegliato da mia madre, tua nonna, e nonostante tutte le sue funzioni vitali fossero ancora intatte, il suo senno era già da molto tempo accanto a quello di Orlando. L’imbarcazione su cui noi ci trovavamo aveva difatti il profetico nome di Caronte e ben si confaceva alla nostra missione: accompagnare tuo nonno in un limbo sanatoriale nell’attesa della Sua venuta. La verità è che tuo nonno non voleva morire perché non aveva realizzato appieno la sua vita, e ciò implicava non solo la sua, ma anche la mia. Ho iniziato questa lettera con il ricordo del momento in cui mi resi conto di quanto lui dipendesse da me, di quanto fosse inerme, lui, la cui ombra ha fagocitato tutti coloro che gli stavano vicino, me compreso, che per mano mia si stava facendo trasportare nel suo personale purgatorio senza avere la facoltà (oppure la volontà, non ne sono sicuro) di ribellarsi.

Figlio mio, ammetto in queste pagine destinate solo ai tuoi occhi che il giorno in cui imbarcai tuo nonno su quel traghetto fu il giorno più felice della mia esistenza, e mi sembra paradossale, riflettendoci adesso a qualche mese di distanza, che l’oggetto della mia più grande infelicità potesse costituire in futuro la mia più grande gioia. Un tale sentimento non lo provavo da tempo: potrei sbagliarmi, ma non mi sentivo così felice dal momento in cui ho pianificato la sua morte. Posa questi fogli, alzati e va’ nel nostro scantinato. Laddove parcheggiamo la nostra auto, tenendo la saracinesca alle tue spalle, dirigiti verso sinistra, all’angolo, e tasta le mattonelle del battiscopa finché non ne troverai una poco stabile. Da’ un leggero colpo e ti si riveleranno i piani di tuo padre. Troverai le droghe che pazientemente davo a tuo nonno. La pratica dell’avvelenamento quotidiano mi ha tenuto in vita e la felicità che mi dava è stata solo superata dal momento a cui ho fatto riferimento all’inizio. Tua madre, piena di latte d’umana tenerezza, mi ha scoperto e mi ha costretto a fermarmi. Ma la mia dedizione è bastata a farlo aggravare in modo tale da dovercene sbarazzare. Che le mie azioni abbiano potuto contribuire al decadimento fisico e mentale della sua persona è il pensiero che mi ha restituito il sonno. Trovarmi a dovermi prendere cura dell’uomo che più di tutti ho odiato, pulirgli la merda solo perché è mio padre ed è questo che ci si aspetta, amore incondizionato a qualsiasi costo. Io non ci riesco. Non riesco a perdonare la presunzione con cui ha voluto guidare la mia vita, la falsità con cui mi concedeva un inesistente libero arbitrio. Drogarlo mi restituiva la dignità che lui mi aveva rubato. Eppure, caro figlio mio, tu devi molto a tuo nonno (non per nulla porti il suo nome): senza di lui probabilmente non saresti mai nato. No, non è una di quelle frasi che si dicono tanto per dire: sai che odio le frasi di circostanza. Credo, anzi, so di non avere il coraggio di dirti a voce quello che sto per rivelarti. Non ho la dignità di farlo né ne avrei mai il coraggio. La carta aiuta a mettere un filtro tra me e te, sopperisce alla mia mancanza di coraggio, creando una distanza tale da permettermi di poterti dire perché sei nato. Sei nato unicamente per volere di tuo nonno.

Io e tua madre perseguivamo le nostre carriere in quel periodo e l’idea di metter su famiglia, o meglio, di avere figli (perché una famiglia lo eravamo già prima di te), non ci aveva sfiorato. Di comune accordo, senza discuterne, avevamo deciso di non averne, ma le manie organizzative di tua madre ci tradirono. Era solita sistemare gli anticoncezionali – abitudine che ha eliminato – dentro a un portapillole dotato di piccoli scompartimenti, uno per ogni giorno della settimana. Tuo nonno, in una di quelle domeniche in cui, senza invito, legittimato solamente dal suo esser padre, veniva a pranzare a casa nostra, aveva chiesto dell’utilità di quello strumento, mentre tua madre in cucina davanti a lui le stava organizzando. Quando ci accorgemmo che tu stavi prendendo il tuo posto al mondo e lo comunicammo alla famiglia, tuo nonno, con la sua consueta altezzosità, fece un commento, che tuttavia mi risultò più velenoso e maligno dei precedenti: faceva riferimento alla poca affidabilità del sistema impiegato da tua madre nell’organizzazione delle sue pillole. Una volta a casa, mi resi anche conto che le ultime domeniche non era mai mancato a casa nostra. Il dubbio mi fece salire in macchina e guidare diverse ore per raggiungere un laboratorio forense. Non l’ho mai detto a tua madre, a lei, che non ebbe il coraggio di ucciderti. Le nostre carriere andarono a farsi benedire, bambino mio, per colpa tua le abbiamo dovute abbandonare e siamo finiti a lavorare per l’azienda di famiglia, come voleva tuo nonno fin dal principio; inoltre, è la soluzione più rapida, facile e scontata che ci sia quando si sta per avere un bambino: ripararsi nella famiglia, il porto sicuro. La tua venuta è coincisa con la perdita della mia sanità mentale e con la comparsa della mia perenne infelicità: figlio mio, mi dirai che non hai scelto tu di venire al mondo, che è stato tuo nonno a scegliere per te. Hai ragione, ma perdonami, ti odio nello stesso identico modo in cui odio mio padre perché rappresenti il prolungamento vivente del suo volere. Consciamente so che non sei tu l’artefice della mia rovina, ma tuo nonno. Dicono che quando diventi genitore ci sia questo famigerato “amore incondizionato”, espressione rivoltante che ho già usato in questa lettera. Quante volte ho sentito la frase: “non lo capirai finché non sarai genitore”. Ebbene, in parte è vero: il peso dei figli ti fa prendere decisioni che mai avresti preso prima. È vero che ti voglio bene con tutto me stesso e morirei per te, ma ti odio, perché hai rovinato la vita che c’era prima di te e che andava altrettanto bene, anche senza di te. Il bene che ti voglio non mi permette di poterti dire queste cose a voce, non potrei più guardarti negli occhi: non l’ho mai fatto, in tutti questi anni di vita. Mandarti fuori a studiare è stato sicuramente un atto d’amore. Volevamo darti e assicurarti il meglio, questo era il motivo apparente, che tu faticavi a capire; ma c’era un altro motivo altrettanto impellente che mi aveva spinto ad allontanarti da me, e ora lo sai.

Caro figlio mio, chiudo questa lettera con una richiesta. Mi dirai: come posso esaudire una tua richiesta dopo quello che mi hai detto, dopo tutto l’odio che mi hai riversato in un’unica soluzione, senza pietà? Eppure, sono sicuro che il compito che ti sto per assegnare sarà di tuo gradimento: ti chiedo di uccidermi. Avvelenami, mettimi un cuscino in faccia, iniettami una bolla d’aria con una siringa, qualsiasi cosa ti compiaccia e ti venga facile da svolgere. Voglio che tu mi uccida. Pochi giorni dopo averlo accompagnato, ho scoperto di aver ereditato la stessa malattia di tuo nonno. Anche da morto vivente, la sua mano continua a stringermi il collo, è riuscita ad averla vinta portandomi con sé, conducendomi al suo medesimo destino. Perché non voleva morire? Dopo aver trasformato la mia vita in quello che lui aveva desiderato, perché si ostinava a non allentare il giogo? Perché una cosa non è riuscito a ottenerla: non gli ho mai voluto bene, non è mai riuscito a spezzarmi completamente, a entrare dentro di me e convincermi che il cambiamento era la cosa migliore che potesse succedermi. E adesso spera che la sua condizione mi induca pietà, che gli dia l’amore che non ha mai avuto: non lo avrà, e io non voglio ridurmi a un fantoccio come lui, non voglio regredire allo stadio infantile, un pupo di carne privo di senno: non voglio esserci solo con il corpo, non voglio indurre in te, figlio mio, alcuna pietà. Non so come reagirà tua madre, non ho ancora avuto il coraggio di dirglielo, ma di una cosa sono certo: non voglio essere il peso dei suoi ultimi anni, non voglio essere l’eclissi che oscura il sole della tua vita. Per questo, figlio mio, senza che tu dica nulla a nessuno, ti chiedo di farmi fuori. Ho tenuto le prove del farmaco che ho iniettato a tuo nonno come prova per te, affinché tu mi credessi. Prima che mi ricoverino, metti in atto il piano che tu avrai preparato per me e fa’ in modo che venga preso per un incidente. Se così non fosse, se tu dovessi essere scoperto e colpevolizzato della mia morte – imputazione vera, in realtà, se avrai portato a termine il tuo piano – mostra questa lettera in cui esprimo il diritto totalmente umano di non voler più vivere per mancanza di autosufficienza e in cui autorizzo mio figlio a togliermi la vita.

Tuo padre

Antenati a Costantinopoli: come il Risorgimento italiano è sbarcato in Turchia

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di Giuseppe Acconcia

Luis Miguel Selvelli ne “Antenati a Costantinopoli. Esuli italiani negli anni del riformismo ottomano 1828-1878” (Il Poligrafo, pp. 239, 2022, 28 euro) ripercorre cinquant’anni di storia ottomana attraverso le biografie di dodici esuli italiani. Antenati a Costantinopoli ricostruisce le reti di relazioni, spesso dimenticate, tra Risorgimento italiano e riformismo ottomano, permettendoci di fare paralleli continui con la recente attualità politica in Turchia e in Europa. Negli anni del Risorgimento, dalla penisola italiana furono in molti a volgere lo sguardo verso Oriente, verso una Costantinopoli in fermento nella quale era stato avviato uno straordinario processo di rinnovamento politico e culturale. Le ricerche di archivio, soprattutto nella Società operaia di mutuo soccorso a Istanbul, hanno portato l’autore a riscoprire le vicende che hanno coinvolto i suoi antenati, tra i quali spicca la figura del trisnonno, Italo Selvelli, compositore che nel 1909 scrisse l’ultimo inno nazionale dell’impero ottomano. “Sono partito da tre generazioni prima. Michele Selvelli era nato a Fano e aveva fatto il Risorgimento partecipando all’assedio di Ancona. Seguendo le sue orme ho scoperto che il Risorgimento è straordinario. La popolazione era insorta a Venezia, Padova, Milano, Roma e aveva creato esperienze rivoluzionarie, repubblicane, allora si scriveva una costituzione progressista in cui si parlava di divorzio, suffragio universale”, ci ha spiegato l’autore intervenendo al lancio del libro a Padova all’Arcella Bella. “Ma purtroppo la repressione non tardò ad arrivare, chi si trovava nel Tirreno scappò in Francia, da Ancona sono finiti a Corfù. La Gran Bretagna sosteneva i rivoluzionari italiani contro l’Austria e il Vaticano. Ho voluto guardare alla storia del mio avo esule piuttosto che del più noto compositore cercando di ricostruirne la vicenda. E così ho ricostruito il contesto storico e ho scelto le 12 biografie da inserire nel testo. Michele Selvelli diventò un produttore di birra e poi di gassosa nei suoi 45 anni a Istanbul”, ha aggiunto Miguel.

Ma tutto cambiò nel 1878. “Dopo 50 anni di espansione delle libertà, il principe Abdulhamid II iniziò a tirare il freno a mano, chiuse la massoneria, iniziavano trent’anni di opacità, arrivarono i giovani turchi. Si cercava, per orgoglio nazionale, una rivoluzione politica orientata sui valori militaristici. Con la forte sconfitta in seguito all’ingresso in guerra con la Germania, l’impero ottomano fu costretto ad accettare condizioni davvero umilianti che aprirono la strada al revanchismo di Mustafa Kemal”, ha continuato l’autore.
Ma cosa è accaduto agli italiani di Istanbul dopo gli anni della prosperità? “Per gli italiani in Turchia il grande cambiamento è iniziato nel 1911-12, con la guerra in Libia. L’impero ottomano si era mostrato ben disposto verso gli italiani ma con il bombardamento del porto di Beirut, l’occupazione di Rodi nel 1912, le cose cambiarono: gli italiani vennero espulsi e solo in pochi restarono in Turchia. Oggi della vecchia presenza levantina è rimasto molto poco, centinaia di famiglie. Quello che ha tenuto unita la comunità è stato il cattolicesimo, ma con i numeri sempre più esigui tanti italiani hanno cominciato a sposarsi con i turchi”, ha proseguito Miguel.
Come è iniziato quest’interesse così appassionato per la Turchia? “Ho iniziato a frequentare Istanbul nel 2002 e mi sono trasferito in Turchia nel 2007. Ero attratto dal fatto che si trovasse lì la tomba del mio bisnonno. Nessuno della famiglia sapeva dove fosse né sapevo come chiedere dove fosse il cimitero cattolico perché ancora non parlavo il turco. Allora ho deciso di imparare il turco, come fonte di sostentamento facevo il traduttore. Sono stato circondato da amici fino al 2018 quando abbiamo lasciato il paese. La prima volta la città mi è sembrata enorme e difficile da viverci. E così nell’estate del 2002 sono subito scappato via. Il presidente, Recep Tayyip Erdogan, ha vinto le elezioni ed è arrivato al potere nel 2003. Il volto del paese è cambiato, la città si è trasformata. Il 2007 è stato l’anno in cui arte, cultura, fiorivano e Istanbul era la meta preferita di artisti e musicisti, l’idea di entrare nell’Unione europea era solida, il paese avanzava nel processo di liberalizzazione”, ha concluso l’autore.

Su “Memory Box” di Joana Hadjithomas e Khalil Joreige

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di Roberto Todisco

Forse lo spunto da cui prende vita la narrazione di Memory Box di Joana Hadjithomas e Khalil Joreige non è dei più originali, sebbene molto intrigante. Il giorno della vigilia di Natale, a Montreal, a casa di una famiglia composta di sole donne (nonna, madre e figlia) arriva una misteriosa scatola. Il mittente mette in allarme Téta, la nonna, che aveva appena finito di sfaccendare in cucina. Il pacco, infatti, arriva da Beirut, la città da cui Téta e sua figlia sono fuggite durante la guerra civile libanese degli anni Ottanta. A sconvolgere i rapporti fra le tre donne e a mettere in moto il film c’è la scoperta dell’incredibile contenuto della scatola: fotografie, diari e cassette realizzate da Maia, la madre, fra il 1982 e il 1983, per raccontare la propria vita da adolescente, e la sua città che stava sprofondando nella guerra, a un’amica che aveva lasciato Beirut. Alex, la figlia, che ha più o meno l’età che aveva la madre quando ha scritto quei diari, scopre una donna che stenta a riconoscere, appassionata, libera, innamorata, ed entra in contatto con la storia dolorosa della sua famiglia.

Fin qui, come detto, una storia intrigante, ma non innovativa. Il grande fascino del film sta soprattutto nella maniera in cui Hadjithomas e Joreige conducono questa indagine visiva nella memoria, una memoria che, come di consueto nel lavoro dei due artisti libanesi, incrocia esperienza individuale e storia collettiva. Grazie a un equilibrato utilizzo di tecniche non convenzionali per il cinema e a vere e proprie incursioni nel campo della video arte, i registi fanno vivere allo spettatore la strabiliante esperienza di Alex: entrare nel passato di sua madre. Fra fotografie che scorrono davanti ai nostri occhi in una sorta di found footage, voce narrante che viene fuori dalle vecchie cassette, quaderni che si aprono come libri pop-up e fotografie che si animano e diventano a loro volta film, siamo completamente avvolti dalla memoria. Un modo di fare cinema che a tratti ricorda i film di montaggio intimi di Alina Marazzi o il glaner visivo di Agnès Varda.

Anche se Hadjithomas e Joreige sono bravissimi a non perdere mai di vista la compattezza di un film di finzione “tradizionale” e a orchestrare una storia che tiene col fiato sospeso, diverte e commuove, è chiaro che con Memory Box proseguono la loro ricerca (amano definirsi proprio “ricercatori”, piuttosto che artisti o registi) sul rapporto fra memoria e fotografia, che da oltre venti anni conducono spaziando fra video, performance, installazioni, scultura e cinema. Maia, emblematicamente, sogna di fare la fotografa. “Voglio fotografare tutto – dice in una delle cassette – Ho paura che la città si sgretoli e svanisca davanti ai miei occhi”. Ma può davvero l’immagine fermare questo disfacimento? La memoria può salvare dall’oblio e dare un senso al dolore? A queste domande il film, e tutta l’opera di Hadjithomas e Joreige, risponde in maniera problematica. Forse la risposta più profonda sta in un rullino non sviluppato che Maia ritrova nella sua vecchia macchina fotografica, non a caso è collegato al nocciolo più doloroso della sua storia familiare (che non svelerò). I due artisti in passato hanno lavorato proprio sul collezionare rullini non sviluppati, di cui descrivevano a parole il contenuto delle immagini in essi contenute. Fa parte, questo modo di fare arte, di quella che loro definiscono “strategia delle immagini latenti”: rimuovere le immagini dal flusso di visione per restituire loro potere, il potere di conservare la traccia di quello che riproducono. D’altronde non è questo l’effetto che, nel film, produce la scatola arrivata all’improvviso? Le immagini che Alex scopre un poco alla volta erano rimaste latenti per oltre venti anni e ora ritornano, con tutto il loro potere.

Come dicevo memoria individuale e memoria collettiva si fondono, e questo è quanto mai vero quando c’è di mezzo una guerra. Il dolore di una famiglia è il dolore di un intero popolo. “È incredibile – dice Maia tornata a Beirut – hanno ricostruito tutto”. Si può far finta che una guerra non sia mai avvenuta? Dobbiamo rassegnarci alla tirannia del presente? La risposta dei due artisti libanesi è nell’esercizio della memoria e, appunto, nelle immagini latenti. «Quella della latenza è una posizione politica – spiega Khalil Joreige in un’intervista rilasciata in occasione della loro personale al Guggenheim di New York – significa “io esisto, anche se tu non mi vedi”».

Note a margine della ferita

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di Lorenzo Orazi

 

Lucio Fontana, Concetto spaziale. Attese

 

I

Detesto avvicinarmi all’arte per un senso del dovere che intende costringermi alla conoscenza. Non voglio sapere tutto e ad ogni costo; ogni volta che il mio approccio all’opera è tale, so già per certo che ne resterò deluso. Eppure, non posso più farne a meno. Mi circondano gli spettri della sapienza, figure con cui stupidamente instauro competizioni; mi dico che non posso fermarmi se voglio ottenere anch’io un posto nel mondo.
Costante è la consapevolezza che non si tratti d’altro che di menzogna: io non voglio davvero raggiungere questo scopo, non ho questa missione, non ho nessuna missione. Voglio essere oggi e non proiettato avanti nel tempo. Meno solitudine, semplice umanità sulla via, sedere ad un bar e bere caffè con qualcuno; meravigliarsi quando dei panni stesi si gonfiano di vento, o per una luce crepuscolare caduta sulla facciata di un palazzo. Devo riavvicinarmi al reale, uscire dall’esilio della mia stanza e delle mie prigioni mentali; devo allontanarmi dal dominio dell’inettitudine e della sfiducia in me stesso, dall’ossessione di non essere mai abbastanza.
Smetterò di vivere le vite degli altri e avrà inizio la mia, più spontanea e sicura. Non è più tempo di restare lontano dalle cose. Ho bisogno di sentire che quanto mi circonda è davvero qui, percepire una potenza poetica che esonda. Oggetti e persone hanno perso ogni relazione con me. Come un fantasma passo e non lascio traccia; lo stesso vale per i giorni: passano e non lasciano traccia. Temo di impazzire: estrema necessità che qualcosa accada. Come riprendere forza, riuscire a lavorare intensamente e con piacere? C’è una poesia e un disegno: voglio frequentarli, essere con loro. Da tempo mi sforzo di interrompere quotidianità e abitudini, ma tutto è determinato a mantenere la distanza; l’incapacità ad avvicinarmi sembra una fatalità inevitabile.
La disciplina, in questo buco nero quotidiano, in questo vuoto di cui cerco di essere struttura, pare non porti altro che false aspettative, senso di inadeguatezza, ansia. Sono scadente materia mentale che cammina per le strade. Un oblio del mondo, un sapere sgretolatosi nella lontananza dal suo oggetto. In giorni insipidi, traggo il piacere più grande avvicinandomi a un corpo qualunque. Prestandogli attenzione tento di toccare qualcosa di vivo, mi sforzo di scorgere gesti ingenui, naturali, immediati. Più qualcosa è banale e ordinario, più esso mi attrae; la megalomania dell’arte, la mistica, mi hanno donato tutto per poi privarmene. Avevo delle idee: sono appassite, e con loro le sostanze che le riguardavano. Ogni cosa s’è prosciugata di forza: non vedo grazia né segni, un passo di danza, il cenno di un volto amico. Evaporati, erano lì poco fa. Uscirò dall’anestesia, riprenderò a corteggiare il nucleo che arde.

 

II

Al risveglio siamo privi di forze, ci sentiamo profondamente intorpiditi, stanchi, come se qualcuno nella la notte si fosse divertito a tormentarci. Compiere un passo nella direzione che ci eravamo prefissati, aggiungere un solo mattone al ponte progettato, appare un compito inattuabile. Cerchiamo allora di non insistere troppo, di non esasperarci. Ci concediamo a qualcosa che riteniamo piacevole: la lettura di un libro, la visione di un film, una passeggiata lungo il fiume. Alle volte ci aiuta: il piccolo godimento che ne deriva ci accompagna dolcemente alle soglie del pomeriggio, quando, per qualche ora, scemando lentamente la cappa depressiva, sembrano riemergere appena delle energie. Altre volte il piacere tarda a venire, o non si presenta affatto. E, come un nutrimento necessario che venga a mancare, ci lascia esanimi, sfiniti dal senso di colpa, frusti; in preda al dolore a cui aggiungiamo dolore, in preda all’insensatezza a cui aggiungiamo insensatezza.
Poi, l’effimero delinearsi di un sentiero ci provoca una lieve ebrezza. Avere un obiettivo davanti a sé, dirsi che ogni piccola, minima, apparentemente nulla azione varrà ad avvicinarsi ad esso; è uno sprone che avevamo dimenticato di poter provare. Ad esempio: l’idea dell’insegnamento; come per una brezza sentiamo dileguarsi l’aria stantia di una quotidianità inane. Ci vediamo concludere gli studi universitari, magari presi da una tesi di laurea appassionante, e non redatta alla sola spinta della voce che incalza: “è tardi, è tardi, è tardi”. Muoveremo verso la città, tenteremo di stabilire una rete di rapporti, relazioni che diano in qualche modo nuova vita a una ricerca da sempre claudicante, meticcia, insubordinata. Una linfa sconosciuta pare rianimare le ricerche, la cultura lasciata ad ammuffire negli scantinati della mente; eccoci offrire l’amore per il sapere – che da qualche parte, in noi, oltre la vanità e le false glorie, dovrà pur sopravvivere – a ragazzi e ragazze, uomini e donne fertili come campi appena arati ebagnati da un inatteso temporale.
Un progetto è anche questo: forzare l’immaginazione verso un raro momento di piacere. Si tenta allora di ristabilire una disciplina: torniamo a dormire presto la sera, rifiutiamo il bicchiere di vino che avrebbe portato ad altre sigarette, ad altri bicchieri. Ci si allontana dagli amici quando la festa è ancora viva, gli argomenti allettanti alimentano le conversazioni, cenni di affetto scivolano dagli sguardi di ciascuno. Lo si fa, dopotutto, con una certa leggerezza, senza dramma. È un piccolo sacrificio offerto sull’altare della nostra idea, che è, abbiamo detto, una forma di amore. Ma ecco, col sorgere del nuovo giorno, siamo ancora davanti alla disfatta, all’umiliazione di un’altra caduta. A nulla, dunque, è valso il sacrificio? Così caduco era il progetto che, per qualche istante, ci ha fatto scorgere il germe di una vita possibile?
Ci diciamo che a nulla vale l’affetto di chi ci è vicino; a nulla l’ennesimo esame superato con lode e decorato dei complimenti del docente; a nulla la pubblicazione sulla rivista da cui attendevamo da mesi una risposta; a nulla l’approvazione, l’incoraggiamento di intelligenze che si credevano inavvicinabili. Sappiamo soltanto che lo sconforto, ad ogni risveglio, si rinnova; che la parabola del sole, nonostante il neonato autunno, ci sembra allungarsi ogni giorno di più, e che il rifugio annichilente della notte tardi troppo a venire.
Eppure, nella tangibilità del dolore, c’è sempre un diabolico compiacimento, una volontà di affondare in esso, di concedersi senza più resistenze. Abitare un silenzio di corruzione, recidere il legame da cui ci viene l’effimero lampo della bellezza – ché è nel marciume che ci appare tutto lo scandalo della bellezza-, diventano le prospettive più invitanti. Una fatalità che attendeva solamente il nostro assenso per avverarsi. Scissione, separazione, distruzione: il diabolico non è altro che questo. Con Natalia Ginzburg, allora, vorremmo dire: “Non ci è dato scegliere se essere felici o infelici. Ma bisogna scegliere di non essere diabolicamente infelici”.

 

III

Sono le 10:30 del mattino. Ho annotato i sogni della notte e alcune riflessioni su di essi. Ho passeggiato per un’ora, fatto colazione e fumato una sigaretta. Gli occhi si fanno pesanti e gonfi, sopra le spalle sta accumulata una tensione nervosa, la vitalità mi abbandona. Desidero solo tornare a dormire. Un’intrusione inaspettata nella stasi del quotidiano e ritrovo la prostrazione ad attendermi.
Vedo quanto sono fragili le strutture edificate per arginare l’inatteso; più tentiamo di ordinarlo, di elaborare un sistema razionale e stabile, più esso emerge con il suo impeto perturbante. Non aspettavo altro dall’offrirsi di una mutazione. Incappato nella bonaccia, ero impossibilitato a muovermi per una strana, quasi sconosciuta, quiete dei sensi: per un’assenza di irrazionale. Triste richiamo della malattia. Il limite che si ripresenta e sbeffeggia chi tentava di dimenticarlo. È il ricordo dell’insufficienza, della sostanziale inutilità di ogni tentativo di ammaestrare una forza che tracima. Di nuovo Dioniso fa il suo ingresso in città: crolla il palazzo, il re impazzisce, le donne diventate menadi vanno ad abitare la montagna, danzano. Ero in sua attesa, ma mi sono sorpreso mentre lo rifuggivo.
La cieca ascesa al sole con ali di cera, ennesimo preludio al precipizio, alla vertigine. Se esiste peccato, altro non è da questa debolezza e fragilità, ovvero essere incapaci di riconoscerla in quanto tale. Il “nulla di troppo” delfico risuona nello spiccarsi del frutto dall’albero della conoscenza. Abitare il limite, riconoscere l’ate al suo emergere, la voce del demone quando si pronuncia. E se il demone non si lascia incatenare dai nostri mezzucci di creature, non resterà che concedersi ad esso quando ci reclama per formulare possibilità imperscrutabili.

Rappresentiamo simili eventi sulla scena affinché ci paiano, per qualche breve istante, intellegibili. L’oblio non ci faccia impreparati al cospetto del divino che soverchia. Sul forcipe spuntato cresce la ruggine, alla matita la mina si è spezzata, secco è l’inchiostro; in cerca del vero, nell’ombra, è zoppo ogni strumento. Caos boschivo: tra la natura che germina si espande fiorisce muta, tra il battito d’ali delle falene e il ronzio dei calabroni: siamo smarriti. Ma è da una città in rovina che eravamo partiti, dove le edere crescevano nelle crepe e spaccavano le mura. Laggiù non è più dato tornare.

 

IV

In frenetica ricerca, sulle tracce di una voce che risponda affermativamente alla domanda: “sono degno del tuo amore?”. Elevo l’oggetto sul plinto, ne faccio un idolo che orno e adoro, gli danzo attorno, offro incenso e doni: finalmente il responso a lungo anelato. Mio malgrado, do cominciamento alla prassi distruttiva; subito, principia la disperazione del rimpianto. Non appena l’idolo sembra aprire gli occhi e tendermi la mano, impugno un martello e lo riduco in rovina, in cocci mostruosi senza forma. Ora lo imploro affinché si risollevi dall’ammasso di detriti che è divenuto, canto inni perché presti ancora orecchio alla preghiera. Ma l’idolo tace in una nebbia di polvere: svanita la bellezza, dileguato il profumo. Come è possibile tanto silenzio, l’incolmabile distanza che si è frapposta tra noi? Le interrogazioni mi assillano e provo a ricordare che aspetto avesse nel donarmi amore. Costruisco un tabernacolo atto a conservarne i resti. I vaghi tratti del volto sono minacciati da una pioggia acida, la lamina d’oro cede, le gocce iniziano a penetrare. Ho dimenticato il tocco della mano che, raggiungendomi il viso, mi carezzava; il tepore della veste che mi cingeva. Non resta che manomettere, attraverso le menzogne della memoria, un’immagine che non smette di scomparire. Avvicino i granelli di polvere tra loro, ricompongo qualche frammento e vedo delinearsi soltanto ghigni, smorfie di disprezzo, stridule risa.

V

Quando parliamo di Dio, non stiamo forse indicando un magnete che attiri a sé schiere di uomini e donne ridotte in polvere dalla vita, dalla malattia, dalla morte? L’uomo è mai impegnato in qualcosa che sia altro dal ritornare alla condizione paradisiaca originaria?
Siamo eternamente lanciati in una corsa a ritroso: nella carne aneliamo ad un ritorno nell’utero, nello spirito aneliamo al ritorno nel giardino edenico. Ogni progetto non è che una forma più o meno degradata di questa mira, di una dimenticanza più o meno radicale. Narrazioni si stratificano su narrazioni, ma il nucleo primigenio resta il medesimo. Ecco la necessità di una prassi distruttiva: dobbiamo sgombrare la via da ogni ostacolo che ci occluda lo sguardo. Ma su quante vite saremo costretti a esercitare violenza, quante lacrime verseranno coloro che ci hanno amato, quanti dovranno essere sacrificati sull’altare del dio sanguinario che inseguiamo. La crudeltà del disegno divino è definitiva e scandalosa. Chi abbia avuto in destino l’occasione di scorgere, anche per un solo istante, il rovescio del tappeto, ne rimarrà pietrificato. Ciascun dio è Medusa: scendere con immediatezza nell’abisso gorgonico implica l’estinzione subitanea: fissarlo significa essere immortalati in una maschera di dolore, in sassi densi di strazio. Bisogna domandarsi quale forma di mediazione ci sia concessa per accostarci all’infinito. L’arte è forse lo specchio che ci viene consegnato, una via indiretta per avvicinare l’essere immondo. L’arte educa all’estasi: rende respirabile l’aria glaciale e rarefatta delle altezze, quella ardente e sulfurea del baratro. Sapremo anche noi, come Perseo, divenire leggeri a sufficienza per sollevarci in volo? Da dove ci verrà il dono di un copricapo che renda invisibili?

 

VI

Non si viene cacciati dal Paradiso senza rimpiangerlo in eterno. In ciascun amore i progenitori sopravvivono, rinascono nella ricchezza edenica di un giardino odoroso, colgono dalle piante i sapidi frutti di cui cibarsi, si immergono in limpidi fiumi. Ogni mattina è nuova e ovunque germina la meraviglia. Morte non significa altro che conoscere la fine di uno stato simile.
Chi ha vissuto nella pienezza, una volta estromesso percepisce a fondo il vuoto dell’esistenza. Si chiede come possa chiamare con lo stesso nome ciò che era prima e ciò che è ora. Dove sbocciavano varietà di colori e fragranze, egli non scorge che grigiore e putrefazione. I ritmi organici, il battito del cuore, il respiro, si reiterano come un paradosso; il cacciato si sorprende a dire: “come? Vivo ancora?”. Imbattendosi in una salma privata del rito funebre, senza sorpresa vi riconosce fattezze familiari. Lo spirito inquieto va in cerca di una fossa adatta alle proprie spoglie. Vaga, diafano e dimentico di se stesso, narrando le sbiadite immagini di un luogo primigenio.

VII

Il lavoro psicologico obbliga al rimestio dell’infezione, al maneggiare di nuovo la parte dolente. I fantasmi si fanno finalmente presenza. Il piede che prima inciampava appena, sorpreso da una figura inattesa all’angolo della strada, prende a zoppicare per giorni, settimane intere. Si credeva di essere in cammino sulla via della guarigione, e ciò rende l’acuirsi della sofferenza inaccettabile. Eppure, una volta che si è scelto di frequentare la ferita, di interrogarne la natura, non si potrà che constatarne il risveglio del bruciore. Poi d’improvviso inizierà a scemare. Il trauma somiglia allora ad un film visto troppe volte e di cui abbiamo appreso battute e inquadrature a memoria. Prende ad annoiarci, crediamo di averne svelato il mistero. Ma tale sensazione si rivela presto menzognera: il trauma non smette di chiamarci per nome, continua ad offrirci una parte di eccedenza; la ferita non può mai essere sondata fino in fondo, ha in sé un elemento costitutivo di ignoto. È sufficiente un mutamento minimo, un’inclinazione del capo, una luce autunnale caduta nel folto di foglie ingiallite, affinché un nuovo significato si presenti. Forse non esiste vera ferita all’infuori di quella capace di custodire una parte di indicibile. Cionondimeno, la ferita continua a farci dono di risposte di cui neppure sospettavamo. E, anche quando ci sembrerà abbia pronunciato l’ultima parola, non dovremo comunque smettere di tendere l’orecchio. Essere sordi ad essa equivale a inaridire, implica l’ottusa presunzione di chi crede di aver indagato a sufficienza. Il tronco si secca, perde elasticità, quindi si spezza. Custodire la ferita non significa venerare il dolore, né porsi nei confronti dell’esistenza con atteggiamento masochista: piuttosto, si tratterà di accogliere l’enigma che non cessa di abitarci e che sfugge ai nostri intenti di sistematizzazione.

L’intellettuale marxista Franco Fortini

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di Velio Abati

In nessun altro tempo, come nell’attuale di drammatica accelerazione, è più difficile prendere pubblicamente parola, se lo fai nel registro del letterato. Infatti di fronte all’odierno scarto storico che, come accade negli eventi tellurici, è di colpo fatto esplodere dalla tensione accumulatasi sotto l’euforia della globalizzazione seguita all’implosione sovietica, tutto modificando per un’intera epoca dell’umanità, misuri davvero, sulla tua carne, la pluralità e l’asincronia, anzi l’attrito insolubile dei tempi che attraversano l’individuo come la collettività. In che modo, ti chiedi, parlare – per dirlo alla Fortini – dell’aggressione russa all’Ucraina, dello scontro con la Nato della seconda potenza militare mondiale – un presente solfureo che brucia ogni altra dimensione – mentre scrivi di letteratura? Sai solo che il tuo dovere è cercare la verità e che essa è sempre dalla parte di chi ne è espropriato.

In questa occasione mi aiuta il volumetto di Giuseppe Muraca (L’integrità dell’intellettuale. Scritti su Franco Fortini, Ombre corte, Verona 2022, p.122, euro 12,00). Consta, ci spiega La breve premessa, di articoli e note scritti nell’ultimo trentennio, i più vecchi dei quali sono stati “rivisti e in parte modificati”. Il tutto è fatto precedere da una lettera di Muraca a Fortini datata 15 gennaio 1991 con la risposta del 18 febbraio. Già i titoli dei cinque capitoli (Dieci inverni; Fortini e Pasolini; Attilio Mangano, Franco Fortini e la nuova sinistra; Note di lettura) e le coordinate temporali portano nelle novità editoriali sull’intellettuale marxista un piccolo spaesamento. La fortuna di Fortini, dopo la sua scomparsa avvenuta il 28 novembre del 1994, ha conosciuto da tempo, prima lentamente, poi in modo più accentuato una discreta intensità e vastità di studi, grazie prima di tutto alle carte raccolte e all’attività del Centro Studi Franco Fortini dell’Università di Siena, dov’egli è stato docente. Ulteriore spinta è stata impressa dal centenario della sua nascita, come oramai avviene per le ricorrenze memoriali, con le quali l’ipertrofia dell’odierna comunicazione sociale divorata dal presente trova utili incentivi a riprodursi.

Tali lavori critici hanno prima di tutto restituito al poeta Fortini il posto che in vita da più parti gli è stato negato, fatto sopportato in silenziosa sofferenza: “se uno mi contesta un articolo, un saggio, allora sono prontissimo a battermi ma non so dire una parola in difesa di una mia poesia e questo è un modo ingenuo, una trasposizione, cioè scateni l’aggressività in quello che in un certo seno tu consideri per te meno prezioso e l’altro non riesci a difenderlo”, dice in un’intervista del 1981 con Mirella Serri, intitolata, niente meno, Dialogo col profeta di classe. Solo nella forma mediata dal cerimoniale dell’epigramma è riuscito a farlo: “Uno solo forse vale dei miei versi, dici. Ma / bada. Può farti male. Prendine la metà”.

Eppure, le parole pacate di Muraca generano attrito; irrompono da un altro tempo. In effetti la critica intervenuta ci ha via via consegnato approfondimenti filologici, meritori studi accademici che mentre valorizzavano e precisavano la figura di poeta e di letterato fino alla posizione di classico, sfuocavano la funzione intellettuale e segnatamente militante, politica di Fortini. Ecco perché le riflessioni e le cronache restituite con garbo da Muraca rischiano d’essere ignorate o, peggio, letteralmente fraintese. Il critico, che proviene da una stagione e una militanza politico-intellettuale formatasi nella temperie degli anni Sessanta-Settanta, non se ne è pentito e riporta il suo sguardo sulla battaglia intellettuale di Fortini.

Certo, con Muraca sappiamo che anche la critica più penetrante prende vita dal suo contesto e dunque il salto d’epoca intervenuto per il lettore di oggi può ingannarlo: l’autore dell’Integrità dell’intellettuale si astiene dall’indicare quel salto, lasciando al suo lettore la responsabilità di mettere in conto la scomparsa non delle persone evocate dalla ricostruzione – i Vittorini, i Togliatti, i Nenni, i Bo, ecc – ma della ben più determinante realtà sociale, politica, sindacale, culturale di cui essi erano espressione. Tuttavia, se ci carichiamo della fatica di attraversare la superficie della cronaca e dei protagonisti del tempo oramai trascorso, per andare alla sostanza troviamo tutta la vitalità e la forza dei temi, delle scelte, dei compiti con cui l’intellettuale Fortini si è misurato.

L’attività intellettuale di Fortini che Muraca mette a fuoco è quella tra il dopoguerra e l’esplosione dei movimenti del Sessantotto, lasciando alle finali Note di lettura brevi annotazioni sulla saggistica successiva. La prima importante acquisizione consegnata al lettore è anche la più implicita: l’attenzione, persino assillante, di Fortini al mutare dei tempi brevi della storia. Segno questo di una fedeltà a un metodo: “i presupposti da cui muoviamo non sono arbitrari”, direbbe Marx. Da qui la particolare diffrattività di fronte a cui si trova il lettore di Fortini: il suo continuo ri-considerarsi in una ferma coerenza, tanto che nell’anno della sua morte dice: “un giorno incontro Adriano Sofri, che mi dice: ‘Non sei cambiato. Sei una pietra’”.

Nei quattro periodi scanditi da Muraca – la stagione del “Politecnico” di Vittorini, il decennio fino al 1956, la stagione delle riviste preparatorie del Sessantotto, il Sessantotto – una rimane l’ispirazione fortiniana: l’affermazione teorica e la ricerca pratica dell’unità tra letteratura, critica, produzione culturale, politica, in una prospettiva esplicitamente di classe. Questa aspirazione alla totalità, per quanto sempre inseguita a partire dal suo ‘spirito di scissione’, lo porta anche a sottolineare precocemente l’avvenuta interconnessione di tutte le società umane.

Così, al mutare delle dominanze e dei soggetti nelle differenti fasi storiche, mutano anche le difese e le critiche. Sul lato politico, prima e per un lungo tempo verso il Pci e il Psi, sul piano pratico, ha rifiutato “la mediazione politica, la direzione burocratica e verticistica dell’attività culturale per instaurare un rapporto diretto tra gli intellettuali e la classe, fra i produttori e i consumatori di cultura”, sulla scorta “del Gramsci dei consigli e del pensiero luxemburghiano e maoista”, perseguendo l’affermazione di un “socialismo basato sull’autogoverno delle masse e della democrazia diretta”; sul piano ideologico ha combattuto il loro “storicismo crocio-gramsciano”, ossia “un marxismo nazional-popolare e una visione della cultura ristretta e provinciale”. Mentre da ultimo ha difeso le ragioni della letteratura contro la pretesa del suo annullamento nella politica, avanzata dai movimenti del Sessantotto.

Sul lato letterario ha via via combattuto contro la linea “di ascendenza ermetica e idealista”, che coltivava una concezione “religiosa e pura della letteratura, l’autonomia dell’opera letteraria e artistica”; poi la pretesa opposta della neoavanguardia d’identificare la politica nella letteratura; infine contro la deriva osservata in Pasolini di estetizzazione della vita, che alla fine finisce per annullare la differenza tra arte e vita.

Come non vedervi – in questo tempo dell’immediatezza, della frantumazione narcisista, dell’urlo ossequiente – la necessità contraddittoria di un’organizzazione politica, la ricerca indispensabile di un orizzonte complessivo di senso, il rifiuto di delegare ad altri la ricerca del vero, che può avvenire solo come pratica comune di trasformazione a partire da chi e da quanto è espropriato, gettato da parte, in vista di riappropriazione del nostro futuro. Come non vedere che è tutto questo che ‘spiega’ la poesia di Fortini e che ci offre qualche cartello per attraversare l’orrore del presente?